NewsUCIPEM n. 808 – 31 maggio 2020

NewsUCIPEM n. 808 – 31 maggio 2020

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipemnazionale@gmail.com                                                           

 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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 Carta dell’UCIPEM, Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

 

02 ABORTO VOLONTARIO                          delle minorenni, discesa continua. Con la pillola del giorno dopo

03 ABUSI                                                            Intercettare campanelli allarme e intervenire tempestivamente

04 ADOZIONI INTERNAZIONALI                 Convenzione ONU sull’Infanzia: Italia approvata ben 29 anni fa.

05                                                                          Tribunale Minorenni accoglie indicazioni razziste della coppia

06 AFFIDO CONDIVISO FIGLI                     Non si può prescindere dalla bigenitorialità

08 ASSISTENTI SOCIALI                                 Ultime sentenze

09 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n. 21, 27 maggio 2020

11 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA     La Sessualità Femminile

12                                                                          Il piacere sessuale nelle donne

12                                                                          Ansia da Prestazione: come sconfiggerla

13 CHIESA CATTOLICA                                  Sui limiti di papa Francesco

14 CITAZIONI                                                   Che significa laicità per un consultorio di ispirazione cristiana

31 CONSULTORI UCIPEM                            Cremona. Tre incontri online con l’ostetrica

31                                                                          Mantova.  Etica Salute & Famiglia – maggio giugno 2020             

32 CORONAVIRUS                                          A proposito di “Un dissidio sulla autorità”                                         

33 DALLA NAVATA                                         Domenica di Pentecoste – Anno A – 31 maggio 2020

33                                                                          Fedeltà al proprio dono

34 DONNE nella(per la)CHIESA                 Una Chiesa con cervello materno

34                                                                          È ora che la Chiesa cattolica chieda scusa alle donne

36                                                                          Apprezziamo il papa ma serve più coraggio

37 FAMIGLIA                                                     La famiglia nelle scienze umane di oggi

41 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Bergoglio tra seguaci e inquisitori

43 MATRIMONIO                                            Nozione ordine pubblico matrimoniale.Profili inteordinamentali.

48                                                                          Matrimonio concordatario: ultime sentenze

50 MEDIAZIONE FAMILIARE                       Ultime sentenze
52 NULLITÀ MATRIMONIO        
                sentenze
54 OMOFILIA                                                   
Omofobia: audizione in Commissione Giustizia della Camera

58 PENSIONE REVERSIBILITÀ                      Come si ripartisce tra ex coniuge e coniuge superstite?

59 POLITICA                                                      Perché non si guarda mai alla famiglia

61                                                                          UE. Quali azioni per arrestare il declino demografico

52 POLITICHE DELLA FAMIGLIA                Ciò che gli uomini pensano e le donne sanno rinnovare              

63                                                                          La Ministra Bonetti istituisce Gruppo di lavoro su minori e Covid-19

64                                                                          Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza

64 UTERO IN AFFITTO                                   Dopo i bambini parcheggiati in Ucraina ora basta

64 VIOLENZA                                                 Reato di molestie rivolgere insistenti battute a sfondo sessuale

66 WELFARE                                                  Assegno per i figli, c’è l’intesa politica.                                            ▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ABORTO VOLONTARIO

Aborti delle minorenni, discesa continua. Con la “pillola del giorno dopo”

Sono al minimo storico le interruzioni di gravidanza autorizzate dal giudice, cioè senza assenso dei genitori. Un trend avviato dall’introduzione dei “contraccettivi d’emergenza”, abortivi precoci. Continua a scendere, e di molto, il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza delle minorenni autorizzate dal giudice, quando manca l’assenso dei genitori o del tutore. Erano state 522 nel 2018, sono arrivate a 480 nel 2019. La conferma di un trend iniziato nel 2009. Fino ad allora i numeri erano sempre stati attorno a 1.300, col massimo nel 2007 quando si era arrivati a 1.435. Undici anni fa, appunto, l’inizio della discesa, con 1.186 casi, diminuiti a 1.042 nel 2013, a 780 nel 2015, a 615 nel 2017. È quanto si legge nella “Relazione sullo stato di attuazione della legge concernente norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, relativa al 2019, inviata al Parlamento il 15 aprile 2020 dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.

https://documenti.camera.it/apps/commonServices/getDocumento.ashx?sezione=documentiparlamentari&tipoDoc=pdf&idLegislatura=18&categoria=037bis&numero=003&doc=INTERO

Dare una risposta al perché del calo non è facile e i motivi sono sicuramente molteplici. Ma c’è un’importante coincidenza.

Proprio attorno al 2009 cominciano infatti a dilagare le cosiddette “pillole del giorno dopo”, che di fatto non richiedono il ricorso al giudice. Sarebbe importante, per capire il fenomeno, la sua evoluzione, chi ancora ricorre all’aborto e per quali motivi, avere altre informazioni che, purtroppo, dal 2005 la Relazione non fornisce più. Fino a quell’anno venivano rilevate, e analizzate, l’età e il luogo di nascita della minorenne, la persona eventualmente consultata dalla minorenne e i motivi di non consultazione, i motivi addotti dalla minorenne all’aborto.

                Notizie importanti, come si leggeva nella Relazione del 2011 (ministro Paola Severino), l’ultima a citarle anche se vecchie. «Variabili – era scritto – che consentivano di avere una visione più ampia del fenomeno, soprattutto per ciò che riguarda le cause che in qualche modo lo possono originare». Tutto questo nella Relazione non c’è più, neanche come citazione, così come alcune criticità segnalate dai giudici.

            Le poche informazioni rimaste sono quelle relative alla distribuzione geografica delle interruzioni di gravidanza delle minorenni. Con la conferma che si tratta di un fenomeno soprattutto delle regioni settentrionali e delle grandi città. Il 44% delle richieste ha infatti ha riguardato il Nord (stessa percentuale dal 2005), il 23% il Centro (in leggero calo), il 22% il Sud (costante), l’11% le Isole (in leggero aumento). Dei 213 casi del Nord, 73 sono relativi al Distretto della Corte d’Appello di Milano, 33 a quello di Torino, 28 per Genova, 23 a Brescia, 22 per Bologna, 18 in quello di Venezia. Dei 114 casi del Centro, 79 sono relativi al Distretto della Corte d’Appello di Roma e 25 a quello di Firenze. Tra i 110 casi del Sud ne troviamo 37 relativi al Distretto della Corte d’Appello di Napoli e 32 a quello di Bari. Tra i 53 casi riscontrati nelle Isole, 18 sono relativi al Distretto della Corte d’Appello di Palermo, 15 a quello di Catania e 11 a quello di Cagliari.

Antonio Maria Mira   Avvenire 27 maggio 2020

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/aborti-delle-minorenni-discesa-continua-con-la-pillola-del-giorno-dopo

In Italia vi sono due preparazioni farmaceutiche, contenenti due diversi principi attivi, che agiscono sull’equilibrio ormonale bloccando o ritardando l’ovulazione, cioè il rilascio dell’ovulo dalle ovaie, impedendo quindi la fecondazione.

  • Levonorgestrel (progestinico): Norlevo in commercio dal 2000, è il primo contraccettivo di emergenza a base di solo progestinico. Il Levonorgestrel agisce inibendo l’aumento dell’ormone luteinizzante e impedendo così la maturazione del follicolo e dell’ovulo.
  • Ulipristal Acetato (modulatore selettivo del recettore del progesterone): EllaOne in commercio dal 2009, conosciuto anche come “pillola dei cinque giorni dopo”, in quanto risulta efficace fino a 120 ore dal rapporto potenzialmente a rischio.  Il meccanismo di azione è simile a quello del Levonorgestrel: legandosi al recettore per il progesterone, il farmaco impedisce il legame di quest’ultimo, inibendone l’aumento dell’ormone luteinizzante e impedendo la preparazione della parete uterina all’accoglimento dell’ovulo fecondato. Il ritardo dell’ovulazione fa sì che il rilascio dell’ovulo avvenga quando gli spermatozoi presenti non sono più vitali.

La pillola del giorno dopo interrompe una gravidanza in corso? È un contraccettivo di emergenza e, dato il suo meccanismo farmacologico di azione, non può fare effetto su una gravidanza già in corso. La pillola del giorno dopo non deve essere confusa con la Mifepristone, farmaco utilizzato per l’interruzione volontaria di gravidanza, noto come RU-486, dal quale si differenzia per principi attivi, tempi di assunzione e meccanismi di azione. La pillola abortiva induce l’aborto somministrando mifepristone, mentre la pillola del giorno dopo è considerata (dai più) un contraccettivo orale.

            www.doveecomemicuro.it/notizie/approfondimenti/pillola-giorno-dopo

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ABUSI

Bambini maltrattati. “Intercettare campanelli d’allarme e intervenire tempestivamente”

            In Italia, i bambini e ragazzi privi di cure familiari sono quasi 27mila: oltre 14mila in affidamento, 12.600 nei servizi residenziali per minorenni. Tra questi, la trascuratezza materiale e/o educativo-affettiva è causa dell’allontanamento da casa nel 47% dei casi, seguita dalla violenza assistita dentro le mura domestiche (19%). I minorenni in carico ai servizi sociali perché vittime di maltrattamento sono più di 91.200. Questi i dati diffusi di recente da Sos Villaggi dei bambini, ma il lockdown causato dal Coronavirus, con la reclusione forzata in casa, spesso in pochi metri quadrati, di intere famiglie, ha esasperato le tensioni innescando ulteriore aggressività e violenza, in particolare contro donne e bambini. Paola De Rose, neuropsichiatra all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, si occupa di minori maltrattati a vario titolo. “Vediamo vittime di violenza domestica: fisica, verbale e psicologica ai danni delle mamme e spesso anche dei loro bambini: spettatori di abusi o vittime loro stessi”, racconta al Sir. Secondo l’esperta, al di là dell’emergenza Covid-19 in corso che ha acuito la drammaticità del fenomeno, i dati disponibili sono sottostimati perché “in Italia non viene purtroppo attuato un monitoraggio sistematico da parte di organi istituzionali. Per questo – dice – stiamo cercando di collegarci tra ospedali, almeno per segnalare i casi più gravi e poter avere un registro, ma non è facile avere numeri certi”.

            Perché?

Molti atti di violenza non vengono alla luce perché le mamme tendono a coprire le situazioni familiari. Si tratta spesso di donne sotto ricatto, vittime di abusi domestici.

            I responsabili sono solo e sempre figure maschili?

No. In minima parte anche le mamme, ma più che di maltrattamenti si tratta di trascuratezza, di negligenza nei confronti del bambino e dei suoi bisogni, mancanza di protezione e cure. Anche questa una forma di abuso. In alcuni casi questi bambini vengono messi in case famiglia con le mamme, ma talvolta esse se ne vanno e li abbandonano. Noi seguiamo anche vittime di suicidio materno, gesto con fortissimo impatto sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale di un figlio, diverso in ogni età. Secondo lo stadio di sviluppo del cervello le reazioni e le cicatrici cambiano.

            Che cosa accade nei più piccoli?

Un bimbo in età prescolare manifesta un disturbo della regolazione emozionale perché gli manca il “contenitore” di questa regolazione costituito dal genitore che non c’è o non assolve questo ruolo. Spesso le mamme vittime di violenze sono le prime a non avere una buona regolazione emozionale. Per questo ci troviamo di fronte bambini iperattivi, instabili, difficili da gestire. Fino a 5/6 anni prevalgono i sintomi comportamentali.

E poi?

In età scolare maturano le funzioni cognitive e i bambini cominciano a ragionare e a dare dei significati. Alla disregolazione emotiva si aggiungono modelli diseducativi-disadattivi su come costruire le relazioni; così iniziano a svilupparsi disturbi psicopatologici anzitutto internalizzati: ansia e disturbo dell’umore, vergogna e senso di colpa legati all’immagine di sé.

            Perché vergogna e senso di colpa per situazioni di cui non sono responsabili?

Il cervello di un bambino non può concepire il fatto che il padre lo picchi o che la madre si uccida, e cercando un motivo tende ad attribuirlo a se stesso: “Sono cattivo, me lo merito, c’è in me qualcosa che non va. Papà e mamma hanno ragione, è colpa mia”. In questo modo il figlio si costruisce un’immagine di sé inadeguata.

            E arriviamo allo tsunami dell’adolescenza.

A quest’età possiamo assistere a patologie nelle relazioni interpersonali, con gli amici e nei rapporti affettivi, fino a diventare disturbi di personalità, la forma più frequente che consiste in un malfunzionamento della capacità di adattarsi alle situazioni esterne e all’immagine di sé. Si tratta di ragazzi con un’immagine di sé molto labile, che possono avere grosse difficoltà a mantenere relazioni amicali, tendenti alla svalutazione dell’altro e con sintomi paranoidi. Ma non è detto vada sempre così: nel corso della vita ci possono essere anche incontri positivi in grado di supplire alle figure mancanti, e possono intervenire risorse e capacità cognitive di elaborazione capaci di favorire la regolazione della personalità.

In che cosa consiste il vostro intervento?

Occorre anzitutto intercettare i casi, anche quelli più nascosti. Non tutti i genitori ci raccontano ciò che succede, le mamme spesso hanno paura e non parlano, ma un bravo pediatra, l’insegnante, lo psicologo della scuola devono fare attenzione a segnali comportamentali che possono essere campanelli d’allarme da non sottovalutare. Per questo noi teniamo corsi di formazione per pediatri, insegnanti e psicologi scolastici. Una volta arrivata la segnalazione, inizia il percorso di sicurezza per il bambino e la mamma. Molti vengono trasferiti nei centri antiviolenza perché la prima cosa è metterli in sicurezza nelle case rifugio. Il secondo passo è lavorare sulla regolazione emozionale: sulla mamma, sui figli, e sulla relazione mamma-figlio. Si tratta di ricostruire, di ricucire.

            Ci si riesce?

Sì, se c’è un bel lavoro in rete – strutture che mettono in sicurezza, una scuola che aiuta – e laddove non c’è un disturbo di tipo patologico nella mamma, perché disturbi dell’umore e della personalità nella mamma disturbano il percorso. L’esito positivo è più frequente di fronte ad un buon livello cognitivo del bambino e quando queste situazioni vengono intercettate tempestivamente. Troppe donne vivono nella paura di denunciare, subiscono abusi per anni e decidono di parlare solo quando la violenza minaccia i loro bambini. Allora corrono ai ripari, anche se poi assistiamo, come racconta la cronaca, al femminicidio di donne che hanno sporto anche 10-12 denunce alle quali non è però stato dato seguito.

            Le donne denunciano se si sentono protette dallo Stato.

Certo; in molti casi è questo è l’anello mancante che le trattiene. Occorre prevenire e contrastare la violenza sulle donne e sui minori – violenza assistita o subita – incentivando campagne informative sull’importanza di denunciare subito, ma al tempo stesso è urgente rafforzare la rete dei centri di primo soccorso e dei centri antiviolenza. Bisogna mettere in piedi una sicurezza vera anche sbloccando rapidamente i fondi per i centri antiviolenza. E infine – insisto – intervenire precocemente sulla disregolazione emozionale dei bambini maltrattati o trascurati. Chi ha subito violenza rischia di diventare un adulto e un genitore maltrattante, autore di violenza verso gli altri all’interno delle relazioni affettive e familiari. Per questo, lavorare su un bambino significa fare prevenzione e lavorare anche sulla sua futura famiglia e sui suoi figli.

Giovanna Pasqualin Traversa Agenzia SIR   26 maggio 20

www.agensir.it/italia/2020/05/26/bambini-maltrattati-de-rose-neuropsichiatra-infantile-intercettare-campanelli-dallarme-e-intervenire-tempestivamente

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Convenzione ONU sull’Infanzia: approvata in Italia 29 anni fa. Ma i diritti dei bambini sono cresciuti?

Secondo il Gruppo CRC (Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza) c’è ancora tanto da fare. Ad iniziare dalla “Banca dati dei minori adottabili” per dare finalmente una identità a migliaia di “bambini del limbo”.

            Il 27 maggio 2020 si è celebrato il 29esimo anniversario della ratifica, da parte dell’Italia, della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, con la Legge 176 del 1991. In tale occasione il Gruppo CRC, network che proprio quest’anno compie 20 anni di attività, composto da 100 associazioni che da tempo si occupano attivamente della promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, tra cui Ai.Bi. – Amici dei Bambini, ha scritto una lettera ai Presidenti di Camera e Senato per sollecitare la nomina, anche in virtù delle criticità emerse con l’emergenza Coronavirus, di un nuovo Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, dato che l’attuale, la dottoressa Filomena Albano, è in uscita.

Convenzione ONU Diritti Infanzia: il Coronavirus ha messo in evidenza il ruolo di presidio degli Istituti di garanzia. “Le associazioni – spiega il Gruppo CRC in una nota – auspicano che venga dato assoluto rilievo alle caratteristiche di notoria indipendenza, indiscussa moralità e di specifiche e comprovate professionalità, competenza ed esperienza nel campo dei diritti delle persone di minore età, come previsto dalla legge istitutiva”. Nella lettera è stato inoltre evidenziato che il Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nelle sue ultime Osservazioni conclusive ha raccomandato al nostro Paese di assicurare piena indipendenza ed autonomia all’Autorità garante e di dotarla delle risorse necessarie per una piena efficacia delle sue funzioni.

            “Il diffondersi della pandemia Coronavirus in Italia – si legge ancora nella lettera – non ha fatto che mettere ancor più in evidenza l’importanza del ruolo di presidio dei diritti umani che gli Istituti di garanzia, come l’Autorità garante per i diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, sono chiamati a svolgere, specie rispetto alle fasce della popolazione più vulnerabili. Preoccupa in questo senso il rischio di un forte arretramento culturale, perché i bambini/e e i ragazzi/e non sono stati considerati come persone, ma via via come ‘figli’, ‘alunni’ o come possibili fonti di contagio, senza una visione d’insieme e quindi senza pianificare un’azione strategica per l’infanzia e l’adolescenza. Il ruolo dell’Autorità Garante ha un preciso impegno rispetto alla diffusione della cultura dell’infanzia e dell’adolescenza finalizzata al riconoscimento dei minori come soggetti titolari di diritti”.

Diritti dell’Infanzia: le criticità in termine di adozioni sollevate nel 2017. Per quanto riguarda il settore delle adozioni e dell’affido, è utile ricordare la relazione del garante Filomena Albano del marzo 2017 nell’ambito della “Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido”, allorché la garante stessa sollevò “l’attenzione, da un lato, sulla necessità di garantire più incisive forme di sostegno alle famiglie, tanto nella fase antecedente, quanto in quella successiva all’adozione, specie in riferimento all’adozione internazionale, dall’altro, relativamente alla Banca dati dei minori adottabili, sull’esigenza che tale strumento sia avviato il più rapidamente possibile, allo scopo di agevolare e rendere più veloce l’abbinamento tra il minore e la famiglia disponibile all’adozione, specie in relazione ai minori con ‘special needs’, vale a dire adolescenti in una fascia d’età ormai elevata o bambini con particolari patologie”. Ancora oggi sono temi che attendono risposte chiare

AiBinews 28 maggio 2020

https://www.aibi.it/ita/convenzione-onu-sullinfanzia-approvata-in-italia-ben-29-anni-fa-ma-i-diritti-dei-bambini-sono-cresciuti

Tribunale per i Minorenni accoglie indicazioni razziste della coppia: aspiranti genitori dichiarati idonei

Se l’Adozione Internazionale non viene ancora percepita come una scelta di accoglienza, ma come fonte di bambini per coppie senza figli. Un Tribunale per i Minorenni può accogliere indicazioni razziste da parte di una coppia di aspiranti genitori, dichiarandoli idonei alla Adozione internazionale? Purtroppo, anche nel 2020, tutto questo è possibile. Eppure sembrava chiarito una volta per tutte che l’adozione internazionale fosse uno strumento di solidarietà per dare una famiglia a bambini e ragazzi stranieri che ne sono privi e non viceversa un mezzo per fornire bambini in base alla scelta arbitraria di coppie senza figli. Sembrava ormai chiaro, perché riconosciuto da leggi nazionali e internazionali, che il razzismo è un reato.

            Sembrava infine chiarito per sempre, in particolare con la sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite n. 13332/1 giugno 2010, che dinanzi a eventuali dichiarazioni di aspiranti genitori adottivi che esprimessero preferenze sui bambini da accogliere, focalizzate in particolare sulla razza, i giudici minorili competenti avrebbero dovuto trarre argomenti per capire di essere dinanzi a una coppia in realtà non idonea, perché l’adozione internazionale comporta grosse sfide di adattamento e il superamento di una serie di traumi affettivi dell’adottato. Tutto ciò che una famiglia che non sia pronta alle difficoltà legate alla interculturalità o alla gestione di situazioni di sofferenza non sarebbe in grado di affrontare.

www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwj74Mn2p_npAhXNVBUIHWbrC_UQFjAAegQIAhAB&url=http%3A%2F%2Fwww.tribmin.reggiocalabria.giustizia.it%2Fdoc%2FGIURISPRUDENZA%2FSez.%2520U%2C%2520Sentenza%2520n.%252013332%2520del%252001-06-2010_1.pdf&usg=AOvVaw03_7Lc9_eMEQtco3WEbAMv

Invece, evidentemente, ci troviamo ancora al punto di partenza se il Tribunale per i Minorenni di Catania, si è trovato solo pochi mesi fa a pronunciare ancora una volta l’idoneità di una coppia disponibile esplicitando che “la coppia ha negato la disponibilità all’accoglienza di minori che presentino ‘tratti somatici e colore della pelle non tipicamente europei’, argomentando il proprio rifiuto con motivazioni che attengono alla ristrettezza dell’ambiente in cui essi dimorano, che implicherebbe un disagio del minore di colore rispetto alla necessità di difendersi da pregiudizi razzisti di molti concittadini che questi coniugi, molto semplici e con un bagaglio culturale ridotto, avrebbero difficoltà a fronteggiare, per come dagli stessi ammesso e spiegato”.

            Ora, la cosa che appare grave in questo caso, oltre al solito meccanismo noto che attraverso il Tribunale per i Minorenni di fatto la Pubblica Amministrazione italiana fa propria la dichiarazione di razzismo espressa dalla coppia rendendosi a propria volta responsabile di tale comportamento, è che per altri versi il Tribunale per i Minorenni medesimo avrebbe dovuto riconoscere che la coppia in realtà non era idonea, perché le caratteristiche di cui parla l’articolo 29 bis della legge 184/4 maggio 1983 (e che i giudici dovrebbero inserire nel decreto) non dovrebbero essere riferite ai bambini da adottare ma alla coppia, e cioè alle caratteristiche che la stessa coppia presenta rispetto ad una particolare accoglienza eventualmente sopra la norma. In questo senso il decreto appare ancora più sorprendente perché il tribunale ha specificato che la coppia avrebbe manifestato “consapevolezza dei problemi che tipicamente il minore adottato presenta o può presentare (anche deficit di vario tipo…”, il che lascia intendere che l’unica riserva presente e accolta dai giudici è stata quella specificamente rivolta alla razza e al colore della pelle.

www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

Inoltre a questa coppia è stata riconosciuta la possibilità di adottare anche in espressa violazione dell’art. 6 comma 2 della legge sull’adozione, sui limiti di età, perché non c’è alcuna motivazione a sostegno dell’indicazione della fascia di età da 0 a 7 anni, allorché i due coniugi, di anni 44 e 49 al momento del decreto, potrebbero adottare per legge un minorenne senza alcun limite massimo di età! Anche in questo caso, la limitazione inserita nel decreto non è certo inserita a vantaggio dei bambini in attesa di famiglia.

L’Adozione Internazionale, insomma, continua a essere vista come fonte di figli e non come fonte di genitori. E questa visione a questo punto non può più dirsi delle sole coppie desiderose di figli (il che potrebbe non meravigliare). Sono invece a ben vedere gli stessi operatori della legge a continuare ad applicare in maniera errata sia la stessa legge dell’adozione che le autorevoli indicazioni della Suprema Corte con ciò evidentemente trascurando l’interesse dei bambini che dovrebbe essere il centro assoluto di questa materia ma che ancora, con evidenza, non lo è pienamente.

            Questa è la più amara presa d’atto, soprattutto se si considera la data di deposito del decreto: a novembre 2019 la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza compiva trent’anni. E proprio oggi, 27 maggio 2020 cade invece il “compleanno” della legge 176 del 1991 con cui l’Italia ha ratificato la medesima Convenzione.

            Date, ricorrenze, anniversari, certo. Ma, evidentemente, di strada da fare per rendere giustizia ai bambini e ragazzi abbandonati ce n’è ancora tanta…

AIBInews  27 maggio 2020

www.aibi.it/ita/tribunale-per-i-minorenni-accoglie-indicazioni-razziste-della-coppia-aspiranti-genitori-dichiarati-idonei

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AFFIDO CONDIVISO

Affidamento figli: non si può prescindere dalla bigenitorialità

Corte di Cassazione, Prima Sezione civile, ordinanza n. 9143, 19 maggio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38643_1.pdf

La Cassazione ricorda che nel disporre l’affidamento dei figli il principio della bigenitorialità garantisce al minore una salda relazione affettiva con entrambi i genitori. La Cassazione rigetta il ricorso di una madre, protagonista di un rapporto conflittuale con l’ex compagno, nei confronti del quale pendono procedimenti penali per condotte violente perpetrate nei suoi confronti. Da qui la chiusura della donna a percorsi di mediazione o terapeutici individuali per risolvere il conflitto con l’uomo, liberarsi dalla dipendenza con il figlio e garantire il recupero del rapporto di quest’ultimo con il padre. In sede di merito viene disposta la collocazione del padre e del minore presso una comunità educativa. La donna però si oppone e ricorre in Cassazione, ma questa, nel rigettarne il ricorso, riafferma l’importanza del principio di bigenitorialità, che garantisce alla prole un rapporto affettivo stabile con entrambi i genitori.

Padre agisce in giudizio perché vuole un rapporto con il figlio. Un padre naturale ricorre in Tribunale chiedendo di togliere il figlio alla sua ex compagna e di disporre una disciplina di dettaglio dell’affidamento del minore, per esercitare i suoi diritti di genitore. La ex compagna però si oppone alla domanda, facendo presente che il figlio non vuole una relazione con il padre perché è stato testimone di numerosi episodi di violenza nei suoi confronti. Il Tribunale però dispone il collocamento del minore presso una comunità educativa assieme al padre. La madre a questo punto propone reclamo alla Corte d’Appello, che però lo rigetta.

Collocazione del minore e del padre in una comunità educativa. Il giudice dell’impugnazione fa presente che qualche anno prima il Tribunale dei minori aveva disposto l’affidamento del bambino ai servizi sociali del Comune e l’avvio dei genitori a un percorso di mediazione, che però non ha avuto alcun seguito, così come sono rimasti ineseguiti i provvedimenti adottati in sede di reclamo verso la decisione con cui il Tribunale aveva disciplinato il diritto di visita. Dalla relazione di primo grado del CTU è emersa la difficoltà da parte del minore di accettare la separazione dei genitori, la necessità di coinvolgere un neuropsichiatra infantile e di avviare i genitori a percorsi psicologici separati per consentire alla madre di liberarsi dal rapporto di dipendenza con il figlio e al padre di sviluppare una maggiore capacità di comprensione e di gestione dei propri vissuti emotivi. Dalle relazioni degli esperti è emersa inoltre la difficoltà del minore ad interagire con il padre a causa del condizionamento materno e l’irrilevanza delle condotte dell’uomo, nei confronti del quale pendevano procedimenti penali non ancora giunti a sentenza. Ridimensionato l’infortunio subito dal bambino mentre si trovava dai nonni, ricondotto a cause accidentali ed esclusi i danni subiti dal minore a causa della condotta violenta del padre nei confronti della madre. La convivenza della coppia si è infatti interrotta a distanza di pochi mesi dalla nascita del figlio.

            Non è necessaria una nuova CTU, perché gli operatori delle varie strutture socio sanitarie coinvolte hanno evidenziato la necessità di favorire il rapporto padre figlio e la chiusura della donna a un progetto di mediazione e recupero della genitorialità a causa dei propri sentimenti di rifiuto verso l’ex compagno. Lo strumento del regime residenziale è l’unico utilizzabile per ricucire i rapporti padre e figlio.

Omessa valutazione violenza ai fini dell’affidamento. La madre agisce in sede di Cassazione sollevando tre motivi di doglianza.

  1. Con il primo censura il decreto impugnato, nella parte in cui non da rilevanza alle condotte penali dell’ex compagno, in quanto la presunzione di innocenza non fa prova in sede civile.
  2. Con il secondo denuncia la mancata valutazione delle soluzioni alternative possibili e delle risultanze probatorie emerse in primo grado, che hanno escluso la condotta ostruzionistica della donna.
  3. Con il terzo denuncia l’omessa considerazione degli episodi di violenza che l’ex compagno ha perpetrato nei suoi confronti che invece, secondo quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul, devono essere presi in considerazione ai fini dell’affidamento.

Nei provvedimenti relativi ai figli non si può prescindere dalla bigenitorialità.

La Cassazione rigetta il ricorso. Per la Corte è infondato il primo motivo del ricorso perché il giudizio civile, anche se riguarda il riconoscimento di un diritto che dipende dall’esito di un procedimento penale, procede su un binario autonomo e in ogni caso il giudice non ne è vincolato, perché libero di sottoporne le risultanze a un suo vaglio critico.

            Inammissibile il secondo motivo in quanto “In tema di provvedimento riguardanti i figli, questa Corte, nel confermare il ruolo fondamentale dell’interesse del minore, quale criterio esclusivo di orientamento delle scelte affidate al giudice, ha ripetutamente precisato che il giudizio prognostico da compiere in ordine alla capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione non può in ogni caso prescindere dal rispetto del principio della bigenitorialità, nel senso che, pur dovendosi tenere conto del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché della loro personalità, delle consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che ciascuno di essi è in grado di offrire al minore, non può trascurarsi l’esigenza di assicurare una comune presenza dei genitori nell’esistenza del figlio, in quanto idonea a garantire a quest’ultimo una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, e a consentire agli stessi di adempiere il comune dovere di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del minore.”

            Infondato anche il terzo motivo perché il provvedimento che dispone il collocamento del minore presso una comunità educativa con il padre è il risultato delle valutazioni degli esperti, che hanno escluso l’affidamento del bambino direttamente all’uomo, proprio alla luce degli episodi di violenza denunciati dalla ex compagna, che sono stati solo ridimensionati, non sottovalutati.

Annamaria Villafrate Studio Cataldi 27 maggio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/38643-affidamento-figli-non-si-puo-prescindere-dalla-bigenitorialita.

