NewsUCIPEM n. 810 – 14 giugno 2020

NewsUCIPEM n. 810 – 14 giugno 2020

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipemnazionale@gmail.com

“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.

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 Carta dell’UCIPEM, Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

           

02 ADOZIONI INTERNAZIONALI                 Piano aiuti da 6 milioni: saranno sufficienti per non farla morire?

02 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 22, 10 giugno 2020

05 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA     Italia: la sessualità fra i Millennials[GM1] 

06                                                                          Essere se stessi nella coppia

07                                                                          Punto g e squirting: mito o realtà?

08                                                                          Case chiuse e Legge Merlin

09 CHIESA CATTOLICA                                  Comunità di Bose: banco di prova per nuove comunità e movimenti

12                                                                          Pensando a Bose e alla chiesa

14                                                                          Bose: riconoscenza e speranza

16                                                                          Bose: non riesco a capire…

17 CHIESE EVANGELICHE                            L’autorità nella chiesa, le forme e i rischi

18 CITAZIONI                                                    Giustizia e misericordia nelle parole di Gesù sul matrimonio

27 CITTÀ DEL VATICANO                             Contro il Papa attacchi insolenti da uomini di Chiesa. Ora basta.

28                                                                          15 anni dopo la sua morte, si attenua l’aura di san Giovanni Paolo II

32 CONFERENZA EPISCOPALE IT.             Omofobia, non serve una nuova legge

32                                                                          Lettera aperta di Progetto Giovani Cristiani LGBT

33                                                                          Omofobia e Capanna Zio Tom: alcune “similitudini” nel Comunicato

34                                                                          I vescovi contro la legge sull’omofobia: Limita la libertà di opinione

35                                                                          Diritto e libertà. Alessandro Zan: «Omofobia, rispettiamo le idee»

36                                                                          Noi Siamo Chiesa ritiene l’intervento da contestare alla radice

37 CONSULTORI FAMILIARI                        Nascita ed evoluzione di un modello sociale di salute in Italia

51 CONSULTORI UCIPEM                            Portogruaro. Ripresa del servizio di consulenza in presenza

51                                                                          Viadana. Elaborare il lutto: un percorso dal Centro di consulenza

51                                                                          Storia dei consultori; i presidenti UCIPEM e CFC a confronto

54 DALLA NAVATA                                         Corpus Domini – Anno A – 14 giugno 2020

54                                                                          Con il suo «pane vivo» il Signore vive in noi

55 DONNE NELLA (per la) CHIESA            Il dibattito sulle donne

56                                                                          Resistenza delle suore che anticiparono in convento il femminismo

57 MINORI MISNA                                         Ogni 9,43 ore sparisce un minore straniero non accompagnato

57 OMOFILIA                                                    Omofobia. Il genere, un labirinto. Ecco come uscirne

58 POLITICHE PER LA FAMIGLIA               Una riforma di sistema. Family Act avvio di un’opera più grande

59                                                                          Genitorialità e conciliazione lavoro-famiglie: al via il Family Act

60                                                                          Assegno ai figli, spunta il nodo dei tempi (troppo lunghi)

60                                                                          Family Act, il Forum: «Sia appoggiato da tutti gli schieramenti»

61 UTERO IN AFFITTO                                   Ucraina. 11 bimbi della Biotexco                                           

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Piano di aiuti da sei milioni per l’Adozione Internazionale: saranno sufficienti per non farla morire?

“Sei milioni di euro per sostenere l’Adozione Internazionale? Certo, si tratterebbe di un aiuto importante perché, senza un adeguato supporto, per la Adozione Internazionale suoneranno le campane a morto, molto presto”. Non usa mezzi termini il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini, per descrivere la situazione dell’Adozione Internazionale nel primo semestre del 2020. Il ministro della Famiglia, Elena Bonetti, ha parlato, in un’intervista, di interventi concreti e immediati per dare ossigeno agli enti autorizzati in attesa della ripartenza. Lo stesso ministro è presidente di quella CAI – Commissione Adozioni Internazionali, che nei giorni scorsi ha salutato il suo braccio operativo: la vicepresidente Laura Laera, che ha terminato un mandato affrontato con grande determinazione e passione, nonostante le criticità che ha dovuto affrontare e risolvere.

Sei milioni per la Adozione Internazionale. Ma serve anche altro. Ecco cosa. “Ringraziamo il ministro della disponibilità – ha detto ancora Griffini – ma purtroppo questi aiuti, se da un lato serviranno a dare immediato ossigeno alla Adozione Internazionale, purtroppo non basteranno per garantirle un futuro. Soprattutto non basteranno a ridare fiducia alle coppie. In Italia ci sono circa 5 milioni di coppie sposate senza figli che potrebbero essere una risorsa. Occorre un percorso graduale: primo passo, un bonus immediato da 10mila euro per ogni adozione internazionale portata a termine nel 2020 e, dal 2021, la gratuità della stessa unitamente a una riforma per renderla finalmente un cammino non più segnato da peripezie burocratiche. Pertanto, fin dalla prima riunione degli Stati generali, dovrà essere presente la cabina di regia ‘Adozione 3.0’, in rappresentanza di tutto il mondo legato alla adozione internazionale. Il rilancio dell’economia del nostro Paese passa infatti anche dalla lotta alla denatalità e le famiglie adottive possono dare un loro importante e fattivo contributo”.

“Il Coronavirus ha purtroppo impattato su una situazione che, già di per sé, non era affatto rosea – ha concluso il presidente di Ai.Bi. – Così, nel primo semestre dell’anno i dati parlano di circa 200 adozioni, contro le 400, già scarse, dello scorso anno, il primo a segnare una discesa oltre la soglia psicologica delle 1.000 annuali, con un calo del 14% rispetto all’anno precedente, il 2018. Ci sono poi poche centinaia di abbinamenti già deliberati per altrettante coppie adottive in attesa di partire quando riapriranno le frontiere. Tuttavia non aiutano le equipe dei servizi regionali non attrezzate per lo smart working e i corsi a distanza per le famiglie e soprattutto lo stallo dei tribunali per i minorenni che non rilasciano più idoneità”.

AiBinews                                9 giugno 2020

D

www.aibi.it/ita/griffini-ai-bi-piano-di-aiuti-da-sei-milioni-per-ladozione-internazionale-saranno-sufficienti-per-non-farla-morire

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 23, 10 giugno 2020

”          “Quanti anni vorresti avere?” Il video interpella persone di tutte le età, e la domanda posta è oggettivamente intrigante: se ne ricava una riflessione di grande interesse sulla ricerca della felicità, e sull’importanza del tempo, sia come “tempo che passa”, sia come “valore dell’istante”. Belli i volti, belle le risposte, e si rimane con una domanda aperta: “Ma io, quanti anni vorrei avere, adesso?”

                         www.youtube.com/watch?v=msXO2oLEhrs&feature=youtu.be

”          Ma nel piano Colao la famiglia rimane nascosta. Appare difficile capire in questo testo quanto siano reali e rilevanti gli strumenti e gli obiettivi proposti a favore dei nuclei familiari. Poco spazio viene dedicato all'”assegno unico per i figli”, da tempo indicato come strumento efficace nell’ambito delle politiche di sostegno. A Governo e politica il compito di rimettere in ordine le priorità (Francesco Belletti, direttore Cisf)

www.famigliacristiana.it/articolo/il-posto-della-famiglia-nel-piano-della-task-force-di-colao.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_10_06_2020

”          Family International Monitor è un’indagine internazionale sulla famiglia, promossa (dal 2018) da Cisf, Università Cattolica San Antonio di Murcia e il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. Per essere informato iscriversi alla Newsletter “Inside Families”. Presente anche su Twitter e Facebook.

www.familymonitor.net

”          Caritas internationalis – COVID-19 Pandemia, disuguaglianze e famiglia. Aloysius John, Segretario Generale di Caritas Internationalis. Importante riflessione sulle disuguaglianze e sulle difficoltà delle famiglie a livello globale a seguito dell’impatto della pandemia. Il punto di vista delle Caritas presenti nei diversi Paesi consente inoltre di rilevare le molteplici esperienze innovative di aiuto diretto e di resistenza alle difficoltà da parte di associazioni, comunità locali, famiglie aggregate.

www.familymonitor.net/post/covid-19-pandemia-disuguaglianze-e-famiglia

Emergenza coronavirus

  • Canada. Fragilità maschile, solitudine e rischio di suicidio. A fronte della grave situazione relazionale imposta a molti dalla pandemia, Il CCMF (Canadian Centre for Men and Families, Centro Canadese per Uomini e Famiglie) ha lanciato una originale campagna di sensibilizzazione sulla vulnerabilità maschile in caso di isolamento. “La ricerca documenta che gli uomini hanno reti sociali più limitate delle donne, una situazione peggiorata nella situazione attuale. Senza un forte supporto gli uomini sono a maggior rischio di suicidio” (Research shows that men have smaller social networks than women, a deficiency made worse in the current situation, Without strong support, men are at increasing risk of suicide). La campagna (poster) mostra l’immagine di una maschera dal volto sorridente, che copre il volto di un uomo in evidente sofferenza. Lo slogan recita: “L’apparenza inganna. Gli uomini spesso soffrono in silenzio. Aiutate gli uomini che amate a ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno” (Appearances can be deceiving. Men often suffer in silence. Help the men you love get the help they need).

www.einpresswire.com/article/517376218/pandemic-disproportionately-affecting-the-health-of-men-new-ad-campaign-declares?r=panJ3WzMmGRNM2ZzMp

  • Il vescovo della diocesi di Alba (Cuneo) scrive una lettera agli anziani ospiti delle Rsa. Ricordando i tanti incontri che ha avuto nelle residenze per anziani della diocesi, monsignor Marco Brunetti ha voluto manifestare la sua vicinanza e quella di tutta la Chiesa diocesana a quanti stanno vivendo questo terribile periodo di pandemia nelle case di riposo, con una lettera inviata a tutti gli ospiti. Il vescovo di Alba si rivolge a coloro che definisce “la nostra memoria e le nostre radici”, per incoraggiarli a superare “questo tempo lungo e difficile, che ha interrotto ogni possibilità di incontrarci di persona. Un tempo difficile, di paura, di sofferenza e anche di morte”, nel quale personale e amministratori “non si sono risparmiati, nonostante l’immane difficoltà che l’emergenza rappresentava”. Monsignor Brunetti ribadisce che gli anziani per la comunità cristiana non sono “un peso o un costo, ma un dono prezioso””

www.alba.chiesacattolica.it/blog/2020/05/25/monsignor-brunetti-scrive-agli-anziani-per-noi-

Eastern Europe. Paesi europei dell’est. (The More the Merrier? The Causal Effect of High Fertility on Later-Life Loneliness in Eastern Europe) Più figli hai avuto più avrai una vecchiaia felice? L’effetto causale dell’alta fertilità sulla solitudine in età anziana. In un recente numero monografico della rivista on line Social Indicators Research Thijs van den Broek e Marco Tosi hanno analizzato i dati dell’indagine Generations & Gender Programme (GGP) sui genitori anziani in otto Paesi dell’Europa Orientale, per verificare se avere avuto molti figli sia un fattore protettivo contro la solitudine in età anziana, in particolare per le donne (come peraltro già evidenziato da altre ricerche), e quali siano i rapporti causa-effetto.

https://link.springer.com/article/10.1007/s11205-019-02254-1

Rebalance. (Riequilibro) Strategie sindacali e buone pratiche per promuovere la conciliazione tra tempi di lavoro e di vita. “L’obiettivo dello studio è di fare una mappatura delle buone pratiche relative agli accordi sulla conciliazione negoziati dalle parti sociali in 10 paesi membri: Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lituania, Olanda, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia. La ricerca poneva particolare enfasi sulle misure legate alla conciliazione che consentono ai genitori ed altre persone che hanno responsabilità di cura di conciliare il lavoro, la famiglia e la vita privata, mediante l’introduzione di permessi familiari e parentali, permessi per cura e lo sviluppo di un ambiente di lavoro che permette di combinare il lavoro, la famiglia e la vita privata di uomini e donne”.

www.etuc.org/sites/default/files/publication/file/2019-10/REBALANCE%20FINAL%20REPORT_IT.pdf

Vedi anche, sempre del 2919, sullo stesso tema, ANPAL (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro); Conciliazione vita lavoro: Sviluppo di policy. Analisi comparata internazionale.

www.bollettinoadapt.it/conciliazione-vita-lavoro-sviluppo-di-policy-analisi-comparata-internazionale

Reflex: la community del welfare aziendale. Promosso e finanziato nell’ambito di un avviso pubblico del Programma REC della Commissione europea, ReFlex (Reconciliation and Flexibility: reconciling new work and care needs) è un progetto ideato e coordinato dal Dipartimento per le politiche della famiglia, in partenariato con il Dipartimento di Ingegneria dell’Università degli Studi RomaTre e l’Istituto per la ricerca sociale – Irs.

https://ec.europa.eu/info/funding-tenders/opportunities/portal/screen/opportunities/topic-details/rec-rgen-wwlb-ag-2019

Il progetto ReFlex, della durata biennale (2020-2021), punta al superamento del divario di genere attraverso lo studio, la promozione, la realizzazione e la condivisione di iniziative che favoriscano l’equilibrio tra vita lavorativa e vita personale di donne e uomini, con una partecipazione più equilibrata agli impegni di cura familiare e un supporto più efficace alla genitorialità.

http://famiglia.governo.it/it/politiche-e-attivita/politiche-europee-ed-internazionali/progetti-

Fidanzati, cosa cercate? Una riflessione sulla scelta di rinviare il matrimonio causa pandemia (su puntofamiglia.it). Tra i molti effetti della pandemia è emersa anche la scelta di rinviare la data del matrimonio, per poterlo festeggiare senza costrizioni. Il tema è sfidante per tutti i giovani che, fissando la data, avevano già maturato la decisione definitiva di sposarsi (i tempi sono maturi), ma lo è ancora di più per chi celebra il matrimonio come sacramento, perché mette in discussione quale sia la vera “festa”: la celebrazione del Sacramento, oppure l’abito bianco, il pranzo, i festeggiamenti, gli amici, i brindisi. “[…] A conti fatti, mettendo sul piatto della bilancia le opposte ragioni, possiamo arrivare alla conclusione che i motivi che chiedono di confermare la scelta e la data del patto nuziale sono ben più gravi e decisivi di quelli che fanno propendere per il differimento della data. Non mancherà la festa, non mancheranno gli amici e, soprattutto, non mancherà Gesù, lo Sposo della Chiesa, che stringe le vostre mani alla sua e vi rende partecipi del Suo patto nuziale, testimoni della Sua fedeltà. Se ci credete, questa è la fede nella sua essenzialità […]”

www.puntofamiglia.net/puntofamiglia/2020/06/01/fidanzati-cosa-cercate-lettera-ai-nubendi

Population Europe. Webinar (in inglese) su “Covid-19 e chiusura delle frontiere: vulnerabilità dei migranti positivi al Covid” (Covid-19 and Border Closures: How are Vulnerable Migrants Affected?) 15 giugno 15:00 – 16:00 (Cest) (Berlin time), (all’interno del Progetto H2020 “Vulnerabilities Under the Global Protection Regime” (Vulner).                                                                               www.vulner.eu

            Il webinar sarà dedicato ai Paesi dell’Unione Europea e al Canada, con interventi di cinque esperti: Luc Leboeuf, Head of Research Group Vulner, Max Planck Institute for Social Anthropology; Jessica Schultz, Postdoctoral Researcher at the Law Faculty, University of Bergen; Sabrina Marchetti, Associate Professor at the Department of Philosophy and Cultural Heritage, Università Ca’ Foscari di Venezia; Delphine Nakache, Associate Professor, Faculty of Law, University of Ottawa; Biao Xiang, Professor of Social Anthropology, Oxford University.

https://survey3.gwdg.de/index.php?r=survey/index&sid=613737&newtest=Y&lang=en

Webinar. Maturità affettiva e responsabilità sociale: riflessioni psicoanalitiche nel dialogo con la giustizia, Seminario on line promosso dal Centro Milanese di Psicoanalisi e da SPI (Milano),13 giugno 2020. “Il seminario esaminerà gli intrecci tra bisogno di dipendenza e conquista della maturità affettiva e sociale e si interrogherà sui nodi di collegamento tra esigenze evolutivi, responsabilità sociale e responsabilità giuridica”.

www.cmp-spiweb.it/wp-content/uploads/2019/12/2020-Sabati-al-CMP-13Giugno.pdf

Dalle case editrici

  • Moia Luciano, Chiesa e omosessualità. Un’inchiesta alla luce del magistero di papa Francesco, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2020, pp. 208.

      A proposito dell’accompagnamento delle persone omosessuali, papa Francesco in Amoris lætitia rivolge alla Chiesa un appello preciso: “… si tratta di assicurare un rispe­ttoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella propria vita” (n. 250). Con tale obiettivo, questo libro dà voce a dieci esperti tra teologi, studiosi di scienze umane e operatori pastorali, con il proposito di definire meglio, per quanto possibile, i confini di questo nuovo approccio pastorale: cos’è l’omosessualità per la Chiesa di oggi, chi sono le persone omosessuali, quale conoscenza dei loro sentimenti e della loro esperienza di vita, quale la valutazione morale delle loro scelte, quali gli atteggiamenti e le iniziative concrete per aprire le porte a questi fratelli. Infine: su quali aspetti dobbiamo ancora camminare perché anche in questo campo la Chiesa sia l’esperta in umanità e in amore che vuole essere. La prefazione, anch’essa in forma di intervista, è del card. Matteo Zuppi, vescovo di Bologna.

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/giugno2020/5176/index.html

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CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA

Italia: la sessualità fra i Millennials

     La nuova ricerca Eurispes “Sesso, erotismo e sentimenti: i giovani fuori dagli schemi” condotta sui ragazzi italiani tra i 18 ed i 30 anni (chiamati Millennials perché nati intorno al 2000) mostra che la sessualità giovanile è molto cambiata negli ultimi anni. Ecco alcuni dati emblematici, tratti dalla ricerca:

  • Sexting (scambio di immagini erotiche via chat): 6 ragazzi su 10 (lo fanno soprattutto per scherzare”)
  • Sesso di materiale pornografico: 7 ragazzi su 10
  • Sesso di una notte con partner occasionale: 6 su 10
  • Sesso e sentimenti non coincidono mai: lo pensano 5,9 ragazzi su 100
  • Amici di letto (o “trombamico”-relazione esclusivamente sessuale) lo hanno avuto il 55,1% dei ragazzi
  • Rapporto di coppia aperto: piace solo al 20,7%
  • Percentuale di tradimento fra i giovani impegnati in un rapporto di coppia stabile: 44%
  • Sex Toys [giocattolo sessuale]: oltre quattro su dieci li hanno giù usati (il 18% sia per autoerotismo che per giocare con il partner, il 14,4% solo con il partner, il 9,6% solo per l’autoerotismo).
  • Contraccettivi: il 39,9% li usa sempre, il 23,8% non li usa mai o raramente.

     I millennials sono cresciuti in un clima di ipersessualità che ha banalizzato il sesso, ma nel contempo ha alimentato nei ragazzi la paura di non essere capaci a gestire affetti e sentimenti. Essi preferiscono infatti fare sesso occasionale, usare i sex toys o scambiarsi immagini pornografiche che provare a stringere una relazione durevole: non è più il sesso che fa paura, quanto la relazione, l’intimità. Questi ragazzi hanno appreso il sesso dalla tv, da Internet, dalla pornografia: chi si è curato di dare loro un’educazione all’affettività?

     Qualche riflessione. Le attività sessuali fra i ragazzi più giovani sono ormai abbastanza precoci, visto che i giovani cominciano ad avere i primi rapporti sessuali nella scuola media e che, in molti casi, il passaggio dalla prima comunione alla discoteca si è fatto brevissimo.

     La sessualità che i ragazzi conoscono e ritengono naturale è quella estrema, che vedono su Internet, nei numerosi film pornografici, facilmente accessibili a tutti, anche ai bambini. E’ così che essi sono portati a ritenere ‘normali’ rapporti particolari, o dimensioni degli organi genitali esagerate (nella pornografia si selezionano gli attori e le attrici maggiormente dotati fisicamente e ci sono varie finzioni cinematografiche che ne esaltano le qualità, cosa di cui i ragazzi non sempre si rendono conto).

      La pornografia dunque li educa al sesso estremo, mentre la società e la famiglia si preoccupano solo di fornire loro informazioni generali di tipo anatomico sulla sessualità e, se va bene, un’esposizione abbastanza approfondita sulle malattie sessualmente trasmissibili: perché di medicina si può parlare, di emozioni e sentimenti no.

     Evitando di raccontare anche gli aspetti positivi della sessualità il mondo degli adulti è destinato a perdere di credibilità e di autorevolezza: non si possono lanciare solo segnali di allarme ai più giovani, impaurirli con i rischi e le malattie e non spiegare loro che il sesso è anche una fonte di emozioni positive e che l’attrazione fra esseri umani è un fatto naturale, dal quale scaturiscono non solo il piacere sessuale, ma anche i sentimenti, le relazioni, gli affetti.

     Tutti sanno che gli adolescenti non parlano volentieri di questi argomenti con i genitori, ma questo accade in particolare se essi non sono stati preparati, sin da quando erano piccoli, a conoscere e a parlare della vita sessuale a 360 gradi: affrontando certamente discorsi che parlano di malattie e di prevenzione, ma anche di emozioni positive, di affetti, di sentimenti, di relazioni.

dr Walter La Gatta, psicoterapeuta, sessuologo

www.cisonline.net/news/italia-la-sessualita-fra-i-millennials

 

Essere se stessi nella coppia

      L’accettazione, la rassicurazione e la conferma reciproca sono ingredienti di base per l’equilibrio e il benessere della coppia, essi tendono a rafforzare il “NOI”. Il terapeuta deve anche saper vedere la coppia composta da due individualità distinte e separate e quali modalità comportamentali mettono in atto nella loro relazione affettiva; come i due “IO” con le proprie differenze tendono all’autoaffermazione intesa come l'”essere se stessi” considerando che ogni partner porta con sé l’esperienza d’amore che ha già vissuto da figlio nella propria famiglia. Il rapporto di coppia è un’esperienza che coinvolge due persone e la storia di ogni persona è caratterizzata da modelli acquisiti nella relazione con i genitori.

      Secondo la Teoria dell’Attaccamento elaborata da John Bowlby sono quattro gli stili di come si instaura e si alimenta una “relazione d’amore”, essi caratterizzano ogni essere umano e si attivano nell’età adulta quando si sceglie il proprio partner, essi definiscono la qualità di relazione che si stabilisce: “sicuro” “ambivalente” “evitante” “disorganizzato”.

     Essi sono modelli acquisiti che tendono a ripetersi e vengono tramandati alle generazioni successive e successivamente, vengono nuovamente attualizzati all’interno della relazione d’attaccamento di coppia. Attraverso il conflitto la persona può affermare e far conoscere i propri bisogni e nello stesso tempo accetta di agirli secondo un “principio di lealtà”. Si può imparare a litigare, senza distruggersi, quando il livello di “differenziazione ” dei due partner è sufficientemente alto, per cui l’altro non è un nemico da sottomettere o da “tenere a bada”, ma bisogna essere consapevoli che il proprio partner è stato scelto da se stessi nel viaggio della vita ed in lui si può vedere un valido compagno-concorrente con il quale si può essere contemporaneamente “amanti sinceri” e ” migliori amici”.

      Altrimenti la coppia può essere “il luogo degli abissi” dove si sperimentano le frustrazioni e le aggressività più feroci e diaboliche se si sceglie come compagno di viaggio un nemico dal quale difendersi e/o sottomettere. L’idealizzazione della relazione di coppia, spesso viene alimentata da i falsi miti che consigliano “che non bisogna litigare ne’ arrabbiarsi”, quando ciò avviene la coppia si avvia verso la paralisi emotiva. Spesso le coppie che vedo in terapia hanno un problema a confrontarsi sulla rabbia ma tendono a negarla a se stessi, ciò li porta ad agire comportamenti aggressivi ad un altro livello come i tradimenti o un sintomo sessuale. Il tradimento va inteso non solo quello sessuale ma si può tradire con lavoro, i figli, i genitori. Si può tradire in tanti modi poiché tanti sono i modi per stare o non stare all’interno di una relazione. Da “evitante”, senza esserci in maniera completa senza “appartenere”, “con la testa ma senza cuore”, stabilendo così anche una relazione vuota di significati emotivi e affettivi. Molto spesso partendo dal sintomo sessuale si arriva al nodo fondamentale: l’aggressività. Uno degli obiettivi principali del processo terapeutico è di “far crescere le proprie parti” di cui molte sono direttamente collegate all’aggressività, che si porta anche verso il partner, ciò significa imparare a gestire la rabbia, metabolizzandola per trasformarla in un ingrediente utile e nutritivo.

      Una aggressività sana è funzionale all’individuo, alla coppia, alla famiglia e alla società non solo per l’equilibrio della persona ma anche in funzione di una sessualità soddisfacente. Una delle componenti più significative per la sessualità è il desiderio sessuale. Esso implica il “sentirsi reciprocamente”, i due partner hanno la capacità di stabilire una relazione d’attaccamento in cui sono capaci di “stare in sintonia emotiva”, senza sentirsi minacciati. Questa capacità si apprende da bambini nella fase relazione con i genitori, una “sintonizzazione” deficitaria o assente nei legami genitori-neonati, genitori-bambini e più in generale nei legami intimi, può portare ad avere, successivamente, relazioni affettive carenti e non soddisfacenti in età adulta.

     Le persone adulte presentano difficoltà a sintonizzarsi anche nelle relazioni più intime, e non riescono a entrare e/o a stare in risonanza affettiva con gli altri, è assente quella condizione del sentirsi connessi e vicini agli altri, magari si riesce a comprendere gli altri ma se ne rimane distanti, provando sofferenza, senso di inefficacia e inadeguatezza. Nelle coppie adulte, gli episodi di maggior sintonia interpersonale non sono principalmente incentrati sullo scambio di cure: l’intersoggettività contempla una coordinazione su intenti collaborativi, di appartenenza, giocosi, sensuali, e anche di tensioni conflittuali. Essere se stessi nel rapporto di coppia significa poter desiderare, quanto più si è sicuri di se stessi emotivamente tanto più non si teme di mettersi in gioco con tutto se stessi, “l’intimità non è per i deboli di cuori” dove per intimità si intende “essere se stessi diverso e indipendente dal partner”. L’apertura al proprio partner spesso sottende e ci si aspetta che anche l’altro faccia la stessa cosa,” io lo faccio per primo e tu per rassicurarmi lo devi rifare. Devi farmi sentire sicuro, mi devi fare fidare di te”. Questo tipo di aspettative e patti, non sempre impliciti, esprimono un rapporto di dipendenza dove ” io faccio il primo passo se sono sicuro che anche tu lo farai”.

      “L’intimità autoconfermata, ossia la sicurezza di se stessi poggia le basi su un pensiero completamente differente: “Non mi aspetto che tu sia d’accordo con me, non sei stata messa al mondo per confermarmi e rinforzarmi. Ma voglio che tu mi ami – e non puoi realmente farlo se non mi conosci. Non voglio il tuo rifiuto – ma devo affrontare questa possibilità se devo sentirmi accettato o sicuro con te. E’ il momento di mostrarmi a te e di confrontare la mia separazione e la mia mortalità. Un giorno, quando non saremo più insieme sulla terra, voglio sapere che mi conoscevi”. D. Schnarch 2001.

     dr Gennaro Scione, psicologo clinico, psicoterapeuta, didatta, formatore, direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia Arpci direttore dell’accademia italiana di sessuologia, direttore della rivista di sessuologia, direttore della rivista attaccamento e sistemi complessi

www.cisonline.net/news/essere-se-stessi-nella-coppia

 

Punto g e squirting: mito o realtà?

     Di Punto G si fa un gran parlare in diversi contesti: in quello scientifico si è creato per decenni un grande dibattito sulla sua esistenza, nonché esatta collocazione e fisiologia; nel mondo della pornografia è una categoria gettonatissima. E nella cultura popolare è quasi un mito che aleggia sulle nostre vite di umili umani, che sta condizionando diverse donne e uomini che lo ricercano, a volte invano, nella speranza di poter emulare (e vivere) quello che i video ci mostrano.

     Un po’ di storia scientifica. A chiamarlo per la prima volta “Punto G” furono Whipple e Perry negli anni ’80 (Whipple & Perry, 1983), in omaggio al ginecologo tedesco Ernst Gräfenberg che nel 1944 descrisse quest’area in uno studio sul ruolo dell’uretra nell’orgasmo. Secondo Gräfenberg si trattava di una zona di 1-2 cm all’interno del canale vaginale, estremamente sensibile se stimolata direttamente, localizzata nella parete anteriore a circa 5-8 cm, lungo le mura dell’uretra, a ridosso dell’osso pubico e vicino alla vescica. Negli anni a seguire, quindi, a partire dalle prime ricerche aneddotiche basate sulle esperienze personali, diversi Autori hanno cercato di individuare quest’area con vari strumenti e metodi come questionari, esami clinici, marcatori biochimici e varie modalità di imaging (quali risonanze magnetiche funzionali e radiografie).

    Contemporaneamente, però, altri Autori hanno invece smentito l’esistenza di un’aerea anatomica distinta, sostenendo che si tratterebbe piuttosto semplicemente di un’ulteriore estensione del clitoride, responsabile nelle sue molteplici innervazioni di ogni orgasmo, sia che sia raggiunto tramite penetrazione vaginale, che tramite stimolazione “esterna” del glande clitorideo, che tramite stimolazione diretta di questa sensibile zona chiamata da molti “punto g”. Infatti, la pressione meccanica sulla parte anteriore della parete vaginale potrebbe effettivamente stimolare indirettamente alcune strutture del clitoride, migliorando così la sensazione di piacere (per una rassegna delle differenti posizioni si consiglia la lettura di Kilchevsky et al., 2012). Di recente, infine, alcuni studi suggeriscono che potrebbe trattarsi in particolare di un’area molto sensibile, in quanto incontro tra terminazioni clitoridee, vaginali e uretrali. Questa zona è stata chiamata infatti “Cuv” (clitoro-uretro-vaginale; Jannini et al., 2014).

     Nonostante le decine di studi sul “punto g”, l’unica struttura anatomica identificata in quell’area sarebbe quella delle ghiandole di Skene e del tessuto periuretrale (Baggish, 1999). Secondo questa visione, le ghiandole di Skene si attivano durante l’eccitazione e, tramite l’uretra, secernono un fluido che avrebbe dei parametri biochimici simili a quelli dello sperma. Molte donne vivono questo tipo di esperienza e, anche se la relazione tra il punto g e le ghiandole di Skene non è chiara, data la vicinanza al supposto punto g, si potrebbe avanzare l’ipotesi che queste ghiandole siano proprio la sua struttura anatomica. Lo stesso Giorgio Rifelli nel manuale “Psicologia e psicopatologia della sessualità” (Rifelli, 2007) descriveva il Punto G come il residuo embrionario della prostata maschile che, se stimolato con una forte pressione, si gonfia e provoca intenso piacere e spesso orgasmi in molte donne.

     Alcuni Autori, dopo un’analisi del fluido, hanno constatato che si tratterebbe piuttosto di urina diluita, emessa in maniera involontaria durante il piacere orgasmico per via delle contrazioni della vescica o del rilassamento dello sfintere. Secondo alcuni studi, in particolare, in alcuni casi si potrebbero avere due tipologie diverse di emissioni: la prima più abbondante e a getto, avrebbe una composizione più acquosa e simile all’urina; la seconda, meno copiosa e più densa, sarebbe invece ricca di antigeni prostatici (Salama et al., 2015).

     Cosa accade. Al di là della questione fisiologica, su cui non c’è ancora unicità di visione, molte persone esperiscono un forte piacere grazie alla stimolazione di quest’area, che spesso può condurre a degli orgasmi molto intensi e anche ad una sorta di “eiaculazione”. In alcune occasioni, infatti, quando l’orgasmo si ottiene grazie alla stimolazione di quest’area (ormai definita da alcuni come “prostata femminile”), per via di una pressione diretta con le dita o di una stimolazione durante la penetrazione, può avvenire un’eiezione dall’uretra di liquido a getti. L’eiaculazione “femminile”, definita più comunemente come “squirting” [fontanella], non è nulla di nuovo: pare fosse segnalata già da Aristotele e menzionata anche da Galeno, De Graaf e van De Velde (Rifelli, 2007), ma si tratta sicuramente di un’esperienza rara, seppur possibile in diverse persone, e non così tanto comune come il mondo della pornografia può far credere.

    È importante tener presente, infatti, che la particolare sensibilità in questa zona sia comunque soggettiva e non tipica di tutti gli apparati genito-urinari. Il piacere sessuale, nonché la sensibilità genitale, sono infatti estremamente soggettivi, ed andare alla ricerca insistente di una particolarità che non possediamo, invece che godere di quello che già abbiamo, rischierebbe di diventare un’emulazione ricca di ansie e tensioni che potremmo risparmiarci. Del resto, l’orgasmo non si può ricondurre solo alla meccanica, ma è necessario considerarlo come una manifestazione soggettiva che ha un’estrema variabilità di espressioni. L’esperienza clinica e diverse ricerche (ad esempio, Mah & Binik, 2005) hanno più volte riscontrato come il piacere sessuale orgasmico e la soddisfazione sessuale siano maggiormente legati ad aspetti cognitivi ed affettivi dell’esperienza piuttosto che a quelli sensoriali. Sono quindi più importanti la soddisfazione relazionale, l’intensità psicologica dell’orgasmo e l’intimità emotiva durante e dopo l’orgasmo, che la localizzazione.

     Spesso molte persone sono portate a pensare che per vivere un’esperienza sessuale più soddisfacente siano necessarie doti fisiche superiori alla media e prestazioni da film. In realtà la ricetta per il piacere è molto più alla portata di mano di quello che pensiamo: investire sulla relazione con il nostro/la nostra partner. Aprirci all’altro, spogliarci emotivamente (oltre o piuttosto che fisicamente), fare entrare l’altra persona dentro di noi…E sicuramente questa soluzione, per qualcuno, può essere molto più complicata.

dr Giorgia Rosamaria Gammino, psicologa e sessuologa clinica

www.cisonline.net/news/punto-g-e-squirting-mito-o-realta

 

Case chiuse e Legge Merlin

         La legge n. 75 del 20 febbraio 1958 è meglio nota come Legge Merlin, dal nome della promotrice nonché prima firmataria della norma, la senatrice Lina Merlin, che fu la prima donna a sedere nel Senato della Repubblica Italiana; a lei si deve, tra l’altro, la frase dell’articolo 3 della Costituzione Italiana: “Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso”. La Legge Merlin determinò la chiusura delle cosiddette “case chiuse” (o “di tolleranza” o “di piacere”, denominate anche “postriboli”, “bordelli”, “casini”, “lupanare”) in cui si esercitava la prostituzione: la legge non vieta la prostituzione in sé, bensì chi la favorisce e la sfrutta. In Italia la prostituzione si configura quindi come un’attività in sé lecita, ma al tempo stesso la legge punisce tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino (ad esempio, la legge punisce i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione).

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1958-03-04&atto.codiceRedazionale=058U0075&elenco30giorni=false

      Quest’anno la Legge Merlin è tornata ad essere più che mai attuale, dopo che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 141, 7 giugno 2019 ne ha confermato la validità e la legittimità costituzionale.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=141

     Il dibattito politico e pubblico sulle “case chiuse” in realtà non si è mai spento nel corso degli anni ed è stato sempre piuttosto vivace: già nel 1963 era stata sollevata una prima questione di legittimità costituzionale. Successivamente, la Legge n. 75 è stata oggetto di numerose richieste di abrogazione o di modifica.

     In epoca più recente (1989), è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale un annuncio di richiesta di referendum popolare per l’abrogazione della Legge Merlin, mentre nel 2014 il Partito Democratico aveva presentato un disegno di legge per regolamentare il fenomeno, tuttavia l’iniziativa non ha avuto alcun seguito (Morosi e Rastelli, 2018).

     La complessità che ruota tuttora intorno al dibattito è probabilmente destinata a non esaurirsi, racchiudendo in sé punti di vista molto contraddittori e contrastanti della nostra società e riassumibili in due posizioni antitetiche: da una parte coloro che ancora oggi sono favorevoli alla prostituzione legalizzata nelle “case chiuse”, dall’altra coloro che ne sono assolutamente contrari.

 Tra questi due estremi, molteplici sfaccettature di proposte di regolamentazione caratterizzano il dibattito passato e contemporaneo. Per ragioni di spazio, non è possibile sintetizzarne in questa sede i contenuti e soprattutto le ragioni storiche, per il cui approfondimento si rimanda alle dettagliate analisi sviluppate da Sandro Bellassai (2008), che in particolare scrive: “il lungo dibattito sul progetto Merlin oltrepassa immediatamente la questione prostituzionale per evocare scenari epocali, apocalittici o salvifici: in un contesto storico dinamico, che spinge norme e modelli tradizionali di vita e di comportamento sessuale sempre più sulla difensiva, la posta in gioco pare essere la riaffermazione o l’abbondono definitivo di un ordine morale rigidamente patriarcale”.

