UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 953 – 12 marzo 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
02 ABUSI Due diocesi commissionano all’Università di Münster uno studio sugli abusi spirituali
03 Studio accademico nella ex RDT: gli abusi clericali furono coperti da Chiesa e Stato
04 CENTRO INT. studi famiglia Newsletter CISF – n. 09, 8 marzo 2023
05 CHIESA La Chiesa vive una crisi epocale
07 Diocesi di Coira: sotto attacco il vescovo per il suo “codice” sugli abusi di potere
09 CHIESA IN ITALIA Cammino sinodale: attivati 377 cantieri
10 DALLA NAVATA 3° Domenica di Quaresima – Anno A
10 Dio non può dare nulla che sia meno di sé stesso
11 DONNE NELLA (per la ) CHIESA Otto marzo: mons. Savino (Cassano all’Jonio) “la Chiesa ha bisogno delle donne.
11 ECUMENISMO Cattolici e sciiti davanti al futuro. A due anni dalla visita di Papa Francesco in Iraq
12 FRANCESCO VESCOVO di ROMA I dieci anni di Francesco: “È l’unico leader globale”
14 Il gesuitaI dieci anni di Papa Francesco e il decadimento del latino nella Chiesa
16 Il papa va allo scontro con la curia sulle ricchezze della Chiesa
17 Tutti i nodi che Francesco non è riuscito a sciogliere
18 10 anni dopo quel “buona sera”: l’autorità della Chiesa e la tradizione che cammina
19 Corruzione, lo scandalo che mi fa soffrire. Pedofilia? S’è capito: non si può più coprirla
22 OMOFILIA L’omosessualità non è una patologia
26 RELIGIONE Dibattito sul post-teismo. In risposta a Vincenzo Pezzino
27 Oltre le religioni /5. Rivisitare la teologia: quali implicazioni?
29 RIFLESSIONI Sui migranti restiamo italiani brava gente, ma se perdiamo pietas tradiamo noi stessi
31 SACRAMENTI Il sacramento della riconciliazione non soddisfa i canoni dell’umanità del tempo
32 Penitenza: la sua teologia e le sue forme
34 SINODO Il cardinale Mario Grech all’Assemblea continentale sinodale dell’Asia a Bangkok
37 Benedizioni delle coppie omosessuali e celibato, lo “strappo” della Chiesa tedesca
37 STORIA DELLA CHIESA In quale testo Gesù è citato per la prima volta?
ABUSI
Germania: due diocesi commissionano all’Università di Münster uno studio sugli abusi spirituali
La cura pastorale e l’accompagnamento spirituale sono contesti che, fondandosi su una relazione asimmetrica, possono condurre ad abusi di potere e spirituali attraverso la manipolazione e la pressione tramite l’insegnamento biblico e teologico o le pratiche spirituali.
Per affrontare scientificamente questa forma di abuso di potere finora poco studiata in contesti spirituali, la diocesi di Osnabrück, in Germania, ha commissionato un ampio progetto di ricerca in collaborazione con la diocesi di Münster, la Conferenza episcopale tedesca e l’ordine delle suore francescane di Thuin: per un periodo di tre anni, un team scientifico dell’Università di Münster guidato dalla prof. Judith Könemann condurrà uno studio il cui obiettivo è determinare i fattori fondamentali che promuovono l’abuso spirituale sulla base delle esperienze delle persone colpite, condurre interviste con testimoni contemporanei e analisi di file, e sviluppare prospettive per la prevenzione. Particolare attenzione è rivolta alle indagini sugli abusi spirituali nelle comunità spirituali nelle diocesi di Osnabrück e Münster.
mons. Franz-Josef Hermann Bode α1951)vescovo della diocesi di Osnabrück
mons.Felix Genn. (α1950) vescovo della diocesi di Münster
Il lavoro prenderà le mosse dai resoconti di esperienze già disponibili, ad esempio da quelle del processo diocesano di protezione contro la violenza sessuale e l’abuso spirituale nella diocesi di Osnabrück, ma il gruppo di ricerca invita le possibili vittime a partecipare allo studio.
Nel progetto vengono prese in considerazione sia le prospettive teologiche che sociologiche. Afferma la responsabile del progetto Judith Könemann (α 1962)
«A differenza della violenza sessuale, solo di recente l’abuso spirituale ha ricevuto una certa attenzione. Si tratta però di un fenomeno non meno grave perché ha un effetto altrettanto violento su chi ne è colpito, anche se in modo diverso. Il contesto delle comunità spirituali sembra mostrare una certa affinità con l’abuso spirituale. Occorre esaminare quali fattori specifici consentano l’abuso spirituale e contribuiscano al suo verificarsi. A tal fine, nel progetto vengono presi in considerazione fattori storici contemporanei e pastorali, nonché fattori specifici del contesto».
Il vescovo di Osnabrück Franz-Josef Bode, promotore del progetto, sottolinea il valore speciale della collaborazione con gli altri partner della Chiesa: «Sono lieto che stiamo affrontando questo studio insieme. Sulla base delle esperienze fatte nell’affrontare la violenza sessuale negli ultimi anni, a volte dispersive e spesso incoerenti, abbiamo bisogno di standard comuni per affrontare sistematicamente l’abuso spirituale, che spero si possano trarre da questo studio, che dovrebbe porsi come base per ulteriori lavori che vanno oltre le diocesi coinvolte». Il vescovo Bode, che è stato anche presidente della sottocommissione per le donne della Conferenza episcopale tedesca, ha rimarcato che «Purtroppo, questo tipo di abuso spirituale si verifica anche al di fuori delle comunità e dei movimenti spirituali: l’80% delle donne che fanno una denuncia agli sportelli nazionali “Violenza contro le donne” sono (ex) suore».
Il vescovo Felix Genn di Münster, partner nell’iniziativa, osserva che «Il dialogo interiore tra una persona e Dio merita protezione e rispetto. Attraverso l’abuso spirituale, però, questo spazio interiore, che appartiene all’intimità umana, viene danneggiato. La persona viene manipolata, strumentalizzata e ferita. La Buona Novella che Dio ha per ogni essere umano gli è resa inaccessibile. Inoltre, è in questo modo che alcuni autori preparano l’abuso sessuale. Pertanto, dobbiamo prevenire gli abusi spirituali nella chiesa e sanzionarli dove si verificano. È importante e prezioso che questo studio fornisca approfondimenti sulle strategie degli autori e sulle opzioni di prevenzione».
In ambito locale, la diocesi di Osnabrück ha anche già istituito un gruppo di lavoro sugli abusi spirituali, anch’esso composto principalmente da esperti esterni, e ha nominato persone di contatto indipendenti per le persone colpite, e sarà presto imitata da quella di Münster. Composto da persone di diverse professioni (teologia, psicologia, educazione, storia, diritto e diritto canonico), ha l’obiettivo di sviluppare le questioni concettuali e di indicare aspetti specifici della prevenzione, di intervenire con le persone colpite e gli autori, nonché di approfondire le questioni giuridiche connesse.
Ludovica Eugenio Adista 04 marzo 2023
Studio accademico nella ex RDT: gli abusi clericali furono coperti da Chiesa e Stato
La violenza sessuale contro bambini e giovani nella Chiesa cattolica nel Meclemburgo (regione della Germania nordorientale che faceva parte della Repubblica Democratica Tedesca, oggi uno dei 16 Stati federati tedeschi, con circa 39.000 cattolici, il 3,5% della popolazione cattolica totale) non è stata coperta solo dalla Chiesa ma anche dallo Stato: c’erano accordi non ufficiali tra le due parti per tenere nascosti i casi o per deportare i recidivi in Occidente; i religiosi accusati di abusi sono stati spinti dalla Stasi a collaborare. È quanto emerge da uno studio – il primo in una regione dell’ex RDT – presentato il 24 febbraio scorso sui casi di abusi nella Chiesa cattolica della regione (che dopo la riunificazione della Germania è confluita nella diocesi di Amburgo) negli anni dal 1946 al 1989 (Tagesspiegel 24/2). Lo studio, condotto dalla psichiatra dell’ospedale universitario di Ulm Manuela Dudeck(α1968) stato commissionato dall’arcivescovo di Amburgo Stefan Hess, (α1966) che ha affermato «Questo studio non è un punto di arrivo»; l’esigenza di uno studio specifico era emerso con il rapporto nazionale commissionato dalla Conferenza episcopale tedesca pubblicato nel 2018, che aveva evidenziato un numero particolarmente alto di abusi nella parte del Meclemburgo dell’arcidiocesi di Amburgo. Dudeck e il suo team hanno identificato circa 40 persone colpite e 19 accusate durante il periodo delle indagini, ma presumono che il numero di casi non denunciati sia elevato. Pare che un solo sospetto sia responsabile di 19 casi.
Gli autori dello studio hanno intervistato 13 delle persone colpite, 11 rappresentanti della Chiesa e 3 esperti non ecclesiastici, e hanno visionato circa 1.500 file provenienti da archivi ecclesiastici e statali, inclusi 12 file della Stasi. Lo studio, di circa 170 pagine, non menziona alcun nome per motivi di protezione dei dati; vi emerge che le vittime avevano in media dieci anni quando sono iniziati gli abusi, che si sono protratti per una media di cinque anni. Secondo Dudeck, questi fatti erano spesso noti sia nelle congregazioni che nella leadership della Chiesa. Secondo i ricercatori, era caratteristico della violenza sessuale da parte di religiosi nei primi decenni dopo il 1945 che questa fosse accompagnata da violenza fisica e psicologica. Percosse e stupri da parte di ecclesiastici erano spesso mascherati con termini religiosi o pedagogici. Nei primi decenni del dopoguerra, i bambini, che non di rado erano orfani di padre, uccisi o imprigionati o comunque colpiti dalla guerra, versavano in condizioni di povertà e abbandono; madri e zie cattoliche hanno spesso lasciato gran parte dell’educazione alla Chiesa, il che ha reso più facile ai sacerdoti guadagnare e abusare surrettiziamente della fiducia di bambini e giovani.
Ludovica Eugenio Adista 04 marzo 2023
www.adista.it/articolo/69622
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – n. 09, 8 marzo 2023
- 8 marzo: quando un papà scopre il peso psicologico (mental load) della gestione familiare. Il mental load, ovvero il carico psicologico che una donna porta quando si occupa di casa e figli oltre al proprio lavoro, è una dimensione che pochi uomini sperimentano davvero. L’emittente SBS Australia ha realizzato un’intervista video allo scrittore Con Stamocostas, che ha trascorso per la prima volta 6 settimane a casa ad accudire la figlia neonata, e ha compreso davvero quanto fossero impegnativi il carico di lavoro e la fatica psicologica della moglie (YouTube – 2 min 46 sec) https://youtu.be/cljITUAen_Q
Sul sito Cisf a questo link trovate la traduzione integrale delle sue riflessioni: buon 8 marzo all’insegna della condivisione del lavoro di cura!
- Pensioni e maternità: un piccolo grande segnale di attenzione. “Già una donna mette a rischio il suo presente lavorativo, quando accetta la sfida della maternità – e non è poco; ma sempre di più questa donna mette a rischio anche le sue prospettive di una vecchiaia serena, con livelli pensionistici almeno “ragionevoli” […] attribuire peso alla presenza di figli nella biografia di una donna non significa attribuire un privilegio ideologico, quanto piuttosto andare a restituire giustizia ed equità per chi è rimasto per troppi anni svantaggiato, per quelle donne che hanno scelto di diventare madri, rigenerando con la loro scelta il futuro dell’intero Paese”. L’articolo di Francesco Belletti su Famiglia Cristiana.
www.famigliacristiana.it/articolo/donne-e-futuro-previdenziale_8501.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_08_03_2023
- Appuntamenti a Treviso e Genova. Il senso del nostro lavoro di ricerca è incontrare le famiglie, ascoltare i loro bisogni, offrire piste di riflessione: il 17 marzo a Treviso (ore 18.30), presso il centro della famiglia www.facebook.com/CentroDellaFamiglia il direttore Cisf Francesco Belletti parlerà di “famiglia e digitale” con la dottoressa Veronica Gallo (psicologa e psicoterapeuta). Introduce i lavori e modera Mariano Diotto, docente di dinamiche della comunicazione Issr Giovanni Paolo I www.facebook.com/www.cisf.it
e il 27 marzo (ore 17.30) a Genova, in un incontro pubblico con l’avv. Anna Maria Panfili, presso la chiesa dei santi Cosma e Damiano (p.za san Cosimo) www.famigliacristiana.it/media/img/cisf/locandina27marzo.jpg
- “Ciò che per noi conta”: due ricerche su coppia e valori. Il Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, in collaborazione con l’Università degli Studi di Bergamo e l’Università Lumsa ha realizzato due diverse indagini sui valori di coppia. La prima è stata indirizzata a sviluppare uno strumento utile alla misurazione dei valori come qualità di coppia; il secondo studio ha indagato la relazione tra i valori di coppia e il coparenting, ovvero la capacità e disponibilità dei genitori di collaborare e di condividere la responsabilità dei figli
- Amministratore di sostegno, a che punto siamo? È stato pubblicato “Monitoraggio e ricognizione nazionale delle esperienze di amministratore di sostegno“, numero monografico della rivista «Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone» [scaricabile www.fondazionezancan.it/product/studi-zancan-5-6-2022
Da quando è stato inserito nel Codice Civile, l’istituto dell’amministrazione di sostegno, pur essendo stato applicato in modo disomogeneo nelle differenti Regioni, è passato da 12.583 amministratori di sostegno nel 2005 a 58.929 nel 2021 (0,26 per 1.000 residenti maggiorenni nel 2005 fino a 1,18 per 1.000 nel 2021).
- Dalle case editrici Speciale 8 Marzo – Festa della Donna
- Premio “Le mille e una donna“. Leggeredizioni in collaborazione con il consiglio regionale della Puglia ha indetto la 2a edizione del Premio Internazionale “Le Mille e Una Donna”, contest artistico-letterario dedicato all’universo femminile. Scadenza: 30 aprile 2023
- .Bissi, E. Cagnazzo, Volti di donne. Figure femminili nella Bibbia tra esegesi e psicologia, Ancora, Milano 2023, pp. 168
- AA.VV., Donne al futuro. Il Mulino, Bologna 2021, pp.280
- “Madri della fede”, il ciclo tematico di 8 volumi ideato da San Paolo per raccontare storie di donne che parlano ai nostri giorni e alla nostra sete di spiritualità. Distribuiti in queste settimane in allegato a Famiglia Cristiana, Credere e Maria Con Te,
- Save the date
- Evento (Torino) – 16 marzo 2023 (14.15-15.45). “Still Trapped In: Gang Disengagement Amidst Changing Gang Landscapes“, lezione di Megan Kang (Princeton University) presso il Collegio Carlo Alberto www.carloalberto.org/event/megan-kang-princeton-university
- Convegno (Francia) – 16 marzo 2023 (20.30). “Genre, recul du mariage et dénatalité, quel avenir pour la Famille?” Conférence de Pascale Morinière, presidente della AFC-Confederazione Nazionale delle Associazioni Familiari Cattoliche
- Seminario (Milano) – 20 marzo 2023 (inizio ore 14.30). “Prendersi cura delle relazioni sociali. L’educatore nei servizi alla persona. Riflessività e pratiche“, organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
- Webinar (USA) – 30 marzo 2023 (1.00 pm – 2.30 pm EDT). “The Battle for Your Brain”, lezione su luci e ombre dell’Intelligenza Artificiale a cura di The Hastings Center
www.thehastingscenter.org/hastings-center-event/the-battle-for-your-brain
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CHIESA
La Chiesa vive una crisi epocale
Il card. Walter Kasper ha compiuto 90 anni il 5 marzo scorso.
Anche se ufficialmente in pensione, egli rimane uno dei cardinali tedeschi più influenti in Vaticano. In questa intervista egli traccia un bilancio e offre uno sguardo sul futuro della Chiesa. L’intervista è stata curata dall’agenzia KNA il 5 marzo scorso.
Signor cardinale, quando ripensa ai 90 anni della sua vita, cosa l’emoziona particolarmente?
Soprattutto la gratitudine. Per il fatto che sono ancora relativamente in salute, che posso fare tutto da solo e non è una cosa scontata a questa età. E per tutto quello che mi è stato concesso di vivere in questi anni.
Di queste esperienze fa parte anche l’epoca del concilio Vaticano II 60 anni fa. Cosa ricorda?
È stato un tempo di partenza! È stata una sorpresa totale quando abbiamo saputo dal telegiornale che Giovanni XXIII aveva indetto un concilio ecumenico. A quel tempo frequentavo l’Università di Tubinga, dove ho conseguito il dottorato e successivamente l’abilitazione. Il Concilio suscitò un grande entusiasmo, e fu un grande momento anche per me. Esso ha cambiato tante cose. Chi afferma che la Chiesa non può essere riformata dovrebbe tener presente questo profondo cambiamento! Io l’ho vissuto. Allora uno era contento di essere cattolico. Le porte si erano aperte. All’improvviso, teologi cattolici e protestanti hanno potuto incontrarsi e discutere tra loro, cosa che prima non avveniva. Questo scambio l’abbiamo coltivato molto bene a Tubinga; una volta al mese ci incontravamo, io, Küng, Moltmann, Jüngel, prima a cena, e poi, dopo mangiato, bevevamo qualche bicchiere di vino e discutevamo appassionatamente fino a dopo mezzanotte. È stato un momento formidabile.
Tuttavia questo non le ha impedito, in seguito, di pronunciarsi per l’esclusione di Hans Küng dalla facoltà di teologia.
Quelle sono state le settimane più difficili della mia carriera accademica. Avevo un rapporto di collega con lui e avevo imparato molto da lui. Ma non ero d’accordo con lui su alcuni punti cruciali. Prima della revoca della licenza d’insegnamento, la facoltà era divisa, alcuni erano contrari e protestavano, altri ritenevano giusto quel provvedimento riguardo ai contenuti. Io ero uno di loro. Ma a deciderlo sono stati altri. Quello che non mi è piaciuto è stato il modo in cui Küng ha reagito e polemizzato pubblicamente. Si è dimostrato uno svizzero testardo.
Tornando al Concilio, 60 anni dopo sembra che questioni oggi rilevanti non siano state affrontate allora.
Sono state affrontate questioni molto importanti, ma ovviamente non tutte. Ad esempio, il Concilio ha posto su nuovi fondamenti teologici l’interazione tra vescovi e papa, ma anche tra laici e clero. Ma non è stato chiarito come dovrebbe funzionare esattamente. Ed è ciò che ora papa Francesco vuole chiarire con il sinodo sulla sinodalità. D’altronde, la forma sinodale si rifà alla tradizione, perché i sinodi hanno fatto parte della vita della Chiesa fin dall’inizio. Dopo il Medioevo si era un po’ offuscata, ma ora sta rivivendo in nuove modalità. Da non dimenticare che anche i laici, in particolare i detentori del potere, hanno avuto in passato una grande influenza sui sinodi.
Quali nuovi temi si sono aggiunti? La questione delle donne, il problema dell’identità e dell’orientamento sessuale?
Il Concilio ha già detto qualcosa sulla questione della donna, in particolare per quanto riguarda la sua posizione nella società. Ma la questione delle donne all’interno della Chiesa è rimasta troppo in ombra e ora si ripresenta. Lo stesso vale per altri argomenti. Le relazioni omosessuali erano allora tabù. Tutto questo si è manifestato dopo il 1968, cioè dopo il Concilio.
Uno che in seguito ha ripreso questi argomenti è stato il suo allievo, il teologo morale Eberhard Schockenhoff, morto nel 2020. Per il cammino sinodale in Germania è stato un pioniere su questi temi. Com’era il suo rapporto con lui?
Eravamo amici. Ogni volta che veniva a Roma, c’era un vivace scambio di idee. Non siamo sempre stati d’accordo su tutto. Ma il rapporto è continuato ed è diventato molto solido. Ho letto molto del suo libro postumo sull’etica sessuale. Lì c’è già un chiaro ripensamento, ma il mio allievo non è andato così lontano come ora sta andando il Cammino Sinodale. Si è trattato di aperture, ma sempre basate sulla Bibbia e sulla Tradizione. È ciò che manca adesso, soprattutto per dare un buon fondamento teologico al Cammino Sinodale.
Siamo al Cammino Sinodale. Cosa ne pensa? Dove ci conduce?