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ASSISTENTI SOCIALI

Assistenti sociali: ultime sentenze

  1. Lo stato di adottabilità del minore. Nella disciplina dell’adozione di cui alla L. 4 maggio 1983 n.184 lo stato di adottabilità può essere pronunciato anche sulla sola base delle informazioni rese dai servizi sociali, stante il carattere sommario e la natura camerale del procedimento; tuttavia nel successivo giudizio di opposizione i genitori hanno diritto di offrire prove contrarie, che non possono essere rifiutate solo perché non idonee a smentire specifici episodi riferiti dagli assistenti sociali, senza che peraltro possa attribuirsi valore decisivo alla eventuale scelta effettuata dal minore. Cassazione civile sez. I, 23/04/1990, n.3369.
  2. Assistenti sociali: abilitazione professionale. È manifestamente inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto privo di forza di legge, la q.l.c. [questione di legittimità costituzionale] dell’art. 5 comma 1 D.P.R. 15 gennaio 1987 n. 14, modificato dall’art. 3 comma 1 D.P.R. 5 luglio 1989 n. 280, nella parte in cui fissa alle scuole dirette a fini speciali universitarie per assistenti sociali un termine perentorio di 3 anni (successivamente prorogato di un anno) per la valutazione dei titoli degli aspiranti all’abilitazione professionale, in riferimento agli art. 3 e 97 cost. Corte Costituzionale, 23/12/1997, n.436.
  3. Convalida del titolo di studio di assistente sociale. Ai fini dell’ammissione all’esame per la convalida del titolo di studio di assistente sociale, in applicazione del d.P.R. 15 gennaio 1987 n. 14, recante disposizioni regolamentari sul valore abilitante del diploma di assistente sociale, in attuazione dell’art. 9 d.P.R. 10 marzo 1982 n. 162, non può richiedersi l’esibizione del diploma di maturità conseguito a compimento del corso di scuola secondaria superiore, in quanto trattasi di requisito estraneo alla disciplina derivante da fonte primaria, non previsto inoltre per l’assunzione a pubblici impieghi degli assistenti sociali già diplomati anteriormente all’introduzione del citato regolamento. Consiglio di Stato sez. VI, 01/03/1996, n.288.
  4. Relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi. Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi, ancorché non asseverate da giuramento, costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il proprio convincimento e la cui valutazione non comporta violazione del diritto di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi, nel successivo giudizio di impugnazione della dichiarazione di adottabilità (e già in precedenza nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità), hanno diritto di prendere cognizione delle relazioni, nonché di controdedurre e di offrire prova contraria. Cassazione civile sez. I, 23/01/2019, n.1883.
  5. Discrezionalità del giudice nella scelta degli organi di cui avvalersi. Nel procedimento volto alla dichiarazione dello stato di adottabilità, la scelta degli organi per il compimento degli accertamenti, di cui all’art. 10 della legge n. 184 del 1983, appartiene alla discrezionalità del giudice procedente, senza che l’affidamento delle indagini al servizio sociale del comune di cui è organo il sindaco, nominato tutore provvisorio del minore, possa inficiarne le risultanze atteso che il servizio sociale, trovandosi sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, è sottratto al potere gerarchico dell’autorità comunale. Né, ove sia stato nominato anche un curatore speciale del minore, è configurabile la possibilità per il sindaco, nella sua qualità di tutore provvisorio, di influire sulle scelte inerenti la conduzione del processo, sicché è priva di rilievo l’occasionale delega alla partecipazione alle udienze conferita ad alcuno degli assistenti sociali del comune. Cassazione civile sez. I, 22/09/2015, n.18689
  6. Relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi: valore probatorio. Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologi, ancorché non asseverate da giuramento, costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui valutazione non comporta violazione dei diritti di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi, nel successivo giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, hanno il diritto di prendere cognizione di dette relazioni, nonché di controdedurre e di offrire prova contraria. Cassazione civile sez. VI, 08/01/2013, n.232.
  7. Diniego di iscrizione all’Albo degli assistenti sociali specialistici. Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia derivante ad oggetto il diniego di iscrizione all’Albo degli assistenti sociali specialistici opposto dal Consiglio regionale dell’Ordine degli assistenti sociali. T.A.R. Bari, (Puglia) sez. II, 09/12/2002, n.5585.
  8. 8.       Procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore. Nel procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore le relazioni degli assistenti sociali e degli psicologhi, ancorché non asseverate da giuramento, costituiscono, nel quadro dei rapporti informativi, degli accertamenti e delle indagini da compiere in via sommaria e secondo il rito camerale, indizi sui quali il giudice può fondare il suo convincimento e la cui valutazione non comporta violazione dei diritti di difesa dei genitori, atteso che questi ultimi, nel successivo giudizio di opposizione alla dichiarazione di adottabilità, hanno il diritto di prendere cognizione di dette relazioni, nonché di controdedurre e di offrire prova contraria. Cassazione civile sez. I, 26/06/1990, n.6494

Redazione       La legge per tutti        27 maggio 2020

www.laleggepertutti.it/389226_assistenti-sociali-ultime-sentenze

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 21, 27 maggio 2020

Cina/Stati Uniti. Inno alla vita. Una storia di abbandono, di accoglienza e di speranza. Dalla rivista on line Puntofamiglia l’incredibile storia di KATI, abbandonata alla nascita in Cina per ragioni di povertà e di politica del figlio unico, che ritrova i suoi genitori naturali dopo 22 anni. “Nel 1995 Qian Fenxiang e Xu Lida, giovani sposi, hanno già un figlio quando scoprono di essere nuovamente in attesa. L’istintiva gioia si spegne subito perché in quel periodo la politica governativa imponeva rigorosamente a tutte le famiglie di avere un solo figlio. Uno solo. […] I genitori non ebbero il coraggio di uccidere quel bambino. […] Passano cinque giorni, la giovane mamma con la morte nel cuore si reca al mercato ortofrutticolo coperto e lì abbandona la neonata, con un biglietto legato ad una mano. “Questa è nostra figlia, è nata alle 10,00 del mattino del ventiquattresimo giorno del settimo mese del calendario lunare 1995. Siamo stati costretti dalla povertà e dagli affari del mondo ad abbandonarla, pietà dei cuori di padri e madri, lontani e vicini. Grazie per avere salvato la nostra piccola figlia e averla affidata alle vostre cure. Se i cieli hanno sentimenti, se siamo uniti dal destino, allora ci ritroveremo sul Ponte Rotto a Hangzhou, la mattina dell’inaugurazione del Festival di Qixi, tra 10 o 20 anni, da oggi”. Il lieto fine.

https://www.puntofamiglia.net/puntofamiglia/2020/05/11/la-vita-non-si-butta-storia-di-una-bambina-abbandonata-e-amata/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=la_vita_non_si_butta_storia_di_una_bambina_abbandonata_e_amata_la_settimana_di_punto_famiglia_n_256_2020&utm_term=Newsletter%202020-05-24

Una domanda sul decreto rilancio: Come si può parlare di rilancio e dimenticarsi le famiglie? Qualche ulteriore riflessione del direttore Cisf (Francesco Belletti). “[…] Il decreto Rilancio mette in moto molte risorse, e per qualche settore forse ci si potrà fare affidamento, per poter entrare nella Fase 2 con più decisione, progettualità e speranza. Ma per le famiglie la situazione è diametralmente opposta: si è potuta tollerare una Fase 1 discontinua e sconnessa, perché si era davvero in emergenza piena, ma ora, dopo oltre due  mesi di lockdown familiare, per le famiglie si deve proprio parlare di “Fase Meno 2”: anziché migliorare gli interventi e la loro logica, si è tornati indietro, alla marginalità delle politiche familiari, è tornato evidente che la politica di famiglia sa parlare, a volte anche molto bene, ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, le priorità sono altre, e alle famiglie rimangono le briciole […]”. Speriamo nella possibilità di radicali cambiamenti di rotta, in sede di dibattito parlamentare.

www.ilsussidiario.net/news/una-domanda-sul-decreto-come-si-puo-parlare-di-rilancio-e-dimenticarsi-le-famiglie/2022709

Emergenza coronavirus

  • Decreto Rilancio troppo timido sui bisogni di bambini, adolescenti e delle loro famiglie. Così si esprime anche l’Alleanza per l’Infanzia   www.alleanzainfanzia.it    pur riconoscendo alcuni segnali positivi, rileva l’assenza di scelte coraggiose di cui ci sarebbe un gran bisogno: 7 punti specifici.

www.secondowelfare.it/povert-e-inclusione/decreto-rilancio-troppo-timido-sui-bisogni-di-bambini-adolescenti-e-delle-loro-famiglie.html

  • Italia. Emergenza pandemia e divisione di compiti tra uomini e donne. “Il lockdown ha cambiato qualcosa nella divisione del lavoro domestico, e nella divisione dei compiti tra uomini e donne (tradizionalmente a sfavore di quest’ultime) all’interno delle famiglie? Una recentissima indagine, che ha messo a confronto i dati raccolti in aprile 2019 e poi nel maggio 2020 su un campione di 1.250 donne, rappresentativo di tutte le donne occupate italiane, ci restituisce un quadro poco confortante: sono sempre le donne a sostenere il carico maggiore”.

www.lavoce.info/archives/66645/prima-durante-e-dopo-covid-19-disuguaglianza-in-famiglia

  • USA/Australia. Come il coronavirus ha cambiato i ruoli nella famiglia (How coronavirus has changed the roles in the family home). “La famosa autrice del libro “Lean In“, Sheryl Sandberg, ha fatto riferimento agli “stra-straordinari” che alcune donne stanno affrontando. L’ultima indagine ABC/Vox Pop Labs, che ha monitorato l’impatto del virus sulla comunità, mostra quanto le donne stiano svolgendo un carico di lavoro di molto superiore a quello ordinario. Secondo un sondaggio del New York Times, l’80% delle donne si sta assumendo la responsabilità dell’istruzione a casa. Solo il 3% delle donne ha detto che gli uomini fanno di più”. Nel corso di quest’anno, l’Australian Bureau of Statistics lancerà un sistema di agenda elettronica per raccogliere i dati per il tanto atteso ritorno del “Time Use Survey”, il sondaggio sull’uso del tempo, da cui già oggi emerge il permanere di un notevole sovraccarico di compiti domestici sulle donne, oltre ad una loro maggiore presenza nel lavoro a tempo parziale.

www.abc.net.au/news/2020-05-13/coronavirus-has-changed-roles-in-family-home/12239542

Family international monitor. È un’indagine internazionale sulla famiglia, promossa (dal 2018) da Cisf, Università Cattolica San Antonio di Murcia e il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. Per essere informato iscriversi alla Newsletter “Inside Families”. Presente anche su Twitter e Facebook.                                www.familymonitor.net

v  Kenya. Piani nazionali a sostegno della famiglia e progetti mirati. Nel 2013 il Governo del Kenya in un documento su Valori Nazionali e Principi di Governo (Sessional Paper No. 8-2013 on National Values and Principles of Governance) ha riconosciuto esplicitamente la famiglia come “cellula naturale e fondamentale della società, e istituzione primaria per la socializzazione” (“Kenya recognizes the family as the natural and fundamental unit of the society, and a primary institution of socialization”). Su questa base sono stati avviati diversi interventi di politica familiare e di sostegno diretto a famiglie, alle responsabilità genitoriali, alle relazioni familiari nel loro complesso […] tra gli altri si ricorda l’esperienza delle Family Conferencing [www.familygroupconference.org], innovativa metodologia di sostegno sociale alle relazioni e alle responsabilità familiari da parte di operatori professionali.

www.familymonitor.net/post/the-family-and-active-citizienship-in-kenya?utm_campaign=793bf74b-3a91-435e-86bf-06dd96a6411e&utm_source=so&utm_medium=mail&cid=1356a656-a2fb-4131-a1f4-ff63c8419ee5

EESC-CESE. Comitato economico e sociale europeo. Sfide demografiche: l’Europa dovrebbe combinare una pluralità di misure del mercato del lavoro e sociali per arrestare il calo della popolazione e l’aumento delle disuguaglianze. “L’Europa, considerato che la sua popolazione è al minimo storico in percentuale di quella mondiale e dato che un nuovo baby boom è improbabile, deve adottare un approccio globale se vuole invertire il suo declino demografico, favorendo l’occupazione e affidandosi a politiche economiche e sociali che possano ristabilire la fiducia dei suoi cittadini nel futuro”, ha dichiarato il Comitato economico e sociale europeo (CESE) il 7 maggio 2020

www.eesc.europa.eu/it/news-media/press-releases/sfide-demografiche-leuropa-dovrebbe-combinare-una-pluralita-di-misure-del-mercato-del-lavoro-e-sociali-arrestare-il-calo

Social inclusion-rivista on line. Numero monografico: inclusione digitale nel mondo: che cosa si sta facendo per contrastare le disuguaglianze digitali? (Digital Inclusion Across the Globe: What Is Being Done to Tackle Digital Inequities?). Interessante numero monografico di social inclusion (rivista digitale free access) sul tema delle disuguaglianze digitali nel mondo. Il tema è affrontato su dati e riflessioni precedenti alla pandemia, fenomeno cha ha peraltro confermato il potenziale valore positivo delle connessioni digitali, ma anche il possibile loro ruolo di ulteriore approfondimento delle preesistenti disuguaglianze sociali, proprio a causa del digital divide. Tra i vari articoli si segnala un interessante analisi sul rapporto tra capitale sociale e connessioni digitali via smartphone e cellulari, basato sui big data del 2015 in Ruanda

www.cogitatiopress.com/socialinclusion/issue/view/165

L’argomento è strettamente connesso a temi ampiamente affrontati dai Rapporti Cisf: in particolare cfr. l’Ottavo Rapporto Cisf (2003), “Famiglia e capitale sociale nella società italiana”,

http://cisf.famigliacristiana.it/cisf/rapporti-sulla-famiglia/dossierCISF/famiglia-e-capitale-sociale-nella-societa-italiana.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_27_05_2020

e il Rapporto Cisf 2017 (Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali).

Bari. Il favoloso mondo. Un progetto di quartiere per la prima infanzia e la genitorialità. “Il progetto intende realizzare un centro sperimentale per la prima infanzia e la genitorialità all’interno del quartiere San Paolo di Bari, con l’obiettivo di colmare la carenza di servizi e di spazi di aggregazione che caratterizza l’area di intervento. In modo specifico, sarà attivata una sezione sperimentale rivolta a bambini della fascia d’età 0-6 anni, in cui sarà adottata una didattica di ispirazione montessoriana e neo umanista”. Enti promotori: Fondazione Giovanni Paolo II Onlus, Associazione Idee Felicità Contagiosa, Associazione di promozione sociale Un clown per amico, Università degli Studi di Bari Aldo Moro – Dipartimento di Scienze Politiche, Centro di Servizio al Volontariato San Nicola, Cooperativa sociale Marcovaldo Onlus, Cooperativa sociale I bambini di Truffaut. Destinatari 600 bambini della fascia d’età 0-6 anni e le relative famiglie.

https://percorsiconibambini.it/ilfavolosomondo/?fbclid=IwAR3vn-PDwi96Fc3oTTlv9ZATNUnCdPaDNJheT8BJ5vBjfbWwA-0O-Q69vtE

www.facebook.com/centrosperimentaleinfanzia?utm_source=CSV%20NEWSLETTER&utm_campaign=a9ae5a67cd-

ISTAT. Violenza di genere. I dati durante la pandemia. Con le misure di distanziamento sociale e la prescrizione di rimanere a casa, il rischio di violenza esercitato da partner tra le mura domestiche può essere in aumento, come evidenziano tutte le fonti internazionali. Effettivamente, secondo i dati Istat appena pubblicati, anche in Italia l’aumento delle telefonate al 1522 (il numero verde messo a disposizione dal Dipartimento per le Pari Opportunità per aiutare le vittime di violenza di genere e stalking) è elevato. Durante il lockdown, tra il primo marzo e il 16 aprile le telefonate sono state 5.031, il 73% in più sullo stesso periodo del 2019. Le vittime che hanno chiesto aiuto sono 2.013 (+59%). Il 45,3% delle vittime ha paura per la propria incolumità o di morire; nel 93,4% dei casi la violenza si consuma tra le mura domestiche, nel 64,1% si riportano anche casi di violenza assistita

www.istat.it/it/files//2020/05/Stat-today_Chiamate-numero-antiviolenza.pdf

Dalle case editrici

  • Brambilla Giorgia, Riscoprire la bioetica. Capire, formarsi, insegnare, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2020, pp. 484

Negli ultimi anni, la bioetica sembra aver smarrito la sua identità e la sua missione. Eppure, se questa disciplina sembra caduta in disuso, a non perdere vigore e attualità sono gli attentati alla vita umana, quella nascente come quella morente, così come gli attacchi alla procreazione e alla famiglia. Questo libro nasce dal desiderio di recuperare una delle più importanti caratteristiche della bioetica: un sapere di tipo pratico che educa alla realtà e, dunque, alla verità dell’essere umano. È necessario capire perché una certa scelta rispetta o meno il bene della persona umana e la legge morale impressa nella sua natura. Per questo, il libro si rivolge soprattutto a chi è in prima linea nell’ambito educativo, ma anche a chi semplicemente vuole capire più a fondo cosa si cela dietro ai fatti di attualità che toccano la vita umana e si susseguono attorno a lui. L’invito è a una vera e propria “caccia al tesoro”, perché riscoprire la Bioetica significa riscoprire l’inalienabile valore della persona umana, creata a immagine di Dio, l’inviolabilità della sua vita e l’intangibilità del suo corpo.

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CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA

La Sessualità Femminile

La rappresentazione di una grande forza creativa, di un potere sottile, cosmico, misterioso e mutevole della donna conducono a metterla in relazione con la luna, il ciclo di trasformazione continua e creativa diviene simbolo allegorico delle fasi lunari. Si pensi al termine “lunatica”, spesso attribuito alla donna in riferimento agli stati umorali intensi e incontrollabili che la caratterizzano, specialmente nel periodo mestruale. Il pianeta femminile, paragonato alla luna e alle sue fasi, conserva un lato oscuro e mantiene inesplorati e sconosciuti componenti essenziali della femminilità. Secondo Freud la sessualità al femminile restava, e resta ancora oggi, un continente oscuro.

La sessualità ha una natura multidimensionale, include fattori fisiologici e socio-culturali, stile di vita, relazione e legame di coppia, ideale di femminilità e di mascolinità, eros. E’ interessante riflettere sulla differenza a livello storico nello studio del maschile e del femminile, in particolare della sessualità maschile e femminile, quest’ultima è stata sempre meno approfondita e compresa. I modelli socio-culturali femminili sono cambiati nel tempo, la cultura influenza sia l’espressione della sessualità che le disfunzioni sessuali che la relativa cura, pertanto non si può non adottare una visione socio-antropologica.

Il piacere sessuale femminile, così come quello maschile, può essere psicologico o fisico, sotto forma di desiderio, eccitazione e orgasmo; per molto tempo, nella donna e dalla donna, è stato associato alla dimensione affettiva piuttosto che a quella genitale, pertanto il piacere sessuale è una conquista recente della donna. Il corpo femminile non concentra l’attenzione sull’orgasmo in senso stretto, ma su un piacere diffuso. Alcuni autori ritengono che la donna possa essere pienamente soddisfatta della propria sessualità anche senza esperire l’orgasmo, mentre secondo altri l’orgasmo è l’indicatore più efficace del piacere femminile.

La conquista del piacere sessuale passa necessariamente dal suo riconoscimento e dal raggiungimento della consapevolezza di come dare piacere al partner e di come riceverne, conquista che nasce dalla conoscenza di Sé, della propria corporeità, delle fantasie, delle immaginazioni e dei desideri, in una sola parola dalla “conoscenza della propria sessualità”, questa avviene durante l’intero ciclo di vita attraverso la pubertà, in adolescenza infatti la bambina conquista da un punto di vista psicologico la sua corporeità, il suo “essere sessuata”, la sua genialità, l’esperienza dell’eccitazione e dell’attrazione sessuale, un “corpo sessuato, sessuale e fecondo”.

L’appropriazione del corpo tipica della pubertà/adolescenza avviene anche attraverso la masturbazione, proseguendo coi rapporti sessuali, la gravidanza, la menopausa. Il piacere sessuale è stato definito come un diritto dell’essere umano, che richiede un approccio rispettoso della sessualità e delle relazioni sessuali, costituisce un processo che, a partire dalla stimolazione di recettori sensoriali (uditivi, visivi, olfattivi, gustativi, tattili) interpretabili in maniera soggettiva, genera sentimenti e percezioni positive ed eccitanti per la persona.

Maria Cristina Florini, psicologa e psicoterapeuta, presidente CIS.

www.cisonline.net/news/la-sessualita-femminile

 

Il piacere sessuale nelle donne

Come già accennato nel precedente articolo, il piacere sessuale è una conquista recente della donna, può essere psicologico o fisico, sotto forma di desiderio, eccitazione e orgasmo. La sua conquista dipende anche dalla conoscenza che una donna ha acquisito di sé e della sua corporeità. Il grado di piacere esperito dalle donne e conseguentemente il loro livello di coinvolgimento nell’attività erotica dipende in ampia misura dal grado di conoscenza della propria anatomia, dalla presenza di pregiudizi/stereotipi culturali, dalla natura delle attitudini comportamentali verso gli stimoli erotici, dalla percezione del coinvolgimento emotivo del partner e dai livelli di ansia correlati all’attività sessuale.

            Pertanto il piacere sessuale costituisce un costrutto trasversale che può fungere da rinforzo positivo o negativo in qualsiasi fase della risposta sessuale femminile: esso è influenzato da fattori biologici (es. uso di farmaci, salute generale), da variabili contestuali (es. adeguatezza dell’ambiente circostante, relazione con il partner) e da variabili psicologiche (es. immagine di sé, autostima, senso di controllo e di sicurezza, esperienze pregresse).

            Dalla pratica clinica emerge che le donne possono passare da uno stato di eccitazione all’orgasmo senza provare desiderio, così come possono provare forte desiderio ed eccitazione sessuale pur non raggiungendo l’orgasmo, quindi senza sperimentare necessariamente tutte le fasi della risposta sessuale. Il piacere è un percorso che passa dall’accettazione del proprio mondo interno, delle proprie fantasie e desideri sessuali, e dalla percezione del proprio benessere individuale, a sua volta influenzato da elementi relazionali, individuali e fisiologici propri della donna.

            L’apparato genitale femminile è costituito da una parte esterna e da una parte interna e, attraverso la conoscenza dell’apparato genitale esterno, si giunge alla scoperta e al riconoscimento dell’apparato genitale interno (vagina). Le sensazioni piacevoli che accompagnano l’attività sessuale seguono la stimolazione delle zone erogene periferiche e le fantasie, e procedono secondo una progressione soggettiva capace di condurre la donna all’eccitazione e quindi all’orgasmo.

            Nonostante sia sempre più diffuso a livello socio-culturale il diritto delle donne a vivere una sessualità slegata dalla riproduzione e orientata al piacere, nella richiesta d’aiuto le donne tendono a riferire maggiore preoccupazione per l’inabilità affettivo-relazionale, ossia per il fatto di non riuscire più a contrarre legami affettivi, piuttosto che sessuali.

                                               Maria Cristina Florini, psicologa e psicoterapeuta, presidente CIS.

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Ansia da Prestazione: come sconfiggerla

Semmai la nostra attuale civiltà e cultura ipertecnologica dovesse ricevere un nome rispettoso della Psicologia, e perché no, della Sessuologia, non potrebbe essere che questo: “Ansia della Prestazione”. Perché siamo nel tempo dell’Alta Velocità dei movimenti e dei viaggi e più ancora dell’Altissima Velocità delle comunicazioni verbali e audiovisive. Naturalmente tutti questi indubbi vantaggi che scienza e tecnica ci hanno offerto, non possiamo sorprenderci troppo se, hanno anche dei costi. Il primo dei quali, considerato dal punto di vista della Salute Mentale, non può che essere la detta “Ansia da Prestazione”. Con un “Click”, praticamente a costo zero, siamo subito vedenti e visti fin in America, in Russia e in Cina, perciò la naturale attenzione al “che figura sto facendo”, è naturalmente enormemente moltiplicata. Saperlo può aiutarci a esserne meno sorpresi: “tanto è cosa che capita a tutti”, con la sola eccezione dei Neonati e dei Centenari (beati loro!).

Come difendersi? Prenderne coscienza. L’Alta Velocità c’è sempre stata, collegata tuttavia solo a situazioni pericolose o improvvise o inconsuete, per tutto il tempo che il bipede umano disponeva del solo motore delle sue gambe. A quei tempi nessuno si aspettava che i gesti, le parole, i fatti, potessero diventare fulminei. Avevamo il tempo di immaginare, pensare, calcolare, prevedere. Ora non più. Lo stile del dire, pensare e fare, ci appare ricattato da una fretta che dice: “Dai, dai, dai, o tutto o subito, o niente e mai più”. “Sconfiggerla” è praticamente impossibile: ci siamo dentro. Tutti e sempre. Possiamo soltanto, fidando del tempo che passa, nella possibilità di attenuare e gestire l’Ansia, anche tenendo presente che “corri, corri”, non potrai accelerare il tempo della Luna e delle Stelle. Quello è il tempo che continuerà infallibilmente a racchiudere l’umana competenza ad amare, pensare, poetare. Fortunatamente non è dato a nessuno una creatività, un amore, un sogno, ad Alta Velocità.

Lo stesso ragionamento vale per i rapporti sessuali se intrisi, ad Alta Quota di presenza, dell’Ansia! Se, dunque, intrisi di un’Ansia che è solo prestazione ed efficienza. Perché Alta Quota = Alta Velocità. La Sessualità, come tutte le cose preziose della vita, non può essere figlia solo della prestazione e dell’efficienza. Se i rapporti sessuali sono guidati solo da queste ultime si vengono a perdere tutte quelle dimensioni soggettive dell’essere umano – emozioni incluse – che sono determinanti nella sessualità. L’Ansia, la Prestazione e l’Efficienza, dovrebbero dunque essere presenti a Bassa Quota altrimenti predominano su tutto il resto.

Dunque: Bassa Quota = Bassa Velocità = Ansia gestita = Riduzione dei Tempi Eiaculatori.

Altrimenti è matematico che non funzioni!

Giada Mondini, psicologa e psicoterapeuta. Servizio di Sessuologia Clinica, Università di Bologna.

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CHIESA CATTOLICA

Sui limiti di papa Francesco

L’opposizione a papa Francesco è ormai di assoluta evidenza e anche i media hanno abbandonato il tradizionale riserbo sui fatti interni alla Curia romana e le preoccupazioni sanitarie non hanno messo in ombra il lavorio non più nemmeno sotterraneo di screditare papa Francesco. L’immagine della veste bianca nel deserto di piazza san Pietro in una sera scura e bagnata è rimasta impressa come simbolo impressionante della nostra infelice precarietà. Ma è leggibile anche come segnale della solitudine di un papa nella sua chiesa, bisognosa di unità, ma divisa secondo interpretazioni dell’appartenenza cristiana non più limitata alle scuole teologiche, ma affidata ai credenti nell’applicazione del mandato di un Concilio evidentemente ancora scomodo anche se garantito alla presenza dello Spirito.

Il rovesciamento gerarchico dalla gerarchia al popolo di Dio, convalidata dall’autonomia riconosciuta al laicato ha investito e diviso una Gerarchia timorosa della perdita di valore sacrale del dogma e determinata a mantenere il potere e il controllo sulla cristianità. Appare ancora rivelatrice della sua capacità politica la decisione di Giovanni XXIII di dare l’annuncio del Vaticano II prima alla stampa che alla curia: Paolo VI lo guidò a definizione, ma gli oppositori ebbero poi partita vinta sulla libertà di imparare a leggere meglio il Vangelo alla luce della modernità. Infatti il popolo di Dio – come la società civile – cattolico, “naturalmente” plurale, rimasto ignorante nell’approfondimento dei valori, è stato consegnato acriticamente sia a Camillo Ruini sia a qualunque predicatore con il rosario in mano. Stando ai colpi di like sui social in un ipotetico referendum interno non si sa se ai cattolici “piacerebbe” più Woytjla o Bergoglio. A prescindere dal fatto che il papato ha bisogno di inverarsi nell’ elezione di una persona che non deve tanto “piacere”, ma essere seguita per la qualità del magistero, forse in Vaticano la sorpresa dell’omaggio reso da Francesco a Woytjla nella celebrazione per il centenario con l’invito ai poveri di Roma a sedere ai posti d’onore prima dei cardinali e dei diplomatici deve ancora una volta avere lasciato i curiali interdetti.

Anche Sergio Paronetto, presidente del Centro Studi di Pax Christi italiana, denuncia la sottovalutazione della “galassia molto varia contenente posizioni iniziali spesso opposte ma convergenti verso un solo obiettivo: bloccare il papa, sbarazzarsi di lui, screditarlo e, in prospettiva, operare perché non venga eletto un Francesco II”. Anche se la Storia insegna che i poteri forti (e reazionari), come nelle elezioni del 1948 inventarono l’anticomunismo europeo, poi ebbero paura del Concilio e oggi si oppongono a Francesco “che chiede sviluppo sostenibile e giustizia sociale (dando) fastidio a chi è interessato solo ai soldi”, secondo le parole del card. Maradiaga (Repubblica 22.10.2019).

Alcune personalità, pur favorevoli a Francesco, lo danno per sconfitto, spesso esprimendo la propria delusione per le riforme mancate. E’ certamente vero che non ha impugnato le forbici correttive sul “Nuovo” Catechismo di Giovanni Paolo II o sul codice di diritto canonico; né, come donna, posso certo rallegrarmi delle dissolvenze che fanno seguito a sue incoraggianti dichiarazioni e che nemmeno le superiore degli Ordini religiose riescono a bloccare. Tuttavia non credo che un’attenzione realistica alla politica della sempre potente curia romana trovi in Francesco un papa “incerto”: il “felicemente regnante” deve opporsi alle false certezze, anche dottrinali, che lo contestano fino ad accusarlo di eresia. Un domenicano che stimo, Timothy Radcliffe lo definisce “un pastore che cerca”. Se spinge la chiesa all’uscita e condanna a ogni piè sospinto il peccato ecclesiastico del clericalismo, nella metafora dell’estrema solitudine sulla piazza vuota non si vedevano le ombre sospette, ma era sospesa la minaccia di una sfida (che non va assolutamente raccolta) per dividere la chiesa.

E’ tempo, infatti, di pensare al futuro e salvare una chiesa destinata a confermarsi seriamente cristiana. Se invece la chiesa guardasse indietro senza rendere irreversibili i contenuti del Vaticano II – oggi pressoché sconosciuto se gli attuali sessantenni andavano alle elementari quando lo si celebrava – percezione dei segni dei tempi, sarebbe un fallimento, perché mentre la generazione dei cristiani critici era stata allieva dei profeti del Concilio – Chenu, Haering, Congar, Rahner, Schillebeeckx... – e aveva chiara coscienza dei segni dei tempi, un domani, anche in presenza di spiriti magni e coraggiosi, non ci sarebbero più cattolici impegnati: per i giovani (i nostri figli, i nipoti) la religione forse resta un problema, ma non suscita interesse e anche nella società civile percepiscono i valori democratici oscurati da nazionalismi e violenze. Per questo mi sembra che ci sia molto da fare per aiutare il papa da parte di un laicato che, pur reso adulto, è tornato a ricevere passivamente la particola come il bambino. La “chiesa in uscita” è minoritaria: per far uscire le parrocchie sarebbero necessari parrocchiani coraggiosi, a meno che non ci si aspetti che esca il parroco.

Massimo Faggioli, con cui sono quasi sempre d’accordo (e che da anni insegna in una facoltà gesuitica americana), vorrebbe più forte e deciso il contributo di Francesco al rinnovamento: vorrei suggerirgli di rivolgere gli inviti ai rappresentanti della Conferenza episcopale americana, che fu potenza di fuoco contro il Concilio e oggi è posizionata contro Francesco. Il 31 maggio torna la Pentecoste. La discesa dello Spirito Santo arrivò cinquanta giorni dopo la resurrezione, cosa che, detta così, non significa molto, se non si fa memoria dei seguaci di Gesù che se ne stavano chiusi in casa per paura di essere arrestati. L’evento suona la sveglia ai timorosi, che capiranno, affronteranno il martirio e solo così la chiesa avrà storia. I sacrifici odierni che ci riguardano sono di altro genere: non sappiamo quanti assisteranno alla condivisione distanziata di comunità in cui forse qualcuno è scomparso, anche se è sembrato giusto tornare a celebrare dopo il poco cordiale messaggio al governo italiano orientato a mantenere il divieto. Il sacrificio del digiuno eucaristico “per non contagiare il prossimo” non sarebbe stato diverso da quello imposto al nonno che non può abbracciare i nipotini. Comunque la Pentecoste, se ci interroghiamo sul suo senso, ci dice che l’intenzione innovativa proposta dal papa venuto dalla fine del mondo – necessaria, a mio avviso, dopo i 27 anni di pontificato wojtyliano e i 7 del papa Benedetto – aspetta forza dalle nostre mani

 Giancarla Codrignani           cercosolodicapire        21 maggio 2020                     

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CITAZIONI

Che cosa significa laicità per un consultorio familiare di ispirazione cristiana

1. Premessa: la laicità come sfida. Per un consultorio familiare, laicità significa liberta di servire tutti da credenti. Significa servire tutte le famiglie senza dover svestire la propria identita, personale, sociale, religiosa. In Italia esiste una questione laicità perché questa libertà e costantemente messa in discussione.

La questione della laicità consiste nel fatto che lo Stato fa molta difficoltà a riconoscere tale libertà, cioè a permettere che coloro i quali offrono servizi consultoriali a tutti lo possano fare da credenti. Lo può concedere, ma solo se costoro si adattano al suo codice politico. E la politica che, rivendicando un suo (preteso) primato sulla società civile, detta le condizioni etiche ai mondi vitali delle famiglie (questo è la cosiddetta bio-politica).

La libertà, il servizio alle famiglie, la fede religiosa sono elargiti in regime concessorio. Sono concessi ai cittadini, sono octroye (accordati, conferiti, consentiti, distribuiti, prestati), anziché essere riconosciuti come loro diritti originari. Il che modifica e distorce il senso della libertà, il senso del servizio e il suo fondamento religioso.

La laicità diventa, dunque, una sfida per questi diritti originari (naturali), e per tutti i “valori” che essi sottendono (la persona umana) e a cui si riferiscono (le qualità proprie della persona umana e delle sue relazioni).

I valori non sono delle “cose”, tantomeno materiali, ma sono criteri relazionali che decidono (distinguendo) fra ciò che vale (è degno, è un fine e non un mezzo) e ciò che non vale o vale di meno. Ciò che vale è la persona umana. Ciò che ha una minore dignità e può essere usato anche come strumento dall’uomo sono le cose materiali, gli animali, i prodotti della natura fi sica. È essenziale non pensare i valori come fossero delle sostanze in sé, mentre sono invece criteri distintivi di una attribuzione (valorizzazione) che è una relazione di riconoscimento fra un soggetto e ciò che gli importa, gli ultimate concerns, le sue premure fondamentali.

            In Italia, la politica dei consultori familiari, a partire dalla legge 405/1975, ha seguito gli alti e i bassi di uno Stato sociale che, nel campo dei servizi alle famiglie, vorrebbe regolare tutto, mentre non riesce a regolare quasi nulla. Noi oggi siamo confrontati con la necessita di rivedere il cammino che ci ha portati dagli anni ’70 ad una situazione di sostanziale carenza, se non di assenza, di servizi consultoriali alle famiglie. Sin dall’inizio, è stato chiaro che i consultori familiari cosiddetti pubblici sarebbero diventati essenzialmente degli ambulatori medico-sanitari per le problematiche femminili della gravidanza (Donati 1979). Se ciò si è avverato, ciò è avvenuto a causa di una certa concezione e configurazione statalistica dei servizi. Ogni riforma dei consultori, pertanto, dovrà chiarire in quale quadro complessivo e progettuale di Stato sociale verrà fatta, in particolare se in un quadro di neo-interventismo statalistico oppure invece secondo un assetto che io chiamo di benessere societario plurale (Donati a cura di, 1999).

Per rilanciare i consultori occorre affrontare decisamente la questione laicità e l’assetto dei servizi alle famiglie che essa implica. Essere ambigui su questo punto potrebbe significare dare la stura a nuovi processi di laicizzazione dei servizi consultoriali, cioè di ingresso di una nuova ideologia bio-politica nelle relazioni familiari. É urgente chiarire che il carattere laico del consultorio non significa che esso debba omologarsi al codice simbolico della politica, o adottare la dottrina del relativismo culturale, o peggio adeguarsi all’ideologia del laicismo, magari sotto le vesti del multiculturalismo. Su questa strada, dobbiamo lavorare seriamente per dare nuove risposte, razionalmente fondate, alla questione laicità.

Basilare, per la laicità, e il riferimento al diritto naturale come base razionale comune a tutti gli esseri umani (Benedetto XVI 2006). Ma oggi non e più sufficiente (anche se necessario) appellarsi al diritto naturale, perché tutto il panorama dell’umano che viene sconvolto. Si tratta di elaborare un nuovo diritto alla natura, oltre il diritto naturale classico, come tutela e promozione di ciò che vi è di più degno nell’umanità delle persone e delle relazioni familiari. Ciò richiede un ampliamento della ragione, cioè l’adozione di quella che io chiamo la ragione relazionale.

La laicità è quella tensione fra ragione e fede che le distingue senza separarle nel tentativo di comprendere il senso ultimo delle cose, la cosa stessa, come direbbe Aristotele. Questa tensione ha avuto nel corso della storia molti e differenti modi di essere intesa e praticata. Noi oggi abbiamo bisogno di andare oltre le concezioni antiche e moderne della laicità per acquisire nuovi significati, che ci consentano di ri-conoscere (cioè conoscere di nuovo, con una nuova luce riflessiva) la famiglia (Donati 2007). Prospetterò il senso di quella che chiamo l’esigenza di una laicità dopo-moderna. Una laicità che non significa il ritorno ad un mondo premoderno di lotta fra identità diverse, né gioco degli interessi contro le identita, ma articolazione dei conflitti di identità e di interesse con la riflessività della ragione relazionale.

Quali siano gli svolgimenti pratici per i consultori di ispirazione cristiana e quanto mi propongo di chiarire. Essi, infatti, sono l’emblema di una sfida: la possibilità di una laicità che si lasci alle spalle le ideologie moderne, con tutti i riduzionismi e le distorsioni che esse hanno introdotto nel trattare la famiglia.