     Tra le variegate questioni fonte di vivaci contrasti nell’opinione pubblica, merita di essere menzionata la posizione di coloro che sostengono come la prostituzione legalizzata (come si esercitava nelle case chiuse) rappresenti comunque una forma di schiavitù, in opposizione a chi invece la considera una “libera” scelta (posizione quest’ultima insostenibile soprattutto dopo la pronuncia della Corte costituzionale del marzo di quest’anno).

     Rachel Moran nel libro recentemente pubblicato in Italia con l’eloquente titolo “Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione” (titolo originale “Paid For: My Journey Through Prostitution“) sottolinea come anche quando una prostituta sia convinta di scegliere in autonomia, fra lei e il cliente ci sia sempre un rapporto di subordinazione e di violenza (da cui il titolo “Stupro a pagamento”), per cui in sostanza prostituirsi non rappresenta mai una libera scelta.

    La Legge Merlin è nata per arginare il fenomeno della schiavitù della donna ai fini dello sfruttamento sessuale: i frequenti tentativi di abrogarla e/o di modificarla nel corso di questi 61 anni dalla sua nascita testimoniano come la conquista dei diritti e della libertà delle donne richieda tuttora una forte mobilitazione per la sua difesa. Il percorso per garantire i diritti raggiunti non sembra affatto concluso ed anzi lascia supporre che sia lastricato di insidie e battaglie future.

dr Antonio La Torre, psichiatra, psicoterapeuta, sessuologo

www.cisonline.net/news/case-chiuse-e-legge-merlin

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CHIESA CATTOLICA

La Comunità di Bose: banco di prova per nuove comunità e movimenti

 

Comunità di Bose – Magnano – provincia e diocesi di Biella – Piemonte

 

Bose rappresenta un microcosmo del cristianesimo attuale, e la crisi in corso deve essere vista nel contesto di una Chiesa che sta vivendo una transizione istituzionale e spirituale. La Chiesa cattolica in Italia ha vissuto uno choc nelle ultime settimane dopo che la Comunità di Bose ha annunciato che la Santa Sede aveva ordinato al suo settantasettenne fondatore ed ex priore, Enzo Bianchi, di lasciare il monastero ecumenico e di andare temporaneamente a vivere altrove. Anche ad altri due fratelli e ad una sorella è stato ordinato di lasciare la comunità.

Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha emanato l’ordine il 13 maggio 2020. E papa Francesco personalmente ha approvato la decisione “in forma specifica”, il che significa che è definitiva e che non può essere appellata. L’intervento della Santa Sede è iniziato con una “visita apostolica” di un mese al monastero, visita che la comunità non ha mai richiesto, ma che ha accettato.

Più di una comunità tradizionale o neo-monastica. Tre inviati papali hanno effettuato la visita dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020. Hanno steso un rapporto che è stato “elaborato sulla base del contributo di testimonianze liberamente date da ogni membro della Comunità”. I documenti riguardanti questo caso (il rapporto della visita, il decreto, la lettera del cardinale Parolin alla comunità) non sono stati resi disponibili al pubblico.

Bose non è una comunità monastica tradizionale o neo-monastica. È, davvero, qualcosa di più. È composta in maggioranza da fratelli e sorelle non ordinati. C’è una minima presenza di presbiteri, solo per provvedere ai sacramenti per i suoi membri e per gli ospiti della comunità. Bose è stata estremamente importante per il cattolicesimo italiano come centro per il ressourcement “ritorno alle sorgenti” – del Concilio Vaticano II. La sua riscoperta e riproposta delle tradizioni dei primi cristiani – quindi delle Chiese orientali, dalla Siria fino alle prime missioni cristiane in Cina – ha aperto l’orizzonte di molti cattolici. E con questi ultimi si intendono preti e laici, esperti e anche non esperti. È anche un centro di ressourcement per il dialogo con la società più vasta, grazie alla sua molto apprezzata casa editrice.

Buona liturgia, ottimo cibo e approccio teologico globale. Bianchi e la comunità hanno capito il potenziale del “post-secolare”, senza mai soccombere alla tentazione del clericalismo, dell’integralismo e dell’apologetica. Né sono stati sedotti dai pericoli opposti, come un vago spiritualismo che è talvolta non solo post-ecclesiale, ma anche post-cristiano. Per questo motivo, coloro che sono stati a Bose – sia cattolici che non cattolici – non dimenticano mai l’approccio teologico globale della comunità, e non solo le belle liturgie e l’ottimo cibo. Ricordo ancora quando Bianchi parlò a centinaia di giovani ragazzi e ragazze leader dell’Associazione scoutistica italiana (AGESCI) nell’agosto 1997.

 Cercava di liberare il cattolicesimo dalla rigida identificazione, quasi ossessiva, con la morale sessuale. Disse anche cose come “da cristiani, non possiamo comprendere l’omosessualità solo dal punto di vista biblico”. Eravamo ancora nel pontificato di Giovanni Paolo II e ho cominciato ad essere amico di Enzo e della comunità. Ho poi passato diversi mesi nei primi anni 2000 vivendo con loro e cercando di discernere, con il loro aiuto, una possibile vocazione monastica.

Conosco personalmente coloro che sono coinvolti nella dolorosa situazione attuale. Ma non li conosco solo io. Una componente fondamentale di Bose è l’ospitalità per giornate di ritiro, corsi biblici e convegni. Ogni anno sono circa 20.000 le persone che soggiornano nel monastero della comunità vicino a Torino e in altre fraternità nell’Italia centrale e meridionale.

Un vero trauma per la “generazione Bose” di cattolici italiani. I cattolici italiani delle ultime due generazioni hanno sempre saputo che Bose c’era, indipendentemente da quanto potesse essere brutta la situazione nella Chiesa. Per loro, l’ultimo capitolo nella storia della comunità è stato un vero trauma. Per la “generazione Bose” di cattolici italiani, come li ho chiamati, è stato come vedere i loro genitori in tribunale per il divorzio.

Ma in questo caso il giudice è papa Francesco, il che complica enormemente le cose dal punto di vista sia spirituale che ecclesiale. Si spera che la cosa finisca con l’essere solo una separazione temporanea e non un divorzio conclamato, dato che ci sono anche implicazioni ecumeniche. Bose ha realizzato importanti legami con le Chiese protestanti e in modo speciale con le Chiese ortodosse orientali – con i loro vescovi dell’Europa dell’Est, del Medio Oriente, della Russia e degli Stati Uniti.

C’è una antipatia ben sedimentata contro Bose in alcuni circoli tradizionalisti in Italia e in Vaticano. Ma questo recente intervento della Santa Sede non ha niente a che fare con problemi dottrinali riguardanti il fondatore, gli altri tre membri a cui è stato ordinato di andarsene o la comunità in generale.

Complicata transizione di leadership e fine di un’era. L’intervento si riferisce piuttosto alla difficile transizione di leadership dal fondatore al nuovo priore, che è stato eletto nel 2017 dopo che Bianchi aveva dato le dimissioni. Il fondatore aveva anche annunciato diversi anni prima che avrebbe dato le dimissioni.

            L’elezione del nuovo priore, Luciano Manicardi [laureato a Bologna in lettere classiche], si è svolta secondo la regola della comunità. Ed è stata in continuità sia con il carisma fondativo che con il fondatore, dato che il nuovo priore era stato vice-priore nei nove anni precedenti. Ma per Bose era la fine di un’era.

E la transizione dal fondatore alla seconda generazione è stata perfino più complicata di quella che avviene in maniera già normalmente difficile in altri movimenti e comunità. Bianchi è enormemente popolare e carismatico, non solo all’interno della comunità o del cattolicesimo italiano. È anche uno degli intellettuali più conosciuti nei principali media italiani, compresa la televisione pubblica nazionale. I suoi libri si vendono sempre molto bene e non solo a cattolici: in un certo senso, Bianchi è secondo solo a papa Francesco.  

 

 

La transizione da Bianchi a Manicardi è stata resa ancora più difficile da quello che la giornalista francese Marie-Lucile Kubacki ha definito il problema “celebrità”. Non è del tutto diverso dal problema dell’“emerito” nell’attuale pontificato. Nella religione mediatizzata di massa di oggi è assai difficile, se non impossibile, per ogni leader molto in vista di una comunità religiosa, semplicemente scomparire o diventare un eremita. Bianchi è stato più visibile di qualsiasi “emerito”, che si tratti di vescovo, abate o superiore generale di una comunità religiosa, da quando ha dato le dimissioni da priore.

Problemi di lungo termine per tutte le nuove comunità ecclesiali. Visto tutto questo, la temporanea separazione del fondatore dalla comunità è dolorosa ma necessaria. Procura il tempo e lo spazio necessario per guarire sia per la comunità che per i quattro fratelli e sorella separati. Il termine “separati” è estremamente doloroso per una comunità che ha l’ecumenismo come una delle sue componenti chiave. I problemi di lungo termine rimangono e aspettano una risposta: non solo per Bose, ma anche per tutte le nuove comunità e i nuovi movimenti ecclesiali che sono sorti dopo il Concilio Vaticano II(1962-1965). Bose ha sempre rappresentato molto di più delle solite nuove comunità ecclesiali o neo-monastiche. È diventata uno spazio di respiro per quei cattolici e per altri cristiani che sono spesso in rapporti difficili con le loro Chiese locali o per coloro che semplicemente cercano qualcosa di più di quanto la Chiesa locale può offrire. Questo ha posto un ulteriore e particolare peso sulle spalle della comunità e del fondatore. Ma, naturalmente, non è solo il problema di ciò che gli amici (o perfino i nemici) della comunità vorrebbero fare di Bose. Prima di tutto è il problema di ciò che vogliono fare di Bose i fratelli e le sorelle della comunità. La comunità ha scelto di rimanere in silenzio per ora. I problemi riguardano il contenuto del decreto e della lettera di accompagnamento del cardinale Parolin alla comunità.

Verso un nuovo status canonico? Dal punto di vista canonico, Bose è un’associazione di fedeli laici. Molti temono che ci possa essere una mossa per cambiare il suo status canonico. Ma temono anche che possano esserci mosse che alterino il DNA della comunità e il suo modo di vita unico: l’ecumenismo, l’ospitalità eucaristica, il carattere laico e non clericale. Tali cambiamenti andrebbero oltre e contro le intenzioni della comunità, per come la conosciamo. I pareri dei fratelli e delle sorelle non cattolici, specialmente nella traiettoria ecumenica della comunità, dovrebbero essere attentamente considerati. Il fatto che il decreto sia venuto dal Vaticano – specificamente dalla Segreteria di Stato e dal papa – e non dal vescovo locale, pone seri problemi ecclesiologici. Forse è stata una estrema ratio per una situazione interna che era diventata insostenibile, O forse la ragione è che la Chiesa cattolica ha una forma ancora troppo vicina a quella prevista dal Vaticano I(primato papale) che dal Vaticano II (responsabilità delle conferenze episcopali e dei vescovi locali). D’altro canto, è probabilmente irrealistico pensare che l’ordinario locale potesse ordinare qualsiasi cosa a Bianchi o alla comunità, dato il rilievo internazionale di Bose.

Nel contesto dell’attuale pontificato. Quanto avviene a Bose è importante per gli uomini e le donne che ci vivono, ma ci sono anche conseguenze per il futuro delle nuove comunità e dei nuovi movimenti. I gruppi post-Vaticano II vivono ancora in una situazione istituzionale precaria, in cui uno “stato di eccezione” (una crisi interna come questa) permette ancora l’intervento papale. È come un déjà vu negli ultimi dieci secoli della storia della Chiesa. Il motivo è che le nuove comunità e i nuovi movimenti tendono ad accentuare la loro coesione interna, anche a scapito della trasparenza (ma questo non riguarda assolutamente il caso di Bose). Sanno che ogni spaccatura interna potrebbe accelerare un intervento dall’alto, privando la comunità della sua libertà. Ciò che è appena successo a Bose deve essere visto anche nel contesto del presente pontificato. Francesco ha continuamente ricordato alle comunità e ai movimenti cattolici che non devono pensare di essere delle élite nella Chiesa, ma parte della Chiesa come popolo. Questa è una prospettiva teologica diversa e non esattamente ciò che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI dicevano a questi movimenti.

Ma l’intervento vaticano a Bose ha mandato segnali potenzialmente angoscianti ad altre nuove comunità. Che ora si chiedono: se questo è successo a Bose, potrebbe succedere altrettanto anche a noi? L’intervento potrebbe rafforzare il carisma di Bose o forse è il primo passo da parte dell’autorità ecclesiastica centrale di Roma per riconoscere formalmente Bose. È ciò che è successo con la maggior parte delle nuove comunità e dei nuovi movimenti cattolici negli ultimi decenni. Ma questo potrebbe anche indebolire la specificità e l’unicità di Bose agli occhi dei cattolici e dei partner ecumenici della comunità. Bose rappresenta un microcosmo del cristianesimo attuale, e la sua attuale crisi deve essere vista all’interno del contesto di una Chiesa che sta vivendo una transizione istituzionale e spirituale. La soluzione alla crisi non è unire il cristianesimo alle mode culturali attuali, ma alle grandi sorgenti della indivisa tradizione cristiana. Ed è a questo che la comunità di Bose era, è e, si spera, sarà sempre unita.

Massimo Faggioli   “La Croix International” 10 giugno 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.viandanti.org/website/wp-content/uploads/2020/06/200611faggioli.pdf

 

Pensando a Bose e alla chiesa

Per Bose questi sono i giorni della tribolazione e della prova. La Chiesa universale, la Chiesa italiana, il cammino ecumenico, la ricerca liturgica, la lectio divina (che vuol dire la centralità della Parola), i molti che negli oltre cinquant’anni di vita della comunità sono passati e spesso tornati a Bose e nelle altre fraternità (Assisi, Cellole, Ostuni, Civitella), tutti dobbiamo molto a questa realtà frutto del Concilio e al suo fondatore Enzo Bianchi.

 

Turbamento e gratitudine.

Di fronte a quanto è accaduto si viene presi da molti sentimenti contrastanti e da un forte sconcerto, acuito in particolare dalle scarse informazioni ufficiali e dal silenzio dei vescovi italiani, che non sembrano giovare a una presa di coscienza del Popolo di Dio. Ogni questione di grande rilievo che riguarda una comunità, come questa di cui stiamo scrivendo, non può mai essere una questione privata. Interessa tutta la Chiesa.

            Superato il turbamento iniziale, la ragione ci aiuta a tenere in primo piano il senso di gratitudine per il cammino di Chiesa che Bose ci lascia intravvedere. Un futuro possibile, che intercetta nel profondo i segni dei tempi (non la moda del tempo), che anticipa – come è proprio di chi nella Chiesa vuole essere segno del “già e non ancora” – linguaggi e pratiche che dovrebbero farsi strada per consentire alla Chiesa di parlare alle future generazioni e di ritornare ad essere una.

            Non si può che sperare che l’atto di sofferta obbedienza compiuto da Bianchi e dai suoi tre confratelli possa riportare serenità a Bose e che il tempo aiuti la necessaria riconciliazione.

            Il futuro in una Lettera. Al momento l’attenzione più che alle dinamiche interne, per le quali occorre rispetto più che una ricerca inquisitoria che a poco servirebbe (si veda in proposito intervista a prof. Larini), si dovrebbe appuntare su ciò che interessa la dinamica ecclesiale che in un certo senso supera Bose e il suo fondatore.             http://confini.blog.rainews.it/2020/06/03/il-caso-bose-intervista-a-riccardo-larini

            Centrale, in proposito, è quanto si legge nel comunicato di Bose del 26 maggio in questo passaggio: “Con lettera del Segretario di Stato al Priore e alla Comunità, inoltre, la Santa Sede ha tracciato un cammino di avvenire e di speranza, indicando le linee portanti di un processo di rinnovamento, che confidiamo infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica”. Lo stesso comunicato informa anche del fatto che uno dei visitatori apostolici, il padre canossiano Amedeo Cencini, è stato nominato delegato pontificio con pieni poteri, non è fuori luogo, pertanto, ritenere che le “linee portanti di un processo di rinnovamento” contenute nella lettera del cardinale Parolin, troveranno una loro puntuale realizzazione.

L’affermazione “processo di rinnovamento” senza la precisazione dei suoi contenuti può lasciare adito ad interpretazioni completamente opposte: una nel segno dell’innovazione e un’altra nel segno della conservazione o della “normalizzazione”. È anche questa ambivalenza che renderebbe opportuna la pubblicazione del testo della Lettera o quantomeno, per restare negli standard di riservatezza della comunicazione della Santa Sede, un comunicato che presenti i contenuti di questo “rinnovamento”.

Un rinnovamento nel segno di Francesco? Rinnovamento è una parola chiave dei documenti e dei discorsi di papa Francesco. Nel suo testo programmatico, “La gioia del Vangelo” (Evangelii gaudium), il rinnovamento ricorre spesso e viene messo in relazione con l’esigenza di una riforma; le esemplificazioni poi sono sempre in contrapposizione alle visioni statiche e superate della pastorale, con un esplicito invito a non restare “ancorati alla nostalgia di strutture e abitudini che non sono più portatrici di vita nel mondo attuale”. Il rinnovamento è perciò definito con una direzione precisa. Francesco sogna un cambiamento profondo che trasformi “le consuetudini, gli stili, il linguaggio”. E l’invito è “ad essere audaci e creativi in questo compito” (nell’ordine EG 26, 108, 27, 33).

            Di e su Bose/Enzo Bianchi si possono dire molte cose, non certamente che non sia stato audace e creativo nel realizzare il cambiamento dando vita ad una comunità monastica mista e interconfessionale. Anche nel rinnovamento del linguaggio (liturgia, salterio, …), che è una vera emergenza per la trasmissione della fede. Annota in proposito il Vescovo di Roma: “gli enormi e rapidi cambiamenti culturali richiedono che prestiamo una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità. […] ascoltando un linguaggio completamente ortodosso, quello che i fedeli ricevono […] è qualcosa che non corrisponde al vero Vangelo di Gesù Cristo. […] In tal modo, siamo fedeli a una formulazione ma non trasmettiamo la sostanza. […] il rinnovamento delle forme di espressione si rende necessario per trasmettere all’uomo di oggi il messaggio evangelico nel suo immutabile significato” (EG 41).

            Il “processo di rinnovamento” di cui parla la Lettera avrà questo respiro? Tutti ce lo auguriamo, anche se per ora la domanda non ha una risposta. Normalizzazione o un rinnovato slancio? Ogni atto creativo ed audace facilmente, nella sua fase originaria (e 50 anni per un’istituzione si può dire siano ancora l’infanzia), ha bisogno di definizioni istituzionali “leggere” per non imbrigliare il suo spirito in forme vetuste alle quali vuole, invece, portare nuova linfa. Questo è forse il vero nodo al quale Bose viene posta di fronte, come prima ancora altre forme innovative, una per tutte quella di Francesco d’Assisi.

            La preghiera nella vicinanza alla quale ci invitano i fratelli di Bose (Il nostro cammino – 1.6.2020) sembra indicarci proprio questo nodo. Ci chiedono di pregare affinché la “Comunità nel suo insieme possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”.

            Ogni grande istituzione, la Chiesa per particolare che sia è una di queste, cerca di “normalizzare”, cioè di riportare nell’alveo di norme e regole precise il nuovo; questo avviene a volte in senso negativo e repressivo, a volte, dipende dalla lungimiranza di chi detiene il potere, nel positivo intento di assicurare al nuovo la possibilità di svilupparsi e di portare frutto a tutti. Il “rinnovato slancio” in cui si confida a Bose.

            Un rinnovamento di cui ha bisogno anche la Chiesa. “Rinnovare” Bose sembra una tautologia, in quanto Bose è già di per sé il rinnovamento. La Chiesa, il Vescovo di Roma (che sembra essersi esposto anche personalmente nella vicenda) impegnandosi in un “processo di rinnovamento” di questa comunità non può contemporaneamente non impegnarsi in un processo analogo per le norme della Chiesa. Se Roma vuole veramente, e non abbiamo ancora motivo per dubitarne, portare un aiuto a Bose “tenendo conto della rilevanza ecclesiale ed ecumenica della Comunità… e dell’importanza che essa continui a svolgere il ruolo che le è riconosciuto” non può pensare di restare nella sola prospettiva del diritto costituito e “proteggere” Bose traghettandola da “Associazione privata di fedeli” alle forme di monachesimo già conosciute.

La sfida non riguarda invece l’esigenza di una riforma delle leggi vigenti per accogliere il nuovo che in questi cinquant’anni ha dato buona prova di sé? Occorrerà, forse, avere il coraggio di percorrere la strada di un diritto che segue e accompagna l’esperienza, cioè del “diritto costituendo” (de iure condendo) di cui parlano i giuristi, al fine di dare la giusta collocazione a Bose.

            Una questione di otri. Il problema non è nuovo già nelle comunità cristiane dei primi tempi, per le quali scrive Luca, doveva esserci una questione analoga. Luca, infatti, alla parabola in cui parla del vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi e pertanto “il vino nuovo va messo in otri nuovi!” (5,38), aggiunge questa sentenza: “Colui che beve vino vecchio non vuole il nuovo, perché dice: il vecchio e migliore” (5, 39). E il commentatore annota “L’esigenza di un salto di qualità per un’esperienza cristiana autentica è sottesa a quest’ultima sentenza”. Infatti al sommelier lucano sembra sfuggire che per poter bere del buon vino vecchio occorre conservare bene il nuovo.

            Rimanda vagamente alla diatriba degli otri anche quanto Francesco, vescovo di Roma, scrive al numero 26 de La gioia del Vangelo: “Ci sono strutture ecclesiali che possono arrivare a condizionare un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica”. Una vitalità ben presente a Bose, della quale in molti (battezzati-laici, vescovi, cardinali e i massimi esponenti delle altre confessioni cristiane) sembrano essersi accorti in tutti questi anni.

In attesa che si trovi l’otre giusto, noi dobbiamo vigilare e anche accogliere l’invito di Bose a pregare affinché “possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane”.

Franco Ferrari            presidente Associazione Viandanti               10 giugno 2020

www.viandanti.org/website/pensando-a-bose-e-alla-chiesa

 

Bose: riconoscenza e speranza

            Abbiamo assistito nelle settimane scorse davvero un po’ con il fiato sospeso alla tempesta che ha coinvolto da una parte la comunità monastica ecumenica fondata a Bose da Enzo Bianchi e dall’altra la santa Sede e lo stesso Francesco. Difficile conoscere realisticamente dall’esterno i problemi e perfino i documenti, che restano riservati e comunicati agli interessati in forma privata, e quindi è sempre raccomandabile una riflessione misurata, che tiene conto delle sofferenze e non esclude valutazioni e timori, ma rifugge dalle contrapposizioni che lasciano soltanto cenere.

Dopo qualche settimana di decantazione, il 19 giugno 2020 l’annunciata Lettera agli amici (il testo sul sito della Comunità)          www.monasterodibose.it/comunita/notizie/vita-comunitaria/13903-il-nostro-cammino

 inviata dai fratelli e dalle sorelle di Bose ricostruisce gli antecedenti e chiarisce i termini della vicenda e, senza negare possibili diverse interpretazioni, riconosce lo scandalo e offre una risposta alla domanda: come leggere con gli occhi della fede questo evento della visita apostolica e delle sue conclusioni, rivelatosi da un lato necessario e, d’altro lato, fonte di sconcerto e di ulteriori sofferenze anche tra di noi fratelli e sorelle di Bose? Crediamo che la risposta non la si possa trovare nell’attribuire colpe e responsabilità agli uni o agli altri, bensì nella lucida constatazione che “non siamo migliori” e che il Divisore non ci ha risparmiato e noi non abbiamo saputo fronteggiarlo con sufficiente fede, speranza e carità. […] È una realtà che noi da sempre tocchiamo con mano e di cui ora anche voi, amici e ospiti, vi rendete conto con sofferenza. Anche questa crisi che ora è esplosa in modo manifesto, e per tanti di voi in maniera assolutamente inaspettata, ha in verità radici più lontane.

 Con tutti coloro che i questi decenni hanno riconosciuto nella Comunità ecumenica di Bose un luogo dello spirito sensibile alle urgenze del nostro tempo, ci auguriamo che non siano solo un ricordo i passaggi rasserenanti di libertà, di preghiera, di studio, di cibo dell’orto. Quanto accaduto resta una ferita alla credibilità della chiesa, forse uno degli scandali che l’evangelo riconosce necessari, e per noi del Gallo una ragione in più di sofferenza. Infatti le consonanze con la comunità di Bose “a riguardo dello spirito e dei modi con i quali vivere la fede ed essere Chiesa” mentre il “vento dello Spirito continua a investire la cristianità” hanno portato per alcuni anni i giovani monaci riuniti attorno a Enzo Bianchi, all’inizio della loro esperienza, “a confluire nelle pagine del Gallo. A cominciare da questo quaderno del gennaio 1971″, scrivono i galli nel gennaio 1971.

            Alberto Mello, monaco della prima ora, sul quaderno del febbraio dello stesso anno, illustra ai lettori del Gallo la comunità ecumenica di Bose: La preghiera che viene fatta al mattino, mezzogiorno e sera, è il momento centrale della vita comunitaria, momento di lettura e ascolto della parola che è il solo fondamento della nostra vita di cristiani e momento di intercessione presso Dio, per i fratelli e il mondo.  Proprio per l’urgenza di una attualizzazione di questa intercessione ai problemi e alle esigenze dell’uomo e del mondo di oggi, la comunità ha elaborato una preghiera propria, frutto dell’esperienza umana e spirituale di ciascuno. […] La comunità, inoltre, è aperta, senza alcuna selezione degli ospiti, a chiunque voglia trascorrere un certo periodo di vita comune, oppure di silenzio e di riflessione.  […] E ci sono alcuni, noi lo diciamo con voce sommessa, che vengono qui a vivere la loro vita cristiana e sacramentale perché non resistono nell’ufficialità ecclesiastica.   […]

All’interno della Chiesa, il nostro primo e più specifico servizio è quello della riconciliazione tra i cristiani adesso separati. […] Tuttavia non siamo una nuova chiesa, costruita su nostra misura; riconosciamo di appartenere alle Chiese che ci hanno battezzati. […] In queste svolgiamo il lavoro tipicamente ecclesiale: predicazione, corsi biblici, discussioni. Attraverso questi mezzi, vi è anche un tentativo, molto sentito da parte nostra, di contribuire ad una riformulazione del contenuto della fede in termini sia più comprensibili all’uomo moderno, sia più accessibili anche ai non-specialisti, i non-intellettuali. 

                Nei rapporti fra persone le difficoltà sono purtroppo inevitabili e, anche quando si vuole e si cerca comprensione, qualche logoramento si affaccia in contraddizione delle volontà comunitarie e delle speranze. La collaborazione nell’attività fra la comunità di Bose e il gruppo del Gallo si esaurisce nel febbraio 1974 con l’uscita dalla redazione del giornale dei quattro membri della comunità di Bose che ne facevano parte, senza tuttavia incrinare la reciproca stima. La comunità di Bose diventa una realtà di importanza ecclesiale di rilevanza internazionale e interconfessionale e il nome Bose evoca sempre un’esperienza evangelica, uno stile che pervade tante dimensioni della vita, dalla preghiera allo studio, dall’accoglienza alla partecipazione, dal rispetto per la terra al gusto per la tavola condivisa, dalla produzione culturale alla ricerca estetica. A Bose si fa esperienza di vita alternativa, di una spiritualità che diventa dimensione del quotidiano per donne e uomini, credenti e non credenti, da tutto il mondo e dalle diverse confessioni. 

Nella mai abbandonata dimensione del guscio di noce, anche il nostro Gallo mantiene la ricercata fedeltà evangelica, e Enzo Bianchi, in occasione della presentazione del volume curato da Luca Rolandi, Giovanni Varnier e Paolo ZaniniDal 1946 Il gallo canta ancora” scrive sul Secolo XIX del 16 settembre 2018:  Da oltre settant’anni la voce di questa amicizia risuona schietta e discreta, a invitare al ripensamento innanzitutto i galli, quel gruppo di genovesi che non si è mai rassegnato a subire la vita senza riflettere sul suo senso. Di questa redazione di amici dell’umanità e della serietà ho fatto parte anch’io… […] Emerge la grande duttilità e la profonda fedeltà testimoniata da una vicenda culturale che, nel progressivo mutare degli artefici, ha sempre saputo allargarsi da Genova fino a respirare l’anelito di vita e di senso del mondo intero.

                Abbiamo dunque seguito con disagio e turbamento le notizie sulle vicende recenti che rischiano di dissolvere un’esperienza preziosa e dare fiato alle aggressioni mediatiche subite nei decenni dalla Comunità di Bose proprio perché permanente frutto di quello spirito conciliare contestato e in gran parte dissolto nei decenni successivi dalle autorità curiali e da tanta parte dell’episcopato e del clero, ma felicemente richiamato negli ultimi anni dalla pastorale di Francesco. 

Abbiamo letto in questi giorni interventi con prese di posizione concilianti, onestamente alla ricerca di comprensione anche delle posizioni diverse, nella speranza di salvare il salvabile, o forse frutto di ipocrisie clericali volte a sopire le polemiche per ottenere sottomissione. Abbiamo letto contrapposizioni di radicati convincimenti: da una parte la confermata delusione per l’irreformabilità della chiesa con l’accusa di faciloneria e credulità a chi continua a sperare in qualche emergente esperienza evangelica; dall’altra i brindisi di chi, al contrario, è insofferente di ogni realizzazione evangelica e indentifica in Bergoglio l’anticristo. 

Personalmente vorrei mantenere il radicalismo della lucidità, chiamare, come si dice, le cose con il loro nome, non affondare nella melassa del vogliamoci bene: ma anche riconoscere che esistono debolezze, fraintendimenti, errori che non necessariamente significano congiure e pretese di imposizioni. É certamente vero che l’ubbidienza non è sempre una virtù, ma non è neppure detto che non lo sia mai: non so dire se la sofferenza dei monaci che hanno accettato l’allontanamento sia una complicità con gli amministratori del sacro o una speranza sincera di conciliazione.

Nel documento della Comunità non si ignorano le responsabilità, si parla di perdono e di impegno, si riconoscono i fatti precisando che il delegato pontificio gode di pieni poteri nella Comunità, senza però avere il titolo di commissario, e quindi non viene esautorato l’attuale priore regolarmente eletto e che fratel Enzo e altri tre monaci non sono cacciati, ma “temporaneamente allontanati” dal monastero e comunque senza nessun riferimento a questioni di ortodossia dottrinale. Precisazioni importanti, che tuttavia non rimuovono i dubbi sul coinvolgimento di Francesco che non ha firmato il documento e sui tentativi di normalizzazione intesi da chi ha festeggiato l’evento, forse immaginando prossima la fine di un’esperienza che ha alimentato tante speranze di una presenza cristiana nel nostro tempo.  

Non posso tacere la riconoscenza a Enzo Bianchi per la sua creazione e per il suo pensiero illuminante su tante questioni, non solo strettamente religiose, e non posso dire su eventuali errori, ma mi spiace pensare all’allontanamento dal suo mondo, che mi auguro possa assicurare alla comunità un futuro coerente con lo spirito originale soprattutto nei due aspetti più caratteristici: l’ecumenismo e la liturgia. 

            Non è detto – scrive Giuliano Ferrara – che l’allontanamento di Bianchi, fondatore, voglia dire che la comunità monastica di Bose è appassita, ma di sicuro questa fioritura dell’anticlericalismo e orientalismo e evangelismo postconciliare andrà guardata con occhi meno reverenti e pensosi, meno umidi e emotivi, di quanto sia stato fatto fino a ora. L’anticlericalismo e l’evangelismo postconciliare, additati come colpe, sono invece per noi il vino nuovo che, con emozione e passione, speriamo continuino a essere offerti dal monastero di Bose a tutta la chiesa per riempire quelle anfore romane che ne sono ormai svuotate. Difficile immaginare che cosa accadrà e neppure la Lettera da Bose può garantire altro che l’impegno chiedendo preghiere perché   possiamo ricominciare un cammino di conversione e di sequela del Signore, possiamo ascoltare e mettere in pratica ogni giorno il Vangelo: solo così la nostra testimonianza potrà essere credibile e potremo, anche assieme a voi, tratteggiare qualche lineamento del volto del Signore Gesù, così da renderlo visibile e amabile ai nostri fratelli e alle nostre sorelle in umanità. 

            Accanto alla determinazione dei monaci, la preghiera non mancherà e mi piace chiudere con la speranza che la comunità continui a essere come l’ha vissuta la pastora Lidia Maggi: un dono preziosissimo e ad ampio raggio di divulgazione della Parola; una generosità che si traduce in disponibilità ad animare incontri parrocchiali, partecipazione a convegni, interventi puntuali nel dibattito pubblico. Un esempio di chiesa in uscita, grazie al primato dell’ascolto della Parola.

Ugo Basso                   Il gallo ” (n. 7-8/2020)

www.viandanti.org/website/wp-content/uploads/2020/06/BASSO_Riconoscenza-e-speranza-3.pdf

 

Bose: non riesco a capire…

Faccio parte di quella che lo storico del cristianesimo Massimo Faggioli ha opportunamente denominato “generazione Bose”. Ho conosciuto la comunità biellese alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, nel momento in cui, dopo l’adolescenza, devi decidere sul che fare della tua vita e sei anche indotto dalla circostanze sociali e dagli eventi storici a rimotivare la tua fede cristiana.

La comunità fondata da Enzo Bianchi mi è, dunque, familiare da oltre mezzo secolo. Ai miei occhi, è stata e rimane un punto di riferimento fondamentale per il cammino di fede mio e della mia famiglia, un esempio prezioso di concreto servizio reso alla cristianità per la ricerca dell’unità voluta dal Signore Gesù, un’esperienza di Chiesa che avverte l’esigenza di riformarsi continuamente per essere sempre più fedele all’Evangelo, un modo rispettoso di rapportarsi con uomini e donne di orientamenti culturali diversi ma accomunati dall’impegno ad abitare il mondo nella giustizia e nella solidarietà.

Perché – come ci ricorda papa Francesco nell’Evangelii gaudium – una fede autentica non è mai comoda e individualista, ed implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Quello che Bose mi ha insegnato è un cristianesimo umile e profetico, libero e coraggioso, mai fazioso o integralista, mai dogmatico o manicheo, partecipe – come si legge nell’incipit della Gaudium et spes delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini e delle donne di oggi, in particolare dei poveri e delle persone violate nella loro dignità.

«Poveri cristiani che tentano di vivere il Vangelo»: così amano definirsi i monaci e le monache di Bose, e così amiamo definirci anche noi che alla loro comunità ci sentiamo uniti dall’amicizia, dalla stima e dal desiderio di camminare insieme alla sequela di Gesù. Della fede cristiana testimoniata al monastero di Bose ho sempre apprezzato la centralità della sacra Scrittura e l’arte dell’ascolto della Parola di Dio in essa attestata, l’essenzialità della vocazione battesimale, la capacità di intercettare le sfide che la società secolarizzata pone ai cristiani, l’essere una comunità fatta di uomini e donne appartenenti a confessioni cristiane diverse, la dimensione non clericale del vivere insieme, la bellezza della liturgia che si manifesta anche nell’ utilizzo di un linguaggio rispettoso di un’assemblea fatta di uomini e donne, di fratelli e sorelle.

        Prima cappella di Bose            

 

Concordo con quanto detto in questi giorni dal teologo Riccardo Larini che ha fatto parte della comunità di Bose per undici anni: «Bose è un esempio straordinario di come lo studio, la conoscenza, la profondità e l’ardire del pensiero siano compatibili con la fede cristiana, e anzi la rafforzino».

Ciò che è successo a Bose nelle ultime settimane mi inquieta e mi sconcerta. Leggo e rileggo i due “comunicati” del maggio 2020 inseriti nel sito web della comunità. Rileggo la “lettera agli amici dell’Avvento 2014” (accoglimento gioioso della Charta visitationis redatta e firmata dai visitatori canonici esterni alla comunità), la “lettera agli amici” dell’Avvento 2018 («siamo una piccola comunità… che non è esente dalle fatiche e dalle sofferenze che oggi la Chiesa vive nel mondo e che gli uomini e le donne conoscono nel duro mestiere di vivere»), nonché la lettera in data 11 novembre 2018 inviata da papa Francesco ad Enzo Bianchi in occasione del 50° anniversario della comunità monastica di Bose («la vostra Comunità si è distinta nell’impegno per preparare la via dell’unità delle Chiese cristiane, diventando luogo di preghiera, di incontro e di dialogo tra cristiani, in vista della comunione di fede e di amore per la quale Gesù ha pregato»).

E continuo a non capire perché sia stato necessario giungere alla drastica decisione di allontanare temporaneamente da Bose Enzo Bianchi, Lino Breda, Goffredo Boselli e Antonella Casiraghi, “colonne portanti” di un’esperienza di vita cristiana profeticamente significativa non solo per la Chiesa italiana.