Temo che attualmente si nutrano delle illusioni. Penso che sia pressoché impossibile che le risoluzioni del Cammino Sinodale possano essere attuate nella Chiesa universale. Naturalmente ci sono persone anche in altri paesi che la pensano allo stesso modo. Ma sono ben lontane dal costituire una maggioranza. Ciò vale per l’ordinazione delle donne, per esempio. O per l’idea di cogestione democratica nella guida della Chiesa. La Chiesa non è una democrazia! Gran parte di questo argomento in particolare non è stato pensato teologicamente o in termini di Tradizione. La Chiesa non può essere reinventata.
Altri vescovi e cardinali ora mettono in guardia da uno scisma. Lo teme anche lei?
Il Cammino Sinodale sottolinea ripetutamente di non volere alcuno scisma, e io lo credo. Ma si può anche incappare in uno scisma. Un po’ come le grandi potenze sono incappate nella prima guerra mondiale, anche se nessuno la voleva davvero. Bisogna considerare attentamente questo fatto. Anche in Germania le domande che vengono da altre Conferenze episcopali vanno prese sul serio e non bisogna dare per scontato di conoscere già la verità. Questo atteggiamento rende impopolari i tedeschi all’estero. Se incontro dei cardinali qui a Roma, scuotono la testa quando si parla dei tedeschi. Allora provo a spiegare alcune cose.
Una settimana dopo il suo novantesimo compleanno, ricorre il decimo anniversario dell’elezione di papa Francesco. Presumo che lei fosse dalla sua parte in quel momento. Se ne è mai pentito?
Io sto dalla parte di papa Francesco. Ciò non significa che trovi giusta ogni parola che dice o trovi giusto ogni atto che compie. Ma, una volta eletto un papa, vale per lui il principio di lealtà, soprattutto nella Curia, altrimenti non funziona. Adesso non lo vedo così spesso come una volta, ma, quando mi chiama, gli do dei consigli se me li chiede. Francesco è sotto pressione da due parti: ci sono i conservatori, che hanno rifiutato il suo stile fin dall’inizio, e ora ci sono critiche anche da parte dell’Occidente, per esempio in Germania, dove spingono per le riforme. Egli è un uomo del Sud, ha problemi completamente diversi che sono importanti per lui, questo deve essere chiaro. Ciò che ha messo in movimento richiederà un altro pontificato o due prima che sia pienamente attuato. Spero che dopo di lui venga qualcuno che attui questi impulsi secondo la sua sensibilità.
Alcuni riformatori credono che il cambiamento sia la migliore risposta alla crisi epocale della Chiesa di questo tempo. Lei di che parere è?
La Chiesa vive una crisi molto profonda. Non vederlo sarebbe una follia. E la causa non è solo lo scandalo degli abusi. La crisi è molto più ampia e profonda. Riguarda l’intero mondo occidentale. La Chiesa si trova in uno sconvolgimento epocale. Non si può semplicemente continuare come prima, questo è fuori discussione. Ma come sarà nel dettaglio il futuro della Chiesa, nessuno di noi lo sa. Tutto quello che so è che, se non avessi vissuto l’avventura del Concilio, difficilmente avrei potuto sopportare questa crisi. Ma credo che dare le risposte sia ora compito di una nuova generazione nella Chiesa.
Walter Kasper settimana news 10 marzo 2023
www.settimananews.it/chiesa/la-chiesa-vive-crisi-epocale
Diocesi di Coira: sotto attacco il vescovo per il suo “codice” sugli abusi di potere
Un “codice di comportamento” che contrasti l’abuso di potere nella Chiesa, radice di tutti gli abusi, da applicare nella vita quotidiana della diocesi e a tutti i livelli: dal vescovo al semplice fedele. Lo ha realizzato e pubblicato il vescovo di Coira (Svizzera)
mons. Joseph Maria Bonnemain (α 1948) già lo scorso anno, con l’aiuto di Karin Iten e Stefan Loppacher, del servizio di Prevenzione dell’abuso di potere della diocesi. Un documento importante, che ha suscitato però una critica dalla “destra” cattolica, che si è coagulata in un gruppo che sta facendo la guerra al vescovo, soprattutto a causa del suo richiamo a non discriminare le persone Lgbt.
Combattere le cause strutturali dell’abuso. Il documento di 32 pagine, intitolato Verhaltenskodex zum Umgang mit Macht (“Codice di condotta sulla gestione del potere. Abuso spirituale e sfruttamento sessuale”), è stato pubblicato il 5 aprile 2022. Parte dalla considerazione che è «importante la prevenzione strutturale dell’abuso di potere. Le testimonianze coraggiose e toccanti delle persone colpite (che si intrecciano come citazioni nel Codice di condotta) sottolineano l’urgenza per la Chiesa di imparare da questi atti», si legge nella prefazione. Non solo una dichiarazione di (buoni) intenti, ma una prassi che «abbia effetto nella vita di tutti i giorni»: e dunque requisiti chiari, con esigenze chiare, standard di qualità vincolanti e promozione del dialogo necessario, improntati a una cultura della “discutibilità” e di trasparenza a tutti i livelli gerarchici, a partire dall’osservazione degli attuali squilibri di potere e sulle relazioni asimmetriche tra dipendenti della Chiesa e minori, tra operatori ecclesiastici e minori o giovani, tra operatori ecclesiastici e adulti in cura pastorale e tra supervisori e dipendenti. Il Codice prevede anche provvedimenti specifici in casi concreti che, nella realtà, spesso non vengono applicati: come la necessità di non far dormire insieme adulti e minori, o nel caso di riti religiosi che prevedano il contatto fisico, come le benedizioni, l’assoluzione nella confessione o l’unzione degli infermi, il consenso preventivo del fedele a essere toccato. Un’attenzione privilegiata viene data all’accompagnamento spirituale (nel cui contesto avviene la maggior parte degli abusi spirituali), che non deve mai portare a una maggiore dipendenza, ma deve «promuovere l’autonomia».
Il braccio di ferro con i preti. Ma un gruppo di 43 sacerdoti della diocesi, riuniti nel Priester Churerkreis (appoggiato da altri ecclesiastici e da laici) si è rifiutato di firmarlo: se è condivisibile per il 95%, singoli punti contraddirebbero, secondo loro, l’insegnamento cattolico su omosessualità e matrimonio. Sarebbero in particolare alcune frasi a fare problema:
- «Mi astengo dal fare valutazioni negative generiche su comportamenti presuntamente non biblici in fatto di orientamento sessuale»;
- «Nei colloqui pastorali non affronto attivamente argomenti legati alla sessualità. In ogni caso mi astengo da domande offensive sulla vita intima e sullo stato delle relazioni. Questo vale anche per i colloqui che ho come supervisore»;
- «Mi astengo da ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento o sull’identità sessuale»;
«Riconosco i diritti sessuali come diritti umani, in particolare il diritto all’autodeterminazione sessuale».
Tutto questo suscita le critiche dei preti: che ne è del catechismo e della sua condanna dell’omosessualità come “disordine morale”?, chiedono i preti ribelli; che ne è del divieto per gli omosessuali di entrare in seminario?
Il braccio di ferro, nel corso dei mesi, è continuato, culminando all’inizio di febbraio, quando il decano della Svizzera centrale Rudolf Nussbaumer ha affermato che avrebbe firmato il codice «solo se soggetto alle sacre scritture e all’insegnamento della Chiesa». L’obbligo di firmare è un abuso di potere, ha criticato il parroco: «Voglio dire, la Chiesa non ha la competenza per cambiare i comandamenti di Dio». Il 9 febbraio scorso, lo stesso Nussbaumer ha chiesto al vescovo di interrompere la collaborazione con la responsabile della prevenzione Karin Iten, ritenuta simpatizzante della causa Lgbt.
Bonnemain (radicato nell’Opus Dei ma con visioni progressiste, nominato direttamente da papa Francesco nel febbraio 2021 alla guida della diocesi, famosa per il suo passato burrascoso e il suo tessuto ecclesiale molto polarizzato) ha reagito prontamente in un comunicato del 15 febbraio scorso, in cui ripercorre le motivazioni del codice: «Nell’aprile 2019 la diocesi di Coira, insieme ai sette organi cantonali di diritto ecclesiastico statale, ha emanato il piano diocesano di prevenzione. Sulla base dei principi ivi formulati, i responsabili diocesani della prevenzione, come previsto, hanno elaborato il codice diocesano di condotta». «Grazie alle azioni in essa formulate, tutti – operatori pastorali, operatori ecclesiastici e credenti – possono agire, muoversi e svilupparsi con fiducia nell’ambiente ecclesiale, nella fiducia che la loro integrità sarà rispettata e protetta in modo olistico e consapevole. Sono stato il primo a firmare il codice di condotta. Sono convinto della qualità di questo strumento di prevenzione» «coerente con la nostra fede cattolica»; d’altronde, esso si rifà alle linee guida della Conferenza episcopale svizzera e dell’Associazione dei superiori religiosi in Svizzera.
Bonnemain, insomma, ribadisce la sua convinzione: «L’attuazione del codice di condotta non riguarda solo la firma. Si tratta di applicare il suo contenuto. Si tratta dell’interiorizzazione del suo messaggio e della disponibilità a comportarsi professionalmente nell’ambiente ecclesiale: libero da ogni abuso di potere, così come da abusi sessuali e spirituali. Tutte le indicazioni formulate nel codice di condotta perseguono questo obiettivo, un cambiamento culturale nella cooperazione ecclesiale». «Il vescovo si aspetta che tutti gli operatori pastorali e gli impiegati ecclesiastici accettino il codice di condotta e si comportino di conseguenza». E aggiunge: «Se qualcuno vuole specificare qualcosa di più preciso firmando il Codice di condotta, questo non deve relativizzarne la natura vincolante o modificarne a piacimento i criteri». Immediata la reazione del Churer Priesterkreis che il giorno dopo, il 16 febbraio scorso, ha chiesto al vescovo Bonnemain se condizionare l’adesione al codice alla citazione di passi inequivocabili del catechismo della Chiesa cattolica e della posizione espressa dal gruppo di preti costituirebbe una «relativizzazione del Verhaltenskodex».
Chiesa, campo minato per gli abusi spirituali.Sul suo ruolo di responsabile diocesana per gli abusi, esterna al contesto ecclesiale in quanto agnostica, è la stessa Karin Iten a intervenire su katholisch.de (21/2): «È importante che in questa funzione ci sia qualcuno con completa indipendenza nel proprio modo di pensare, nella propria impostazione mentale. Penso che abbia senso investire nella prevenzione dell’abuso di potere. E questo non è possibile senza scuotere la morale sessuale, altrimenti la prevenzione è una farsa», ha detto. «L’accoppiamento di spiritualità e potere è molto problematico, apre molto spazio alla manipolazione. (…). Ad esempio, quando qualcuno discute con parole come “Dio vuole che sia così” per raggiungere i propri scopi e obiettivi. Ad esempio, per legittimare te stesso in modo che qualcun altro debba essere disponibile per servizi sessuali. L’unione di spiritualità e potere è nel DNA della Chiesa cattolica, che quindi è predisposta a commettere manipolazioni spirituali. Ci vuole molta riflessione autocritica».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 9, 11 marzo 2023
www.adista.it/articolo/69642
CHIESA IN ITALIA
Assemblea nazionale. Cammino sinodale: attivati 377 cantieri della “strada e del villaggio”,
della “ospitalità e della casa”, delle “diaconie e formazione spirituale” e scelti dalla diocesi
Nel corso del secondo anno del Cammino sinodale, alla data del 31 gennaio 2023 sono stati attivati 377 cantieri. Di questi, 101 sono cantieri della “strada e del villaggio”; 99 dell’“ospitalità e della casa”, 93 delle “diaconie e formazione spirituale” e 84 scelti dalla diocesi. Per quanta riguarda i temi, i cantieri della 1ª tipologia affrontano questioni relative ai giovani, alle famiglie, all’iniziazione cristiana, alla carità, al volontariato, all’ambito socio-politico, ai linguaggi, alle fragilità, al lavoro e al Creato.
I cantieri del 2° tipo si concentrano sugli Organismi di partecipazione (Consigli presbiterali, Consigli pastorali, Affari economici…), sulla corresponsabilità, sulla fraternità, sui sacerdoti e sul rapporto tra consacrati e laici e con la comunità, sulla leadership e sulla gestione di beni e strutture.
Il terzo cantiere focalizza l’attenzione sulle strutture ecclesiali, sulla centralità e riscoperta della Parola, sulla formazione, sui ministeri, sul ruolo delle donne, sui passaggi di vita.
Gli 84 cantieri individuati da ogni Chiesa locale sulla base delle priorità emergenti riguardano soprattutto l’iniziazione cristiana, le relazioni tra le generazioni, la liturgia, le donne e i ministeri, le forme di vita pastorale (unità o comunità pastorale), gli organismi di partecipazione, l’organizzazione delle strutture ecclesiali, l’autorità e la corresponsabilità, la pietà popolare.
Spiccano alcuni cantieri focalizzati su temi “originali” e prettamente legati al territorio, come quello sulle solitudini (Rieti), lo spopolamento (Messina), l’impegno sociale e politico (Anagni-Alatri), la giustizia e legalità (Foggia, Oppido-Palmi), la cura del creato (Potenza), l’ecumenismo (Pinerolo), le culture diverse (Bolzano-Bressanone), i giovani, la famiglia e l’accoglienza turistica (Tempio-Ampurias), i mondi “altri” (Napoli), l’ascolto dei sacerdoti da parte dei Vescovi (Pozzuoli).
www.agensir.it/quotidiano/2023/3/11/cammino-sinodale-attivati-377-cantieri-della-strada-e-del-villaggio-della-ospitalita-e-della-casa-delle-diaconie-e-formazione-spirituale-e-scel ù
DALLA NAVATA
3° Domenica di Quaresima – Anno A
Esodo 17, 07. Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»
Salmo 94, 01. Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia
Paolo ai Romani 05,05. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Giovanni 04, 41. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Dio non può dare nulla che sia meno di sé stesso
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar (…) qui c’era un pozzo di Giacobbe (…). Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». (…) Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I giudei infatti non hanno rapporti con i samaritani (…).dammi da bere. Dio ha sete, ma non di acqua, bensì della nostra sete di lui, ha desiderio che abbiamo desiderio di lui. Lo Sposo ha sete di essere amato. La donna non comprende, e obietta: giudei e samaritani sono nemici, perché dovrei darti acqua? E Gesù replica, una risposta piena di immaginazione e di forza: se tu conoscessi il dono di Dio.
Parola chiave della storia sacra: Dio non chiede, dona; non pretende, offre. Il maestro del cuore mostra che c’è un metodo, uno soltanto per raggiungere il santuario profondo di una persona. Non è il rimprovero o la critica, non il verdetto o il codice, ma far gustare qualcosa di più, un di più di bellezza, di vita, di gioia, un’acqua migliore. E aggiunge: ti darò un’acqua che diventa in te sorgente che zampilla vita. Gesù il poeta di Nazaret usa qui il linguaggio bello delle metafore che sanno parlare all’esperienza di tutti: acqua, viva, sorgente.
Lo sai, donna della brocca, la sorgente è più dell’acqua per la tua sete, è senza misura, senza calcolo, senza sforzo, senza fine, fiorisce nella gratuità e nell’eccedenza, dilaga oltre te e non fa distinzioni, scorre verso ogni bocca assetata. Cos’è quella sorgente, chi è, se non Dio stesso? Lo immaginava così Carlo Molari: «Dio è una sorgente di vita a lui puoi sempre attingere, disponibile ad ogni momento, che non viene mai meno, che non inganna, che come il respiro non puoi trattenere per te solo. Ma non chiuderti, o la sua acqua passerà oltre te...»
Se tu conoscessi il dono di Dio… Dio non può dare nulla di meno di se stesso (Meister Eckart), il dono di Dio è Dio stesso che si dona. Ti darò un’acqua che diventa sorgente, vuol dire metterò Dio dentro di te, fresco e vivo, limpidezza e fecondità delle vite, farò nascere in te il canto di una sorgente eterna.
Il dono è il fulcro della storia tra i due, al muretto del pozzo: non una brocca più grande, non un pozzo più profondo, ma molto di più: lei, che con tanti amori era rimasta nel deserto dell’amore, ricondotta alla sua sorgente, al pozzo vivo. Vai a chiamare tuo marito, l’uomo che ami. Gesù va diritto al centro, ma non punta il dito sui cinque matrimoni spezzati, non pretende che ora si regolarizzi, prima del dono. Il Maestro con suprema delicatezza non rovista nel passato, fra i cocci di una vita, ma cerca il bene, il frammento d’oro, e lo mette in luce per due volte: hai detto bene, hai detto il vero. La samaritana è donna verace. Quel Dio in cui sono tutte le nostre sorgenti non cerca eroi ma uomini veri. Mi chiedi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu il monte! Tu il tempio. Là dove sei vero, ogni volta che lo sei, il Padre è con te, sorgente che non si spegne mai.
p. Ermes Ronchi, OSM
www.avvenire.it/rubriche/pagine/dio-non-puo-dare-nulla-che-sia-meno-di-se-stesso
DONNE NELLA (per la ) CHIESA
Otto marzo: mons. Savino (Cassano all’Jonio), “la Chiesa ha bisogno delle donne.
“La Giornata internazionale della donna, memoria della lotta epocale che vi ha rese pienamente partecipi della vita civile in molti Paesi del mondo, è occasione per tutti di verifica e di gioia. Di gioia, perché la giustizia rende ogni convivenza più ricca; di verifica, perché la strada da fare è ancora molta. E voi lo sapete bene. Come vescovo, dunque, non posso non mettermi al vostro fianco: ogni giorno, naturalmente, ma specialmente in questo, per il suo valore così simbolico. Desidero gioire con voi, ma allo stesso tempo contribuire alla riflessione, che deve essere di tutti, su ciò che nelle nostre comunità e in ogni cultura deve ancora avvenire perché fraternità, sororità e amicizia sociale distruggano i muri e le discriminazioni di genere”.
È quanto scrive mons. Francesco Savino, α1954, vescovo di Cassano in un messaggio rivolto a tutte le donne
“Pur fra lentezze e contraddizioni tipiche di ogni storia umana – scrive –, la storia della Chiesa ha visto molte volte le donne protagoniste di un’opera riformatrice e anticipatrice. Ogni secolo ha le sue sante, spesso riconosciute dopo essere state inascoltate e contestate: la corsa del Vangelo deve loro moltissimo”. Da questa vicenda bimillenaria – evidenzia –, “così come dalle lotte e dalle trasformazioni sociali che hanno avuto le donne come protagoniste negli ultimi due secoli, credo come vescovo di potere osservare qualcosa che è sotto gli occhi di chi ogni giorno gode della vostra presenza. Papa Francesco lo esprimerebbe così: più che di occupare spazi, voi siete preoccupate di avviare processi. Se più spazio vi è dovuto – ovunque e quindi anche nella Chiesa – è perché libera tutti dalla sterilità del potere la tenacia con cui non vi fermate davanti agli ostacoli, intuite un altro punto di vista, riaprite situazioni chiuse, cucite gli strappi, intravvedete soluzioni diverse”. “La Chiesa ha bisogno di voi, dunque, per essere un’oasi in cui partecipare dal vivo al nuovo che Gesù ha portato e che può liberare dal male ogni ambito di vita. Nel sostenere quindi il vostro impegno e le vostre lotte – conclude –, voglio anzitutto chiedere perdono per tutte le volte che il clericalismo e una cultura patriarcale hanno prevalso e per quando, ancora oggi, noi uomini di Chiesa non ascoltiamo davvero quello che voi ci dite e ci mostrate”. Come ogni anno, mons. Savino, attraverso il direttore della Caritas diocesana, don Mario Marino, ha fatto giungere le mimose alle detenute della Casa circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari, come simbolo di libertà, un simbolo di quella libertà che rispetta la propria vita e quella degli altri.
(P.C.) Agenzia SIR 8 marzo 2023
www.agensir.it/quotidiano/2023/3/8/otto-marzo-mons-savino-cassano-alljonio-la-chiesa-ha-bisogno-delle-donne-perdono-per-tutte-le-volte-in-cui-clericalismo-e-cultura-patriarcale-hanno-prevalso
ECUMENISMO
Cattolici e sciiti davanti al futuro. A due anni dalla visita di Papa Francesco in Iraq
“E’ tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli”. Lo ha ribadito mons. Vincenzo Paglia,(α1945) presidente della Pontificia Accademia per la vita (Pav)
mons. Vincenzo Paglia,(α1945) presidente della Pontificia, oggi a Najaf, in Iraq, prendendo la parola nell’ambito del 3º convegno internazionale “Cattolici e sciiti davanti al futuro. A due anni dalla visita di Papa Francesco in Iraq”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio insieme all’Istituto Al-Khoei di Najaf.