2. La laicità è una costante tensione tra ragione e fede: non può essere un’ideologia (argomento deliberativo). La questione laicità si pone oggi con forza perché il binomio laico/cattolico è diventato sempre più conflittuale: viene giocato come un’antitesi, come una opposizione radicale, anziché come una distinzione relazionale (Donati 2008), se non anti-cattolico, il che porta la laicità sul piano della ideologia, anziché su quello della ragione. Le cose stanno così perché la laicità viene declinata come ideologia di una modernità che si vorrebbe affrancare dai valori cristiani. Di conseguenza, al cattolico viene impedito di essere laico, perché viene etichettato come un soggetto confessionale a cui si nega in linea di principio il carattere razionale.

In tal modo, le iniziative che creano servizi consultoriali i quali vengono offerti a tutti come servizio pubblico debbono per forza qualificarsi con un’etichetta, o laico o cattolico, come se fossero i lati di una distinzione inconciliabile. E questo dualismo che mette in discussione la rilevanza pubblica servire tutti e un fatto pubblico) di un agire sociale che si ispira alla religione cattolica e alla sua concezione dei valori familiari e della stessa libertà. Di buon grado si permette ai cattolici di organizzare quelle opere di beneficenza e carità privata che assistono i poveri e gli emarginati, cioè coloro che lo Stato lascia volentieri ai buoni samaritani che lo sollevano da tante responsabilità. Ma quando sono in gioco gli interessi della cosa pubblica e degli strati sociali che la controllano, lì la presenza cattolica deve essere sottoposta a restrizioni e condizionamenti che le impongono di svestire la sua identità.

La questione laica non esiste solo in Italia, ma attraversa tutto l’Occidente. Infatti è un segno della crisi, assai profonda, della sua Ragione. Tuttavia in Italia è più forte che altrove per via dell’influenza che l’ideologia giacobina ha avuto da noi nei due secoli passati, sulla quale si sono innestati dapprima il marxismo e poi il secolarismo individualista di matrice britannica. Questa miscela, oggi, fa sì che da noi, più che in altri paesi dell’Europa continentale, e comunque diversamente dai paesi anglosassoni, la questione della laicità sia fonte di un profondo e lacerante conflitto, che tende a tradursi in una contrapposizione ideologica anziché in una maturazione della ragione pubblica.

La questione della laicità entra in campo quando sono in gioco questioni eticamente e politicamente sensibili, riconducibili in ultimo al riconoscimento o meno del ruolo pubblico della religione. La laicità viene invocata contro la religione cattolica, laddove invece quest’ultima è stata all’origine della distinzione fra Stato e Chiesa, fra ragione e fede, fra l’umano e il divino, cioè è stata la fonte stessa del senso della laicità come autonomia delle sfere temporali, la quale è stata conquistata in tanti secoli di storia, che qui non è il caso di ricordare. La cattolicità non può che considerare positivamente la laicità come una delle conquiste più preziose della modernità, nel senso che, oggi, diversamente dalle epoche premoderne, sentiamo in modo più profondo e consapevole di dovere rispetto alle realtà umane secondo il loro proprio ordine. A questa laicità si devono, come è noto, le stesse istituzioni liberaldemocratiche dell’Occidente. La laicità è dunque un baluardo contro le tentazioni di trasformare la religione in politica e della politica di trasformarsi in religione.

Ma come dobbiamo guardarci dal confessionalismo e dal clericalismo, dobbiamo anche guardarci da un illuminismo che degenera nel laicismo, che è precisamente il volto ideologico della laicità. La laicità vive di una tensione costante e fertile tra fede e ragione, quale che sia la fede, a patto che gli uomini trovino il senso comune della ragione. Qui giace la sfida oggi più grande, perché l’Occidente sembra aver perduto la sua Ragione. E, come Benedetto XVI ha affermato nella lezione di Regensburg, si tratta di operare una critica della ragione dal suo interno, che sappia riconoscere senza riserve ciò che di valido è stato prodotto nello sviluppo moderno dello spirito e nello stesso tempo amplifichi il raggio della ragione, illuminando verità più profonde di quelle che oggi siamo disposti a riconoscere. Dobbiamo vedere la sfida della laicità in termini positivi, e cioè come apertura di un nuovo orizzonte per la definizione della sfera pubblica.

Una sfera che non potrà più essere confessionalizzata (clericalizzata), ma neppure ulteriormente statalizzata. Si tratta di evitare le tentazioni di giustificare la ragione sulla base della sola fede, cosi come si tratta di abbandonare quella filosofia hobbesiana su cui ancor oggi poggia l’assetto statuale guidato dal compromesso lib-lab [liberal-labour]. Dovrò essere una sfera pubblica laica religiosamente qualificata¡¨, nel senso che, in essa, debbono trovare spazio tutte le culture e le religioni che condividono una visione degna dell’uomo. Questa sfera pubblica deve essere aperta, nel senso che deve evitare i due scogli del clericalismo e del laicismo, che sono patologie della laicità nella politica. La sfera pubblica deve essere capace di disegnare un equilibrio, grazie al quale la religione sa trattenersi dal diventare direttamente un agente politico perché sa che la sua efficacia politico-civile dipende in primo luogo dalla sua vitalità in quanto religione, e la politica sa riconoscere i propri limiti, diciamo pure, un vincolo morale che la trascende (Belardinelli 2007: 36).

Proprio per questo motivo, l‘espressione sfera pubblica aperta non può significare basata sull’individualismo istituzionalizzato, come la intendono alcuni, segnatamente i pensatori lib-lab, ovvero i laicisti, come ad esempio Rusconi (2000) e Pecora (2007). Perché si tratterebbe di una sfera pubblica già pregiudicata dal punto di vista del potenziale di sviluppo umano. Quest’ultimo richiede una visione relazionale della persona umana e delle formazioni sociali in cui essa si sviluppa. Noi sappiamo oggi che una ragione la quale, anziché cimentarsi con le grandi domande della religione e della fede, spinge la religione nell’ambito dei desideri privati, del puro individuo individualizzato, non è capace di promuovere il dialogo fra le diverse culture e religioni. Una siffatta ragione, come quella della rational choice [scelta razionale] o del cosiddetto individualismo emancipativo, mercifica l’umanità delle persone e del contesto sociale. Genera diffidenza e ostilità, conflitto e scontro fra culture e fra religioni, perché non può gestire razionalmente la questione delle identità religiose e culturali, ma può solo concepire gli interessi degli individui.

Abbiamo dunque bisogno di una ragione più ampia di quella moderna, una ragione che giustifichi una laicità che vada oltre la modernità perché sa ricomprendere in se stessa le ragioni della fede e della religione, così come di tutte le culture che hanno a cuore l’umano. A questo proposito ritorna alla mente il bel confronto fra il cardinale ‎Joseph Aloisius Ratzinger e Jürgen Habermas (2005). Quest’ultimo è arrivato a riconoscere l’esigenza di una riconciliazione fra coscienza moderna e coscienza religiosa. In conclusione Habermas afferma: La generalizzazione politica di una concezione del mondo di tipo secolare non è compatibile con la neutralità ideologica del potere statale, che garantisce eguali libertà etiche per tutti i cittadini. A cittadini secolarizzati non è concesso, nell’esercizio del loro ruolo di cittadini dello Stato, né negare di principio un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né contestare ai concittadini credenti il diritto di dare il proprio contributo alle discussioni pubbliche con un linguaggio religioso. Una cultura politica liberale può persino aspettarsi che i cittadini secolarizzati partecipino agli sforzi per tradurre rilevanti contributi dal linguaggio religioso in un linguaggio pubblicamente accessibile.

Si tratta certamente di un’apertura significativa. Non è facile, nella sua posizione, parlare di verità, seppure sempre e soltanto come orizzonte del discorso razionale. E non è di poco conto il fatto che egli riconosca che lo Stato costituzionale democratico rappresenta in genere una forma di governo esigente, per così dire sensibile alla verità. (Habermas 2006). Di più: non è facile riconoscere alla religione un ruolo importante in ordine alla genealogia della ragione. Tuttavia Habermas si ferma sulla soglia della ragione moderna, e non sa andare oltre. Sulla base della sua prospettiva, è certamente possibile sedersi assieme al tavolo e dialogare. Ma non ci sono ancora le premesse fondamentali di una vera comunità di discorso, per il fatto fondamentale che la ragione di cui parla Habermas è una ragione priva di relazionalità, ossia è una ragione alla quale conformemente ad una certa modernità viene impedito di applicarsi sia alle relazioni fra le persone, sia alle relazioni verso la verità delle cose.

Lo conferma Gian Enrico Rusconi, quando, interpretando Habermas, sostiene che la laicità della sfera pubblica implica che, in essa, nessuno possa pretendere di parlare il linguaggio della verità (le argomentazioni veritative non hanno legittimazione) e si debba essenzialmente usare la persuasione reciproca e il rispetto delle procedure. La laicità della democrazia, afferma Rusconi (2000), coincide con lo spazio pubblico democratico entro cui tutti i cittadini, credenti e non, si scambiano i loro argomenti e attivano procedure consensuali di decisione, senza chiedersi conto autoritativamente delle ragioni delle proprie verità di fede o dei propri convincimenti in generale. Ciò che conta è la reciproca persuasione e la leale osservanza delle procedure. Questi tre elementi (validità degli argomenti, reciproca persuasione, procedure consensuali di decisione) non stanno pero sullo stesso piano. Giustamente Belardinelli (2007) osserva che, non appartenendo al medesimo ambito categoriale, non si combinano automaticamente in modo democratico. Per farlo, hanno bisogno di un ethos [disposizione] particolare che li ispiri e ne regoli la specialissima combinazione. Una democrazia che sia indifferente alla bontà o meno delle argomentazioni che legittimano le sue leggi e una democrazia che rischia molto, e in ogni caso e povera e instabile. Se si affida alla sola persuasione, rischia la demagogia. Certo nessuno mette in dubbio la regola procedurale per eccellenza della democrazia, che e quella di prendere decisioni a maggioranza da parte di un organo legittimamente eletto in rappresentanza del popolo o comunque degli interessati. Ma la tensione tra la validità delle argomentazioni e le procedure democratiche esisterà sempre, altrimenti di quale democrazia parleremmo? Si potrebbe cadere nella democrazia dispotica di cui parla Alexis Tocqueville. Per dare risposte a questa tensione, per quanto provvisorie, occorre che i partecipanti al processo democratico condividano una certa cultura civile (fatta di valori circa la dignità e libertà delle persone, basandosi su virtù come la fiducia, l’onestà, il senso del dovere e della responsabilità, e molti altri). Senza tale ethos le procedure democratiche diventerebbero ben presto vuote e anche patogene. Ciò accade oggi precisamente sulle questioni ultime della vita e della morte, del senso della procreazione e della famiglia, cioè dei temi che sono il pane quotidiano dei consultori familiari. In questi servizi, la validità degli argomenti conta più delle procedure, e anche della persuasione, benché tutti questi elementi siano importanti.

Una certa ragione laica, per esempio quella di Rusconi, dice che le soluzioni ai problemi della vita (le questioni relative all’aborto, alla dignità dell’embrione umano, alla manipolazione genetica, ai drammi dei figli di genitori che si separano, all’eutanasia, {alla prevenzione dell’ivg, al divorzio, alle seconde nozze, al matrimonio di minorenni, all’educazione all’affettività, alla nullità del matrimonio, alla procreazione responsabile e ai suoi metodi, alla procreazione medicalmente assistita, all’adozione e all’affido familiare, alla sessualità e all’omosessualità. Ndr} debbono essere cercate mediante la discussione volta alla persuasione e l’ossequio delle procedure. Può bastare questa ragione laica alle persone che sono coinvolte da queste drammatiche decisioni? A prescindere dalle questioni teoriche circa la validità degli argomenti che vengono addotti per prendere decisioni relative a questi drammatici eventi, non v¡¦e dubbio che questa ragione laica si trova oggi in profonda difficoltà. I suoi fallimenti sono palesi. E sono proprio tali fallimenti che dimostrano la crisi della moderna ragione occidentale laica.

Nessuno mette in causa le procedure della democrazia rappresentativa. Ma, se, seguendo l’affermazione di Habermas, riconosciamo che la democrazia deve rimanere sensibile alla verità, allora dobbiamo fare un passo in avanti: dobbiamo concepire i luoghi e gli attori locali della democrazia come luoghi e attori di una democrazia deliberativa, non puramente procedurale, a cui i partecipanti possano concorrere proponendo e richiedendo argomenti di validità dell’agire. L’argomento deliberativo afferma che la laicità e una relazione emergente che deve essere sempre rigenerata come deliberazione perché costante e la tendenza a non vedere la relazione tra fede e ragione, per dare il primato all’uno o all’altro termine (che è la soluzione di comodo più frequente).

Il consultorio potrebbe allora diventare una forma di democrazia deliberativa, in cui la convinzione profonda e l’adesione ad un ethos civile non siano ridotti a meri strumenti procedurali. Perché ciò sia possibile, il consultorio deve accentuare il suo carattere associazionale, cioè di una forma di vita partecipata e condivisa fra chi la fa e chi ne usufruisce In particolare, queste forme deliberative sono realizzate da quei consultori che sono costituite e gestire come organizzazioni di privato sociale. Diversamente dalla ragione laica della modernità, la ragione condivisa in questi luoghi ha l’enorme vantaggio di coltivare la riflessività, come forma di autoconsapevolezza delle ragioni profonde del proprio agire.

Non si tratta soltanto di rivendicare i diritti all’obiezione di coscienza e anche alla disobbedienza civile. Questi sono diritti che una democrazia compiuta deve riconoscere. Si tratta di molto di più. E necessario configurare uno Stato e un sistema politico che favoriscano quelle condizioni del vivere sociale che sono tali da rigenerare le basi etiche della convivenza civile, e le stesse basi etiche dello Stato (i valori costituzionali), ossia le basi etiche che hanno a che fare con il senso proprio dell’agire umano, evitando che lo Stato sia il fautore attivo di una secolarizzazione ideologica che, come oggi accade in Europa, procede all’insegna del laicismo dichiarato (Ernst-Wolfgang Böckenförde 2006). Lo Stato laico ha bisogno sia di credenti capaci di evitare un uso strumentale della loro fede, sia di non credenti che, evitando di svuotare il senso della laicità, sappiano alimentare la sostanza morale indispensabile alla sopravvivenza dello stesso Stato laico. Credenti e non credenti, anziché relazionarsi come opposti inconciliabili, debbono oggi trovare un comune terreno d’intesa per non vedere morire l’umanità degli esseri umani.

Ma come e dove trovare questo terreno comune? Come dobbiamo intendere lo Stato laico?

3. Che cosa significa Stato laico. La questione della bio-politica e la ragione relazionale (l’argomento generativo).

3.1. Esistono oggi due grandi ipotesi, insieme teoriche ed empiriche, filosofico-politiche e sociologiche, circa i fattori che fanno emergere l’esigenza dello Stato laico e ne impongono la necessaria affermazione e diffusione. A tali ipotesi sono collegati diversi modi di intendere il significato di Stato laico e le conseguenze pratiche nell’organizzazione della società. In sintesi, esse sono le seguenti.

  1. Secondo la prima ipotesi, la più corrente dato il peso della modernità sulla nostra vita sociale, lo Stato deve essere e diventare sempre più laico, nel senso moderno del termine, a causa del fatto che crescono le differenze culturali. Se non aumentassero, il problema della laicità non si porrebbe, o almeno non si porrebbe nel modo forte e conflittuale in cui lo viviamo. In termini sociologici, dietro questa ipotesi c’è la teoria secondo cui quanto più la società diventa multiculturale (sia per l’importazione di altre culture immigrate, sia per la dinamica interna alle culture autoctone secolarizzate e post-secolarizzate tanto più sarebbe necessario che lo Stato diventi laico nel senso di essere neutrale di fronte alle diverse culture e ai diversi modi di vita. La neutralità significa separazione netta fra religione e Stato e comunque indifferenza verso le religioni. L’indifferenza può essere più attiva o passiva, in quest’ultimo caso dà vita al multiculturalismo come ideologia e come immaginario collettivo. Lo Stato laico, in questa versione, si basa su una negatività: come recita l’Oxford Dictionary, laico qui significa che nega o prescinde completamente dal punto di vista religioso (corrisponde alla teoria dei diritti libertari). Questa teoria è marcatamente evoluzionistica. Essa accetta gli schemi modernizzanti della differenziazione sociale e culturale, per esempio in termini della individualizzazione astratta degli individui attraverso lo Stato e il mercato. Salvo poi consentire alle identita particolari (incluse quelle religiose) di sopravvivere nel privato o nell’appartenenza di gruppo. Se portata alle sue conseguenze più coerenti e radicali, questa ipotesi porta ad una società caratterizzata da conflitti multiculturali, da anomia e nichilismo (lo si può dimostrare anche sul piano empirico).
  2. La seconda ipotesi dice invece che lo Stato laico e un’esigenza permanente, presente in ogni società fin da quelle primitive, del carattere secolare (non già secolarizzato) delle realtà umane. In ogni società esiste la distinzione fra religioso e secolare, fra sacro e profano, e ogni società deve regolare le relazioni fra le due sfere con istituzioni e strumenti appropriati. In termini sociologici, dietro questa ipotesi c’è, al contrario della precedente, una valutazione positiva dello Stato laico, che è quella configurazione politica che rispetta le distinzioni, senza separazioni nette o confusioni, ma nello stesso tempo collega e da senso ad ogni identità perché non escludendo la religione dalla sfera pubblica, ma anzi valorizzando la religione proprio a partire da quella (e non dal privato), da senso a ciò che è contingente mediante la relazione all’assoluto, a ciò che non e negoziabile (i diritti della dignità).

Possiamo comprendere meglio queste due visioni con riferimento alla figura 1, che ci porta nel cuore del problema distinguendo fra le semantiche premoderne, moderne e dopo-moderne della laicità. La figura 1 dice che la laicità premoderna sta nell’area della latenza e dell’integrazione sociale di mondi vitali non ancora pervasi dal complesso Stato-mercato. La laicità moderna è, invece, espressione del complesso Stato-mercato. Mentre la laicità dopo-moderna potrebbe e dovrebbe essere la capacita di articolare le diverse identita e anche gli interessi in una sfera pubblica in cui l’interazione e l’interdipendenza fra istituzioni politiche e società civile viene configurata all’insegna della reciproca sussidiarietà.

Figura a pag. 216

In merito alle due concezioni della laicità di cui sopra.

La prima tesi, quella che attribuisce allo Stato un carattere laico perché deve rispondere alla crescente differenziazione culturale, identifica lo Stato laico con le identita generalizzate (astratte) dell’individualizzazione propria del complesso Stato-mercato (lib-lab). Non vede e non tratta le esigenze di identita concreta (situata) nelle sfere associative a carattere comunitario e nella famiglia. Perciò le opprime, le colonizza, le sfrutta.

La seconda tesi, invece, quella che considera la laicità come una caratteristica intrinseca dello Stato, e del sistema politico in generale, propone una visione della laicità come differenziazione di queste diverse sfere di giustizia e le collega relazionalmente fra loro in termini di bene comune. Quest’ultima teoria è talvolta riferita alle società premoderne in quanto avevano di plurale. Ma il pluralismo sociale nell’antica Roma o quello medioevale (cosiddetto della “cristianità”), per esempio, erano mere situazioni di fatto, rappresentavano l’esistenza di identità culturali che erano libere di agire nei mondi vitali, semplicemente perché lo Stato non le regolava, essendo occupato altrove. Ancor oggi, quando viene applicata alla società occidentale contemporanea, risulta deficitaria perché non ha ancora elaborato dei dispositivi capaci di trattare le differenze socioculturali in termini di identità anziché di interessi.

Si tratta di vagliare le due macro-ipotesi appena presentate. La mia tesi è che la prima teoria è ideologica e non tenibile sul piano pratico, mentre la seconda contiene una verità che va tuttavia esplicitata e profondamente rivisitata alla luce dell’emergere delle società complesse, globalizzata, sempre più di fatto multiculturali. In buona sostanza, la mia argomentazione si basa sulla seguente considerazione.

La tesi modernizzante dello Stato laico è avanzata sulla base di una predominanza accordata agli schemi che vedono i conflitti culturali come un problema originato da differenze di “interessi” nelle sfere della politica e del mercato. Lo Stato laico è invocato e sostenuto in funzione di un trattamento di differenze che pubblicizzano gli interessi mentre privatizzano le identità: si veda il caso del riconoscimento delle cosiddette famiglie di fatto (Pacs, “Dico”, ecc.), che rappresenta l’istanza di riconoscere diritti a interessi economici, privatizzando le identità familiari. Il fallimento a cui questa teoria va incontro è legata al fatto che i conflitti di identità nascono dalla sfera della latenza e dell’integrazione sociale, a cui il mercato e la politica non possono dare risposte soddisfacenti e sensate.

Se la laicità dello Stato consiste nel neutralizzare le differenze identitarie essa va incontro a effetti perversi e a conseguenze negative. Per trattare le differenze identitarie occorrono altri “dispositivi”, diversi dalla politica e dal mercato. Qui entra in campo l’ipotesi che io chiamo dopo-moderna (non postmoderna) dello Stato che è laico in quanto accorda un riconoscimento appropriato e riflessivo alla religione e al mondo delle sfere associative di società civile. Qui si colloca il consultorio di ispirazione cattolica, che offre le sue mediazioni come servizi non solo tollerati e accettati, ma pienamente rispettati e condivisi con gli altri tipi di consultori, seppure nelle differenze. Lo Stato laico di cui abbiamo bisogno per evitare conflitti permanenti e la disumanizzazione della società è quello capace di operare distinzioni riflessive fra le diverse identità culturali e di valorizzare ciò che in esse vi è di umano. Questo compito può essere perseguito solo da quella che chiamo la “ragione relazionale”, cioè la ragione che opera sulle relazioni intersoggettive, tenendo conto del bene della relazione come qualcosa che viene attivato dai soggetti in relazione, ma sta al di là di essi.

La Chiesa ha imparato nuovo, e di recente, sulla base della rivisitazione della Rivelazione e della sua tradizione millenaria, che «la relazione è la grande chiave di lettura del cristianesimo» (Giuseppe Betori 2007). Non è questa la sede per svolgere questo immenso tema. Basterà dire che la via della relazione è quella che consente la convivenza, sulla base di un comune insieme di valori, fra consultori in cui gli operatori si ispirano alla laicità del non credente e quelli in cui gli operatori si ispirano alla laicità del credente, cioè di colui che intende e pratica la laicità come santificazione della vita quotidiana ordinaria (Donati 2002).

3.2. Il paradigma relazionale (Donati 2006) offre una strada comune a laici credenti e non credenti per uscire dai dilemmi di una politica della vita umana (biopolitica) che tende oggi ad invadere il campo dell’umano e a confondere l’infra e il sovra-umano con ciò che è propriamente umano. I consultori sono al centro di questo processo perché hanno a che fare con i temi cruciali della vita e della morte, della tutela dell’embrione, della gestazione, della maternità e paternità, della sessualità, del rapporto genitori-figli. Questi eventi e relazioni, che sono cruciali per il senso della nostra esistenza, diventano sempre più l’oggetto di un modo di pensare secondo cui la vita umana dovrebbe entrare nella disponibilità del potere politico, il quale si arroga il diritto di dire che cosa è persona umana (ossia di distinguere l’individuo umano che è persona dall’individuo umano che non lo è). Arriva ad equiparare i diritti delle Grandi Scimmie antropomorfe a quelli della persona umana. Decide quando si può fare la manipolazione genetica del desiderio oppure è il caso di rimandarla a più tardi.

La statuizione politica prende il posto di quella epistemica, veritativa. La decisione su che cosa è vita umana e quali ne siano le qualità, proprietà e poteri, è presa sulla base della regola della maggioranza. Così anche per le relazioni umane. La legge Zapatero (Spagna 2008-2011) che rende indifferente il sesso dei nubendi, tipico esempio di biopolitica, ha deciso che non vi siano più madri e padri, mariti e mogli, ma invece il genitore A e il genitore B, il coniuge A e il coniuge B, modificando così radicalmente il senso della relazione coniugale e generativa. La qual cosa non è meno abusante di una manipolazione genetica che decida il colore degli occhi o l’altezza fisica del figlio. Non intendo naturalmente mettere in causa le regole della democrazia politica, ma solo osservare che essa non può invadere il campo dell’etica naturale, così come non può invadere il campo della fede e della religione. A quali paradigmi possiamo affidarci per evitare tali invasioni di campo?

            In linea di principio si possono intravedere due vie. Una è quella di chiedere alla scienza di farsi carico della responsabilità etica, sottraendola alla politica. Su tale base sono sorti i Comitati di bioetica. Ma tale soluzione è debole e ha dimostrato la sua incapacità di risolvere la questione. A tutti è noto che gli scienziati stessi, in campo biologico e medico, dicono che la loro scienza non è capace di assolvere questo compito. Non lo può fare né in linea di fatto (essendo la scienza sempre più sottoposta agli interessi economici), né in linea di principio (perché la scienza non può dire nulla su ciò che va oltre la ragione puramente strumentale).

La seconda via è quella proposta da Francesco D’Agostino (2007), cioè il paradigma aristotelico. Quando Aristotele distingue le forme del potere, osserva che esistono delle differenze di livello e di qualità, e in particolare che il potere politico (politikós) è differente da quello familiare, si colloca ad un altro livello, e non può invaderlo, perché la famiglia (oikós) è il regno della nuda vita che precede le qualificazioni politiche della vita stessa. A mio avviso, questo paradigma classico presenta argomenti rilevanti, ma non decisivi, perché la natura oggi arretra e viene incorporata nel sociale. Dunque la soluzione va cercata nello sviluppo del “sociale umano” (Donati 2007), non semplicemente appellandosi ad una natura che in certi casi non esiste più o comunque non è più configurata come ai tempi di Aristotele.

La sfida della laicità sta proprio sul fronte di come intendere e configurare il “sociale umano”, da cui tutti, credenti e non credenti, tutti ugualmente laici, dipendono per la loro stessa sopravvivenza e felicità. Afferma giustamente Baggio (2007): Si sbaglierebbe a considerare le ‘due razionalità’ (ma è improprio chiamarle così) – quella credente e quella non credente –, (…) come fossero due realtà separate, da far marciare parallelamente, e tra le quali contrattare un accordo in caso di conflitto. No, il legame è molto più intimo: è un’unica intelligenza che vive attraverso il gioco della domanda e della risposta (…) il ‘più vero’ della distinzione è la relazione nella quale ciascuna riconosce se stessa – diversamente – nell’altra (…) una civiltà monolitica, di soli credenti e di sole risposte, sarebbe forse più facile. Non sarebbe cristiana. Non sarebbe la nostra.

La risposta al paradigma della biopolitica, che sottopone le decisioni sulla vita umana al potere politico, sta – a mio avviso – nello sviluppo di un altro paradigma, quello relazionale, che da tempo vado proponendo come risposta e soluzione alla crisi della modernità occidentale, in tutte le sue dimensioni. Tale paradigma parte dall’osservazione che gli squilibri creati nella relazione fra natura e cultura vanno compresi e gestiti “relazionalmente”, ossia nella cornice di soluzioni che non annullino l’uno o l’altro dei termini, ma li pongano in una feconda sinergia. Nel campo della vita umana e della famiglia, ciò significa che l’essere umano è tale perché viene generato come un essere specie-specifico non già dal “caso”, o da una scienza manipolatoria, ma da una natura che ha in se stessa un progetto di vita. Questa natura è certamente biologica, ma è più di questo, perché è intrinseco alla naturalità dell’essere umano la sua propria relazionalità.

Ecco perché non è più sufficiente appellarsi al diritto naturale come semplice dato pre- e meta-politico, ma occorre introdurre il concetto del “diritto alla natura” come interfaccia fra la sfera naturale e quella sociale. Mi spiego meglio. Jürgen Habermas (2002), da laico, ha mosso profonde critiche alla eugenetica liberale, sostenendo giustamente che la naturale eguaglianza e libertà degli esseri umani viene compromessa quando si pratica una manipolazione della procreazione che modifica “la spontaneità naturale del venire al mondo”. Se è qualcuno che ci genera in laboratorio secondo un certo programma eugenetico, allora il bambino che nasce potrà imputare il suo modo di essere a chi lo ha voluto e programmato così. Colui che genera un figlio si assume la più grande responsabilità che un essere umano possa prendere su di sé: diventa imputabile per ciò che ha fatto e per come lo ha fatto. Se il genitore lo ha voluto in un certo modo anziché in un altro, e il medico si è prestato a questo gioco, il figlio potrà imputargli le conseguenze, e perfino dargli la colpa di averlo fatto in un certo modo anziché in un altro. Ciò accade perché l’uomo si è sostituito alla natura là dove non doveva. Ha reso dipendente l’essere umano da un altro essere umano. Se vogliamo evitare questo esito, che è causa di tante infelicità, dobbiamo invocare il diritto alla natura come diritto proprio della persona umana, alla natura intesa non come casualità, ma come progetto dotato di senso di cui nessuno, neppure il genitore, è padrone. Questo diritto riguarda non solo le caratteristiche biologiche, ma anche quelle psicologiche e sociali. Un esempio di diritto alla natura in tal senso è il diritto del bambino ad avere una famiglia, un diritto che non esiste nella natura intesa alla maniera del pensiero antico e classico, ma che è un’acquisizione del pensiero laico moderno, quando ha compreso il carattere relazionale della persona umana.

Anzi, possiamo dire che questo aspetto diventa il fulcro del consultorio familiare del prossimo futuro. Infatti, se è vero che, essere libero significa per l’uomo “essere-libero-per-l’altro”, ossia che la persona umana è tale – e diventa tale – perché, nell’autodeterminarsi, deve passare attraverso l’Altro, allora il luogo in cui è massimamente in gioco quel bene fondamentale che caratterizza l’umano, cioè la libertà costitutiva dell’essere umano, è la generatività. Non è un caso, come afferma Paolo Gomarasca (2007), che la crisi attuale della libertà cominci proprio con la crisi delle relazioni generative: «ovunque il soggetto non accetta di essere generato per essere libero, non potrà – a sua volta – generare, innescando così un processo di avvelenamento dei legami sociali».

Il consultorio familiare ha davanti a sé questo grande orizzonte: diventare un luogo dove è messa al centro quella fondamentale esperienza di bene relazionale che è la generatività: il fulcro dell’essere e del fare famiglia, e quindi di tutto ciò che è servizio consultoriale. L’ottica laica, in questo quadro, è semplice e immediata: consiste nel far sì che l’essere genitore, e correlativamente figlio, diventi il luogo in cui la libertà evita le sue possibili patologie: quella di un autopossesso che si vuole “a piacimento”, e che quindi non si dona; e un assenso incondizionato all’altro come pura oblatività a perdere, che non si inscrive in un circuito di doni.

Questo io intendo quando affermo che il compito del consultorio è quello di leggere la realtà familiare come realtà relazionale e di gestirla in maniera relazionale, cioè generativa.

Non occorre un punto di vista confessionale per comprendere tutto questo. Basta la ragione relazionale e la sua laicità. Essa ci fa comprendere che il consultorio deve essere il luogo del discorso generativo.

4. Il percorso per elaborare una cultura dopo-moderna della laicità.

4.1. Il concetto di laicità, come ho detto, è polisemico. Se vogliamo capire come esso possa essere declinato nella società contemporanea e nella prospettiva di una società globalizzata, multietnica e multiculturale, dobbiamo definire un percorso che sia in grado di evitare le concezioni ideologiche della laicità, quali emergono in Occidente, così come dobbiamo evitare le concezioni etnocentriche e quelle che sottendono un qualche determinismo culturale (le concezioni biased [parziali]della laicità sono quelle di culture particolari che pretendono di essere universali). Il percorso inizia da un punto di partenza ben preciso. Infatti, il concetto di “laico” entra nella cultura occidentale precisamente con il cristianesimo, sin dal suo inizio, allorché designa ciò che è proprio del semplice fedele cristiano, del popolo (laos). All’interno della Chiesa, il concetto caratterizza colui che conduce la vita quotidiana nel mondo, per distinzione con chi ha una posizione in qualche modo specifica, di particolare elezione (i presbiteri, i vescovi, la gerarchia). Più in generale, con il tempo viene a designare chi non ha una particolare iniziazione ad un sapere o ad uno status religioso, un non-esperto, uno che non ha una posizione o un segno distintivo rispetto a ciò che è comune alla gente ordinaria. Questa dizione è rimasta a lungo data per scontata e quasi per nulla riflessiva durante il medioevo, che non l’ha per nulla elaborata. Solo nell’età moderna, e segnatamente nel corso del Novecento, la concezione della laicità come condizione di vita comune della gente ordinaria ha ripreso senso ed importanza, anche all’interno della Chiesa, con il Concilio Vaticano II (Donati 2002). Dai tempi dei primi imperatori cristiani (Costantino, Teodosio I) e da Papa Gelasio I, sappiamo che la questione della secolarità (laicità) dello Stato divenne una questione fondamentale nei rapporti fra Stato e Chiesa, che condusse a lunghi secoli di contrapposizioni fra l’una e l’altro. Ma qui non ci interessa rifare questa storia. Ciò che ci interessa è capire che cosa il problema della laicità abbia comportato e comporti ancor oggi in termini di assetto della società. Da tale punto di vista, oggi il problema della laicità si pone nei termini della contrapposizione fra due semantiche.

  1. La semantica cristiana, per la quale laicità significa autonomia delle realtà secolari alla luce della loro connessione con il Creatore (velut si Deus daretur); si tratta di un’autonomia relativa, anzi relazionale, non di una separazione o contrapposizione.
  2. La semantica dell’età moderna, per la quale, come recita l’Oxford Dictionary, laicità significa prescindere da Dio, ossia da ogni punto di vista religioso, come se Dio non ci fosse (etsi Deus non daretur), e quindi regolandosi su valori, principi e criteri che non possono e non debbono in alcun modo essere giustificati in base ad argomenti religiosi. Questa seconda posizione, nata in Inghilterra, si è poi affermata soprattutto con il concetto giacobino di laïcité, che è stato di recente ribadito come fondamento della Francia repubblicana dalla Commissione Stasi (come se non fossero passati due secoli di storia…!).

Sotteso a questa contrapposizione, c’è il problema della relazione fra l’ordine temporale e l’ordine spirituale. Più in generale: tra immanenza e trascendenza, fra secolare (chi vive nel mondo amando il mondo, anche se non è mondano) e religioso (chi realizza la propria vocazione senza passare attraverso le realtà temporali, perché opera il contemptus mundi [disprezzo del mondo]), fra naturale e soprannaturale. Questa contrapposizione viene oggi ricompressa sotto il (supposto) dualismo fra ragione e fede. Per i moderni, la ragione laica deve operare come se la fede non ci fosse. Per chi viene prima e dopo dei moderni, la ragione laica può e deve operare in dialogo con la fede, perché la fede è un orizzonte infungibile, non sostituibile dalla ragione, così come viceversa. Alla fine, il problema è quello di quale autonomia deve essere conferita alla pura ragione (temporale, secolare, immanente) rispetto a ciò che non può essere dimostrato con la ragione e viene motivato su altre basi (lo spirituale, il trascendente, la fede).