Non riesco a credere che all’origine di un passo così grave ci siano solo questioni concernenti «l’esercizio dell’autorità del Fondatore», «la gestione del governo» ovvero ancora «il clima fraterno». Ho la sensazione che ci siano altre ragioni al momento non chiarite. Penso allora che sia necessario disperdere la nebbia del non detto che offusca oggi la comunità. Poter guardare in faccia i problemi è sempre meglio che lasciar circolare ipotesi più o meno fantasiose che si leggono in questo periodo sia sui social che sui giornali.

Questo non per curiosità fine a se stessa, ma perché, avendo condiviso assieme a tante altre persone, pur dall’esterno, un’esperienza di Chiesa così straordinaria e unica, avverto fortemente il bisogno di capire dove ci troviamo, quali sono gli ostacoli, quali i rischi, quali le prospettive.

Mi sembra perciò che sia motivata la richiesta accorata di poter ascoltare, appena i fratelli e le sorelle del monastero di Bose lo riterranno opportuno, parole di chiarezza e di pace. La franchezza è in questo caso una condizione necessaria per poter continuare con rinnovata amicizia e immutata stima il cammino comune.

Andrea Lebra già sindacalista Cisl                 Settimana news                      12 giugno 2020/ 26 commenti

www.settimananews.it/vita-consacrata/bose-non-riesco-capire

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CHIESE EVANGELICHE

L’autorità nella chiesa, le forme e i rischi

La premessa: queste considerazioni non intendono in alcun modo commentare la dolorosa vicenda che coinvolge la Comunità di Bose e il suo fondatore, Enzo Bianchi.

Quest’ultima ne è solo l’occasione. I fatti sono noti: in seguito a difficoltà interne al monastero, il Vaticano è intervenuto, su richiesta della comunità stessa, e ha deciso, con decreto «inappellabile», l’allontanamento da Bose di Bianchi e di altre tre persone. Tra le innumerevoli reazioni, mi ha colpito quella del gesuita Bartolomeo Sorge, per anni direttore de La Civiltà cattolica, poi dell’Istituto di Formazione politica “Pedro Arrupe” di Palermo. Sorge invita Bianchi ad «accettare con amore la sofferenza della prova», perché «la croce si accetta anche senza capirne le ragioni»; «quando la Chiesa interviene, si bacia la mano della Chiesa che è nostra madre»; «le botte prese sono l’autenticazione dell’opera di Dio» (cito da un articolo di Luciano Moia su Avvenire del 29 maggio). Tale linguaggio non è nuovo, naturalmente: un’obbedienza di tal genere è stata richiesta e spesso ottenuta innumerevoli volte nella storia anche recente del cattolicesimo. Spesso chi colpiva citava l’obbedienza dei colpiti del passato (ad esempio Chenu, Congar, Mazzolari e innumerevoli altri) come esempio per i colpiti più recenti (Küng, Schillebeeckx, Boff, ecc.).

Come credente evangelico sono impressionato. Credo sarebbe un grave errore liquidare questo atteggiamento spirituale in nome, che so, della libertà evangelica o, ancor meno appropriatamente, della democrazia o dei diritti dell’essere umano. Discorsi come quelli di padre Sorge non sono a cuor leggero e manifestano un amore per la chiesa e un rispetto della sua autorità che dovrebbero far riflettere la fede protestante. Quanto spesso trattiamo la chiesa come una semplice associazione, preferibilmente anarcoide, e ci mostriamo del tutto incapaci di comprendere il senso dell’esercizio dell’autorità nella comunità cristiana. Basta qualche citazione imparaticcia di Lutero o di qualcun altro per trasformare la nostra cosiddetta coscienza nel tribunale (anch’esso inappellabile, come la curia romana!) dal quale dipende il nostro operare e, se ci riesce, anche quello della comunità. Usata in rapporto alla chiesa e a chi ha il compito di dirigerla, una parola come “obbedienza” ci appare non solo estranea, bensì ripugnante: e parlo anche di me stesso. Da un certo punto di vista, le parole di Bartolomeo Sorge meritano di essere meditate in preghiera.

Non basta dire (anche se con ragione): quella evangelica è una vera chiesa. Bisogna anche pensare, sentire, vivere la chiesa e, in essa, l’autorità. Detto questo, non riesco a respingere, di fronte a questo sentire cattolico, un’impressione di sublimazione mistica dell’obbedienza che mi inquieta almeno quanto le tendenze anarcoidi in ambito evangelico. Gli aspetti di perplessità sono diversi e vanno dalla naturalezza nell’uso del linguaggio della “croce” (che a mio giudizio andrebbe, proprio in questo contesto, problematizzato), all’immaginario del “baciare la mano” che ti schiaffeggia. Non potendo però, in questa sede, entrare in dettagli, mi concentro sul punto principale.

L’amore per la chiesa come corpo terreno del Risorto (chi si scandalizzasse per queste espressioni sappia che sono di Ernst Käsemann, uno che non ha bisogno di lezioni di protestantesimo, né di critica biblica) non deve accecare di fronte al fatto che essa è anche una realtà umana, la quale non può fare a meno di forme di potere. Esse restano tali anche se intendono porsi a servizio della comunità. Demonizzarle non ha alcun senso. Nessun corpo sociale può vivere senza autorità, la quale deve avere strumenti per essere efficace. Questo è il “potere” nella chiesa.

Se le forme del suo esercizio, tuttavia, anziché essere analizzate criticamente, sono trasfigurate in una mistica della chiesa, che identifica in modo diretto l’autorità con Cristo stesso, la frittata è fatta. Non solo il potere sfugge al controllo della comunità, ma risulta direttamente divinizzato e comanda obbedienza a se stesso, identificandosi con Cristo; con ciò esso si pone, in linea di principio, al di sopra di ogni critica, che viene bollata come ribellione malvagia alla propria “madre”. Tutto ciò, come si può facilmente constatare, presuppone l’identificazione secca, nonostante ogni appassionata difesa della tesi contraria, tra chiesa e autorità ecclesiastica. Se la dimensione umana della chiesa risulta (per dirla molto, ma molto prudentemente) sottovalutata in questo modo, ciò inibisce un’analisi spregiudicata delle dinamiche di potere in essa all’opera, con conseguenze di enorme rilievo.

Credo che essere protestanti significhi prendere le distanze non solo da tali effetti, ma anche dalle loro cause, assumendosi i rischi, spesso non piccoli, che questo comporta.

Fulvio Ferrario “Riforma”settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi 12 giugno 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202006/200609ferrario.pdf

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CITAZIONI

Giustizia e misericordia nelle parole di Gesù sul matrimonio

Premessa. L’ipotesi, ma anche la sfida, da cui parto in questo mio intervento, è che, essendo Dio, nella Tradizione ebraico-cristiana, simultaneamente giusto e misericordioso, non sia mai possibile, in questa Tradizione, vivere la propria fede senza che il comportamento del credente sia in armonia con la volontà di Dio coniugando a sua volta simultaneamente giustizia e misericordia. E suppongo anche che campo per eccellenza per affrontare questa problematica altamente teologica, e quindi non semplicemente giuridica, sia quella che oggi attiene al rapporto di coppia tra coniugi legati sacramentalmente nel matrimonio. Tutti, in teologia, sono concordi che, trattandosi di un sacramento, c’è in questo legame coniugale una parte che appartiene a Dio e una parte che appartiene all’uomo. E tutti sono analogamente concordi nel comprendere questo legame alla luce del mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, così come concordano che, all’origine di questo particolarissimo legame, stanno i due misteri principali della fede cristiana ortodossa e cioè: Unità e Trinità di Dio; Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo Figlio di Dio e nostro Signore.

Tutto questo dovrebbe significare che, quale che possa essere un problema teologico dibattuto all’interno della fede cristiana, esso non possa essere risolto se non tenendo conto di questi due Misteri principali, appunto, della nostra fede. Ma questo comporterebbe anche che in ogni manifestazione della fede cristiana si debba verificare, sempre e in che misura, vi sia o meno armonia appunto con i Misteri principali della fede. In particolare, si dovrebbe aggiungere che, a proposito del sacramento del matrimonio, non si potrà mai risolvere alcun problema prescindendo dal fatto che la coppia cristiana debba essere sempre, in ogni sua manifestazione, una sorta di immagine (“eikona” nel senso di “già” e “non ancora”) dei due Misteri principali della nostra fede proposti e approfonditi con lo studio della Triadologia e della Cristologia.

La problematica relativa al rapporto tra due coniugi legati dal sacramento del matrimonio, discussa con i due presupposti appena accennati, sarebbe enorme. E dunque in questo intervento non posso che indicarne appena qualche aspetto. Cosa che farò leggendo il tutto alla luce del riferimento alla visione di un Dio, simultaneamente giusto e misericordioso, che sta all’origine dell’intera problematica teologica ebraico-cristiana (Esodo 34, 6-7).

Prendo come punto di partenza di questo intervento il testo di Matteo 19, 3-12 che riporto dividendolo in due parti (una prima, composta da Mt 19, 3-9, e una seconda, più breve, composta da Mt 19, 10-12).

“Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: ‘È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?’ Egli rispose. ‘Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto’. Gli domandarono: ‘Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?’. Rispose loro: ‘Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio’.”

Gli Esseni Moderati e Gesù. A proposito di questa pericope, abbastanza complessa, richiamo appena due contesti che potrebbero aiutare non poco a partire da una prospettiva più adeguata nell’osservare l’insieme della problematica. Il primo è dato dall’ipotesi di una appartenenza di Gesù di Nazareth alla corrente degli Enochichi con particolare riferimento ai cosiddetti Esseni moderati, a proposito dei quali sappiamo adesso qualcosa di più grazie agli studi che, a partire da Paolo Sacchi e dai suoi discepoli, in particolare Gabriele Boccaccini, si stanno sviluppando a livello internazionale. Questa ipotesi imporrebbe una maggiore attenzione al contesto culturale e religioso in cui agiva Gesù di Nazareth e, soprattutto, al dibattito sull’autorità e autorevolezza delle due Leggi ritenute allora fondamentali in Israele: quella inscritta nelle stelle e quella inscritta nelle tavole mosaiche.

            A quale delle due bisognava dare il primato? E inoltre: la legge mosaica aboliva, confermava o interpretava quella inscritta nelle stelle? Le risposte eventualmente date non erano prive di conseguenze, soprattutto nel comportamento pratico. Infatti la Legge inscritta nelle stelle aveva la qualità di essere considerata eterna e solida per sempre, perché ritenuta stabile ed eterna come le stelle, e stava alle origini della divisione del tempo, delle prescrizioni della vita pratica scandita dalle stagioni, nell’alternanza del giorno e della notte, nel succedersi delle settimane, nella diposizione delle feste, nelle prescrizioni rituali di ogni tipo etc.

La Legge inscritta nelle tavole di pietra di Mosè era considerata invece, nonostante il suo pieno inserimento nella prima, come caratterizzata dal legame con la storia sia del popolo che del singolo membro del popolo, comprese le situazioni di limite e di peccato delle quali doveva necessariamente tener conto e verso le quali si piegava con quella accondiscendenza che Mosè aveva imparato dal modo di agire di Dio che era insieme giusto e misericordioso, ma con un primato (vogliamo chiamarlo morale?) della misericordia rispetto alla giustizia. In realtà la Legge promulgata e applicata da Mosè non fu mai quella delle prime tavole, quelle celesti, ridotte in pezzi dallo stesso Mosè, ma fu quella delle seconde tavole incise sulle due pietre che tenevano realisticamente conto della storia dell’uomo. Non solo, ma quelle stesse seconde tavole avevano avuto bisogno, e ne hanno ancora bisogno oggi nella tradizione ebraica, della cosiddetta Legge orale ricevuta nella trasmissione interpretativa che passava da maestro a maestro, a partire appunto dall’interpretazione data dallo stesso Mosè.

Da qui il secondo punto di contestualizzazione: Gesù da che parte stava? E, soprattutto, che significato avevano le sue esplicite interpretazioni del testo della Torà mosaica e della tradizione orale ad essa corrispondenti, quando introduceva – almeno secondo l’evangelista Matteo – le sue interpretazioni con la formula stereotipata: “Avete inteso che fu detto“… seguito da: “Ma io vi dico” (Mt 5, 21-44 passim), di cui abbiamo una eco anche nel testo da cui siamo partiti in Mt 19,9? Punto che non può fare a meno di tener conto di parole molto nette di Gesù che dichiara in Mt 5, 17-19: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.

Simili parole di Gesù potrebbero tradire la presenza di un’eco della polemica contemporanea che distingueva la posizione degli Esseni moderati dalla posizione di altri movimenti di pensiero interni ad Israele. Inserendosi in questi dibattiti, come sembra ovvio, Gesù non prende una posizione alternativa netta, ma anzi cerca di collegarsi con pari rispetto a tutte e tre le tradizioni: la Legge inscritta nelle stelle, quella incisa da Mosè sulle pietre, e quella cosiddetta orale. Che Gesù non intendesse polemizzare in queste cose lo si può dedurre anche da ciò che lui stesso dichiara, come abbiamo visto, in Mt 5, 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento”, con l’aggiunta che precisa: “finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto” (Mt 5, 18).

Dunque Gesù non abolisce nulla, ma conferma. E tuttavia si deve aggiungere inevitabilmente qualche precisazione in più. Infatti ci si può subito chiedere: a quale perennità o stabilità della Legge si riferisce Gesù? Si può essere sicuri che si riferisca alla Legge mosaica? Oppure si riferisce anche alla Legge inscritta nelle stelle? E, terzo, quale era la sua posizione a proposito della Legge orale? Dovremmo forse concludere che il maestro di Nazareth si riferisce a tutte e tre? E se Gesù privilegiasse soprattutto il confronto con la Legge orale, perché caratterizzata dalle interpretazioni e attualizzazioni costanti che sono presenti da sempre in Israele, cosa dedurne per una comprensione adeguata non soltanto della dichiarazione presente in Mt 5,17, ma anche del colore di fondo con cui leggere tutto il suo discorso della montagna? In tutte queste ipotesi restiamo comunque posti di fronte ad una serie di interrogativi che non si può fare a meno di tenere presenti se si vuole abbozzare una qualche risposta, comprensibile anche per noi oggi, nella nostra contemporaneità.

Intanto dobbiamo cercare di capire subito cosa significhi “dare compimento” (plerosai). Si tratta di ciò che noi identifichiamo appunto con il vocabolo “compimento” (secondo la traduzione della CEI)? Si tratta di “completamento”, vocabolo che potrebbe orientare anche verso una sorta di “complementarietà” delle due/tre Leggi, senza porle necessariamente in contrapposizione tra di loro? Oppure si tratta di un invito a considerare con realismo la situazione umana verso la quale si orienterebbe Gesù stesso nel legare sistematicamente la perennità della Legge inscritta nelle stelle con l’accondiscendenza della Legge scritta/orale di Mosè alla debolezza dell’uomo? La motivazione con cui Gesù richiama l’accondiscendenza di Mosè è molto significativa, a questo proposito. Infatti Gesù stesso spiega che Mosè ha piegato le esigenze della Legge inscritta nella natura delle cose fin dal principio “per la durezza del vostro cuore” (Mt 19,8), cioè per tener conto della capacità di comprensione dell’uomo. Infatti sembra che Gesù non abbia fatto altro che porre i suoi interlocutori di fronte alla constatazione che Mosè stesso, scolpendo le seconde tavole sulle pietre (cfr Es 32, 15-19 + Es 34, 1. 4-7) avrebbe, sia pure obtorto collo, preso atto della “durezza del cuore”, accondiscendendo ad essa, senza tuttavia rinunziare a regolare il tutto con realismo, attraverso la richiesta della sottoscrizione di un atto di ripudio.

Le due Tavole di Mosè. La differenza tra le prime e le seconde tavole ricevute da Mosè sul Sinai diviene a questo punto molto importante. Infatti delle prime tavole si dice che erano “tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra” (Es 32, 15); e inoltre che “le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 15, 16). Delle seconde tavole invece si dice che “Il Signore disse a Gesù: ‘Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato'” (Es 34, 1). Apparentemente sembra che si tratti delle stesse tavole, ma in realtà altro erano le tavole “opera di Dio” e altro erano le “due tavole di pietra” che Mosè si era dovuto costruire da sé, sia pure su comando di Dio. È ancora più importante tenere presente che è con queste seconde tavole che Mosè sale sul monte Sinai per stipulare l’alleanza. Dice il testo dell’Esodo: “Mosè tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano” (Es 34, 4).

E non si tratta soltanto di questo, perché occorre aggiungere che è proprio attraverso queste seconde tavole che si stabilisce l’alleanza sinaitica. Prosegue infatti il testo dell’Esodo: “Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui (Mosè), proclamando: ‘Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione’. Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: ‘Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Si, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa di noi la tua eredità'” (Es 34, 5-9).

Le conseguenze di una scelta. Vorrei suggerire che prendere posizione per l’una o l’altra di queste alternative non è senza conseguenze. Infatti è dalla risposta che si dà all’una o all’altra di queste alternative che si avrà la possibilità di chiarire:

  • Quale interpretazione dare all’espressione di Gesù in Mt 5, 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento”;
  • Come valutare il riferimento alla durezza del cuore in Mt 19, 8a: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso”;
  • Quale forza dovrà avere l’osservazione di Gesù in Mt 19, 8c: “All’inizio non era così”.

Per tentare di compiere un passo avanti nella riflessione su questa serie di interrogativi richiamo anzitutto la possibilità o meno di stabilire una connessione tra ciò che si leggerà in Mt 19, 11 e ciò che Gesù stesso aveva dichiarato in Mt 5, 19: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.

La prima osservazione che si impone, a questo proposito, è che in Mt 5, 19 Gesù non parla di “esclusione” dal regno dei cieli, ma soltanto di situazione di “minimo” o di “grande” nel regno dei cieli. L’osservazione ha una sua importanza perché Gesù, immediatamente dopo, e cioè in Mt 5, 20, dichiarerà con una certa solennità: “Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, escludendo in modo esplicito (“non entrerete”: ou me eiselthete), in questo secondo caso, dal regno dei cieli coloro che si fermano semplicemente alla giustizia perseguita dai farisei e non riescono ad andare oltre fino a scoprire la misericordia, agendo di conseguenza.

Il fatto che Matteo distingua l’essere nel regno dei cieli dal non entrarci affatto, non può essere senza importanza. In realtà l’evangelista ci fa sapere, con questa sua distinzione, che ci sono dei precetti minimi la cui osservanza o meno non toglie del tutto la possibilità di entrare nel regno e ci sono invece degli atteggiamenti di fondo che possono escludere totalmente dall’entrare nel regno e che, tra questi atteggiamenti, ci sono proprio quelli dei farisei i quali, come ben sappiamo da tutto il dibattito tra loro e i discepoli di Gesù, intendevano difendere soprattutto, o forse unicamente, gli aspetti legati alla giustizia relativizzando, e perfino escludendo, quelli legati alla misericordia. Da qui la deduzione ovvia dell’esistenza di una sorta di gerarchia dei valori. Ci sono cioè, per Matteo, alcuni valori che permettono di entrare nel regno di Dio, pur venendo considerati piccoli o grandi, e ci sono altri valori che, se disattesi, escludono totalmente dal regno e, tra questi ultimi, ci sono proprio quei valori che pretendono di tenere conto della giustizia, intesa in modo farisaico, senza considerare con altrettanto impegno la misericordia.

Adesso però dobbiamo anche chiederci di quali precetti stia parlando il maestro e capire se si tratta soltanto dell’osservanza della Torà scritta/orale con il contorno della siepe delle cosiddette “mitzvòt” [precetti]; oppure se il maestro di Nazareth intenda comprendere anche certi precetti intesi piuttosto come concessioni, tipo quella di usufruire del permesso di ripudiare la propria moglie, a condizione che venga scritto l’atto di ripudio come prescrive il testo di Dt 24, 1.

All’inizio non era così. La sottoscrizione dell’atto prescritto da Mosè, ritenuta sufficiente per restare parte del popolo di Dio, potrebbe essere intesa come un’osservanza di quei “precetti minimi” che non escludono dal regno pur caratterizzando come “minimo” colui che vi entra per questa strada. E questo stabilirebbe la differenza rispetto a coloro che, cercando nella Torà scritta/orale unicamente la giustizia senza aprirla alla misericordia, ne resterebbero inevitabilmente fuori. Questi ultimi infatti si ritroverebbero in compagnia di coloro che, non interpretando come concessione misericordiosa la richiesta dell’atto di ripudio, ma riducendola a pura formalità, o peggio ancora cassandola, resterebbero fuori dal popolo, e quindi dal regno, come chi, limitandosi alla semplice osservanza formale del precetto, oppure eliminandone la caratteristica di accondiscendenza, non ne ha colto quella dimensione che va oltre la semplice giustizia degli scribi e dei farisei, secondo il detto di Gesù: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 19b). Va da sé che ne resterebbero inevitabilmente fuori anche tutti coloro che non intendessero dare alcuno spazio, con la loro rigida applicazione della giustizia, a quella particolare accondiscendenza che Gesù richiede come scelta necessaria per entrare nel regno. Cosa che succede soprattutto quando si agisce senza tener conto delle conseguenze ovvie che ricadono, esempio in un rapporto di coppia, sulle spalle della persona più debole, esponendola all’adulterio o, ancora peggio, imponendole un’unione adultera (Cfr Mt 5, 32) che escluda del tutto la tenerezza che accompagna necessariamente la misericordia.

Ritornando alla nostra intuizione iniziale potremmo così ritenere che l’insegnamento di Gesù metta in stretta connessione l’intenzione del Creatore, richiamata dalle parole: “all’inizio non era così” (Mt 19, 8c), con la corretta interpretazione dell’accondiscendenza voluta e decisa da Mosè: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso” (Mt 19, 8a). E questo non soltanto per non togliere nulla alla forza della dichiarazione di Gesù in Mt 5, 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento”, ma anche per aggiungere il richiamo ad un insegnamento, costante nella tradizione cristiana, che riguarda l’unità tra Dio Creatore e Dio Redentore, uniti nel contemporaneo rispetto della giustizia e della misericordia, accompagnato dal primato, appunto, della misericordia.

Il primato della misericordia. La riflessione che abbiamo portato avanti finora non può fare a meno di svilupparsi aggiungendo che, in questi casi, si è costretti sempre a non restare soltanto all’esterno di una considerazione giuridica, ma a considerare con la massima delicatezza possibile il coinvolgimento della coscienza personale. Infatti siamo sempre e comunque di fronte ad una realtà che cade sotto il principio morale sintetizzato dalla massima comune: “De internis non iudicat Ecclesia”. Da qui la necessità di entrare in queste cose in punta di piedi, con timore e tremore, come se si fosse di fronte a qualcosa di profondamente sacro e inviolabile, tenendo conto di un principio al quale la tradizione cattolica ha sempre richiamato gli operatori pastorali: “Pænitenti credendum est”.

La risposta di Gesù sembra in realtà autorizzare proprio simili conclusioni. Infatti a prima vista Gesù sembra escludere che, nel caso del divorzio, si possa parlare di ingresso nel regno, con il richiamo esplicito al testo di Gen 2, 24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle: “Non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto” (Mt 19, 6). Quando però, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: “Perché allora Mosè ha ordinato l’atto di ripudio e di ripudiarla” (Mt 19, 7), Gesù, cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava un’accondiscendenza che è propria di Dio.

Da qui: da una parte la constatazione che “per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli” (Mt 19, 8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica, coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel discorso della montagna: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5, 17). Due atteggiamenti che escludono la possibilità di leggere la nostra pericope da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa, come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e in quella cattolica in particolare. In questo caso saremmo infatti di fronte ad una interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale della vita e dell’insegnamento di Gesù, così come appare dal NT, e dal contesto culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazareth, come risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della montagna – compresa la frase stereotipata: “ma io vi dico” (Mt 19, 9). Non si può negare inoltre che proprio l’accondiscendenza, e dunque il primato della misericordia, caratterizzassero l’insegnamento di Gesù distinguendolo da quello di tutti, o quasi, i maestri suoi contemporanei. È lo stesso evangelista Matteo a documentarci, del resto, sulla particolare gerarchia dei valori perseguita da Gesù nella risposta ai suoi interlocutori che, in altre occasioni, lo accusavano con parole precise e dirette: “I tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato”, ai quali rispondeva con parole altrettanto decise e dirette: “Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Se aveste compreso che cosa significhi: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato”” (Mt 12, 1-8 passim).

Premesso questo e chiedendoci se, secondo l’insegnamento e le scelte di vita di Gesù, si possano dare situazioni nelle quali sia possibile agire in modo difforme da ciò che prescrive la Legge inscritta nelle stelle, regolandosi invece secondo la Legge inscritta nelle pietre da Mosè e interpretata (Legge orale) dai Profeti, la risposta potrebbe essere: “Sì”. A una condizione: che venga privilegiata la dinamicità della misericordia sulla staticità della Legge. Infatti il costante insegnamento della Legge di Mosè e della Tradizione interpretativa dei Profeti, fatta propria da Gesù di Nazareth, è che si debba comunque privilegiare il valore della misericordia anche a scapito del riferimento ad una Legge scritta che non dovesse permettere di tener conto adeguatamente dei bisogni dell’uomo; bisogni che potrebbero richiamarsi alla scelta dei compagni di Davide, per esempio, che ebbero fame e mangiarono trasgredendo la materialità della Legge (cfr 1 Sam 21, 1-6, Mt 12, 1-8), o all’insegnamento di profeti come Osea che dichiarava a nome di Dio: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Os 6, 6; Mt 12, 7). Lo sganciamento dell’uomo dalla presa rigida della cosiddetta “littera” della Legge è in realtà un leit motiv di tutto l’insegnamento di Gesù di Nazareth. Ne fanno testo, e proprio nell’evangelista Matteo, non soltanto il discorso programmatico della montagna, ma anche, nel testo appena riportato, la dichiarazione solenne dello stesso Gesù: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Mt 12, 8).

Il passaggio dalla “littera” allo “spiritus”. Sappiamo che il Discorso della montagna è stato abitualmente letto come una sorta di inasprimento delle prescrizioni della Legge, ma io sono convinto che esso sia, in realtà, un generosissimo programma di liberazione dalle strettoie della “littera” della Legge scritta/orale trasmessa da alcuni in Israele. Esso permette infatti un allargamento straordinario degli orizzonti, sia interni che esterni, ai quali è invitato a volgere il suo sguardo l’uomo pio e osservante di tutti i tempi. Non si tratta assolutamente allora di inasprimento, ma piuttosto di richiesta a superare gli stretti confini del dovere per aprirli agli spazi amplissimi della gratuità dell’amore, confrontata con la disponibilità del Padre che si lascia dirigere dalla generosità a tal punto da non fare alcuna differenza tra coloro che noi chiameremmo buoni o cattivi, giusti o peccatori. L’affinamento del cuore e della mente richiesto da Gesù nel suo discorso della montagna non farebbe altro dunque che rifarsi, estendendola, a quella logica intrinseca alla fede che aveva permesso a Mosè di tener conto della “durezza del cuore” dei membri del suo popolo, piegando con condiscendenza la Legge alla loro situazione concreta, e così permettendo a tutti di restare uniti con l’insieme del popolo di Dio nonostante le cadute e il ritmo diverso del proprio cammino personale.

I Padri della Chiesa si riferivano proprio a questa diversità di ritmo, che caratterizzava l’andatura del gregge del patriarca Giacobbe, quando interpretavano il cammino dei credenti in modo tale che né i giovani fossero impediti troppo nel dar sfogo alla propria voglia di correre, né gli anziani fossero distaccati troppo a causa della pesantezza dovuta alla malattia o alla vecchiaia. In un contesto di questo tipo riceve certamente un colore di fondo assai diverso la risposta di Gesù in Mt 19, 8 interpretata in occidente come un irrigidimento rispetto alla concessione fatta da Mosè, anziché come una dimostrazione di consenso espresso da colui che aveva già dichiarato in Mt 5, 17 di non essere venuto per abolire la Legge o i Profeti, ma piuttosto per dare a quelle indicazioni e prescrizioni pieno compimento. Infatti sia il comportamento di Mosè sia quello di Gesù tendevano all’unico scopo di non escludere nessuno dalla possibilità di restare all’interno del popolo di Dio nonostante la “durezza del cuore”, fino al punto, nel caso di Mosè, da concedere il “permesso di ripudiare le vostre mogli” (Mt 19, 8).

Contestualizzare la pericope di Mt 19, 3-9, privilegiando l’accondiscendenza, significherebbe in realtà aprirsi ad un modo molto meno rigido di interpretare il seguito del detto di Gesù: “All’inizio non era così”, con ciò che segue: “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie… e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 9). Dovrebbe far testo infatti, in questo caso, lo stesso criterio utilizzato nell’interpretazione del Discorso della montagna, criterio che non cancella, anzi sottolinea, il dettato della Legge scritta/orale, considerandolo valido e determinante, e tuttavia proponendone un superamento, che certamente non è da tutti ma che tuttavia resta l’obiettivo inteso dal Legislatore e registrato nella Legge inscritta nelle stelle, cioè nella natura. Con una differenza però piuttosto significativa, dal momento che il richiamo alla Legge naturale, fondata sull’autorità di un’espressione gesuana come il “ma io vi dico”, viene proposto come un “oltre” rispetto a ciò che Mosè ha dovuto accettare per venire incontro alla durezza di cuore dei suoi destinatari. Differenza che è un’ulteriore conferma del dibattito in corso ai tempi di Gesù tra coloro che si ritenevano anzitutto discepoli di Henoc [sesto discendente diretto di Adamo ed Eva] e coloro che insistevano nel riferirsi a Mosè.

Tra “skopòs” e “telos“. Le due Leggi, quella incisa nelle stelle e quella di Mosè, potevano essere proposte in modo complementare, così che potessero, in qualche modo, chiarirsi reciprocamente. E questo spiegherebbe forse meglio anche la presenza, al termine del Discorso della montagna, della cosiddetta Regola d’oro (Mt 7, 12) a sua volta accolta e superata con l’aggiunta del senso positivo impressole da Gesù. Gesù non nega dunque la gravità di chi è imprigionato nella “durezza di cuore”, e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione è un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che l’obiettivo fissato (skopòs è una cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) è un’altra. Aggiungendo che ci sono alcuni, lo vedremo, i quali per strade diverse, che possono essere legate alla natura, legate alla violenza degli uomini, oppure legate ad una scelta libera, sono di fatto posti da Dio come profezia di una realtà nuova che va oltre i confini della natura e della storia umana, nonostante che siano pochi quelli che riescono ad intravederla: “Chi può capire capisca” (Mt 19, 12).

Dallo “skopòs” al “telos“. Ciò che ho appena detto potrebbe comportare anche la presenza di un colore di fondo più adeguato per leggere l’intero testo di Mt 19, 3-12, dato dal contesto del Discorso della montagna, con l’implicito invito a tenere conto simultaneamente:

a) sia di ciò che dichiara la “littera” della Legge mosaica, con tutto quello che si dovrebbe sistematicamente cercare in essa come “spiritus”;

b) sia di ciò che va riferito all’intenzione del Creatore, con tutto ciò che attiene alla cosiddetta legge naturale o “lex naturæ” incisa nelle stelle;

c) sia di ciò che attiene alla realistica situazione dell’uomo storico, con tutti i suoi limiti e le sue manchevolezze, compresa la “durezza del cuore”;

d) sia infine del completamento della giustizia con la misericordia.

Ma cosa leggiamo in realtà concretamente nel Discorso della montagna a proposito del tema trattato in Mt 19, 3-12? Scrive Matteo: “Avete inteso che fu detto: ‘Non commetterai adulterio’. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: ‘Chi ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio'” (Mt 5, 27-32).

Lasciando tra parentesi ciò che l’evangelista scrive tra una dichiarazione e l’altra (9), suggeriamo di considerare come colore di fondo di questi versetti la conclusione di Mt 5, 48: “Voi, dunque, siate perfetti (teleioi) come è perfetto (teleios) il Padre vostro celeste”. La vita dei discepoli non potrà pretendere di muoversi in modo diverso da quello del Padre seguito fedelmente dal Figlio che essi ritengono loro unico maestro. Per cui anche il raggiungimento dell’obiettivo (cui devono tendere (secondo il progetto inteso dal Padre/Creatore all’inizio (ap’archès), comporterà un itinerario più o meno lungo e faticoso come quello percorso dal Figlio/Redentore Gesù. Non c’è dunque, neppure per loro, la possibilità di sovrapporre “skopòs” e “telos” senza considerare la distanza che dovrà essere superata durante il tempo della propria vita sulla terra.

In altre parole: il “telos“, cioè il conseguimento concreto dell’obiettivo pensato da Dio, deve inevitabilmente fare i conti con la lentezza propria di una realtà umana sottomessa al tempo e allo spazio. Una lentezza che, nel caso specifico dei discepoli di Gesù, non può fare a meno di tener conto anche della fragilità dovuta al peccato. Il conseguimento della volontà esplicitata all’inizio da Dio Creatore (ho ktisas ap’archès), richiamato da Gesù in Mt 19, 4, potrà comportare, a questo punto, tutta la fatica necessaria, compresa la possibilità di un fallimento, che viene richiesta dall’impegno a tendere l’arco tenendo l’occhio fisso sull’obiettivo (skopòs) prima di poterlo colpire al centro (telos) e così passare dal desiderio di cogliere l’obiettivo fissato alla realizzazione piena di esso. Infatti soltanto allora si potrà parlare di raggiungimento del progetto inteso da Gen 2, 24: “Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne”, con tutta la dinamicità progressiva che questo progetto comporta.

            Si potrebbe allora concludere che la “durezza del cuore” (Mt 19, 8a) rivelatasi lungo il tragitto di questo passaggio dallo “skopòs” al “telos”, che aveva costretto Mosè a reinterpretare il desiderio di Dio Creatore in modo tale da non imporre a nessuno una incresciosa esclusione dal popolo di Dio, potrebbe interferire non poco nella realizzazione o meno dell’obiettivo fissato. Da qui la sua decisione di ammettere, nel caso specifico di una crisi di coppia, il ripudio, condizionandolo alla sottoscrizione di un atto formale. E si potrebbe mai pensare allora che Gesù, venuto “non per abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento (plerosai)” ad essi (Mt 5, 17), abbia potuto abolire la concessione di Mosè, proprio in un punto che qualificava chiaramente, e in modo determinante, la sua predicazione e cioè la misericordia? Il contesto dei gesti e delle parole di Gesù nei confronti di chi apparterrebbe a tutti gli effetti alla categoria dei peccatori pubblici, dovrebbe allora essere inteso in modo tale da confermare parole solenni e altamente provocatorie come le seguenti: “siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45), accompagnandole con la giustificazione che Gesù stesso avrebbe dato al suo modo di comportarsi: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati “(Mt 9, 12).

Alcune possibili conseguenze. Le indicazioni pastorali, che potrebbero a prima vista apparire nuove e perfino rivoluzionarie, in realtà non sarebbero altro che la conferma esattissima dell’insegnamento del NT, ricevuto certamente con sensibilità diversa in Oriente e in Occidente, ma che conferma l’unità del respiro dei due polmoni della Chiesa, l’uno e l’altro preoccupati di agire in tutto e per tutto secondo lo spirito appunto dell’unico Vangelo. Infatti non cambia, in tutto questo, il giudizio di Gesù sulla negatività di una decisione che contrapporrebbe la volontà del Dio Creatore, che ha inciso la sua Legge nelle stelle, alla volontà del Dio Redentore, che accetta l’accondiscendenza di Mosè verso un popolo di “dura cervice”. I Padri delle Chiese Orientali lo avevano capito molto bene, dal momento che avevano sempre contrastato i perfezionisti e gli spiritualisti di tutti i tipi che facevano di tutto per separare il Dio Creatore dal Dio Redentore. La soluzione in realtà non sta nello sposare l’irrigidimento degli spiritualisti e dei fondamentalisti di tutti i tipi, ma nel fare la giusta e necessaria distinzione tra peccato e peccatore, che è una delle eredità più preziose del NT.

Un secondo aspetto del problema. Per affrontare brevemente un altro aspetto della nostra problematica leggiamo anzitutto ciò che dice lo stesso evangelista Matteo, presentando l’obiezione dei discepoli all’insegnamento di Gesù e la risposta del Maestro. “Gli dissero i suoi discepoli: ‘Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi’. Egli rispose loro: ‘Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca’” (Mt 19, 10-12).

La domanda cruciale che nasce da questo testo è: quale importanza dare alla dichiarazione di Gesù che “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso”(Mt 19, 11)? Il seguito della risposta, costituito dal riferimento agli “eunuchi”, ha portato spesso gli esegeti a interpretare la dichiarazione di Gesù appiattendola unicamente alla condizione degli “eunuchi” (vergini e celibi) per evidenziare la libertà concessa da Gesù, con la sua vita e con il suo insegnamento, ad andare oltre il precetto stabilito nel libro della Genesi in due testi ben precisi e conosciutissimi: Gen 1, 28: “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”” e Gen 2, 24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”.