In apertura del suo intervento, mons. Paglia ha presentato la Pontificia Accademia per la Vita: “Ultimamente, Papa Francesco ha voluto che ne facessero parte anche studiosi provenienti dalle diverse tradizioni religiose, perché il tema della ‘vita’ coinvolge sempre più l’intera comunità umana. Negli ultimi decenni, in effetti, il mondo cambia ad una velocità sempre maggiore, e soprattutto nel versante della tecnologia. La velocità dello sviluppo della tecnica è di gran lunga superiore a quella delle altre scienze come la filosofia, il diritto, la teologia. A mio avviso, le religioni – tutte le religioni, ma particolarmente quelle abramitiche -, sono chiamate ad un confronto con questo nuovo mondo per offrire quel contributo di sapienza che salva l’umanità dal cadere nell’abisso”.
Mons. Paglia ha declinato tre sfide da affrontare:
- la prospettiva “iperindividualista” che sta sconvolgendo tutti i rapporti sociali, frammentandoli e indebolendoli;
- la necessità di una nuova comprensione del termine “vita”;
- “la sfida delle tecnologie che consentono di manipolare l’umano e infatti da decenni si parla di post-umanesimo, trans-umanesimo, umanità potenziata, e così oltre”.
In tale orizzonte appare decisivo il richiamo all’etica, ossia alla centralità della persona umana e della famiglia umana. “Le religioni, ha insistito mons. Paglia, hanno un ruolo particolarmente importante, proprio perché – partendo dalle tre religioni abramitiche – propongono la centralità dell’uomo e della famiglia umana per ogni sviluppo che sia tale. Abbiamo coniato persino un nuovo termine: di fronte al rischio di una vera e propria dittatura dell’algoritmo – possiamo chiamarla algocrazia – Papa Francesco ha proposto un altro termine, algoretica, appunto per piegare la tecnica all’uomo, non viceversa”. “Ciò che sempre più urgente – ha concluso mons. Paglia – è l’elaborazione e la tematizzazione di nuovi diritti per l’uomo nell’era delle tecnologie emergenti, che possano stabilire i confini dell’avanzamento dell’emergere delle tecnologie”.
La delegazione della Comunità di S. Egidio in Iraq è composta dal fondatore Andrea Riccardi, il presidente Marco Impagliazzo, mons. Vincenzo Paglia e i cardinali Ayuso, Coutts e Sako (patriarca di Baghdad dei Caldei). Da parte sciita sono presenti numerosi religiosi dell’alto seminario sciita di Najaf, nonché rappresentanti da altri paesi del Medio Oriente e dall’Europa.
(P. C.) Agenzia SIR 9 marzo 2023
www.agensir.it/quotidiano/2023/3/9/cattolici-e-sciiti-mons-paglia-pav-e-tempo-di-rilanciare-una-nuova-visione-per-un-umanesimo-fraterno-e-solidale-dei-singoli-e-dei-popoli
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
I dieci anni di Francesco: “È l’unico leader globale”
intervista a Antonio Spadaro
“Difficile giudicare quale sia l’aggettivo più appropriato tra quelli che i commentatori hanno attribuito finora a papa Bergoglio”, scrive Padre Antonio Spadaro – direttore de “La Civiltà Cattolica” – nel suo ultimo libro: “L’atlante di Francesco. Vaticano e politica internazionale” (in uscita la prossima settimana per Marsilio). “La gamma si estende dal ‘rivoluzionario’ stupito e ammirato di Eugenio Scalfari, alle numerose e poco bonarie definizioni di ‘marxista’ o ‘populista’”.
Padre Spadaro, nel suo libro la parola “rivoluzione” torna spesso. Lunedì ricorre il decimo anniversario del papato: in cosa consiste questa rivoluzione?
In grande sintesi, credo la rivoluzione di Francesco sia stata nel rendersi conto che la Chiesa, con tutta la sua dottrina e la sua sapienza secolare, non poteva porsi nei confronti della realtà in maniera rigida, ma doveva innanzitutto “scendere per strada”. È un approccio radicalmente pastorale: guardare prima di giudicare; comprendere la Storia e stare in mezzo agli altri. È un pontificato che affronta un mondo diventato molto complesso con l’umiltà di capire che non esistono risposte facili o dichiarazioni di principio.
Quali sono stati gli atti simbolici che hanno dato sostanza a questo approccio?
Francesco ha una naturale capacità nei gesti forti. Se Giovanni Paolo II aveva delle espressioni da poeta, per Francesco la priorità è data al gesto. Come lavare i piedi ai carcerati o ai transessuali: è l’indice di un’apertura totale all’umanità così com’è. Oppure accarezzare i volti di persone piegate dalla malattia. È un Papa che abbraccia fisicamente. Anche l’espressione “chi sono io per giudicare” rivolta alle persone omosessuali è molto potente: è una rivoluzione, per paradosso, basata sulla tradizionale dottrina della Chiesa, che mette al primo posto la coscienza. Si afferma che il rapporto tra una persona e Dio è sacro: nessun giudizio, nemmeno quello del Papa può intromettersi.
Lei sottolinea che in un’epoca di “uomini forti” (Putin, Xi Jinping, Trump), la diplomazia di Francesco è stata basata, al contrario, sul soft power.
Si potrebbe definire “diplomazia della misericordia”. L’obiettivo è trovare sempre una strada di dialogo, mediazione, negoziato. Se vogliamo, c’è un rapporto privilegiato proprio con i luoghi dove prevalgono dittature e autocrazie e c’è più bisogno di questo lavoro.
Quali sono stati i momenti più alti, in questi dieci anni di diplomazia vaticana?
Ricordo quando ha toccato il muro di Auschwitz, ma anche il muro occidentale, che segna la divisione dai territori palestinesi in Terra santa. I suoi viaggi apostolici hanno privilegiato le situazioni di tensione: penso alla Colombia, o alla preghiera a Mosul, che era stata capitale dell’Isis, in Iraq; un’immagine di una potenza straordinaria.
C’è un principio di Francesco che per lei è fondamentale, anche se quasi “scandaloso”: “L’amore per il nemico”.
Mi ha colpito quando in Israele, riferendosi ai terroristi, il Papa li ha definiti “povera gente criminale”. Sembra un ossimoro, ma non lo è: in questo senso è radicalmente cristiano. Non ha lo sguardo dell’uomo politico, ma del padre; una paternità per cui tutti sono figli. Anche il figlio che sbaglia, persino il terrorista, il figlio “cattivo”. Bisogna capire questo per capire Francesco.
È il concetto che ha ispirato il Papa anche sulla guerra in Ucraina?
Francesco la definisce costantemente come “la martoriata Ucraina”. Quello che sta cercando di fare, un po’ disperatamente, è evitare la traduzione automatica della parola “pace” nella parola “vittoria”.
Per questo qualcuno insinua che giustifichi Putin?
Una mistificazione. Il Papa sa bene che le vittorie – la storia lo dimostra – sono spesso l’inizio di nuove guerre e nuove tensioni. Il suo sforzo è far tornare questa paroletta di quattro lettere – pace – nel vocabolario. E ragionare su un conflitto che non può essere isolato dal mosaico complesso della “terza guerra mondiale a pezzi”.
È sempre più frequente ascoltare politici, o semplici attivisti delusi dai partiti, affermare che Francesco è “l’unico leader”: una figura celebrata ben al di fuori dei confini cattolici.
Il Papa non è “un pacifista”, se intendiamo un modo ideologico di porre le questioni. È consapevole che tra gli esseri umani il conflitto è una dimensione permanente. Il suo allora è un pacifismo che si interroga sulle cause: lottare per la pace significa risanare le ferite che quei conflitti li producono. In questo senso, sì, probabilmente oggi è l’unico leader morale di impatto globale.
È anche uno dei pochi leader che criticano il pensiero neoliberista.
C’è una sorta di deriva nel Cristianesimo, profondamente eretica: è la “teologia della prosperità”, alimenta l’idea che siano salvati solo coloro che si arricchiscono e vivono bene. È il cancro della visione cristiana.
Al di là delle questioni dottrinali, non è quello di Francesco un messaggio profondamente politico?
Ha un impatto politico, nonostante sia spirituale. Quella di Bergoglio non è una spiritualità disincarnata: il messaggio del Cristianesimo si deve confrontare con la Storia concreta. C’è una tendenza, invece, a tenere il Cristianesimo dentro a una bolla di pietà, innocuo: è un modo per neutralizzare l’impatto del messaggio evangelico sotto la buona forma della devozione e della preghiera. Poi c’è il rischio opposto: che una parte politica o l’altra tiri il Papa per la tonaca. In questo senso, sin dall’apparizione nella Loggia delle Benedizioni, Francesco non ha mai indossato nulla di rosso, il colore proprio del potere temporale, del pontefice erede dell’imperatore romano. Una scelta che rompe simbolicamente quel legame tra politica e religione.
a cura di Tommaso Rodano “il Fatto Quotidiano” 11 marzo 2023
www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2023/03/11/i-dieci-anni-di-francesco-e-lunico-leader-globale/7092932
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230311spadarorodano.pdf
Il gesuitaI dieci anni di Papa Francesco e il decadimento del latino nella Chiesa
Bergoglio ha portato al drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum. E non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti. come in quest’ultimo periodo, Papa Francesco è tirato da una parte e dall’altra per la veste talare. L’hanno appena fatto la premier Giorgia Meloni e i suoi, che hanno ripetuto fino alla nausea le giuste parole pontificie contro gli scafisti, evitando però di leggerle nell’ambito di un martellante magistero dell’accoglienza e di riprovazione di ogni politica dei porti chiusi, dei rimpatri senza sicurezza, dei sovranismi populisti. L’hanno fatto e continuano a farlo i vari avvocati del popolo, meglio sarebbe dire di Putin, che imperversano in talk show televisivi, non mancando di citare litanicamente il Papa, laddove di questi sono inequivocabili i gesti e i pronunciamenti a favore del «nobile e martire» popolo ucraino e della loro resistenza.
Est modus in rebus, verrebbe da esclamare con Orazio. E mai frase fu più calzante per lo stesso Jorge Mario Bergoglio, nel giorno in cui ricorrono dieci anni dall’elezione a vescovo di Roma. Di contro a un occasionale fiorire di dichiarazioni, pubblicazioni, eventi, largamente fondati ma non sempre vergini di servo encomio, si avverte forte l’esigenza di valutazioni meno unilaterali di un pontificato complesso e, come altri, dai contorni chiaroscurali. Esemplificativo al riguardo, tanto da potersi definire caso da manuale, il drastico ridimensionamento dell’uso del Rito romano antico, che Benedetto XVI aveva liberalizzato nel 2007 col motu proprio Summorum Pontificum. Sull’opportunità o meno del documento ratzingeriano, che soprattutto all’epoca della pubblicazione sollevò non poche polemiche e divergenti valutazioni, sono stati versati i proverbiali fiumi d’inchiostro. A motivare soprattutto le reazioni più oculate furono all’epoca la preoccupazione che si finisse per svalutare non solo la riforma liturgica postconciliare ma la portata vincolante stessa del Vaticano II, già messe in discussione in aree tradizionaliste, e venire meno a «una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l’adesione di tutti al mistero altissimo».
Parole, quest’ultime, d’uno dei più ragguardevoli critici del Summorum Pontificum quale il cardinale Carlo Maria Martini, che s’era però anche detto ammirato dell’«immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove». E che, al contempo, nel medesimo articolo per “Il Sole 24 Ore” aveva scritto nero su bianco di ricavare come «valido contributo del motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero». Chiaro riferimento allo scisma lefebvriano, nell’ottica di una cui ricomposizione la lettera apostolica era stata pensata oltre a quella prioritaria di una pacificazione all’interno stesso della Chiesa cattolica in risposta alle «giuste aspirazioni» dei non pochi fedeli legati o attratti dall’uso antico.
S’è così assistito negli ultimi anni a un superamento di antiche tensioni, che ha anche fatto da parziale argine, nel variegato mondo del conservatorismo, al serpeggiare di nuove. Ma le une riesplose, le altre detonate, il 16 luglio 2021, quando Francesco, essendo fra l’altro ancora vivo Benedetto XVI, è voluto intervenire con un suo motu proprio, intitolato Traditionis custodes, sull’«uso della liturgia romana anteriore alla Riforma del 1970». E l’ha fatto cassando quasi tutte le disposizioni contenute nel documento del predecessore, iniziando col demandare al vescovo diocesano, cui «spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi», l’autorizzazione dell’«uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica».
Consapevoli dei risultati raggiunti nei precedenti quattordici anni in termini di accennata pacificazione, molti presuli hanno subito provveduto a mantenere lo status quo autorizzando il detto uso. Tra questi anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, l’ha fatto con il decreto del 25 luglio 2021, non avendo d’altra parte avuto mai difficoltà a celebrare talora lui stesso la Messa o i Vespri secondo il rito antico, tanto da suscitare le scomposte reazioni del liturgista bergogliano Andrea Grillo. Ma il porporato s’è invece mosso, al pari di tanti, nell’ottica di quel dialogo e abbattimento di muri così tanto invocato a livello generale da Papa Francesco. Che, però, dà prova d’innalzarli quando è in ballo il vetus ordo.
E così un ulteriore giro di vite si è avuto il 21 febbraio scorso col rescritto pontificio che – ottenuto dal cardinale Arture Roche, prefetto del Dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, nell’udienza pontificia del giorno precedente – implementa la “Traditionis custodes”, riservando «in modo speciale alla Sede apostolica» le dispense relative all’«uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962» e alla «concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del motu proprio Traditionis custodes di celebrare con il Missale Romanum del 1962». Non senza aggiungere che «qualora un vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi». Insomma, un vero e proprio atto di centralismo romano a discapito delle prerogative e competenze dei singoli vescovi nelle proprie diocesi nonché a ennesima riprova di una collegialità e una sinodalità troppo spesso ridotte a meri slogan. Il discorso però andrebbe allargato all’uso del latino in sé, che oltre Tevere appare sempre più deprezzato e mal digerito. Lo hanno ben compreso i tanti giornali che, nel dare notizia del rescritto, ne hanno parlato in termini di guerra alle messe in latino o di nuovo no pontificio alle stesse. D’altra parte, in quale considerazione sia oggi la tenuta la lingua ufficiale della Chiesa lo si evince dal fatto che non è mai stata finora pubblicata l’edizione latina d’importanti documenti quali, ad esempio, l’enciclica “Fratelli tutti” e la costituzione apostolica “Prædicate Evangelium”.
Indicativo al riguardo è inoltre l’aneddoto raccontato dallo stesso Bergoglio ai 53 gesuiti slovacchi, incontrati a Bratislava il 12 settembre 2021: «Un cardinale mi ha detto che sono andati da lui due preti appena ordinati chiedendo di studiare il latino per celebrare bene. Lui, che ha senso dello humor, ha risposto: “Ma in diocesi ci sono tanti ispanici! Studiate lo spagnolo per poter predicare. Poi, quando avete studiato lo spagnolo, tornate da me e vi dirò quanti vietnamiti ci sono in diocesi, e vi chiederò di studiare il vietnamita. Poi, quando avrete imparato il vietnamita, vi darò il permesso di studiare anche il latino”. Così li ha fatti “atterrare”, li ha fatti tornare sulla terra». Eppure, sono ben altre le indicazioni che vengono dai documenti conciliari come, ad esempio, la Sacrosanctum Concilium e l’Optatam totius che sottolinea come «gli alunni del seminario» debbano «acquistare quella conoscenza della lingua latina che è necessaria per comprendere e utilizzare le fonti di tante scienze e i documenti della Chiesa».
Sarebbero dunque da rileggere e riconsiderare le parole che il cardinale Martini scrisse nel citato articolo “Amo il latino, però…”, in cui, pur muovendo critiche, come detto, alle disposizioni del Summorum Pontificum, osservava avvedutamente: «Il latino divenne poi, nei giorni dell’adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello ardente e un po’ ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum sapientia per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano».
Insomma, ben venga l’ampia opera di riforma avviata da Papa Francesco per rendere la Chiesa un luogo d’accoglienza comune. Ma ciò non sarà possibile senza un vero dialogo con tutte e tutti, al cui avanzamento certo non giovano decisioni verticistiche e spesso di pancia. Auguri, dunque, Santità, e, per dirla con Manzoni, adelante, si puedes, adelante con juicio.
Francesco Lepore Linkiesta marzo 202s3
www.linkiesta.it/2023/03/papa-francesco-dieci-anni-chiesa-latino
Il papa va allo scontro con la curia sulle ricchezze della Chiesa
«“La Chiesa è santa e peccatrice”, come diceva sant’Agostino. “La stragrande maggioranza dei suoi membri è sana, ma non si può negare che alcuni ecclesiastici e tanti, direi, falsi amici laici della Chiesa abbiano contribuito ad appropriarsi indebitamente del patrimonio mobile e immobile, non del Vaticano, ma dei fedeli». Si è espresso in questi termini papa Francesco nel nuovo libro El pastor (Il pastore), in uscita in Argentina per i dieci anni di pontificato, a firma dei giornalisti Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin. Francesco torna dunque a parlare degli scandali finanziari che hanno tormentato il Vaticano e che almeno in parte, se non altro per i processi in corso, continuano a segnare la vita del piccolo Stato. D’altro canto in almeno altre due occasioni il pontefice era tornato sul tema: con un discorso pronunciato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Vaticano lo scorso 25 febbraio,
www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/february/documents/20230225-annogiudiziario-tribunalescv.html
e con un intervento legislativo di primo piano, ovvero un motu proprio dedicato al patrimonio della Santa Sede e intitolato: “Il diritto nativo”.
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20230220-il-diritto-nativo.html
L’opposizione della Curia, Il provvedimento chiarisce un concetto importante fin da principio: «La destinazione universale dei beni della Santa Sede attribuisce ad essi natura pubblica ecclesiastica. Gli enti della Santa Sede li acquisiscono e utilizzano, non per loro stessi, come il privato proprietario, ma, nel nome e nell’autorità del Romano Pontefice, per il perseguimento delle loro finalità istituzionali, del pari pubbliche, e quindi per il bene comune e a servizio della Chiesa Universale». Osservava “il Sole 24 Ore” dando notizia dell’intervento di Bergoglio: «La questione, di per sé, non avrebbe bisogno neppure di essere chiarita: un palazzo o un deposito bancario appartengono alla Santa Sede – governo della Chiesa universale – e non a quell’ente o quell’ufficio. Se il Papa è dovuto intervenire evidentemente (ma anche questo era noto) così non è stato. Ogni dicastero o Ente collegato si è tenuto ben stretto il suo tesoretto, con gestioni spesso confusionarie o peggio, come accaduto per la Segreteria di Stato con l’immobile di Londra. Il Papa ormai quasi due anni fa ha stabilito che tutte le disponibilità finanziarie – stimate in circa 2 miliardi complessivi – dovessero essere trasferite all’Apsa, e questa le avrebbe fatte gestire sotto precise direttive contemplate in un Documento di Politica di Investimenti della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano, approvato la scorsa estate. Ma questi trasferimenti non ci sono stati, solo la Segreteria di Stato ha provveduto, e neppure subito». Insomma, la Curia, come è emerso fin dal principio del pontificato, prova a fare il muro di gomma, di far diventare nei fatti lettera morta le decisioni prese dal papa e dai suoi collaboratori, di andare avanti con l’andazzo di sempre. Ma anche il papa non molla e a forza di motu proprio, non solo cerca di stringere in un angolo le burocrazie vaticane, allo stesso tempo infatti ne rende pubbliche le inadempienze.