Nei termini della sociologia relazionale, il problema è: che tipo di relazione intercorre tra fede e ragione?

La risposta che viene data è la seguente: questa relazione è un’azione reciproca, che richiede entrambi i termini della relazione, e dà vita ad un fenomeno emergente, che possiamo chiamare la “sana laicità”. “Sana” perché mantiene le relazioni (il dialogo, le connessioni e le referenze) fra i due termini (ragione e fede) e così genera soluzioni creative. Questo è l’argomento generativo della laicità.

Nella prospettiva della sociologia relazionale, la laicità è l’effetto emergente (Wechselwirkung) della relazione tra fede e ragione quando siano adempiute certe condizioni, precisamente quelle che rendono possibile la loro piena reciprocità. Questa verità è solitamente espressa con il dire che la fede illumina la ragione, e la ragione dà senso alla fede. Sotto questo profilo, che è di scienza sociale, la laicità significa rispetto e valorizzazione di ogni ordine di realtà del mondo visibile e non visibile (lo sono per es. tante relazioni umane, come l’amicizia e l’amore), nella perfezione del suo principio di operazione. L’effetto di reciprocità (la sana laicità) emerge quando i due termini (temporale e spirituale, ragione e fede) operano fra loro in termini di reciproca sussidiarietà e solidarietà, avendo come riferimenti di senso la persona umana e il bene comune. Bene comune che oggi significa la salvaguardia dell’umano, l’autentica umanizzazione non staccata dal soprannaturale, ma sinergica con esso. Solo una tale laicità può nutrire la speranza di contrastare la disumanizzazione della vita sociale a cui stiamo assistendo, da tante generazioni, e che ha il suo apice in quelle culture contemporanee, dette postmoderne, che portano alle estreme conseguenze l’espulsione dell’umano dal sociale (Donati 2006; Archer 2007).

Il laico è quello che sa distinguere ciò che è dovuto a Cesare e ciò che è dovuto a Dio, senza metterli in antitesi (magari, come ha fatto l’idealismo, per poi affermare l’esistenza di uno Stato etico che sarebbe un Dio in terra). In ciò, il cristiano segue la preghiera di Cristo quando chiede al Padre: “non ti chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li preservi dal male”. Il laico è colui che non solo sta nel mondo, ma si sente perfettamente a suo agio, perché è pieno cittadino di questo mondo, in esso non si sente straniero, anche se appartiene contemporaneamente ad un altro regno, quello spirituale che lo eccede. Il mondo è la sua necessaria

e buona mediazione con Dio. Non si può santificare se non passando attraverso le cose del mondo.

Il laico sta nel mondo non come un ospite, non come uno straniero che lo attraversa per catechizzarlo o manipolarlo, seppure con il proposito di fare il bene. Sta nel mondo perché, come laico, quello è il suo posto, quella è la sua materia di perfezione. Se rifiutasse questa condizione – la mediazione delle realtà temporali, e della stessa ragione, con quelle soprannaturali, la stessa fede – non sarebbe più un laico. Diventerebbe un’altra cosa, diventerebbe un clericale o un fondamentalista dogmatico, il che capita sia quando fa indebitamente valere la fede contro la ragione, sia quando fa il contrario, cioè fa valere la ragione contro tutto ciò che pertiene alla fede.

L’Europa sta distruggendo la sua cultura, la sua sapienza acquisita in secoli di civilizzazione, proprio perché:

  • Separa la sfera pubblica (che concepisce come dominio della ragione funzionale) dalla sfera privata (in cui confina la fede);
  •  La fede religiosa diventa un’opinione fra le tante, diventa in-differente, perché messa indifferentemente sul piano di qualunque credenza;
  •  Nella sfera pubblica nessuno può pretendere di parlare il linguaggio della verità; la ragione simbolica viene neutralizzata.

Questa strada è quella della neo-sofistica, esaltata da autori secondo i quali come sostiene Umberto Eco – «la verità è un insieme vuoto» (la frase è citata e commentata da Ratzinger 2003). E così l’Europa si svuota di ogni progettualità, che non sia il gioco degli interessi economici e politici.

Perfino l’identità sessuale viene messa in discussione. È ormai chiaro che l’Unione Europea, formalmente ‘laica’ e a parole neutrale in materia di diritto di famiglia, sta invece entrando di prepotenza in questi campi, con due tipi di provvedimenti.

Un primo tipo di provvedimenti tende a soggettivizzare il sesso (gender), nel senso di lasciare agli individui la definizione della propria identità sessuale. Come dire: il sesso è una scatola vuota. L’Unione Europea promuove attivamente un soggettivismo senza precedenti nelle identità di gender attraverso atti normativi e un welfare state interventista. Non solo chiede tolleranza e rispetto per qualunque scelta nelle preferenze sessuali, al punto che ogni individuo può definire da sé il proprio gender, ma incentiva le istituzioni pubbliche a promuovere queste scelte (in Italia, si veda il caso della Regione Emilia Romagna).

Il secondo tipo di provvedimenti riguarda il matrimonio e la definizione di famiglia. La UE ha emesso una direttiva che comanda di fare sì che le diverse forme di relazioni familiari presenti nella società odierna, che si

Tratti del matrimonio, del partenariato registrato o della convivenza, siano riconosciute e rispettate. Tenuto conto dell’uguaglianza e del trattamento equo, il diritto fondamentale alla vita familiare non dovrebbe essere subordinato alla scelta dell’individuo di contrarre matrimonio (Direttiva 38/2004).

In questo modo il diritto di famiglia dei vari Paesi europei (che pure non dovrebbe essere di competenza della UE in base ai suoi Trattati) viene in qualche modo uniformato, nel senso di conferire il valore di famiglia a vari tipi di arrangiamenti privati. La famiglia, per la forza normativa del diritto positivo, viene equiparata ad una privacy indifferenziata (lato lib) garantita dal potere pubblico (lato lab). Questa è quella che io chiamo la ideologia (modernista e lib-lab) della laicità, che consiste nell’assumere un punto di vita secondo il quale la laicità si esprime nell’essere indifferenti e neutrali rispetto alle religioni nella sfera pubblica, là dove è in gioco il bene comune, la qual cosa, lungi dal creare una ragione pubblica, alimenta una visione del mondo come una realtà priva di senso, perché ad essa conferisce un senso vuoto. Questa società vuota, o liquida come altri amano chiamarla, si pone così come quello spazio virtuale in cui può emergere la religione dell’individuo,

La fede dell’individuo in se stesso e solo in se stesso, liberato da ogni determinazione relazionale esterna (così la afferma, positivamente, ad esempio Pecora 2007, secondo il quale la distinzione fra laicità e laicismo sarebbe una distinzione capziosa e oziosa).

Bisogna allora ribadire che la laicità non è indifferenza o neutralità verso la verità, né può essere l’esaltazione dell’individuo fine a se stesso, ma invece è:

  • Imparzialità (non attribuire privilegi o valori a priori per una determinata ‘parte’, o religione, contro le altre);
  • Riconoscimento del bene dove c’è, con la valorizzazione delle autonomie che realizzano questo bene, che, come ho mostrato altrove, è essenzialmente relazionale quando è in gioco l’umano.

Solo la laicità (non il fondamentalismo, non il volontarismo, non il fi deismo nell’individuo o in una chiesa) può salvare l’Europa, a patto che siamo in grado di elaborare una dottrina della laicità che non sia un’ideologia (cioè una rappresentazione simbolica che difende interessi particolari, fossero anche quelli degli “individui in generale”, senza nulla che li colleghi fra loro, senza una comune natura e un bene comune). Il laicismo è una ideologia per un duplice motivo.

  1. Innanzitutto, perché assolutezza il primato dell’individuo proprietario (l’individuo come proprietario di se stesso, dei suoi diritti, del suo corpo, di ciò che cade sotto la sua disponibilità) astratto da ogni relazione; è una fede assoluta nell’individuo autonomo, che consegue a quella filosofia moderna che si rifà a Cartesio e Kant.
  2. In secondo luogo, perché si traveste nella dottrina del multiculturalismo, cioè in un modo di pensare (“pensiero aperto ad ogni opzione”), che, mettendo tutte le opzioni sullo stesso piano, favorisce il relativismo culturale e impedisce la edificazione di una sfera pubblica comune (Donati 2008).

Potremmo allora dire che esistono due versioni del laicismo: quella individualista e quella multiculturalista. Poiché la seconda versione sta diventando sempre più importante nel dibattito sulla laicità, ad essa dobbiamo dare particolare attenzione.

5. La laicità nei servizi alle famiglie.

5.1. I nodi familiari della “questione multiculturale”: politiche multiculturali o interculturali? Il laicismo individualista si fa sempre più forza del laicismo multiculturalista, nel senso che vede nella crescente pluralità delle culture (e religioni) una prova o un motivo per relativizzarle tutte, relativizzando così anche la cultura (e la fede religiosa). Di qui, poi, la richiesta che lo Stato sia sempre più neutrale verso tutte le pretese di verità.

            Vorrei qui mostrare che questa concezione della laicità non è tenibile. La “questione multiculturale” a riguardo delle tematiche familiari è ben più vasta di quella che riguarda, in senso stretto, il confronto fra le appartenenze etniche e religiose degli autoctoni e quelle degli immigrati, perché la pluralizzazione delle culture familiari è presente anche nel contesto socio-culturale italiano e, più in generale, occidentale. Anzi, si può dire che le correnti culturali autoctone, di cultura “occidentale”, le quali propugnano qualche forma di relativismo culturale, fanno leva proprio sulle diversità etniche portate dagli immigrati per chiedere ancora maggiore relativismo culturale e giuridico in questo campo. Questa tendenza porta con sé effetti assai negativi. A mio avviso, i cosiddetti fenomeni di pluralizzazione delle forme familiari, e in generale i profondi mutamenti in atto nelle relazioni familiari, che richiedono comunque delle regolazioni giuridiche in materia familiare a prescindere dalle immigrazioni, vanno affrontati in un quadro generale, che stabilisca principi e regole valide per tutti. Forse, proprio dal dibattito sulle questioni in materia di famiglia che deriva dallo “shock” delle immigrazioni, potranno venire indicazioni utili per una nuova carta dei diritti-doveri in materia familiare a fronte di tutte le diversità etniche e religiose. Ma tale Carta (che ha avuto una prima espressione nella Carta dei Valori emanata dal Ministro degli Interni Amato) non può essere intesa come un Manifesto ideologico, neppure di una certa ideologia della laicità, bensì dovrà misurarsi su argomenti e valori razionali.

Si tratta qui di comprendere a fondo la differenza fra due strade di politica pubblica: la politica multiculturale e la politica interculturale. Non è certo qui il luogo per una trattazione ampia e sistematica dell’argomento, che presenta grande complessità. Basterà dire questo.

  1. La scelta multiculturale significa adottare la prospettiva del “tutti differenti, tutti uguali”; è una via iniziata dal Canada negli anni 1970, e poi estesa a molti paesi, che ha incontrato crescenti delusioni e fallimenti, in ragione del fatto che produce relativismo culturale e segmentazione sociale (la separazione delle comunità etniche). Dietro la assolutizzazione del principio di uguaglianza, sono sorte enormi disuguaglianze.
  2. La scelta interculturale, invece, punta alla costruzione di un mondo comune, di una sfera pubblica comune in cui tutte le diversità (etniche, religiose, culturali, ecc.) si ritrovino; qui si enfatizza l’inter, ossia ciò che sta “fra” le diversità come valori e regole di una vita in comune. Dove comune sta per “uguale per tutti”, ma anche di “diritto comune”.

La mia proposta è quella di valorizzare le politiche interculturali. Come risolvere i problemi di compatibilità fra ordinamenti giuridici diversi in materia familiare? La pluralizzazione dei percorsi matrimoniali e familiari che si sta diffondendo nel nostro paese richiede l’elaborazione di una prospettiva laica che sia compatibile con i valori fondamentali che ispirano la nostra cultura civile. Qui mi limito a presentare le due proposte che mi appaiono più carenti e perciò da scartare.

a) La soluzione dell’individualismo istituzionalizzato. Questa soluzione fa perno sulla nozione di libertà individuale, spogliandola però di ogni concretezza storica. In estrema sintesi, questa tesi sostiene che l’individuo è libero di disporre come meglio crede della propria vita e che i pubblici poteri debbono limitarsi a garantire l’esercizio di questa libertà (ed eventualmente il presupposto su cui essa è basata, e cioè una corretta conoscenza dei dati necessari per effettuare una scelta): in tema di matrimonio e famiglia, quindi, qualsiasi modello di famiglia sarebbe accettabile purché sia sempre assicurato alle parti il diritto di recesso, in cui si estrinseca la libertà dell’individuo che sta al centro di tutto il sistema. Lo stesso ragionamento è applicabile ad altri istituti quali il ripudio e le stesse mutilazioni sessuali, purché effettuate su maggiori di età: la tutela dei minori e degli incapaci, cioè dei soggetti che non sono in grado di esercitare validamente il proprio potere di autodeterminazione, resta infatti l’unico limite validamente sostenibile in questa prospettiva.

b) La soluzione del multiculturalismo comunitarista. La seconda opzione privilegia la nozione di comunità su quella di individuo ed impegna l’autorità pubblica a difendere e far valere i diritti collettivi anche contro la volontà individuale (in un certo senso, la comunità ha qui un carattere “tribale”). In questo senso l’individuo “appartiene” alla comunità di cui fa parte (per nascita o per conversione) e l’ordinamento giuridico statale deve riconoscere le istituzioni tradizionali di quest’ultima, astenendosi da qualsiasi giudizio di valore. In questo orizzonte, alcuni autori (E. Dieni, S. Ferrari) avanzano la riserva secondo cui, se questa proposta prevalesse, il cattolico integralista pretenderà dallo Stato il diritto positivo di stipulare un matrimonio dal quale né lui né la propria moglie possano disertare mediante divorzio civile, il musulmano ugualmente integralista pretenderà di poter licenziare ad libitum le sue mogli, fino al massimo di quattro concessegli dal Corano.

Ma io vorrei fare altre considerazioni. Certo, formalmente è vero che, nel caso ciò avvenga, si avrebbe che la “verità” dell’uno e dell’altro modello matrimoniale, che affonda le sue radici nella legge divina, prevarrebbe sulla libertà dell’individuo con una forza che dovrebbe trovare riconoscimento nel diritto dello Stato. Noi sappiamo che ciò non è possibile in forza del principio di laicità dello Stato che si è affermato in Occidente. Ma vanno fatte due importanti annotazioni.

a. La prima osservazione è che, mentre nel caso dell’affermazione cattolica della indissolubilità del matrimonio vengono difesi i valori del legame sociale e i diritti della persona umana che lo ha contratto come matrimonio valido, nel secondo caso (ripudio musulmano), invece, viene lesa la dignità della persona umana della donna; e dunque i due esempi non sono omogenei, né confrontabili, fra loro. Il “comunitarismo” islamico non è paragonabile a quello cristiano, avendo una qualità del tutto differente.

 b. La seconda osservazione è che il principio della laicità dello Stato va ben compreso e applicato: la laicità non significa indifferenza e neutralizzazione del matrimonio, non consiste nel mettere sullo stesso piano matrimonio e non matrimonio (come qualsiasi altra forma di contratto di coppia, o anche solo di convivenza di fatto), ma è assunzione del valore del legame matrimoniale, e la sua valorizzazione con misure di favore rispetto a chi non si assume gli impegni di reciprocità propri del matrimonio o li viola. Essere neutrali fra diverse concezioni della famiglia, non significa neutralizzare i valori che esse incorporano. Il fatto che lo Stato valorizzi il matrimonio monogamico non significa certo che, per questo fatto, lo Stato diventi uno Stato etico o integralista, ma invece significa che lo Stato si rifiuta di diventare una macchina di neutralizzazione del legame sociale, e vede la sua laicità proprio nel fatto di fare la scelta di promuovere e dare maggiore valore al matrimonio basato sull’uguaglianza giuridica e morale degli sposi rispetto ad altre forme di matrimonio.

Per orientarsi ad una soluzione veramente “laica”, bisogna ricordare che la laicità è una emanazione sociologicamente cristiana, cioè è una caratteristica storica e culturale che proviene dal cristianesimo. La laicità consiste nel distinguere le varie sfere di vita (religione, politica, economia, ecc.) e nello stabilire che chi ha una certa posizione in una sfera non è detto che l’abbia nell’altra, ossia che in ogni ambito valgono criteri differenti, in base a quanto per primo Cristo ha detto: «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio». Non significa indifferenza o razionalismo o addirittura anti-religiosità, come l’ha tradotto l’Illuminismo moderno occidentale. La laicità, in senso positivo, non significa prescindere da Dio (e, in generale, dal punto di vista religioso), ma significa invece riconoscere che la religiosità è una questione di libertà e responsabilità personale, non di gruppo o di tribù, e che la religione non deve essere un elemento di privilegio o, viceversa, di discriminazione fra le persone in altre sfere (civili) di vita.

Sotto questa luce, le due opzioni anzi dette – quella individualistica e quella comunitaristica di tipo tribale – pur muovendo da punti di partenza opposti, conducono a risultati concreti in molti casi analoghi. Il ripudio troverà la sua giustificazione non nella libera scelta dell’individuo che ha deciso di celebrare un matrimonio regolato dal diritto islamico, ma nell’appartenenza di quell’individuo alla comunità musulmana. Sia nell’uno sia nell’altro caso, tuttavia, l’ordinamento giuridico statale sarà tenuto a dare efficacia a questo istituto. La differenza (certamente non di poco conto) emerge quasi soltanto in relazione al diritto di recesso, assoluto nella prospettiva della prima opzione, inesistente (o quasi) in quella della seconda.

I limiti delle due ipotesi – individualistica e tribale – sono abbastanza evidenti. La prima è contraddistinta da una insufficiente aderenza ai dati della storia, al valore del patrimonio culturale che è parte costitutiva dell’identità di ogni soggetto individuale e collettivo, che in Italia coincide largamente con l’eredità cristiana. Questa memoria storica che ogni persona porta con sé e di cui essa è inevitabilmente parte, costituisce l’anello che congiunge da un lato gli elementi tradizionali da cui nessuno può prescindere e dall’altro gli elementi di novità che fanno evolvere e progredire questo deposito storico, attraverso il confronto con identità culturali differenti oppure con scelte maturate all’interno di un comune patrimonio culturale ma approdate a soluzioni che lo modificano in qualche sua componente. La seconda ipotesi assolutizza invece questo patrimonio culturale, de-storicizzandolo integralmente e pertanto rendendolo incapace di evoluzione: i limiti posti alla libertà individuale sono funzionali a questo disegno di conservazione.

c) Le insufficienze delle due opzioni appena dette spingono a cercare una terza soluzione, più equilibrata, che io chiamo di pluralismo relazionale. Essa consiste nel tener conto da un lato dell’identità culturale propria di un popolo (quella italiana, per esempio, che in larga misura coincidente con quella degli altri paesi dell’Europa occidentale) e dall’altro degli elementi di differenza portati dall’immigrazione di popolazioni extra-europee. Con ciò si affronta anche la questione della frammentazione etica che contraddistingue la cultura occidentale contemporanea. A tal fi ne è necessario partire dai valori fondamentali che costituiscono il nucleo centrale della identità occidentale sviluppandone tutte le possibilità di applicazioni differenziate in direzione delle componenti sociali che, stabilmente presenti in Europa, sono portatrici di identità diverse. Si tratta, in altri termini, di accompagnare – anziché contrastare – la tendenza al pluralismo organizzativo e normativo emergente a livello sociale, verificandone però di volta in volta la compatibilità con i principi fondamentali e non negoziabili dell’ordinamento giuridico comune, che hanno nella concezione personalistica il loro fulcro.

Questa strategia poggia su una premessa che è bene esplicitare, in modo da evitare equivoci e confusioni: la possibilità di individuare nella tradizione culturale che accomuna un popolo o un gruppo di popoli (per esempio la tradizione culturale europea) un nucleo di valori e principi relativamente stabili. In altre parole, l’approccio relazionale al pluralismo organizzativo presuppone l’esistenza di valori e principi ricavabili dalla storia e dalla cultura prevalente in una determinata area geografica che possono essere assunti a fondamento delle strutture politiche e giuridiche della popolazione che vive su quel territorio. Il fatto che questi valori e principi non siano uguali a quelli su cui sono fondate le strutture politiche e giuridiche di altri popoli non toglie che essi siano vincolanti per il gruppo in questione, perché costituiscono l’identità di quel gruppo e quindi rappresentano l’apporto specifico e caratterizzante che esso può offrire nel dialogo con gli altri. Rinnegare questo patrimonio culturale, in nome di una malintesa apertura verso “l’altro”, impedirebbe in realtà quel dialogo tra differenti universi culturali di cui è sempre più evidente l’importanza.

Questo nucleo di valori comuni ad un gruppo di popoli non costituisce soltanto il punto di riferimento capace di orientare lo sviluppo del suo ordinamento politico e giuridico (o, per usare altri termini, il deposito “valoriale” senza il quale la democrazia corre il rischio di relativizzarsi ed assolutizzarsi allo stesso tempo). Esso rappresenta anche la cornice ineliminabile entro cui debbono trovare posto i valori propri degli altri gruppi (culturali, etnici, religiosi) che entrano in rapporto con il primo e si collocano stabilmente all’interno della sua area geografica. Ciò implica un delicato lavoro di riflessione e di selezione rivolto in primo luogo ad identificare valori e principi (in larga parte derivanti dall’incontro tra la tradizione cristiana e quella giusnaturalistica moderna) che costituiscono l’identità europea; poi a distinguere all’interno di essi ciò che appartiene al nucleo più profondo di questa identità (e che quindi non è negoziabile senza sfigurarla) e ciò che appartiene allo strato più superficiale e quindi negoziabile; infine a valutare le modalità (che sono normalmente diversificate e consentono margini di adattamento) di traduzione di questi principi e valori nel mondo del diritto.

È possibile che il diritto matrimoniale e familiare debba affrontare, nel prossimo futuro, una certa decostruzione del concetto occidentale classico di matrimonio e famiglia, provocata da due fattori principali:

  1. La penetrazione nello spazio giuridico europeo, in seguito ai processi di immigrazione, di modelli matrimoniali e familiari differenti da quelli previsti sia dal diritto canonico che dal diritto civile;
  2. b.      Il riconoscimento (anche se il più delle volte non certo la parificazione) che certe legislazioni nazionali hanno dato (o daranno) ad altre forme di unione (eterosessuale ed omosessuale), frutto ultimo della tendenza alla privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto coniugale.

5.2. Che fare? La soluzione laica della famiglia come soggetto sociale avente diritti di cittadinanza. Se questo è il probabile scenario del futuro, diviene urgente tradurre le indicazioni di carattere generale ora formulate in direttive per una politica del diritto matrimoniale e familiare. Questa operazione non è affatto semplice: il punto di equilibrio tra i valori della tradizione e quelli del rinnovamento è difficile da individuare e, in ogni caso, non può essere fissato una volta per sempre. Si tratta di identificare alcuni elementi che appartengono al nucleo essenziale della nozione giuridica di matrimonio e famiglia così come si è configurata in Occidente: la necessità del consenso libero e responsabile delle parti (i nubendi, uomo e donna), la comunione spirituale e materiale tra i coniugi, la finalità procreativa della loro unione, la pari dignità di ciascuno di essi (con le conseguenze che ciò comporta in termini di uguaglianza e di libertà di coscienza), la stabilità e unità del rapporto coniugale. Questi caratteri affondano le proprie radici nella storia dell’istituto matrimoniale e familiare e sono condivisi dalla maggioranza della popolazione: tenendo fermi i principi metodologici già detti, costituirebbe una forzatura far rientrare nella nozione giuridica di matrimonio e di famiglia rapporti interpersonali che fossero carenti di una o più di queste caratteristiche. Ciò non significa però che questi rapporti debbano restare privi di qualsiasi regolamentazione giuridica, in forme che possono variare da una semplice disciplina degli effetti a cui essi danno luogo fino ad un più impegnativo riconoscimento di essi in termini di specifici istituti giuridici.

Resta, tuttavia, da valutare la sostanza antropologica di tali eventuali istituti giuridici, essendo evidente che la pluralità di istituti giuridici non solo a. deve rispettare la diversità storica e culturale dei diversi gruppi sociali, ma b. deve anche riflettere l’unità antropologica del genere umano, cioè i valori radicati nella natura della persona umana e nella natura delle relazioni familiari. Sulla base di questi rilievi è possibile formulare alcune osservazioni più concrete. Il divieto di celebrazione di matrimoni poligamici in Europa (non solo in base al principio della loro contrarietà al principio di uguaglianza tra i coniugi, ma anche per la natura più appropriata della relazione monogamica) potrebbe essere accompagnato dal riconoscimento di questi stessi matrimoni, se celebrati da un uomo nel proprio paese d’origine prima di immigrare in Europa. In questa prospettiva andrebbe valutata anche l’ipotesi di prevedere uno statuto differenziato tra la prima moglie (che godrebbe di uno status coniugale pieno) e le altre mogli (che sarebbero titolari di diritti sociali specifici, ma non coniugali).

L’analogo divieto relativo (sostanzialmente per la stessa ragione) alla pronuncia di ripudi in Europa potrebbe non impedire il riconoscimento dei ripudi pronunciati in un paese dove questa forma di scioglimento del matrimonio è consentita, alla condizione che siano rispettati i diritti della persona umana della donna (secondo l’orientamento giurisprudenziale emergente in alcuni paesi islamici ed i principi che hanno ispirato i tribunali europei nei casi particolari in cui sono stati attribuiti effetti civili a decisioni di ripudio).

Più complessa è la questione delle mutilazioni sessuali. Ferma restando l’esclusione di quelle compiute su minorenni, il problema va affrontato dal punto di vista della liceità, entro certi limiti, degli atti di disposizione compiuti da maggiori di età sul proprio corpo: in questa prospettiva si deve valutare la gravità delle mutilazioni e la loro incidenza sulla vita sociale della persona, considerando inoltre la possibilità di graduare le sanzioni penali in relazione alla anzianità di presenza della persona nello spazio europeo.

Occorre orientarsi ad un diritto di famiglia che eviti il dilemma fra il concepire la famiglia come una entità sovraordinata alle persone (struttura coercitiva di autorità/potere, come ad esempio nel diritto romano) e il concepire la famiglia come mera proiezione degli individui (come nelle tendenze della società degli individui, ossia della post-modernità occidentale). Nelle culture tradizionali (premoderne), la famiglia è in genere concepita come una struttura di tipo potestativo (guidata da un capo), che contrasta con i principi di uguaglianza e libertà che sono ormai patrimonio comune della nostra cultura europea (e, in linea di principio e di fatto, sono affermati nel diritto di famiglia italiano: legge n. 151/1975). D’altra parte, però, la cultura occidentale autoctona, e una certa parte della più recente legislazione nazionale, tende sempre più a configurare la famiglia come una mera scelta individuale, una forma associativa privata a base contrattuale, una “società di individui” priva di valenza pubblica, come conseguenza dell’individualismo, più o meno istituzionalizzato, che informa la cultura postmoderna della società liquida. La quale tendenza mette in difficoltà le culture di immigrazione, perché erode il senso più profondo della famiglia, specie delle famiglie immigrate che vendono nel principio di solidarietà il fondamento del loro capitale sociale familiare, che è la loro ricchezza, ma è anche un fattore di coesione sociale per tutta la società. Forse da questo incontro potrebbe nascere una nuova visione della famiglia come un soggetto sociale che non è solo una somma di individui, ma è un bene relazionale. Un bene comune che consiste di una realtà relazionale. (Donati 2000). La sua unità è una relazione oggettiva di coordinamento fra persone che hanno un vincolo sponsale e/o generativo (genitore-figlio). Per quanto riguarda la coppia, non è solo l’incontro di due desideri, volontà, aspirazioni, ecc., anche se esse si orientano ad un vincolo esclusivo e stabile, perché ciò che è in gioco è un bene che va al di là delle loro intenzioni e proiezioni soggettive (coinvolge i figli e comunque la comunità intorno). La relazione genitore-figlio è comunque famiglia, anzi, oggi, diventa un vincolo ancor più indissolubile di quello di coppia.

Il bene relazionale è un bene comune che ha bisogno di essere rappresentato, socialmente e giuridicamente. Per questo, io propongo da tempo il concetto della famiglia come soggetto di cittadinanza: la famiglia ha dei diritti di cittadinanza come diritti aggiuntivi, non sostitutivi di quelli personali, in forza delle mediazioni che la famiglia esercita nella coppia e fra genitori e fi gli. Il concetto di famiglia come “soggetto di cittadinanza” può sostituire quello di famiglia come “persona giuridica” che solleva tanti problemi per la dottrina giuridica contemporanea, aliena dal personalizzare la famiglia. Il medesimo concetto rende ancora più chiaro ed evidente il rapporto di sussidiarietà che lo Stato e tutta la comunità civile deve instaurare con la famiglia quale bene relazionale avente significati e funzioni rilevanti per la sfera pubblica, e non solo quale sfera privata. Nello stesso tempo chiarisce che la famiglia non è solo quella con fi gli, ma lo è anche la semplice coppia sposata che è aperta all’avere figli e si ordina alla loro cura, anche se materialmente non ne ha di propri.

5.3. Quali orientamenti per una carta delle regole di convivenza e per la mediazione interculturale nei servizi alle famiglie? Per gestire le differenze culturali, dobbiamo innanzitutto identificare dei criteri che guidino tutti i presenti nel selezionare le richieste di coloro che si confrontano (autoctoni e immigrati, ma anche le loro sub-culture interne) (criteri di ammissibilità) e poi individuare i principi operativi con cui realizzarle.

a)       Criteri di ammissibilità delle richieste. Possiamo identificare le richieste dei partecipanti (sia per gli autoctoni sia per gli immigrati e migranti in genere) in quattro categorie:

  1. le richieste non tollerabili: riguardano comportamenti che violano la dignità della persona umana (ormai universalmente riconosciuta dopo le varie dichiarazioni che scaturiscono dal quella fondamentale dell’ONU del 1948) e i diritti della famiglia come tale (in quanto alla famiglia il nostro ordinamento costituzionale assicura uno status di particolare favore, senza con ciò penalizzare altre forme di vita); non è tollerabile accettare una forma di matrimonio che non abbia il requisito del consenso dei nubendi o una famiglia in cui la donna sia considerata inferiore o comunque subordinata all’uomo;
  2. Le richieste tollerabili: sono quelle del riconoscimento di idee, opinioni e anche valori, che non si traducono in comportamenti lesivi del diritto comune vigente (ad esempio: una persona può ritenere che la donna sia inferiore all’uomo, o può pensare che la infibulazione sia una buona pratica, ma ciò deve assolutamente rimanere nell’ambito delle sue idee, che vengono tollerate in quanto non si traducono in effettive lesioni delle persone e degli altrui diritti legittimi);
  3. Le richieste di rispetto, ma non necessariamente di condivisione: sono quelle che esigono qualcosa di più della mera tolleranza, e fanno obbligo di avere un rispetto attivo (per esempio nei confronti di valori religiosi profondi e di costumi che significano sentimenti umani da rispettare); è il caso, per esempio, del velo islamico, quando non rende irriconoscibile il viso della persona;
  4. Le richieste di condivisione: sono quelle che riguardano valori e regole che le persone e le famiglie hanno o possono avere in comune, qualora se ne riconosca la validità per tutti; è il caso, per esempio, del matrimonio come fondamento giuridico della famiglia che rende chiari ed espliciti i diritti-doveri reciproci fra i coniugi e verso la comunità.

I quattro principi di non-tollerabilità, tollerabilità, rispetto, condivisione, non sono solamente dei paletti o vincoli. Sono invece dei codici simbolici che segnano un percorso di crescita verso una maggiore intesa fra culture fondata su valori autentici. Essi sono fondamentali per stabilire una politica di immigrazione che eviti le carenze e gli errori dei modelli di integrazione socio-culturale dei migranti sin qui perseguiti, quali il modello dell’assimilazione (praticato, per esempio, in Francia e in Israele), il modello dell’omogeneizzazione (Stati Uniti e Giappone), la separatezza in comunità chiuse (com’è stato in passato in Germania, con la politica del “lavoratore-ospite”), o ancora la pura differenziazione funzionale (il tradurre i problemi dell’integrazione socio-culturale ad una questione di utilità reciproca, qualcosa di analogo all’affidare l’integrazione ad una sorta di lex mercatoria fra le diverse comunità etniche). La soluzione verso la quale dovremmo orientarci, a mio avviso, è quella di un pluralismo (sociale, culturale, anche giuridico) relazionale, che si orienta alla costruzione

di una Polis nella quale ciascuna cultura abbia un propria sfera autonoma interna (valori e opinioni sulle relazioni familiari), che trovano limiti precisi in una base di valori comuni (diritti della persona umana e delle relazioni familiari come valore condiviso), ma per il resto cercano il massimo di reciprocità fra le differenze nella sfera pubblica, là dove le persone e le famiglie interagiscono fra loro costituendo la sfera cittadina (e quindi definendo il complesso dei diritti-doveri di cittadinanza).

In altri termini, si tratta di produrre una sfera pubblica plurale, che non neutralizzi le differenze, in particolare la religione, ma anzi sia “religiosamente qualificata” in quanto consente a ciascuno (persona e famiglia) di presentarsi nello spazio pubblico con la propria identità, valorizzando quanto di positivo vi è in ciascuno, senza però venire meno ai principi fondamentali che caratterizzano la dignità della persona e della famiglia. Nella mia prospettiva, si tratta di qualificare la tolleranza. La tolleranza, infatti, non può essere intesa come indifferenza (secondo una certa etica liberal-individualistica), né come relativismo culturale, né come meticciato (accostamento di valori e comportamenti opposti, come quando si mettono sullo stesso piano matrimoni monogamici e non, relazioni etero e omo-sessuali, famiglie stabili e convivenze provvisorie, ecc.), e neppure come tolleranza per interesse funzionale (accettare tutto ciò che ha una utilità, quale che sia la sua liceità morale o validità giuridica): la tolleranza è dialogo attivo e capace di relazionare i diritti-doveri propri con quelli altrui. La tolleranza o è relazionale o non è.

Da politiche di integrazione intesa come assimilazione e/o omogeneizzazione, dobbiamo passare a politiche di riconoscimento delle identità che evitino la separatezza così come la confusione e non siano in funzione del mero “mercato” (delle scelte matrimoniali, delle scelte procreative, delle prestazioni di lavoro, dei consumi, delle opinioni, ecc.), ma abbiano una solida base in valori e principi comuni, che non possono non essere quelli che scaturiscono dalla concezione che vede nella persona umana – dotata di una sua dignità inalienabile – il soggetto e il fine di ogni azione. La politica del riconoscimento delle diversità trova il suo fondamento primo nella prospettiva transculturale, secondo cui il confronto e il dialogo sono possibili, anzi necessari, tra tutte quelle culture che condividono un comune nucleo di valori e principi, che in quanto tali sono oggettivi.