Gesù ha fatto certamente riferimento a queste prescrizioni presenti nel libro della Genesi, citando esplicitamente il secondo testo, ma lo ha fatto riferendosi alla situazione della coppia umana! Contesto che non si può ignorare per far cadere l’accento della sua risposta unicamente su una parte della problematica, come è successo in gran parte nella ermeneutica comune della tradizione cristiana. Conosciamo del resto gli eccessi che hanno prodotto certe interpretazioni massimaliste, in questa materia, come quella degli “encratiti” [setta eretica degli Encratiti o Severiani che praticavano la continenza, condannando l’uso del vino e delle carni e vietando il matrimonio] che la Chiesa ufficiale ha dovuto correggere con decisa autorità. La richiesta dei discepoli era stata sufficientemente precisa ed era il risultato dello shock provato dal riferimento alla Legge scolpita nelle stelle anziché alla Torà scritta/orale di Mosè.

Anche in questo caso però Gesù non abolisce affatto l’accondiscendenza di Mosè verso la durezza di cuore dei membri del popolo, ma ne approfitta per richiamare la costante del suo insegnamento che consiste nel non accontentarsi mai della semplice prescrizione letterale della Legge, ma di proseguire sempre nella ricerca fino a scoprirne il senso profondo di essa, già presente fin dall’inizio nell’intenzione di Dio Creatore (Cfr Mt 19, 8b), che non può in nessun modo trascurare la centralità della persona umana. Si tratta di un itinerario e non di una prescrizione tassativa, cosa che è perfettamente in linea con lo stile del Discorso della montagna. Il chiarimento di Gesù: “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è del stato concesso” si riferisce dunque non soltanto alla situazione degli “eunuchi”, ma anche a quella di tutti i suoi discepoli perché si sentano liberi nei confronti di ogni tipo di Legge, sia quella incisa nelle stelle, così statica e inflessibile, sia quella scritta/orale di Mosè che permetteva invece di venire incontro con realismo a determinate situazioni umane. L’esemplificazione prodotta da Gesù, che distingue ben tre categorie di “eunuchi”, autorizza in realtà a dare una interpretazione molto più ampia di quella cosiddetta tradizionale. Infatti Gesù spiega che si può dare una vocazione all’”eunuchia” inscritta nella natura; una vocazione imposta purtroppo dagli uomini; una vocazione scelta per il regno dei cieli. Una simile triplice situazione, constata da Gesù, porta in modo chiarissimo ad una vera e propria de-colpevolizzazione totale nei confronti di qualsiasi tentativo di “legiferare” in materia, se questo fosse fatto senza tener conto della persona umana interessata, in quanto tale.

Il superamento inteso da Gesù. Gesù va chiaramente verso un superamento della riduzione delle tre situazioni esemplificate alla sottomissione supina e fatalistica legata o alla natura fisica o alla violenza degli uomini o, infine, alla cosiddetta inclinazione individuale. Infatti tutte e tre le situazioni possono essere valutate in modo tale che si trasformino in ciò che oggi chiameremmo “vocazione/elezione”. Cosa che però può risultare chiara solo a “coloro ai quali è stato concesso”. Ma cosa comporta questa particolare concessione? Si tratta di una concessione paternalista relativa a ciò che dovrebbe apparire come una promozione dall’alto? Oppure si tratta di una concessione che abilita non solo a prendere atto della propria condizione, ma anche a tentare di elevarla, nonostante tutto, con una scelta libera e personale? Infatti che cosa può essere stato concesso, in ciascuna di queste situazioni, all’essere umano, se non la libertà di essere semplicemente se stesso, nonostante tutto, rispondendo alla vocazione identitaria originaria voluta dal Dio Creatore? Rispondere positivamente a tutto questo significa che né la Legge inscritta nelle stelle né la Legge scritta/orale di Mosè, né la propria cosiddetta inclinazione naturale, ma soltanto una scelta, libera e liberata, della propria condizione acquista valore “per il regno dei cieli”. Anche l’umiliazione di dover fare ricorso all’accondiscendenza di Mosè, sottomettendosi alla richiesta della sottoscrizione di un atto di ripudio? Sì, anche quella. Infatti si entra nel regno di Dio proprio osservando queste cose minimali, perché verificano l’autenticità della propria scelta dignitosa e libera e, appunto per questo, capace di portare l’uomo a sopportare la propria condizione di minimo, senza alcuna tracotanza. Dovrebbe valere infatti, anche in questo, il principio paolino della Lettera ai Romani: il Signore ha posto tutti sotto la constatazione della propria inadempienza, nei confronti della propria pretesa di giustificazione, per far prendere atto a tutti della necessità della Sua grazia e del Suo perdono. In realtà può scegliere liberamente soltanto chi accetta e fa sua serenamente la propria “kenosis“, cioè la propria umiliazione e il proprio sentirsi “minimo”. Ma in tutto questo non c’è forse anche l’accettazione di sentirsi appunto peccatore? E si potrebbe trovare una situazione migliore di questa per essere completamente disponibile a lasciarsi salvare dall’unico che può essere riconosciuto, definito e accettato come proprio, necessario, Redentore? Ma il Redentore e il Creatore non perseguono forse, l’uno e l’altro, lo stesso obiettivo: quello di portare l’uomo alla pienezza della sua vocazione originaria?

La distinzione tra “de externis” e “de internis”. Finora è stata proposta, come verifica necessaria per provare l’autenticità e la sincerità del proprio sentirsi peccatore, la decisione-imposizione a se stesso e agli altri di non continuare a peccare e dunque di non vivere assolutamente più more uxorio con un’altra donna/uomo. Ma si è trattato sempre, né poteva essere altrimenti, di un giudizio legato alle realtà esterne (de externis). E dunque ci si è riferiti sempre al rigore della Legge (dura lex sed lex), senza alcuna possibilità di accondiscendenza alla durezza del cuore regolata dall’atto di ripudio. Si è trattato davvero soltanto di una interpretazione voluta da Gesù? L’approfondimento che ho appena proposto permette, mi sembra, di poter interpretare altrimenti il testo evangelico. Ma forse si deve prendere atto che, nell’interpretazione ritenuta tradizionale, si è trattato anche di un’applicazione del testo evangelico condizionata da altre fonti ritenute più giuridicamente esatte. E se ci fosse qualche dubbio a questo riguardo, non sarebbe forse legittimo applicare un adagio riconosciuto pastoralmente nella massima “in dubiis libertas”? Del resto non si dovrebbe trascurare troppo superficialmente il fatto che la Tradizione interpretativa delle nostre Chiese Sorelle Orientali è sicuramente altra! Lo studio appena condotto mi permette di richiedere una maggiore cautela in queste cose. Infatti chi, tra di noi che riteniamo di aver compiuto la scelta in modo “perfetto” senza alcuna costrizione dovuta alla natura, alla violenza, o ad una semplice inclinazione emotiva momentanea, potrebbe mai accampare il diritto di escludere l’uno o l’altro dal far parte del popolo di Dio? Sì, lo potrebbe fare la Chiesa nella sua più solenne ufficialità, ma anche in questo caso, preoccupandosi comunque scrupolosamente di obbedire anch’essa al principio sacrosanto che “de internis non judicat Ecclesia“. Da qui la necessità di prendere atto che la trasgressione nei confronti o della Legge incisa nelle stelle o della Legge scritta/orale promulgata da Mosè, è una realtà che riguarda semplicemente l’umanità così come la conosciamo nella nostra storia, dove, nessun essere umano escluso, l’unica strada possibile è quella di accettarsi nella propria debolezza, aiutandoci tutti, fraternamente, ad imboccare l’unica strada, quella della fede ovviamente, che ci permetta di essere ricevuti tutti, sia pure come “minimi”, nel regno dei cieli. Protestava San Paolo: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9, 22), dimostrando così di essere autentico discepolo di chi aveva dichiarato solennemente: “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12, 47).

Necessità di un approfondimento. In tutto ciò, che abbiamo appena cercato di dire, resta la constatazione di Gesù: “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso”. Si noti però che Gesù sembra mettere sullo stesso livello sia coloro che accettano questa umiliazione data dalla natura, sia coloro che la subiscono per la violenza degli uomini, sia infine coloro che la scelgono per il regno dei cieli. La contestualizzazione che risulterebbe da una simile interpretazione di questi versetti, sarebbe davvero sconvolgente, perché l’unico valore che verrebbe in questo modo rivendicato da Gesù, sarebbe quello di scegliere sempre, in qualunque situazione, con piena dignità e libertà, e con decisione personale, la strada solo apparentemente imposta dalla natura, dalla violenza degli uomini o dalle proprie inclinazioni, per entrare nel regno dei cieli. A questo punto però dovrebbe subentrare tutto ciò che risulterebbe da un maggiore approfondimento dell’immagine di Dio perseguita dagli uomini e dal tentativo, fatto da questi ultimi, di collegare quella immagine al riflesso di essa nella struttura e nella vita quotidiana dell’essere umano (eikona).

A questo punto potremmo perfino evocare umilmente quella particolare esigenza profetica che auspicava e prevedeva, per il popolo di Dio, una Nuova Alleanza fondata non più su una Legge, scolpita nelle stelle o nelle pietre mosaiche, ma direttamente nel cuore. Si tratterebbe infatti di un’Alleanza strettamente connessa al cuore umano e dunque alla coscienza, con corrispondente responsabilità, la cui perfetta conoscenza appartiene unicamente a Dio. La Chiesa infatti, pur consapevole della legittimità della propria autorità nelle cose esterne (de externis), non ha mai preteso, né poteva farlo, di sostituirsi nel giudizio sulle cose interne (de internis) che appartengono unicamente a Dio. La sua missione, ed essa ne è da sempre consapevole, è quella di informare e formare le coscienze, appunto, ma non di sostituirsi ad esse.

Una maggiore riflessione sul Dio Trinitario riflesso, come direbbe sant’Agostino, nella struttura stessa dell’uomo, permetterebbe probabilmente anche un’analoga maggiore consapevolezza di quel mistero ineffabile che avvolge lo spirito dell’uomo, impenetrabile a tutti e conosciuto soltanto dallo Spirito di Dio. Ne risulterebbe anche una altrettanto maggiore attenzione a restare in punta di piedi, delicati, rispettosi e silenziosi, di fronte al mistero che avvolge una relazione umana; non solo, ma sarebbe proprio questa confessione dell’inevitabilità di restare fuori, con timore e tremore, da quella relazione d’amore, la migliore testimonianza della nostra fede nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo manifestata nella indicibilità misteriosa della comunione.

Accanto a questo bisognerebbe poi approfondire l’altro mistero principale della nostra fede con preciso riferimento alla conquista del Concilio di Calcedonia (451) che invitava a non finire mai nel cosiddetto monofisismo, né a cedere al cosiddetto nestorianesimo, inteso come uno sdoppiamento della persona, né a confondere la natura umana con la natura divina in una sorta di miscuglio, ma a confessare sempre la presenza, nell’unica Persona del Verbo Incarnato, della perfetta natura divina e della perfetta natura umana. E questo senza dimenticare che si tratta, ancora una volta, appunto di mistero indicibile e incoercibile a qualunque tentativo di risolverlo imbrigliandolo dentro i confini ristretti di una Legge, ritenuta magari la più perfetta e logica possibile, e tuttavia sempre inadeguata, per definizione, a dare ragione di ciò che si nasconde in ogni essere umano e in ogni relazione che sta all’origine della comunione, di un singolo essere umano, con Dio e con il prossimo.

 

Sommario. L’ipotesi da cui parte l’A. è che, anche a proposito del sacramento del matrimonio, possa essere importante riferirsi: da una parte all’immagine (eikona nel senso di “già” e “non ancora”), permanente nella Chiesa, dei due Misteri principali della fede, e quindi alla Triadologia e alla Cristologia; dall’altra all’ipotesi di una appartenenza di Gesù di Nazareth alla corrente degli Enochichi (Esseni Moderati) che si riferivano sia alla Legge incisa nelle stelle, sia alla Legge scritta/orale promulgata da Mosè.

Questa ipotesi imporrebbe una maggiore attenzione al dibattito sull’autorità e autorevolezza delle due Leggi, tenendo conto soprattutto della misericordia.

Un altro suggerimento dell’A. è quello di leggere il testo di Mt 19, 3-12 alla luce dell’insieme del Discorso della montagna e soprattutto del versetto di Mt 5, 17, da cui risulterebbe una concordia tra l’accondiscendenza di Mosè e la misericordia evidenziata dall’insegnamento di Gesù, venuto non per abolire la Legge, ma per darle pieno compimento.

A tutto questo l’A. aggiunge la constatazione che Matteo distingue l’essere nel regno dei cieli dal non entrarci affatto. Da cui la necessità di interpretare il “ma io vi dico” di Mt 19, 9 in linea con gli altri “ma io vi dico” presenti nel Discorso della montagna, evidenziando la natura dinamica del passaggio dalla “littera” allo “spiritus” intrinseco alle parole di Gesù, che non contrappone le due Leggi, ma orienta a superarle entrambe per passare dallo “skopòs” al “telos”, inteso fin dal principio da Dio Creatore, che è anche Dio Redentore, tenendo realisticamente conto dell’uomo, criterio ermeneutico per eccellenza dell’insegnamento di Gesù di Nazareth.

Guido Innocenzo Gargano, monaco camaldolese, biblista e patrologo,

docente Pontificia Università Urbaniana e Pontificio Istituto Biblico

Urbaniana University Journal” 3 / 2014, pp. 51-73 (12 note)

“Il mistero delle nozze cristiane: tentativo di approfondimento biblico-teologico”

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350966.htm

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CITTÀ DEL VATICANO

Contro il Papa attacchi insolenti da uomini di Chiesa. Ora basta.

Il pontefice è il pontefice. E il credente «gli deve affetto, rispetto e obbedienza in quanto segno visibile e garanzia dell’unità della Chiesa». Per questo gli attacchi «sempre più insolenti contro papa Francesco», soprattutto «quelli che nascono all’interno della Chiesa, sono sbagliati». Parole dure indirizzate al fronte ostile a Bergoglio. Il mittente è il cardinale Angelo Scola, che le scrive nelle prime pagine dell’edizione aggiornata dell’autobiografia, «Ho scommesso sulla Libertà», realizzata con Luigi Geninazzi (Solferino, 304 pagine). Il libro, in uscita in questi giorni, è introdotto da «un nuovo saggio sul “futuro del cristianesimo”», in cui l’Arcivescovo emerito di Milano dice di non essere preoccupato per le minacce di uno scisma ecclesiastico, ma esprime il suo rammarico perché è riesplosa la «lotta tra conservatori e progressisti» nei Sacri Palazzi e tra i cattolici: è un «ritorno indietro», afferma con amarezza.

            Scola si domanda «a che punto è la Chiesa cattolica nella tempesta che sembra attraversare?». Nella prospettiva numerica è «innegabile l’erosione in atto del cattolicesimo e più in generale dei credenti in Europa e in America, dove appare in crescita la categoria dei nones, cioè di coloro che rispondono none, nessuna, alla domanda sulla religione di appartenenza, al punto che alcuni osservatori cominciano a chiedersi se l’agnosticismo dichiarato non finirà per diventare “la prima religione” del mondo occidentale». Già fra dieci anni si prevede che «i nones potrebbero raggiungere una cifra tra il 25 e il 30% e in questo caso diventerebbero la maggioranza relativa superando così il gruppo dei cattolici e quello dei protestanti, entrambi al 22%». Il Cardinale rileva che, «stando al giudizio più diffuso, si tratta di una crisi grave e profonda, di quelle che, secondo alcuni osservatori, si presenta nella storia della Chiesa ogni cinquecento anni. “La scossa attuale” afferma per esempio lo studioso delle religioni Jean François Colosimo “ricorda per il suo carattere sistemico la crisi delle eresie del Quarto secolo, delle investiture nell’Undicesimo secolo, delle indulgenze nel Quindicesimo secolo. Ogni volta sono state accompagnate da un disordine morale. Ogni volta la catastrofe è arrivata non dall’esterno ma dall’interno. Ogni volta la crisi ha colpito duramente l’istituzione e questa volta si concentra più che mai sulla Curia e sul clero”».

            L’idea di un carattere ciclico delle crisi, «sul modello dei sommovimenti geofisici», a Scola appare però «una forzatura che non tiene conto della grande diversità degli eventi citati». Nella situazione attuale infatti si tratta «di una “mondanizzazione”». Qui sta la radice «profonda di scandali, reati, comportamenti aberranti, come gli abusi sessuali sui minori, commessi anche da persone consacrate. Se, infatti, viene meno il riferimento alla Grazia e si vive “come se Dio non esistesse”, lentamente ma inesorabilmente si sgretola e cede anche la moralità personale».

Anche per questo, papa Francesco oggi punta a «scuotere le coscienze mettendo in discussione abitudini e comportamenti consolidati nella Chiesa, ogni volta alzando, per così dire, l’asticella da superare. Il che può generare qualche smarrimento e anche turbamento», riconosce Scola. Ma ciò non giustifica «gli attacchi sempre più duri e insolenti contro la sua persona, soprattutto quelli che nascono all’interno della Chiesa». Per il porporato «sono sbagliati. Fin da bambino ho imparato che “il Papa è il Papa” cui il credente cattolico deve affetto, rispetto e obbedienza in quanto segno visibile e garanzia sicura dell’unità della Chiesa nella sequela di Cristo. La comunione con il successore di Pietro non è questione di affinità culturale, di simpatia umana o di un feeling sentimentale, ma riguarda la natura stessa della Chiesa».

Scola è solito dire che «ogni Papa va “imparato” nel suo stile e nella sua logica più profonda». E ritiene «ammirevole e commovente la straordinaria capacità di Francesco di farsi vicino a tutti, in particolare agli esclusi, a coloro che più subiscono la “cultura dello scarto” come spesso ci ricorda nella sua ansia di comunicare il Vangelo al mondo».

            C’è chi prefigura scissioni e «scenari foschi per la Chiesa che sarebbe minacciata da uno scisma», osserva l’ex Patriarca di Venezia. Le polemiche e le divisioni che stanno diventando «sempre più aspre, anche a scapito della verità e della carità, mi preoccupano». Peraltro Scola non vede il rischio di uno scisma, teme invece «un cammino a ritroso. A quanti ritengono che la Chiesa sia rimasta molto indietro – spiega – io dico piuttosto che stiamo tornando indietro e precisamente all’epoca del dibattito post-conciliare fra conservatori e progressisti. Vedo rinascere una contrapposizione dai toni esagitati fra i guardiani della Tradizione rigidamente intesa e i fautori di quel che si intendeva come adeguamento della prassi ma anche della dottrina a istanze mondane».

Per i primi erano le innovazioni «messe in atto dopo il Concilio a provocare l’emorragia di fedeli, per i secondi era invece la insufficiente risposta alle attese della società la causa principale del distacco dalla Chiesa». Secondo Scola, da queste due contrapposte visioni che stanno «riesplodendo in termini più radicali deriva in gran parte lo stato di confusione in cui vivono oggi molti cattolici e non solo i semplici fedeli». E ciò lo rattrista, perché negli anni «del mio ministero episcopale mi era sembrato di notare un superamento di quella sterile contrapposizione, una sincera volontà di parlarsi ma soprattutto una rinnovata capacità di lavorare insieme nei vari ambiti della comunità ecclesiale e dell’impegno sociale, al di là di etichette di parte ritenute ormai vecchie e consunte». Oggi, constata il Cardinale, «purtroppo quel cammino non solo si è interrotto ma lo si sta percorrendo velocemente a ritroso». Ecco una situazione che Scola considera emblematica: «Il “percorso sinodale” che ha preso avvio nella Chiesa cattolica tedesca mi sembra l’esempio più evidente e sconcertante di questo salto all’indietro, con il tentativo di discutere e approvare in modo vincolante in sede locale decisioni, anche di carattere dottrinale, che possono essere prese soltanto a livello di Chiesa universale». La via per superare queste tensioni è affidarsi allo «Spirito», che «non si lascia imbrigliare dalle logiche di schieramento».

Domenico Agasso jr               Vatican insider                       13 giugno 2020

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/06/13/news/il-cardinale-scola-contro-il-papa-attacchi-insolenti-da-uomini-di-chiesa-ora-basta-sono-sbagliati-1.38960519

 

Quindici anni dopo la sua morte, si attenua l’aura di san Giovanni Paolo II

La saggista cattolica Christine Pedotti, conosciuta per le sue prese di posizione intransigenti sulla Chiesa, rivisita l’eredità di uno dei papi più popolari della storia. E ne demolisce l’immagine di “superstar”.

Papa superlativo da tutti i punti di vista, Giovanni Paolo II ha profondamente segnato con il suo ascendente la Chiesa cattolica e, più globalmente, l’epoca contemporanea. “Atleta di Dio”, “gigante del XX secolo”, Karol Wojtyla è diventato famoso per la sua battaglia contro il comunismo, la sua determinazione a ridare al cattolicesimo la sua potenza, la sua capacità a mobilitare milioni di giovani cattolici nel mondo intero -si ricordano in particolare le Giornate mondiali della gioventù di Parigi nel 1997 -, la sua instancabile attività di viaggiatore. In una parola, il suo carisma.

Mentre si commemora il centenario della nascita di questo papa fatto santo a meno di dieci anni dalla morte, ci si sarebbe potuti aspettare una valanga di libri celebrativi della sua memoria. E invece, niente. Dobbiamo vedervi un disagio rispetto al bilancio del pontefice polacco? È ciò che pensa la giornalista e scrittrice Christine Pedotti, che pubblica, con lo storico Anthony Favier, un bilancio particolarmente severo del pontificato del Santo Padre (Jean Paul II, l’ombre du saint -Giovanni Paolo II, l’ombra del santo -ed. Albin Michel). “Quindici anni dopo la sua scomparsa, deplorano gli autori, i frutti di quel lungo pontificato si rivelano terribilmente amari”.

Che cosa vi ha portati a voler rivisitare l’eredità di Giovanni Paolo II, il cui pontificato (1978-2005) è stata incensato perfino mentre era ancora in vita?

 All’inizio della nostra riflessione, Anthony Favier ed io ci siamo chiesti quale fosse il rapporto tra la crisi nella quale è immerso il cattolicesimo oggi e il pontificato di Giovanni Paolo II. Percorrendo il pontificato nel suo insieme, abbiamo messo in evidenza una fortissima coerenza, scelte politiche molto forti, e questa è una delle basi del carisma eccezionale di Giovanni Paolo II, al di là del suo carisma personale. Scelte, nel caso specifico, della riconquista di un cattolicesimo di potere, mentre arriva al trono di Pietro in piena crisi del cattolicesimo. Come nuovo pontefice ritiene di essere lì per por fine a tale crisi. Per far questo, sceglie di reinstaurare un sistema potente, profondamente centralizzato, che non ratificherà gli elementi di collegialità decisi nel Concilio Vaticano II (1962-1965). E procede ad un vero lavoro di riarmo dottrinale con il cardinale Ratzinger, che chiama presto accanto a sé. Nel corso dei suoi numerosi viaggi, imporrà tale centralità di paese in paese.

Lei afferma che, restaurando la figura del prete in tutta la sua sacralità, Giovanni Paolo II avrebbe preparato un terreno propizio agli abusi sessuali. Che cosa giustifica tale collegamento?

Giovanni Paolo II ha messo in atto di tutto per fare della figura del prete l’elemento centrale del cattolicesimo. Esalta nel prete l’uomo a contatto del sacro, un essere a parte e al di sopra della comunità. Nel suo discorso, il prete non è mai presentato come colui che condivide la parola di Dio, ma come colui che fende il cielo affinché il sacro scenda sulla terra. Giovanni Paolo II vede il prete come un alter Christus, un altro Cristo. Questa concezione ha un impatto sugli scandali ulteriori della Chiesa. Sacralizzando ad oltranza il prete, vissuto come un essere di un’essenza distinta da quella degli altri uomini, e sostenendo tutte le comunità -in particolare le comunità nuove -che condividono tale visione, Giovanni Paolo II ha creato un terreno che favoriva gli abusi sessuali che abbiamo conosciuto. Comunque sia, è su queste tre basi -riarmo dottrinale, centralità del prete e sua sacralità -che si basa la coerenza del suo pontificato. Ci sono necessariamente dei danni collaterali: il papa ha spento gran parte del lavoro teologico avviato sotto il Vaticano II, in particolare tutto ciò che assomiglia, poco o tanto, alla teologia della liberazione. Ugualmente, i teologi che hanno sostenuto che esistono forme di saggezza interessanti nelle altre religioni del mondo sono stati condannati. Se, nel 1986, gli incontri di Assisi -nel corso dei quali Wojtyla riunisce 150 capi religiosi rappresentanti di una dozzina di tradizioni spirituali del mondo intero -avevano fatto pensare che il pontefice considerasse con benevolenza le altre religioni, in realtà quell’apertura non era fondata da un punto di vista dottrinale.

Secondo lei, Giovanni Paolo II ha smantellato i progressi del Vaticano II che doveva far entrare la Chiesa nella modernità. Eppure ha scelto come nome quello dei due papi che avevano guidato quel concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI.

Il sinodo sui 20 anni del Vaticano II, nel 1985, mette in risalto questo paradosso instaurando “l’ermeneutica della continuità”. Con grande abilità, Giovanni Paolo II, coadiuvato da Ratzinger, diffonde l’idea che ci sia una continuità nella storia della Chiesa tra il pre-concilio, il concilio e il pontificato del papa polacco. Prendere il nome di Giovanni e di Paolo è un modo di inserirsi in tale continuità, che è in realtà una continuità formale, e non nello spirito. Di fatto, Giovanni Paolo II non rimetterà mai esplicitamente in discussione il Vaticano II; prenderà dal concilio solo ciò che lo interessa, spogliandolo dalla sua componente innovatrice.

Karol Wojtyla è diventato pontefice nel 1978, periodo segnato dalla liberazione sessuale e dall’emancipazione delle donne. Quale è stato il suo atteggiamento di fronte a questi cambiamenti sociali?

Anche su questo punto, Giovanni Paolo II si mostra molto abile, perché parla molto spesso della dignità e dell’uguaglianza delle donne. Bisogna leggere attentamente i testi per rendersi conto che ciò di cui parla è l’uguale dignità degli uomini e delle donne. Il che, nel suo modo di intendere le cose, non significa affatto uguaglianza degli uomini e delle donne come la si concepisce nelle nostre società. Forzando un po’ le cose, si può dire che per Giovanni Paolo II ci sono due forme di identità distinte: la forma femminile e la forma maschile. Hanno sì uguale dignità gli uomini e le donne, ma non la stessa uguaglianza, dato che quella delle donne è legata in particolare alla maternità e, in misura minore, alla verginità.

Per lui “la” donna -dato che essenzializza -è ridotta alla sua funzione biologica. Essere donna, per Giovanni Paolo II, è essere capace di dare la vita e allevare dei figli. Ignora totalmente la sessualità delle donne nella forma del desiderio e del piacere. Per Wojtyla, il desiderio delle donne è avere dei figli; il piacere delle donne è avere dei figli. È vero che parla di sessualità in maniera diversa rispetto ai suoi predecessori, invitando gli uomini a rispettare le donne. Tuttavia, ai suoi occhi, se la sessualità non è orientata alla possibilità di maternità, si situa nell’ordine del peccato e della concupiscenza. Da qui, l’imperativo di non esercitare la propria sessualità se non si può concepire, e la condanna dei mezzi di contraccezione.

Ma su questi temi, poteva realmente privilegiare altre opzioni, dato che la Chiesa cattolica si presentava da secoli come la guardiana della famiglia?

In realtà la Chiesa non si è sempre posizionata in questo modo. È con Giovanni Paolo II che viene fissata l’idea che al cuore del messaggio cristiano ci sia la famiglia e ciò che lui chiamerà il Vangelo della vita. Per secoli, questa nozione era assente dai discorsi della Chiesa. Da questo punto di vista, ha avuto una vittoria nell’opinione pubblica: oggi, agli occhi della maggior parte della gente, il cattolicesimo si riassume nella difesa della famiglia.

Allora, perché tale insistenza nel farsi il cantore della famiglia, mentre Gesù si è mostrato così diffidente nei confronti dei legami familiari (“Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?”, Matteo 12, 48-50: “Chiunque non odia suo padre e sua madre, non può essere mio discepolo”, Luca 14,26)?

Osservando che il suo potere si stava costantemente restringendo -perdita di potere politico, di influenza sulla società, ecc.- la Chiesa si focalizza sulla sfera privata a partire dal XIX secolo. La sua ambizione: riconquistare la società attraverso la famiglia, a spese di una lettura sincera delle Scritture che, effettivamente, non sono affatto familiste. La storia stessa della Chiesa non lo è: l’invito a lasciare padre, madre, figli per Cristo attraverserà la Chiesa fino al XIX secolo; delle donne sono state canonizzate perché avevano lasciato i loro figli per partire come missionarie.

A parte le donne, lei afferma che il pontificato di Karol Wojtyla “ha perso per strada molta gente”: omosessuali, teologi progressisti, cristiani non cattolici… Come interpreta questo rifiuto di prendere in considerazione le evoluzioni della società?

Per comprenderlo, bisogna analizzare il rapporto di Giovanni Paolo II con la libertà, segnato dalla sua visione alquanto pessimista della capacità dell’essere umano di fare buon uso della propria libertà. Con Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il papa polacco ha sviluppato l’idea che l’essere umano contemporaneo, volendo esercitare una piena libertà a spese di ciò a cui Dio lo chiama, dà prova di orgoglio -peccato per eccellenza. Ai suoi occhi, tutto il movimento di emancipazione è stato falsificato dall’orgoglio umano che, per volontà di onnipotenza, ha voluto liberarsi dalla legge naturale, che è la legge di Dio. Giovanni Paolo II e il cardinal Ratzinger faranno una rilettura delle tragedie europee che sono il nazismo e il comunismo come derivanti da un pensiero senza Dio.

Perché Giovanni Paolo II, così intransigente sulla morale sessuale, ha ostinatamente chiuso gli occhi sui gravi abusi commessi da alcune persone a lui vicine, in particolare Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, notoriamente conosciuto per fatti di stupro, incesto, abusi sessuali su minori?

Nessuno sa ciò che Giovanni Paolo II sapeva o ciò che aveva accettato di sapere. Alcune persone lo difendono, affermando che era impregnato di ciò che aveva vissuto in Polonia -dove le autorità politiche, quando volevano liberarsi di un prete scomodo, lo accusavano di pedocriminalità. Tuttavia, Giovanni Paolo II ha ricevuto delle vittime di Maciel e ha rifiutato di credere a loro, benché il contesto non avesse nulla a che fare con quello del comunismo. Avrà pensato ad un complotto contro Maciel? Credo che, più profondamente, non abbia voluto sapere. Perché nella sua volontà di riconquista di una Chiesa di potere, ha fatto nascere una nozione che io chiamo la “ragion di Chiesa“: un’impresa di riconquista che può comportare dei danni collaterali. Ricordiamoci che Giovanni Paolo II ha rimesso il prete al centro del sistema. Ora, con i Legionari di Cristo, Marcial Maciel offre alla Chiesa vere falangi di riconquista. Tutte le giovani comunità che Giovanni Paolo II ha sostenuto (Legionari, Opus Dei, Frères de Saint-Jean), hanno questa caratteristica, di avergli presentato falangi di giovani preti, sorta di braccio armato della riconquista. Per lui era il segno della rinascita. Questo spiega che abbia senza dubbio preferito chiudere gli occhi e ignorato, in un accecamento tragico, i fenomeni di influenza/dipendenza molto pesanti che hanno generato casi di pedocriminalità. Di Marcial Maciel, Giovanni Paolo II sa. È quindi molto sconcertante vedere che l’ultima cerimonia presieduta dal pontefice, nel novembre 2004, sia stata la celebrazione dei 60 anni di sacerdozio di Maciel. Questa cerimonia veramente faraonica, che si è svolta a San Paolo fuori le Mura, era quasi una canonizzazione da vivo di Maciel. Un grande assente a quella cerimonia: Joseph Ratzinger, che si era dato malato.

Leggendo quanto lei scrive, si ha l’impressione che Benedetto XVI, che pure non gode di una reputazione progressista, sia stato su diversi punti più lucido e deciso del suo predecessore.

 A rischio di scandalizzare certe persone, devo dire che Ratzinger era intellettualmente molto più preparato di Giovanni Paolo II. Quest’ultimo era un politico immenso, ma non un grande teologo -per questo faceva appello a Ratzinger. Condividevano idee comuni, ma avevano anche forti divergenze. Bisogna apprezzare il coraggio di Ratzinger, che, diventando papa, sapeva ciò che c’era nascosto sotto il tappeto del suo predecessore. Compreso il fatto che, quando il papa polacco era molto malato, erano altri a governare. Ora, tra questi altri, c’erano anche persone poco raccomandabili, in particolare il cardinale Sodano, ex nunzio pro-Pinochet in Cile, che era coinvolto in affari poco trasparenti.

Lei attribuisce a Giovanni Paolo II una gran parte di responsabilità nella disaffezione nei confronti delle chiese. Ma non era ineluttabile questa disaffezione, in una Europa segnata dallo sviluppo dell’individualismo e in cui molte persone non si riconoscono più in sistemi dogmatici e centralizzati?

 Certamente, questa tendenza era in atto prima di Giovanni Paolo II e prosegue. Il problema è sapere in quale stato si trova oggi la Chiesa cattolica per farvi fronte. Dato che gran parte dell’intelligenza è stata completamente inaridita dal riarmo dottrinale di Giovanni Paolo II, il cattolicesimo si trova in un vero deserto teologico. I pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI sono durati quasi quarant’anni, durante i quali il mondo è incredibilmente cambiato. Ora, c’è stata una sorta di glaciazione nella Chiesa cattolica, particolarmente sulla questione delle donne e dell’omosessualità. Ciò che poteva essere comprensibile nel 1978, oggi non lo è più, da qui deriva la grave situazione nella quale si trova la Chiesa: c’è così poca duttilità possibile, che la rottura è un rischio effettivo. Inoltre, nella sua volontà di restaurare il potere della Chiesa, Giovanni Paolo II ha prodotto una quantità straordinario di testi normativi, contribuendo ad un irrigidimento, in particolare il Catechismo della Chiesa cattolica. È tanto più difficile cambiare le cose oggi in quanto il pontefice ha voluto legarle per l’eternità e ha anche tentato di imporre il dogma dell’infallibilità papale -soprattutto sulle questioni della contraccezione e del ruolo delle donne. Paradossalmente, volendo rendere la Chiesa forte, Giovanni Paolo II l’ha resa fragile, perché ha perso duttilità -già le mancava, ma il Vaticano II le aveva ridato una forma di fluidità che è stata bloccata di netto.

In questo bilancio al vetriolo, quali sono i successi che lei riconosce a questo lungo pontificato?

C’è un punto sul quale l’apporto di Giovanni Paolo II è un salto formidabile le relazioni con l’ebraismo e bisogna riconoscerglielo. C’è qualcosa di molto singolare in questo papa polacco totalmente indenne dall’antisemitismo, il che è già di per sé una cosa eccezionale. Va molto oltre la dichiarazione Nostra Ætate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, promulgata nel 1965. Wojtyla demolirà totalmente la teologia delle sostituzione [secondo la quale il cristianesimo si sarebbe sostituito nell’alleanza con Dio, al giudaismo, dato che quest’ultimo aveva rifiutata l’identità messianica di Gesù], che è stato il terreno fertile per l’antigiudaismo e poi per l’antisemitismo. Se c’è un motivo per la sua canonizzazione, ritengo che sia per quell’aspetto. Non si può negare che sia riuscito a rimobilitare folle di giovani, in particolare in Europa. Ha certo favorito il dinamismo di elementi della Chiesa cattolica, almeno nei paesi occidentali. Ma sono proprio quelli che, oggi, strutturano la parte identitaria del cattolicesimo. Questo fenomeno della crescita identitaria non è specifico al cattolicesimo, che, a mio avviso, non costituisce una contro-cultura. Questa religione è un universalismo in senso profondo: il suo genio è stato essere una straordinaria macchina per includere ed assorbire le culture. Ciò che mi rattrista oggi, è vedere che l’appartenenza a questa religione diventa un tema identitario, per cui a chi non è d’accordo si dice di andarsene! Si è pervertita l’anima profonda del cattolicesimo, che ha vocazione ad includere più persone possibili, in particolare ai margini -storicamente, le persone ai margini sono spesso state portatrici di nuove intelligenze. Sono molto preoccupata per il cattolicesimo: una parte degli “identitari”, in nome dell’eredità di Giovanni Paolo II, vuol costituirsi sempre più come un gruppo di “puri”, che eliminano coloro che vengono ritenuti non sufficientemente cattolici.

Durante la procedura che ha condotto alla sua canonizzazione nel 2014, alcuni scogli del pontificato di Karol Wojtyla erano già conosciuti, almeno in Vaticano. Come spiegare che tale canonizzazione abbia potuto essere così rapida?

La mia lettura dell’avvenimento è molto politica. In un certo modo, canonizzare Giovanni Paolo II significava metterlo in vetrina, chiudere la porta e gettare la chiave. La volontà di canonizzarlo in fretta è stato un modo per proibire l’inventario che Anthony Favier ed io avevamo cominciato a fare, e che altri continueranno quando gli archivi saranno aperti tra 50 anni. Inoltre, alcune persone che hanno partecipato alla canonizzazione volevano difendere i propri atti, quando governavano al posto del pontefice alla fine della sua vita. Si è gettato il mantello di Noè a coprire questa parte del suo pontificato. Il giorno della canonizzazione, sono stata colpita dal volto molto chiuso di papa Francesco: sapeva quello che stava facendo.