Riforma e tempi lunghi. Ancora nel libro intervista pubblicato in Argentina, Francesco, a proposito del contorto e opaco affare relativo alla compravendita di un immobile londinese sito in Sloane Avenue, osserva: «Siamo stati noi a rilevare l’acquisto sospetto di un immobile a Londra; io mi sono rallegrato perché significa che oggi l’amministrazione vaticana ha le risorse per fare chiarezza sulle cose brutte che accadono all’interno. Ma riconosco che mettere tutto in ordine non è stato facile e che c’è sempre la possibilità che appaia qualche nuova situazione dannosa, anche se è più difficile che si verifichi». Insomma, passi avanti ce ne sono stati, eccome, ma sotto le braci i problemi covano ancora perché la riforma della Curia, delle finanze, la corretta amministrazione e la trasparenza nella gestione non sono ancora diventati fattori culturali oltre che tecnici acquisiti una volta per tutte. Anzi, a giudicare dai reiterati interventi del papa sugli aspetti legislativi, sembrerebbe che le resistenze siano ancora forti.
I beni della Chiesa. D’altro canto, che il problema sia interno alla Curia, lo chiarisce lo stesso motu proprio del papa quando entra nel merito del problema: «Tutti i beni, mobili e immobili, ivi incluse le disponibilità liquide e i titoli – si legge nel testo del provvedimento – che siano stati o che saranno acquisiti, in qualunque maniera, dalle istituzioni curiali e dagli enti collegati alla Santa Sede, sono beni pubblici ecclesiastici e come tali di proprietà, nella titolarità o altro diritto reale, della Santa Sede nel suo complesso e appartenenti quindi, indipendentemente dal potere civile, al suo patrimonio unitario, non frazionabile e sovrano». «Nessuna istituzione o ente può pertanto reclamare la sua privata ed esclusiva proprietà o titolarità dei beni della Santa Sede prosegue il testo – avendo sempre agito e dovendo sempre agire in nome, per conto e per le finalità di questa nel suo complesso, intesa come persona morale unitaria, solo rappresentandola ove richiesto e consentito negli ordinamenti civili». Una sorta di altolà ai dicasteri e ai funzionari che evidentemente non devono comportarsi come piccoli feudatari. Naturalmente la reazione delle frange più conservatrici al motu proprio di Francesco è stata come al solito sopra le righe: In Vaticano è abolita la proprietà privata, hanno scritto sui siti internet di riferimento; questo del resto il livello dell’opposizione che il papa si trova a dover fronteggiare dal marzo del 2013.
Processi e reati. Ancora, intervenendo in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il pontefice è tornato su tema dei procedimenti giudiziari in corso Oltretevere. Negli ultimi anni, ha affermato Francesco, le «controversie giuridiche e i relativi processi sono aumentati, come pure è aumentata, in non pochi casi, la gravità delle condotte che vengono in rilievo, soprattutto nell’ambito della gestione patrimoniale e finanziaria». «Qui bisogna essere chiari – ha aggiunto – ed evitare il rischio di confondere il dito con la luna: il problema non sono i processi, ma i fatti e i comportamenti che li determinano e li rendono dolorosamente necessari. Infatti, tali comportamenti, da parte di membri della Chiesa, nuocciono gravemente alla sua efficacia nel riflettere la luce divina». Perché questo è il punto: la credibilità della Chiesa, tanto più nella sensibilità moderna, entra in causa ogni qual volta viene travolta da uno scandalo.
“Sì, faccio politica”. Infine, per comprendere meglio il tipo di ostilità che ha incontrato il papa anche all’interno del mondo cattolico conservatore, vale la pena dare un’occhiata a cosa dice Francesco, tagliando i 10 anni di pontificato, su politica e economia ai due giornalisti argentini che lo hanno intervistato (le anticipazioni del volume sono state diffuse dall’Ansa): «Sì, faccio politica. Perché tutti devono fare politica. Il popolo cristiano deve fare politica. Quando leggiamo ciò che disse Gesù, vediamo che era coinvolto nella politica. E cos’è la politica? Uno stile di vita per la polis, per la città. Quello che non faccio io, né dovrebbe fare la Chiesa, è la politica dei partiti. Ma il Vangelo ha una dimensione politica, che è quella di convertire la mentalità sociale, anche religiosa, delle persone». Sul fatto di essere stato un papa troppo critico verso il capitalismo, Bergoglio precisa: «Preciso anzitutto che tutto ciò che dico è nella Dottrina sociale della Chiesa», «non condanno il capitalismo. né sono contro il mercato, ma favorevole a quella che Giovanni Paolo II ha definito economia sociale di mercato». Quindi aggiunge: «Mi concentro preferenzialmente sui poveri perché è quello che ha fatto Gesù e quello che dice il Vangelo», mentre «quello su cui penso possiamo essere tutti d’accordo è che la concentrazione della ricchezza e la disuguaglianza sono aumentate. E che ci sono molte persone che muoiono di fame».
Francesco Peloso Adista Notizie n° 9 11 marzo 2023
Tutti i nodi che Francesco non è riuscito a sciogliere
Francesco è l’ultimo papa? La domanda può sorprendere ma aiuta a riflettere sul suo pontificato, che compie dieci anni. Tutto nasce da un testo che torna a ogni conclave: le presunte profezie attribuite a un santo irlandese, Malachia, arcivescovo di Armagh morto nel 1148. È però un falso, di oltre quattro secoli dopo, studiato anche da un gigante della storia del cristianesimo come Adolf von Harnack. Nell’applicare un motto a ogni papa a partire dal 1143, l’elenco è piuttosto aderente ai vari papi fino al 1590, anno della sua composizione, poi si fa inevitabilmente generico e oscuro. Ma ora siamo alla fine. Infatti, dopo l’enigmatica «gloria dell’olivo» assegnata a Ratzinger, non ci sono altri motti, bensì una frase: sull’«ultima persecuzione» della chiesa, il pontificato tribolato di un «Pietro romano» e il giudizio finale. Per di più, qualche anno fa stavano per finire anche i tondi riservati ai ritratti papali nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura, ma subito si è trovato altro spazio, in modo da proseguire la serie per almeno tre secoli. La conclusione della profezia, su un pontefice regnante tra persecuzioni e difficoltà che non mancano mai, non sarebbe un annuncio della fine del mondo, ma del papato. O della sua attuale configurazione.
E, senza motto, Bergoglio potrebbe essere l’ultimo papa, o quello che prepara un altro modo di esserlo. Nel 2016 fu però Ratzinger, nelle “Ultime conversazioni” con Peter Seewald, a dire con lucidità: «Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato». Con un cenno ironico Malachia: forse «la lista non era ancora abbastanza lunga!». Primo non europeo eletto dopo tredici secoli, il pontefice ha scelto un nome non papale ma molto espressivo: quello del santo di Assisi, il cristiano per eccellenza. E già nelle riunioni precedenti il conclave Bergoglio aveva capovolto la bellissima immagine di Gesù che, nel terzo capitolo dell’Apocalisse, bussa alla porta per cenare con chi gli aprirà: penso che «bussi da dentro perché lo lasciamo uscire». In modo che la missione della chiesa possa arrivare alle «periferie», da cui lui stesso proviene.
Francesco è un gesuita di formazione molto tradizionale e, per sua ammissione, autoritario. Nella critica al clericalismo e alla «mondanità» degli ecclesiastici, così come nei progetti di riforma, ha dimostrato sicuramente coraggio. Ma restano evidenti contraddizioni, denunciate persino dai suoi sostenitori: sul contrasto agli abusi e alla corruzione finanziaria, anche con un uso inedito del potere giudiziario nello stato vaticano; sulle richieste sempre più pressanti di fare davvero spazio nella chiesa ai laici, e in particolare alle donne; ma soprattutto sull’esercizio del potere papale. Tutti nodi che l’ultimo papa non è riuscito finora a sciogliere.
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Dieci anni dopo quel “buona sera”: l’autorità della Chiesa e la tradizione che cammina
La questione sollevata da Francesco dieci anni fa, intorno alla identità cattolica e al suo dinamismo storico e culturale, è iniziata subito con il suo apparire, la sera del 13 marzo, dalla loggia di S. Pietro, in quella figura e con quelle parole, che hanno provocato lo sguardo e l’ascolto a concepire, come in un “presentimento conciliare”, che cosa potesse essere un prototipo diverso di papa. Lo ha espresso a caldo Marciano Vidal, nel modo più efficace: il fatto che quelle parole e quei gesti dei primi minuti di pontificato potessero essere attribuiti ad un papa reale (piuttosto che ad un film come Habemus papam di Nanni Moretti) era il frutto di un “presentimento” che era nato 60 anni prima, con il Concilio Vaticano II. Il popolo sapeva “già prima” – pre-sentiva – che un papa così avrebbe potuto esistere. E ora lo aveva visto davanti a sé, all’improvviso, con una nettezza e con una forza del tutto irresistibili.
Alcune caratteristiche del Concilio sono la condizione per capire il nuovo papa e per capire anche le reazioni scomposte, che presto si sono manifestate nella chiesa, soprattutto in quei settori del cattolicesimo che da 60 anni avevano fatto di tutto per dimenticare il Vaticano II, per anestetizzarlo e per rimuoverlo. Il primo papa “sudamericano”, che non viene dall’Europa, che non ha la storia europea alle spalle e sulle spalle, è insieme il primo papa “figlio del Vaticano II”. Non un padre, ma un figlio. In effetti, un padre è ansioso verso il figlio, mentre un figlio vive con tranquillità della eredità paterna. Questa differenza tra Francesco e i suoi predecessori è la differenza tra una lettura paternalistica del Vaticano II come figlio e una lettura filiale del Concilio come padre.
Dal punto di vista teologico questo significa una cosa fondamentale: il recupero di autorità della Chiesa cattolica nel recepire, nello strutturare e nel rilanciare la tradizione. Ogni epoca riceve la tradizione precedente e la rilancia oltre di sé: questo atto di recezione e trasmissione non è mai un atto meccanico, ma implica una certa necessaria creatività, allo stesso tempo una continuità e una discontinuità. I papi “padri del Concilio” (dopo Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I e II, Benedetto XVI), proprio perché “padri”, avevano elaborato un complesso di colpa nei confronti del Concilio: erano ansiosi e preoccupati per quel figlio che avevano contribuito a generare. Così, in un crescendo di diffidenza, erano arrivati quasi ad una sorta di “disconoscimento di paternità”,
arrivando a equiparare il Concilio alla esperienza del peccato originale (cfr. il discorso di Benedetto XVI la sera dell’11 ottobre 2012).
www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2012/october/documents/hf_ben-xvi_spe_20121011_fiaccolata.html
Francesco è invece un “figlio del Concilio”: il suo immaginario ecclesiale, teologico, spirituale, pastorale viene direttamente dai testi conciliari. Lo si vede da come celebra ogni mattina a S. Marta. Questo lo rende “irresponsabile verso il Concilio”, al quale guarda come un figlio guarda al proprio padre, senza doverne giustificare la esistenza, ma anzi sentendosi giustificato dalla sua esistenza! Questo ha liberato le energie di un nuovo rilancio della tradizione, facendo uscire la chiesa cattolica dal vicolo cieco in cui era entrata nel periodo postconciliare, ridotto spesso a mera ripetizione del pre-concilio.
Il merito maggiore di Francesco, in questi primi 10 anni, è stato di aver sbloccato quel “dispositivo di blocco” che aveva sottratto alla Chiesa ogni autorità, per ribadire tutte le forme di autorità preconciliari. I temi della famiglia, del sinodo, del decentramento, del primato delle periferie, della povertà, della uscita dalla autoreferenzialità, dei modelli di attenzione al creato e di rifiuto dell’economia dello scarto, sono i “luoghi” in cui Francesco, con maggiore o minore incidenza, ha tuttavia messo in moto le azioni, i pensieri, le rappresentazioni. Il “cambio di paradigma” di cui si parla nel Proemio di Veritatis gaudium (e di cui ahimè ci si dimentica nel corpus del documento) è forse l’emblema più grande di questa novità.
Anche sul piano ministeriale, il superamento della “riserva maschile” per i ministeri istituiti costituisce un “precedente” importante, per una impostazione più seria del dibattito sull’accesso delle donne al ministero ordinato. Lo stesso deve dirsi, infine, della potente ripresa della riforma liturgica, come progetto di formazione ecclesiale, che può finalmente superare ogni concessione a quel “parallelismo rituale” che era diventato la cifra più clamorosa e pericolosa di una resistenza viscerale alla riforma liturgica conciliare e al Concilio Vaticano tutto.
Aver restituito alla tradizione cattolica il suo versante dinamico e aver superato un modello ottocentesco di visione cattolica del rapporto col mondo è il merito maggiore di questo intenso decennio di pontificato.
Andrea Grillo “il giornale di Rodafà” 12 marzo 2023
‘Corruzione, lo scandalo che mi fa soffrire’. Pedofilia? ‘La Chiesa ha capito che non può più coprirla’
intervista a papa Francesco a cura di Francesco Antonio Grana
Santità, dieci anni fa, il 13 marzo 2013, veniva eletto Papa. Qual è il suo bilancio?
Il bilancio lo farà il Signore quando vorrà. Il modo in cui lo farà ce lo ha detto lui stesso al capitolo 25 del Vangelo di Matteo: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi…”. La Chiesa non è una azienda, ma nemmeno una ong e il Papa non è un amministratore delegato che a fine anno deve far quadrare i conti. La Chiesa è del Signore! A noi viene semplicemente chiesto di porci umilmente in ascolto della sua volontà e metterla in pratica. Può sembrare un compito molto semplice, ma non lo è. Bisogna sintonizzarsi con il Signore, non con il mondo. Ho pensato spesso a un passaggio dell’omelia che fece Benedetto XVI nella messa di inizio del suo pontificato, il 24 aprile 2005: “In questo momento non ho bisogno di presentare un programma di governo”. E aggiunse: “Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da lui, cosicché sia egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia”.
Le congregazioni generali, però, avevano chiesto al nuovo Papa un pontificato di riforme.
Ho partecipato alle congregazioni generali del 2005, dopo la morte di san Giovanni Paolo II, e del 2013, dopo le dimissioni di Benedetto XVI. Sono stati due grandi momenti di grazia, di crescita per tutti noi. Due occasioni importanti per confrontarci sullo stato di salute della Chiesa, in particolare sui problemi da affrontare. Sono stati descritti due scenari molto diversi. Durante le congregazioni generali del 2013, tutti quanti noi, anche io, abbiamo rivolto delle richieste molto concrete a colui che sarebbe stato eletto. Personalmente, ero molto sereno. Con pochi vestiti, lo stretto necessario, anche perché da quando san Giovanni Paolo II mi ha nominato cardinale, nel concistoro del 2001, ho sempre lasciato a Roma sia la talare filettata che quella rossa per quando andavo in Vaticano, così da non doverle portare sempre con me in viaggio. Avevo fatto la valigia pensando che sarei tornato a Buenos Aires in tempo per la settimana santa. E, invece, il mio biglietto di ritorno è stato strappato dai miei fratelli cardinali. Quello che ho fatto in questi dieci anni è stato proprio concretizzare le richieste delle congregazioni generali. Il Consiglio di cardinali, che ho annunciato significativamente proprio a un mese esatto dalla mia elezione, ha avuto questo compito. Un lavoro sinodale che si mettesse davvero in ascolto di tutta la Chiesa e quando parlo di Chiesa non intendo soltanto noi preti, che siamo l’1 per cento, ma i laici, che sono il 99 per cento della Chiesa. E questo non lo dico io, ma lo dice il Concilio Ecumenico Vaticano II nel decreto sull’apostolato dei laici, Apostolicam actuositatem. Un documento del 1965, ma attualissimo e che andrebbe fatto leggere nelle parrocchie.
Quindi un pontificato di riforme partendo dalla Curia romana.
È stato il lavoro più impegnativo, quello che ha assorbito maggiormente il Consiglio di cardinali. Un anno fa, il 19 marzo 2022, è stata pubblicata la costituzione apostolica sulla Curia romana, Prædicate Evangelium. L’ho affidata a san Giuseppe, patrono della Chiesa universale, anche perché proprio il 19 marzo 2013 ho celebrato la messa di inizio del mio pontificato in piazza San Pietro. È la terza volta che la Curia romana viene riformata dopo il Vaticano II: lo hanno fatto san Paolo VI nel 1967 e san Giovanni Paolo II nel 1988. È stato un lavoro veramente collegiale.
Però le sofferenze in questi dieci anni non sono mancate.
Non ho mai perso il sonno. A volte leggo ricostruzioni totalmente inventate. Le cose sono molto più semplici di quelle che possono apparire all’esterno. È bello che tra fratelli si abbia il coraggio di dirsi le cose in faccia, con i pantaloni, non alimentando il chiacchiericcio che uccide, uccide qualsiasi cosa. Anche i primi discepoli di Gesù non la vedevano tutti nello stesso modo ed erano dodici, un piccolo gruppo. La Chiesa non è un’orchestra dove tutti suonano la stessa parte, ma ognuno esegue la sua partitura ed è proprio questo che crea l’armonia. Dobbiamo tendere all’unità che non significa uniformità. Siamo fratelli! Dobbiamo avere il coraggio delle nostre idee, il coraggio di dircele direttamente, ma poi dobbiamo ritrovarci attorno alla stessa mensa.
Cosa l’ha fatta soffrire di più?
La corruzione. Non parlo solo della corruzione economica, dentro e fuori il Vaticano, parlo della corruzione del cuore. La corruzione è uno scandalo. A Napoli, nel 2015, dissi che spuzza. Sì, spuzza. La corruzione fa imputridire l’anima. Bisogna distinguere il peccato dalla corruzione. Tutti siamo peccatori, tutti! Anche il Papa e si confessa ogni quindici giorni. Ma non dobbiamo scivolare dal peccato alla corruzione. Mai! Nella Chiesa, come nella politica e nella società in generale, dobbiamo sempre mettere in guardia dal grave pericolo della corruzione. È molo difficile che un corrotto possa tornare indietro: una tangente oggi e un domani. Per questo i mafiosi sono scomunicati: hanno le mani sporche di soldi insanguinati. Fanno affari con le armi e la droga. Uccidono i giovani e la società. Uccidono il futuro. Bisogna essere chiari: nella Chiesa non c’è posto per i mafiosi! I beati Pino Puglisi e Rosario Livatino non sono scesi a patti con la mafia e perciò hanno pagato con le loro vite.
La corruzione nella Chiesa si manifesta anche nella pedofilia dei suoi uomini.
Benedetto XVI ha avuto il grande merito di denunciare pubblicamente questo scandalo enorme quando era ancora cardinale. Tutti ricordiamo le sue parole: “Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!”. Non ha avuto solo il grande coraggio di denunciare tutto questo quando ancora non se ne parlava tanto, quando ancora non c’era la piena consapevolezza di questo abominio, ma, sia da cardinale che poi da Papa, ha lottato con tutte le sue forze contro l’omertà e l’insabbiamento che per decenni hanno coperto chi nella Chiesa ha commesso gli abusi. Io mi sono posto sulla strada tracciata da lui. Su questo punto bisogna essere molto chiari: se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso, che rappresenta già di per sé una mostruosità, tale caso sarà affrontato sempre con la massima serietà.
Fondamentale è stato il summit mondiale sulla pedofilia del clero del febbraio 2019 e tutte le riforme che ne sono scaturite.
Mi ha colpito una cosa di quel summit. Ho chiesto ai presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo di prepararsi all’incontro ascoltando le vittime. Molti di loro mi hanno detto che non avevano mai ascoltato prima di allora le vittime e che hanno pianto insieme con loro: il dono delle lacrime. Questo credo sia stato il cambiamento più importante e radicale di mentalità nella Chiesa per affrontare gli abusi: partire dall’ascolto delle vittime. Per un pastore è fondamentale. Benedetto XVI aveva incominciato ad ascoltare le vittime durante i suoi viaggi internazionali. Questa condivisione del pastore: bisogna partire da qui. Nella Chiesa non c’è posto per chi si macchia di questo abominevole peccato contro Dio e contro l’uomo. Ma la pedofilia è anche un reato che la giustizia deve punire. Coprire gli abusi è una pratica abituale. Pensa che il 40 per cento dei casi di abuso avviene nelle famiglie e nel quartiere e tutto questo viene coperto. Un’abitudine che la Chiesa ha avuto fino allo scandalo di Boston nel 2002. In quel momento, la Chiesa si è accorta che non poteva più coprire la pedofilia dei suoi preti, ma nelle famiglie e nel mondo dello sport c’è ancora questa abitudine. Un altro punto che vorrei sottolineare è il problema della video pornografia infantile. Dove avviene? Chi sono coloro che hanno la libertà di fare questo senza che nessuna autorità li riprenda? È una cosa molto brutta perché la video pornografia infantile si fa in video con i bambini.
Cosa si augura per il futuro?