In altri termini, accettare la pluralità delle culture è valido, e positivo nei suoi effetti, solo se la relatività delle culture (intesa come loro variabilità) è l’incarnazione diversa di valori e principi che restano oggettivi, validi per tutti, e dunque a patto che non significhi in alcun modo relativismo culturale (il quale nega l’esistenza di valori oggettivi comuni).

b) Principi operativi. Più in concreto, dobbiamo identificare i principi operativi per la stesura di una Carta della convivenza civile nei servizi di consultorio familiare. Ne identifico tre.

  1. Il principio di condizionalità costituzionale: l’immigrato va trattato come persona, e vanno rispettati tutti i suoi diritti familiari, a condizione che accetti l’ordinamento giuridico nel quale si inserisce; lo slogan è “la società (città) nella quale ti inserisci ti riconosce nella tua identità, ti dà sostegno e ti valorizza nella tua identità culturale a patto che tu accetti i valori e i principi inscritti nel suo ordine costituzionale”. Ciò implica, evidentemente, la clausola di accettazione della democrazia occidentale, non solo in senso procedurale (processi politici decisionali), ma anche in senso sostanziale (dei valori tutelati e promossi).
  2. Il principio della clausola sociale: così come nella produzione di beni che circolano a livello internazionale (mondiale o sovranazionale) tutti gli Stati debbono osservare alcune regole minime (per esempio deve essere riconosciuto un salario minimo, deve essere vietato il lavoro minorile sotto una certa età, ecc.), anche in materia familiare e dei servizi (scolastici e sociali, innanzitutto) debbono essere osservate delle regole minime (legislazione minima) che danno sostanza alla sfera pubblica nelle singole città, regioni, Stati, comunità sovranazionali e relazioni internazionali. Nel caso delle materie familiari, queste regole minime concernono la pari dignità giuridica e morale delle persone umane, quindi l’uguaglianza dei coniugi di fronte alla legge, i diritti minimi dei fi gli, e così via; esse debbono essere accettate da tutti, se si vuole una convivenza sana e pacifica.
  3. Il principio del bene (valore o diritto) come oggettività posizionale che richiede volontà di adesione ai valori della cultura in cui si entra: quanto più una società diventa multiculturale, tanto più un bene (un valore, un diritto) non può essere declinato in maniera uniforme, ma deve essere declinato a seconda della posizione di partenza in cui una persona (e una famiglia) si trova; ad esempio, è noto che alcuni sacerdoti anglicani sposati si sono convertiti al cattolicesimo e la Chiesa cattolica ha accettato che rimanessero in quello stato, che era “posizionale” (di partenza), senza con ciò venire meno al principio secondo cui il sacerdozio cattolico implica il celibato; parimenti, chi proviene da Paesi in cui sono ammessi certi principi (ad esempio la poligamia, come costume locale) non dovrebbe essere obbligato a vivere secondo il principio del Paese ospitante (ad esempio la monogamia), ma non dovrebbe più procedere a replicare il matrimonio e comunque non potrebbe fare un matrimonio poligamico nel nuovo Paese (ad esempio in Italia); la regola generale è la seguente: tu puoi sederti al tavolo, venire tra noi, anche se un certo bene (valore, diritto: ad esempio il diritto a fare famiglia) tu lo declini diversamente, ma a due condizioni:
    1. Che accetti gli altri punti di vista e i valori di cui sono portatori (per esempio i valori espressi nel matrimonio monogamico), e
    2. Che accetti di essere aiutato a realizzare i valori della cultura che è propria della comunità in cui ti inserisci.

In altri termini, se provieni da un Paese in cui sei già sposato con due, tre o quattro mogli puoi mantenere questa condizione sotto il profilo soggettivo, anche se lo Stato italiano non può conferire a tutte lo status di moglie, ma solo tutelare le persone e le relazioni con apposite norme. Se entri celibe, puoi solo sposarti con un matrimonio monogamico, ed io ti aiuto a realizzare questo valore (il bene, il diritto che il matrimonio monogamico ha per noi, secondo quanto dicevo più sopra circa il riconoscimento della dignità umana che quest’ultimo incorpora). Se vieni tra noi, non ti chiedo da dove vieni (non ti chiedo di giustificare le tue scelte passate), ma ti chiedo dove vuoi andare, cosa vuoi fare, e ti propongo un percorso che ha dei valori in comune, senza i quali non potremo convivere pacificamente. Ciò vale anche per le nuove culture, al momento del tutto minoritarie, che reclamano il riconoscimento di vari tipi di unioni libere come “famiglie”. Il dettato costituzionale italiano (art. 29) non consente una equiparazione di queste convivenze, peraltro molto diverse fra loro, con la famiglia normo-costituita. Esse possono avere precise tutele in base a principi di equità e di obbligazioni naturali riferiti alle persone come singoli, senza con questo creare altri modelli di famiglia che istituzionalizzerebbero delle relazioni che non hanno le qualità proprie della famiglia. È mia convinzione che la maggioranza degli Stati europei si stia orientando a creare due regimi giuridici ben distinti: il regime familiare e quello di altre relazioni primarie.

Il problema comune a questi due regimi è quello della tutela del membro debole. La differenziazione sta in questo. Il regime familiare chiede un piena accettazione di obbligazioni reciproche fra i coniugi, basate su principi di uguaglianza, libertà e solidarietà, che vale sia per la vita familiare spesa assieme, sia per il futuro nel caso si arrivasse alla separazione o al divorzio. Il regime di convivenza, invece, richiede minori obbligazioni, ma in cambio offre meno tutele, le quali riguardano solo la vita trascorsa assieme e non impegnano il futuro delle persone nel momento in cui esse si separano. La diversità, dunque, sta nell’adottare il principio di proporzionalità per cui vi sono più garanzie per chi si assume più obbligazioni.

5.4. Quali orientamenti per una mediazione interculturale laica nei servizi alle famiglie? La soluzione laica ai problemi della famiglia in una società interculturale è dunque quella di un riconoscimento di valori comuni e di costruzione di principi e regole che li realizzino in tutte le parti della società, siano esse le comunità locali o le comunità etniche. Per tale politica, servono servizi orientati a mediare fra le diverse culture nell’ottica di accogliere, accompagnare e integrare le famiglie che hanno diverse origini e diversi progetti migratori. La mediazione interculturale non va intesa solo come mediazione linguistica e di alfabetizzazione, ma come mediazione simbolica che è capace di tradurre, per quanto possibile, una cultura nell’altra mediante la sfera comune. Una sfera comune in cui deve essere spiegato qual è il correlato o quasi correlato di un certo segno o comportamento in un’altra cultura, qual è il senso delle proibizioni specifiche che essa prevede, e se siano accettabili o meno. Qui hanno un grande spazio di azione le associazioni familiari, alle quali dovrebbe essere riconosciuto un ruolo societario molto più ampio e rilevante di quanto non sia stato sinora; purtroppo, le associazioni familiari sono ancora viste come agenzie marginali e residuali, come crocerossine per i casi più estremi e urgenti di intervento di aiuto, laddove dovrebbero essere e funzionare come strutture portanti di una società civile interculturale. È importante che i mediatori siano formati a concepire i processi di integrazione delle famiglie immigrate come sistemi di osservazione-diagnosi-guida relazionale, i quali hanno il loro fulcro proprio nell’approcciare i problemi degli individui come problemi familiari e coinvolgono necessariamente le famiglie come soggetti attivi (e non solo destinatari passivi) degli interventi, in senso lato di welfare.

Al di là del dibattito politico e giuridico sulle leggi, c’è molto da fare in termini di attivazione di buone pratiche e di azioni positive di empowerment [miglioramento] delle famiglie come protagoniste di una nuova civiltà interculturale. Il consultorio familiare di ispirazione cristiana può svolgere un ruolo fondamentale in tale direzione, se e in quanto sarà capace di offrire a tutte le famiglie un servizio ispirato al diritto naturale e ai diritti alla natura di cui ho detto.

6. Conclusioni: il consultorio di ispirazione cristiana come emblema di una laicità dopo-moderna basata sulla ragione relazionale. La politica dei consultori familiari deve essere laica nel senso che deve evitare di dare priorità alla fede sulla ragione (in tal caso sarebbe confessionale), così come deve evitare di separare radicalmente tra loro fede e ragione (in tal caso sarebbe laicista, perché promuoverebbe una ideologia).

Il problema della laicità è come gestire questa relazione. Laicità significa autonomia relativa (relazionale!) fra ambito politico e ambito etico-religioso. La politica ha la sua logica e i suoi codici, deve prendere decisioni collettive vincolanti finalizzate a realizzare la giustizia e il bene comune. L’ambito etico-religioso, d’altra parte, ha la sua logica e i suoi codici: il suo senso profondo sta nell’essere l’ambito nel quale viene conferito senso all’agire quotidiano. È l’ambito che vivifica la società civile, la quale esiste solo se è riconosciuto il primato della libertà religiosa come fondamento di tutti i diritti umani (Giovanni Paolo II).

Il primato della libertà religiosa come fondamento di tutti i diritti fondamentali di promozione umana è stato sconvolto (messo a tacere e poi rovesciato) dal modello hobbesiano di Stato che si è affermato nell’epoca moderna e tuttora persiste nella forma dell’assetto lib-lab. In questo assetto, la libertà religiosa è messa sotto la tutela del Leviatano, che si serve oggi della bio-politica per colonizzare i mondi vitali delle famiglie. Non resta dunque che lavorare per affermare un principio di laicità dopo-moderno in cui la società civile, ispirata dalla libertà religiosa, possa esprimere un quadro costituzionale di valori comuni entro cui ciascun soggetto, persone-famiglie-comunità, possano perseguire i loro beni relazionali.

Il consultorio familiare potrebbe/dovrebbe essere uno di questi ambiti, in cui le pratiche sociali libere da inibizioni e concessioni bio-politiche, potrebbero far emergere nuove istanze di umanizzazione, quali di fatto nascono dalla libertà positiva di credere, appartenere, essere legati e riferirsi ad una realtà trascendente come quella che si esprime nel Logos. In particolare per l’Italia, vi sono compiti precisi che spettano sia allo

Stato sia alla Chiesa (essi sono chiaramente espressi nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede 2002).

  1. Allo Stato spetta il compito di non escludere l’elemento religioso dalla sfera pubblica, e quindi anche dai servizi pubblici, statali e non statali. Ci sono limiti, evidentemente, che stanno nella Carta dei Valori e nell’ordine pubblico. In più allo Stato spetta il compito di garantire l’obiezione di coscienza e il diritto alla disobbedienza civile. Debbono essere fortemente censurati i comportamenti di coloro che negano il diritto all’obiezione di coscienza, com’è avvenuto nel caso di una rete di esperti nominata dalla Commissione dell’Unione Europea (parere fornito il 15 dicembre 2005), che hanno denunciato il Concordato fra la Slovacchia e la Santa Sede solo perché prevede l’obiezione di coscienza di fronte all’aborto e ad altri atti medici (come la fecondazione assistita).
  2. Alla Chiesa spettano compiti non meno impegnativi. Innanzitutto, il rispetto del pluralismo politico (il pluralismo etico è un’altra cosa, e deve essere inquadrato alla luce della dottrina sociale). Rispetto della logica e della specificità della etica politica. Poi il rifuggire dal clericalismo, dal desiderio di privilegi o di servirsi di istituzioni pubbliche o di partiti politici, che sono sotto la responsabilità autonoma dei laici. Il pieno riconoscimento del ruolo specifico e proprio dei laici nel campo pubblico e politico, il che significa evitare invasioni di campo della gerarchia e la promozione di una mentalità laicale che significa fiducia, rispetto, stima del lavoro del laico. Questa è la «sana laicità» auspicata da Benedetto XVI (2006), la quale «implica l’effettiva autonomia delle realtà terrene, non certo dall’ordine morale, ma dalla sfera ecclesiastica» perché «questi valori, prima di essere cristiani, sono umani». Alla fine, la laicità che credenti e non credenti potrebbero e dovrebbero condividere è quella naturale reciprocità fra il sentimento religioso e la ragione umana che mostra di essere assai fecondo sul piano operativo, ben più che a livello delle teorie e delle ideologie.

Si pensi a quanto i laici credenti e non credenti fanno nei consultori familiari per aiutare le persone a vivere di speranza, di fiducia, di carità in modo ragionevole e del tutto razionale rispetto ai problemi delle persone e delle famiglie che presentano i loro problemi e le loro esigenze. Il fatto è che, oggi, specialmente in Italia, è la politica a colonizzare il civile, perché è la politica che crea fratture e divisioni fra credenti e non credenti, mentre invece il senso comune, – laico appunto –, delle famiglie individua in modo semplice e spontaneo delle soluzioni che possono facilmente essere condivise in termini di buone pratiche. Il fatto è che, quando le persone ragionano sui bisogni reali del loro mondo di vita quotidiana, e quando le famiglie sono messe in grado di ragionare sulle loro stesse relazioni, interne ed esterne, fra di loro, allora il codice della politica lib-lab va sullo sfondo, ed emerge il potenziale di sviluppo civile.

Questo compito sembra essere quello proprio di un consultorio familiare che abbia due qualità:

  • “Primo, sia ‘associazionale’, cioè organizzato come un ambito di democrazia deliberativa fra i partecipanti (“argomento deliberativo”);
  • Secondo, sia il luogo della generazionalità, ossia centrato sui temi della vita come dono e scambio generativo (quello che ho chiamato l’”argomento generativo”)”.

 Il consultorio di ispirazione cristiana ha queste caratteristiche, anche se le deve continuamente rinnovare e accrescere con una maggiore riflessività. Seguendo tale pista, il consultorio familiare di ispirazione cristiana potrebbe diventare l’emblema di una laicità dopo-moderna basata sulla ragione relazionale. Spetta al legislatore cogliere l’opportunità di rendere effettiva questa nuova laicità. Che è la disponibilità, richiesta a tutti, senza distinzioni di credo religioso, all’azione comune nella sfera pubblica – ma non statalizzata – del consultorio con tutti coloro che riconoscono il valore della vita umana come bene da tutelare in tutti i momenti della sua esistenza, attraverso quelle relazioni sociali che lo fanno fiorire anziché manipolarlo, distorcerlo o annichilirlo.

Pierpaolo Donati, ordinario di Sociologia, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Bologna.

Anthropotes  vol. XXIV, n. 1, 2008                pagg. 205-245-249

www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwjFsZbHkuvpAhUhzqYKHZPNApcQFjAAegQIARAB&url=http%3A%2F%2Fwww.istitutogp2.it%2Fpublic%2F2008-1-XXIV.pdf&usg=AOvVaw153YgXdzs82Ukx_gPD7nMf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Cremona. Tre incontri online con l’ostetrica

Il Consultorio Ucipem di Cremona organizza tre incontri online con l’ostetrica Marina Valenti riguardanti le fasi dopo il parto: cura del neonato, allattamento e crescita. Gli incontri sono gratuiti e si terranno attraverso la piattaforma Google Meet.

 (Fonte: TeleRadio Cremona Cittanova)

www.diocesidicremona.it/blog/consultorio-ucipem-tre-incontri-online-con-lostetrica-06-06-2020.html

 

Mantova.  Etica Salute & Famiglia – anno XXIV n. 03 – maggio giugno 2020

Numero dedicato all’epidemia Covid-19

  • Bioetica al tempo del Coronavirus. Scegliere chi curare? Quali criteri?       A. Savignano
  • La comunicazione medica al tempo del Covid -19                                         G. Zacché
  • Ipotesi di futuro                                                                                            A. Orlandi Pincella
  • Cambiamenti in quarantena: effetti sui pazienti e sui nuclei problematici    P. Breviglieri
  • Ostetrica ai tempi del Covid-19                                                                    F. Cestaro
  • Il servizio pastorale nei reparti Covid                                                      P. Gibelli, S. Menegollo   
  • Sarò mamma al tempo del Coronavirus!                                                        A. Venegoni
  • Il dolore al tempo del Covid-19                                                                    G. Cesa, S. Ignaccolo
  • Usciremo …                                                                                                    P. Breviglieri

 

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA%20SALUTE_FAMIGLIA%20-%202020%20anno%20XXIV%20n%C2%B003%20-%20Maggio%20Giugno.pdf

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CORONAVIRUS

A proposito di “Un dissidio sulla autorità”

La pandemia ha messo il mondo in una situazione che forse è di natura inedita. Non che non ci siano state altre pandemie prima di questa e con meno morti di questa. Quella più simile all’attuale è stata la Spagnola tra il 1918-1920, la quale ha richiesto restrizioni simili a quelle attuali, come la necessità delle mascherine, la chiusura delle chiese e l’impossibilità a celebrare i funerali. Allora in Italia morirono di Spagnola ben 400.000 persone circa. A ridosso della prima guerra mondiale, quel contagio fu assorbito internamente a quel dopoguerra.

Il fatto che questo virus si collochi negli organismi umani, trasmettendosi attraverso la loro natura relazionale, come per altro nelle precedenti pandemie, ma anche e soprattutto per il moltiplicarsi di quei contatti, grazie alla velocità in cui avvengono con gli strumenti tecnici attuali e grazie anche all’espansione della mobilità delle persone, delle cose e dei mezzi di trasporto, ci fa pensare che questa pandemia sia di natura appunto inedita, cioè propria di questi ultimi anni e della cultura attuale. D’altronde, ogni pandemia ha il suo contesto socio culturale.

            Questo virus è un elemento biologico incosciente e senza volontà, che intercettando però il corpo umano ne può usufruire per trasmettersi attraverso le sue relazioni, oggi particolarmente efficienti grazie alla scienza e alla tecnica umana. Mi pare che qui si ponga il problema originario dell’autorità. Come è possibile che un essere del genere metta in crisi l’“homo sapiens”? Che senso ha “conoscere se stessi” se poi ti becchi un virus al “Tempio di Delfo”? E prima ancora si potrebbe ribaltare l’assioma delle origini: “perché il nulla e non l’essere?”

            Questo virus pone domande radicali non solo alla coscienza personale, ma a tutto l’occidente, al valore concesso al pensiero, alla razionalità, ai costrutti che tengono in piedi le forme razionali del sapere come la scienza e la tecnica, “pensiero artificiale” compreso.

            La polarità in cui si identifica Agamben, ossia contro l’autorità della scienza e della tecnica, riguarda in verità lo stadio successivo in cui continuano a operare oggi, limitando appunto le libertà personali. Mi pare che il suo sia un richiamo ad Heidegger nelle affermazioni più dirette contro la scienza e la tecnica di “Ormai solo un Dio ci può salvare”, famosa intervista del “Der Spiegel” del 1963.

Al di là di Heidegger mi sembra che in questo dibattito sia più opportuna la tesi della Assialità di K. Jaspers, il quale segnalava l’“epoca assiale”, come quell’epoca sorta anche con l’assioma delle origini, il principio unificatore, che dava un ordine e una razionalità al tutto. «L’asse di cui si parla» scrive Paolo Costa in “La sfida teorica dell’assialità” «è un asse di rotazione e l’immagine che la metafora dell’assialità vorrebbe evocare è il cambiamento più radicale della storia» (Academia): quella di mettere in questione il primato della scienza e della tecnica. La natura metaforica dell’assialità è però la sua debolezza, o meglio è una tesi «eccedente» scrive ancora Paolo Costa, «nel senso che si colloca al di là di qualsiasi convalida o smentita puntuale». Ma è qui il punto, dove l’eccedenza della metafora dell’assialità, supportata ora dalla convalida di questa pandemia, provocata da quell’elemento biologico incosciente e senza volontà: trova qui la ragione di girare l’asse oltre quell’assioma delle origini, e quelle sue versioni moderne della ragion sufficiente.

            Come girare l’asse allora, senza cadere nell’individualismo di parte? Forse è sufficiente guardare il rovescio della medaglia.

Non solo è sbagliato, ad esempio, affermare oggi che con un tasso di diffusione R 0.5 per essere contagiato debba essere avvicinato contemporaneamente da due persone già contagiate. Chi l’afferma non si accorge che c’è anche il rovescio che non si vede: ecco, forse è sufficiente guardare il rovescio di quel R 0.5, ossia il fatto che quel tasso di diffusione del contagio è il risultato di un popolo che si è dedicato a una disciplina grazie alla quale ha limitato temporaneamente la propria libertà, ha rinunciato temporaneamente alla propria mobilità. Il peggio è non riconoscere che quella disciplina di popolo ci salva dal contagio.

            Il peggio è non riconoscere che quel che sono lo scopriamo “con” gli altri, grazie agli altri. Le relazioni con gli altri ci sono indispensabili per sapere chi sono. Non c’è virus che tenga, in questa gara mortale a chi sia più astuto: se per lui è una gara alla sopravvivenza e per quelli tra noi che ritengono che l’io si salva come “superuomo” o “piccolo uomo” che annega in uno specchio d’acqua. Non c’è virus che tenga per chi riconosce che passare dall’io al noi ci salva la vita. Può essere questo un segno del Risorto che passa, precedendo la nostra immaginazione e pensiero?

Don Giuseppe Villa

blog: Come se non di Andrea Grillo  28 maggio 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/a-proposito-di-un-dissidio-sulla-autorita-di-giuseppe-villa

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DALLA NAVATA

Domenica di Pentecoste.  Anno A – 31 maggio 2020

Atti Apostoli     02, 04. e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo      in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.

 Salmo             103, 30. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.

1Corinzi             12, 03. Nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo.

 

Giovanni           20, 20. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».

 

 

 

Fedeltà al proprio dono

Ancora e sempre Pentecoste: quando ti senti perdonato e amato, e forse ancora di più dopo il tuo errore, è lui, lo Spirito. Quando davanti alla prova senti nascere l’umile rete di forza e pace, è ancora lui, lo Spirito.
Mentre erano chiuse le porte per paura dei Giudei… ecco qualcosa che ribalta gli apostoli, che rovescia come un guanto quel gruppetto bloccato dietro porte sprangate. Qualcosa ha trasformato uomini barcollanti in persone danzanti di gioia, “ubriache” di coraggio: è lo Spirito, fiamma, vento, terremoto su realtà pericolanti e sbagliate, che lascia in piedi solo ciò che è davvero solido.

È accaduta la Pentecoste e si è sbloccata la vita! Quando segui le tue paure, la vita si chiude sempre. Paralizzata. I discepoli hanno paura anche di se stessi e di come lo hanno rinnegato.
Eppure Gesù viene. In quel luogo manca l’aria, si respira dolore e una comunità si sta ammalando.
Eppure Gesù viene.

Papa Francesco continua a ripetere che una chiesa chiusa, ripiegata, paurosa, è una chiesa malata.
Eppure Gesù viene.

Perché il respiro di Dio non sopporta gli schemi e la loro logica matematica. La casa fu piena di un vento che accese il cuore, sposò una libertà, consacrò una diversità. E’ proprio dello Spirito dare ad ogni creatura una genialità propria, una santità unica, fatta solo per me. Io non devo essere l’opposto di me stesso, per essere santo: mi è stata data una manifestazione specifica dello Spirito. Egli fa della mia diversità una vera ricchezza.
Com’è possibile? Questo accade perché egli scende singolarmente su ognuno, e ciascuno deve essere fedele al proprio dono!

E se tu fallisci, se non realizzi ciò che puoi essere, ne verrà una disarmonia nel mondo intero, un rallentamento di tutto il cosmo verso la vita. Siamo perennemente immersi, e in viaggio, verso Dio.
A noi cosa compete? Accogliere quel respiro che ci trasforma, perché il mio piccolo io deve dilatarsi nell’infinito io divino.

E poi la missione: coloro a cui perdonerete saranno perdonati, coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati. Il perdono è l’impegno dei benedetti dallo Spirito, donne e uomini, grandi e bambini.
Perdonate, che vuol dire: piantate piccole oasi di pace nei deserti di violenza; create strade di avvicinamenti, aprite porte e sentieri, e le paure spariranno. “Perdonare significa de-creare il male” (Raimon Panikkar).

E infine gioca al rialzo, offre un di più: alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo.
In quella stanza chiusa e dall’aria stagnante, entra il grande, ampio e profondo ossigeno del cielo.

Ancora e sempre il respiro di Dio che non sopporta gli schemi. E come un tempo il Creatore respirava su Adamo, così ora Gesù soffia vita regalandoci il suo modo unico, originale, di amare e spalancare orizzonti, diversi e speciali, per ognuno di noi.

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-31-maggio-2020-p-ermes-ronchi

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DONNE NELLA (per la) CHIESA

Una Chiesa con cervello materno

La maternità provoca una esplosione neuronale e dota il cervello di nuove abilità. Sembra che madre natura prepari biologicamente le madri per reagire davanti all’emergenza e proteggere la vita. Per esempio, un topo madre è più capace di affrontare il pericolo, gestire lo stress e trovare l’uscita di un labirinto, che un topo vergine. La cosa interessante è che questi tratti si sviluppano anche nelle femmine di altre specie che adottano cuccioli senza averli partoriti. L’attività di cura genera cambiamenti neurologici.

 Nel mondo degli esseri umani, nascere donna non vuole dire essere madre. Madri si diventa con una trasformazione dell’identità femminile, che — scrive Giulia Paola Di Nicola ne Il linguaggio della madre (Città Nuova) — passa «dell’essere per sé all’essere per l’altro». Questo «decentramento» non è più l’adattamento regolato dall’istinto: è trasformazione che impegna la libertà, un vero travaglio. E non sempre accade. Ci sono donne con figli che forse non hanno un «cervello materno», e donne madri che non hanno figli biologici. Il cervello materno è creativo per trovare le strade per accudire, moltiplica la propria forza, sa rischiare e sacrificarsi. Reagisce creativamente davanti all’emergenza. In questo numero raccontiamo storie di donne con cervello di madre. Donne coraggiose e resilienti, capaci di stare in prima linea in contesti di guerra, epidemia, fame, povertà, tratta… in ogni periferia esistenziale, sfidando schemi preconcetti, dando vita mentre danno la loro vita.

Queste donne incarnano il volto della Chiesa Madre, chiamata a sviluppare un «cervello materno», a diventare «madre dal cuore aperto» (Evangelii gaudium 46), orientata verso poveri ed emarginati (ibidem, 48). Una Chiesa Madre è Chiesa «in uscita» che non si ripiega sulle proprie sicurezze e supera ogni tentazione di rigidità autodifensiva (ibidem, 45), di rinchiudersi in un groviglio di ossessioni, procedimenti o strutture (ibidem, 49). Una Chiesa Madre è “decentrata”: sa uscire per le strade senza guardare se stessa, senza paura di essere accidentata, ferita o sporca; e non rimane tranquilla finché ha un solo figlio senza orizzonte di vita. Le donne di questo numero svegliano il cervello materno della Chiesa e propongono con il loro esempio e la loro parola che tutti — uomini e donne, di qualunque fede e credo — lo adottino e lo facciano proprio. L’emergenza è una buona occasione per uscire da se stessi e incontrare l’altro.

                        Marta Rodriguez        Donne Chiesa Mondo               30 maggio 2020

www.osservatoreromano.va/it/news/2020-05/una-chiesa-con-cervello-materno.html

 

«È ora che la Chiesa cattolica chieda scusa alle donne»

Le gerarchie della Chiesa cattolica porgano le loro «scuse» alle donne per le «violazioni gravi» compiute nei loro confronti. Lo chiedono oltre 170 donne (ma la raccolta firme è ancora aperta) che hanno scritto una «lettera aperta» alle gerarchie ecclesiastiche. E l’hanno inviata al presidente della Conferenza episcopale italiane, cardinale Gualtiero Bassetti. Fra loro c’è la biblista e teologa francese Anne Soupa, già presidente della Conferenza delle battezzate e dei battezzati, che qualche giorno fa si è provocatoriamente candidata a vescovo di Lione («tutto mi rende legittima, ma ora tutto me lo impedisce»). Ci sono religiose, come la teologa domenicana Antonietta Potente e la missionaria comboniana Elisa Kidané. C’è la pastora valdese Daniela Di Carlo, donne credenti in altre religioni. E ci sono tante donne, molte impegnate nelle comunità di base, nelle associazioni femminili, nel Segretariato delle attività ecumeniche (Sae) e nell’ Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne.

«È alla questione della presenza delle donne nella Chiesa che vogliamo riferirci», si legge nella lettera aperta. «Non è affatto una richiesta di spartizione di potere, di cooptazione all’interno del sistema clericale attuale, ma è, invece, la questione dell’assunzione nei fatti della centralità delle relazioni, cui rinvia l’enunciato fondativo: Maschio e femmina li creò». Non si tratta quindi di rivendicare spazi di potere in una struttura avariata. Ma di ristabilire l’equità e la giustizia nella Chiesa, a partire dalle relazioni di genere, che «sono da molto tempo malate, perché intrise di stereotipi ingessanti a proposito delle donne: visioni svilenti, che ne deformano l’immagine negandole integrità». Da qui deriva «il disvalore del femminile». E «non ci si risponda – prosegue la lettera – che la Chiesa venera Maria, la quale sarebbe superiore a tutti gli apostoli, e quindi con essa venera tutte le donne; perché è la persona incarnata che va rispettata, le donne in carne e ossa, non la loro trasfigurazione immaginaria».

L’obiettivo è anche di trasformare una struttura maschilista e verticistica in quel «discepolato di uguali» di cui parla la teologa Elisabeth Schüssler-Fiorenza, perché il messaggio evangelico «è testimonianza di libertà per donne e uomini», non di gerarchie e disuguaglianze. L’elenco delle «violazioni gravi di cui il clero maschile si è macchiato (con la complicità a volte di donne consacrate) nei confronti del sesso femminile» è lungo.

  • «Ha escluso per secoli la donna dal riconoscimento di essere immagine di Dio, poiché l’imago Dei era attributo esclusivamente riservato all’uomo».
  • Ha strutturato «una visione culturale della donna che ha gravemente nuociuto alle relazioni tra uomini e donne, legittimando con il carisma del sacro i rapporti di dominio e sottomissione che caratterizzano le culture patriarcali».
  •  Ha spesso «usato e sfruttato il lavoro delle donne consacrate come lavoro schiavo, senza riconoscimento economico e sociale».
  • Ha commesso – sebbene non sia possibile determinarne quantità e qualità, perché molto è tenuto segreto – «abusi spirituali, di coscienza e sessuali».
  •  Ha contribuito, «con la demonizzazione del corpo femminile e la costruzione dell’immagine della “donna tentatrice”, a legittimare la visione per cui sono le donne le responsabili degli atteggiamenti molesti e abusanti dei maschi».
  •  Ha controllato «la sessualità e il corpo femminile, ignorando la sfera del desiderio sessuale femminile e mai mettendo in discussione le forme autoreferenziali e non interattive della sessualità maschile».
  • Non ha preso radicali distanze nei confronti «del consumo della pornografia e della prostituzione, attraverso una messa in discussione profonda della sessualità maschile».
  • Non ha ancora intrapreso «una seria riforma della liturgia, del linguaggio pastorale e catechetico, che riconosca la soggettività delle donne».
  • Non ha corretto «traduzioni dei testi sacri intrise di pregiudizio patriarcale».
  • Infine «perpetua una visione squilibrata del rapporto uomo/donna attraverso l’esclusione delle donne non solo dai ministeri, ma anche da tutte le sedi decisionali all’interno della Chiesa».

Nel corso della sua storia, sebbene assolvendo la struttura ecclesiastica, qualche rara volta i pontefici hanno chiesto perdono per le colpe commesse da «alcuni uomini di Chiesa»: per la condanna di Galileo e per gli errori del tribunale dell’Inquisizione (Giovanni Paolo II), per gli abusi sui minori commessi dai preti pedofili (Francesco). Ora, conclude la lettera, è venuto il momento di chiedere perdono anche alle donne: «Sarebbe un primo passo, soprattutto se non fosse una semplice dichiarazione di principio, ma si accompagnasse ad atti concreti».

Luca Kocci                 “il manifesto”  31 maggio 2020

https://ilmanifesto.it/e-ora-che-la-chiesa-cattolica-chieda-scusa-alle-donne

 

 

 

«Apprezziamo il papa ma serve più coraggio»

Paola Cavallari, presidente dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, autrice di

Non sono la costola di nessuno (Gabrielli editore) e di altri volumi sulle questioni di genere, è una delle quattro promotrici della lettera aperta alle gerarchie ecclesiastiche.

Quando è nata l’idea della lettera aperta?

Ha una lunga gestazione, covava come un desiderio a cui si esitava dare forma compiuta. Poi, quest’inverno, insieme alle altre tre promotrici abbiamo «messo al mondo» ciò che stava germinando nei nostri corpi e menti e abbiamo scritto il testo. Lo abbiamo poi esteso ai nostri contatti, intessendo relazioni a volte assai feconde. Era tutto pronto per l’8 marzo 2020, ma l’esplosione della pandemia ci ha fermato. Quindi esce oggi, nel calendario cristiano giorno di Pentecoste, giorno della discesa dello Spirito, della Ruah. E questo ci pare un segno profetico. La inviamo anche al presidente della Cei, sperando in un riscontro.

Scrivete che «non è una richiesta di cooptazione all’interno del sistema clericale». Cosa chiedete?

È un monito, un atto di presa di parola. Pensiamo che sia giunto il momento che si riconosca nei fatti, e non solo a parole, che le Chiese sono spazi di donne e uomini, soggetti di pari dignità. Ci interessa molto la pace nel mondo, ma vogliamo affermare che essa non potrà mai instaurarsi se non si intraprende una conversione che sia «uno stare di fronte» l’uno all’altra, come dice la Genesi, superbo emblema dell’alterità, in uno statuto di parità costitutiva dei due soggetti. Non si può parlare al posto delle donne e colonizzarle. Non si può innalzarle idealmente e poi svilirle nella pratica di vita e nelle relazioni concrete. Non si può chiedere loro quella complementarietà che va smascherata, perché nei fatti significa subordinazione».

Nella lettera si elencano le richieste di perdono dei papi (per Galileo, per l’Inquisizione, per i preti pedofili). Perché si fa fatica a chiedere perdono alle donne? Forse perché non si ammettono colpe?

La giornalista femminista statunitense Jamie Manson, sul National catholic reporter, ha scritto più di una volta che la questione delle donne è l’unica questione su cui papa Francesco fatica a elaborare e a intraprendere un cammino autenticamente evangelico. Tutte stimiamo papa Francesco e lo apprezziamo. Ma non possiamo tacere le chiusure che, nei fatti, costellano il mondo femminile».