Come viene accolto il vostro “inventario” negli ambienti cattolici?

Per un certo numero di persone, Giovanni Paolo II è un personaggio che non si tocca. Mi sento dire: “Come osa, visto che è santo?“. Giovanni Paolo II è una vacca sacra e mi espongo quindi ad essere considerata una bestemmiatrice. Ciò detto, ho avuto dei riscontri da persone informate che ritengono che questo lavoro doveva essere fatto e che è equilibrato. Il nostro libro non è un pamphlet, ma la crisi è severa.

Di fronte a questa crisi, quale futuro per il cattolicesimo? Gli inizi del pontificato di Francesco sembravano far spirare un vento di riforma. Ma sembra marcare il passo e non voler affrontare temi importanti, come quello del diaconato delle donne, dei divorziati risposati o dell’ordinazione di uomini sposati.

Non dubito della determinazione di Francesco agli inizi. Al contempo, il cantiere delle riforme è estremamente difficile da portare avanti. Ha forse gettato la spugna ritenendo di aver fatto abbastanza e che toccherà ad altri proseguire? È possibile. Ma, con tutta evidenza, le resistenze sono tali che Francesco non si sente la forza di superare quegli ostacoli.

Christine Pedotti dirige la redazione di Témoignage chrétien. È autrice di diversi libri, tra i quali Qu’avez-vous fait de Jésus (Che cosa avete fatto di Gesù?) e Jean-Paul II, l’ombre du saint (Giovanni Paolo II, l’ombra del santo) con Anthony Favier, editore Albin

Intervista a Christine Pedotti, a cura di Virginie Larousse  “www.lemonde.fr10 giugno 2020 (traduzione: fine settimana).

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202006/200614pedottilarousse.pdf

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Omofobia, non serve una nuova legge

Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde”, sottolinea Papa Francesco, mettendo fuorigioco ogni tipo di razzismo o di esclusione come pure ogni reazione violenta, destinata a rivelarsi a sua volta autodistruttiva. Le discriminazioni – comprese quelle basate sull’orientamento sessuale – costituiscono una violazione della dignità umana, che – in quanto tale – deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni. Trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking… sono altrettante forme di attentato alla sacralità della vita umana e vanno perciò contrastate senza mezzi termini.

Al riguardo, un esame obiettivo delle disposizioni a tutela della persona, contenute nell’ordinamento giuridico del nostro Paese, fa concludere che esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio. Questa consapevolezza ci porta a guardare con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati contro i reati di omotransfobia: anche per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni.

Anzi, un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui – più che sanzionare la discriminazione – si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, come insegna l’esperienza degli ordinamenti di altre Nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte. Per esempio, sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma – e non la duplicazione della stessa figura – significherebbe introdurre un reato di opinione. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso.

            Crediamo fermamente che, oltre ad applicare in maniera oculata le disposizioni già in vigore, si debba innanzitutto promuovere l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione, che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona. Su questo non servono polemiche o scomuniche reciproche, ma disponibilità a un confronto autentico e intellettualmente onesto.

            Nella misura in cui tale dialogo avviene nella libertà, ne trarranno beneficio tanto il rispetto della persona quanto la democraticità del Paese.      

                        La Presidenza della CEI                                10 giugno 2020

www.chiesacattolica.it/omofobia-non-serve-una-nuova-legge

 

Lettera aperta di Progetto Giovani Cristiani LGBT

Questa è una lettera aperta inviata a giornali, istituzioni ed enti con lo scopo di parlare alla nostra Chiesa. Il Progetto Giovani Cristiani LGBT è un gruppo informale che da qualche anno sta creando rete tra i credenti omosessuali, bisessuali, transessuali più giovani di tutta Italia.

 

Come Progetto Giovani Cristiani LGBT siamo dispiaciuti per le affermazioni della Presidenza della CEI in merito alle proposte di legge contro le discriminazioni in base a identità di genere e orientamento sessuale. Conosciamo le difficoltà che i rappresentanti della Chiesa Cattolica hanno nel comprendere queste tematiche e le conseguenze devastanti che le loro affermazioni hanno sui più giovani, costretti a vivere il già difficile percorso dell’adolescenza sentendosi definire “intrinsecamente disordinati”. Per fortuna, o purtroppo, le affermazioni della Presidenza della CEI non sono sempre in sintonia con il sentire della Chiesa: le nostre esperienze spesso sono state di ascolto e non di rifiuto.

Vogliamo inoltre esprimere il motivo per cui noi giovani cristiani LGBT riteniamo importante questa legge. Inserire nel codice penale le discriminazioni in base all’orientamento sessuale e all’identità di genere significa aprire gli occhi sulla loro esistenza, aiutare l’intera società a rendersi conto di quanto siamo ancora condizionati dai pregiudizi. Oltre ovviamente a creare un deterrente nei confronti della “normalizzazione” dell’omobitransfobia.

Bisogna infine precisare che la proposta di legge non prevede più il “reato di opinione”. La Chiesa dunque continuerà ad essere libera di esprimere il suo pensiero, anche quando potrebbe essere dannoso.

Il Progetto Giovani Cristiani LGBT continuerà a ricercare e promuovere occasioni di dialogo e confronto, convinti che la piena accettazione passi attraverso una reciproca e vera conoscenza.

Le volontarie e i volontari del Progetto Giovani Cristiani     11 giugno 2020

www.gionata.org/lettera-aperta-del-progetto-giovani-cristiani-lgbt-alla-nostra-chiesa-cattolica-italiana

 

Omofobia e Capanna dello Zio Tom: alcune “similitudini” nel Comunicato CEI

Fin dall’inizio sono rimasto colpito dalla citazione di papa Francesco, che apre il comunicato CEI sul tema della legge sulla omofobia. Mi suonava male. Solo tornando alla fonte, considerata nella sua integralità, ho iniziato a comprendere meglio che cosa era accaduto con quella citazione. Ma andiamo per ordine. Ecco le prime righe del Comunicato: “Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde”, sottolinea Papa Francesco, mettendo fuorigioco ogni tipo di razzismo o di esclusione come pure ogni reazione violenta, destinata a rivelarsi a sua volta autodistruttiva. Le discriminazioni – comprese quelle basate sull’orientamento sessuale –costituiscono una violazione della dignità umana, che – in quanto tale – deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni. Trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking… sono altrettante forme di attentato alla sacralità della vita umana e vanno perciò contrastate senza mezzi termini.

Se però torniamo alla frase completa del papa, che è solo di alcuni giorni fa, essa suona così: “Non possiamo tollerare né chiudere gli occhi su qualsiasi tipo di razzismo o di esclusione e pretendere di difendere la sacralità di ogni vita umana. Nello stesso tempo dobbiamo riconoscere che la violenza delle ultime notti è autodistruttiva e autolesionista. Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde”.

             E’ chiaro che il papa sta parlando dei gravi fatti che, dopo l’uccisione di George Floyd, hanno causato le rivolte negli USA. Ma la frase finale, la sola citata dal Comunicato, non riguarda la uccisione di Floyd, ma le reazioni violente che ne sono scaturite. Nel discorso del papa la frase cade “alla fine”, mentre nel testo della CEI risuona all’inizio e sequestra tutta l’attenzione, finendo così completamente fuori contesto. Quasi è cambiata di segno. Sembra citata per una urgenza diversa e in una logica meramente difensiva.

             Ma tutto intero il testo del Comunicato sembra sorretto da una “similitudine nascosta” – e alquanto azzardata – che si rivela proprio dalla citazione “monca” delle parole papali. Il paragone sembra questo: Come è giusto che si denuncino i gravi soprusi e crimini che sono stati commessi contro gli afroamericani, ma non si deve reagire con la violenza, perché essa è sempre una sconfitta.  Così è giusto che si combatta ogni discriminazione anche di carattere sessuale, ma una reazione violenta contro chi discrimina porta ad affermare posizioni negative, pericolose, addirittura liberticide.

La “similitudine” è dunque tra difensori dei diritti dei neri in rapporto alle violenze, e difensori dei diritti degli omo-transessuali in rapporto alle discriminazioni e violenze.  Ma il “salto logico”, che nel Comunicato avviene al paragrafo successivo, è quasi un “salto mortale”. Perché si passa da un “giudizio di fatto”, legato alla vicenda americana, ad una considerazione “di diritto”, addirittura di “sufficiente copertura normativa”. Ci si muove così, e con troppa disinvoltura, da una considerazione storica e culturale, ad una considerazione normativa, perdendo del tutto la prospettiva “pedagogica”: anzi, negando ogni spazio a possibili interventi normativi, perché i soggetti a rischio sono già sufficientemente tutelati.  Anzi, la prospettiva viene di nuovo capovolta, perché una nuova legge, che intervenisse sulla materia, sarebbe addirittura “liberticida”, perché farebbe diventare “penalmente rilevante” tutta intera una cultura e una tradizione. E perciò si chiede che si lavori sul piano della cultura e della formazione e non sul piano legislativo e penale. Come se la formazione non si facesse anche mediante le leggi.

             Sembra quasi che la “nuova legge” venga considerata simile alla “violenza di una reazione degli afroamericani” che vogliono “vendicare” le discriminazioni subite. La nuova legge sarebbe forse equiparata ad una “violenza con cui niente si guadagna e tanto si perde”? Così sembrerebbe anche dalla chiusura del testo, che parla di “polemiche e scomuniche reciproche”. Ora, il giudizio sulla opportunità di una legge è sempre possibile, a tutti e in ogni momento. Ma mettere in guardia da una “violenza contro la libertà di opinione”, addirittura parlare di “derive liberticide”, nella rischiosa metafora utilizzata fin dall’inizio, assomiglia molto alla ammissione di una reale incapacità nel comprendere le logiche – limitate, ma reali – di una “cultura dei diritti”. Anzi, questo linguaggio può farci anche tornare, per analogia, a quella iniziale resistenza alla cultura dei diritti, tipica del XIX secolo, che li fraintendeva come “soprusi” e come sovversioni del diritto divino e delle leggi naturali. Dietro a quella frase “monca” di Francesco, che campeggia all’inizio del comunicato, si nasconde tutta la foresta oscura dell’antimodernismo europeo, con il suo sospetto radicale verso ogni “eguaglianza”. Che ieri valeva per i neri e per le donne e oggi vale per gli omosessuali. Con tutte le necessarie differenze. Ma anche con troppe disdicevoli somiglianze.

E non dovremmo dimenticare che non solo per gli omosessuali, ma anche per i neri, anche noi cattolici, il rispetto, almeno sul piano giuridico, lo abbiamo imparato dagli altri. Ci siamo messi alla “scuola dei segni dei tempi” – degli Americani protestanti e dei Francesi atei – e abbiamo imparato. E coloro che non volevano imparare, quasi 170 anni fa, sulla “Civiltà Cattolica” del 1853, potevano scrivere, sui neri, frasi terribili come questa: “Così in essi la condizione di schiavi pare venuta a confermare ciò che avea disposto la natura; e la ripugnanza che le altre razze trovano ad avvicinarlesi sembra condannarli ad un eterno servaggio. Or vede ognuno che somiglianti differenze non si tolgono via cogli articoli dei codici. Sia in uno Stato della Confederazione ammessa o no legalmente la schiavitù, sarà sempre vero che un Bianco non si assiderà in eterno alla stessa mensa con un uom di colore, non vorrà con essolui entrare nel medesimo cocchio od avere comune il banco, non che nel teatro, ma fino nel tempio…” (“La schiavitù in America e la Capanna dello zio Tom” (Civiltà Cattolica, 1853, IV, 2, 2, 481-499).

 Anche 170 anni fa si diceva: “non si tolgono via cogli articoli dei codici”. Questa tendenza a diffidare delle normative moderne, che introducono logiche egualitarie e riconoscono diritti a soggetti “naturaliter” diversi, è antica. Ed è il frutto di un trauma e di una ferita, che stenta a guarire. E che può sempre considerare come un pericolo mortale di volta in volta “la capanna dello Zio Tom” o una legge contro la omo-transfobia.

Andrea Grillo nel blog: Come se non             10 giugno 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/omofobia-e-capanna-dello-zio-tom-alcune-similitudini-nel-comunicato-cei

 

I vescovi contro la legge sull’omofobia: “Limita la libertà di opinione

Durissimo attacco dei vescovi contro i disegni di legge per il contrasto all’omotransfobia in discussione in Parlamento: non servono – dicono i vescovi – e possono limitare la libertà di opinione. Sono cinque i Ddl all’esame della Commissione giustizia di Montecitorio (presentati da Boldrini e Zan del Pd, da Scalfarotto di Italia Viva, da Perantoni del M5S e da Bartolozzi di Forza Italia). Tutti puntano a introdurre nel codice il reato di omotransfobia, visto anche il moltiplicarsi degli episodi di violenza e discriminazione nei confronti delle persone omosessuali e transessuali.

Progetti di legge che però non piacciono alla Presidenza della Conferenza episcopale italiana, che ha emanato una dura nota dal titolo inequivocabile: “Omofobia, non serve una nuova legge”. “Le discriminazioni, comprese quelle basate sull’orientamento sessuale, costituiscono una violazione della dignità umana”, scrive la Cei. Che subito dopo aggiunge: ma non ci sono “vuoti normativi” o “lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni”, “nell’ordinamento giuridico del nostro Paese esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”. La “preoccupazione” dei vescovi, quindi, non è tanto il contrasto all’omotransfobia, quanto il timore che “un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui, più che sanzionare la discriminazione, si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione”. Qualche esempio? “Sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma, e non la duplicazione della stessa figura, significherebbe introdurre un reato di opinione”, spiegano i vescovi. E questo limiterebbe “la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso”.

Ad essere puniti, quindi, non sarebbero coloro che discriminano, insultano o aggrediscono le persone omosessuali, ma vescovi, preti, catechisti e genitori che affermano le proprie convinzioni sul valore dell’eterosessualità. Perlomeno questo è quello che pensano i vescovi. E insieme a loro le associazioni della galassia Family Day, che esultano per la presa di posizione della Cei, a cominciare dal presidente Massimo Gandolfini (“siamo grati ai vescovi italiani per aver ribadito che non serve una nuova legge sull’omotransfobia”).

“Non si tratta di una legge contro la libertà di opinione, ma di una legge che protegge la dignità delle persone”, rassicura Alessandro Zan, il deputato del Pd che sta lavorando all’unificazione dei testi in un unico Ddl. “Lo ripeto per l’ennesima volta: non verrà esteso all’orientamento sessuale e all’identità di genere il reato di “propaganda di idee” come oggi è previsto dall’articolo 604 bis del codice penale per l’odio etnico e razziale. Dunque nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio come ho sentito dire a sproposito. Qui stiamo parlando di vittime vulnerabili e che proprio per questo necessitano di una tutela rafforzata. Stiamo parlando di storie di ragazzi che vengono picchiati per strada solo perché si tengono per mano o che vengono aggrediti, bullizzati e uccisi solo per il loro orientamento sessuale o la propria identità di genere“.

Aggiunge Laura Boldrini: “La legge contro l’omotransfobia ha per obiettivo non le opinioni e la libertà di espressione, come afferma erroneamente la nota della Cei, ma gli atti discriminatori o violenti e l’istigazione a commettere questi reati. Si tratta di misure che puntano a tutelare i diritti delle persone seguendo il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione e le indicazioni del Parlamento europeo su questa materia, che risalgono al 2006 ma sono rimaste finora fuori dal nostro ordinamento”. E Nicola Fratoianni, portavoce nazionale di Sinistra Italiana: “In questi anni difficili ho apprezzato pubblicamente, da non credente, posizioni coraggiose e controcorrente dei vescovi italiani, e spesso ci siamo trovati insieme nella lotta contro il razzismo, dalla parte dei più deboli. È per questo che oggi, con altrettanta franchezza, dico che non condivido in nessun modo la loro posizione sulla legge contro l’omofobia. L’unica deriva liberticida che conosco è quella sempre più aggressiva nei confronti di persone che vengono ferite nella loro dignità”.

Luca Kocci                             “il manifesto”  11 giugno 2020

https://ilmanifesto.it/i-vescovi-contro-la-legge-sullomofobia-limita-la-liberta-di-opinione

 

Diritto e libertà. Alessandro Zan: «Omofobia, rispettiamo le idee»

Continua il dibattito sulle proposte di legge al vaglio della commissione Giustizia della Camera che intendono intervenire sugli articoli 604 bis e ter del codice penale e sulla cosiddetta ‘legge Mancino’ (205 del 1993). Le norme in questione puniscono la propaganda, la discriminazione e la violenza «per motivi razziali, etnici e religiosi». Le proposte di legge – su cui fin dal mese scorso sono state avviate le audizioni di esperti – puntano ad inserire nella legge esistente le fattispecie della ‘identità di genere’ e dell’’orientamento sessuale’ con l’obiettivo di combattere l’omofobia e l’omotransfobia. I cinque testi – Boldrini-Speranza, Zan, Scalfarotto, Perantoni, Bartolozzi – sono molto simili e sono sostenuti da numerosi deputati di peso sia del Pd, sia di Italia Viva. Ora le proposte sono confluite in un testo unico che verrà reso noto mercoledì prossimo.

 

«Non vogliamo limitare la libertà d’espressione di nessuno. Non sarà una legge-bavaglio, né una legge liberticida. Anzi non sarà neppure una nuova legge, perché la legge Mancino è stata vagliata dalla giurisprudenza per oltre quarant’anni e offre le più ampie garanzie costituzionali». L’ing. Alessandro Zan, deputato del Pd, incaricato di stendere una sintesi comune dei cinque progetti di legge sull’omofobia, getta acqua sul fuoco delle polemiche. «Abbiamo un solo obiettivo. Tutelare le persone più vulnerabili. Non inseguiamo né progetti ideologici né di propaganda».

Cosa risponde ai vescovi italiani che nel comunicato diffuso mercoledì hanno paventato il rischio di ‘derive liberticide’ a proposito di tematiche sensibili, legate al matrimonio e alla sessualità?

Direi che il rischio prospettato è inesistente. Nella formulazione del testo unico che presenteremo mercoledì prossimo, estendiamo i crimini omotransfobici solo per l’istigazione all’odio e alla violenza. Nessuno riferimento ai commi dell’articolo 604 che fanno riferimento alla libertà d’espressione. D’altra parte già la legge Mancino, che nel ’93 aveva modificato la precedente legge Reale, li aveva inseriti solo per impedire la propaganda dell’odio razziale e per frenare il negazionismo. Eppure quella parte della legge, considerata di dubbia costituzionalità, non è mai stata concretamente applicata. «Il reato d’odio non è un qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, ma, come dice la Cassazione, dev’essere motivato ‘da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori’»

Quindi lei si dice convinto che il principio della libertà d’espressione non sia in pericolo?

Guardi, è un principio che anch’io ho molto caro. Ma certamente nella libertà d’espressione non si può includere l’incitamento all’odio. Ecco perché la libertà d’espressione, garantita dalla Costituzione, dev’essere bilanciata dal rispetto della dignità umana.

Facciamo un esempio concreto per fugare ogni dubbio. Affermare la verità del matrimonio fondato sull’amore tra uomo e donna, senza attribuire identica valenza alle unioni omosessuali, diventerà un reato?

Ma certamente no. Io, da omosessuale, non sarò d’accordo con lei. Magari, esercitando la mia libertà d’opinione, la inviterò a ragionare sull’opportunità di parlare di famiglie al plurale, ma questo rientra appunto nella garanzia costituzionale. Si tratta di esercizio della libertà d’espressione che, ripeto, nessuno vuole intaccare. Non vogliamo leggi liberticide.

Qual è secondo lei il confine tra libertà d’espressione e violazione della dignità umana?

Più che la mia opinione, è importante quanto afferma a questo proposito la Cassazione, terza Sezione penale, sentenza n. 36906, (23 giugno 2015) 14 settembre 2015, in riferimento all’odio razziale o etnico.

https://canestrinilex.com/risorse/basta-stranieri-non-e-reato-cass-3690615

Non è un qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, ma dev’essere motivato ‘da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori’. E ancora la Cassazione spiega che il giudice, tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, ‘deve assicurare il contemperamento dei princìpi di pari dignità e di non discriminazione con quello della libertà d’espressione’. Con lo stesso criterio guardiamo ai reati lesivi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Come vede, c’è una giurisprudenza consolidata. Sarebbe impossibile inventarsi derive rischiose.

La Chiesa afferma da tempo, e papa Francesco l’ha ribadito con chiarezza, che nessuno può essere discriminato in base al proprio orientamento sessuale. Siamo perfettamente d’accordo sul fatto che ogni gesto di violenza è un attentato alla sacralità della vita. Ma non bastava ciò che già afferma in merito la legge Mancino per perseguire le violenze contro le persone omosessuali e transessuali?

No, è importante approvare una legge che preveda una tutela rafforzata perché siamo di fronte a persone più vulnerabili e che quindi devono essere protette. In tanti casi di omofobia andati a processo, il giudice, non avendo riferimenti precisi, ha dovuto appellarsi ai motivi abbietti. E ciò contrasta con quell’esigenza di rafforzare le tutele, come tra l’altro ci raccomanda l’Europa.

Eppure durante le audizioni alla Commissione Giustizia della Camera è emerso, sulla base di dati forniti dal Ministero dell’Interno, che negli ultimi dieci anni i reati riferibili all’orientamento sessuale e all’identità di genere, sarebbero solo 212, in media 26,5 ogni anno. Non tantissimi da giustificare una nuova legge…

Ma non è così. È vero che da una lettura strumentale di queste statistiche potrebbe emergere la convinzione che si tratti di fenomeni marginali. In realtà l’Osservatorio della polizia non raccoglie dati che non siano collegati a un reato specifico. E, non essendoci una legge, non può evidentemente neppure raccogliere i dati correlati. Ecco perché sembrano numeri esigui. I delitti contro omosessuali e transessuali sono una realtà sommersa, molto più vasta purtroppo di quanto si possa rilevare dai dati ufficiali. In altri Paesi si è visto che, dopo l’approvazione di leggi specifiche, i dati sono esplosi.

In altri Paesi si è visto anche che, dopo l’approvazione di leggi contro l’omofobia, un vescovo – nello specifico quello di Malaga, in Spagna, nel 2014 – è stato indagato penalmente per aver affermato che la sessualità è finalizzata alla procreazione, contrariamente agli atti omosessuali. Da noi potrebbe succedere?

Ripeto, no in maniera assoluta. La legge italiana sarà completamente diversa e, come detto, sarà garantita la libertà d’opinione contemperata ai princìpi della pari dignità. In questo caso evidentemente non siamo di fronte a un’opinione che istiga a commettere violenza. Poi la mia opinione sarà evidentemente diversa da quella del vescovo, ma siamo sempre nell’ambito di un libero confronto di idee.

Perché non cancellare dal progetto di legge le espressioni identità di genere e orientamento sessuale, che fanno riferimento a concetti su cui la scienza appare ancora divisa. Non si potrebbe indicare più semplicemente persone omosessuali e transessuali?

Anche in questo caso non ci siamo inventati nulla. Sono espressioni consolidate dal punto di vista giuridico. Sono presenti in varie sentenza della Corte costituzionale (2015 e 2017), negli ordinamenti internazionali (per esempio la Convenzione di Istanbul). E anche nel nostro ordinamento penitenziario. Sarebbe stato difficile ricorrere a una terminologia diversa.

Luciano Moia Avvenire                    12 giugno 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/omofobia-rispettiamo-le-idee

 

Noi Siamo Chiesa ritiene questo intervento da contestare alla radice

I vescovi italiani si inchinano alla mobilitazione delle destre oltranziste presenti in aree dell’opinione pubblica e in alcuni movimenti del mondo cattolico. E quindi dicono no alla legge contro l’omofobia.

La situazione mi sembra questa:

  • Nonostante sia cresciuta da tempo la consapevolezza della presenza di gay e di lesbiche nella società e del loro diritto ad ogni piena considerazione ed assoluta dignità rimane diffuso un pregiudizio penalizzante nei confronti di questi nostri fratelli e sorelle. Sono tanti i fatti che ci dicono che sono molte le situazioni di arretratezza nel capire ed accettare la realtà omo. Esse si manifestano in atti concreti di discriminazione, di violenza, di isolamento sociale e di disprezzo. Le organizzazioni LGBT tutto documentano in modo puntuale e continuo e la cronaca ci informa a sufficienza.
  • Il mondo gay/lesbico, per intervenire in questa situazione, oltre ad iniziative culturali e sociali di vario tipo, ha anche proposto una normativa specifica. L’art. 604 del codice penale dovrebbe punire, come ora fa, non solo chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione, o di violenza o atti di provocazione “per motivi sociali, etnici, nazionali o religiosi” ma anche per “motivi fondati sulla omofobia o sulla transfobia”. Chi è ostile all’ area LGBT ha da tempo obiettato che questa modifica avrebbe impedito di esprimere posizioni critiche nei confronti dell’omosessualità. Ma le parole del codice sono ben definite e non danno spazio a reati di opinione. Come dovrebbero sapere i vescovi, esse sempre determinano bene le fattispeci concrete da sanzionare che non sono scritte a spanne.  La libertà di criticare l’omosessualità resta piena, verrebbe contrastata la discriminazione e la violenza così come per gli altri motivi (etnici, religiosi ecc.). Il buon senso di questa riflessione e la realtà del nostro paese hanno portato nella precedente legislatura il disegno di legge di modifica del codice ad essere approvato dalla Camera ma a non riuscire a concludere l’iter al Senato. In seguito la campagna contro questa pretesa legge liberticida è continuata da parte di quella stessa area che organizzò il Family Day, che si attivò sul caso Englaro, contro la legge n.219 sul fine vita e via di questo passo.
  • Contemporaneamente nel diffuso mondo cattolico, da una parte si sono consolidate le presenze organizzate di gay/lesbiche credenti (per esempio “Gionata”,” Cammini di Speranza”, “Il Guado” e altre), dall’altra mi sembra che la linea dell’accoglienza nelle sedi parrocchiali e diocesane si sia estesa e siano ora molto attenuate le chiusure di principio. Ha contribuito l’“Avvenire” con ripetuti interventi tesi a capire, dialogare e a informare correttamente. Ne è prova l’uscita in questo mese del libro di Luciano Moia (caporedattore del quotidiano cattolico) “Chiesa e omosessualità” con prefazione del Card. Zuppi. Noi Siamo Chiesa ha contribuito dall’inizio a proporre un nuovo percorso con un primo convegno precursore nel 1999 su “Fede e persone omosessuali” e con tanti altri interventi in seguito.
  • Ora la Presidenza della CEI ha diffuso un comunicato molto duro nei confronti del disegno di legge ora in discussione alla Camera che riprende quello della passata legislatura (l’ “Avvenire” ne dà notizia oggi con un’enfasi immeritata). Si può discutere molto dell’opportunità di un tale intervento a gamba tesa sotto il profilo della laicità e del rapporto con le istituzioni.  Si può anche dire che, se interventi si fanno, bisognerebbe allora non farli a senso unico (non ne abbiamo visti, per esempio, di significativi nel confronti dei decreti contro i migranti un anno fa). Noi soprattutto siamo molto amareggiati, oltre che sorpresi, per questa collocazione dei vescovi (perlomeno della loro Presidenza) a sostegno di una posizione che sposa in modo molto pesante le linee oltranziste del conservatorismo reazionario interno alla Chiesa, il quale poi si intreccia con immediata facilità con la destra politica esterna. Padre Alberto Maggi (oggi su “Repubblica”) ha reso esplicita una voce che si fa strada tra i cristiani. Egli ha detto: “La Chiesa non tiene conto in nessun modo delle sofferenze morali subite da tanti omosessuali per causa sua e non tiene conto delle sofferenze che ancora oggi infligge loro”.

https://ricerca.repubblica.it/r https://www.avvenire.it/attualita/pagine/omofobia-rispettiamo-le-idee epubblica/archivio/repubblica/2020/06/11/il-teologoma-sui-gay-la-chiesa-dovrebbe-solo-chiedere-perdono12.html?ref=search

  • La linea di papa Francesco è un’altra, la linea dei cattolici democratici è un’altra.

Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa 11 giugno 2020

www.noisiamochiesa.org/?p=8061

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CONSULTORI FAMILIARI

Nascita ed evoluzione di un modello sociale di salute in Italia (ACLI)

  • Introduzione
  • Cittadinanza, salute, servizi sociali: le riforme degli anni ‘70
  • Legislazione nazionale, regionale e provinciale
  • Leggi e fonti nazionali
  • Leggi regionali e provinciali
  • I consultori familiari tra innovazione e criticità
  • Il dibattito sui consultori
  • Salute riproduttiva, fecondità e natalità: i numeri
  • Ministero della Salute
  • Legge 194/1978: relazione annuale al Parlamento con i dati
  • Procreazione medicalmente assistita, relazione al Parlamento 2018
  • Istat
  • Rapporto annuale 2019. La situazione del Paese
  • La salute riproduttiva della donna
  • Informazioni sulla rilevazione Interruzioni volontarie della gravidanza
  • Interruzioni volontarie della gravidanza
  • Natalità e fecondità della popolazione residente
  • Madri sole con figli minori
  • L’evoluzione demografica in Italia dall’Unità a oggi
  • Annuario statistico italiano 2018
  • Le proposte di modifica
  • A livello nazionale: XVIII Legislatura, XVII Legislatura
  • A livello regionale: Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria, Lazio

 

Introduzione. «I consultori familiari, istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, sono servizi sociosanitari integrati di base, con competenze multidisciplinari. Costituiscono un importante strumento all’interno del distretto, per attuare gli interventi previsti a tutela della salute della donna, più globalmente intesa e considerata nell’arco dell’intera vita, nonché a tutela della salute dell’età evolutiva e dell’adolescenza, e delle relazioni di coppia e familiari…».

www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?aggiornamenti=&attoCompleto=si&id=25554&page=&anno=null

Così si legge sul sito del Ministero della salute. Già in queste cinque righe di sommaria presentazione si annunciano alcune caratteristiche fondamentali di questo istituto “ibrido” (le analizzeremo distintamente nel corso di questo dossier), il cui funzionamento e monitoraggio ha posto non pochi problemi, tanto che – nel novembre 2010 – sul frontespizio del Dossier “Organizzazione e attività dei Consultori familiari pubblici in Italia. Anno 2008”, appena realizzato dal Dipartimento della prevenzione e della comunicazione – Direzione Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, compare una sorta di speciale avvertenza “Questo rapporto è il primo tentativo di costruzione di un rapporto nazionale sui Consultori familiari a distanza di 35 anni dalla loro istituzione. Le difficoltà nel giungere a questo risultato non sono state poche. Alcune sono state superate, altre ancora no. Prendendo però questo primo rapporto come punto di partenza, con l’impegno di tutti, è possibile migliorarne la qualità ed avere a disposizione un prodotto utile al monitoraggio di questo servizio prezioso per la salute degli adolescenti, delle donne e delle famiglie.”(…)-

Acquisiamo così i primi elementi:

• sono servizi integrati di base;

• hanno carattere distrettuale;

• hanno competenze multidisciplinari;

• non hanno evidentemente obiettivi facilmente misurabili (visto che lo stesso Ministero della salute ha redatto il primo Rapporto di monitoraggio a 35 anni dalla loro istituzione);

• la loro “programmazione, il funzionamento, la gestione e il controllo” competono alle Regioni (con ciò sviluppandosi con modelli organizzativi diversi e riproducendo nel territorio disparità e disuguaglianze1);

• precedono l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, con il quale dovranno fare conti non facili.

Rispetto ai Consultori – e dunque alla loro evoluzione, almeno per i primi anni – va poi tenuto in conto il clima “speciale” in cui sono nati, e di cui converrà richiamare più avanti alcuni elementi, ma anche il fatto che i consultori pubblici hanno avuto alcuni antecedenti significativi, ad opera di associazioni volontaristiche, operanti già da qualche decennio (in particolare UCIPEM, UICEMP e AIED) e ad oggi ancora attivi.

UCIPEM e AIED hanno rappresentato le due organizzazioni private più importanti e i più significativi antecedenti dei Consultori pubblici. Diversissimi per nascita, obiettivi e finalità entrambe hanno risposto ad istanze molto diffuse e popolari.

«C’era, negli anni dell’immediato dopoguerra, un gran vociferare per la “ricostruzione” del Paese: “Ebbene – mi dissi – noi ci dedicheremo alla ricostruzione della famiglia”. Sorsero così varie iniziative, per quel tempo insolite: pubblicazioni specifiche, editoriali e periodiche, corsi di preparazione al matrimonio, corsi di riorientamento per sposi e genitori, un consultorio prematrimoniale e matrimoniale per le difficoltà critiche che possono insorgere nella preparazione al matrimonio e lungo il corso della vita coniugale. Ecco, l’idea del consultorio scaturiva da una serie di iniziative, specificatamente orientate all’aiuto della famiglia, le quali ci avevano fatto approfondire l’osservazione di situazioni problematiche, e istanze, più o meno esplicite, che richiedevano un organismo particolarmente qualificato, che le accogliesse e le esaminasse, in modo da chiarire ed evidenziare la soluzione migliore, caso per caso. Il 15 febbraio del 1948, quando annunciai al pubblico milanese che l’Istituto “La Casa” istitutiva un consultorio di quel genere, la stampa (a cominciare da quella quotidiana) mostrò subito vivo interesse, come se si fosse squarciato un velo che nascondeva una problematica sociale, diffusa e dolente. Ricordo che le prime persone che giunsero al consultorio si riferivano a un giornale o venivano addirittura con il giornale sul quale avevano letto la notizia, quasi per scusarsi di chiedere un aiuto così insolito di cui da tempo sentivano il bisogno.

            Nel giro di pochi anni, sorsero altri consultori in Italia, con i medesimi intendimenti e sempre per iniziativa di persone sensibili e volenterose, senza riconoscimenti, né aiuti di nessuna sorta. Sono questi consultori, i quali nel 1968 si raggrupparono sotto la sigla UCIPEM (Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali).».

(don Paolo Liggeri, Il Consultorio in Italia: storia, legislazione, fisionomia, finalità e struttura, sito UCIPEM)

L’A.I.E.D. – Associazione Italiana per l’Educazione Demografica viene costituita il 10 ottobre 1953. Primo obiettivo dell’AIED è stato quello di ottenere l’abrogazione dell’articolo 553 del Codice Penale (assurdo retaggio della legislazione fascista {finalizzato a raggiungere il milione di baionette}), che vietava fino ad allora la propaganda e l’uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di simile “reato”. Secondo obiettivo è stato quello di aprire nel 1955, a Roma, in via Rasella, il primo consultorio italiano di assistenza contraccettiva.

Il consultorio familiare. Nascita ed evoluzione di un modello sociale di salute in Italia

Dopo numerose battaglie, che hanno registrato anche processi penali a carico di alcuni suoi dirigenti, I’AIED otteneva il 10 marzo 1971 l’abrogazione da parte della Corte Costituzionale del citato art. 553, riconosciuto palesemente incostituzionale. Tuttavia, malgrado tale pronunciamento, perdurava ugualmente in Italia il divieto di vendita nelle farmacie dei contraccettivi, in quanto il Ministero della Sanità continuava ad applicare alcune norme del “Regolamento per la registrazione dei farmaci” (Reg. n. 478 del 1927), che non consentiva “la registrazione di specialità medicinali e di presidi medico-chirurgici aventi indicazioni anticoncezionali”. Per questo motivo, infatti, i contraccettivi venivano ancora registrati sotto “mentite spoglie”: la pillola come regolatore dei cicli mestruali, mentre gli spermicidi come antisettici per l’igiene intima della donna. L’AIED intraprendeva così, nel giugno 1976, una solitaria azione di denuncia legale e politica nei confronti dell’allora Ministro della Sanità per inosservanza della legge 22 luglio 1975, n. 405, che aveva istituito in Italia i consultori familiari, i quali dovevano servire a fornire proprio assistenza contraccettiva e che – paradossalmente – non potevano farlo! A seguito di quest’azione, il Ministero della Sanità, con decreto dell’ottobre 1976, provvedeva finalmente ad abrogare quelle norme. Si apriva così definitivamente in Italia la strada per una effettiva pratica della contraccezione, e la possibilità di realizzare – attraverso di essa – i principi della maternità libera e responsabile. (AIED, La nostra storia).

Affrontare il tema consultori oggi è particolarmente importante per almeno tre ordini di motivi:

• i consultori sono la frontiera sociale in sanità, purtroppo periferia della spesa sanitaria, tanto da indurre a pensare che il loro ambito debba essere parte attiva dei piani di zona (indi delle politiche di welfare) ed uscire dai confini delle aziende sanitarie pubbliche;

• i consultori sono il luogo della multidisciplinarietà, come tali possono rappresentare realtà privilegiate laddove si voglia scegliere di sperimentare il lavoro in equipe;

• i consultori sono molto spesso sulla carta e vengono sussidiati da esperienze volontaristiche o comunque del privato sociale, generando un sistema inadeguato e/o obsoleto, in tempi che necessitano di mediare i conflitti familiari, di ricomporre le crisi, di fronteggiare con il supporto alla genitorialità la crescente e drammatica povertà educativa.