La pace. La pace nella martoriata Ucraina e in tutti gli altri Paesi che soffrono l’orrore della guerra che è sempre una sconfitta per tutti, per tutti. La guerra è assurda e crudele. È un’azienda che non conosce crisi nemmeno durante la pandemia: la fabbrica delle armi. Lavorare per la pace significa non investire in queste fabbriche di morte. Mi fa soffrire pensare che se non si facessero armi per un anno, finirebbe la fame nel mondo perché quella delle armi è l’industria più grande del pianeta. L’8 dicembre scorso, in piazza di Spagna, ho pianto pensando al dramma che sta vivendo il popolo ucraino. È trascorso già più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina. A febbraio sono stato in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, e ho visto gli orrori dei conflitti in quei due Paesi con le mutilazioni delle persone. Una cosa che mi fa soffrire molto è la globalizzazione dell’indifferenza, girare la faccia dall’altra parte e dire: “A me che importa? Non mi interessa! Non è un mio problema!”. Quando hanno chiesto alla senatrice a vita Liliana Segre sopravvissuta alla Shoah, quale parola scrivere al binario 21 della Stazione di Milano dove partivano i treni per i campi di concentramento nazisti, non ha avuto dubbi e ha detto: “Indifferenza”. Nessuno aveva pensato a quella parola. Fa riflettere perché quel massacro di milioni di persone è avvenuto nell’indifferenza vigliacca di tanti che hanno preferito girare la faccia dall’altra parte e dire: “A me che importa?”. Recentemente, ho letto che la senatrice ha ricordato che ad Auschwitz non si va in gita, ma si va come a un santuario per non dimenticare la Shoah. Mi ha colpito molto perché è proprio quello che ho sentito nel mio cuore quando sono andato ad Auschwitz, nel 2016, e non ho voluto pronunciare un discorso come avevano fatto i miei due predecessori. Ho voluto pregare da solo in silenzio.
Cosa si augura per la Chiesa?
La Chiesa deve uscire, deve stare in mezzo alla gente. Penso a don Tonino Bello, un grande vescovo pugliese che stava in mezzo al suo popolo e ha lottato con tutte le sue forze per la pace. Un uomo non compreso nel suo tempo perché era molto avanti. Lo si sta riscoprendo oggi. Un profeta! È già venerabile ed è in cammino verso la beatificazione. Recentemente, hanno ripreso in una canzone anche una sua celebre frase: “Noi siamo angeli con un’ala sola. Per volare, abbiamo bisogno di restare abbracciati al fratello, cui prestiamo la nostra ala e da cui prendiamo l’altra ala, necessaria per volare”. Nessuno si salva da solo. Lo abbiamo visto anche con la pandemia. Sogno una Chiesa senza clericalismo. Lo diceva il cardinale Henri-Marie de Lubac nel suo celebre testo Méditation sur l’Église dove, per dire qual è la cosa più brutta che può accadere alla Chiesa, scriveva che la mondanità spirituale, che si traduce nel clericalismo di un prete, “sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale”. Il clericalismo è la cosa più brutta che possa accadere alla Chiesa, peggio ancora che ai tempi dei papi corrotti. Un prete, un vescovo o un cardinale che si ammalano di clericalismo fanno molto male alla Chiesa. È una malattia molto contagiosa. Ancora peggiori sono i laici clericalizzati: sono una peste nella Chiesa. Il laico deve essere laico.
E, infine, cosa si augura per il suo futuro?
Che il Signore sia clemente con me. Fare il Papa non è un lavoro facile. Nessuno ha studiato prima per fare questo lavoro. Ma questo il Signore lo sa: è successo anche con san Pietro. Pescava tranquillamente e un giorno Gesù lo ha scelto perché diventasse pescatore di uomini. Ma anche Pietro è caduto. Lo ha rinnegato proprio lui che aveva vissuto giorno e notte con il Signore, che aveva mangiato con lui, che lo aveva ascoltato predicare e che lo aveva visto compiere miracoli: “Non conosco quell’uomo!”. Come è stato possibile? Ma Gesù, dopo la risurrezione, lo ha scelto di nuovo. Ecco la misericordia di Dio con noi. Anche con il Papa. “‘Servus inutilis sum’. Sono un servo inutile”, come scriveva san Paolo VI nel suo “Pensiero alla morte”. Un testo molto bello che invito soprattutto i sacerdoti a leggere e meditare.
Grazie Santità.
Grazie a te e ai tuoi colleghi per il lavoro che fate. Vorrei dire una parola ai lettori del tuo giornale, ilfattoquotidiano.it: non perdete mai la speranza! Anche se vi sono successe cose brutte, anche se l’esperienza che avete avuto con qualche uomo o donna di Chiesa non è stata tanto bella, non lasciatevi condizionare. Il Signore vi aspetta sempre a braccia aperte. Vi auguro di sperimentarlo nelle vostre vite come l’ho sperimentato io tante volte. Il Signore mi è stato sempre accanto, soprattutto nei momenti bui. Lui c’è sempre. Non dimenticatelo mai! Ci prende in braccio con tenerezza e ci rialza sempre dalle nostre cadute. L’importante, infatti, non è non cadere, ma non restare caduti. Il Signore ci perdona sempre. Il Papa vi vuole bene e prega per voi. A chi prega chiedo di pregare per me e a chi non prega almeno mandatemi buone onde, ne ho bisogno. Grazie!
“www.ilfattoquotidiano.it” del 12 marzo 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230312papafrancescograna.pdf
OMOFILIA
L’omosessualità non è una patologia
Definire la sessualità non è facile poiché si tratta di un aspetto molto rilevante della personalità, influenzato da numerosi fattori biologici, psicologici, sociali, etici, storici, religiosi, spirituali che incidono su emozioni, relazioni e comportamenti di ciascuno di noi. La sessualità, infatti, va ben oltre la riproduzione e può presentarsi con varie e diverse forme.
Credo sia utile iniziare dal sesso biologico, detto anche anagrafico. Gli esseri umani, appena nascono, vengono subito suddivisi in maschi oppure in femmine sulla base delle caratteristiche anatomiche degli organi genitali. Questa suddivisione di massima, sicuramente pratica, non è però sufficiente poiché il nucleo centrale della identità di una persona è la sua identità di genere. L’identità di genere è la percezione di se stessi, del proprio sesso e delle proprie tendenze sentimentali e sessuali che possono non coincidere con il genere dei propri organi genitali e le loro funzioni. Identificarsi come maschio o come femmina è qualcosa che coinvolge tutto l’organismo, riflettendosi così su pensieri e comportamenti.
L’identità di genere prende forma nei primi 3-4 anni di vita principalmente sulla base del sesso biologico e successivamente sulla base delle relazioni tra il bimbo e principalmente i propri genitori, i quali, attraverso messaggi che possono essere consci ma anche inconsci, verbali o non verbali, confermano la sua appartenenza al genere maschile o al genere femminile.
Il sesso di ciascuno di noi viene determinato dai geni, microscopiche sequenze di DNA che portano le informazioni per la trasmissione di caratteristiche ereditarie. Ad eccezione dei globuli rossi, elementi del sangue privi di nucleo, tutte le cellule del nostro organismo, proprio nel nucleo, struttura sferica differenziata e molto complessa, ospitano 46 cromosomi (23 ereditati dalla madre e 23 ereditati dal padre). I cromosomi, come si nota osservandoli al microscopio, sono organuli simili a bastoncini, contengono DNA e – nel processo della fecondazione – si accoppiano tra simili, cioè tra tipi corrispondenti del padre e della madre, formando 23 coppie.
Dei 46 cromosomi totali che formano 23 coppie per ciascuna cellula, 44, quindi 22 coppie, non partecipano alla determinazione del sesso, ma intervengono nello sviluppo di altre caratteristiche e funzioni. Per caratterizzare sessualmente un individuo è necessaria un’unica coppia formata da cromosomi dissimili, precisamente i cromosomi sessuali X e Y, così definiti per la loro forma che ricorda due lettere dell’alfabeto greco, i quali trasmettono indicazioni genetiche specifiche. La coppia di cromosomi sessuali può essere formata da due cromosomi identici oppure differenti. Pertanto, se la coppia comprende due cromosomi X, si formerà un individuo di genere femminile, mentre se un cromosoma X si accoppia con un cromosoma Y, si formerà un individuo di genere maschile. Gli uomini, pertanto, hanno un cromosoma X ed uno Y, mentre le donne due cromosomi X.
Il cromosoma Y, che è esclusivamente maschile, è responsabile dello sviluppo dei testicoli, mentre il cromosoma X, è coinvolto principalmente nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari. I caratteri sessuali secondari costituiscono le differenze di morfologia tra individui della medesima specie ma di genere diverso, e nel loro insieme, costituiscono il cosiddetto dimorfismo sessuale.
In tutti gli embrioni umani, circa 30 giorni dopo la fecondazione, si sviluppa una gonade primordiale bipotente, un organo in grado di differenziarsi intorno al secondo mese di gestazione, se il cromosoma Y è presente, in due testicoli che sono le gonadi maschili (produrranno spermatozoi), mentre se il cromosoma Y è assente, la gonade primordiale si trasformerà in due ovaie, cioè nelle gonadi femminili che produrranno uova. Con una buona dose di prudenza si potrebbe affermare che la natura tende alla femminilità.
Ad ogni modo, per essere di sesso maschile i testicoli non bastano poiché sono necessari anche un pene e una prostata, come per essere donna non bastano le ovaie ma c’è bisogno di un utero e di una vagina. Le diversità tra uomini e donne non si limitano certo solamente agli organi della riproduzione. Le differenze esteriori che fanno parte del dimorfismo sessuale si rivelano nel corso dell’adolescenza e non sono direttamente implicate nella riproduzione.
Le differenze più rilevanti sono, per gli uomini, l’aumento della massa muscolare che comporta un peso maggiore a cui contribuiscono anche le maggiori dimensioni dello scheletro, il cambiamento della voce, che va assumendo una tonalità più bassa, e la comparsa della barba e di una peluria generale più ispida di quella femminile. Per le donne, l’ingrossamento delle mammelle, l’allargamento del bacino, l’accumulo sottocutaneo di adipe in determinate zone (in particolare mammelle, bacino, braccia e cosce), la comparsa di peluria più fine e rada rispetto a quella maschile, una voce più acuta.
Durante lo sviluppo psicofisico nel corso dell’adolescenza, si vanno manifestando sensazioni, desideri, fantasie e comportamenti sessuali variamente influenzati dalla cultura, dall’educazione familiare, dal contesto sociale e soprattutto dal proprio orientamento sessuale che può essere definito come attrazione emozionale, romantica e/o sessuale verso individui dello stesso genere oppure di sesso diverso. Il desiderio sessuale, cioè il desiderio di avere un rapporto di intimità fisica con conseguente piacere sessuale, è parte fondamentale della fisiologia sessuale e può comportare un rilevante aspetto emotivo che può esprimersi con profondi sentimenti.
Tutte le diverse tipologie di orientamento sessuale sono forme con le quali gli esseri umani intrecciano legami affettivi del tutto “naturali” come sono naturali quelli eterosessuali. L’orientamento sessuale può essere:
- Eterosessuale, quando il rapporto amoroso e/o di attrazione fisica riguarda due persone di sesso diverso. La maggior parte degli esseri umani sono eterosessuali.
- Omosessuale, quando nel rapporto sono coinvolte due persone del medesimo sesso.
- Bisessuale, quando si avverte un sentimento amoroso e/o attrazione fisica nei confronti sia delle donne sia degli uomini.
Transgender, sono persone che appartengono ad un preciso sesso biologico nel quale, però, non sono a proprio agio. Esse, infatti, sentono di far parte del genere che non corrisponde alle caratteristiche anatomiche del proprio corpo e, di conseguenza, anche la loro identità di genere – dunque il loro atteggiamento sociale e sessuale – è diversa da quella del sesso attribuito alla nascita. I transgender non si identificano interamente né con il sesso maschile né con quello femminile: la loro è una identità che è stata definita fluida e oscilla tra il maschile e il femminile.
Esiste anche una rara condizione biologica di intersessualità che riguarda coloro che hanno cromosomi sessuali, ormoni e apparato genitale che non appartengono esclusivamente al genere maschile o a quello femminile.
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La sessualità è una qualità innata ed essenziale di tutti gli esseri umani e l’omosessualità, come la eterosessualità, può esprimersi in una grande varietà di modi nel corso della vita di una persona. Come già detto, l’omosessualità è il desiderio di costituire un legame affettivo e/o erotico tra adulti dello stesso sesso. Esiste comunque una omosessualità a tempo, per così dire, indotta da particolari circostanze, come si può verificare ad esempio nelle carceri, negli eserciti, o in altre condizioni. In questi casi si tratta di comportamenti occasionali e transitori poiché chi è eterosessuale ritornerà ad esserlo non appena le condizioni lo permetteranno, mentre chi è omosessuale rimarrà omossessuale.
Numerosissimi studi clinici indicano che l’omosessualità è costituzionale come lo è la eterosessualità; dunque, è un orientamento sessuale involontario inevitabile. La scienza ha scoperto a cosa possa essere attribuibile questa “naturalità”? Studi e ricerche su famiglie e gemelli dimostrano che esistono cause genetiche e cause ereditarie e indicano che l’omosessualità è presente fin dalla primissima infanzia. È stato rilevato, infatti, che ci sono bambini dai 3 ai 5 anni di età che vanno assumendo caratteristiche del genere opposto. Ad esempio, i maschietti dimostrano una sensibilità accentuata e uno scarso o addirittura assente interesse per giochi e sport aggressivi, mentre talune bimbette, decisamente inclini alla competizione, rifiutano di giocare con le bambole e con gli animali di peluche preferendo nettamente lotte e ruoli di potere. Nel 1991 lo scienziato statunitense Simon Le Vay dichiarò di avere scoperto il substrato biologico della omosessualità nell’ipotalamo, la piccola formazione del sistema nervoso centrale posta centralmente in profondità tra i due emisferi cerebrali. Grande non più di una mandorla, l’ipotalamo è formato da tre gruppi di cellule nervose (neuroni) che regolano varie e diverse funzioni biologiche come l’attività del sistema nervoso e quella cardiaca, la produzione di ormoni, l’alternanza del sonno e della veglia, l’appetito, la sete, la termoregolazione etc., e anche la sessualità.
Le Vay analizzò 41 cervelli estratti da cadaveri di due gruppi di persone: uno di uomini eterosessuali, e l’altro di donne e omosessuali. Le Vay notò che i neuroni di una precisa area dell’ipotalamo anteriore erano notevolmente più grandi negli eterosessuali maschi rispetto a quelli corrispondenti del cervello delle donne e degli omosessuali. Questa scoperta venne accolta dalla comunità scientifica come prova di diversità biologica tra maschi e femmine, includendo gli omosessuali in quest’ultima categoria. I risultati di quello studio, benché importanti, si sono rivelati insufficienti per spiegare l’orientamento sessuale nella sua complessità, come del resto non può essere sufficiente nessun fattore preso singolarmente. Per quanto riguarda le cause genetiche, diversi studi hanno evidenziato che nelle coppie di gemelli omozigoti (quelli quasi identici e del medesimo genere) la proporzione degli omosessuali è maggiore rispetto a quanto rilevato nei gemelli dizigoti (i cosiddetti gemelli fratelli che possono essere dello stesso sesso oppure di sesso diverso e magari non essere neanche troppo somiglianti). È anche emerso che, rispetto agli eterosessuali, gli omosessuali hanno più fratelli gay o bisessuali. Questi studi indicano che, nel genere umano, l’omosessualità, oltre che costituzionale è anche ereditaria ed è anche ipotizzabile che la ereditarietà possa esercitare una certa influenza su fattori neuro-ormonali.
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Il termine “omofobia” è stato coniato dallo psicologo statunitense George Weinberg agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e si riferiva al “terrore” di trovarsi vicino ad un omosessuale. Successivamente, e ancora oggi, questa parola indica l’atteggiamento ostile della società e/o dei singoli verso persone omosessuali.
Anomalia, vizio, dissolutezza, devianza, corruzione, depravazione, comportamento contro natura, crimine e così via, sono definizioni decisamente offensive adoperate comunemente per etichettare la omosessualità, in particolare maschile, probabilmente perché quella femminile è sempre stata più discreta, più taciuta e nascosta, insomma caratterizzata da una specie di invisibilità sociale. Certi fattori culturali sono in grado di “facilitare” oppure di “inibire” le espressioni del comportamento sessuale influenzando così la percezione che gli omosessuali hanno di se stessi e il modo di esprimere il loro comportamento sessuale. Nella nostra società occidentale si registra ancora – e anche piuttosto spesso – la paura e il disprezzo per tutto ciò che viene percepito “femminile”, o meglio “effeminato”, negli uomini; sono i maschi omosessuali che di solito vengono percepiti così da eterosessuali e da donne a causa del loro desiderio di intrecciare relazioni sentimentali e/o sessuali con altri uomini. Di conseguenza, tanto più un uomo omosessuale apparirà femminile/effeminato tanto più produrrà negli eterosessuali atteggiamenti derisori quando non ostili o aggressivi. È anche vero che, oltre ai tratti fisici, anche ai tratti del carattere associati alle donne, se percepiti in un maschio, si attribuisce spesso una cifra negativa. Lo stesso, ma al contrario, accade per le donne omosessuali a cui vengono attribuite di solito le caratteristiche classiche degli uomini.
Ai gay vengono inoltre attribuite sottomissione e passività per natura. Ovviamente si tratta di pregiudizi dovuti alla primitiva e rocciosa convinzione che attività, potere, comando siano simboli di mascolinità. La nostra società continua, inoltre, a magnificare l’idea che è sano ciò che consente una integrazione sociale, pertanto si tende ad incoraggiare negli omosessuali, che quindi sono di solito considerati anormali proprio perché non sono eterosessuali, un comportamento socialmente accettabile basato soprattutto su un elevato livello di ipocrisia e sul riserbo assoluto circa il proprio orientamento sessuale. Tutto ciò è comunque un aspetto di come la nostra società sia ancora pervasa da un considerevole livello di omofobia che non è altro se non un vero e proprio pregiudizio sociale.
Nel 1905, Sigmund Freud, in una intervista in difesa degli omosessuali pubblicata sul quotidiano «Die Zeit», dichiarò: «Io ho la ferma convinzione che gli omosessuali non debbano essere trattati come persone malate, dal momento che un orientamento perverso è assai lontano da una condizione di malattia. Ammiriamo studiosi, pensatori, scienziati di cui abbiamo notizie certe circa la loro sessualità e possiamo per questo considerarli malati?». Nel 1915, nel saggio «Pulsioni e loro destini», Freud scrisse che «la indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare dalle altre persone gli omosessuali come gruppo di specie “particolare”».
Nel 1930, inoltre, il fondatore della psicoanalisi firmò un appello rivolto al Reichstag (parlamento tedesco) per l’abrogazione di quella parte del codice penale tedesco che, dal 1871, criminalizzava l’omosessualità e i rapporti omosessuali con la seguente motivazione: «Nel corso di tutta la storia e fra tutti i popoli l’omosessualità è sempre esistita. L’inclinazione sessuale degli omosessuali gli è tanto propria quanto quella degli eterosessuali. Questa legge presenta una grandissima violazione dei diritti umani in quanto non riconosce negli omosessuali la loro sessualità sebbene gli interessi di terzi non siano violati. Gli omosessuali devono adempiere agli stessi doveri civili come chiunque altro».
Nel 1973 la American Psychiatric Association ha cessato di considerare l’omosessualità una patologia o un disturbo della personalità, eliminando il termine “omosessualità” dalla III edizione del DSM («Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichici»). Questa storica decisione è certamente anche frutto dei cambiamenti del clima culturale che dal 1987 ha portato a considerare l’omosessualità una delle varianti non patologiche dell’orientamento sessuale con radici biologiche costituzionali che, manifestandosi fin dalla primissima infanzia, hanno contribuito a renderla più “naturale”.
L’accettazione delle proprie tendenze, viverle senza vergognarsene, è un percorso difficile e faticoso e lo è ancora di più se l’orientamento sessuale viene percepito dalla società, o meglio da una parte di essa, come qualcosa di perverso, peccaminoso, anomalo che meriterebbe un castigo. Malgrado persistano ancora tanti pregiudizi, bisogna riconoscere che, come si registra specialmente nelle grandi città occidentali, sta aumentando la tendenza a considerare l’omosessualità maschile e femminile una delle tante espressioni della sessualità umana. Si tende anche a ritenere retrogrado e dannoso deridere, insultare, allontanare, isolare coloro che non sono conformi agli standard tradizionali, anche a quelli sessuali.