Non basta la richiesta di perdono, ci vuole anche dell’altro.

Naturalmente ci vuole altro, e lo abbiamo scritto. La teshuvà, תשובה la conversione, è un complesso e faticoso riattraversamento degli errori commessi che porta a una trasformazione del proprio io, il quale si decentra allora rispetto all’altro. Succede per gli individui, come per le istituzioni. L’ammissione delle colpe non ha nulla di vendicativo, semmai è un itinerario di purificazione. Come scriviamo nella lettera: «Ce lo hanno insegnato Nelson Mandela e Desmond Tutu con i processi sulla verità, la giustizia e la riconciliazione in Sud Africa: è l’ammissione della violenza compiuta da parte di chi l’ha esercitata che lascia libere le vittime e permette loro di parlare e ricominciare a vivere.»

La questione riguarda solo la Chiesa cattolica o anche altre Chiese e fedi religiose?

Anche altre comunità di fede. E oso dire che riguarda le donne nel loro complesso. Hanno firmato la lettera anche donne di comunità religiose non cattoliche e non cristiane, perché hanno sentito che il tema le riguardava, hanno capito che si tratta di una sfida comune, anche se nello specifico parte in seno al cattolicesimo. Infatti abbiamo scritto: Le donne che, pur non essendo credenti, ritengono tuttavia che il simbolico religioso sia stato e sia determinante nella costruzione delle relazioni inique tra i sessi sono caldamente invitate ad unirsi a noi. Ringraziamo tutte. Infatti così è stato e ci sono firme di donne che non si autodefiniscono “credenti” – peraltro lo stesso cardinal Martini sollevava dubbi su una demarcazione apodittica tra credenti e non –, ma che sono consapevoli che l’immaginario simbolico originatosi dalla tradizione giudaico-cristiana ha impregnato la cultura tutta».

Intervista a Paola Cavallari a cura di Luca Kocci      “il manifesto”  31 maggio 2020

https://ilmanifesto.it/apprezziamo-il-papa-ma-serve-piu-coraggio

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FAMIGLIA

La famiglia nelle scienze umane di oggi

Aspirazione e ispirazione, da cui si esce e cui si torna, da cui si vuole uscire e cui si vuole tornare, nelle accezioni delle varie scienze umane anche nell’epoca digitale

Si tende a parlare della famiglia in senso negativo, quando si parla della sua crisi, della sua inesistenza nelle politiche economiche, della mancanza di punti di riferimento all’interno e all’esterno di essa. Per sostenere, invece, la famiglia bisognerebbe chiedersi cosa sia oggi e fornirle degli orientamenti per far fronte ai continui vacillamenti.

            Tra le scienze umane che scendono in campo per la famiglia vi è sicuramente la bioetica. Il bioeticista Paolo Marino Cattorini (ordinario Università dell’Insubria), nella recensione del film giapponese “Un affare di famiglia” (2018), si chiede: “Che cos’è la famiglia? Qual è la famiglia vera? Che cosa la tiene unita? Il passato comune, gli affetti, oppure la speranza in che cosa? Nel successo, nella salute, in figli sani e intelligenti? Oppure in una comunità aperta e accogliente, in una società che sia famiglia delle famiglie e che trasformi i clan avversari in alleati affidabili e generosi? […] una famiglia affettiva, dove i legami di sangue contano ben poco rispetto alla scelta di stare assieme. È un’apologia dei rapporti d’elezione, non subìti per imposizioni genetiche, ma disegnati dal caso e poi confermati nella libertà. Non è sempre l’amore che cementa queste relazioni, ma una complicità furbesca e goffa, e un gusto testardo di reinventarsi ogni giorno da capo, costruendo un riparo dall’invadenza sociale e trasmettendosi reciprocamente le astute arti della sopravvivenza”.

È risaputo che la famiglia odierna non è più “tradizionale” e “normativa” ma “affettiva”, ovvero un gruppo di persone legate da affetto e che trasmette prevalentemente o solamente affetto. Per quanto oggi ci siano varie conformazioni o configurazioni familiari, la famiglia deve avere almeno i tratti identitari essenziali che si ricavano dalla Costituzione. Nella Carta Costituzionale la famiglia è disciplinata sotto la rubrica “Rapporti etico-sociali” (artt. 29-31), quelli che formano la persona nella sua interezza. Rapporti, pertanto, che non possono chiudersi agli altri. Non solo: i rapporti etico-sociali sono collocati tra quelli civili, che riguardano il cittadino, e quelli economici, che riguardano il lavoratore. La famiglia, perciò, deve avere delle regole e deve educare alle regole e non essere solo culla d’amore e conforto dal mondo esterno (come si deduce pure dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in cui si legge che la famiglia deve “ricevere l’assistenza e la protezione necessarie per assumere pienamente le sue responsabilità all’interno della comunità”).

www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwip8JD99PHpAhUQVBUIHUiABy8QFjAAegQIAhAB&url=https%3A%2F%2Fwww.unicef.it%2FAllegati%2FConvenzione_diritti_infanzia_1.pdf&usg=AOvVaw0w5x6lFc8UXqXRL9zw3aD4

Un altro indice normativo interessante è quello della locuzione “diritti della famiglia” da cui si può arguire che la famiglia è anche soggetto di situazioni giuridiche passive, confermato dall’art. 31 comma 1 Cost. ove si legge “adempimento dei compiti relativi”.

            Le api hanno tanto da insegnare a ogni famiglia: un capo quale punto di riferimento, organizzazione, codice di comunicazione, impiego del tempo, ruoli e compiti, ritmi e riti, rispetto e solidarietà, fasi della vita, economia ed ecologia. La famiglia ha bisogno di recuperare la propria naturalezza: “[…] famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (dall’art. 29 Costituzione). Si ha bisogno di sapere quello che si deve fare, di avere delle regole (la “regula” era un’asticella per tirare linee dritte), dei ruoli (etimologicamente da “rotolo”, pertanto qualcosa di scritto), per l’unità familiare (di cui all’art. 29 comma 2 Cost.) e per la propria stabilità, così la famiglia diventa ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli (Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). In tal modo la famiglia torna a identificarsi con la casa così com’era nelle sue origini antropologiche e etimologiche, perché l’etimologia della parola famiglia è da ricondursi al termine osco “faam” (o voce simile), “casa”, da cui è disceso il latino “familia”, cioè l’insieme dei famuli (moglie, figli, servi e schiavi, con a capo il “pater familias”). Quella casa – non solo luogo fisico – che è innanzitutto un diritto dei figli in età minore (art. 316 comma 1 cod. civ.), che è oggetto di contesa nelle liti familiari o è covo di violenza domestica o di altre relazioni disfunzionali. In questi casi la famiglia perde i suoi connotati e non diviene la formazione sociale ove si svolge la personalità (art. 2 Cost.), non è fonte di salute (art. 32 Cost.) né scuola di vita (art. 33 Cost.).

Il bioeticista Cattorini continua: “Che cos’è la famiglia? Perché avere un figlio? Ci sono dei «fini» che la coppia persegue? A quali condizioni ci affidiamo a quell’amore che ci ha sorpresi e affascinati come un dono gradito? Chi crede ai valori di una tradizione, sa che per difendere la famiglia occorre promuoverla. Per liberare la verità, ancora nascosta, che essa custodisce, bisogna contestare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze (soprattutto verso le donne e i bambini), che la soffocano dall’esterno e la corrodono dall’interno”. L’aggettivo più attribuito dalle legislazioni alla famiglia è “naturale” (art. 29 comma 1 Cost.), perché la famiglia dovrebbe sottostare solo alle leggi dell’amore (coniugale, genitoriale, filiale, parentale) e l’ordinamento giuridico la riconosce e garantisce. Quando, purtroppo, si arriva alla tutela penale (per esempio l’art. 570 cod. pen. “Violazione degli obblighi di assistenza familiare”) significa che è rimasto ben poco della famiglia.

La famiglia è anche un soggetto economico, per cui l’economista Stefano Zamagni esamina queste dinamiche: “I figli. Quante volte sentiamo dire “non ho avuto tempo per stare con i figli perché dovevo fare le compere”. […] Quante volte sentiamo dire che non possiamo generare un secondo o terzo figlio perché non possiamo assicurare a essi i livelli di consumo che dedichiamo a un solo figlio? È un ragionamento che mette la generazione della vita sullo stesso piano di beni materiali e di merci da consumare, di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno. […] Ma bisogna investirci. E il neoconsumismo offre questa sostituzione: anziché favorire investimento di tempo nelle relazioni, ci porta a sostituirlo con l’acquisto di oggetti. Da qui la disperazione esistenziale di famiglie circondate da oggetti ma sempre più sole e sfiduciate. Ecco perché c’è un collegamento tra amare e difendere la vita e il consumo. […] I bambini non vogliono tutti quei giochi che i genitori acquistano per loro. Se potessero scegliere, preferirebbero il rapporto pieno con gli adulti cui vogliono bene”. La famiglia è chiamata a essere “società naturale”, basata sulla naturalezza dell’essere genitori e, ancor di più, sulla naturalezza dei bambini che la compongono.

L’aspetto economico e sociale della famiglia è evidenziato anche dall’economista ceco Lubomir Mlococh (Charles University Praga): “Visto che la costruzione della fiducia e l’insegnamento ai figli del comportamento pro-sociale sono una funzione specifica della famiglia, la famiglia non può essere trattata come una qualsiasi istituzione privata, ma come un’istituzione che svolge un ruolo gigantesco, e sicuramente indispensabile, nella produzione di beni pubblici di una nazione. Così, il mio libro si basa sull’ipotesi che la funzione di produzione della famiglia contribuisca non solo alla produzione di beni privati, ma sia anche un’importante – e forse la più importante – generatrice di valore aggiunto nella produzione di beni pubblici”. La famiglia realizza economie, è scuola di economia (vi si compie l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale come espresso nell’art. 2 Cost.), è fonte di economia, è essa stessa economia: è anche questo un altro senso di “società naturale” di cui all’art. 29 comma 1 Costituzione. È anche la prima “società” in gergo economico, come definito nell’art. 2247 cod. civ., rubricato “Contratto di società”: “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. Ricordando il significato etimologico di “economia”, “amministrazione delle cose domestiche, distribuzione, ordine”, si evince come dalla crescente fragilità delle famiglie scaturiscano gli elevati costi individuali, economici e sociali.

A proposito di fragilità, lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni sottolinea: “È necessario, però, aiutare gli adolescenti a capire le ragioni dei propri comportamenti, riflettendo su come entrano in relazione tra loro. A essere uomo e donna si impara prima in famiglia e, poi, nella società. Penso ci siano due strade maestre. Dobbiamo pensare a un’educazione familiare che offra modelli ai ragazzi per imparare a gestire ruoli e conflitti. Occorre, poi, proporre iniziative per un’adeguata educazione affettiva e sessuale, nelle scuole dall’infanzia alle superiori, che rifugga dagli stereotipi vecchi e nuovi e insegni ai bambini e ai ragazzi a dare un nome alle loro emozioni, per poterle controllare meglio e capire sé stessi più in profondità. Molte sono le iniziative possibili per attivare processi. Al centro ci siamo noi, uomini e donne, con la nostra vita concreta, che dobbiamo imparare a riconoscerci e rispettarci nelle differenze”.

I doveri dei genitori verso i figli (art. 147 cod. civ.) cominciano con l’obbligo di mantenere che letteralmente significa “tenere per mano”: quella mano che deve condurre, tirare, indicare, fare e dare esempio. Le relazioni in famiglia sono fondamentali per le relazioni tra i sessi. Famiglia deriva dal latino “famul, famulus”, servitore: non significa che in famiglia ci si deve rendere servitori o asservire, ma mettersi al servizio l’uno dell’altra. Così si sperimenta, si costruisce, si vive la relazione tra i sessi: anche in questo la famiglia si realizza quale “società naturale”. Si ricordi che nella Costituzione l’aggettivo “naturale” è usato anche nell’art. 25 comma 1 riferito al giudice naturale, quasi a indicare la medesima importanza della giustizia e della famiglia nella vita di un uomo.

Simone Bruno, psicologo dei legami familiari, osserva: “Le famiglie non hanno solo problemi che sfociano in crisi preoccupanti o in rotture inevitabili. Al loro interno, sono presenti tante risorse, preziose potenzialità ed energie. Le difficoltà quotidiane, però, tendono a offuscarle, tanto da farle passare in secondo ordine. Anzi, spesso, si crede di non averle più”. Tanto la definizione di famiglia quale “società naturale” (art. 29 comma 1 Cost.) quanto quella di “cellula fondamentale” (Parte I n. 16 Carta sociale europea, riveduta nel 1996) mettono in evidenza la naturalità dei processi di trasformazione (come quelli di qualsiasi cellula o tessuto) cui è sottoposta la famiglia.

Occorre, pertanto, consapevolezza da parte di coloro che “mettono su famiglia” per non andare subito incontro a cedimenti o fallimenti. Le crisi di coppia sono naturali e rientrano nella naturalezza della famiglia e naturale dovrebbe essere il modo di affrontarle. Non a caso il legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975 ha aggiunto all’obbligo coniugale dell’assistenza gli aggettivi “materiale e morale”. “Nella vita di coppia, come nella vita personale, le crisi non sono un incidente di percorso, ma le soglie da cui passare per andare più lontano. La coppia entra in crisi perché le fasi della vita amorosa sono diverse. Vi sono crisi comuni a pressoché tutte le coppie, quali per esempio quelle degli inizi, legate al reciproco adattamento, e le crisi dovute ai figli, alla loro nascita, crescita e distacco dal nido familiare. Vi sono inoltre le crisi personali di ciascuno, non di rado dovute a vicende antecedenti la vita comune. Vi sono poi tensioni particolari connesse alle diverse vicende di vita di ciascuna coppia. […] Per affrontare una crisi occorre creare spazi di comunicazione, da cuore a cuore, nei quali, soprattutto, apprendere e vivere l’esperienza decisiva di perdonare ed essere perdonati” (don Aristide Fumagalli, teologo, autore di vari saggi su sessualità e matrimonio).

Secondo Fulvio Scaparro (cofondatore della mediazione familiare in Italia) “[…] quando l’ostinazione del sognatore che lavora di fantasia si incontra con quella di altri sognatori con i piedi per terra, scocca la scintilla che accende il fuoco dell’entusiasmo, e qualcosa che prima era soltanto sognato e pensato, prende forma. Non è frequente ed è difficile e faticoso, ma ogni tanto capita”. Fare famiglia: sognare e faticare insieme. Anche questo è “società naturale”, in altre parole vivere e rendere tutto naturale in famiglia, a cominciare da sacrifici e rinunce che hanno un alto valore materiale e spirituale, perché denotano libertà interiore e comportano miglioramento della vita propria e altrui.

Una scienza umana che ha sempre indagato la famiglia è la sociologia e uno dei più attenti e attivi studiosi della famiglia è il sociologo Pierpaolo Donati (ordinario Università di Bologna) che si è interrogato sull’identità della famiglia, sin dagli anni ’70, parlando del suo “genoma sociale” da cui si ricava che, al di là di ogni mutamento o crisi, la famiglia è caratterizzata da procreazione e procreatività da non intendersi solo nel senso fisico. È questo un altro significato ascrivibile all’aggettivo “naturale” ripetuto nell’art. 29 Cost. e nelle fonti internazionali. Nell’art. 29 si leggono tra le righe pure gli altri elementi costitutivi della famiglia: un fondamento, la coesistenza di due persone uguali nella dignità e per il diritto, ma foriere di differenze umane e da ciò consegue l’impegno per l’unità e la stabilità.

Donati si occupa della famiglia digitale o digitalizzata: “[…] Nei paesi tecnologicamente più avanzati, le indagini empiriche stanno sempre più mettendo in luce il fatto che la sfera delle informazioni (info-sfera) cambia radicalmente i modi in cui le persone percepiscono la realtà, elaborano fantasie, pensano e agiscono nelle loro relazioni sociali. Questa mutazione si accompagna al fatto che, mentre la modernità è antropo-centrica, ossia considera la persona come centro della scena quotidiana e considera le tecnologie essenzialmente come strumenti al suo servizio, con l’avvento delle ICT [Information and Communications Technology, tecnologie dell’informazione e della comunicazione] l’info-sfera si rivela antropo-eccentrica, ossia de-centra le persone nel senso che le tecnologie assumono una sempre maggiore autonomia e non sono più strumenti padroneggiabili dalle persone, ma in qualche modo le guidano e le usano. Dobbiamo verificare se, in che modo e misura questo avviene nelle famiglie. […] l’Italia si muove ancora abbastanza lentamente verso questo nuovo mondo. Siamo solo agli inizi di una nuova epoca storica, che non ha ancora un nome preciso, perché non possiamo definirla, anzi non sembra definibile in sé, proprio perché è strutturalmente e culturalmente aperta a tanti possibili esiti. Le statistiche dell’Istat confermano che in Italia vi è una crescente diffusione e utilizzazione delle ICT, ma la consapevolezza a riguardo di ciò che esse implicano, vuoi nell’accesso vuoi nelle conseguenze, è molto deficitaria”. Si è passati da una visione “familo-centrica” a una “familo-eccentrica” sotto vari punti di vista e in questo, purtroppo, i mezzi tecnologici hanno dato un contributo non sempre positivo, a cominciare dalla televisione quando era diventata il nuovo “focolare domestico”. Con la differenza che, in passato, lo sguardo dei membri della famiglia era rivolto verso la stessa direzione e ogni tanto si commentava, ora, invece, lo sguardo di ognuno è preso dal piccolo schermo dei vari dispositivi elettronici e non ci si scambia neanche una parola.

Infatti, il sociologo bolognese aggiunge: “[…] Nella famiglia di oggi, il calore delle relazioni corporee, faccia-a-faccia, si mescola sempre più con le comunicazioni che avvengono con lo smartphone o attraverso Internet. I nuovi media sono certamente molto utili per le famiglie transnazionali e per i contatti fra chi va a risiedere lontano o emigra e chi è rimasto nei contesti di partenza. Un po’ diverso è il caso delle persone e delle famiglie stanziali che li usano nella loro vita ordinaria. In questo caso, le ICT assumono spesso il significato di un consumo, ossia di un sostituto di relazioni interpersonali, in atto o potenziali, e quale additivo di informazioni che altrimenti non ci sarebbero. In breve, occorre riflettere sulle diverse funzioni delle ICT, dato che possono essere strumenti che hanno il compito di tenere semplicemente collegate le persone oppure invece strumenti che modificano le relazioni umane e le identità familiari. Le due funzioni, e i loro flussi, interagiscono e si mescolano fra loro”. I mezzi digitali devono essere un supporto e non un surrogato della relazione, un oggetto e non soggetto della comunicazione e, affinché l’uso non diventi un abuso (fino alla dipendenza), valgono ancor di più i doveri dei genitori verso i figli secondo gli articoli 147 e 315 bis del codice civile, in particolare l’assistenza morale.

Secondo Donati “[…] potrebbe venire un giorno in cui le identità familiari (a partire da quelle di padre, madre, figlio) potrebbero diventare più importanti delle identità nazionali, di appartenenza ad uno Stato-nazione, e quindi potrebbero attraversare i confini della cittadinanza statuale. Quel giorno, forse, una nuova alleanza fra le famiglie, attraverso generazioni “cosmopolitiche” (non nel senso astratto della modernità, ma della universalità contenuta in ogni appartenenza), potrebbe dare ai cittadini di tutto il mondo le capacità e la forza di creare azioni collettive in cui la famiglia, lungi dall’essere considerata un residuo culturale del passato, diventa il motivo e l’emblema di una società mondiale più solidaristica”.

La famiglia è storia, patrimonio, risorsa dell’umanità. È la base dell’ecosostenibilità, come si può ricavare da molti asserzioni dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015), tra cui: “Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza.

www.reteambiente.it/repository/normativa/27496.pdf

Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile”. E la prima società pacifica, “che fa la pace”, è (o dovrebbe essere così) e rimane la famiglia.

Il sociologo Francesco Belletti (CISF Milano), in linea con Donati, afferma: “[…] emergono profonde differenziazioni tra le famiglie italiane, e una complessiva tendenza a mescolare i contatti diretti, faccia-a-faccia, lo stare insieme, con relazioni e connessioni allacciate tramite i vari media e strumenti digitali, in quello che potremmo definire un processo di “ibridazione delle relazioni familiari”. Sembra quindi superata la dualistica contrapposizione tra “mondo reale” e “virtuale”, e occorre invece comprendere quella che è una vera e propria nuova “realtà delle relazioni familiari”, ormai inestricabilmente mescolate di relazioni corporee, fisicamente tangibili in precise dimensioni di spazi e di tempi condivisi, e di connessioni e relazioni digitali”. Per salvare le relazioni familiari bisogna riconoscere lo stato di “ibridazione” purché e perché non si arrivi a quello di “ibernazione”; si rischia di passare dall’evolutiva e omeostatica “ristrutturazione” dell’assetto familiare alla totale e devastante “destrutturazione”.

I mezzi digitali tornano utili per favorire le comunicazioni tra i genitori e figli nei casi di separazione/divorzio o residenze in Paesi diversi o in situazioni di emergenza, come la pandemia da coronavirus. L’uso dei mezzi digitali concerne anche la sfera dell’ascolto (art. 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e quella dell’espressione (art. 13 Convenzione): sono i genitori stessi che per mettere a tacere i figli sin da piccoli o per far provare loro nuove emozioni, li mettono sin dai primi mesi di vita davanti allo schermo di smartphone o di tablet. I genitori devono prestare molta attenzione a ciò perché possono essere compromesse la sfera giuridica e quella relazionale dei figli.

Allora Belletti suggerisce: “Il valore della dieta: per molti stili di vita, e anche per l’esposizione al mondo digitale, “un po’ di dieta fa sicuramente bene”. Avere spazi e tempi in cui si dice con forza “adesso no!” consente infatti di capire meglio il valore e la potenza di questi strumenti. Spegnere i cellulari quando si pranza o si cena insieme (o almeno non rispondere subito agli sms) è un piccolo sacrificio, che si può chiedere anche con decisione, perché consente di far capire che “si può vivere anche senza essere connessi al web”. Ma ovviamente questo tempo “non connesso” va riempito di comunicazione, di contenuti, di relazioni, di affetti. Deve essere più bello del videogioco… E, soprattutto, se lo si chiede ai propri figli, devono essere i genitori per primi a lasciare il cellulare spento, con rigore e coerenza: perché l’educazione in famiglia è più una questione di occhi che una questione di orecchie: i figli imparano molto di più da come vivono i genitori, da quello che fanno (e che i figli vedono), che non dalle parole (troppo spesso “prediche”) che vengono dette. E magari anche una giornata o un week end intero senza connessioni digitali potrebbe aiutare a riscoprire la bellezza dei contatti faccia-a-faccia o il valore di una gita in montagna, senza ricevere notifiche e senza obbligo di foto da postare”. Nella vita familiare bisogna preventivare e organizzare un periodo di “dieta” (letteralmente “regola di vivere confacente alla salute”) per ritrovarsi e riprovare in base a quell’indirizzo della vita familiare secondo l’art. 144 cod. civ. e per consentire crescita e benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Belletti auspica: “[…] le famiglie – e soprattutto i giovani che vogliono fare famiglia – hanno bisogno di una società in cui fare famiglia e avere figli siano dei valori forti, saldamente ed esplicitamente sostenuti, con interventi di lungo periodo e con modifiche strutturali e organiche degli interventi pubblici. […] Forse bisognerà ripensare al modo in cui tutta la politica tutta guarda alle famiglie, ai loro progetti, ai loro bisogni e ai loro sogni, e anche al modo in cui la famiglia guarda alla politica: facendosi sentire di più, facendosi vedere di più, dando ancora più voce pubblica ai propri bisogni. Solo così la famiglia entrerà nell’agenda del Paese”. Etimologicamente “politica” è “l’arte del governare”, mentre “famiglia” è “complesso dei famuli”, cioè dei servitori, dei domestici e anche dei figli, quindi riguarda pure l’amministrare. Politica e famiglia non possono e non devono ignorarsi. Molte le indicazioni nei vari testi normativi, dalla Costituzione – il cui incipit dell’art. 33 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia” è già eloquente – alla Carta di Nizza (2000), che all’art. 33 recita: “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”.

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:12016P/TXT

Belletti soggiunge che “[…] per modificare la natalità in Italia non basteranno politiche pubbliche e sostegni economici, anche se consistenti. Servirebbe soprattutto un deciso mutamento culturale, che riscopra l’importanza e la bellezza della vita e dei bambini, restituendo speranza e progetto ai giovani. E questo si può e si deve ricostruire nella trama educativa delle relazioni di ogni giorno, nell’atteggiamento degli imprenditori verso le madri in azienda, nell’offerta di servizi per l’infanzia, nei messaggi della pubblicità, nelle parole sui social network.”. La natalità in Italia va promossa e garantita, anche in ossequio ai dettami costituzionali, quali lo svolgimento della personalità (art. 2 Cost.) e la rimozione degli ostacoli (art. 3 Cost.).

Francesco Belletti ha ribadito altresì la “dimensione pubblica, socialmente rilevante della famiglia”, come si leggeva già in Cicerone che definiva la famiglia “principium urbis et quasi seminarium rei publicæ” – luogo generativo della vita pubblica e laboratorio di relazioni sociali -, e nella “trilogia” costituzionale, gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione italiana.  Non è connaturale, pertanto, quando una famiglia si chiude all’altro e agli altri per stare bene in se stessa e pur di stare bene con se stessa, come avviene spesso nel rapporto con le famiglie di origine (in particolare quella del padre), con la scuola, con altre famiglie.

L’emergenza sanitaria del coronavirus ha evidenziato la rilevanza e l’unicità della famiglia e delle relazioni umane e l’innaturalezza della chiusura e della lontananza. La famiglia rappresenta l’eudemonia (dal greco “eudaimonia” in Aristotele), “felicità quale scopo di vita e fondamento etico” e torni a essere questo.

                        Margherita Marzario altalex 29 maggio 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/05/29/famiglia-scienze-umane-oggi

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Bergoglio tra seguaci e inquisitori

Il 6 agosto 1959 don Giuseppe De Luca, dotto prete romano al centro di molti circuiti intellettuali e politici, provò a descrivere in una lettera a Montini, espulso dalla curia e confinato a Milano nel momento più torbido del pontificato pacelliano, il clima che si respirava attorno a papa Giovanni, già a pochi mesi dalla sua elezione: “La Roma che tu conosci e dalla quale fosti esiliato non accenna a mutare come pareva che dovesse pur essere alla fine. Il cerchio dei vecchi avvoltoi, dopo il primo spavento, torna. Lentamente, ma torna. E torna con sete di nuovi strazi, di nuove vendette. Intorno al carum caput [papa Giovanni] quel macabro cerchio si stringe. Si è ricomposto, certamente”.

            Cito questa lettera del 6 agosto 1959, scritta a dieci mesi dal conclave che aveva portato Roncalli sul trono di Pietro, perché mi pare un utile antidoto agli stereotipi filobergogliani e antibergogliani che riappaiono ogni anno – solitamente nella ricorrenza del conclave del marzo 2013 – e si dispongono pigramente sul quadrante della prevedibilità.

            Da un lato c’è lo stucchevole papismo secolarizzato: quello del Francesco “rivoluzionario” gradito ai (sedicenti) atei che colgono la “modernità” che con il papa gesuita sarebbe giunta sul trono di Pietro proprio quando quella cultura ha esaurito la sua spinta nel passaggio dal mondo post-moderno al post-globale. Lo si riconosce perché è quello che vede ovunque atti “senza precedenti”: fosse una intervista ai giornali (la prima è di Leone XIII) o l’uso dei social (Pio IX fece un quotidiano e Pio XI una radio), la telefonata inattesa (mai quanto quella di Pio XII al Capranica dopo lo scandalo Cippico che aveva al centro di una ruberia un allievo del famoso collegio romano) o perfino l’indulgenza plenaria (riesumata a distanza di sicurezza dall’anniversario di Lutero). E ovunque questo papismo agnostico vede i segni di una colluttazione coi “conservatori” in cui il papa-Rambo assesterebbe colpi tremendi, se mai solo perché sta predicando su un episodio evangelico di cui non si colgono le sfumature.

            Una caricatura del papa e del papato che in taluni aspetti ripete formule che usano anche però anche gli inquisitori di Francesco, che occupano il punto diametralmente opposto: sono i papisti del papa di ieri, che accusano Francesco di eresia, ora usando la propria voce ora dando corpo mediatico al punto centrale della teologia ratzingeriana (l’antecedenza della Chiesa universale sulle chiese particolari) e dell’ideologia ratzingeriana (ogni male, Concilio incluso, viene da ciò che ha preparato il ’68 e dal ’68, e chi lo dice è un profeta perseguitato politico, non un conservatore legittimamene affezionato ad un patrimonio ideologico e teologico di reazionario). Nemmeno loro sono molto originali, se fu Indro Montanelli nel 1962 a dar voce ai reazionari antironcalliani che cercavano di vestirlo da modernista sfuggito alla repressione d’inizio secolo; e se si pensa che il mondo lefebvriano ha dichiarato eretici e usurpatori del trono di Pietro tutti i papi dal Concilio in qua. Gli inquisitori di Bergoglio sono parte di una piccola tradizione di allarmismo dottrinale, ma sono chiassosi, e dunque nella vuota campana dei social i loro rintocchi angosciosi e angosciati da fobie tutte da studiare si sentono bene.

Su un altro lato ci sono i pretoriani timidi: quelli che per dire che il papa non è eretico garantiscono e giurano che lui non tocca mai la “dottrina”, ma solo le dimensioni “pastorali”. E dimostrano così una delle ragioni della vulnerabilità del papato: perché si vede che lo zelo di chi difende lo slancio kerygmatico di Francesco ha spesso una concezione fissista e materialista della “dottrina”, immaginata come un meteorite arroventato e ideologico; questa concezione che non è difficile confondere con il cristianesimo non è però quella che rinvigorirà la Chiesa all’indomani dell’inutile e sfibrante corpo a corpo con la modernità. E inoltre quella posizione mostra di avere una comprensione volgarmente “applicativa” della “pastorale” che invece – era il punto centrale del Vaticano II secondo papa Giovanni – non è una decodifica pratica di verità immobili, ma il modo in cui lo Spirito conduce la Chiesa a scoprire e riscoprire istanze evangeliche cristallizzate o rimaste inerti.

            Da ultimo, però, c’è l’angoletto dove si affolleranno i saccenti delusi: quelli che dovrebbero aver capito che per un gesuita della generazione Arrupe (a me capitò di scriverlo nel 2013) la “riforma a norme invariate” e la cooptazione dei nemici sono una mentalità, non una strategia, da ricondurre a una frenesia decifratoria senza profondità storica. Quelli che sognavano uno scoop a semestre, adesso vedono il pontificato da cui si aspettavano cose che non sono accadute sfinito, o perlomeno in stallo. Mentre forse sono in stallo solo le attese mal sagomate, che hanno goduto del brivido di trovarsi dalla parte del potere e hanno dovuto constatare che quel potere non compiace chi lo ha lodato.

            Certo papa Francesco non ha dato statura collegiale al “gruppo” dei cardinali che ha chiamato come “auxilium” nel governo della Chiesa universale; ha firmato una riforma del Sinodo dei vescovi in cui si dice che è “soggetto” al papa, con una espressione così sgrammaticata che nemmeno Pio IX avrebbe usato; sul sacerdozio uxorato ha recepito una deliberazione sinodale senza una “adprobatio” [diritto] che avrebbe intestato a Roma e non alle chiese locali l’inizio di un percorso che può essere rinviato solo di mesi, fosse anche mille mesi; sul ministero femminile ha tirato il freno a mano a ordinazioni diaconali che la Chiesa di Roma conosceva dai tempi apostolici; sul Sinodo italiano ha fatto stop-and-go, o meglio go-and-stop in attesa di una maturità dei vescovi cui doveva preoccuparsi quando li sceglieva, e non dopo avere messo gli afoni sulle cattedre della Chiesa di cui è Primate. Dunque siamo davanti a un pontificato di cui fare il bilancio e decretare lo “stallo”?

            Direi di no: anche perché lo stallo (“condizione d’attesa e d’inazione forzata”) non si saprebbe dire se comprenda o si manifesti in altri atti. Il documento firmato con il patriarca di Mosca Kyril e la dichiarazione sottoscritta con al Tayyeb, imam della grande moschea di Al-Azhar – atti in cui ha accettato descrizioni ultrareazionarie della modernità e del pluralismo, pur di aprire un canale di contatto coni grandi mondi dell’ortodossia russa e dell’islam sunnita –, stanno nello stallo o lo precedono? L’accordo “provvisional” con la Repubblica popolare cinese riguarda la diplomazia vaticana o è parte di un processo in cui è la Chiesa cinese e la sua voce nella communio ecclesiarum che costituisce l’orizzonte? E la divisione fra sedicenti conservatori (che in realtà sono spesso una eversione di destra) e sedicenti progressisti (che in realtà hanno nostalgia di quel dispotismo riformatore che Paolo VI voleva avere e non ebbe oscillando fra l’uno e l’altro) è davvero diversa oggi dai tempi di Suenens e Siri, di Martini e Biffi, di Bernardin e Law?

            No. E dunque siamo semplicemente nel pontificato di un uomo anziano (degli otto predecessori morti sul trono di Pietro solo Wojtyla era vivo alla sua età), che deve negoziare con le sue fragilità e con quei tratti del suo carattere brusco che lui stesso ha spesso descritto; di un vescovo che almeno fino alla scomparsa del predecessore non potrà rinunciare al ministero petrino, e che sa che se gli dovesse capitare qualcosa la sopravvivenza dell’emerito sarà usata come e più di come viene usata oggi la sua firma; di un uomo che appena eletto nel 2013 ha voluto fuggire la solitudine umana dell’Appartamento pontificio, e che però non si è fatto intimidire dalla solitudine istituzionale che lo ha seguito nella nuova corte di santa Marta; che ha sacrificato sia amici fedeli sia i più leali dei dissenzienti, e invece ha rinviato la sanzione di chi lo ha ingannato e beffato.

            Eppure Bergoglio rimane un cristiano militante, nella cui predicazione c’è una forza kerygmatica straordinaria e autentica (e dunque diseguale), che non si esprime per meritarsi l’adulazione di qualcuno dei suoi ammiratori o riconquistare quella di chi lo considera un mancato super-papa, ma per una urgenza interiore che cerca la pace della fede. Anche se il suo cristianesimo stimola gli avvoltoi del prossimo conclave e forse qualcuno di quello passato, Francesco non è l’uomo che dichiarerà aperta la stagione della caccia agli avvoltoi: è il vescovo di Roma in una Chiesa nella prova in un modo nella prova, dove le antiche paure delle litanie – a peste, fame, et bello, libera nos Domine – si presentano a un mondo che non sa più nemmeno ricordare le colpe inconfessate che darebbero un senso al castigo e nel quale, quando si parlerà di lui al passato, qualcuno dirà ancora “nonne cor nostrum ardens erat in nobis?” [non ardeva forse il nostro cuore dentro di noi, mentre ci parlava per via]” e forse si chiederà cosa non ha fatto non il papa di allora, ma la Chiesa di allora.