Attualmente non è semplice conoscere la distribuzione territoriale dei consultori. Da uno studio si evince che in Italia sono attivi 2.354 Consultori Familiari del SSN, mentre quelli non direttamente afferenti al Sistema Pubblico sono circa 300. La regione con maggiore presenza è la Lombardia (242 Pubblici e 64 non Pubblici). A queste esperienze si aggiungono poi i Punto Famiglia delle Acli, ben 70 in tutta Italia (cfr. Tab. 1): anche se a rigore non sono dei Consultori, spesso le loro attività possono essere considerate affini o più precisamente complementari a quelle svolte all’interno delle sedi consultoriali.

L’esperienza dei Punti Famiglia e, più in generale e prima ancora, dei consultori familiari di iniziativa privata rappresentano una opportunità importante per le famiglie, soprattutto in quei territori che più di altri hanno patito la riduzione delle risorse e meno di altri hanno potuto usufruire di una equa distribuzione dei servizi. Ma in nessun caso queste esperienze debbono essere considerate in termini di supplenza dell’intervento pubblico e giustificarne la contrazione. La virtuosità di queste realtà consiste infatti – in modo particolare – nella capacità di creare connessioni tra i soggetti che l’iniziativa pubblica non riesce a raggiungere, concorrendo a stabilire legami stabili e fiduciari sia con le istituzioni che con le organizzazioni presenti nel territorio, affinché queste ultime arrivino a rappresentare quella rete di protezione necessaria alle famiglie e ai/alle loro componenti.

Sappiamo da indagini recenti e, prima ancora, dalla nostra esperienza che l’impoverimento che ha colpito pressoché tutte le famiglie italiane del ceto medio-basso, ha in prima battuta portato alla riduzione proprio delle spese destinate alla salute, mentre – dall’altro lato, come in una morsa a tenaglia – la sanità pubblica e i servizi erogati dagli enti locali procedevano a loro volta ad abbassare il livello delle erogazioni e delle provvidenze. I Consultori, da sempre considerati una entità spuria e non di prima necessità, non hanno fatto eccezione, continuando il trend negativo avviato ormai decenni fa.

Ma, come si vedrà anche nelle pagine successive di questo dossier, i Consultori hanno rappresentato

– sia pure per una breve stagione – e possono ancora rappresentare una porta d’accesso importante per le famiglie, le donne, i giovani, i bambini. Una porta meno spaventosa di quella di un ospedale, ma non meno necessaria. Vediamo come, vediamo perché.

Tab. 1: Consultori del Pubblici/Privati e Punto Famiglia Acli per Regione       (pag. 7)

Cittadinanza, salute, servizi sociali: le riforme degli anni ’70. Gli anni ’70 sono stati nel nostro Paese anni di grandi cambiamenti e grandi riforme. La società italiana era cambiata e continuava a cambiare velocemente, lasciandosi alle spalle il decennio del boom economico per entrare in quello della crisi, che pure porterà a maturazione processi di portata storica. Alcune delle leggi che hanno segnato quel decennio, come spesso accade, hanno registrato e sostenuto le istanze sociali, quasi anticipandone la prefigurazione. Altre nascevano già vecchie, preoccupate di conservare più che di creare. Così, in alcuni casi, gli interventi riformatori invece di sostenersi l’un l’altro rimanevano – nella migliore delle ipotesi – uno estraneo all’altro, talvolta arrivando a confliggere.

È in questa temperie che nel 1975 viene approvata la legge che istituisce i Consultori, al termine di un quinquennio in cui le relazioni sociali e i rapporti tra uomini e donne si impongono sulla scena e impongono la riscrittura del patto sociale. I consultori nascono in questo fermento, ne sono parte ed esito.

Nascono prima del Servizio Sanitario Nazionale e prima del definitivo assetto del nuovo ordine delle Regioni. Quella dimensione ordinativa e amministrativa gli è estranea. I Consultori non sono ospedali, sono anzi quei luoghi in cui per la prima volta la medicina viene posta sotto accusa, per la sua pretesa di curare corpi che non distingue. L’inimicizia si creerà presto, non solo per questo. Certo è che l’idea di servizio alla base della nascita dei Consultori non trova luogo – e spesso neanche risorse – nel nuovo assetto della Sanità italiana disegnato dalla legge di riforma del 1978.                 www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1978/12/28/078U0833/sg

            E un peso ancora più forte avrà sulla vita e il futuro dei Consultori l’approvazione nello stesso anno di un’altra legge, la famosa 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, che ha depenalizzato condizionatamente l’aborto disciplinandone le modalità di accesso, e affidandone in gran parte l’onere proprio ai neonati Consultori.

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1978-05-22&atto.codiceRedazionale=078U0194&elenco30giorni=false

e in seguito  per Procreazione medicalmente assistita art. 3         www.camera.it/parlam/leggi/04040l.htm

Anche solo attraverso un’osservazione formale, non è difficile immaginare la difficoltà che queste strutture – e gli operatori, in grandissima parte donne, che lavoravano al loro interno – si trovarono ad affrontare. Il percorso di attuazione della norma nazionale attraverso le legislazioni regionali durò (come vedremo più avanti, nel capitolo dedicato) oltre quattro anni e quasi subito le leggi nel frattempo approvate subirono profonde revisioni per l’adeguamento alle norme nazionali (istituzione del SSN, attuazione del Titolo V della Costituzione). La legge 194/1978 poi – oltre alla legittima opposizione legata ai convincimenti etici e religiosi – trovò oggettive difficoltà nella sua applicazione, anche per la strumentalità farisaica con cui l’obiezione di coscienza venne utilizzata.

I Consultori dunque, salutati con fiducia anche da ambienti tutt’altro che progressisti, ebbero assai poco tempo per godersi la popolarità e veder sviluppare i tanti progetti alla base della loro costituzione. Riportiamo di seguito alcuni stralci, ripresi da fonti diverse, a testimonianza di quanto affermato e della complessa, intricata e per certi versi straordinaria vicenda che è stata la nascita e la vita dei Consultori.

«È senza dubbio merito del movimento delle donne e più specificamente dei movimenti femministi, sviluppatisi dall’inizio degli anni ‘70 in Italia, a imporre all’attenzione dell’opinione pubblica, della scienza ufficiale e del mondo sanitario l’importanza del punto di vista di genere e della soggettività femminile, collocate nel contesto delle relazioni sociali. Già il movimento operaio aveva anticipato l’esigenza di partire dalla soggettività delle condizioni sociali ed occupazionali per la identificazione dei bisogni e più in generale l’esigenza della “democratizzazione” della medicina e della sua apertura alla complessità delle relazioni sociali.

Il referendum sul divorzio (1974), la prospettiva di quello sull’aborto, le sentenze della Corte Costituzionale sull’aborto terapeutico (1975) e, prima ancora, sulla pubblicità dei metodi contraccettivi (1971), sono stati eventi e condizioni che hanno sollecitato, sotto la pressione della società civile, le forze politiche a varare la legge costitutiva dei Consultori Familiari e il testo riflette assai bene i conflitti ideologici e gli equilibri raggiunti attraverso formulazioni riduttive ed equivoche (nel senso che ogni parte le poteva interpretare in modo diverso). Le novità della legge nazionale furono più diffusamente sviluppate nelle leggi regionali attuative, sia attraverso una maggiore sottolineatura della dimensione psicosociale dell’azione consultoriale, sia con l’indicazione alla costituzione di forme di partecipazione delle utenti e delle associazioni della società civile, per la promozione, programmazione e controllo dell’attività consultoriale. Nella pur variegata legislazione regionale il consultorio familiare veniva collocato alla frontiera tra istituzioni e società civile…». (Michele Grandolfo, I Consultori familiari. Evoluzione storica e prospettive per la loro riqualificazione, Istituto Superiore di Sanità, 1995).

            «Che una legge in materia di consultazione familiare sia stata finalmente approvata, è indubbiamente un passo notevole, soprattutto se la legge viene vista come integrazione del nuovo diritto di famiglia. Di fronte all’indiscussa centralità sociale del matrimonio e dell’istituto familiare, in un’epoca così disturbata com’è la nostra, si è fatta sempre più evidente la necessità di poter disporre di centri specializzati cui le coppie potessero ricorrere, prima e dopo il matrimonio, per ottenere informazioni, chiarezza, assistenza nei momenti più difficili dell’intesa tra i due partner, in ordine per esempio ai problemi della unità, dell’educazione e della procreazione.

Per quanto concerne i problemi della vita coniugale, riguardanti per lo più aspetti della vita affettiva e dell’attività procreativa, la coppia, se non è assai preparata e fornita di una certa cultura, da sola non riesce ad affrontarli e tanto meno a risolverli, finendo così per esasperare la convivenza e per creare situazioni di disagio e di malinteso spesso insanabili. È prevalentemente per evitare queste spaccature affettive e i profondi contrasti sui programmi procreativi che sono stati istituiti i consultori familiari.

Un altro gruppo di problemi, che può mettere in crisi il nucleo familiare, si riferisce alla procreazione responsabile. Esistono ancora, purtroppo, molte coppie che, o per malintesi morali, o per incapacità di autocontrollo, o per grossolana ignoranza, non sanno programmare la propria attività procreativa, e si caricano di prole e di corrispettivi compiti che non riescono poi ad assolvere se non in minima misura, finendo anche, in certi casi, per affidare i figli a qualche parente o a qualche istituto di beneficenza. Solo un consultorio familiare, proprio perché dotato di una équipe specializzata nei settori che direttamente o indirettamente toccano il problema della procreazione, è in grado di indicare alla coppia interessata, sulla base delle notizie e delle verifiche mediche e psicologiche emerse dagli esami e dalle consultazioni, quale potrebbe essere, per essa, un piano ideale di regolazione delle nascite su giusta misura: tenuto conto delle sue attitudini educative e delle sue condizioni sanitarie e psico-affettive».

Istituzione dei Consultori familiari. La L. 29.7.1975 n. 405, di Giacomo Perico, sta in Consultori Familiari 1, maggio 1976

            «Nel 1975 venivano istituiti i consultori familiari per uno specifico «servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità». La legge n. 405 venne subito salutata come un evento significativo per il riguardo esplicito al soggetto famiglia e per le sue finalità: di prevenzione del disagio sociale, di integrazione sociosanitaria e di partecipazione civile sul territorio. Le successive norme regionali e le conseguenti iniziative sono poi risultate, spesso, inadeguate ad interpretare e attuare la migliore ispirazione della legge votata dal Parlamento. A causa di altre circostanze sociali, culturali e legislative, i servizi dei consultori familiari si sono caratterizzati sempre più come assistenza e cura offerte all’individuo più che alla persona nelle sue relazioni con la famiglia, e in termini medicali e sanitari più che di consulenza familiare. La legge n. 405, avendo tenuto conto anche dell’esperienza e di fondamentali impostazioni dei consultori d’iniziativa cristiana sembrò innovativa rispetto alla cultura dominante. Aveva infatti come referenti dichiarati la coppia e la famiglia, anche in ordine alla problematica minorile, e si ispirava a tre grandi finalità: la prevenzione, l’integrazione sociosanitaria e la partecipazione territoriale. [Nel gruppo di lavoro per l’UCIPEM Alice Calori e Giancarlo Marcone]

(Conferenza Episcopale Italiana, Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia, I Consultori familiari sul territorio e nella comunità, Roma, 1991)

www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjohsX34pPqAhXFyqQKHWG7A0MQFjAAegQIAxAB&url=http%3A%2F%2Fwww.consultoriodiocesanobrescia.it%2Fwp-content%2Fuploads%2F2013%2F11%2FI-consultori-familiari-sul-territorio-e-nella-comunit%25C3%25A0.pdf&usg=AOvVaw1hYpjBahkRLpy95BWfErIN

Il decennio in esame è stato davvero straordinario dal punto di vista della produzione normativa riformatrice, sia in campo sociale che per quanto riguarda il mondo del lavoro. Su quest’ultimo fronte, sono state emanate in quegli anni leggi fondamentali, anche con specifico riferimento ai soggetti femminili:

v  1970 lo Statuto dei lavoratori (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento);

v  1971 la legge sulla Tutela delle lavoratrici madri;

v  1973 quella che dispone Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio;

v  1977 la legge 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

v  Legge 15 dicembre 1972, n. 772, Norme per il riconoscimento della obiezione di coscienza,

v  Scuola italiana, con la realizzazione del tempo pieno (Legge 24 settembre 1971, n. 820), e con i cosiddetti Decreti delegati (cinque per l’esattezza, a partire dal DPR 31 maggio 1974, n. 416, Istituzione e riordinamento di organi collegiali della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica).

v  È di quegli anni perfino la grande – è a tutt’oggi ancora unica, quanto a ridisegno complessivo – riforma tributaria: la Legge n. 825 del 9 ottobre 1971, emanata dal governo per divulgare le disposizioni occorrenti per attuare le riforme “secondo i principi costituzionali del concorso di ognuno in ragione della propria capacità contributiva e della progressività”.

Ma le leggi che maggiormente hanno segnato – per aspetti diversissimi – il percorso verso la nascita dei Consultori e immediatamente dopo sono:

v  La Legge 1 dicembre 1970, n. 898, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio. (GU n. 306 del 3-12-1970) e successive modifiche (436/78 e 74/87).

v  La Legge 6 dicembre 1971, n. 1044, Piano quinquennale per l’istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato.

v  La Legge 19 maggio 1975, n. 151, Riforma del diritto di famiglia. (GU n.135 del 23-5-1975)

v  Legge 23 dicembre 1975, n. 698, Scioglimento e trasferimento delle funzioni dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia. (GU n. 343 del 31-12-1975).

v  La Legge 13 maggio 1978 n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, (“Legge

v  Basaglia”) dispone la chiusura dei manicomi e istituisce i servizi di salute mentale.

v  La Legge 23 dicembre 1978, n. 833, con cui viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale.

v  Legge 22 maggio 1978, n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 22 maggio 1978, n. 140.

(…)

I consultori familiari tra innovazione e criticità. «I consultori familiari sono stati realizzati sul territorio nazionale con tempi e modalità diversi, in seguito all’approvazione delle relative leggi regionali. L’originalità dei servizi consultoriali (multidisciplinarietà, {interdisciplinarietà nell’équipe} non direttività, visione di genere {???), {counseling con la coppia} è sempre stata vista come patrimonio unico da non disperdere, nonostante tutti gli elementi critici, tanto è vero che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, commissioni nazionali promosse dai Ministri della sanità hanno prodotto linee di indirizzo per la riqualificazione e potenziamento dei consultori familiari, l’ultima delle quali nel contesto del Progetto Obiettivo Materno Infantile {con prevenzione oncologica con pap test}, è parte integrante del Piano Sanitario Nazionale 1998-2000».

L’Ucipem aveva proposto di inserire i consultori familiari nella L. 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, artt. 3, 16, 22 considerando la maggiore congruità e la collaborazione che spontaneamente già avveniva sul territorio.

www.parlamento.it/parlam/leggi/00328l.htm

Tra i soggetti istituzionali che più dappresso hanno seguito la realtà dei Consultori, c’è sicuramente il Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità, a cui si devono una buona parte delle analisi di potenzialità e criticità di questi istituti. Riportiamo di seguito un breve estratto di merito.

Positività e innovazione. Nonostante tutti gli elementi critici, la consapevolezza dell’assoluta originalità dei servizi consultoriali (multidisciplinarietà, non direttività, visione di genere) è sempre stata presente: i CF sono stati considerati un patrimonio unico da non disperdere. Questa consapevolezza era fondata sulla conoscenza di esperienze innovative nei contenuti e nelle modalità operative condotte da una moltitudine di professioniste/i che hanno prodotto esperienze spesso esemplari, anche se raramente valorizzate a dovere. Le attività consultoriali, anche quando iscritte nella dimensione di cure primarie, hanno rappresentato un importante presidio di riferimento, soprattutto per le sezioni svantaggiate della popolazione, che non avrebbero avuto altre alternative. Indagini campionarie condotte dall’Iss hanno ripetutamente rilevato non solo un alto gradimento (>80%) da parte di chi aveva avuto modo di usufruire dei servizi consultoriali, ma anche l’efficacia maggiore dei servizi consultoriali nel garantire esiti positivi e nel prevenire esposizioni inappropriate.

Criticità. Incorporati con modalità non omogenee nel sistema sanitario nazionale (legge 833/78), hanno avuto una vita difficile per due essenziali motivi:

• la legge istitutiva nazionale e quelle regionali indicavano i campi di attività dei consultori familiari, privilegiando la prevenzione e la promozione della salute e non potevano proporre obiettivi operativi e priorità che dovevano essere lasciate alla pianificazione nazionale e regionale. Pianificazione che purtroppo è mancata, almeno in una formulazione scientifica, fino al varo del POMI;

• l’orizzonte operativo dei consultori, servizi a bassa soglia di accesso, faceva riferimento a un modello sociale di salute (composizione multidisciplinare dello staff), a un approccio non direttivo ma orizzontale, a una costante attenzione alle differenze di genere.

Questa impostazione andava potenzialmente a confliggere con quella biomedica e direttiva dei servizi tradizionali. Questi, a parte lodevoli eccezioni, hanno sistematicamente tentato di delegittimare ed emarginare i consultori familiari, sia negando l’integrazione strutturale e funzionale, sia operando per impedire assegnazioni di risorse umane ed economiche, strutturali e infrastrutturali, soprattutto al Sud…

Ministero della Sanità, Decreto Ministeriale 24 aprile 2000, Adozione del progetto obiettivo materno-infantile relativo al “Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000”. (GU Serie Generale n.131 del 07-06-2000 – Suppl. Ordinario n. 89).

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2000-06-07&atto.codiceRedazionale=000A6425&elenco30giorni=false

Nascita ed evoluzione di un modello sociale di salute in Italia. Come abbiamo visto anche nel paragrafo precedente, l’istituzione dei Consultori viene salutata da tutti con favore e tutti riconoscono la portata innovatrice di un istituto “multidimensionale”, caratterizzato da una forte integrazione di competenze e servizi, fondato sulla relazione diretta con le/gli utenti e da una visione olistica tanto dell’essere umano, donna e uomo, che della famiglia come insieme complesso e interagente, ancorato al territorio e ai suoi bisogni sociali.

I consultori, inoltre, si basano su un concetto di salute che fa riferimento a quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): “La salute è lo stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale e non la semplice assenza di malattia o disabilità”, anticipando concretamente quanto verrà tematizzato – dopo oltre un decennio – dalla Carta di Ottawa del 21 novembre 1986, ovvero l’importanza della promozione della salute intesa come azione volta a promuovere la consapevolezza delle persone e delle comunità al fine di aumentare la loro capacità di controllo sul proprio stato di salute.

www.aslnapoli1centro.it/documents/420534/447092/CartaOttawa.pdf

Si tratta quindi di un modello sociale di salute invece di un modello biomedico e, corrispondentemente, un modello di welfare fondato sulla partecipazione e sull’empowerment [processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento della stima di sé, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l’individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale] invece del tradizionale modello paternalistico direttivo.

Vediamo ancora alcune altre considerazioni e valutazioni incentrate, particolarmente, sull’evoluzione dei Consultori e sulle difficoltà incontrate nell’esprimere pienamente il loro compito. «Il Consultorio familiare costituisce un importante strumento, all’interno del Distretto per attuare gli interventi previsti a tutela della salute della donna più globalmente intesa e considerata nell’arco dell’intera vita, nonché a tutela della salute dell’età evolutiva e dell’adolescenza, e delle relazioni di coppia e familiari. Le attività consultoriali rivestono infatti un ruolo fondamentale nel territorio in quanto la peculiarità del lavoro di équipe rende le attività stesse uniche nella rete delle risorse sanitarie e socio-assistenziali esistenti. Dalla emanazione della legge n. 405/1975 e delle leggi attuative nazionali e regionali, le condizioni di regime dei Consultori per completezza della loro rete e stabilità del personale non sono ancora state raggiunte e, soprattutto al Sud, persistono zone con bassa copertura dei bisogni consultoriali. L’esigenza di integrazione nel modello dipartimentale, e soprattutto la messa in rete dei Consultori familiari con gli altri servizi sia sanitari che socio-assistenziali degli Enti locali, impone un loro adeguamento nel numero, nelle modalità organizzative e nell’organico, privilegiando l’offerta attiva di interventi di promozione della salute attraverso la realizzazione di strategie operative finalizzate al raggiungimento degli obiettivi di salute da perseguire nel settore materno infantile».

(Ministero della Salute, Decreto ministeriale 24 aprile 2000, Adozione del progetto obiettivo materno-

infantile relativo al “Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000”)

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2000-06-07&atto.codiceRedazionale=000A6425&elenco30giorni=false

«La separazione tra sociale e sanitario e lo smarrimento di un know how importante. I servizi consultoriali nascono come servizi ad alta integrazione socio sanitaria, ma le scelte programmatorie di questi anni sembrerebbero aver orientato l’evoluzione dei consultori nella direzione di una separazione tra funzioni sanitarie e sociosanitarie. L’investimento massiccio nelle diverse misure di sostegno economico – tanto in termini di volume di spesa, quanto di atti programmatori – ha generato una sovraesposizione dei consultori come servizi “sociali” a scapito dell’integrazione socio sanitaria che ne ha caratterizzato l’identità sin dalla nascita.

Nascita ed evoluzione di un modello sociale di salute in Italia. Il lavoro delle assistenti sociali si è molto concentrato sull’accoglimento e presa in carico delle domande di accesso alla varie misure e bonus (il bonus economico per la nascita di un figlio, per l’allattamento, per i genitori separati in condizione di vulnerabilità economica, il Bonus bebè e il Bonus famiglia per famiglie in condizioni di vulnerabilità economica e sociale…) ed anche il lavoro degli psicologi si è molto concentrato sulle funzioni legate alla tutela, il tutto a discapito di quella integrazioni tra sociale e sanitario che ha caratterizzato e qualificato la specificità dei servizi consultoriali nel corso degli anni. Le capacità degli operatori sanitari di promuovere processi di ascolto, prevenzione e cura anche oltre un mandato strettamente sanitario, così come la competenza nel portare uno sguardo sociale nelle problematiche sanitarie degli operatori sociali ed educativi, hanno permesso nel corso degli anni, una presa in carico globale della persona e delle donne in primis. Il lavoro “per misure” ha di fatto settorializzato e i processi di lavoro a scapito di quella integrazione di sguardi e competenze, tra sociale e sanitario, che è stata per anni il valore aggiunto e distintivo dei servizi consultoriali…».

(Cosa sono diventati i consultori lombardi? Analisi della riforma, dal suo progetto alle regole 2017, di Elisabetta Dodi, 8 giugno 2017)

Pensati per essere promotori di progetti di salute pubblica e di servizi per la pianificazione familiare e la maternità, a quasi quarant’anni dalla loro istituzione i consultori sono tra le vittime dei tagli al welfare territoriale. Nel frattempo diverse cose non sono andate come si sperava.

Intervista al ginecologo Silvio Anastasio.

«Abbandonati, impoveriti, superati? Da tempo al centro di richieste di riqualificazione, ma anche di roventi polemiche politiche – com’è successo nel Lazio per la proposta di legge Tarzia, che prevedeva di finanziare associazioni private pro-life –, i consultori familiari sono in prima fila tra le vittime dei tagli al welfare territoriale: erano 2097 nel 2007, e due anni dopo, nel 2009, ne risultavano 1911. Questi i dati contenuti nell’ultima relazione del ministero della salute, dell’anno 2010: da allora, più niente. Cosa succede ai consultori, e cosa si può fare per rilanciarli, a quasi trent’anni dalla legge che li ha istituiti?

Qual è lo stato attuale dei consultori? Cominciamo con un dato di fatto: la legge che ha istituito i consultori prevedeva che vi fossero diverse figure professionali (dal ginecologo all’educatore, dall’assistente sociale allo psicologo), cosa che purtroppo succede in pochi casi. Probabilmente ci sono differenze tra nord e sud, ma per quello che ho potuto osservare direttamente tra Basilicata e Puglia, e per la Calabria e la Campania, di cui ho informazioni indirette ma attendibili, sono rare le strutture in cui operi un’equipe completa, con tutte le figure professionali previste. Inoltre non è stato mai fatto quel lavoro di messa in comune delle conoscenze e delle pratiche, come doveva essere il consultorio nell’idea iniziale.

Qual era la loro concezione originaria? Il consultorio doveva essere un posto aperto e rivolto all’esterno, capace di portare fuori, nel territorio, il sapere. Doveva essere in grado di guardarsi attorno per intercettare e rispondere ai bisogni di salute, di capire i cambiamenti della società per poi decidere quali interventi fare e come. Inoltre gli operatori non dovevano essere semplici specialisti di qualcosa, ma figure in grado di agire in sinergia.

Com’è andata invece? Questi propositi non sono stati mai realizzati, di sicuro mai pienamente. Per esempio la figura del counselor, o consulente, non è mai stata sviluppata. Non è mai stata realizzata una metodologia di intervento all’esterno, tra le persone. E quando una struttura non risponde ai bisogni per cui è stata creata finisce per rispondere solo alle proprie esigenze, cioè finisce per avere un atteggiamento corporativo. Il consultorio è diventato un posto utile per lo più a chi ci lavora, e non all’utenza. Oggi la popolazione è composta da una varietà di etnie, tanto per citare un cambiamento evidente, e cosa hanno fatto i consultori per attrezzarsi di fronte alla novità? Oppure chiediamoci: fanno forse informazione nelle scuole? Non mi risulta. Il consultorio è rimasto per lo più un luogo chiuso, che non ha visibilità, e infatti ci vanno o i gruppi più marginali, o le persone molto informate… bisognerebbe provare a contare quante sono le donne e le famiglie che entrano in contatto con queste strutture. Al loro interno non si lavora in gruppo, non si fa rete, non ci sono sistemi di verifica, non hanno relazione con le strutture ospedaliere, e se c’è è conflittuale»

(Che fine ha fatto il consultorio? di Gina Pavone, inGenere.it, 02/04/2013)

www.ingenere.it/articoli/che-fine-ha-fatto-il-consultorio

«I consultori non sono falliti, sono stati boicottati”. Michele Grandolfo, esperto e memoria storica dei consultori italiani, punta il dito contro interessi economici e sprechi sanitari, attorno alla salute della donna. E per il futuro propone: non dobbiamo aspettare che le persone arrivino nelle strutture pubbliche, ma andarle a cercare.

È possibile stimare quanti sono i consultori chiusi negli ultimi tempi? Innanzi tutto ci sono quelli “mancanti”: la legge prevede un consultorio ogni 20.000 abitanti, ma ce ne sono molti di meno. A Roma ne mancano 94 rispetto alla popolazione esistente. Oltre alle chiusure c’è il problema del blocco del turn over: chi va in pensione, o chi si trasferisce, non viene sostituito, per cui le equipe in alcuni consultori sono molto carenti. Dunque diminuiscono gli operatori, le sedi sono fatiscenti o in alcuni casi hanno problemi infrastrutturali gravi, e le Asl tendono ad accorparli o a chiuderli del tutto.

Quali sono i motivi alla base di questa tendenza? Quello del consultorio è un servizio considerato improduttivo: non ha ticket quindi non dà introiti. Il suo valore sta però nel consentire di risparmiare dopo, sui livelli successivi di cura. Perché il consultorio è un servizio “a bassa soglia”, cioè di prevenzione primaria, quella che permette di mantenere la salute ed evitare situazioni indesiderate, serve a orientare le persone su come prendersi cura di sé, prima ancora di combattere una malattia.

Quali sono secondo lei i problemi principali da segnalare a proposito dei consultori? C’è un grosso problema di fondo che riguarda l’organizzazione sanitaria più in generale, di cui i consultori fanno parte, ed è la confusione tra i servizi e l’ambiguità tra i vari livelli di cura. Faccio un esempio: quasi tutti gli ospedali con un reparto di maternità fanno i corsi di preparazione alla nascita, doppiando il servizio offerto dal consultorio. Ma l’ospedale ha personale che lavora sul terzo livello di assistenza, svolge servizi di cura e tenere impegnato personale specializzato costo più alto. Perché doppiare l’offerta di corsi pre-parto, facendoli fare a personale preparato e pagato per fare altro? Inoltre, proprio per tipo di organizzazione, l’ospedale non ha la possibilità di seguire le persone da vicino, rispetto a un servizio territoriale come quello del consultorio, concepito per avere una presenza capillare. Oppure c’è il caso dell’educazione sessuale nelle scuole, che dovrebbe essere fatta dai consultori ma in alcuni casi viene fatta dalla medicina preventiva, impropriamente, perché dovrebbe occuparsi di altro».

(Riaprire i consultori per tagliare gli sprechi, di Gina Pavone, inGenere.it, 13/06/2013)

www.ingenere.it/articoli/riaprire-i-consultori-tagliare-gli-sprechi

Il dibattito sui consultori. Riportiamo di seguito articoli e approfondimenti sulla situazione dei Consultori, nel tentativo di dare conto del dibattito attuale fuori dalle sedi specialistiche e deputate. Sul versante regionale, le “azioni e reazioni” sulle ipotesi di riforma e dunque – in parte – sul dibattito in corso sono riportate al capitolo seguente.

Famiglia. I 40 anni dei consultori. Ma cosa fanno e cosa possono fare? Tre sfide per i consultori di domani: non lasciare sole le famiglie nelle situazioni di difficoltà, riuscire ad esprimere con parole nuove il senso profondo delle relazioni matrimoniali, riconnettere le generazioni, tenendo insieme sapienza e profezia. Sullo sfondo rimane la questione irrisolta dell’accreditamento pubblico. Solo in Lombardia i consultori familiari di ispirazione cristiana hanno un riconoscimento pubblico. Come potrebbe essere moltiplicate le proposte di bene in chiave familiare se si riuscisse a realizzare accordi simili in tutte le altre regioni?

14 aprile 2018 | Luciano Moia | Avvenire

www.avvenire.it/attualita/pagine/i-40-anni-dei-consultori-ma-cosa-fanno-e-cosa-possono-fare

Chi e perché sta abbandonando i consultori? È totalmente irragionevole che solo una quota irrisoria, generalmente meno del 20%, di donne in gravidanza venga seguita dal consultorio familiare o da un’ostetrica, come è raccomandato, nonostante le indagini nazionali condotte dall’ISS nel corso di decenni testimonino come l’assistenza consultoriale o dell’ostetrica e gli incontri di accompagnamento alla nascita producano maggiore soddisfazione e migliori esiti di salute, come la maggiore persistenza dell’allattamento al seno, senza trascurare la minore esposizione alle pratiche inappropriate…

11 dicembre 2017 |      Michele Grandolfo |Quotidiano Sanità

www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=56823

Omissioni, ritardi, crociate cattoliche. Che fine hanno fatto i consultori laici? A 40 anni dalla legge, l’Espresso è andato a vedere cosa resta dei servizi per le donne. Fra ginecologi che mancano, centri pro-vita sostenuti dai fondi pubblici, ragazze straniere che non sanno a chi rivolgersi e nuovi bisogni. Tra molta libertà. E altrettanti passi indietro…

16 settembre 2015 | di Lorenzo Di Pietro e Francesca Sironi | Espresso

https://espresso.repubblica.it/inchieste/2015/09/16/news/omissioni-ritardi-centri-cattolici-che-fine-hanno-fatto-i-consultori-laici-1.229483

Il futuro dei consultori. Dossier I consultori familiari sono in prima fila tra le vittime dei tagli al welfare territoriale. Cosa succede, e cosa si può fare per rilanciarli, a quasi trent’anni dalla legge che li ha istituiti?

Aprile – giugno 2013 | inGenere.it                     www.ingenere.it/dossier/il-futuro-dei-consultori

Coperta stretta o tappabuchi, dilemmi in consultorio. Continua il nostro viaggio nei consultori italiani. Con alcune domande e denunce: qual è il posto migliore per i corsi pre-parto? Perché gli operatori dei consultori devono occuparsi un po’ di tutto? E perché dare fondi a pioggia per sportelli che doppiano servizi già esistenti? Intervista con la presidente della Consulta dei consultori di Roma Pina Adorno.

2 maggio 2013 | Gina Pavone | inGenere.it

www.ingenere.it/articoli/coperta-stretta-o-tappabuchi-dilemmi-consultorio

Pochi e per poche. Consultori al bivio. Inchiesta. Non è stata mai raggiunta la diffusione stabilita dalla legge, e i criteri di valutazione si basano su standard mai raggiunti. Così, oggi si rischia di raggiungere solo un’utenza ristretta e selezionata, escludendo le donne che ne avrebbero più bisogno, sostiene Lisa Canitano, attivista dei diritti delle donne e operatrice consultoriale.

18 aprile 2013 | Gina Pavone | inGenere.it

www.ingenere.it/articoli/pochi-e-poche-consultori-al-bivio

I consultori familiari: dati a confronto. Una fotografia a partire dai dati regionali e nazionali a disposizione. Non è facile ricostruire la situazione dei consultori familiari, per la dispersione dei dati e soprattutto per il loro parziale aggiornamento. Cominciamo a tratteggiarne un quadro, ricomponendo le diverse fonti oggi a disposizione.

29 marzo 2012 | di Valentina Ghetti | Lombardia Sociale

www.lombardiasociale.it/2012/03/29/i-consultori-familiari-dati-a-confronto

Il consultorio familiare ovvero un ferito ai margini della strada. Dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.

17 novembre 2011 | di Giambattista Scirè | Linkiesta

www.linkiesta.it/blog/2011/11/il-consultorio-familiare-ovvero-un-ferito-ai-margini-della-strada

Salute riproduttiva, fecondità e natalità: i numeri. La relazione annuale sulla legge 194/1978, trasmessa al Parlamento il 18 gennaio 2019 conferma – come ormai da decenni – il continuo andamento in diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG). Non è corretto iniziare a dare conto dei “numeri” dei Consultori proprio dall’applicazione della legge 194, fonte di inesauribili e inesaurite polemiche. Ma forse proprio quei dati possono spuntare qualche attacco troppo facile all’istituto dei Consultori. Partendo dal dato più recente – cioè proprio la relazione del Ministero della Salute al Parlamento – proponiamo di seguito analisi, rilevazioni e studi in grado di offrire uno spaccato meno semplificatorio sull’attività svolta dai Consultori, attraverso gli studi sulla salute riproduttiva della donna ma non solo, abbracciando così l’accusa di partigianeria che a queste realtà viene rivolta. Non sarebbe facile d’altra parte – su questioni che in grande misura riguardano sessualità e procreazione – fare riferimento ai soggetti maschili.

Rispetto alle statistiche più generali, che pure sono riportate di seguito, si rimanda ai capitoli specifici riguardanti – al loro interno – la salute o la salute e i comportamenti riproduttivi delle donne.

Ministero della Salute. Legge 194: relazione annuale al parlamento con i dati 2017

www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=3604

(…)

www.salute.gov.it/portale/donna/dettaglioPubblicazioniDonna.jsp?lingua=italiano&id=2807

     Dati definitivi 2017. Dal 1983 l’IVG è in continua e progressiva diminuzione in Italia; attualmente il tasso di abortività del nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei Paesi occidentali. Ecco i dati.

• In totale nel 2017 sono state notificate 80.733 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione del fenomeno, in misura leggermente maggiore rispetto a quello osservato nel 2016 (-4.9% rispetto al dato del 2016 e -65,6% rispetto al 1982, anno in cui si è osservato il più alto numero di IVG in Italia pari a 234.801 casi).

• Diminuzioni percentuali particolarmente elevate si osservano in Liguria, Umbria, Abruzzo e nella Provincia autonoma di Bolzano, mentre la Provincia autonoma di Trento è l’unica con un lieve aumento di interventi.

• Tutti gli indicatori confermano il trend in diminuzione: il tasso di abortività (numero di IVG rispetto a 1000 donne di 15-49 anni residenti in Italia), che rappresenta l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza del ricorso all’IVG, è risultato pari a 6,2 ‰. Nel 2017, con un decremento del 3,3% rispetto al 2016 e con una riduzione del 63,6% rispetto al 1982. Il dato italiano rimane tra i valori più bassi a livello internazionale.

• Il rapporto di abortività (numero di IVG rispetto a 1000 nati vivi) nel 2017 è risultato pari a 177,1‰ nati vivi, con una riduzione del 2,9% rispetto al 2016 e del 53,4% rispetto al 1982. È da considerare che in questi ultimi anni anche i nati della popolazione presente sul territorio nazionale sono diminuiti di 9.643 unità.

[…] Consultori familiari. I decrementi osservati nei tassi di abortività sembrano indicare che tutti gli sforzi fatti in questi anni, specie dai consultori familiari, per aiutare a prevenire le gravidanze indesiderate ed il ricorso all’IVG stiano dando i loro frutti, anche nella popolazione immigrata; sarà quindi indispensabile rafforzare e potenziare questi servizi di prossimità.