Dagli ultimi decenni del XX secolo si va registrando, insieme ad una crescente tolleranza, la necessità di riconoscere parità di diritti ai cittadini omosessuali anche grazie alla vasta rete di organizzazioni che, in sostegno dei diritti delle persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali), hanno favorito non soltanto il divieto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sulla identità di genere, ma anche il riconoscimento e la legislazione che riguarda le unioni tra persone del medesimo sesso.
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A questo punto vorrei fare un po’ di chiarezza su quanto malauguratamente ed erroneamente viene spesso attribuito agli omosessuali maschi, cioè la tendenza alla pedofilia. La pedofilia consiste nell’avere una forte attrazione erotica con eventuali comportamenti sessuali intensi e ricorrenti nei confronti di bambini. La pedofilia è una anormalità psichiatrica che, insieme ad altre anormalità, fa parte delle parafilie (in greco = accanto all’amore) che in sostanza sono fantasie e comportamenti sessuali atipici, non convenzionali che si discostano da interessi e comportamenti sessuali abituali considerati normali.
Per il Codice penale italiano la pedofilia è una parafilia perseguibile penalmente quando si traduce in uno o più atti commessi da chiunque che, con violenza o minacce oppure mediante abuso di autorità, costringe un minore di età inferiore o pari a 14 anni a compiere o subire atti sessuali.
È stato rilevato da numerosi studi che depressioni e/o dipendenze da sostanze varie sono frequenti in individui pedofili, come anche risultano frequenti i disturbi dovuti a personalità antisociali (sociopatie) e/o ad un passato di abusi sessuali di cui il pedofilo sia stato vittima negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza.
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In conclusione, l’omosessualità non è una patologia né fisica né psichiatrica, pertanto non c’è nessun motivo che giustifichi atteggiamenti ostili, disprezzo, paura, repulsione nei confronti delle persone omosessuali.
Rita M. Ziparo, Fisiologia umana, Università di Roma, La Sapienza 3 marzo 2023
www.sintesidialettica.it/lomosessualita-non-e-una-patologia
RELIGIONE
Dibattito sul post-teismo. In risposta a Vincenzo Pezzino
Seguo, come so e posso, il dibattito per una nuova idea di Dio, in sigla il “post-teismo”. Il punto che mi fa difficoltà, in ciò che leggo e ascolto, è la non personalità di Dio. In qualche occasione ho cercato di dire come sinceramente vedevo. Sono grato di ogni osservazione.
Nell’ultimo intervento che leggo (Vincenzo Pezzino, in Adista Segni nuovi n. 3/23. www.adista.it/articolo/69392 News Ucipem n 947, pag. 35), trovo: «Capisco che Dio non è così “antropomorfo” come l’abbiamo immaginato… È molto più “impersonale”. E questo ci aiuta a capirlo proprio la scienza». Dio è impersonale, non è persona?
Se siamo ancora intimamente persuasi dall’immagine di Dio ricevuta dalla Bibbia, che travalica non poche culture, riconosciamo e sentiamo di essere noi fatti a immagine di Dio; riconosciamo Dio come persona, modello primo del nostro essere persone. Chiamiamo persona il soggetto cosciente di sé e dialogante con le altre persone. Una persona (per quanto sappiamo) è più compiuta delle cose naturali o artificiali. Molti, nel post-teismo, attenti alla nuova fisica che vede nella materia energia ed evoluzione intelligente, arrivano al “panenteismo”, cioè a pensare che Dio è in tutto ciò che è, e tutto è Dio (“Dio, ovvero natura”, diceva Spinoza, 1632-1677). Dio, in questa concezione, non è persona staccata e fuori dalla realtà del mondo. Questa idea vuole giustamente reagire ad immagini opposte di Dio staccato, lontano, fuori, supremo, come del resto già reagisce la rivelazione biblica ed evangelica.
Però, se Dio non è persona, possiamo avere ammirazione per lui, ma non gratitudine, non amore. Possiamo solo gustare la bellezza divina della natura, ma non sentiamo ringraziamento, lode, eukarizo cioè eucaristia, felicità di ricevere e riconoscere nell’intimo un bene, e colui che ti dà il bene. Se Dio non è persona, non c’è preghiera di amore e intimità (non parlo di una preghiera che chieda favori divini).
Noi siamo natura, ma (per quanto sentiamo e sappiamo) la nostra persona emerge sulla natura: tu ammiri l’alba perché è bellezza, ma tu sei di più, perché dici all’alba: «tu sei bellezza». L’alba ti dà bellezza, ma tu ne hai coscienza, le dai nome, lei non dà nome a te. Se tu sei persona-soggetto, è perché Dio è persona: non ci facciamo da soli, ma ci troviamo, con stupore nativo, plasmati da una comunicazione di vita da persona a persona, da volto a volto, da spirito a spirito. Adamo “dà nome” (Genesi 2,19) alle cose, come Dio ha dato nome ad Adamo; dare nome è fare essere, o almeno estrarre dall’indistinto e portare nella coscienza. Adamo “crea” come Dio. Parlarci tra noi è farci essere: se non ci parliamo, è come se non esistessimo.
“Dio nessuno l’ha mai visto” (due volte nella Bibbia cristiana: Giovanni 1,18; 1 Giovanni 4, 12). Dio lo vediamo in Gesù e nell’amarci tra noi, quindi in ogni agire buono. Ma se Dio non è persona vivente in sé e verso di noi persone, allora l’azione di una elemosina o di una carezza vale più di lui, e la bellezza dell’alba è più viva di lui. Quando la Bibbia dice Dio “vivente” vuole distinguerlo dagli idoli morti, e anche dal vederlo solo nelle cose (Deus sive natura). Se mi dite: Dio è il Bene, comincio a capire, mentre invece perdo la realtà di Dio se lui è tutto e solo la natura (panenteismo).
È vero che ci occorre una nuova idea di Dio! Nuova è proprio quella che ci dà Gesù, non la teologia (ellenistica, medievale o postmoderna) che cosifica Dio o nella metafisica, o nella fisica e nella neo-fisica.
La Bibbia e il vangelo parlano un linguaggio simbolico, poetico, che dice una realtà luminosa, meglio delle definizioni. “Nell’alto dei cieli” è poesia-verità e vuol dire più vivo, più buono, più vero di me, di tutti noi. “Onnipotente” è poesia-verità e vuol dire che Dio è più deciso di me, di tutti noi, a fare il bene che può fare, se viene accolto. “Regno di Dio” diceva Gesù per farsi capire, e vuol dire un modo di vivere tra noi nel mondo che realizza tra noi l’amore che Dio ha per noi.
Sarebbe inganno o autoinganno intendere “onnipotente” come risolutore di tutti i mali e problemi; “onnipotente” vuol dire che non mi abbandona mai, che non abbandona l’umanità ai suoi mali. La fede è solo questo, non è aver trovato il biglietto vincente della lotteria universale. Perché fermarsi all’immagine verbale, mitica, “onnipotente” , senza tradurla con intelligenza nel sapere e volere capire lo spirito suo intimo, il suo atteggiamento verso di noi? Come puoi dire che Dio “non interviene” per nulla nella nostra vita? Quando hai un desiderio e un impegno di bene, di giustizia, di amore, sei sicuro che sia tutta opera tua e non ci sia un più-vivo-di-te, che ti anima e ti aggiunge vita?
Enrico Peyretti Adista Segni Nuovi n° 9 11 marzo 2023
www.adista.it/articolo/69630
Oltre le religioni /5. Rivisitare la teologia: quali implicazioni?
Quinta puntata del percorso di riflessione teologica sul post-teismo, nuovo e affascinante volto della ricerca teologica contemporanea, curato da Giusi D’Urso, aderente all’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD). In questo numero un’intervista al teologo Luciano Locatelli, operatore del Centro di primo ascolto della Caritas Diocesana di Bergamo.
Nell’ambito delle varie e svariate riflessioni attualmente in atto in ordine al tema del post-teismo, parto dal presupposto che, in quanto umani, abbiamo sviluppato la capacità di elaborare ed esprimere come valori comuni e condivisi quelle realtà che sono costitutive della nostra esistenza. Non facciamo qui riferimento a tesi o a teorie che esistono solamente nei quadri di riferimento di alcuni pensatori. Ci riferiamo piuttosto a quel complesso di realtà che costituiscono l’esperienza della vita umana e che quindi esistono e si manifestano sempre dove vi è vita umana, ossia in ogni essere umano. Si tratta, in poche parole, di quelle realtà che possono essere sperimentate o possibilmente riconosciute da tutti gli esseri umani.
È proprio su tali realtà costitutive dell’esperienza umana che si fonda quella che, impropriamente, possiamo definire la “religione di Gesù”. Dico impropriamente perché la “religione” di Gesù non è una proposta in più, non fa parte dei tanti prodotti che possiamo trovare sugli scaffali di un ipotetico supermercato delle religioni. Gesù, essenzialmente, e quanto mai scandalosamente, non propone un modello di religione ma un modello di umanità perché il “Dio” che propone Gesù nella sua esperienza non rivendica gelosamente i tratti del Dio trascendente, del Dio che si colloca su un piano così radicalmente diverso da risultare irraggiungibile per qualunque essere umano. Il Dio di Gesù è sicuramente il Dio trascendente (e che altro poteva dire al suo tempo?), per quanto radicalmente “altro” e “oltre” l’immagine che fino ad oggi è stata sostenuta, ma fuso con l’immanente.
In parole povere: il Dio di Gesù non si pone al di fuori, a margine o più in alto dell’uomo, ma si identifica, “si fa prossimo”, “si sporca le mani”, si fonde, in ultima analisi, con tutto ciò che è proprio e comune a ogni essere umano. Già i Padri Conciliari nella “Gaudium et Spes” (GS 22) ribadivano che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». (a questo proposito: che ne abbiamo fatto del Concilio e delle sue provocazioni?). Ne consegue che la “religione” di Gesù non accetta di identificarsi con nessuna cultura, con nessuna manifestazione culturale, pertanto, non è racchiusa, “limitata” da nessuna delle religioni ad oggi note, inclusa quella cristiana.
Papa Francesco non si stanca di ribadire che non stiamo vivendo dentro un’epoca di cambiamenti bensì dentro un cambiamento d’epoca e questa consapevolezza lo porta a consegnarci quelle parole così dense e paradigmatiche che troviamo nel testo dell’enciclica “Laudato si’” al n. 80:
www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html
«Dio, che vuole agire con noi e contare sulla nostra collaborazione, è anche in grado di trarre qualcosa di buono dai mali che noi compiamo, perché “lo Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che sa provvedere a sciogliere i nodi delle vicende umane anche più complesse e impenetrabili”. Egli è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura, e anche questo dà luogo alla legittima autonomia delle realtà terrene. Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, “è la continuazione dell’azione creatrice”. Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo». È un forte invito a non temere il nuovo che nasce, per quanto segnato dai dolori del parto.
Gesù, paradossalmente, come è paradossale il messaggio evangelico, trascende il cristianesimo perché il suo messaggio tocca tutto l’umano e va oltre qualsiasi manifestazione storica o culturale in cui ogni uomo si trova immerso. Abbiamo assistito, nell’arco dei secoli, alla sistematica “demolizione” di questo progetto che ci ha portato alla triste conclusione così ben definita da José Maria Castillo: «abbiamo costruito un cristianesimo nel quale non è più Gesù a dirci come è la religione, ma è la religione che ci dice come è Gesù». E questa “religione” sancisce, una volta per sempre la perfetta divisione e inconciliabilità tra il cosiddetto “piano del divino” e “piano dell’umano”. Assecondando un linguaggio dalle tinte più filosofiche si viene a sottolineare la radicale differenza tra trascendente e immanente.
Ecco dunque come l’incarnazione di Dio in Gesù è stata interpretata e trasmessa unicamente come divinizzazione dell’umano nella continua e quasi ossessiva attenzione a non ribadire con il medesimo vigore che nell’incarnazione di Dio in Gesù si postula anche l’umanizzazione del divino. Questo a dimostrazione di come la cristologia, o le cristologie tradizionali, sono costruite sull’intoccabile presupposto della radicale incompatibilità tra divino e umano.
Se facciamo cuocere tutto questo a fuoco lento il risultato sarà la nascita di quella che viene ritenuta e rivendicata come unica vera religione. Non è questo il luogo per approfondire tale analisi: ci basti solo pensare che quando il cristianesimo si è imposto come unica religione questo cominciò a generare motivi di divisione (fedeli-infedeli, eretici-ortodossi…) dentro l’esperienza di fede e si pose come sostegno a teorie e prassi di dominio nel mondo culturale e politico. Il Vangelo, cioè il Felice Annuncio di Gesù, era finalmente trasformato in religione e, ad maiorem dei gloriam, in religione di Stato. Io ritengo che oggi, più che mai, occorra recuperare l’autentico significato dell’esperienza cristiana che affonda le sue radici nell’esperienza e nello stile di vita annunciato, vissuto e proposto da Gesù. Se vogliamo parlare di “Dio” nel cristianesimo, allora dobbiamo fare un’inversione a U nel nostro percorso teologico e spirituale e impariamo pertanto a parlare di Dio a partire da Gesù e non di Gesù a partire da Dio. Ho volutamente utilizzato il verbo “parlare” anche se mi parrebbe più opportuno utilizzare il verbo “balbettare” perché, di fatto, il problema non si colloca tanto nella sfera dell’ontologia (chi è Dio?) quanto piuttosto in quello dell’epistemologia, cioè al nostro approccio al “problema Dio”, ciò che noi possiamo effettivamente conoscere su Dio a partire dalla rivelazione che ci è stata fatta in Gesù, ossia al nostro metodo di “approccio” al “problema Dio”.
Questa lunga premessa mi è servita per offrire un tentativo di risposta alla domanda iniziale circa le conseguenze emergenti da una rivisitazione della teologia nella vita della Chiesa, nel suo magistero. Il recupero di una cristologia non solamente preoccupata della riflessione dogmatica quanto piuttosto orientata su una migliore comprensione evangelica indirizzerà la vita della comunità di coloro che si riconoscono discepole e discepoli di Gesù nella scelta di stili di vita che diano nuovo ossigeno alla Via proposta dal Maestro. È pur vero che ogni comunità umana, di qualsiasi genere essa sia, abbisogna di un minimo di struttura. Ma per la comunità cristiana questo deve contenere lo stesso afflato e la stessa cura per la vita in ogni sua forma come fu per Gesù di Nazareth, preoccupato più per il ben-essere e la felicità delle persone che incontrava che non di altro.
In secondo luogo il vissuto quotidiano dell’esperienza ecclesiale dovrà farsi e continuamente rifarsi nel confronto con lo spazio e il tempo dell’uomo. La preoccupazione di “trasmettere” esclusivamente una dottrina diventa la tomba stessa della dottrina quando questa resta slegata dallo spazio e dal tempo dell’uomo cui si propone. Questo è anche il grande insegnamento che ci viene dalla voce della scrittura correttamente ascoltata, letta e interpretata. La Bibbia mostra e trasmette un’esperienza vitale e concreta di una relazione narrata. La “preoccupazione” della Bibbia non è quella, come spesso ed erroneamente si è creduto o si è imposto a credere, di trasmettere dei contenuti teologici, una dottrina su Dio. Il percorso biblico assume i tratti di una catechesi narrativa, che tocca la vita e le relazioni tra gli uomini e tra questi e la loro visione di Dio. La Bibbia non trasmette Dio, ma il tentativo di una certa parte dell’umanità di creare una relazione con quella realtà che definiamo “Dio”.
È la narrazione di un’esperienza che diventa, in un certo qual modo, paradigmatica per l’umanità, in particolare la narrazione della vita di Gesù e del suo modo concreto di vivere l’esistenza e di condividerne tutti i suoi aspetti, significativamente quelli segnati da maggiori fragilità e sofferenza. Occorre dunque che l’esperienza ecclesiale divenga nuovamente attrattiva e affascinante come la parola e la vita di colui, Gesù, al quale essa dice di ispirarsi. Una teologia narrativa, e quindi non esclusivamente speculativa, aprirà spazi di relazione più autenticamente umana nella tavolozza di colori che compongono l’umanità intera nelle sue espressioni culturali, sessuali, religiose e via discorrendo.
Una Chiesa che si presenta e si percepisce più come struttura che non come comunità, una Chiesa che si costruisce più sulle strutture, da ogni punto di vista e in ogni campo, che non sulle relazioni è destinata a terminare, a disgregarsi. Per questo la comunità ecclesiale di domani, ma non un domani troppo in là, deve trovare il coraggio di smettere le vesti che oggi la caratterizzano e rivestirsi della semplice umanità che era l’habitus proprio di Gesù. Una Chiesa che fa del “sacro” il baluardo da difendere nei confronti di un “profano” da cui si sente “attaccata” è destinata a perire in tempi rapidi. I numeri, e la matematica non è un’opinione, già parlano e indicano questa direzione.
In questo contesto, sempre nell’ambito delle conseguenze di una rilettura delle categorie teologiche che oggi costituiscono l’impalcatura che regge l’attuale esperienza ecclesiale, occorre attuare una comprensione altra di ciò che oggi costituisce tutto l’apparato relativo a questi simboli che sono i Sacramenti, in particolare quello dell’Ordine. Il vissuto di Gesù critica, di fatto, in maniera irruente e talvolta rude (per le orecchie del clero) il concetto di sacerdozio come mediazione del sacro. Una Chiesa che vuol vivere, e non sopravvivere, dentro l’umanità, deve trovare il coraggio di abbandonare “la sottana clericale” e rivestirsi del grembiule del servizio, unico indumento sacro, a quanto risulta, indossato da Gesù in un contesto celebrativo.
Ne consegue che anche la liturgia, e le sue espressioni liturgico-sacramentali, devono diventare espressione di una comunità che si riunisce in un luogo e in un tempo ben precisi: come possono formule e preghiere nate millenni fa parlare e raccontare all’uomo di oggi? Il linguaggio liturgico risulta pesantemente debitore di una tradizione teologica che, per quanto adatta ai tempi in cui è nata, oggi utilizza categorie semantiche che non raccontano nulla o quasi nulla all’uomo di oggi. Come pretendere di “dire” Dio oggi, come chiedere a “Dio” di “dirsi” nel linguaggio liturgico attualmente in uso? Sarebbe come imporre a chi accetta di seguire un rito liturgico di utilizzare il volgare di Dante: sublime, ma non è la lingua del nostro oggi.
Sono tanti i temi che emergono se ci volgiamo seriamente, ma anche serenamente, verso l’esperienza e la vita di Gesù per quanto tramandata dai testi in nostro possesso. Imparare a comprendere che non siamo più immersi in un paradigma culturale statico bensì dinamico ci aiuterebbe a muoverci non sopra, non di lato, ma insieme all’umanità intera. Una Chiesa che si pone a priori in difesa è una Chiesa che si auto isola, che si esclude da un proficuo dialogo con tutte quelle istanze che lavorano per il bene dell’umanità. Gesù si è sempre confrontato liberamente con tutti. Ma ciò che sorprende in lui è il fatto che si è scagliato in maniera irruenta contro tutti i presunti “possessori e conoscitori” di Dio, ossia i professionisti del sacro.
È proprio questo che la Chiesa deve ritrovare: smettere di pensarsi come detentrice del dominio del sacro e imparare a comunicare e a camminare con l’umanità al fine di arrivare a coltivare quella consapevolezza in cui ciascuno ritrova la propria identità «nell’amor che muove il sole e l’altre stelle».
Luciano Locatelli (α1963)-Bergamo Adista Segni Nuovi n° 9 11 marzo 2023
www.adista.it/articolo/69629
RIFLESSIONI
Sui migranti restiamo “italiani brava gente” ma se perdiamo la pietas tradiamo noi stessi
Penso sia più che legittimo il desiderio di proteggere la nostra nazione e la nostra identità di italiani, perché ritengo naturale la paura che ci coglie nel vedere intere zone delle nostre città ormai non più nostre ma dominio di altre etnie e di altre civiltà. Si tratta di una paura radicata nella biologia, coincidente con quel medesimo istinto che porta gli animali a proteggere il loro territorio, e dimenticarla significa ignorare la natura e quindi produrre necessariamente cattiva politica.