Alberto Melloni          Il Mulino         18 maggio 2020

www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5230

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MATRIMONIO

La nozione di ordine pubblico matrimoniale. Profili inteordinamentali.

ABSTRACT

Il canone 1055§1 definisce il matrimonio quale patto irrevocabile (foedus) con cui un uomo e una donna (vir et mulier) costituiscono un legame di tutta la vita (totius vitae consortium) ordinato al bene dei coniugi, alla procreazione ed educazione dei figli. Il consenso che gli sposi si scambiano è quindi più ampio dello ius in corpus del Codice del 1917, costituente fine primario del matrimonio: fortunatamente il Codice del 1983 ha positivizzato la visione personalista offerta dal Concilio Vaticano II, il quale ha segnato il superamento della concezione corporalista e contrattualistica del vincolo coniugale sottesa alla legislazione matrimoniale dell’epoca; così tale gerarchia dei fini è abolita ed il matrimonio cristiano è fondato su molteplici fini tutti uguali tra loro, ossia tutti posti sullo stesso livello. In questa prospettiva, la coniugalità, al pari della genitorialità, appare come una caratterizzazione essenziale del matrimonio. La famiglia, cellula fondamentale della società, possiede vincoli vitali con la stessa, costituendone l’alimentazione continua: dalla famiglia nascono i cittadini di domani, che sono formati secondo le virtù sociali e nazionali che animano lo sviluppo della società stessa. Inoltre, la famiglia costituisce l’unica formazione in grado di umanizzare la società, mediante l’adempimento dei doveri e diritti essenziali connessi alla coniugalità: il Cap.VIII, Titolo VII, Parte I, Libro IV, al canone 1134, precisa che “i coniugi hanno pari dovere e diritto per quanto riguarda la comunità di vita coniugale”, specificando al can. 1151, che comprendono l’obbligo di vivere insieme, di preservare il carattere coniugale del matrimonio, di fornire aiuto al coniuge, di contribuire al bene comune, l’obbligo di cercare e perseguire la santità. Il 2° gruppo di doveri essenziali è relativo alla procreazione ed educazione della prole, quali l’accoglienza dei figli e la cura della loro educazione umana: fisica, socio-culturale e morale-religiosa. Ne consegue che per l’ordinamento canonico dall’unione coniugale sorgono effetti giuridici complessi; ma non può tacersi come, in maniera quasi speculare, nell’ordinamento civile lo scambio dei consensi vada a costituire una serie di diritti e doveri che, proprio come per l’ordinamento canonico, si preoccupano di definire in modo preciso e specifico il rapporto coniugale. Il nesso fra il matrimonio come atto e come rapporto è evidenziato dal fatto che, durante la celebrazione, l’ufficiale di stato civile dà lettura degli artt. 143,144, 147 del Codice civile. Peraltro, al fine di una migliore comprensione della tematica, è opportuno chiarire che l’ordinamento giuridico canonico risponde a fini e si basa su presupposti nettamente diversi dall’ordinamento giuridico civile; il primo tende alla finalità escatologica della salus animarum, il secondo, invece, tende alla pax sociale, cioè alla regolamentazione dei rapporti civili al fine della pacifica convivenza sociale. La giuridicità dell’ordinamento canonico è caratterizzata dalla volontarietà e spontanea adesione dei consociati (c.d. christifideles), ed è retto dalla supremazia delle norme di diritto divino naturale. L’ordinamento giuridico civile è caratterizzato, invece, dalla sua coercibilità nell’applicazione del sistema di norme di diritto positivo. In particolare il matrimonio canonico è definito come un “patto” con cui un uomo e una donna stabiliscono il consortium totius vitae, cioè la comunione di tutta la vita, finalizzato al “bene dei coniugi” e alla procreazione ed educazione della prole (can. 1055, c.j.c.), la cui peculiarità sta nel fatto che è elevato a dignità di sacramento tra battezzati; tale carattere sacramentale rende essenziali l’unità e l’indissolubilità, intese come qualità di detta tipologia matrimoniale (can. 1056, c.j.c.). Per l’ordinamento italiano, invece, il matrimonio è inteso più tecnicamente come un negozio giuridico di genesi consensuale, da cui derivano per i coniugi diritti e doveri di natura inderogabile (c.d. solidarietà familiare), sempreché sussista, però, quella unione di tipo naturale della coppia stessa caratterizzata dall’affectio coniugalis, intesa come comunione morale e spirituale tra coniugi. Pertanto, il particolare assetto di diritti e doveri che, seppur con le loro peculiarità, tanto l’ordinamento canonico quanto quello civile prevedono e disciplinano, è quindi riconosciuto e tutelato dal diritto: canonico e civile. La riforma del diritto di famiglia mira, quindi, a favorire l’unità della famiglia: questa finalità è perseguita attraverso l’introduzione del principio della parità dei coniugi con cui trova completa e reale attuazione la previsione dell’art. 29 comma 2 della Costituzione, il quale stabilisce che il matrimonio si basa sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nell’ambito dei limiti posti dalla legge ordinaria a garanzia dell’unità familiare. In quest’ottica viene quindi privilegiato l’accordo tra i coniugi, prescritto dagli artt. 143, 144, e 147 del Codice civile.

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Estratto

1.1.    Il patto matrimoniale. Codice di diritto canonico, promulgato il 25 gennaio 1983

Can. 1055 – §1. Matrimoniale fɶdus , quo vir et mulier inter se totius vitæ consortium constituunt, indole sua naturali ad bonum coniugum atque ad prolis generationem et educationem ordinatum, a Christo Domino ad sacramenti dignitatem inter baptizos evectum est. [Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunione di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole, (tra i battezzati) è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento.]

Il canone 1055 – §1, sopra riportato, va a prospettare una definizione del matrimonio precisando che esso è un patto irrevocabile (fɶdus) con cui un uomo e una donna (vir et mulier) costituiscono tra loro un legame per tutta la vita (totius vitæ consortium) ordine al bene dei coniugi, alla procreazione, ed all’educazione dei figli. Ad una prima lettura balza innanzitutto all’attenzione come il matrimonio canonico presupponga la diversità di sesso poiché le fonti bibliche concepiscono il matrimonio come un’unione esclusivamente tra un uomo e una donna (vir et mulier). Di conseguenza, nei suoi tratti fondamentali ed essenziali il matrimonio è una realtà che obbedisce ad una dimensione naturale, in quanto il matrimonio appartiene alla natura stessa dell’uomo ed in tal senso è altresì un istituzione naturale e ad una dimensione divina che interessano l’uomo in quanto essere creato e redento da Dio in Cristo. Il Codice raccoglie, quindi, questo insegnamento tradizionale affermando la sostanziale dipendenza del complesso di norme che regolano il matrimonio sia dal diritto naturale che dal diritto positivo. Non può non sottolinearsi, peraltro, come la scelta lessicale del termine fɶdus non solo stia a rievocare reminiscenze bibliche quali, tra le altre, il patto di alleanza tra il popolo di Dio ed Israele; ma abbia anche il preciso fine di evitare il riferimento al termine contratto che avrebbe significato un inquadramento eminentemente giuridico. Questa visione unilaterale e sostanzialmente chiusa che il previgente Codice (§1012-1013, 27 maggio 1917)                 www.cdirittocanonico1917.it/online.htm

andava a delineare in materia matrimoniale, appare oggi ampiamente superata dal concetto di alleanza o patto matrimoniale che, con le sue risonanze bibliche sopra richiamate, sottolinea l’impossibilità di comprendere pienamente il matrimonio semplicemente andando a considerarlo come una mera relazione squisitamente giuridica che si stabilisce tra un uomo e una donna per loro volontà esplicita. Ne risulta, così, delineata nei suoi lineamenti essenziali la realtà del matrimonio quale comunità di uomo e donna che nasce da un patto irrevocabile d’amore, mediante il quale i coniugi si danno e si ricevono mutuamente nella comunicazione e nella donazione all’altro di tutto sé. E tale patto coniugale, quale atto d’amore fondante il matrimonio, è il frutto della libertà con la quale gli sposi decidono di appartenersi per tutta la vita così da non essere più ma diventare una sola carne (fiunt una caro – Mt. 19,6; Gen.2,29), chiamati quindi a cooperare con l’amore del Creatore e del Salvatore che attraverso essi continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia.

L’alleanza o fɶdus, quindi, è un patto che coinvolge tre protagonisti: e cioè non solo i nubendi, bensì i nubendi con Cristo che è l’autore dell’unione matrimoniale, cosicché il fɶdus genera un coniugio a tre, in cui il parroco celebrante esercita solo il ruolo di assistere gli sposi nello scambio del loro consenso. Tale patto, che pur comprende certamente l’aspetto giuridico dell’unione matrimoniale, è innanzitutto una relazione interpersonale che abbraccia la vita di due individui concreti, racchiudendo la loro realtà esistenziale, spirituale e personale difficilmente configurabile in via esclusiva ed adeguata sotto il profilo meramente contrattuale, sebbene proprio quest’ultima dimensione più prettamente contrattuale è subito richiamata normativamente sia nello stesso canone 1055 al successivo §2, relativo alla sua natura di contratto sacramentale che nasce tra battezzati, oltre che alla sua dignità di sacramento ossia come atto di grazia con cui Cristo investe la relazione dei due sposi, nonché, inoltre, al canone 1057 relativo al consenso matrimoniale. Con la scelta dell’espressione patto matrimoniale emerge, quindi, l’aspetto dinamico di alleanza con la quale si pone in essere la relazione personale matrimoniale con i suoi contenuti ed i suoi fini. Il termine fɶdus, infatti, era già utilizzato nel diritto romano per indicare un accordo trascendente le ordinarie categorie contrattuali, come veniva ad esempio tra nazioni e popoli, o nei patti con significato religioso, o per le promesse tra amici così come tra membri familiari.

Il Concilio Vaticano II, a sua volta, nel chiaro intento di ampliare il concetto strettamente contrattuale riferito al matrimonio, con il termine patto, peraltro già usato nella Sacra Scrittura per indicare il già menzionato rapporto tra Dio ed il suo popolo d’Israele, ha inteso far emergere gli aspetti più propriamente sacri del matrimonio, ma ciò non sembra escludere anche la presenza di elementi contrattuali, collocati piuttosto in un più ampio contesto sacro. Il matrimonio, quindi, è presentato come un’istituzione naturale, fondata cioè sulla natura sessuata dell’uomo: tale precisa identità umana induce naturalmente l’individuo alla costituzione del cd. consortium totius vitæ, ossia alla concreta traduzione, in termini giuridici, della dottrina conciliare che era andata ad affermare che il matrimonio consiste nella comunione intima di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie. Dal punto di vista semantico l’espressione consortium non è casuale ma votata ad indicare una realtà di spessore minore e più ridimensionato rispetto al termine societas che sta invece ad indicare una mera relazione finalizzata agli scopi più disparati. Il termine consortium – con cui il codice va a recepire il concetto conciliare mediante una terminologia di antica derivazione romana – si colloca in una posizione equidistante dall’ideale di perfetta unione delle menti e dei cuori dei due individui uniti in coniugio nonché dalla considerazione del matrimonio quale semplice relazione esterna di rilevanza sociale. Più precisamente, il consortium è piuttosto uno stato di vita che non appare facilmente giuridicamente; esso non è una semplice unione di fatto o una mera convivenza come sposi, né una relazione per un tempo determinato o di prova, ma è una unione stabile con un progetto comune di vita, sancito e tutelato dalla legge, nel quale gli sposi reciprocamente si impegnano e si realizzano. In termini strettamente giuridici, dunque, l’espressione consortium totius vitæ, che va a sostituire quella di derivazione conciliare di intima communitas vitæ et amoris coniugalis, oltre a comprendere la totalità e la globalità della comunione delle persone dei coniugi nel suo aspetto interpersonale, indica la realtà canonica della comunione coniugale che gli sposi pongono in essere con il patto d’amore della mutua donazione con cui diventano una caro.

 Pertanto, questa unione totale e personale di due destini, elemento essenziale e immutevole del matrimonio, significa che ciascun coniuge non dà/riceve un valore particolare bensì la sua persona intera, in un’intercomunicazione integrale di un uomo e una donna in ogni aspetto della loro realtà esistenziale, compreso quello sessuale. Ed è proprio tale reciprocità di donazione totale e definitiva, data e ricevuta, a specificare il matrimonio da qualunque altra unione: in qualità di coniugi, si è uniti non da un mero interesse comune ma piuttosto semplicemente in maniera profonda in ragione della sola persona: è la persona dell’altro che diviene l’oggetto della comunione interpersonale. Da ciò ne deriva chiaramente che l’orizzonte verso cui si indirizza il consenso che gli sposi si scambiano, è necessariamente più ampio dello ius in corpus del Codice del 1917, venendo a coinvolgere proprio lo stesso consortium per il quale esso sese tradunt et accipiunt con patto irrevocabile, frutto della loro libertà.

Ed infatti, rispetto all’abrogata codificazione piano- benedettina del 1917, il canone 1055 del CIC del 1983 esprime un cambiamento di prospettiva realizzatosi con la riflessione conciliare e post conciliare: nei previgenti canoni 1012 e 1013 del CIC del 1917 si sottolineavano fortemente la natura contrattuale e sinallagmatica [di negozio giuridico] del matrimonio, i suoi fini ben distinti in primari e secondari [1012-1013. Gesù Cristo elevò a sacramento il contratto matrimoniale fra i battezzati e perciò fra questi non si dà contratto matrimoniale che non sia sacramento. Primario fine del Matrimonio è la procreazione ed educazione della prole; secondario il mutuo aiuto e il rimedio della concupiscenza. Unità ed indissolubilità ne sono proprietà essenziali] e nel canone 1081 §1, [Il Matrimonio nasce dal legittimo consenso manifestato, che non si può supplire e che è atto della volontà per cui si dà e si ottiene diritto perpetuo ed esclusivo al corpo del coniuge per gli atti propri alla generazione] si determinava l’oggetto del consenso coniugale come donazione ed accettazione del diritto perpetuo ed esclusivo sul corpo del coniuge in ordine al compimento degli atti sessuali di per sé idonei alla procreazione: è il meglio noto ius in corpus. La nozione di matrimonio contenuta nel Codice del 1917, quale contratto avente ad oggetto lo scambio dello ius in corpus perpetuo ed esclusivo sul coniuge (fine primario del matrimonio), ove la pur prevista cooperazione tra coniugi -espressa dal mutuo aiuto ossia il cd mutum adiutorum- e parimenti il rimedio del desiderio carnale ossia il remedium concupiscentiæ, erano prevalentemente intesi in senso materiale e fisico-sessuale. Ma vi è di più: nel Codice previgente sia il mutum adiutorum che il remedium concupiscentiæ erano comunque posti, nella gerarchia dei fini matrimoniali, in posizione subordinata rispetto alla finalità primaria del bonum prolis, ossia alla procreazione ed educazione della prole (can1013 §1 CIC -1917). Fortunatamente il Codice del 1983 è finalmente andato a positivizzare la visione personalista offerta dal Concilio Vaticano II, il quale ha segnato il superamento della concezione corporalista e contrattualistica del vincolo coniugale sottesa alla legislazione matrimoniale dell’epoca: pertanto è solo con il Codice del 1983, che tale gerarchia dei fini viene finalmente abolita e conseguentemente il matrimonio cristiano è fondato su molteplici fini tutti uguali tra loro ossia tutti posti sullo stesso livello: è così che il matrimonio è per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione ed educazione della prole.

1.2.La naturale ordinazione del fɶdus matrimoniale al bene dei coniugi. Il bonum coniugum, è concordemente una delle cause finali del matrimonio e l’ordinatio ad esso un elemento che caratterizza intrinsecamente la tipicità della relazione coniugale. Invero la sistematizzazione del bene dei coniugi è stata declinata in una pluralità di accezioni: dall’integrazione psicosessuale, al mutuo aiuto in senso fisico, materiale, sentimentale, emozionale, spirituale e morale. Concettualizzato, dunque, il bonum coniugum come mutuo aiuto o cooperazione dei coniugi per costituire il consortium totius vitæ, ne è stata operata la traduzione sul piano giuridico, individuandola nel complesso di tutti quei diritti e doveri di solidarietà e compartecipazione, idonei e necessari alle relazioni essenziali dei coniugi. Nella giurisprudenza più recente è, dunque, ricorrente la definizione di bonum coniugum come mutuo aiuto tra i coniugi, nel più ampio e profondo significato esistenziale di integrazione in tutte le dimensioni umane e di compartecipazione in pari dignità e in pari posizione circa i rispettivi diritti e doveri. Viene, inoltre, prospettato il bene dei coniugi nella sua dimensione dinamica, quale impegno presente nel consenso, ma con la proiezione futura del progressivo perfezionamento interpersonale ed intrapersonale degli sposi nella coniugalità; è finalmente valorizzato l’amore coniugale, nell’accezione di amore di benevolenza o volontà di bene, assunta nel consenso e, in tale ottica, si afferma che «bonum coniugum […] reflectit amorem»; così come è rimarcata la dignità della persona del coniuge che, si asserisce, appartenere all’essenza del bene dei coniugi, in quanto persona umana e in quanto soggetto della communio coniugalis. Muovendo, quindi, dalla lettura in combinato disposto dei cann. 1055, §1 (il patto matrimoniale «indole sua naturali ad bonum coniugum … ordinatum») e 1057, §2 (sulla volontà, espressa nel consenso coniugale, di reciproca donazione e accettazione, totale e definitiva, delle persone dei coniugi per costituire il consorzio matrimoniale), è dato ormai acquisito dall’attuale e, sul punto, concorde interpretazione dottrinale e giurisprudenziale che il bene dei coniugi è un elemento essenziale del matrimonio, che attiene alla natura stessa del consortium totius vitæ ed è, pertanto, oggetto del consenso matrimoniale. In quanto ordinazione essenziale ed oggettiva, fondata nella natura relazionale della persona e dello stesso consorzio coniugale, il minimum che non può mancare sin dal momento costitutivo del matrimonio non è l’integrazione interpersonale già pienamente realizzata, meta dell’intero corso della vita coniugale, ma l’intenzionalità e la capacità sufficiente ad orientarsi ad essa, anche se potrà di fatto risultare deficitario il suo effettivo e compiuto conseguimento nella futura vita matrimoniale. Va poi rilevato, parallelamente, che il progresso operato dall’insegnamento conciliare sulla natura e la dignità del matrimonio descritto come “intima comunione di vita e di amore coniugale” (Gaudium et Spes, n. 48) ha naturalmente comportato una più attenta considerazione dei valori personalistici ed esistenziali propri e qualificanti l’unione e lo status coniugale, con l’individuazione del bonum coniugum quale ordinazione naturale del matrimonio ed il – già menzionato- definitivo abbandono della gerarchia dei fini matrimoniali.

Secondo il Concilio, il bonum coniugum consiste, infatti, nella comunione totale di vita e d’amore intesa come reciproca integrazione e progressivo perfezionamento degli sposi, mediante la mutua assistenza, l’intima unione delle loro persone e delle loro attività: una comunione totalizzante e profondamente coinvolgente ogni dimensione in cui è implicata tutta la persona, non solo nella sfera fisica o sessuale, ma insieme in quella intellettiva, volitiva, affettiva, morale e spirituale. Questa comunione totale, richiede, quindi, una reciproca donazione ed accettazione che non si limita al momento del consenso, bensì assume e richiede uno sforzo continuo per migliorare l’un l’altro al fine di creare una comunità piena di vita e d’amore: l’aspirazione comune alla santità significa anche migliorarsi l’un l’altro, servirsi l’un l’altro, donarsi aiuto reciproco, cioè offrire sé per sempre senza eccezioni e/o riserve alla persona amata. Ed è, pertanto, in virtù di ciò, che la creazione di una comunità di tutta la vita contiene: unione affettiva, residenza comune, realizzazione di obiettivi comuni, piena apertura reciproca, coesistenza intima ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna. Il bene dei coniugi risponde, dunque, ad una visione integrale e realistica della persona umana, considerata nella sua inscindibile unità di corpo e di spirito, nella sua naturale e profonda aspirazione ad amare ed essere amata, a realizzarsi nel dono di sé, e postula una concezione della relazione matrimoniale fondata sulla parità ontologica, complementare dualità ed uguale dignità dei coniugi (cfr GS, n.49). In realtà, la visione propria del personalismo integrale non è estranea né antitetica alla natura giuridica del matrimonio. La valenza giuridica costituisce una dimensione essenzialmente intrinseca della relazione interpersonale coniugale, in quanto i rapporti tra le persone dei coniugi sono anche relazioni di giustizia e, in quanto tali, realtà giuridicamente rilevanti. E, come affermò Giovanni Paolo II nell’allocuzione rotale del 1997, <<le norme canoniche non sono che l’espressione giuridica di una realtà antropologica e teologica sottostante, ed a questa occorre rifarsi anche per evitare il rischio di interpretazioni di comodo>> (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 27.01.1997 n. 3b).

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1997/january/documents/hf_jp-ii_spe_19970127_roman-rota.html

Ciò che rileva, in buona sostanza, è l’ordinatio del rapporto coniugale verso il bonum coniugum, da intendere nel senso di una struttura ordinativa interna che predisponga il connubio e renda possibile il raggiungimento del fine, con riguardo alle capacità e alle intenzioni dei coniugi. In questa prospettiva, la coniugalità, al pari della genitorialità, appare come una caratterizzazione essenziale del matrimonio.

  1. 3. Il bonum coniugum: fine essenziale ed autonomo del matrimonio. Il bonum coniugum rappresenta, quindi, l’elemento paradigmatico della lettura personalistica del matrimonio assunta dal Concilio Vaticano II e successivamente recepita nel Codice di diritto canonico del 1983. Quest’opera di revisione concettuale, prima ancora che normativa, induce ad interpretare sotto una nuova luce l’intera fisionomia del matrimonio e delle sue componenti essenziali, e nel bonum coniugum trova la definizione giuridica più immediata ed evidente, la quale prende le mosse dall’importanza di promuovere la dimensione personale del rapporto coniugale e dall’esigenza di valorizzare il rapporto interpersonale dei coniugi andando, per l’effetto, a porre l’atto di donazione reciproca a fondamento della disciplina giuridica del matrimonio. I fili sparsi di taglio personalistico vengono ripresi e annodati in un tessuto organico solo nello scorso secolo, in parallelo con rinnovate letture antropologiche che conducono alla promozione della dignità umana e all’emancipazione della donna .In altri termini, i presupposti antropologici ora richiamati costituiscono l’irrinunciabile orizzonte assiologico per formulare alcune considerazioni relative alla configurazione giuridica del bonum coniugum, il quale mira a porre le persone dei coniugi al centro della struttura giuridica del matrimonio. La visione integrale della persona umana espressa dall’antropologia cristiana, invece, vede nell’uomo una creatura plasmata da Dio maschio e femmina, nella cui natura sessuata si trova inscritta un’intrinseca vocazione ad amare e a donarsi reciprocamente in una comunione interpersonale che abbraccia la pienezza del loro essere uomo e donna, nonché la totalità degli aspetti della loro esistenza. La capacità di darsi e accettarsi mutuamente nella complementarità virile e muliebre è inscritta nell’indole creaturale della persona e trova attuazione nella dinamicità tipica dell’amore coniugale. Potrebbe risultare utile richiamare alcuni presupposti antropologici della visione personalistica del matrimonio e ricordare come il matrimonio non sia un negozio astratto in cui si scambiano diritti e doveri teorici, ma consista nell’unione reale di due persone che si donano totalmente l’una all’altra. Tale unione è dettata dalla forza aggregativa dell’amore coniugale, per la quale l’uomo e la donna vedono reciprocamente nella persona del consorte il loro stesso bene e vogliono il bene dell’altro come se fosse il proprio. In questo modo, nell’essere insieme come coppia trovano la pienezza del bene di ciascuno. Si può rilevare, di conseguenza, come l’appartenenza reciproca dei coniugi, attuata secondo le esigenze dell’amore coniugale, possieda in sé una bontà intrinseca, in quanto il bene finale della donazione vicendevole sono le persone stesse dei coniugi e l’identità comunionale creata dal loro incontro. In buona sostanza, nella descritta linea interpretativa, oggi prevalente in giurisprudenza, emerge una crescente attenzione alle implicazioni personalistiche del bene dei coniugi, sulle quali ha insistito il magistero postconciliare: mi limito ad evocare l’insegnamento di Giovanni Paolo II nell’Allocuzione rotale del 1999 sulla pari dignità, dualità e complementarietà dei coniugi, sull’amor coniugalis, inteso non come mero sentimento, ma come impegno verso l’altra persona, liberamente assunto nel consenso matrimoniale, di volere per sempre il bene dell’altro, di realizzare nella quotidianità la donazione-accettazione assunta con patto irrevocabile nelle nozze (Giovanni Paolo II,  Allocuzione alla Rota Romana, 21.01.1999, n. 3).

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1999/january/documents/hf_jp-ii_spe_19990121_rota-romana.html

Questa valenza positiva dell’unione coniugale ha pure una funzione perfettiva, perché, essendo un bene, è in grado di completare, migliorare e gratificare chi la compone. Nella logica dell’amore, «il dono reciproco si traduce in reciproco accrescimento». L’arricchimento personale si compie già nel fatto stesso di essere coppia, quantunque richieda l’impegno continuo e costante dei coniugi di progredire nel mutuo perfezionamento lungo tutta la durata della vita coniugale. Il bene dei coniugi può essere pertanto considerato il bonum perfettivo, personale e insieme interpersonale, che sboccia e matura come un frutto dalla donazione reciproca degli sposi. In quanto bisognoso di continua alimentazione e di miglioramento, può risultare anche un obiettivo progressivo del cammino coniugale, ma questa è solo una delle prospettive in cui può essere considerata una realtà più complessa, che abbraccia il modo stesso di essere del matrimonio come relazione autenticamente coniugale.

Si deve pertanto ritenere che il can. 1055 abbia sottolineato un unico aspetto del bonum coniugum, ossia la sua proiezione nel futuro, mentre la dimensione totalizzante che qualifica nella sua essenza la relazione coniugale si trova rispecchiata nel can. 1057, §2, nel quale si descrive il consenso matrimoniale come una mutua donazione e accettazione della persona stessa dei coniugi. È nella reciproca deditio tra marito e moglie, che traduce giuridicamente la forza aggregativa dell’amore sponsale, che è insito il bene dei coniugi e traspare la coniugalità come ordinatio essendi della comunione nuziale.

La coniugalità, in effetti, costituisce la struttura formativa intrinseca del consorzio matrimoniale, non come un teorema astratto da risolversi nel futuro, bensì come una trama di rapporti incarnata nel vivere quotidiano degli sposi, che condividono tutti gli aspetti e le potenzialità personali per realizzare un progetto esistenziale in comune. L’essere coppia, dinamica che matura gradualmente nel raggiungere equilibri progressivi, e tuttavia in ogni passo consolida una comunità familiare feconda che genera il reciproco arricchimento e la vita dei figli.

Coniugalità e genitorialità sono le due dimensioni del matrimonio, congiuntamente implicate tra loro, che corrispondono allo stile di amore oblativo della donazione coniugale. Si può sottolineare nondimeno una differenza tra ordinatio ad bonum coniugum e ordinatio ad bonum prolis, che corrisponde anche alla progressione logica e cronologica dell’amore coniugale: prima si sceglie il coniuge e poi, con la persona eletta, si vuole costruire una comunità familiare. Il bene dei coniugi si attua, non solo in potenza ma effettivamente, già con l’incontro di amore sponsale, quantunque sia suscettibile di svilupparsi o, al contrario, di isterilirsi nel corso della vita nuziale. Il bene della prole, invece, è insito virtualmente nel connubio, perché richiesto dalla natura della deditio coniugale, ma potrebbe non realizzarsi mai concretamente con la nascita di un figlio; donde la fecondità e la santificazione della famiglia ove non sia potuta essere concepita prole. Se quella delineata è l’ordinatio essendi del matrimonio, intesa come struttura intrinseca oggettiva, ai fini della validità del consenso nuziale occorre valutare la sua proiezione soggettiva nella capacità e nella volontà dei nubendi.

Due aspetti sembrano quindi importanti da sottolineare nel rapporto tra amore coniugale e consenso matrimoniale. Il primo è l’inerenza tra l’amore coniugale e le facoltà razionali, intelletto e volontà, esplicate nella decisione di sposarsi. L’amore ha una funzione attiva, che individua l’altro come un bene e lo sceglie come persona con cui condividere un progetto di vita comune. L’amore è dunque una forma di conoscenza e anche un impegno a vivere con l’altro e per l’altro. L’intelletto e la volontà che formano il consenso matrimoniale, quindi, ricevono contenuto e significato proprio dall’amore coniugale. Il secondo aspetto da considerare è l’efficacia dell’amore coniugale (…)

Aurora Acquaviva, tesi di master anno 2019 Università di Bari             Brocardi.it 24 maggio 2020

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Matrimonio concordatario: ultime sentenze

1)      La nullità del matrimonio concordatario.  La nullità di un matrimonio concordatario legittimamente dichiarata dal Tribunale ecclesiastico non può essere delibata dalla Corte d’Appello italiana se la convivenza coniugale si è protratta più di tre anni, a meno che i coniugi non presentino richiesta congiunta o vi sia, comunque, il consenso della parte convenuta. Cassazione civile sez. VI, 26/11/2019, n.30900.

2)      La convivenza triennale come coniugi. La convivenza ‘come coniugi’, quale elemento essenziale del ‘matrimonio -rapporto’, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano, la cui inderogabile tutela trova fondamento nei principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, preclusiva alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità pronunciata dal tribunale ecclesiastico per qualsiasi vizio genetico del ‘matrimonio -atto’. Cassazione civile sez. VI, 15/05/2018, n.11808.

3)      Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica. Questa Corte condivide il consolidato orientamento della Corte di legittimità secondo cui la declaratoria di esecutività della sentenza del tribunale ecclesiastico, che ha pronunciato la nullità del matrimonio concordatario, per esclusione, da parte di uno soltanto dei coniugi, di uno dei “bona matrimonii”, cioè la divergenza unilaterale fra volontà e dichiarazione, postula che tale divergenza sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che questi l’abbia in concreto conosciuta. Nel caso scrutinato risulta dalla sentenza ecclesiastica che la moglie, come da lei espressamente riconosciuto, era a conoscenza, al momento delle nozze, del fatto che il marito escludesse nel modo più assoluto figli dal matrimonio oltre il pre-concepito, essendo i nubendi entrambi portatori di talassemia. Tale fatto ha altresì trovato conferma nelle deposizioni testimoniali richiamate nella sentenza de qua. Deve, pertanto, accogliersi la domanda e dichiararsi l’efficacia in Italia della predetta sentenza ecclesiastica. Corte appello Cagliari sez. I, 21/03/2018, n.12.

4)      Pronuncia di nullità del matrimonio concordatario. In materia di separazione e divorzio, l’assegno divorzile non viene meno quando l’accertamento relativo all’impossibilità di proseguire il matrimonio sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza rotale di annullamento del matrimonio. Ad affermarlo è la Cassazione per la quale non esiste un rapporto di “primazia” della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili delle stesse nozze. Resta pertanto il diritto all’assegno di divorzio accertato prima della sentenza di annullamento delle nozze della sacra rota. Nella fattispecie, la Corte ha respinto il ricorso dell’ex marito che negava dì dover corrispondere mille euro mensili, come deciso dal giudice ordinario, visto che il tribunale ecclesiastico aveva annullato le nozze. Cassazione civile sez. I, 23/01/2019, n.1882.

5)      Cessazione degli effetti del matrimonio concordatario. A seguito della separazione personale tra coniugi, anche la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantire un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza, continuando a trovare applicazione l’art. 147 c.c. che, imponendo il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli, obbliga i genitori a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, all’assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione, fin quando l’età dei figli stessi lo richieda, di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione. Tale principio è pacificamente estensibile alla cessazione degli effetti del matrimonio concordatario. Tribunale Rieti, 05/08/2019, n.622.

6)      La mancata comparizione in udienza del coniuge. Ai fini della dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, la mancata comparizione in udienza del coniuge non costituisce una circostanza ostativa alla pronuncia nel merito, qualora non sia stato dedotto alcun impedimento a comparire né chiesto rinvio. Tribunale Novara, 15/11/2018.

7)      Nullità del matrimonio e assegno di mantenimento. La pronuncia che rende esecutiva nello Stato la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario tra le parti, successiva al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, fa venir meno le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste poiché – a differenza di quanto avviene nel caso di precedente passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le cui statuizioni in ordine all’assegno divorzile restano efficaci in forza del principio di solidarietà post coniugale – la sentenza di separazione che stabilisce il diritto al mantenimento a favore del coniuge separato trova il suo fondamento nella permanenza del vicolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi sicchè, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono. Cassazione civile sez. I, 11/05/2018, n.11553.

8)      Delibazione della declaratoria di nullità del matrimonio concordatario. La sentenza che dichiara la nullità del matrimonio concordatario e la sentenza che stabilisce la cessazione degli effetti civili del matrimonio stesso differiscono per petitume causa petendi, poiché la prima incide sul matrimonio-atto e la seconda sul matrimonio-rapporto: il matrimonium in fieri ed il matrimonium in facto esse, pur costituendo due aspetti del medesimo istituto, sono nettamente distinti per struttura e finalità, e, conseguentemente, per regime giuridico. La circostanza che tra le parti sia stata pronunciata sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario e che siffatta pronuncia sia passata in giudicato non impedisce, pertanto, che successivamente venga delibata la sentenza canonica dichiarativa della nullità del matrimonio-atto: ciò, purché nell’ambito del giudizio concernente la cessazione degli effetti civili non sia stata espressamente statuita la validità del negozio matrimoniale dal quale è scaturito il vincolo coniugale. Cassazione civile sez. I, 12/09/2018, n.22218

9)      Requisiti per la declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica. La declaratoria di esecutività della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione, da parte di uno solo dei coniugi, di uno dei “bona matrimonii”, postula che la divergenza unilaterale tra volontà e dichiarazione sia stata manifestata all’altro coniuge, ovvero che sia stata da questo in effetti conosciuta, o che non gli sia stata nota esclusivamente a causa della sua negligenza; in mancanza, la delibazione trova ostacolo nella contrarietà all’ordine pubblico italiano, nel cui ambito va ricompreso il principio fondamentale di tutela della buona fede e dell’ affidamento incolpevole; il giudice italiano è tenuto ad accertare la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità dell’esclusione anzidetta da parte dell’altro coniuge con piena autonomia, trattandosi di profilo estraneo, in quanto irrilevante, al processo canonico, senza limitarsi al controllo di legittimità della pronuncia ecclesiastica di nullità; la relativa indagine deve essere condotta con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti, opportunamente riesaminati e valutati, non essendovi luogo, in base di delibazione, ad alcuna integrazione di attività istruttoria. Cassazione civile sez. VI, 25/06/2019, n.17036.