Procreazione medicalmente assistita, relazione al Parlamento 2018. Nota del 28 giugno 2018

È stata trasmessa al Parlamento con lettera 28 giugno 2018 la Relazione annuale sullo stato di attuazione della Legge 40/2004 in materia di Procreazione medicalmente assistita (PMA), relativamente all’attività di centri PMA nell’anno 2016 e all’utilizzo dei finanziamenti (artt. 2 e 18) nell’anno 2017. Il quadro relativo all’applicazione della legge n. 40/2004 per l’anno 2016 offre poche variazioni rispetto alla situazione dell’anno precedente per quanto riguarda la fecondazione omologa. Si registra, invece, un incremento dei trattamenti di fecondazione eterologa. [Non si cita l’eventuale possibile intervento dei consultori familiari]

www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2762_allegato.pdf

Non ha invece avuto nuove edizioni il Dossier “Organizzazione e attività dei Consultori familiari pubblici in Italia. Anno 2008, realizzato nel novembre 2010 dal Dipartimento della prevenzione e della comunicazione – Direzione Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, e a tutt’oggi unico monitoraggio sull’attività complessiva dei Consultori.

Ma non è solo questo a stupire: c’è anche il fatto – restituito con evidenza dalla rilevazione – di una drastica e progressiva riduzione nel numero dei Consultori, ovvero una mai sanata scarsità di risorse dedicate.

ISTAT. Bilancio demografico nazionale: Anno 2018. Comunicato stampa del 3 luglio 2019

Dal 2015 la popolazione residente è in diminuzione, configurando per la prima volta negli ultimi 90 anni una fase di declino demografico. Al 31 dicembre 2018 la popolazione ammonta a 60.359.546 residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%) e oltre 400 mila in meno rispetto a quattro anni prima. Il calo è interamente attribuibile alla popolazione italiana, che scende al 31 dicembre 2018 a 55 milioni

104 mila unità, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%). Rispetto alla stessa data del 2014 la perdita di cittadini italiani (residenti in Italia) è pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila). Si consideri, inoltre, che negli ultimi quattro anni i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza sono stati oltre 638 mila. Senza questo apporto, il calo degli italiani sarebbe stato intorno a 1 milione e 300 mila unità…                                                                                         www.istat.it/it/archivio/231884

Evoluzione di un modello sociale di salute in Italia. 2° giugno 2019. Periodo: Anno 2018

www.istat.it/it/archivio/230897

 […] Dalle analisi proposte emerge la necessità di individuare per ciascuno dei nodi critici di oggi (denatalità, invecchiamento e migrazioni) le leve su cui agire per creare nuove opportunità per il futuro. In particolare, il contrasto del declino demografico passa per la rimozione degli ostacoli che si frappongono alla realizzazione dei progetti di vita dei giovani. Uscendo dalla famiglia di origine sempre più tardi, i giovani di oggi sperimentano percorsi esistenziali più frammentati rispetto alle precedenti generazioni, nei quali le tappe della transizione alla fase adulta della vita, a cominciare dal raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza economica, si spostano in avanti. L’analisi congiunta dei tempi e delle motivazioni di uscita dalla famiglia di origine suggerisce come la posticipazione della transizione allo stato adulto stia assumendo sempre più un carattere strutturale. Il prolungamento dei percorsi di istruzione e formazione, le difficoltà nell’inserimento e nella permanenza nel mercato del lavoro hanno determinato il cronicizzarsi di questo fenomeno.

Le differenze generazionali mostrano un incremento dell’età mediana all’uscita: da circa 25 anni per i nati nel Secondo dopoguerra a circa 28 anni per la generazione degli anni Settanta. Al 1° gennaio 2018, i giovani dai 20 ai 34 anni sono 9 milioni e 630 mila, il 16% del totale della popolazione residente; rispetto a 10 anni prima sono diminuiti di circa 1 milione 230 mila unità (erano il 19% della popolazione al 1° gennaio 2008). Più della metà dei 20-34enni (5,5 milioni) è tuttora celibe o nubile e vive con almeno un genitore. La fecondità bassa e tardiva è un altro fenomeno particolarmente rappresentativo del malessere demografico del Paese. La diminuzione della popolazione femminile tra 15 e 49 anni osservata tra il 2008 e il 2017 – circa 900 mila donne in meno – spiega quasi i tre quarti della differenza di nascite che si è verificata tra il 2008 e il 2017, mentre la restante quota dipende dalla diminuzione dell’intensità del modello riproduttivo (da 1,45 figli per donna nel 2008 a 1,32 nel 2017). D’altro canto, l’età media al parto è sempre più posticipata e sfiora i 32 anni nel 2018 dai 31 del 2008. La diminuzione delle nascite è attribuibile prevalentemente al calo dei nati da coppie di genitori entrambi italiani, che scendono a 359 mila nel 2017. Si accentua ulteriormente la posticipazione delle prime nozze e della nascita dei figli verso età sempre più avanzate. Tra le donne senza figli (circa il 45% di quelle tra 18 e 49 anni), meno del 5% dichiara di non includere la genitorialità nel proprio progetto di vita. Per le donne e le coppie, la scelta consapevole di non avere figli è quindi poco frequente, mentre è in crescita la quota delle persone che sono costrette a rinviare e poi a rinunciare alla realizzazione dei progetti riproduttivi a causa delle difficoltà della propria condizione economica e sociale.

Anche a seguito della specificità dei processi di formazione e di sviluppo della vita in coppia è in atto da decenni un processo di semplificazione delle strutture familiari, che vede da un lato la crescita del numero di famiglie, dall’altro la contrazione del numero medio dei loro componenti. Nell’arco di vent’anni, le famiglie sono passate da 21 milioni (media 1996-1997) a 25 milioni 500 mila (media 2016-2017) e il numero medio di componenti è sceso da 2,7 a 2,4.

Nel 2018, il 31,5% delle donne di 25-49 anni senza lavoro non cerca o non è disponibile a lavorare per motivi legati a maternità o cura, contro l’1,6% degli uomini. Queste percentuali salgono al 65% per le madri e al 6,5% per i padri di bambini fino a 5 anni di età. Sempre la cura risulta essere il motivo per cui oltre il 28% delle madri con figli piccoli, attualmente non occupate, ha interrotto il lavoro da meno di sette anni. Al crescere dei carichi familiari, dunque, diminuiscono le donne occupate e aumentano quelle che non partecipano al mercato del lavoro; per i coetanei uomini, invece, il divenire genitore non si ripercuote in maniera altrettanto evidente sulla condizione nel mercato del lavoro. L’indicatore Bes sulla conciliazione lavoro-famiglia, calcolato come rapporto tra il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli fino a 5 anni e quello delle coetanee senza figli, è in aumento negli ultimi anni e pari a 75,5% nel 2018 e rappresenta bene le difficoltà che le donne possono sperimentare nell’acquisire o mantenere un lavoro in presenza di doveri di cura rilevanti.

www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2019/Sintesi2019.pdf

La salute riproduttiva della donna. Comunicato stampa del 5 marzo 2018. Anni 2007-2017

www4.istat.it/it/archivio/209905

Con questo volume l’Istat offre una lettura completa e integrata dei vari aspetti della salute riproduttiva: contraccezione, gravidanza, parto, allattamento, abortività, mortalità infantile e materna. Il tutto inserito in un contesto demografico che pone l’Italia tra i Paesi più vecchi al mondo e caratterizzato dall’incremento della presenza femminile straniera negli ultimi venti anni. La già bassa fecondità italiana continua il suo percorso cui contribuisce in maniera sempre più marcata una posticipazione delle scelte riproduttive. L’opportunità di poter regolare la propria fecondità, anche attraverso l’uso di contraccezione, viene illustrata grazie all’ultima indagine Istat sulle “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari”.

www.istat.it/it/files/2018/03/La-salute-riproduttiva-della-donna.pdf

Informazioni sulla rilevazione Interruzioni volontarie della gravidanza. Anno 2018

Comunicato stampa del 23 febbraio 2019         www.istat.it/it/archivio/9025

Che cosa è. La rilevazione sulla interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è stata avviata nel 1979 a seguito dell’entrata in vigore della legge numero 194/78. L’indagine viene condotta dall’Istat in accordo con le Regioni, il Ministero della Salute e l’Istituto superiore di Sanità. Secondo quanto previsto dall’art. 16, il Ministro della Salute è tenuto a presentare al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge stessa e sui suoi effetti, anche in riferimento al problema della prevenzione. Inoltre, secondo l’art. 15, è previsto un aggiornamento del personale sanitario sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza.

L’indagine costituisce uno strumento fondamentale per la conoscenza e la prevenzione dell’Ivg; vengono pertanto richieste informazioni socio-demografiche sulla donna nonché informazioni tecniche sull’intervento. L’Istat è titolare della rilevazione e ne cura gli aspetti metodologici e i contenuti, predispone i modelli di rilevazione ed effettua il controllo e il trattamento dei dati; il tutto in collaborazione con il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità.

Chi risponde. Enti ospedalieri e case di cura autorizzate (secondo quanto previsto dall’art. 9). Come vengono raccolti i dati. L’indagine è totale, quindi finalizzata a rilevare tutti i casi di Ivg effettuati presso gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate (secondo quanto previsto dall’art. 9) che rappresentano quindi le unità di rilevazione. Il modello di rilevazione Istat D.12 deve essere compilato e sottoscritto dal medico che procede all’intervento.                                                     www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=PDF

{Il modello non contempla i dati relativi alla richiesta di ivg (art. 4 L. 194\1978, utili per la prevenzione

 Inoltre il documento previsto dall’art. 5 viene denominato certificato, anche per i casi non urgenti. Ndr}

Se presso l’istituto di cura non sono stati effettuati interventi di Ivg nel corso dell’intero anno si richiede la compilazione del modello Istat D.12bis.

Le Regioni e le Province Autonome, in qualità di organi intermedi, raccolgono i dati nelle forme e secondo le modalità da loro definite e li trasmettono all’Istat. Gli istituti di cura, per la trasmissione dei dati o eventualmente dei modelli di rilevazione, devono rispettare quanto disposto dalla propria Regione o Provincia Autonoma. Quest’ultima inoltre fornisce all’Istat l’elenco aggiornato delle unità di rilevazione ed effettua il monitoraggio della raccolta dei dati. Qual è il periodo di rilevazione. Dal 1 gennaio al 31 dicembre 2018. Il modello D.12 deve essere compilato per ciascun evento che si verifica nel corso del 2018. I dati devono essere inviati all’Istat entro il 30 aprile dell’anno successivo.

Interruzioni volontarie della gravidanza. Anno 2012. Comunicato stampa del 12 dicembre 2014

www.istat.it/it/archivio/141802

Nel 2012 l’Istat ha rilevato 103.191 interruzioni volontarie della gravidanza, 6.850 in meno rispetto al 2011. L’Italia è uno dei Paesi dell’Unione europea con il più basso livello di abortività volontaria. Nel 2012, il tasso risulta pari a 7,6 aborti per 1.000 donne di età 15-49 anni (7,8 per mille nel 2011). Le differenze regionali vanno assottigliandosi nel corso del tempo: nel 2012 il valore più elevato del tasso di abortività volontaria spetta alla Liguria (10,2), quello minimo alla Provincia Autonoma di Bolzano (4,3). Nel 1982 la Puglia aveva un tasso pari a 26,0 e la Provincia Autonoma di Bolzano a 8,7.

La classe di età con il tasso di abortività più elevato è quella delle 25-29enni (12,8‰). Per tutte le classi di età si è registrato un declino dei tassi di abortività, meno accentuato nelle classi più giovani. L’incidenza dell’aborto volontario risulta più elevata tra le donne nubili (8,1‰) che tra quelle coniugate (6,5‰). Le donne straniere presentano livelli di abortività molto più elevati delle donne italiane e sono mediamente di due anni più giovani: le prime hanno un’età mediana di ricorso all’aborto volontario pari a circa 29 anni, le seconde di 31 anni. Tra i gruppi più numerosi di stranieri residenti in Italia, il tasso di abortività risulta più elevato per le donne cinesi (30,0 casi di Ivg per 1.000 donne cinesi di età 15-49 anni), seguite da rumene (22,7), albanesi (16,6) e marocchine (16,2).

La percentuale di Ivg ripetute è pari al 26,6% di quelle totali. In particolare le interruzioni volontarie di secondo ordine (cioè precedute da una sola Ivg) sono il 18,7%, quelle di terzo ordine il 5,3%, mentre le restanti (di ordine superiore) sono il 2,6%.

Natalità e fecondità popolazione residente, Anno 2017. Comunicato stampa 28 novembre 2018

www.istat.it/it/archivio/224393

            Nel 2017 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 458.151 bambini, oltre 15 mila in meno rispetto al 2016. Nell’arco di 3 anni (dal 2014 al 2017) le nascite sono diminuite di circa 45 mila unità mentre sono quasi 120 mila in meno rispetto al 2008. La fase di calo della natalità innescata dalla crisi avviatasi nel 2008 sembra quindi aver assunto caratteristiche strutturali. La diminuzione della popolazione femminile tra 15 e 49 anni (circa 900 mila donne in meno) osservata tra il 2008 e il 2017 spiega quasi i tre quarti della differenza di nascite che si è verificata nello stesso periodo. La restante quota dipende invece dai livelli di fecondità, sempre più bassi. Il calo dei nati è particolarmente accentuato per le coppie di genitori entrambi italiani, che scendono a 358.940 nel 2017 (14 mila in meno rispetto al 2016 e oltre 121 mila in meno rispetto al 2008). Rispetto al 2008 diminuiscono sensibilmente i nati da coppie coniugate: nel 2017 sono 316.543 (-147 mila in soli 9 anni). Questo netto calo è in parte dovuto all’andamento dei matrimoni, che hanno toccato il minimo nel 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (-57 mila rispetto al 2008) per poi risalire lievemente fino a superare nel 2016 le 200 mila celebrazioni. Nel 2017 si osserva una nuova diminuzione (191.287 matrimoni).

In particolare, la propensione al primo matrimonio, da anni in diminuzione, dopo aver mostrato una lieve ripresa a partire dal 2015 ha subito una battuta d’arresto nel 2017 (419,0 primi matrimoni per mille uomini e 465,1 primi matrimoni per mille donne). In un contesto di nascite decrescenti, quelle che avvengono fuori del matrimonio aumentano di quasi 29 mila unità rispetto al 2008, raggiungendo quota 141.608. Il loro peso relativo continua a crescere, è a 30,9% nel 2017.

Il calo della natalità si riflette soprattutto sui primi figli (214.267 nel 2017), diminuiti del 25% rispetto al 2008. Nello stesso arco temporale i figli di ordine successivo al primo si sono ridotti del 17%. Dal 2012 al 2017 diminuiscono anche i nati con almeno un genitore straniero (-8 mila) che, con mille unità in meno solo nell’ultimo anno, scendono sotto i 100 mila (99.211, il 21,7% sul totale dei nati) per la prima volta dal 2008. Tra questi sono in calo soprattutto i nati da genitori entrambi stranieri: per la prima volta sotto i 70 mila nel 2016, calano ulteriormente nel 2017 (67.933). Al primo posto per numero di nati stranieri iscritti in anagrafe si confermano i bambini rumeni (14.693 nati nel 2017), seguiti da marocchini (9.261), albanesi (7.273) e cinesi (3.869). Queste quattro comunità rappresentano il 51,8% del totale dei nati stranieri.

Madri sole con figli minori. Anni 2015-2016. Comunicato stampa del 19 aprile 2018

www.istat.it/it/archivio/212522

In Italia, nel biennio 2015-2016, si stima che in media i nuclei familiari mono-genitore in cui è presente almeno un figlio minore siano pari a 1 milione 34 mila, il 15,8% del totale dei nuclei con figli minori. Si tratta di un fenomeno in persistente crescita se si considera che nel 1983 erano 468 mila (il 5,5% del totale). Nel 2015-2016 si stima che le madri sole siano 893 mila e rappresentino l’86,4% dei nuclei mono-genitore (402 mila nel 1983). Molto più contenuto il numero dei padri soli: 141 mila nel 2015-2016 e 66 mila nel 1983. Il 52,9% delle madri sole con figli minori ha un figlio, il 38,2% ne ha due e l’8,9% tre o più. Per un terzo delle madri sole il figlio più piccolo ha fino a 5 anni di età, per il 42,7% da 6 a 13 anni. In totale nel 2015-2016 sono 1 milione e 215 mila i bambini fino a 17 anni che vivono solo con la madre, pari al 12,1% dei minori. Si tratta di una quota che è molto cresciuta rispetto al 1995-1996 quando si attestava al 5,3% (per un totale di 558 mila bambini).

Tra il 1995-1996 e il 2016 cala la quota di madri con meno di 35 anni (dal 31,5% al 20,3%), anche per la progressiva crescita dell’età al parto, e aumenta quella di madri fra i 45 e i 54 anni (dal 20,9% al 31,8%). Il peso maggiore è ancora delle madri di 35-44 anni (45,3%). Il 57,6% delle madri sole è composto da separate o divorziate, il 34,6% da nubili, minoritaria la quota di vedove (7,9%). Dal 1995-1996 sono notevolmente aumentate le madri nubili (dal 18,9% al 34,6%) e diminuite molto le madri vedove (dal 22% al 7,9%). Nel 2016, lavora il 63,8% delle madri sole, il 24,4% è inattiva, l’11,8% è disoccupata. Rispetto al 2006 la quota di occupate ha subito una forte riduzione per effetto della crisi (era il 71,2%). La condizione economica delle madri sole è critica: quelle in povertà assoluta sono l’11,8% del totale, a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 42,1% e nel Mezzogiorno arrivano al 58%. Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa imprevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su 5 è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. E altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione.

     L’evoluzione demografica in Italia dall’Unità a oggi. Anni 1861-2018. Pubblicazione 11 gennaio 2019

https://istat.atavist.com/pubblicazioni-digitali-evoluzione-demografica-in-italia

Volume in formato digitale. Annuario statistico italiano 2018. Pubblicazione: 28 dicembre 2018

www.sossanita.org/archives/5202

Le proposte di modifica. Sono presentate qui alcune proposte di modifica della normativa sui Consultori, con particolare riferimento alla legge istitutiva a livello nazionale, limitandoci alla legislatura in corso e alla precedente. Per quanto riguarda i disegni di legge che direttamente si propongono di riformare o addirittura abolire la legge 405/1975, riportiamo alcuni stralci della relazione introduttiva alla proposta, dai quali si possono rilevare gli obiettivi che si intendono perseguire. Inutile sottolineare come l’attribuzione ai consultori dell’assistenza alle donne in caso di interruzione volontaria della gravidanza continua a rappresentare un punto di forte criticità, arrivando a minacciare l’esistenza stessa di questi servizi. Per quanto riguarda il livello regionale, il quadro riportato è parziale e incompleto, per la difficoltà nel reperire informazioni e nell’averle in modo uniforme. (…)

Atto Senato n. 271. Disciplina dei consultori familiari d’iniziativa dei senatori Valente, Cirinnà, Cucca, Garavini, Laus E Margiotta

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1067667/index.html?part=ddlpres_ddlpres1

 

Atto Senato n. 136. Disciplina dei consultori familiari a tutela e sostegno della famiglia, della maternità, dell’infanzia e dei giovani in età evolutiva e istituzione dell’Autorità nazionale per le politiche familiari. D’iniziativa diDe Poli

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1067329/index.html?part=ddlpres_ddlpres1-articolato_articolato1

 

Atto Senato n. 183. Disciplina dei consultori familiari a tutela e sostegno della famiglia, della maternità, dell’infanzia e dei giovani in età evolutiva e istituzione dell’Autorità nazionale per le politiche familiari. D’iniziativa di Rizzotti, Caliendo, Barboni, Pichetto Fratin, Perosino, Berutti, Biasotti, Masini, Gasparri, Mallegni E Floris

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1067391/index.html?part=ddlpres_ddlpres1

 

Atto Senato n. 547. Disposizioni per la tutela della famiglia e della vita nascente e delega al Governo per la disciplina del quoziente familiare. D’iniziativa di Romeo, Arrigoni, Augussori, Bagnai, Barbaro, Bergesio, Bonfrisco, Borghesi, Simone Bossi, Umberto Bossi, Briziarelli, Bruzzone, Calderoli, Campari, Candura, Cantù, Casolati, De Vecchis, Faggi, Ferrero, Fregolent, Fusco, Iwobi, Marin, Marti, Montani, Nisini, Ostellari, Pazzaglini, Emanuele Pellegrini, Pepe, Pergreffi, Pianasso, Pillon, Pirovano, Pietro Pisani, Pittoni, Pizzol, Pucciarelli, Ripamonti, Rivolta, Rufa, Saponara, Saviane, Sbrana, Solinas, Tesei, Tosato, Vallardi, Vescovi E Zuliani.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1076226/index.html?part=ddlpres_ddlpres1

.

Atto Senato n. 764. Modifica agli articoli 5 e 9 della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante norme per la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza, in materia di consultori e di obiezione di coscienza del personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie

Paola Boldrini                         [testo non disponibile]

(Di tutti non ancora iniziato l’esame)

 

Atto Camera n. 388.   Legge quadro sulla famiglia e per la tutela della vita nascente. D’iniziativa diAltamartini, Fedriga, Castiello, Giorgetti, Grimoldi, Guidesi, Invernizzi, Molteni, De Angelis, Belotti, Bianchi, Andrea Crippa, Gobbato, Maturi, Ribolla

http://documenti.camera.it/leg18/pdl/html/leg.18.pdl.camera.388.18PDL0010490.html

 

Atto Camera n. 22. Modifiche all’articolo 609-bis del codice penale, concernenti il delitto di violenza sessuale in danno di persone disabili o in condizioni di inferiorità fisica, psichica o sensoriale, e alla legge 29 luglio 1975, n. 405, in materia di prestazioni dei consultori familiari nei riguardi delle donne disabili. D’iniziativa di Brambilla

www.camera.it/leg18/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=18&codice=leg.18.pdl.camera.22.18PDL0001340&back_to=https://www.camera.it/leg18/126?tab=2-e-leg=18-e-idDocumento=22-e-sede=-e-tipo=

(Di tutti non ancora iniziato l’esame)

(…)

Simonetta De Fazi                  23 luglio 2020

www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjJrZD8m5bqAhVMQEEAHUXECGQQFjAAegQIBRAB&url=https%3A%2F%2Fwww.acli.it%2Fwp-content%2Fuploads%2FPDF%2FDOSSIER%2FDOSSIER_cosultorio_familiare.pdf.pagespeed.ce.JNh34Nixfs.pdf&usg=AOvVaw39NV7vh9S9UzPTHjHe49nS

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Portogruaro. Riapertura della sede e ripresa servizio consulenza in presenza

Dopo uno stop forzato di tre mesi il Consultorio familiare Fondaco da mercoledì 10 giugno 2020 riprende l’attività di consulenza in presenza. Nel corso di questi mesi il Consultorio ha comunque mantenuto costante la propria attività mediante consulenze a distanza per gli utenti che volevano avvalersene.

Per svolgere il servizio di consulenza in presenza e in sicurezza sia per l’utenza sia per i collaboratori il Consultorio adotterà linee guida e protocolli operativi per la prevenzione della diffusione del Covid 19

www.consultoriofamiliarefondaco.it

Viadana. Elaborare il lutto: un percorso dal Centro di consulenza familiare

Tre incontri di gruppo per affrontare e mettere in comune l’esperienza della perdita di un familiare durante la pandemia. A seguito della pandemia da coronavirus, tante persone hanno sofferto la perdita di parenti e amici. Sovente il momento estremo è avvenuto nella più grande solitudine, nell’impossibilità di un qualsiasi tipo di commiato: una situazione che provoca in chi resta non solo grande dolore, ma a volte anche sentimenti di sconforto, colpa, frustrazione e rabbia. «È allora importante – notano gli esperti del Centro di consulenza familiare Ucipem di Viadana – trovare il modo per elaborare un lutto così straziante e cercare di trovare un senso che permetta di guardare al futuro con speranza».

Il Ccf intende organizzare incontri di gruppo proprio per permettere a familiari e amici di condividere il ricordo dei propri cari e dell’esperienza vissuta con altre persone che hanno vissuto situazioni analoghe: mettere in comune pensieri, emozioni e lacrime potrebbe infatti aiutare a trovare significati e prospettive prima inimmaginabili. Il Centro Ucipem propone un percorso in tre incontri della durata di un’ora e mezzo circa. Ogni ritrovo prevede la partecipazione di un massimo di dieci persone, coordinate da uno psicoterapeuta.

L’iscrizione è gratuita.

Il Centro di consulenza familiare è una onlus fondata anni fa su impulso delle parrocchie del territorio viadanese, con l’obiettivo di sostenere i singoli e le famiglie che stanno attraversando un momento di difficoltà. Lo staff si compone di volontari che dispongono di competenze professionali negli ambiti di riferimento: consulente famigliare, psicologo, psichiatra, assistente sociale, pedagogista, legale, educatore, ostetrica, assistente spirituale.

Riccardo Negri           TeleRadio Cremona Cittanova

www.diocesidicremona.it/blog/elaborare-il-lutto-un-percorso-dal-centro-di-consulenza-famigliare-ucipem-di-viadana-10-06-2020.html

 

La storia dei consultori familiari e i presidenti nazionali UCIPEM e CFC a confronto

Ripercorrere le tappe della costituzione dei Consultori familiari risponde al dovere di una memoria che affonda le sue radici nel passato ma che alimenta il presente di una realtà che dà ancora frutti abbondanti. Gli interventi succedutisi hanno ripercorso non solo la storia dei consultori ma hanno anche rimarcato molti delle loro caratteristiche fondanti.

            I padri fondatori. La nascita dei Consultori è legata alla figura di don Paolo Liggeri, che nell’agosto del 1943, in una Milano devastata dalla guerra, fondò l’istituto “La Casa” con pochi ma generosi collaboratori, per soccorrere coloro che avevano perso tutto. Già qualche anno più tardi era diventato un luogo di attività e di sostegno alla famiglia. La decisione di dar vita ad un Consultorio prematrimoniale e matrimoniale arrivò il 15 febbraio del 1948. Alice Calori, prima collaboratrice di don Liggeri, ricorda che l’esperienza di quel primo Consultorio si diffuse rapidamente e altri ne sorsero in varie città d’Italia, nel 1953 a Verona, nel 1962 a Napoli per opera del gesuita Padre Domenico Correra, nel 1966 a Roma, grazie a padre Luciano Cupia. È sempre Alice Calori che ricorda la specificità del progetto consultoriale, che intendeva offrire il suo servizio ad ogni persona con difficoltà di relazione, ad ogni coppia e ad ogni famiglia, nel pieno rispetto delle loro convinzioni etiche e del proprio diritto all’autodeterminazione.

Insieme ai Consultori familiari inizia a delinearsi la figura del Consulente familiare quale operatore privilegiato all’interno del Consultorio. Pioniere della Consulenza familiare è stato Charles Vella che nel 1957 fondò a Malta il primo Consultorio di ispirazione cristiana. Nel 1973 pubblicava “Il Consulente matrimoniale” e nel 1978 “Il Consultorio e il Consulente familiare”: questi due testi danno organicità alle idee di Vella per la costituzione dei Consultori ma soprattutto per la formazione dei Consulenti familiari. Leggiamo nella prefazione del 1978: «Questo testo vuole quindi proporre la figura del vero marriage counsellor opportunamente formato […] in modo da facilitare il lavoro del Consultori sia pubblici che privati per raggiungere e mantenere un livello scientificamente e quindi professionalmente valido, quale si registra in molti paesi stranieri».

L’UCIPEM (Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali) nasce nel 1968 (24 marzo); i Consultori presenti in Italia decisero di associarsi per dare una risposta più strutturata e sempre più qualificata ai bisogni delle famiglie, dedicandosi con mezzi idonei ad affrontare le criticità della coppia in formazione o già formata. Sergio Cammelli, secondo presidente UCIPEM, durante il IV congresso Nazionale a Recoaro nel 1975 riconfermava il ruolo fondamentale del Consulente matrimoniale e incoraggiava a lavorare per il pieno riconoscimento del suo ruolo all’interno dell’équipe dei Consultori. In questo contesto si inserisce il piano formativo di Vella, offerto a tutti gli operatori dei Consultori che parteciperanno con entusiasmo ai primi training residenziali per Consulenti matrimoniali e familiari che si tennero nel 1972 a Pisa, Taranto e Catania e che dal 1975 si strutturarono come Corsi biennali per Consulenti familiari in diverse città d’Italia.

Nel 1976, per volontà di padre Luciano Cupia nasce a Roma la SICoF, Scuola Italiana di formazione Consulenti Familiari, presso il Consultorio dell’Associazione “Centro La Famiglia”, già socio dell’UCIPEM. L’istituzione di una scuola di formazione per consulenti familiari era dettata dalla convinzione e dalla necessità di formare operatori muniti di un’adeguata preparazione, capaci di stabilire relazioni d’aiuto professionali ed efficaci all’interno dei Consultori familiari.

Nel 1975, con la legge n. 405, lo Stato italiano istituisce i Consultori familiari pubblici. Gli scopi che lo Stato si propone di raggiungere sono chiaramente espressi nell’art.1, analizzando il quale si comprende che la legge ha una connotazione essenzialmente medica anche laddove si parla di assistenza psicologica alla maternità e paternità responsabile. Ma il vero limite di questa legge sta nel non aver precisato chi siano i consulenti coniugali e familiari.

            Nel 1977 nasce l’AICCeF (Associazione Italiana Consulenti della Coppia e della Famiglia): figura fondamentale è quella del suo primo presidente, Giovanna Bartholini. Nel lavoro di Consulente familiare portò la sua disponibilità a mettersi a servizio dell’altro facendo prevalere sempre l’empatia e il non giudizio, come insegnatole dai suoi maestri Carl Rogers (USA) e Jean-Marie Lemaire (Francia), e mise tutta la sua esperienza, maturata anche all’estero, nella fondazione dell’Associazione per la promozione e la tutela della professione del Consulente della coppia e della famiglia. La struttura del Consultorio familiare è sostenuta da cinque pilastri che ne denotano sia le professionalità che operano al suo interno sia l’attenzione al tipo di relazione che si costruisce tra professionista e persona:

      l’équipe;

      la figura del consulente familiare;

      l’accoglienza incondizionata;

      la relazione di aiuto come percorso e cammino condiviso professionista-persona;

      il concetto di “familiare”

      Padre Luciano Cupia sottolineava l’importanza dell’équipe, il cui lavoro non è solo l’esame dei casi ma è «un lavoro interessante, interdisciplinare, è una comunicazione profonda fra i diversi membri dell’équipe». In questo contesto, il consulente familiare ha un ruolo chiave, in quanto secondo Cupia: «è come una guida alpina […] un compagno di viaggio che accompagna il cliente camminandogli al fianco senza accelerare o andare troppo piano. Egli è capace di trasparenza, tenerezza e tolleranza ed è il curatore della relazione».

Una delle condizioni imprescindibili del professionista è l’accoglienza incondizionata, una modalità di costruzione e cura della relazione definita da Carl Rogers. Attraverso di essa il professionista accetta il cliente, qualunque sia il suo vissuto e la sua esperienza, trattenendosi dall’esprimere giudizi morali ed evitando di farsi influenzare da preconcetti e pregiudizi.

La relazione di aiuto si costruisce come percorso e cammino condiviso professionista-persona. Essa segue la cosiddetta “regola delle 5 A”, ovvero Accoglienza, Ascolto, Accompagnamento, Azione e Arricchimento. Queste sono le fasi che il professionista e la persona si trovano ad attraversare durante il percorso consulenziale. L’Accoglienza permette di creare un contesto di relazioni umane autentiche, dove sia il consulente sia l’utente si sentono riconosciuti e valorizzati nella loro unicità, al fine di instaurare un rapporto basato sulla fiducia e proiettato a fare chiarezza sulla motivazione e la reale richiesta d’aiuto. L’Ascolto è una disposizione attiva a comprendere il punto di vista della persona, sospendendo qualsiasi giudizio. Essa si sente così sostenuta nel riconoscere il disagio e nel valorizzare le sue risorse per superarlo. Durante la fase dell’Accompagnamento il professionista, come in una composizione musicale, subordinato alla parte principale che spetta alla persona in consulenza, la affianca nei suoi vissuti conferendole risalto e supporto per il raggiungimento dell’obiettivo del contratto. La persona accolta, ascoltata e accompagnata è ora in grado di progettare e realizzare un cambiamento tramite un’azione concreta. L’Azione è quindi una “vita nuova” vissuta attuando modalità, comportamenti e pensieri diversi e benefici appresi durante la relazione di aiuto.

Infine, il concetto di “familiare” ben chiarisce e riassume un insieme eterogeneo di aspetti ugualmente importanti: lo scopo dell’intervento professionale; la definizione luogo privilegiato per il servizio svolto; la dimensione dell’accoglienza che favorisce l’efficacia dell’intervento; l’appartenenza sociale della persona che chiede aiuto: essa non è un’isola ma vive di relazioni particolari nella famiglia d’origine, nella comunità, nella società intera.

Il consultorio come una casa. Il Consultorio si inserisce all’interno di un spazio comune, conosciuto, familiare, come quello di una casa che si rifunzionalizza per la cura della persona. Il pianerottolo diventa la bacheca in strada dove il Consultorio si apre all’esterno per farsi conoscere, per incontrare il mondo in uno spazio che è ancora neutro. La “zona giorno” della casa è quella dello spazio sociale aperto dove avviene la prima accoglienza, il primo incontro: la cucina diventa la reception e il soggiorno la sala di attesa; il salotto diviene la sala polivalente con spazi adeguati per le riunioni dell’équipe del Consultorio, per gli eventi, per la formazione degli operatori. La “zona notte” è la parte più intima della casa, zona di riposo e di conforto. Qui lo studio diventa l’ambulatorio e la camera, la stanza dei colloqui, luoghi che custodiscono il vissuto della persona. Sottraendola agli sguardi intrusivi del mondo, offrono efficaci spazi per la relazione d’aiuto e la cura. Anche l’archivio trova il suo posto in questa parte della casa perché custodisce “storie di vita” che meritano altrettanta cura e protezione.

            Presidenti in dialogo. Gli interventi della prof. Livia Cadei, presidente nazionale della CFC (Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana), e del dr Francesco Lanatà, presidente nazionale UCIPEM, hanno contribuito a identificare con chiarezza gli obiettivi e lo spirito dei Consultori, nonché il loro rapporto con la Chiesa e le istituzioni pubbliche.

La docente universitaria Livia Cadei, inquadra la nascita dei Consultori diocesani come risposta che l’assemblea dei Vescovi italiani volle offrire ai bisogni delle famiglie dopo l’approvazione della legge n. 405 del 1975, che istituiva i consultori pubblici. La presidente sottolinea come questa decisione non fu frutto di un atteggiamento difensivo ma nacque per far sentire l’attenzione della Chiesa alla specifica realtà familiare. Ricorda che don Edoardo Algeri, presidente prematuramente scomparso, amava dire: «quest’opera è la carezza della Chiesa alla famiglia».

La CFC nasce il 16 aprile del 1978 per coordinare e promuovere i Consultori con un’attenzione particolare ai territori, alla persona e all’interdisciplinarietà. La presidente Cadei definisce il Consultorio “un luogo-risorsa per le famiglie e le persone” e ricorda che, sulla prima pagina della brochure di presentazione del convegno per il quarantesimo della CFC, don Algeri volle disegnato il profilo di alcune case con un campanile che si staglia fra i tetti. Questo perché, diceva don Algeri: «la Chiesa sta in mezzo alle case per incontrare le famiglie dove vivono. Una Chiesa che, attraverso il Consultorio, non attende ma va a suonare i campanelli».

In questo periodo di isolamento a causa dell’emergenza sanitaria, la dott.ssa Cadei sottolinea l’impegno dei Consultori ai quali è stato chiesto di accompagnare le famiglie affinché tornino ad avere fiducia, riscoprendo risorse apparentemente “congelate”. I Consultori sono chiamati a “fare rete” per condividere concrete prospettive di intervento. Secondo la presidente, nei Consultori c’è un capitale non solo umano ma anche «narrativo, che va speso a favore di una dimensione generativa per scrivere nuove pagine di questa storia. In questo momento particolare, forse abbiamo proprio bisogno di sentirci dentro una storia da scrivere insieme». In Lombardia, ad esempio, ai Consultori CFC è stata chiesta una collaborazione per l’accompagnamento e il sostegno spirituale delle famiglie in questo momento di grave lutto.

            Individuando nei Consultori dei veri e propri “presidi territoriali a bassa soglia” dove si accede con molta facilità, la prof. Cadei ritiene che essi possano svolgere un efficace lavoro di prevenzione perché «possono leggere i bisogni che ancora non sono diventati domande o emergenze». A conclusione dell’intervento, viene rimarcata la dimensione del volontariato come caratterizzante per i nostri Consultori, in quanto «non è una risposta privata ma diventa una risposta etica perché afferma la cultura del dono, dell’apertura all’altro. Il volontario non improvvisa il suo intervento ma ha una specifica formazione. Il volontario non va a coprire una mancanza ma è una ricchezza in più».