Se però, per ascoltare la natura, si calpesta la cultura; se però, per rimanere “italiani”, si corre il rischio di non essere più “umani”, e in qualche occasione non lo si è più davvero, allora è la catastrofe. A che serve infatti essere italiani, se, essendolo, non si è anche e prima di tutto umani? Il concetto di italianità si inscrive intrinsecamente in quello di umanità, ne è una declinazione. C’è di sicuro un bel po’ di retorica nel detto «italiani brava gente», perché non è per nulla vero che noi siamo sempre brava gente. In esso però è contenuto anche l’ideale a cui noi in quanto italiani intendiamo aspirare: cioè anzitutto quello di essere “bravi”, e bravi non nel senso di precisi, di forti, di irreprensibili, ma nel senso di umani. Magari imprecisi, ma accoglienti. Magari ritardatari, ma generosi. Magari indisciplinati, ma ospitali. Ed è proprio per questo che se, per rimanere italiani, calpestiamo il nostro essere umani, la nostra sconfitta è totale.
Dico totale perché perdiamo rispetto a noi stessi e alla nostra più profonda identità. Veniamo da lontano noi italiani, siamo antichi. I nostri padri latini, oltre duemila e cinquecento anni fa, ponevano a fondamento del loro vivere l’insieme di valori che chiamavano mos maiorum, “l’usanza degli antenati”, il modo di essere di coloro grazie a cui essi erano venuti al mondo. E tra i loro valori fondamentali vi era, in posizione privilegiata, ciò che essi chiamavano pietas, qualcosa di più della nostra semplice pietà: pietas infatti è la capacità di empatia verso chi soffre, sapendo fare propria la sofferenza altrui.
È chiaro che a fondamento del nostro stare al mondo, e ancor più a fondamento del governo di uno Stato, non vi può essere solo la pietas e infatti i nostri padri conoscevano anche altri valori quali virtus, maiestas, fides, gravitas (virtù, dignità, fiducia, severità). Ma la pietas è essenziale per generare nelle coscienze quel modo di guardare il mondo che è il più nobile di tutti, riassunto così dalla celebre sentenza di Terenzio [Publio Terenzio Afro α190-ω159 a.C.]: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. Ovvero: «Sono un uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo». Traducibile anche: «Sono un essere umano, non rimango indifferente a nulla che riguardi altri esseri umani».
Per questo io penso che se c’è oggi una nazione che ha il dovere, anzitutto per una questione genetica, di esercitare una politica all’insegna della non-indifferenza rispetto all’umano, questa nazione è l’Italia. Se non vuole tradire sé stessa. Vi sono popoli che si possono permettere di essere indifferenti? Penso di no, ma a maggior ragione noi non ce lo possiamo permettere, perché siamo gli eredi diretti della cultura classica e cristiana, e quando non abbiamo pietas cadiamo in plateale contraddizione con la nostra essenza. E stiamo male. Diventiamo cattivi. Anzi, captivi, che in latino significa “prigionieri”. Non accogliendo gli altri, imprigioniamo noi.
Per il più grande poeta latino, Virgilio, [α190-ω159 a.C.] mantovano, eletto da Dante a guida e padre, provare pietà per la sofferenza altrui è il contrassegno più nobile di un essere umano. E se alla classicità aggiungiamo la cultura cristiana, da cui pure ognuno di noi, credente o non-credente, proviene, il quadro è completo: essere italiani, nel senso morale e non solo geografico del termine, significa essere il contrario di indifferenti. Significa prendere parte, partecipare, aiutare. Significa guardare, salvare, uscire allo scoperto e stringere la mano tesa verso di noi. Soprattutto la mano di chi è in mare in balìa della forza delle onde, perché noi più di altri popoli viviamo del mare e con il mare.
Prendendo a prestito un modo di dire americano e parlando della sua scuola di Barbiana sull’Appennino fiorentino, don Lorenzo Milani [α1923-ω1967] esaltava così il più bello spirito italiano: «Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I care”. È il motto intraducibile dei giovani americani
migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore“. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”».
Oggi sono le neuroscienze a insegnarci che l’empatia è strettamente associata alla natura umana universale. Se voi sorridete a un neonato è molto probabile che anche lui vi sorrida, se voi avete dieci neonati in una stanza di ospedale e uno di loro inizia a piangere è probabile che anche gli altri lo facciano. Lo stesso vale per noi adulti che, entrando in un ambiente nervoso oppure sereno, ci conformiamo istintivamente rispetto a esso. Non ci pensiamo, la condizione arriva da sé, perché noi siamo contagiabili non solo biologicamente ma anche emotivamente: possiamo ricevere e trasmettere non solo virus e batteri, ma anche emozioni e sentimenti.
La scoperta dei “neuroni specchio“, avvenuta a Parma nel 1992 e poi mondialmente confermata, dimostra che in noi esiste una predisposizione naturale a identificarsi con l’altro, a vedere che l’altro è “come me”. Per cui, se lo vedo compiere un gesto o subirlo, inizio a provare dentro di me le sue stesse emozioni. Mi immedesimo con lui, il suo pathos diviene il mio pathos. Così anche la sua morte per mare diviene anche la mia, la morte di una parte di me. Muore la mia pietas.
Pietà l’è morta. Per questo alcuni di noi l’altro giorno hanno tirato dei peluche contro le auto dei politici: era per protestare, facendolo nel nome della politica migliore, quella che sa trasmettere emozioni e sentimenti positivi, e soprattutto nel nome dei cento e più morti annegati, dei loro familiari, e anche di se stessi e di tutti noi. Italiani.
Vito Mancuso “La Stampa” 11 marzo 2023
www.lastampa.it/politica/2023/03/11/news/naufragio_migranti_cutro_indifferenza_pietas-12687291
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230311mancuso.pdf
SACRAMENTI
Il sacramento della riconciliazione non soddisfa i canoni dell’umanità del tempo
Jorge Costadoat, gesuita, direttore del Centro Teológico Manuel Larraín (Cile), ha insegnato per oltre un ventennio presso la Pontificia Universidad Católica di Santiago del Cile (nell’aprile 2015, non è gli è stata però riconfermata dalle autorità ecclesiastiche la missio canonica per l’insegnamento nella Facoltà di teologia), ha scritto questo articolo per il sito di informazione religiosa Religión Digital (www.religiondigital.com).L’articolo è stato pubblicato il 3 marzo 2023 con il titolo “El sacramento de la reconciliación no cumple con los estándares de humanidad de la época” e nella sua versione originale è consultabile a questo link.
www.religiondigital.org/cristianismo_en_construccion/Jorge-Costadoat-sacramento-reconciliacion-estandares-penitencia-confesion_7_2538116167.html
La catastrofe relativa alla fiducia dei fedeli nei ministri consacrati a causa dei loro abusi sessuali, di potere e di coscienza, e del loro successivo insabbiamento, richiede attualmente una revisione degli ambiti di esercizio dell’ufficio del ministero presbiterale. I cattolici e le cattoliche sono giustamente arrabbiati. Sono necessarie conversioni dello sguardo e del cuore. Ma servono soprattutto riforme istituzionali e procedurali.
Questo vale per il sacramento della riconciliazione. La confessione è uno strumento pericoloso. Lo è sempre stato, solo che in altri tempi non richiamava l’attenzione di nessuno il fatto che lo fosse. Attualmente, soprattutto quando la Chiesa vuole fare passi avanti nella sinodalità, è necessario valutare l’esercizio di questo sacramento; ma soprattutto occorre rivedere questo strumento in se stesso.
È un fatto largamente noto a preti e fedeli che attraverso la confessione si commettono abusi di varia gravità. I laici e le laiche lo sanno. Più di uno, in più di un’occasione, ha avuto una pessima esperienza. Non mi riferisco ai casi più preoccupanti come quello dell’adescamento (richiesta sessuale). Hanno potuto passare da un prete all’altro, a seconda dei peccati che questi è abituato ad assolvere o della misericordia che ha, fino a trovare la persona con la quale si sentono a loro agio. È quello che molte donne hanno dovuto fare a causa della pillola. Noi preti, da parte nostra, abbiamo dovuto tirare su persone che qualche prete dieci, venti o trent’anni fa ha maltrattato con la sua asprezza o con qualche rimprovero. Oppure “dare permessi” alle persone di ricevere la comunione durante la messa.
Come si può evitare che questi fatti continuino a verificarsi? Si dirà che non ci si dovrebbe preoccupare così tanto. La gente non si confessa quasi più. Ma si dovrà permettere che il sacramento sia semplicemente considerato inutile? Prima che accada una cosa del genere, bisogna evitare che ci siano persone che attualmente si sentano obbligate a confessarsi. Occorre indagare come una modalità di relazione tra i ministri ed i fedeli impedisca il loro incontro con Dio, anzi lo danneggi, invece di facilitarlo.
Il perdono è un aspetto chiave nel cristianesimo. Ma la Chiesa non ha un modo unico di offrirlo. Ad esempio, nella stessa Eucaristia ci sono almeno due momenti di perdono, all’inizio della Messa e quando i partecipanti si donano reciprocamente la pace. Le autorità ecclesiastiche fanno bene il loro lavoro quando esortano i cattolici a chiedere reciprocamente perdono; o quando fanno un appello per la riconciliazione nella società. Ma può ancora essere considerato normale il fatto che una persona debba rivelare la propria intimità ad un’altra? Non è davvero un’assurdità aspettarsi che una cristiana o un cristiano aprano il loro cuore a qualcuno?
È stato normale anni fa. Non lo è più oggi. Nella cultura odierna l’intimità delle persone è un aspetto della loro dignità umana. L’intimità deve essere condivisa solo in piena libertà. Si potrà dire che in quest’epoca ci si reca volontariamente da psicologi ai quali le persone raccontano tutto. Ma la natura dell’obbligatorietà in ambo i casi è molto diversa.
E se la confessione fosse assolutamente volontaria? In questo caso la Chiesa dovrebbe giustificare come autorizzi l’esistenza di uno strumento religioso, come il sacramento della riconciliazione, nella consapevolezza dei rischi citati. Nel migliore dei casi, dovrebbe formare i ministri con conoscenze psicologiche e teologiche, oltre a stabilire controlli su questa attività, come avviene con l’esercizio di altre professioni.
Il processo sinodale in corso richiede il superamento delle asimmetrie ecclesiastiche che impediscono l’ecclesialità, come quella che si verifica nella confessione, originata a sua volta dal sacramento dell’ordine che colloca i ministri in un grado gerarchico superiore. La triade dei sacramenti dell’eucaristia, della riconciliazione e dell’ordine costituisce solitamente un ambito all’interno del quale si comprometteva la libertà dei figli e delle figlie di Dio. La loro libertà e la loro dignità. Va ricordato, invece, che nell’intimità Dio ha chiesto a Maria di essere la madre di Gesù. Lo ha fatto sapendo che la sua risposta avrebbe potuto essere negativa. La libertà è uno dei nomi del cristianesimo (Gal 5,1).
Quanto sta accadendo nella Chiesa riguardo al sacramento della riconciliazione è preoccupante. Questo è un aspetto, una questione o una dimensione di un divario molto profondo tra le pratiche sacramentali e l’urgenza culturale di nuovi valori. Molte persone oggi si aspettano dalla loro Chiesa strumenti che li aiutino a sviluppare un cristianesimo vivo. Non sono disposti a far passare necessariamente la loro fede in Cristo attrave+2rso un “uomo sacro”, che si chiami prete o vescovo. La “sacerdotalizzazione” della Chiesa, in molti aspetti, è arrivata alla fine. Il sacramento della riconciliazione non corrisponde ai canoni dell’umanità del tempo.
Jorge Costadoat 05 marzo 2023 traduzione di Lorenzo Tommaselli
www.adista.it/articolo/69644
Penitenza: la sua teologia e le sue forme
Un Convegno padovano sulla “terza forma della penitenza” è il contesto in cui sono maturate le riflessioni che mi ha mandato S. Tarantelli. Si tratta di un testo molto lucido e appassionato, che dimostra una competenza profonda, utile per considerare meglio in che modo impostare la comprensione teologica del sacramento, delle sue crisi e delle sue opportunità. Ringrazio Sr Silvia Tarantelli per il testo, che è tra le cose più limpide che abbia letto negli ultimi tempi sul tema. (ag)
Per un avanzamento del discernimento ecclesiale e teologico sul sacramento della penitenza. A margine della Giornata di studio interfacoltà “Ripensare la prassi penitenziale” (Padova, 27 febbraio 2023)
La Facoltà Teologica del Triveneto, la Facoltà di Diritto Canonico San Pio X e l’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina hanno organizzato lo scorso 27 febbraio una giornata di studio che potesse raccogliere e rilanciare il percorso di ricerca congiunto iniziato nel 2021, con l’obiettivo di rimettere a tema le problematiche della prassi penitenziale. Punto prospettico per leggere la questione: l’utilizzo della III forma del rito durante le fasi più acute della pandemia, come prassi da valutare e interrogare
www.fttr.it/wp-content/uploads/2022/12/FTTR-pieghevole-Ripensare-la-prassi-penitenziale.pdf
La partecipazione è stata numerosa e vivace, lasciando percepire il bisogno di ulteriori tempi di ripresa delle tematiche. L’eco provocata dall’ascolto dagli interventi dei relatori e dell’assemblea prende qui la forma di alcune possibili riletture e rilanci, per il proseguimento del lavoro nelle comunità accademiche ed ecclesiali. Mi sembra utile segnalare anzitutto alcune delle risonanze dei presenti, espresse ad alta voce come domande ai relatori, o come condivisioni e confronti a margine.
Centrale è emerso il bisogno delle persone di sentirsi esposte all’incondizionatezza dell’amore misericordioso di Dio, che possa plasmare tanto la forma della chiesa quanto la forma dei riti. L’attenuazione dell’accento giudiziale del sacramento, a motivo dell’assenza della confessione individuale, e della presenza della sola assoluzione generale, inserita spesso in contesti comunitari oranti, ha portato alla luce il bisogno che la qualità sacramentale della chiesa e dei suoi riti di perdono sia un efficace sporgersi sulla gratuita misericordia di Dio. In connessione, non a caso, è emerso il disagio, se non l’insofferenza di fedeli e presbiteri proprio relativamente agli elementi chiave della forma ordinaria della penitenza (la confessione individuale e la assoluzione), per le tracce lasciate in ciascuno da un sentire inautentico, formalistico, se non gravemente invadente. Disagio, tuttavia, provato da alcuni, inversamente, per l’assenza della confessione individuale, che apriva all’incertezza circa la validità dell’assoluzione ricevuta. In questa tensione, appare centrale il bisogno di ricomprendere e ricollocare l’aspetto giuridico del sacramento della penitenza, e il conseguente diffuso sconcerto per la possibilità che ancora oggi, alla luce del magistero di papa Francesco, sia possibile agire, tanto nella curia romana, quanto nelle accademie, senza operare una riconnessione della mens canonistica con il valore teologico della liturgia e pastorale della riforma della liturgia e della chiesa promossa dal Vaticano II, e con l’invocato approccio interdisciplinare e transdisciplinare della ricerca. Infine, forte è emerso il bisogno di una riconsiderazione dei soggetti ministeriali implicati nella prassi penitenziale, per una comunità che, viva e reale, sia tutta partecipe di quanto si annuncia e si celebra.
A commento di questa risonanza, colloco alcune considerazioni.
- La prima e fondamentale è la seguente: il sacramento della penitenza ha già ricevuto una elaborazione teologica compiuta e chiara su ciò che gli è proprio, e nonostante gli sia proprio, manca, risulta non espresso e non esperibile nelle sue forme rituali. La sua fondamentale e inscindibile natura teologica ed ecclesiale, la sua strutturale connessione con le dinamiche di conversione proprie della vita cristiana (“virtù di penitenza”), il suo carattere laborioso, la sua identità in connessione con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, la sua processualità e gradualità che invocano tempi, spazi e corpi di penitenza, la pluriformità che bene corrisponde alla storia del sacramento, ed è chiesta dalla sostanziale differenza tra confessione di devozione e confessione del battezzato gravemente peccatore. Tutto questo nel secolo scorso è stato profondamente elaborato a livello teologico, e confermato dalla voce di chi ha lavorato alla riforma del rito promossa dal concilio e ne ha valutato l’utilizzo nel sinodo dei vescovi del 1983. La crisi di identità della penitenza, che la mostra s-naturata, è un dato, e continuare a ripeterlo non sembra particolarmente fruttuoso nel promuovere un avanzamento.
Da questa constatazione, si possono aprire almeno queste due piste di lavoro.
1. Appare necessario promuovere, per la coscienza ecclesiale e teologica relativa al sacramento della penitenza, un processo di riconciliazione con la sua storia recente, in vista dello scioglimento del blocco che impedisce la ricomposizione della frattura tra teologia del rito e forma del rito. Gli studi storici e teologici hanno mostrato come, nel caso di questo sacramento, il processo di riforma conciliare sia andato incontro ad un sostanziale fallimento, bloccando il rito (che genera la mens teologica, e non ne è solo generato) nella sua forma tridentina. Il processo sinodale in corso da un lato, e gli interventi magisteriali di Francesco in materia liturgica, per la promozione di inculturazione ed adeguamenti, per la restituzione di competenze e di autorità alle conferenze episcopali locali, per il chiarimento dell’inderogabile autorità magisteriale del Vaticano II (cf Magnum principium, Traditionis custodes e Desiderio desideravi) appaiono come contesto opportuno perché la parresia episcopale e locale possa esprimersi in vista di revisioni ed adattamenti legittimi chiesti dallo “stato di morte” – così si è detto nella giornata – di questo sacramento. Se non ora, quando?
. 2. Data la chiarezza dell’identificazione delle problematiche del sacramento della penitenza a livello teologico, apparirebbe più utile considerale come “dati” e lavorare per promuovere affondi possibili sulle singole questioni, che consentano alla ricerca di avanzare e alla comunità di recepirle, anche “solo” nella forma di attenzioni celebrative già possibili, ancor prima di scomodare sperimentazioni pastorali. Esemplifico quattro ambiti che nel dibattito sono emersi con rilevanza.
- Se chiediamo al sacramento della penitenza di esporci all’incondizionatezza della misericordia di Dio, chiediamo qualcosa che non gli è primariamente proprio, e che esso non è nelle condizioni di manifestare in modo chiaro. Tale esperienza di grazia appartiene fondativamente ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, mentre la penitenza è fondativamente laboriosa, vede una inedita centralità del soggetto penitente (i suoi atti sono materia e la sua soggettualità ministeriale) perché si manifesti l’iniziativa perdonante di Dio. Occorre lasciare alla penitenza di essere l’esperienza della riconciliazione con Dio nel lavoro di riparazione del proprio volto di battezzato e del volto ecclesiale entrambi sfigurati dal peccato, e farsi carico della constatazione che le forme dei riti (e della chiesa) sembrano non riuscire ad introdurre all’esperienza imprescindibile del volto misericordioso di Dio. Che deve poter trovare risposta, non primariamente e fondativamente nel sacramento della penitenza.
- Al tempo stesso, occorre compiere un discernimento sull’identità di questa invocazione. Il bisogno di sentirsi esposti all’incondizionatezza della misericordia di Dio è sensus fidei, o è “perdono facile” (che per Ricoeur [α1913-ω2005] è fuga e rimozione), che esprime nodi culturali, fragilità antropologiche, riduzioni giuridiche-meccanicistiche che si associano e si nascondono alla nostra consapevolezza? Una sola situazione ecclesiale, particolarmente evidente, ci consente di riconoscere che, se fossimo noi parte lesa – e lo siamo – non saremmo disposti ad un perdono “incondizionato”, perché non sarebbe vero (e neanche “tradizionale”). Quanto sta accadendo nella crisi ecclesiale a motivo degli abusi sessuali commessi su minori e persone vulnerabili mostra chiaramente i danni umani, ecclesiali e teologici di un perdono facile, ridotto ad assoluzione, e vede la società civile recuperare gli atti tipici dei processi penitenziali, fuori dai quali non può esserci assunzione di responsabilità: riconoscimento della colpa e del danno, risarcimento, riparazione, presa in carico delle modifiche strutturali necessarie perché gli atti non si ripetano. E poiché siamo tutti, membri della chiesa, parti lese, data la natura ecclesiale del peccato, possiamo intuire come nel sacramento della penitenza non sia in gioco anzitutto l’incondizionatezza del perdono di Dio quanto il suo manifestarsi nel nostro laborioso riparare al male che fa male, a noi e a chi sta attorno a noi.
- E’ possibile parlare sensatamente di natura ecclesiale del sacramento della penitenza a partire da un contesto storico-culturale-sociale, come il nostro, in cui le appartenenze e le identità sono deboli, e anche le forme ecclesiali, non solo quelle rituali, appaiono sconnesse dalle identità che la teologia mette a fuoco? Quale esperienza ecclesiale costituisce il substrato da cui riflettiamo sulla penitenza e sulla sua natura ecclesiale, mentre la comunità non appare ancora nella sua soggettualità, possibile solo nella forma della pluriministerialità e di una leadership condivisa? Lo “stato di penitenza” – così si è detto nella giornata – a cui ci ha esposti la pandemia, in particolare il primo lockdown, infatti, è stato costituito più dall’insostenibile urto con la morte e la fragilità rimosse, come questione ampiamente umana e culturale, che con una condizione di conversione ecclesiale. Se non fosse così, le comunità ecclesiali sarebbero rifiorite grazie alla pandemia, e invece manifestano grandi difficoltà, a meno che non abbiano potuto connettere questa condizione esistenziale con l’identità della propria comunità di appartenenza.
- Il sacramento della penitenza funziona quando risponde al bisogno di un contatto intimo e personale a livello relazionale, che consente profondità e crescita. Tuttavia, anche questa figura del sacramento non le è propria, in modo primario e fondativo, e lo ha esposto nella storia ad una sorta di onnipotenza associata al ministero della direzione spirituale, che invece non ha qualità sacramentale. E anche in questo caso la crisi degli abusi mostra a quali deformazioni si è potuti arrivare, con atti compiuti proprio in forza della potenza della giustificazione teologica e dell’autorità derivante dalla parola “spirituale” del ministro ordinato nella confessione sacramentale.
Queste, ed altre tante possibili considerazioni, invocano la prosecuzione del lavoro ecclesiale e teologico, perché i bisogni e gli appelli fondamentali del popolo di Dio trovino risposta, ma con adeguata collocazione nelle differenti e specifiche prassi ecclesiali, guidati da una sorta di unicuique suum. Alla penitenza sta il suo avere le proprie sorti intimamente legate alle sorti dei sacramenti e dei processi dell’iniziazione cristiana: questa è la sua natura, da sempre, da cui ripartire e continuare a lavorare.
Silvia Tarantelli blog “Come se non” di Andrea Grillo 1° marzo 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/penitenza-la-sua-teologia-e-le-sue-forme-di-silvia-tarantelli
SINODO
Il cardinale Mario Grech all’Assemblea continentale sinodale dell’Asia a Bangkok
Grech: con il Sinodo, Francesco vuol realizzare la Chiesa del Concilio Vaticano II. Protagonista nella vita della Chiesa è lo Spirito Santo e i Pastori, insieme a tutto il popolo di Dio, devono aprirsi al suo ascolto per discernere i passi da fare. È ciò che Papa Francesco sta dicendo con il suo magistero fin dall’inizio del pontificato e, in particolare, attraverso il percorso sinodale da lui voluto. Lo afferma nella nostra intervista il Segretario generale del Sinodo che sottolinea tre aspetti della sinodalità: comunione, partecipazione e missione
Il decimo anniversario di pontificato di Francesco si situa nel contesto del percorso sinodale che impegna tutta la Chiesa cattolica in preparazione alle due Assemblee dei vescovi nell’ottobre 2023 e nell’ottobre 2024 in Vaticano. La sinodalità in ambito ecclesiale e anche nelle cose del mondo, è per il cardinale Mario Grech ciò a cui converge l’intero magistero del Papa, al cui centro ci sono la comunione e la fratellanza universale. Ma, sottolinea ai nostri microfoni, il Segretario generale del Sinodo, la sinodalità non è una novità, una dimensione che Francesco vuole aggiungere alla Chiesa ma è tornare alle origini della Chiesa stessa, a come le comunità ecclesiali hanno vissuto nel primo millennio della sua storia.
Ascolta l’intervista https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2023/03/09/16/136973213_F136973213.mp3
Eminenza, 10 anni di pontificato fin qui, per Papa Francesco, 10 anni in cui sono successe tante cose, tante sono cambiate e le sfide si sono moltiplicate nella Chiesa e nel mondo. Quella del Papa è riconosciuta, da credenti e non credenti, come la voce o una delle voci più autorevoli a livello internazionale, anche se troppo poco ascoltata. Che cosa dei gesti e delle parole di Francesco lei desidera sottolineare in occasione di questo anniversario?
Una frase che mi ha colpito e che spesso mi fa riflettere è una frase tratta dall’enciclica “Fratelli tutti”, dove il Santo Padre dice che oggi “nessuno si salva da solo” (n.32). Questa affermazione non è valida unicamente nella Chiesa, ma va anche declinata nella vita quotidiana. Credo infatti che in un mondo frammentato, in un mondo di conflitti e di individualismo, il Santo Padre – ispirato naturalmente da Gesù e dal suo Vangelo – sta cercando di creare più comunione tra gli uomini e le donne del nostro tempo: e questo, lo ripeto, sia nel mondo secolare che nella Chiesa. Questa è la sfida, certo non molto facile, che ha impegnato il Papa in questi anni. Papa Francesco sta sostenendo la Chiesa nel fare dei passi, piccoli passi, in questa direzione proprio per aiutare tanto la comunità ecclesiale che la comunità internazionale a mettersi insieme per poter poi affrontare le sfide dell’umanità di oggi.
A proposito di sfide: i poveri, i migranti, le ingiustizie dell’attuale sistema economico, le disuguaglianze, la cura del creato, la pace, sono solo alcuni degli aspetti ricorrenti del pontificato di Papa Francesco che delineano una Chiesa che ha molto da dire al mondo e che vuole essere efficace per realizzare, come lei diceva, un’umanità più fraterna. E lo vediamo in particolare nelle due encicliche, “Laudato sì” e “Fratelli tutti”…
Quello che lei sta sottolineando conferma quanto il Santo Padre è deciso a camminare con la gente. Papa Francesco ci invita continuamente a riflettere sulla sinodalità. Ma la sinodalità non è una sfida solo per la Chiesa, ma lo è anche per l’intera umanità. Con questo voglio dire che il Santo Padre ci invita a camminare insieme e ad ascoltare tutti, nessuno escluso, comprese le persone che sono in queste difficoltà. Forse possiamo dire anche che il Santo Padre sta dando una voce a chi è povero, a chi sta soffrendo l’ingiustizia, a chi si sente emarginato. Un’altra frase che mi viene in mente è, in realtà, l’insegnamento di Papa Francesco quando parla della periferia.
Lei stessa, nella sua domanda, ha sottolineato casi periferici, no? Papa Francesco ricorda spesso che i cambiamenti nella storia non sono partiti dal centro ma dalla periferia perché chi sta nella periferia può vedere la realtà in modo molto più oggettivo di quelli che stanno al centro. Con questa affermazione il Papa riconosce di fatto la dignità e il valore di ogni persona e in modo particolare di quelle “categorie” di persone che lei ha sottolineato. Qui, inoltre, credo che Francesco stia mandando un messaggio anche a quelli che detengono il potere nel mondo, stavo per dire che hanno anche la chiamata a servire l’uomo nella politica. Con i suoi interventi, con le sue scelte, con le sue azioni il Papa sta dicendo: mettete al centro anche queste persone perché nessuno va dimenticato, in modo particolare quelle che stanno soffrendo. Di fronte a questa sfida il Santo Padre ci sta dicendo di non dimenticare nessuno, perché tutti, anche i più piccoli, hanno qualcosa da contribuire per il bene del mondo.
Abbiamo guardato fuori, guardando ora dentro la Chiesa, anche qui i richiami alla conversione e al cambiamento sono forti, contro il maschilismo e il clericalismo, contro gli abusi, contro la tentazione del potere e della mondanità, per l’unità nella diversità, per un ritorno ad vita più coerente con il Vangelo…
Questa è la conversione massima che il Santo Padre declina in varie categorie: conversione spirituale, conversione ecologica, conversione pastorale, conversione sinodale. Il cristiano è in questa dinamica di conversione e guai se noi non ci ricordiamo che stiamo in questo processo di conversione. E il Santo Padre, com’è suo dovere, cerca di ricordarci di questa chiamata che noi abbiamo, perché se noi non entriamo in questo processo di conversione, non possiamo fare un passo in avanti nella nostra chiamata anche alla santità e la conversione alla santità coinvolge tutti gli aspetti della vita ecclesiale e della vita umana.
Cardinale Grech, lei è il Segretario generale del Sinodo che ha per tema la sinodalità. Secondo lei l’idea di una Chiesa in cui si vive lo stile sinodale è una “novità” o è qualcosa di maturato da tempo in Papa Francesco? E che impressione ha lei del percorso sinodale intrapreso dalla Chiesa al punto in cui siamo arrivati?
Mi trovavo all’Assemblea sinodale continentale per le Chiese orientali e, un giorno, un vescovo mi ha detto: “Questo percorso sinodale è un percorso penitenziale”. Per dire la verità queste parole mi hanno un po’ colpito. Perché penitenziale? E lui ha risposto: “Perché la sinodalità è un gioiello che la Chiesa aveva nel primo millennio, ma noi l’abbiamo perso, l’abbiamo trascurato”. Allora è un percorso penitenziale perché è anche un chiedere perdono al Signore per il fatto che abbiamo trascurato, abbiamo dimenticato questa dimensione sinodale della Chiesa che non è una dimensione nuova che Papa Francesco vuole aggiungere alla Chiesa, ma fa parte della sua natura. Quello che sta facendo Papa Francesco è di aiutarci a riscoprire la bellezza della Chiesa popolo di Dio. E questo è il discorso del Concilio Vaticano II. Allora se noi oggi, dietro l’invito del Santo Padre, stiamo riflettendo – e mi auguro che prenderemo anche delle decisioni -, per rendere la Chiesa più sinodale, è perché il Santo Padre vuol tradurre nella vita quotidiana l’insegnamento del Concilio Vaticano II, in modo particolare l’insegnamento sulla Chiesa, l’ecclesiologia del Vaticano II.
Poi lei mi chiede anche come sta andando questo processo. Noi in questa fase stiamo concludendo la seconda tappa del processo, cioè gli incontri continentali. Io ho partecipato a quattro su sette di queste Assemblee e devo confessare che ogni volta siamo rimasti sorpresi dall’entusiasmo che abbiamo trovato. C’è entusiasmo da parte di tutti: c’erano vescovi, c’erano sacerdoti, persone consacrate e laici. E sì, posso dire che è un’esperienza indescrivibile vedere con quale passione il popolo di Dio parla di Gesù, del Vangelo, della Chiesa e della presenza della Chiesa nel mondo. Purtroppo questo non fa notizia, ma è la realtà. Non sto dicendo che tutti sono convinti, che non ci sono difficoltà, che non ci sono dubbi, ma questo è un processo: è un processo che è iniziato! Il Santo Padre ce lo ricorda spesso: il Sinodo non è un evento, ma un processo. Così possiamo aspettarci che col tempo la grazia del Signore realizzi meraviglie.
A quali Assemblee continentali ha partecipato in presenza?
Sono stato a Praga, quindi ho seguito quella europea. Poi sono andato a Beirut per l’Assemblea delle Chiese orientali. A Bangkok per l’incontro dell’Asia e infine ad Addis Abeba per l’Assemblea sinodale del continente africano.
Dunque ha toccato con mano contesti diversissimi…
È giusto che ci sia questa diversità, ma c’è anche una unità; c’è la comunione perché il fondamento è uguale per tutte le Assemblee, naturalmente con sfumature che riflettono anche la storia, la cultura, l’esperienza ecclesiale, spirituale e pastorale di ciascun continente. L’importante è che la Chiesa sia sempre inserita nel contesto locale – certo diversi – ma è lì che la Chiesa deve imparare a camminare insieme con il popolo e trovare anche le risposte per le domande che la gente in quel continente si sta ponendo.
Di recente Papa Francesco all’udienza generale ha tenuto un ciclo di catechesi sul tema del discernimento che è un elemento essenziale dello stile sinodale. Può dirci qualcosa delle speranze e delle attese del Papa in merito a questo evento nella vita della Chiesa, che può davvero trasformarla e darle un nuovo slancio?
Direi che il tema del Sinodo per una Chiesa sinodale ha al centro la comunione, la partecipazione e la missione. Se questi concetti sono ben capiti, dicono tutto. Il Santo Padre vuole una Chiesa sinodale dove c’è comunione, quindi dove nessuno si sente escluso; dove c’è partecipazione per tutti, rispettando i carismi e i ministeri; e poi per una missione, perché tutto questo non è un discorso autoreferenziale, cioè non è introspezione, ma stiamo riflettendo sulla Chiesa per poter anche comunicare il Vangelo oggi, per aiutare l’incontro tra il Signore risorto e l’uomo di oggi. Ed è fondamentale il discernimento: nel suo insegnamento in questi dieci anni il Santo Padre ci ha insegnato cos’è il Sinodo e cosa è una Chiesa sinodale, ossia una Chiesa dove il protagonista è lo Spirito Santo. Un’assemblea sinodale, una Chiesa sinodale che non crea spazio allo Spirito, non è la Chiesa di Gesù e non saremo in grado di fare dei passi in avanti; anzi sarebbe autodistruttivo, mentre se noi ci apriamo allo Spirito, allora sì, qui c’è il futuro. Ma per saper leggere la presenza dello Spirito Santo, per saper declinare la volontà di Dio, serve il discernimento, invocando lo Spirito Santo, proprio per assicurarci che i passi che noi facciamo nell’approfondire la volontà del Signore saranno fatti nella direzione corretta.
Adriana Masotti – Vatican news 11 marzo 2023
www.vaticannews.va/it/papa/news/2023-03/papa-francesco-anniversario-10-anni-pontificato-grech-sinodo.html
Benedizioni delle coppie omosessuali e celibato, lo “strappo” della Chiesa tedesca
Il Cammino sinodale della Chiesa tedesca, nei lavori in corso a Francoforte, ha approvato a larghissima maggioranza il testo che apre alle celebrazioni per la benedizione delle coppie dello stesso sesso a partire dal marzo 2026. Secondo quanto comunicato attraverso i social dallo stesso Sinodo, l’Assemblea ha approvato questo testo con 176 voti favorevoli, 14 contrari e 12 astenuti. Anche una netta maggioranza di vescovi ha votato a favore del documento conclusivo: 38 vescovi hanno votato sì, nove vescovi no e dodici si sono astenuti. Non essendo conteggiate le astensioni, ciò vuol dire che il consenso è formalmente dell’80 per cento.
Durante i lavori il Cammino sinodale tedesco si è espresso a larghissima maggioranza anche a favore di una revisione delle norme sul celibato. Il testo adottato a Francoforte formula una richiesta a papa Francesco di «riesaminare il nesso tra consacrazione e obbligo del celibato». Una formulazione più ampia, che chiedeva al Papa di revocare direttamente il celibato obbligatorio, è stata respinta con una maggioranza di due terzi. L’Assemblea sinodale ha inoltre deciso di chiedere al Papa di esaminare se ai sacerdoti già ordinati possa essere data la possibilità di essere sciolti dalla promessa del celibato senza dover rinunciare all’esercizio del ministero. Inoltre, il testo chiede che gli ex sacerdoti siano maggiormente coinvolti nella vita attiva della Chiesa. Il testo della mozione “Il celibato dei sacerdoti – rafforzamento e apertura” è stato votato con una maggioranza di quasi il 95 per cento dei 205 voti espressi. Dei 60 vescovi presenti, 44 hanno votato a favore, 5 contrari e 11 si sono astenuti.
Sulla questione omosessuale e sul celibato ecclesiastico è intervenuto papa Francesco con una conversazione a tutto campo con il sito argentino Infobae diffusa ieri. Sulla prima il Pontefice osserva che «oggi si mette molta lente d’ingrandimento su questo problema. Penso che dobbiamo andare all’essenziale del Vangelo: Gesù chiama tutti». Riguardo al celibato per il Pontefice abolirlo non servirebbe ad aumentare il numero di vocazioni. E aggiunge: «Il celibato nella Chiesa occidentale è una prescrizione temporanea: non so se si risolve in un modo o nell’altro, ma è provvisoria in questo senso; non è eterno come l’ordinazione sacerdotale, che è per sempre, che tu lo voglia o no».
La delibera del Cammino sinodale tedesco arriva dopo che nel settembre scorso i vescovi fiamminghi del Belgio, insieme al cardinale di Malines-Bruxelles (Mechelen-Brussel) Jozef De Kesel, hanno pubblicato un documento che, affermando di ispirarsi all’Esortazione apostolica Amoris lætitia, autorizza la benedizione delle coppie dello stesso sesso. Il portavoce della diocesi di Brussel aveva riferito che il documento non era stato sottoposto prima della sua pubblicazione al vaglio della Santa Sede. Nel febbraio 2020 un documento della Congregazione, oggi Dicastero, per la dottrina della fede, con l’«assenso» esplicito del Papa, ribadiva che se sono possibili «benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale, le quali manifestino la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall’insegnamento ecclesiale», rimane «illecita ogni forma di benedizione che tenda a riconoscere le loro unioni», perché significherebbe «approvare e incoraggiare una scelta ed una prassi di vita che non possono essere riconosciute come oggettivamente ordinate ai disegni rivelati di Dio».
La questione della benedizione di coppie dello stesso ha provocato di recente una profonda spaccatura all’interno della Comunione anglicana. Dopo che la Chiesa d’Inghilterra lo scorso febbraio le ha approvate, c’è stata una ferma reazione da parte dei leader anglicani africani. Dieci arcivescovi primati hanno solennemente annunciato che la Global South Fellowship of Anglican Churches, che sostiene di federare il 75% degli anglicani nel mondo, non può più riconoscere l’attuale arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, come primus inter pares e capo della Comunione anglicana nel mondo.
Gianni Cardinale “Avvenire” 11 marzo 2023
www.avvenire.it/chiesa/pagine/il-casobenedizioni-delle-coppie-omosessuali-e-celi
STORIA DELLA CHIESA
In quale testo Gesù è citato per la prima volta?
È un documento che risale a 2.000 anni fa. Per gli studiosi è autentico e rivela il legame tra Cristo e Re Davide. Gesù e gli apostoli Giacomo, Pietro e Giovanni: sono tutti citati in quello che, secondo alcuni studiosi, è il più antico documento esistente in cui si parla del Cristo. Sono alcune tavolette di metallo unite con degli anelli, un libretto scritto con un codice particolare che sarebbe stato tradotto, come riportava il Daily Mail.
La scoperta in Giordania. La scoperta in realtà risale al 2008, quando un beduino ritrovò questo manufatto in una vallata dell’attuale Giordania, che secondo gli esperti corrisponde al territorio in cui si rifugiarono i cristiani di Gerusalemme dopo la distruzione della città nel 70 dopo Cristo. Dopo essere stato comprato da un beduino israeliano e portato illegalmente in Israele sono state restituite alla Giordania che le conserva al Dipartimento delle antichità. Precedenti studi si sono rivelati includenti fino a oggi, quando esami specializzati hanno datato le tavolette a duemila anni fa, il periodo storico in cui Gesù esercitava il suo ministero.
Il primo insegnamento. La particolarità di queste tavolette è che spiegano non rivelazioni fantasiose come il matrimonio di Gesù, ma la prima conferma storica del suo insegnamento. Gesù, più che fondare una nuova religione, il cristianesimo, avrebbe fatto parte di una setta risalente ai tempi del Re Davide (X° secolo a.C.), che pregava nel Tempio di Salomone (Davide era il padre di Salomone ndr) e credeva in un Dio sia maschio che femmina, secondo antiche tradizioni ebraiche, cosa che avrebbe dato vita alla concezione cristiana dello Spirito Santo.
Il Tempio di Salomone sarebbe dunque stato il centro della cristianità e il luogo della sua nascita, tempio che Gesù avrebbe scelto per rinnovare l’alleanza con Dio e in questo modo si spiegherebbe l’ira di Gesù contro i mercanti del tempio come raccontata nei vangeli. L’analisi delle tavolette avrebbe confermato che il linguaggio dei codici inciso è paleo-ebraico, con la presenza di alcune stelle a otto punte, simbolo della venuta del Messia e la citazione del nome di Gesù
Gelsomino Del Guercio – Aleteia 27 febbraio 2023
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