Il dr Francesco Lanatà, presidente nazionale UCIPEM, rispondendo a coloro che hanno intenzione di far nascere un Consultorio di ispirazione cristiana, non nasconde che sia un’impresa impegnativa. Sottolinea: «occorre avere solide motivazioni, risorse sufficienti e forze disponibili» e che di ogni persona impegnata in questo progetto «bisogna conoscere la professionalità tecnica e la professionalità umana […], bisogna sapere che gli operatori devono essere preparati e in continuazione aggiornati […] e che è necessario insegnare il lavoro in équipe, che non si improvvisa ma necessita di specifica formazione». Infine, ricorda sempre di “fare rete”. Il dr Lanatà integra il suo intervento con l’indicazione di quali siano i passaggi burocratici per cercare una collaborazione con il settore pubblico che vengono riassunti nella “regola delle tre A”: autorizzazione; accreditamento; accordi.

L’Autorizzazione si chiede al Sindaco della propria città, il quale valuterà il rispetto dei requisiti minimi richiesti dalla legge da parte della struttura che presenta la domanda. La richiesta di Accreditamento si inoltra al Presidente della Regione di appartenenza. Ulteriori requisiti vengono richiesti perché la struttura «diventi credibile presso lo Stato, al pari delle istituzioni pubbliche, in modo tale che lo Stato potrà fruire di te e affidarti la realizzazione di specifici compiti». Infine gli Accordi sono le Convenzioni con l’amministrazione pubblica per poter ricevere quelle risorse economiche che permettano al Consultorio di lavorare in tranquillità.

            Il dr Lanatà ribadisce l’impegno dell’UCIPEM per la stipula di convenzioni che permettano a tutti i Consultori associati di godere di questa opportunità che, in ultima analisi, si riflette sulla sopravvivenza e sulla qualità del volontariato.

www.cispef.it/la-storia-dei-consultori-familiari-e-i-presidenti-nazionali-ucipem-e-cfc-a-confronto

(Webinar Cispef tenuto da Don Ermanno D’Onofrio – Frosinone)

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DALLA NAVATA

Corpus Domini – anno A – 14 giugno 2020

Deuteronomio        08, 02. Mosè parlò al popolo dicendo: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.

Salmo              147, 15. Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce.

1Corinzi         10, 17. Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti

 partecipiamo all’unico pane.

Giovanni            06, 51. «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in

                        eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

 

Con il suo «pane vivo» il Signore vive in noi

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (…) Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Nella sinagoga di Cafarnao, il discorso più dirompente di Gesù: mangiate la mia carne e bevete il mio sangue. Un invito che sconcerta amici e avversari, che Gesù ostinatamente ribadisce per otto volte, incidendone la motivazione sempre più chiara: per vivere, semplicemente vivere, per vivere davvero. È l’incalzante convinzione di Gesù di possedere qualcosa che cambia la direzione della vita. Mentre la nostra esperienza attesta che la vita scivola inesorabile verso la morte, Gesù capovolge questo piano inclinato mostrando che la nostra vita scivola verso Dio. Anzi, che è la vita di Dio a scorrere, a entrare, a perdersi dentro la nostra. Qui è racchiusa la genialità del cristianesimo: Dio viene dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, come corpo dentro l’abbraccio. Dentro l’amore. Il nostro pensiero corre all’Eucaristia. È lì la risposta? Ma a Cafarnao Gesù non sta indicando un rito liturgico; lui non è venuto nel mondo per inventare liturgie, ma fratelli liberi e amanti. Gesù sta parlando della grande liturgia dell’esistenza, di persona, realtà e storia. Le parole «carne», «sangue», «pane di cielo» indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana e divina, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo, e la casa che si riempie di profumo e di amicizia. E Dio in ogni fibra. E poi come accoglieva, come liberava, come piangeva, come abbracciava. Libero come nessuno mai, capace di amare come nessuno prima. Allora il suo invito incalzante significa: mangia e bevi ogni goccia e ogni fibra di me. Prendi la mia vita come misura alta del vivere, come lievito del tuo pane, seme della tua spiga, sangue delle tue vene, allora conoscerai cos’è vivere davvero. Cristo vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza come l’ha vissuta lui. Dio si è fatto uomo perché ogni uomo si faccia come Dio. E allora vivi due vite, la tua e quella di Cristo, è lui che ti fa capace di cose che non pensavi, cose che meritano di non morire, gesti capaci di attraversare il tempo, la morte e l’eternità: una vita che non va perduta mai e che non finisce mai.
      Mangiate di me! Parole che mi sorprendono ogni volta, come una dichiarazione d’amore. «Voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue; farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita». Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola

p. Ermes Ronchi, OSM

www.avvenire.it/rubriche/pagine/con-il-suo-pane-vivo-il-signorevive-in-noi

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DONNE NELLA (per) CHIESA

Il dibattito sulle donne

L’ “altra metà della Chiesa” vuole ormai, almeno in alcuni suoi settori, la fine di una gestione maschilista e patriarcale, per aprire anche alle donne tutti i ministeri ecclesiali. Le richieste aprono un discorso che grava sul pontificato in atto. E il tema peserà ancora di più sul conclave che nel giorno “x” dovrà scegliere il successore di Francesco.

È in atto, in Germania, il Sinodo tedesco che, probabilmente già in autunno, discuterà dell’ammissione delle donne al diaconato e, forse, al sacerdozio. Ad avanzare l’ipotesi – che metterebbe in questione l’assetto che da secoli caratterizza la Chiesa romana – è stato lo stesso neo presidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Georg Bätzing.

Per valutare l’audacia della proposta, va ricordato che nel 1994 Giovanni Paolo II aveva invocato la sua autorità papale per ribadire che in nessun modo la Chiesa può ammettere l’ordinazione di donne al sacerdozio: Gesù stesso – proclamava Wojtyla – non ha voluto donne tra i suoi apostoli; una tesi, precisava il pontefice, “che da tutti va tenuta in modo definitivo”. Affermazione che, già allora, teologhe e teologi considerarono “autoritaria” e non fondabile sulle Sacre Scritture.

Interrogato in proposito, il prelato tedesco ha sostenuto: seppure i papi, e lo stesso Bergoglio, abbiano ribadito quell’idea, ciò “non significa che non se ne possa discutere”; infatti la richiesta per la donne-prete “è lì, nel bel mezzo della Chiesa” (cioè sostenuta, nella Mitteleuropa e in NordAmerica, da molti gruppi). Ove poi il Sinodo tedesco fosse della stessa opinione – anche se una parte, minoritaria, dell’episcopato tedesco è contrarissima -, la richiesta sarebbe portata a Roma. Dovrebbe poi essere la Santa Sede, o un Sinodo generale, a dirimere la questione, che ovviamente non coinvolge solo un paese, ma l’intera Chiesa cattolica.

E in Italia? A Pentecoste è uscito un appello di donne che, senza fare rivendicazioni specifiche, si aspettano però dal papa un solenne “mea culpa” per l’antifemminismo che contraddistingue la Chiesa romana. Occorre dunque ristabilire equità e giustizia nella Chiesa, a partire dalle relazioni di genere, che “sono da molto tempo malate, perché intrise di stereotipi a proposito delle donne”. Sulla questione si è interrogata anche la Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma (avviata da Giovanni Franzoni, già abate benedettino della basilica Ostiense). Nel suo documento, appena uscito, e intitolato “Maddalena e le altre“, essa, sulla base della Bibbia e della storia, arriva a dire: Cristo non ha previsto nessun “sacerdozio” per la sua comunità ma, piuttosto, “ministeri” (=servizi, impegni), aperti a uomini e donne. I Vangeli, rileva il testo, scrivono che Gesù affidò a Maria Maddalena il compito di annunciare agli apostoli la Sua risurrezione: “Con questa decisiva missione, non le avrà affidato anche il mandato di poter celebrare e presiedere la Cena del Signore?”. Domande cruciali. Ora, la parola al papa. Ardua.

Luigi Sandri     “l’Adige”        8 giugno 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202006/200608sandri.pdf

Vangelo e libertà. La Resistenza delle suore che anticiparono in convento il femminismo

Da lettore mi sento di essere grato ad Albarosa Ines Bassani, che si è presa il compito di raccogliere carte, documenti e lettere delle Suore Dorotee, Figlie dei Sacri Cuori di Vicenza, durante eventi tragici del secolo scorso, con l’espediente che consente all’ autrice del libro (Le suore della Libertà, tra guerra e Resistenza) di costruire dal vero un libro di eventi che sono parti di Storia. Ma c’è un di più, in questo libro di ricostruzioni di fatti realmente accaduti, che deve essere notato. Viene narrata una presenza tenace, a momenti eroica in cui viene superata con fermezza l’eterna visione delle donne (delle suore!) come “ausiliarie”, come mani benevole a parziale sostegno delle imprese degli uomini. Si vede invece l’inizio e il diffondersi di un risveglio femminile che spinge le donne alla responsabilità e alla capacità di decidere, molto prima che nasca il fenomeno, considerato una rivoluzione fuori dai conventi, detto femminismo. Il femminismo infatti è, nelle sue forme più serie e meno frivole e nell’interpretazione risoluta e post ornamentale che va da Gloria Steinem a Susan Sontag, un modo per disincagliare la figura femminile da uno status di benevole e apprezzata inferiorità.

Il libro della Bassani apre porte che erano restate chiuse e illumina percorsi che erano rimasti nella più profonda delle ombre, quelle del luogo comune. Svela quante volte le donne – in questo caso suore, ma il senso del racconto per questa ragione diventa ancora più straordinario ed esemplare – prendono in mano situazioni rischiose e impossibili, ne fanno il proprio compito senza aspettare che qualcun altro decida, e sono pronte a fare ciò che in ogni altra storia e vicenda sarebbe stato compito e responsabilità maschile. Una lettura attenta dimostra che la presenza quasi costante di due ingredienti, in ciascuna delle storie che leggerete (il fare il bene, il salvare qualcuno, da un lato, e prendere decisioni che sono anche di organizzazione, di scelta politica, di guida morale) rendono ancora più importante e storicamente notevole la testimonianza resa dalla raccolta in volume di queste carte. Feriti, malati, bambini, spossessati, perseguitati non sono l’epicentro delle azioni che il libro racconta. L’epicentro è nella capacità e volontà delle suore di decidere, il fatto che non occorre un vescovo che ordini di accogliere una famiglia ebrea, di custodirne i bambini e di metterli insieme a tutti gli altri nelle loro scuole. Queste suore sanno guardare la vita, comprenderne la ferocia e affrontarla non come carità ma come naturale capacità di guidare, intervenire, salvare, soprattutto decidere.

Due dei capitoli hanno titoli esemplari: “Come un generale in guerra” (secondo capitolo). E “La militanza segreta delle suore” (terzo). Ma chi sfoglierà il libro, se fosse indeciso, noterà “Rifugio ad ebrei e fuggiaschi”,Suor Felicitas e il partigiano” o “Suor Assunta e l’assalto alla cremagliera”. Se il femminismo è la storia delle donne che ritrovano se stesse smettendo di sentirsi adatte solo per compiti subordinati, questo è il modello storico che mancava: le suore come leader e protagoniste svelano la forza delle donne.

Albarosa Ines Bassani, Le Suore della libertà, Pagine: 160 Editore: Gaspari

Furio Colombo           “il Fatto quotidiano”  8 giugno 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202006/200608colombo.pdf

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MINORI MISNA

In Italia ogni 9 ore e 43 minuti sparisce un minore straniero non accompagnato

Molti vengono bloccati alle feroci frontiere africane e lì rimangono. A marcire nelle carceri egiziane. Oppure ammazzati e lanciati nelle fosse comuni. Altri diventano mangime per pesci, affondano tra le onde del Mediterraneo senza una lapide né un nome: ricordati da qualche pescatore, che mentre ritira le reti per i pesci trova resti umani. Diventano un numero tra tanti numeri sulle labbra dei tecnicismi freddi ed impassibili dei governanti europei. Degli uomini in giacca e cravatta, con vestiti lucidi e puliti. Ma che nascondono putrido sapore di ingiustizia e morte.

I migranti ragazzini più “fortunati” sbarcano in Europa ed in Italia. Dopo abusi fisici e psicologici, dopo aver vissuto l’inferno. Ma si danno alla macchia. Sono i minori stranieri non accompagnati (MSNA) e la situazione presenta tratti molto critici. Negli ultimi ventotto mesi sono sbarcati in Italia quasi 6.000 minorenni e gli ingressi recenti registrano sbarchi soprattutto di nazionalità egiziana, afgana e bengalese.

Le strade che si aprono per i MSNA sono essenzialmente due: accesso alle misure di protezione statale (SIPROIMI) e/o il ricongiungimento familiare. Ma i problemi sistemici, strutturali ed errori macroscopici rallentano il tutto: l’insufficienza di informazioni, la lunghezza dell’iter per il ricongiungimento, la necessità impellente di denaro portano il ragazzino a scegliere la strada più pericolosa: la fuga. La necessità di denaro diviene nell’immediato un martello pneumatico che trapana la testa distruggendo la psiche: le pressioni del nucleo familiare rimasto in patria che ha investito tutti i fondi della famiglia per il viaggio e la necessità di mandare le rimesse portano il ragazzino a scappare dai canali istituzionali.

Il minorenne così sfugge alle logiche dell’accoglienza, diventa irreperibile. E disertano la scuola: la dispersione scolastica tra i minorenni stranieri è altissima. Il tasso di abbandono nella scuola secondaria di primo grado registra percentuali preoccupanti: Costa d’Avorio 8,9%, Bosnia 7,2% e Egitto 7,1%. Gli irreperibili in Italia (al 31/12/2020) sono 5.383: il dramma coinvolge soprattutto i minorenni della Tunisia e dell’Afghanistan. Ma anche coloro che fanno la rotta orientale-centro, ossia Eritrea Somalia e Sudan. Passano attraverso i centri detentivi costruiti e finanziati dai soldi degli stati europei: in tal senso basti ricordare l’intesa da 500 milioni Germania – Egitto.

Il minorenne che arriva in Italia ha, di fatto, un vissuto da anziano. Un modo di agire che è da uomo. E le fragilità di bambino. La segnalazione di allontanamento di MSNA nei primi quattro mesi del 2020 sono altissime: 308. Significa che sono spariti 308 ragazzini in 121 giorni. Questo vuol dire che ogni giorno in Italia spariscono più di due minorenni (2,54). Ogni 9 ore e 43 minuti sparisce un MSNA ed a fine anno si sfonderà presumibilmente il muro dei mille irreperibili.

In questo contesto giocano un ruolo molto importante le organizzazioni parastatali, ossia le mafie. Il ragazzino straniero che sfugge alle logiche dell’accoglienza può essere adescato in primis dal circuito dello sfruttamento lavorativo: diventano manovali, operai, muratori nelle aziende nel nord Italia. Raccolta di arance, pomodori ed olive nel Sud. Unico comune denominatore: salario più basso rispetto agli adulti, turni sfiancanti e paga da fame.

Altri finiscono nel giro dello sfruttamento sessuale oppure vengono assoldati dalla criminalità organizzata diventando baby pusher. Il ruolo della mafia all’interno dello scacchiere è confermato dai reati dei minorenni stranieri in carico agli uffici di Servizio Sociale: stupefacenti 1.143, ricettazione 965, estorsione 305 e rapina 1.911. Reati non spuri, ma segno di appartenenza ad un’organizzazione ben strutturata e radicata: la mafia. Il MSNA diviene pedina della mano tentacolare delle associazioni criminali.

Altro circuito in cui finiscono è quello del traffico di organi: numerosi ragazzini, in nome di un ricongiungimento familiare rapido, si affidano ai trafficanti. Per un ricongiungimento illegale viene chiesto un rene. Il traffico di organi è il decimo business illegale più remunerativo del mondo e frutta dagli 840 milioni ad 1,7 miliardi di dollari: si registrano circa 12.000 trapianti illegali e gli organi più venduti sono reni, polmoni, fegato, cuore e pancreas. I trafficanti costringono spesso i migranti a vendere i propri organi: è il prezzo per arrivare in Europa, il pagamento richiesto per decurtare il debito contratto per il viaggio terrestre ed affrontare quello marittimo. I migranti che non hanno il denaro per la traversata e non hanno una famiglia nel paese di origine da fare da garante, ed in questa categoria rientrano moltissimi ragazzini, vengono ammazzati e gli organi rivenduti. L’Egitto è il market del traffico africano: gli organi vengono messi in delle borse termiche e consegnati, dietro pagamento di 15.000 $, ai “medici del Sahara”. Di fatto, agli egiziani, che hanno allestito veri e propri ospedali illegali per effettuare le operazioni. Le nazionalità più colpite sono soprattutto quelle della rotta orientale-centro, Somalia, Eritrea e Sudan: sono le stesse nazionalità dove molto forte è la componente MSNA che arriva in Europa.

E’ lecito domandarsi quanti MSNA siano stati coinvolti in questo business. E’ lecito domandarsi quanti ragazzini nel tentativo di avverare il sogno Europa siano finiti nell’incubo della morte anonima.   11 note

Pietro Giovanni Panico                          Progetto Melting Pot Europa     13 giugno 2020

www.meltingpot.org/In-Italia-ogni-9-ore-e-43-minuti-sparisce-un-minore.html?var_mode=calcul#.XuXfjedS-hJ

https://www.meltingpot.org/IMG/pdf/manuale_sopravvivenza_illustrato_msna_21maggio2020.pdf

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OMOFILIA

Omofobia. Il genere, un labirinto. Ecco come uscirne

“Identità di genere? Non uso di frequente questa espressione. Da un punto di vista comunicativo e strategico. Se faccio ricorso a una parola e poi sono costretta a impiegare venti minuti per chiarire in che senso la impiego, rischio io stessa di fare confusione e quindi di non farmi capire. In ogni caso non è un’espressione neutra, univoca, servono le virgolette”.

Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane e docente di teologia patristica a Milano e Verona, dopo anni trascorsi a riflettere sul ruolo della teologia di genere, è convinta che sia importante riflettere con attenzione, evitando le semplificazioni: a questo scopo è nata una intera Serie Teologica, Exousia (San Paolo), dedicata proprio a questo ripensamento importante: non un pentimento, ma un approfondimento. Occorre collocare la parola “genere” in due contesti di origine: quella dell’antropologia che fa riferimento al sex gender system e quella della sessuologia clinica. Letture che hanno contribuito ad accrescere la complessità di un’espressione tanto controversa. Da qualsiasi parte la si legga, “identità di genere” – tra virgolette – è ormai caricata di un peso culturale che la orienta, spesso la piega. E, allora, qual è la soluzione? Andiamo per ordine.

Identità di genere e orientamento sessuale sono concetti dibattuti da almeno mezzo secolo. Ora, la decisione di inserire entrambe le espressioni nel testo unico in discussione nel Parlamento che farà sintesi delle cinque proposte di legge contro l’omofobia, ha rinfocolato il dibattito. “Per capire l’evoluzione semantica del “genere” – riprende la teologa – bisogna guardare (almeno) a due contesti diversi, quello delle scienze socio-antropologiche in cui gender sta a indicare la modalità culturalmente determinata in cui donne e uomini si rappresentano e vivono. E quello della psicologia e della sessuologia clinica che considerano l’identità sessuale come il “chi sono” dei soggetti in relazione alle rappresentazioni socialmente definite e condivise del femminile e del maschile. Mentre il ruolo di genere rimanda alle aspettative di comportamento conformi all’identità di genere desumibile dal sesso”.

Tutto chiaro, o quasi, ma non è ancora finita. Perché negli anni Ottanta arriva Judith Butler che riconosce al gender un carattere performativo e si propone di sovvertirlo perché, sostiene, la sua forma binaria costruisce il paradigma eterosessuale normativo, escludendo in questo modo chi non vi si riconosce. Ora anche la filosofa di origine ebraiche, considerata a lungo la profetessa del gender, è andata oltre e utilizza anche altre concettualità. “Nei suoi ultimi studi – sottolinea ancora Simonelli – tutto ha finalità inclusiva, a partire dalla comprensione della vulnerabilità e dunque contro l’esclusione e la violenza”.

Insomma, quando diciamo “identità di genere” ci infiliamo in un labirinto da cui è complesso uscire. Troppi i rimandi culturali concentrati nella stessa espressione. “Non mi sembra utile intenderla come una miriade di identità, una dissoluzione – argomenta ancora la presidente delle teologhe italiane – ma non può far neppure riferimento solo alla transessualità. In entrambi i casi rischiamo di fare un pessimo servizio alla realtà”.

E si possono anche determinare contraddizioni spiacevoli. “Giusto imparare a usare la complessità nel rispetto delle diversità ma senza innescare processi che, con l’intento di garantire la giusta tutela di ogni minoranza – urgente e improrogabile, sia chiaro, impediscano di ripensare, anche nel senso di liberarli dagli stereotipi, i riferimenti simbolici più frequenti”. E qui entriamo in un ambito ancora più complesso ma che è giusto affrontare.Parlare di categorie di orientamento sessuale – omosessuali, transessuali, bisessuali… e l’elenco sarebbe lunghissimo – serve per capire, ma troppo spesso chi le contrasta, non fa più riferimento a persone concrete, con le loro speranze e la loro sofferenze, bensì alle loro rappresentazioni caricaturali.

“Qui il problema – mette in luce la teologa – si può cogliere in un non sempre dichiarato e comunque non problematizzato concetto di “natura”, che nella differenza troverebbe una conferma essenzialista, nel gender una dissoluzione apocalittica. La questione è evidentemente più complessa e degna di essere considerata uno dei “casi seri” della cultura attuale, nella quale la negazione delle differenze e la riduzione della dimensione critica causano la discriminazione dei soggetti e l’atrofia del pensiero. Vera sfida per la conversione ecclesiale”.

Insomma, quando gli estensori delle proposte di legge contro l’omofobia fanno ricorso a “identità di genere” e “orientamento sessuale” senza chiarirne il significato – e limitandosi a spiegare che i termini si trovano già nella giurisprudenza italiana e nella convenzione di Istanbul – non offrono chiavi di lettura adeguate. Tanto meno lo fa chi semplicemente li contrasta. Sia perché le sentenze della Consulta a cui si fa cenno si limitano, a loro volta, a impiegare la terminologia sotto accusa senza approfondirne la complessità, sia perché lo stesso trattato del 2011 contro la violenza sulle donne liquida la questione in poche righe (“con il termine genere ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per uomini e donne”, art. 3, c).

Un po’ poco per concludere che ci troviamo di fronte ad espressioni largamente condivise che non si prestano a letture estensive e magari opposte – o anche capziose – rispetto alle buone intenzioni del legislatore.

Luciano Moia Avvenire         13 giugno 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/il-genere-un-labirinto-ecco-come-uscirne

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POLITICHE PER LA FAMIGLIA

Una riforma di sistema. Family Act avvio di un’opera più grande

Family Act avvio di un’opera più grande. In Italia le famiglie sono abituate a non credere alle promesse. Quando si parla di nuovi sostegni ai genitori, anche tra le associazioni familiari la consapevolezza si traduce spesso in una battuta amara, frutto di stagioni di attese tradite: «L’anno della famiglia? È sempre il prossimo», si dice. Oggi tuttavia le probabilità che questo sia veramente un anno importante per le famiglie sono aumentate. Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge delega sul Family Act, provvedimento che contempla l’introduzione anche in Italia di un assegno unico e universale per ogni figlio, oltre a congedi parentali ampliati e misure per favorire la conciliazione tra lavoro in casa e fuori.

            Perché questo si traduca in realtà, e perché la riforma possa avere un reale impatto sulle famiglie esistenti e future sono però necessarie alcune condizioni. In termini di impatto demografico e sulle scelte di vita, infatti, siamo già fuori tempo massimo: una misura come questa andava realizzata 10–20 anni fa, oggi stiamo rincorrendo, e ci sono bisogni che si stanno già evolvendo. Per questo è necessaria un’adesione culturale e ideale ampia, di tutta la società.

            Attorno al Family Act, proposto dalla ministra per la Famiglia Bonetti, non basta auspicare una vera convergenza di Italia Viva e Pd (che porta in dote la proposta dell’assegno Delrio-Lepri) e di M5s: è necessaria l’apertura a un’ampia maggioranza parlamentare per condurre alla nascita di un progetto patrimonio di tutto il Paese. L’obiettivo non è solo arrivare a una riforma operativa entro fine anno, ma essere consapevoli che senza risorse dedicate e consistenti anche il nuovo assegno continuerà a restare poco più di una promessa. Ciò che serve è una rivoluzione culturale attorno alla famiglia e ai figli che sia compresa e assimilata da tutti, anche dal mondo delle imprese, della finanza, del credito.

Un’indagine realizzata proprio per il Ministero della Famiglia da Istituto Toniolo e Ipsos fa capire bene l’urgenza di una svolta: con l’emergenza Covid la quota di giovani italiani che ha accantonato definitivamente il progetto di sposarsi o di avere un figlio è risultata doppia rispetto a quanto registrato in Francia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, con percentuali del 40 e del 36%.

L’insicurezza è il tratto dominante quando si cerca di guardare al futuro in un Paese, il nostro, diventato fragile nella capacità di offrire prospettive di stabilità alle nuove generazioni. Un contagio che spezza il respiro del domani, che va fermato e sanato con buone riforme e con la capacità di comprendere che gli interventi che hanno la famiglia e i figli al centro sono diventati una priorità. E un provvedimento come il Family Act può essere solo il primo atto di un’opera più grande.

Massimo Calvi            Avvenire         12 giugno 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/family-act-avvio-di-un-opera-piu-grande

 

Genitorialità e conciliazione lavoro-famiglie: al via il Family Act

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge contenente una serie di misure finalizzate al sostegno e alla valorizzazione della famiglia. Su proposta del Ministro per le pari opportunità e la famiglia, nonché del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, nella serata di giovedì 11 giugno 2020 è stato licenziato un disegno di legge che delega il Governo ad adottare misure per il sostegno e la valorizzazione della famiglia.

L’articolato contiene i riferimenti normativi ed il cronoprogramma che il Governo dovrà rispettare nell’opera tesa ad approvare i decreti legislativi di attuazione della delega, le cui specifiche finalità sono state così individuate:

  • Sostenere la genitorialità e la funzione sociale ed educativa delle famiglie,
  • Contrastare la denatalità,
  • Valorizzare la crescita armoniosa delle bambine, dei bambini e dei giovani,
  • Favorire la conciliazione della vita familiare con il lavoro, in particolare quello femminile.

Principi e criteri direttivi. Nell’esercizio delle deleghe previste, il Governo dovrà attenersi a principi e criteri direttivi indicati dallo stesso atto approvato:

  • Garantire l’applicazione universale di benefici economici ai nuclei familiari con figlie e figli, secondo criteri di progressività basati sull’applicazione di indicatori della situazione economica equivalente (ISEE), tenendo anche conto del numero delle figlie o dei figli a carico;
  • Favorire la parità di genere all’interno dei nuclei familiari, incoraggiando l’occupazione femminile, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, anche tramite la predisposizione di modelli di lavoro volti ad equilibrare i tempi familiari di lavoro e incentivare il lavoro del secondo percettore di reddito;
  • Affermare il valore sociale di attività educative e di apprendimento, anche non formale, dei figli, mediante il riconoscimento di agevolazioni fiscali, esenzioni, deduzioni dall’imponibile o detrazioni dall’imposta sul reddito delle spese sostenute dalle famiglie o tramite la messa a disposizione di un credito o di una somma di denaro vincolata allo scopo;
  • Prevedere l’introduzione di misure organizzative, di comunicazione e semplificazione che favoriscano l’accesso delle famiglie ai servizi offerti e l’identificazione dei medesimi.
  • Le principali scadenze temporali previste per l’adozione dei singoli provvedimenti attuativi sono state così individuate:
  • Dodici mesi dall’entrata in vigore della legge di delega, per emanare un decreto legislativo istitutivo dell’assegno universale recante il riordino e la semplificazione delle misure di sostegno economico per le figlie e i figli a carico, nonché uno o più decreti legislativi per la istituzione e il riordino delle misure di sostegno all’educazione delle figlie e dei figli;
  • Ventiquattro mesi dall’entrata in vigore della legge per emanare uno o più decreti legislativi di potenziamento, riordino, armonizzazione e rafforzamento della disciplina inerente i congedi parentali, gli incentivi al lavoro femminile, le misure di sostegno alle famiglie per la formazione delle figlie e dei figli e per il conseguimento dell’autonomia finanziaria

Laura   Biarella          Altalex            12 giugno 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/06/12/family-act

 

Family act. Assegno ai figli, spunta il nodo dei tempi (troppo lunghi)

Si punta a gennaio ma il Cdm si è preso 12 mesi per varare i decreti legislativi dopo l’iter parlamentare. Pd e Iv trattano ancora sui contenuti: contributo fino ai 22 anni. Tra la bozza del Family act e il testo licenziato dal Consiglio dei ministri di giovedì sera la differenza fondamentale è in una data: se nei testi precedenti la riunione di governo si indicava che il decreto legislativo sull’assegno unico (o universale) sarebbe arrivato entro il 30 novembre, nel comunicato di Palazzo Chigi si afferma che il decreto legislativo arriverà entro 12 mesi dall’approvazione del Ddl da parte delle Camere.

Se Camera e Senato approveranno la legge-delega sull’assegno unico entro l’estate, il governo avrà di tempo teoricamente sino a luglio 2021 per mettere mano al testo attuativo. Segno che la partita sulle coperture è molto complessa. E l’impegno politico ribadito anche ieri dalla ministra Bonetti a erogare l’assegno dal primo gennaio è tutto da costruire.

            Vuol dire, per essere chiari, che nella riorganizzazione e semplificazione del sistema fiscale dovranno essere tagliate alcune agevolazioni fiscali: e la storia recente dimostra che è più facile a dirsi che a farsi. Ragionamenti cui occorre aggiungere i dubbi sulla situazione economica complessiva del Paese nel prossimo autunno e in previsione della manovra. Né è al momento chiaro se entro la fine dell’anno l’Italia riuscirà ad ottenere un “anticipo” del Recovery fund europeo, che tuttavia non potrebbe essere utilizzato esplicitamente per interventi fiscali. Motivo per cui il governo ha optato per una delega da esercitare entro 12 mesi dal varo in Parlamento dell’assegno unico, mettendo un’ombra sulla possibilità di avere il nuovo strumento di politica familiare sin dall’inizio del 2021.

            Ancora più ampio il tempo che l’esecutivo si è preso per esercitare la delega sugli altri capitoli del Family act: 24 mesi. Si parla cioè degli interventi su congedi parentali, incentivi al lavoro femminile, “dote” per l’educazione e la formazione, sostegno all’autonomia finanziaria e abitativa delle giovani coppie. Tra l’altro, è saltata nell’ultimo passaggio in Cdm l’indennità integrativa per le mamme che rientrano dal congedo obbligatorio.

            Tempi volutamente dilatati che ieri hanno consentito alle opposizioni di considerare una «scatola vuota» il Ddl-delega approvato dal governo. L’indeterminatezza di alcuni punti spinge anche i sindacati, Cisl e Cgil in testa, a chiedere più chiarezza al governo. Diverse cose potranno chiarirsi da lunedì, quando ripartirà l’iter della proposta di legge delega Delrio-Lepri. Il patto politico è che l’assegno unico viaggi sul binario accelerato della proposta già incardinata dal Pd. Ma la mediazione tra l’assegno unico dem e l’assegno universale da Bonetti in parte è ancora da costruire. La proposta del Pd indica una cifra massima mensile, 240 euro, che però scomparirà e sarà delegata al governo. Sarà adottato il principio del Ddl Bonetti per cui si parte da un minimo e poi la dotazione sale in base all’Isee. La maggiorazione dell’assegno dal secondo figlio in poi, prevista dal ministro Bonetti, potrebbe essere sfumata in un principio generale di rafforzamento della misura per i nuclei numerosi.

Marco Iasevoli            Avvenire         13 giugno 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/assegno-ai-figli-tempi

 

Family Act, il Forum: «Sia appoggiato da tutti gli schieramenti»

            «Dopo la delusione per un decreto “rilancio” che non ha certo messo al centro dell’attenzione del governo le famiglie, siamo contenti di constatare che all’interno della maggioranza si sia andati oltre uno stallo sulle misure per le famiglie. Adesso è importante che il disegno di legge sul Family Act, una volta in Parlamento, venga appoggiato da tutti gli schieramenti politici».

 Il presidente nazionale del Forum famiglie Gigi De Palo interviene dopo il sì del Consiglio dei ministri al “Family act”, il pacchetto di misure a sostegno delle famiglie redatto dal ministro alle Pari Opportunità Elena Bonetti, presentato nell’ottobre scorso alla Leopolda, varato ieri, 11 giugno 2020. Tra le novità, l’assegno universale per figli ma anche il contributo per le rette di nidi e materne – anche al 100% -, il congedo per i neo papà che sale a dieci giorni, congedi usati anche per andare a colloquio con gli insegnanti e un’indennità integrativa per le mamme in rientro da congedo.

            Per De Palo, «un provvedimento in grado di ridare fiducia ai nuclei familiari con figli, di far ripartire la natalità e rilanciare il Paese dovrebbe essere sostenuto anche da parti sociali, associazioni, banche, imprese perché il nostro Paese ha urgente bisogno di politiche familiari finalmente concrete e importanti. Le famiglie – aggiunge – hanno sopportato sulle loro spalle con responsabilità il peso più grande di tanti anni difficili. Ora è venuto il momento in cui la politica può e deve dimostrarsi coraggiosa e lungimirante, restituendo finalmente il valore di bene comune a ogni figlio e investendo su ciò che c’è di più prezioso nel nostro Paese per il proprio futuro».

Redazione on-line       Romasette      12 giugno 2020

www.romasette.it/family-act-il-forum-sia-appoggiato-da-tutti-gli-schieramenti

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UTERO IN AFFITTO

Utero in affitto in Ucraina. 11 bimbi della Biotexco

Mentre da più parti si invoca l’adozione dei bimbi della Biotexcom, concepiti con utero in affitto in Ucraina e “alloggiati” all’interno dell’hotel “Venezia” di Kiev a causa del rigido blocco agli arrivi dall’estero per il Coronavirus, che hanno impedito ai loro genitori-committenti di venirli a “ritirare”, una posizione sostenuta anche dalla FAFACE, la Federazione Europea delle Associazioni Famigliari Cattoliche, con una dura presa di posizione da parte del presidente Vincenzo Bassi (“Questi bambini sono stati spostati lì, come oggetti al mercato, in attesa che i loro acquirenti venissero a prenderli – ha dichiarato, sottolineando – non esiste il diritto di generare o avere un figlio, ma solo la responsabilità di prendersi cura della sua vita per il bene comune. La comunità dovrebbe aiutare i genitori a non sentirsi soli, premiandoli quando assumono questa responsabilità di genitori”), il Governo italiano sembra tacere.

            Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, era stato stimolato ormai quasi due settimane fa a intervenire da un appello firmato dal parlamentare Gaetano Quagliariello, dalla giornalista Eugenia Roccella e dall‘ex ministro e presidente della CAI – Commissione Adozioni Internazionali, Carlo Giovanardi. I tre avevano chiesto che il Governo si impegnasse a perseguire i committenti italiani (l’utero in affitto è una pratica illegale nel nostro Paese in virtù della legge 40 del 2004, che sanziona “chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza, pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità”). Anche il presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, era stato sollecitato per far sì che i bambini venissero dati in adozione internazionale.

Eppure entrambi, a quanto sostiene il quotidiano La Verità, non hanno al momento risposto, con disappunto di Giovanardi. Anche la già citata FAFCE aveva voluto “ribadire la (…) chiamata a tutte le autorità competenti per avviare il processo per l’adozione internazionale dei bambini bloccati a Kiev”.

Nel frattempo la Biotexcom nella giornata di ieri, mercoledì 10 giugno 2020, ha dato il via alla consegna dei bimbi, 11 in totale, alle coppie “acquirenti” provenienti da Argentina e Spagna. Lo ha fatto addirittura organizzando una conferenza stampa per pubblicizzare l’evento. Una conferenza da cui è emerso che sarebbero 79 ormai i bambini nati e non ritirati causa Covid, più altri tre in procinto di vedere la luce. 15mila dollari è la cifra corrisposta dalla compagnia alle madri surrogate, a fronte dei 50mila dollari mediamente corrisposti dalle coppie che hanno “ordinato” i pargoli alle compagnie che realizzano questi servizi. “Lo facciamo per il risultato – ha dichiarato Albert Tochylovsky, direttore della Biotexcom, in un’intervista – lavoriamo per il risultato”.

Fatti che rendono palese come, ormai, quella della maternità surrogata non sia altro che una compravendita, puro business sulla pelle di madri spesso troppo povere per rifiutare una simile cifra, importante per un Paese come l’Ucraina, se si considera che lo stipendio mensile medio ammonta a circa 400 euro.

Ma, anche, sulla pelle di quei milioni di bambini abbandonati per i quali, nel mondo, le coppie senza figli potrebbero essere una risorsa utile a sanare la più drammatica delle ingiustizie: quella che priva un bimbo di una mamma e un papà.

AIBInews       11 giugno 2020

www.aibi.it/ita/utero-in-affitto-in-ucraina-11-bimbi-della-biotexcom-ritirati-da-coppie-spagnole-e-argentine-e-litalia-tace

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