10)  Nullità del matrimonio concordatario per incapacità di assumere gli obblighi coniugali. In ipotesi di delibazione di sentenza dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario per difetto di consenso e per incapacità di assumere gli obblighi coniugali, la situazione di vizio psichico (ob defectum discretionis iudicii) da parte di uno dei coniugi, considerata dal giudice ecclesiastico come inettitudine del soggetto ad intendere i diritti e i doveri del matrimonio, al momento della manifestazione del consenso, non si discosta dall’ipotesi di invalidità prevista dall’art. 120 c.c.; è possibile dichiarare quindi efficace la sentenza ecclesiastica emessa, non sussistendo incompatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano. Corte appello Ancona sez. II, 29/10/2019, n.1540

Redazione       La legge per tutti 26 maggio 2020

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MEDIAZIONE FAMILIARE

Mediazione familiare: ultime sentenze

1)      Poteri di mediazione. Nell’ambito di un procedimento di sottrazione internazionale di minorenni, è compito del giudice minorile compiere un’accurata indagine sulle concrete possibilità di attuare l’interesse prevalente del minore anche, e principalmente, attraverso una autoregolamentazione del menage familiare anziché con una imposizione giudiziale esterna, prospettando alle parti l’adesione a un percorso di mediazione familiare, come sollecitato in sede di cooperazione europea e internazionale e anche in virtù della Guida alle buone prassi pubblicata dalla Conferenza dell’Aja e diramata dal Ministero a tutti gli uffici giudiziari minorili italiani. Alla luce dell’esito positivo di questa attività, che si concretizza in un accordo bonario tra le parti, viene meno l’interesse al ricorso e pertanto deve dichiararsi il non luogo a provvedere in ordine alla sussistenza della sottrazione internazionale. Tribunale minorenni Bologna, 23/05/2017.

2)      L’interesse dei minori. Il tribunale civile ordinario, allorquando deve operare nell’interesse dei minori con la latitudine dei poteri di cui all’art. 155 c.c. e dell’art. 6 1. n. 898 del 1 dicembre 1970, rientra nella categoria delle autorità giudiziarie minorili e come tale può servirsi dei centri di mediazione familiare, appartenenti all’ampia categoria dei servizi sociali, che assistono il giudice in qualità di esperti nella negoziazione della crisi coniugale e che, pertanto, sono idonei al compimento, ex art. 68 c.p.c. di atti (ricomposizione del conflitto) che egli non è nelle condizioni oggettive di compiere. Tribunale Bari, 21/11/2000.

3)      Crisi del nucleo domestico. È assai opportuno e conforme a legge che il giudice, in caso di crisi del nucleo domestico (abbia quest’ultimo origine dal matrimonio o da un’unione concubinaria, e vi siano o non vi siano figli minorenni o maggiorenni), qualora accerti la disponibilità delle parti a partecipare attivamente ad un programma di mediazione fra le opposte esigenze e le corrispondenti pretese, rinvii gli interessati ad un organismo o Centro qualificato di mediazione familiare, allo scopo di raggiungere (o di agevolare) la conclusione di un accordo e l’adesione consapevole ad una soluzione non imposta dall’alto, ma voluta dalle parti stesse; un rinvio siffatto, peraltro in armonia con i poteri/doveri conciliativi del giudice, nonché con la normativa, nazionale ed internazionale, auspicante l’intervento di un soggetto imparziale, diverso dal giudice, anche, e soprattutto, nei conflitti domestici, non esclude che il vaglio finale della soluzione concordata spetti, pur sempre, al giudice, del quale i mediatori possono considerarsi, ex art. 68 c.p.c., ausiliari atipici. Tribunale Bari, 21/11/2000.

4)      Conflitto tra coniugi e mediazione familiare. Ritenuto quanto premesso, le reiterate istanze al g.t. avanzate dalla moglie per ottenere l’istaurazione di un procedimento di mediazione familiare allo scopo di lenire il conflitto insorto tra i coniugi con particolare riferimento all’assenza di comunicazioni tra i genitori nell’interesse dei figli minori, non possono, nella specie essere accolte. Tribunale Modena, 28/04/2017.

5)      La nomina di un coordinatore genitoriale. La coordinazione genitoriale è uno strumento, già conosciuto in altri ordinamenti, volto a facilitare la risoluzione delle dispute tra genitori altamente conflittuali e temporaneamente non trattabili tramite la mediazione familiare, ridurre l’eccessivo ricorso ad azioni giudiziarie e guidare le parti a negoziare e accordarsi sul tempo da trascorrere e condividere con i figli, con conseguente riduzione degli effetti dannosi che il conflitto genitoriale provoca sul benessere psicofisico dei figli. Tribunale Civitavecchia, 20/05/2015.

6)      La mediazione familiare e la comunicazione tra i genitori. Il percorso di mediazione deve essere visto come un’occasione per migliorare le capacità dei genitori di comunicare e di ricercare soluzioni utili nell’interesse dei figli, e non come tentativo di ottenere dal mediatore lo schieramento a favore di uno o dell’altro con riguardo a specifici temi. Il fine effettivo della mediazione non è quello di risolvere singoli problemi, bensì quello di migliorare le capacità di comunicazione tra i genitori, di far capire loro quali sono i metodi per cercare soluzioni utili nell’interesse dei figli e quali debbano essere i comportamenti responsabili da adottare a tal fine. Tribunale Pavia sez. II, 09/05/2017.

7)      Coniugi legalmente separati e mediazione familiare. Qualora tra coniugi legalmente separati, che hanno invano tentato la via della mediazione familiare, persista un’accesissima, esasperata, indomabile e irrazionale conflittualità con riferimento, in special modo, ai rapporti con i (due) figli ancora in età evolutiva, non va disposto l’affidamento condiviso, chiaramente inopportuno e, nella specie, allo stato, irrealizzabile, ma l’affidamento al padre, verso il quale i figli hanno manifestato una netta consolidata attitudine preferenziale – poiché, senza nulla togliere al legame materno, entrambi i figli si trovano con lui a proprio maggior agio – fermo restando che i minori rimangono sotto la costante vigilanza del Servizio sociale – che curerà anche l’instaurazione di sempre più ampi e frequenti contatti e scambi affettivi con il genitore non affidatario – e che una condotta ostruzionistica od anche non collaborativa dei coniugi-genitori potrebbe, con ogni probabilità, provocare pesanti e radicali provvedimenti a loro carico. Tribunale minorenni L’Aquila, 27/02/2008.

8)      Mediazione familiare nei procedimenti di rimpatrio dei minori. Anche nei procedimenti di rimpatrio dei minori fatti oggetto di sottrazione internazionale il giudice minorile deve adoperarsi per garantire il miglior sviluppo del minore e ciò senza adottare misure stereotipate o automatiche. Pertanto, la dimostrata apertura dei coniugi ad un’ipotesi di riconciliazione giustifica l’invio delle parti ad un percorso di mediazione familiare, finalizzato al raggiungimento di una risoluzione bonaria della controversia. Infatti, è evidente che una decisione nel merito circa la sussistenza o meno della sottrazione internazionale comporterebbe, in caso positivo, l’ordine di ricondurre immediatamente i minori negli Stati Uniti, e in caso negativo un non luogo a provvedere che lascerebbe comunque insoluti i conflitti tra i coniugi. La decisione definirebbe la lite ma non chiuderebbe il conflitto. Tali immediate conclusioni del procedimento, pur senz’altro rispettose della normativa vigente, rischierebbero invece di violare uno dei principi immanenti del nostro ordinamento, faro che orienta il giudice minorile nell’adottare le sue decisioni, che è quello del superiore interesse del minore, dal momento che, attesa la disponibilità dei coniugi nel senso di tentare un percorso di mediazione familiare, impedirebbe al giudicante e alle parti in causa di mettere in campo tutte le strategie idonee a far sì che le differenti visioni delle parti possano essere ricomposte, in via stragiudiziale, proprio nel superiore interesse dei minori. Tribunale minorenni Bologna, 05/03/2015.

9)      L’attività di mediazione familiare e le caratteristiche del mediatore. L’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. La legislazione statale, con l’art. 155 sexies c.c., ha soltanto accennato alla attività di mediazione familiare, ma non ha introdotto la figura professionale del mediatore familiare, né stabilito i requisiti per l’esercizio dell’attività; pertanto, le disposizioni regionali – definendo la mediazione familiare, disciplinando le caratteristiche del mediatore familiare e stabilendo gli specifici requisiti per l’esercizio dell’attività, con la previsione di un apposito elenco e delle condizioni per la iscrizione in esso – invadono una competenza sicuramente statale. Corte Costituzionale, 15/04/2010, n.131.

 

Redazione       La legge per tutti        27 maggio 2020

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NULLITÀ MATRIMONIO

Ultime sentenze

1)      Cause di nullità del matrimonio. In tema di nullità di matrimonio, l’art. 129 bis c.c., sebbene formulato lessicalmente in modo diverso dall’art. 139 cod. civ. (che commina una sanzione penale al coniuge che, conoscendo prima della celebrazione una causa di nullità, l’abbia lasciata ignorare all’altro), comprende, nella sua portata più ampia, anche l’ipotesi disciplinata da quest’ultima norma. Pertanto, per l’affermazione della responsabilità in questione e, prima ancora, della imputabilità richiesta, non è sufficiente la pura e semplice riferibilità oggettiva della causa di invalidità, e neppure la consapevolezza di essa, occorrendo, invece, oltre alla consapevolezza di quei fatti che vengono definiti invalidanti, anche quella della loro attitudine invalidante, mentre la prova di tale consapevolezza e del comportamento omissivo o commissivo del responsabile, incombe secondo le regole generali, su chi afferma l’esistenza di tale imputabilità. Il fondamento della responsabilità prevista dal primo comma dell’art. 129 bis c.c. a carico del soggetto passivo del rapporto risiede nel fatto che egli, al momento della celebrazione del matrimonio, sia stato consapevole dell’esistenza della causa che ne ha determinato la nullità, ovvero nel fatto che il soggetto cui è imputabile (riferibile) tale causa di nullità sia stato in malafede circa l’esistenza anzidetta. Tribunale Ivrea, 07/01/2019, n.6.

2)      Convivenza matrimoniale protrattasi per almeno tre anni. La convivenza matrimoniale protrattasi nel tempo per almeno tre anni deve intendersi come elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, che così acquista un carattere di stabilità tutelato dalle norme di rango costituzionale, sia italiane che europee sicché la conseguente contrarietà all’ordine pubblico della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio ne impedisce la delibazione nel nostro ordinamento interno. Corte appello Lecce, 04/03/2020, n.90.

3)      La delibazione della sentenza di nullità del matrimonio. La delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario per esclusione di uno dei bona matrimonii, manifestata all’altro coniuge, deve ritenersi consentita anche se la relativa azione sia stata proposta dopo il decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio o quando, dopo la celebrazione stessa, si sia verificata la convivenza dei coniugi, in difformità del disposto dell’art. 123 comma secondo cod. civ. in tema di impugnazione del matrimonio per simulazione, atteso che tale disposizione, pur avendo carattere imperativo, non costituisce un principio fondamentale dell’ordinamento statuale italiano. Corte appello Roma, 17/02/2020, n.1206.

4)      Capacità d’intendere il valore del matrimonio-sacramento. Va ratificata la sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale di nullità del matrimonio per “grave difetto di discrezione di giudizio nell’uomo” perché la stessa non contiene disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano perché la mancanza di “discrezione di giudizio”, cioè dell’effettiva capacità d’intendere il valore del matrimonio-sacramento, anche se non accompagnato da una compiuta verifica in ordine alla consapevolezza dell’altra parte circa l’accertamento del vizio del consenso, non è incompatibile con l’ordine pubblico interno, non essendovi un principio generale di tutela dell’affidamento che contempli come elemento essenziale la riconoscibilità di tale vizio per l’altra parte. Corte appello L’Aquila, 21/11/2019, n.20.

5)      Omesso versamento dell’assegno di mantenimento. In tema di reati contro la famiglia, il reato di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, educazione e istruzione dei figli, previsto dell’art.12-sexies, L. 1 dicembre 1970, n. 898 (richiamato dall’art. 3, L. 8 febbraio 2006 n. 54), è configurabile non solo nel caso di separazione dei genitori coniugati, ovvero di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, ma anche in quello di violazione degli obblighi di natura economica derivanti dalla cessazione del rapporto di convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che gli artt. 337-bis. e ss. c.c., richiamati dall’art. 155 c.c., integrano il precetto penale riempiendo di contenuto gli obblighi di assistenza in esso menzionati in virtù di un meccanismo applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, ai sensi dell’art. 4, comma 2, L. n. 54 del 2006). Cassazione penale sez. VI, 31/01/2018, n.12393.

6)      Sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio. La sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio religioso per esclusione da parte di un coniuge di uno dei “bona” matrimoniali, quale quello relativo alla prole, e cioè per una ragione diversa da quelle di nullità previste per il matrimonio civile dal nostro ordinamento, non impedisce il riconoscimento dell’esecutività della sentenza ecclesiastica, quando quella esclusione, ancorché unilaterale, sia stata portata a conoscenza dell’altro coniuge prima della celebrazione del matrimonio, o, comunque, questi ne abbia preso atto, ovvero quando vi siano stati concreti elementi rivelatori di tale atteggiamento psichico non percepiti dall’altro coniuge solo per sua colpa grave. Cassazione civile sez. I, 09/12/2019, n.32027.

7)      Nullità del matrimonio: esecutività della sentenza ecclesiastica. In tema di dichiarazione esecutiva agli effetti civili della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio contratto, la mancata previsione nella legge italiana di un’identica causa di nullità non costituisce principio di ordine pubblico, tale da rappresentare un ostacolo alla esecutività di una sentenza ecclesiastica che, sulla base delle diverse disposizioni del diritto canonico, dichiari la nullità del matrimonio. In effetti, da un lato, occorre evidenziare che esiste nell’ordinamento interno una causa di invalidità per ragioni analoghe (ossia l’incapacità naturale) e, dall’altro, che la previsione dell’ordinamento canonico non contrasta con principi fondamentali del diritto interno. Corte appello Catanzaro sez. I, 29/05/2019, n.37.

8)      Violazioni di obblighi derivanti dalla cessazione della convivenza. In tema di reati contro la famiglia, il reato di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, educazione e istruzione dei figli, previsto dell’art.12-sexies legge 1 dicembre 1970, n. 898 (richiamato dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006 n. 54), è configurabile non solo nel caso di separazione dei genitori coniugati, ovvero di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, ma anche in quello di violazione degli obblighi di natura economica derivanti dalla cessazione del rapporto di convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che, alla luce di un’interpretazione sistematica della disciplina sul tema delle unioni civili e della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli, introdotta dalla L. 20 maggio 2016, n. 76 e dal D.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, che ha inserito l’art. 337-bis. cod. civ., l’art.4, comma 2, Legge n. 54 del 2006, in base al quale le disposizioni introdotte si applicano anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, deve essere interpretato con riferimento a tutte le disposizioni previste dalla legge citata, comprese quelle che attengono al diritto penale sostanziale, in quanto una diversa soluzione determinerebbe una diversità di trattamento, accordando una più ampia e severa tutela penale ai soli figli di genitori coniugati rispetto a quelli nati fuori dal matrimonio). Cassazione penale sez. VI, 03/05/2018, n.29902.

9)      L’accettazione del matrimonio nonostante lo stato psichico della nubenda. Per la delibazione della sentenza del Tribunale Ecclesiastico di nullità del matrimonio, rileva sia l’esame dell’eccezione di convivenza, quale motivo di ordine pubblico ostativo ad attribuire efficacia nel nostro ordinamento alla sentenza ecclesiastica, che la consapevolezza dei problemi di salute psichica della coniuge, risultando che l’attore consapevolmente ha accettato il rapporto matrimoniale con la gestione di esso con tutte le problematicità. Alla luce del criterio del “più probabile che non” appare ragionevole ritenere la coabitazione tra le odierne parti abbia dato luogo a una convivenza effettiva, stabile e esteriormente riconoscibile, basata su doveri di assistenza e solidarietà, per un periodo di tempo non inferiore a tre anni, che osta, perché contraria all’ordine pubblico italiano, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio tra le odierne parti. Corte appello Cagliari sez. I, 24/04/2018, n.368.

10)  Nullità del matrimonio dichiarata con sentenza ecclesiastica. Il quesito rimesso alle Sezioni Unite è se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l’effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della L. n. 898 del 1970, e successive modificazioni, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo. Cassazione civile sez. I, 25/02/2020, n.5078

11)  Quando la convivenza esclude la delibazione di sentenza di nullità del matrimonio? È esclusa la delibazione, per contrarietà all’ordine pubblico italiano, della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per qualunque causa relativa all’atto, là dove vi sia stata, per un periodo di almeno tre anni, convivenza come coniugi dopo la celebrazione delle nozze. Cassazione civile sez. VI, 15/05/2018, n.11808

Redazione       La legge per tutti        26 maggio 2020

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OMOFILIA

Omofobia: audizione in Commissione Giustizia della Camera

Il 21 maggio 2020, il prof. Mauro Ronco, professore emerito di Diritto Penale nell’Università di Padova, avvocato, presidente del Centro studi Livatino, ha svolto una audizione in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, sui progetti di legge volti a contrastare l’omofobia e le discriminazioni fondate sull’identità di genere: considerazioni sulle proposte di legge nn. 107, 569, 868, 2155, 2255 – Modifiche agli artt. 604 bis e 604 ter c.p. in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere

        I.            Nessun obbligo internazionale o europeo di incriminazione. Va detto in primo luogo che non sussiste alcun obbligo di incriminazione della diffusione di idee volte alla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Viene meno un motivo spesso addotto per introdurre negli artt. 604 bis e 604 ter le implementazioni proposte nei vari disegni di legge oggetto di considerazione. Vanno al riguardo tenuti in considerazione due aspetti che sconsigliano le implementazioni:

  1. Per un verso, le stesse amplierebbero di molto la prensione da parte della legge penale di comportamenti potenzialmente valutabili come penalmente illeciti, aumentando in maniera significativa il contenzioso giudiziario penale facendolo scivolare verso una sorta di magistero etico; per altro verso,
  2.  L’incremento delle incriminazioni penali si pone in contrasto radicale con una regola scientifica di razionalità del diritto penale, espressa con la formula dell’extrema ratio.

      II.            Le discriminazioni razziali. L’attuale art. 604 bis c.p. è modellato sul concetto dei discorsi e dei reati d’odio. Tale struttura di fattispecie è sorta dall’esigenza di contrastare le discriminazioni razziali, per le quali era intervenuto il vincolo sovranazionale di cui alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966. Alle discriminazioni razziali sono state assimilate, per ragioni di stretta analogia, le discriminazioni su basi etniche, nazionali e religiose. Eventuali discriminazioni in relazione ai profili dell’orientamento sessuale sono rimaste estranee all’obbligo di incriminazione.

   III.            I reati d’odio: contrasto con il principio del diritto penale del fatto (artt. 27 e 3 Cost.). I reati d’odio, previsti nella struttura dell’art. 604 bis, che si vorrebbe oggi estendere, sono profondamente contrari al principio del diritto penale, che postula alla base del reato un fatto offensivo nei riguardi di un bene sociale oggetto di esperienza concreta. Si confronti il reato d’odio, che oggi si vorrebbe estendere, di cui all’art. 604 bis, con il reato di cui al § 130 del codice penale tedesco. Il nostro reato recita nella lett. a), che prevede la fattispecie più ampia e inaccettabilmente aperta: chiunque propaganda idee … ovvero istiga a commettere atti di discriminazione per motivi d’odio razziale, etnico, nazionale o religioso e, nelle proposte, fondato sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, è punito.

Il § 130 tedesco prevede invece il reato nelle seguenti due forme:

 1. Chiunque, in maniera idonea a causare un disordine per la pubblica pace, incita all’odio contro un gruppo nazionale, razziale, religioso o etnico oppure contro sezioni della popolazione o individui sulla base della loro appartenenza a uno dei predetti gruppi o settori di popolazione oppure richiede misure violente o arbitrarie contro di loro …;

2. Viola la dignità umana di altre persone insultando o diffamando uno dei predetti gruppi o sezioni di popolazione o individui sulla base della loro appartenenza ad uno dei predetti gruppi o sezioni di popolazione … è punito.

                La struttura delle due fattispecie è profondamente diversa. Il § 130 individua un delitto di evento. La condotta deve provocare un effetto dannoso per la pace pubblica. Il reato del codice italiano è un delitto basato esclusivamente sui motivi ad agire. Diversa è la funzione svolta nelle due fattispecie dal concetto di odio: nel codice tedesco la condotta istiga la generalità dei cittadini all’odio contro i gruppi o gli appartenenti ai gruppi protetti; nel codice italiano l’odio è il movente dell’agire.  Il reato tedesco è un reato in cui la condotta è volta a provocare odio o a richiedere misure violente o arbitrarie di discriminazione. Nell’art. 604 bis, lett. a), la manifestazione di idee è rivolta soltanto alla commissione di atti di discriminazione. L’istigazione a commettere atti di violenza è prevista soltanto nella lett. b) dell’art. 604 bis c.p. Nel codice penale tedesco il delitto è ancorato al principio del fatto. Nel diritto italiano, manca questo fondamentale ancoraggio. Il reato del codice italiano, certamente nella struttura della lett. a), è un mero reato d’opinione basato sul presunto movente d’odio. In quanto completamente disancorato dal fatto, cioè da un evento di danno provocato da un comportamento volontario, esso trova fondamento nella disposizione interiore di un soggetto; disposizione interiore indiscernibile da parte di un osservatore esterno. Si tratta di un reato costruito senza una idonea base empirica accertabile dal giudice: “ti punisco perché ti attribuisco una malvagia disposizione d’animo, l’odio appunto”. L’eventuale estensione del reato d’odio alla manifestazione di idee per motivi di orientamento sessuale o di identità di genere segnerebbe il passaggio abnorme del diritto penale verso un modello che punisce la manifestazione di idee per correggere gli individui in ordine alla loro disposizione interiore. Non v’è alcuna base empirica per distinguere tra giudizi espressi sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere per ragioni d’odio, da un lato, ovvero, da un altro lato, per ragioni religiose, metafisiche, etiche e sociali. Qui emerge tutta l’assurdità della creazione di un reato basato sui motivi d’odio. Chi esprime opinioni critiche sulla tendenza omosessuale per ragioni metafisiche o sugli atti omosessuali per ragioni etiche, psicologiche, mediche o sociali, non per ciò è indotto a tali critiche per ragioni d’odio. Anzi, il più delle volte, il motivo per cui esprime tali opinioni risiede in ragioni del tutto contrarie allo stato interiore dell’odio. L’assurdità ancor maggiore sta nel conferire a un giudice il compito di decidere se una determinata opinione sia stata espressa per convinzione scientifica, per convinzione religiosa, per scelta culturale, per tradizione familiare, ovvero, tutto al contrario, per odio.

            Ma per odio verso chi? Verso una tendenza, un orientamento, una dottrina, una opinione o verso delle persone in carne e ossa? Anche qui la distinzione tra l’oggetto del presunto stato d’animo d’odio non può essere precisato se non attraverso una critica delle intenzioni, del tutto inaccettabile nel diritto penale poiché non è il giudice che può discriminare tra le intenzioni buone e quelle cattive. Determinate affermazioni in ordine alla corrispondenza di determinate tendenze alle inclinazioni naturali, ovvero in ordine alla eticità di determinati atti implica un giudizio negativo sulle affermazioni contrarie. Può mai valere questo giudizio negativo a configurare una discriminazione per motivi d’odio? No assolutamente! Fare di una presunta intenzione, indiscernibile dall’osservatore esterno, la base di un’incriminazione penale contrasta con i principi essenziali del diritto penale del fatto.     La mutuazione all’interno del mondo normativo di categorie storiografiche e filosofiche (dignità, odio, vulnerabilità) elaborate per la narrazione e la comprensione degli eventi storici e dei rapporti sociali è piena di grandi rischi di eticizzazione impropria e occulta del diritto penale in ragione della radicale diversità di funzione del lessico storiografico o filosofico e del lessico giuridico: il primo, invero, è funzionale alla comprensione degli eventi; il secondo è funzionale alla loro punizione.

   IV.            La criminalizzazione del diverso.     La società democratica è caratterizzata dalla libera circolazione delle idee e dal libero confronto di coloro che le sostengono, senza che possa essere colpevolizzato, addirittura con la minaccia della pena, alcuna persona, a meno che le idee si trasformino in azione, propria o altrui, diretta a provocare un danno o un pericolo di danno ad altre persone. Costruire reati di odio – tra cui rientra la c.d. omofobia e tra cui potrebbero rientrare, a breve, secondo una logica punitiva delle opinioni non assiologicamente neutrali, l’islamofobia, la cristianofobia, la giudeofobia, ecc. – significa costruire reati sulla base di un pregiudizio discriminatorio, che separa gli uomini e le donne in due categorie, che sarebbero radicalmente incompatibili tra loro. Da un lato la categoria di coloro che odiano e, dall’altro, la categoria di coloro che, non odiando, si ritengono in dovere di promuovere nei confronti dei primi un giudizio etico e giuridico di radicale e assoluta immoralità e antigiuridicità allo scopo di punirli e di rieducarli. Questa separazione, che sta alla base della narrazione culturale e letteraria che ha indotto alla creazione dei reati di odio, separazione tra i malvagi, quelli che odiano, e tutti gli altri, che invece non odierebbero e si limiterebbero a pretendere la punizione dei primi, contiene in sé un germe di totalitarismo dispotico cui è inerente il rischio di una discriminazione sociale potenzialmente drammatica, consistente nella disumanizzazione per via giudiziaria di una parte della popolazione, dapprima numericamente modesta – sarebbero odiatori soltanto gli omofobi – poi sempre più vasta: potranno diventare odiatori meritevoli di pena gli islamofobi, i cristianofobi, i giudeofobi, fino a provocare una divisione inimmaginabile tra due classi sociali individuate su base etica. Da un lato, coloro che vanno marchiati con la pena per l’odio di cui sono personalmente intrisi; dall’altro, coloro che, tramite la legge e, quindi, avvalendosi di uno strumento che è dell’intera società, esigono la condanna penale nei confronti di coloro che manifestano ragioni di critica contro determinate identità sessuali, religiose, economiche o di classe.

Introdurre reati basati sul preteso odio dell’autore significa introdurre nell’ordinamento un principio in forza del quale alcuni, per il fatto del loro odiare, sono considerati soggetti di secondo rango. Ove è evidente l’inversione in “cattivo” dell’apparente principio “buono” che sta alla base della richiesta di punizione degli omofobi: la creazione di una categoria di persone discriminate per il loro odiare empiricamente indiscernibile.

La legge penale non si può permettere di accusare e di condannare perché taluno odia ipoteticamente una determinata identità sessuale, religiosa, economica o politica. Anzitutto, come già si è detto, perché l’odio è uno stato soggettivo assolutamente indiscernibile da una legge o da un giudice. In secondo luogo, perché l’odio non è un motivo per agire, bensì un movente dell’azione. Quindi si agisce non per motivo dell’odio, ma si agisce per movente dell’odio, sospinti da uno stato transitorio dell’animo. Mai l’odio è stato assunto dalla legge come motivo integratore di una circostanza aggravante. I motivi che aggravano un reato sono quelli abietti o futili, che ricevono il contenuto da una valutazione oggettiva circa il loro disvalore; non i motivi d’odio, che afferiscono esclusivamente a uno stato d’animo.

            L’odio è il movente delle azioni volontariamente compiute per distruggere un bene. È il substrato dell’animo, inerente ad ogni azione malvagia. Costruire quindi i reati di odio significa travalicare i confini di ciò che è alla legge e al giudice ragionevolmente possibile fare. Significa costruire dei reati imperniati sul tipo interiore di autore: il tipo del soggetto odiatore.  Con ciò la legge penale perverrebbe alla disumanizzazione di categorie sempre più vaste di soggetti, dapprima di coloro che hanno paura di alcune categorie di diversi, poi di altre, poi di altre ancora. Tutti coloro che manifestano le loro paure appellandosi al valore della propria identità sarebbero degli odiatori, da disumanizzarsi attraverso il monito del precetto penale e da rieducarsi per il tramite dell’esecuzione della pena.

            Il diverso diventa l’odiatore, destinatario della riprovazione normativa e, per suo tramite, della riprovazione di tutta la collettività. Non ci si rende proprio conto che attraverso la creazione dei reati d’odio l’ordinamento rischia di trasformarsi esso stesso in causa di discriminazione tra le persone, ove i discriminati dalla legge diventano coloro che manifestano convinzioni forti in ordine alla loro identità. Né va trascurato l’effetto criminogeno di potenziali norme che intendessero incriminare i c.d. reati d’odio. Non si vuole certo negare che esistano nella società soggetti definibili letterariamente come omofobi, eterofobi, islamofobi, cristianofobi o giudeofobi. La sottoposizione delle persone caratterizzate da tali note al rischio penale non può che provocare, in una certa parte di questi soggetti, per impulso reattivo, il passare all’atto delle tendenze interiori, eventualmente venate di odio. Questa è la legge quasi meccanica della criminalizzazione. Essa fa scattare atti reattivi in una certa quota di soggetti che si sentono perseguitati nella loro identità.

     V.            Violazione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), della libertà di associazione (art. 18 Cost.) e della libertà di religione (artt. 19-20) Già si è evidenziato sub II che le implementazioni proposte introdurrebbero nell’ordinamento una fattispecie generale di reato d’opinione basata sul presunto movente d’odio. Questo tipo di disposizione viola l’art. 21 Cost., nonché le altre disposizioni fondamentali menzionate in rubrica e, in particolare, la libera espressione delle convinzioni religiose, delle opinioni scientifiche e storiche e della libertà di associazione. Taluno, in maniera semplicistica, allo scopo di legittimare l’implementazione punitiva di cui alle proposte, sostiene che la Costituzione non può legittimare l’odio.

Le cose non sono così semplici. La Costituzione promuove la solidarietà (art. 2 Cost.) e tutela l’identica dignità di tutte le persone (art. 3 Cost.), ma non prescrive un codice di convinzioni legittimamente sostenibili, proibendone altre. E allora non deve essere svalorizzato il fondamentale art. 21 Cost., che tutela l’espressione di tutte le opinioni che non abbiano in se stesse, per le modalità espressive e per la minaccia almeno implicita rivolta a terzi, un effetto diretto di istigazione a commettere delitti. Già con riferimento alle fattispecie di istigazione presenti nel codice penale (artt. 414 e 415), dottrina e giurisprudenza hanno in epoca risalente evidenziato il rischio che tali norme dessero rilevanza penale a mere manifestazioni del pensiero non allineato, che debbono invece ritenersi legittime nell’ambito di un confronto anche acceso e conflittuale tra idee e convinzioni diverse, tutte tutelate dall’art. 21 Cost. Varie sentenze costituzionali hanno riconosciuto la necessità che la norma penale individui le connotazioni che consentono di distinguere una mera manifestazione del pensiero da una «quasi azione» o da un «principio di azione» di ulteriori fattispecie di reato. Basterebbe ricordare la sentenza 23.4.1974, n. 108 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del reato di istigazione all’odio tra le classi sociali (art. 415 c.p.) – l’unica fattispecie di odio presente nel codice – «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La stessa Corte ha rielaborato struttura e funzioni del delitto di apologia di reato (art. 414, 3° co.) nelle forme di una istigazione indiretta, nei termini di un comportamento che deve essere «concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti» (C. Cost., 4.5.1970, n. 65).

                           VI.           Ulteriore e inaccettabile estensione della normativa punitiva. Le varie proposte di legge sono imperniate sul concetto di odio fondato sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. La norma si appalesa, quindi, non soltanto come diretta alla ipotetica tutela dell’omosessualità o della transessualità, bensì di tutte le forme di orientamento sessuale e di tutte le dottrine o procedure dirette a distaccare l’identità sessuale della persona dall’identità biologica allo scopo di favorire la creazione di un’identità psicologica o sociale fluida e indeterminata. In questo modo, sotto il pretesto di arrecare una maggiore determinatezza alla norma, si intende porre sotto lo scudo della protezione penale tanto i vari orientamenti sessuali, ancora oggi valutati come disturbi della personalità, come la tendenza voyeuristica, la tendenza sessuale masochistica, la tendenza sessuale sadistica, la tendenza sessuale feticistica, quanto le ancora oggi assai controverse teorie del gender, alla cui stregua l’identità della persona non è determinata dalla biologia, bensì dalla libera scelta dell’individuo. La non condivisione, più o meno scientificamente argomentata, di alcuni orientamenti sessuali e la loro condanna, per esempio dell’orientamento masochistico o sadistico, da parte di una larga parte della collettività, che ravvisa in essi una potenziale fonte di violenza contro la persona, potrebbero essere addirittura sindacate in sede penale come espressione di odio verso coloro che se ne facessero sostenitori in una dimensione di assoluta autodeterminazione sessuale. L’effetto paralizzante della stessa discussione scientifica in ordine alle problematiche del gender sarebbe devastante sul piano culturale, creando una sorta di riserva protetta per coloro che sostengono determinate

                        VII.           Creazione, costituzionalmente illegittima, di disparità di trattamento tra teorie e propongono forme educative corrispondenti alle teorie relative alla fluidità dell’identità sessuale, situazioni simili o, addirittura, tra situazioni che richiedono una più incisiva tutela rispetto alle situazioni indicate nelle proposte di legge. Vi sono nella cultura contemporanea delle tendenze violentemente contrarie ad alcuni istituti e valori fondamentali per l’educazione dei bambini e per la pace sociale. Ci si riferisce, in particolare, all’istituto della famiglia. Vi sono poi delle condizioni di particolare vulnerabilità in cui si trovano molte persone malformate, disabili, anziane, malate della sindrome di Alzheimer ecc.

Ora vi sono molte pubblicazioni ispirate a un profondo odio nei confronti della famiglia, disprezzata come istituzione addirittura criminogena. Una certa parte della cultura manifesta un odio particolare verso la famiglia o, comunque, l’unione stabile tra un uomo e una donna, in quanto entrambe le forme sarebbero espressione della triviale tendenza dell’uomo e della donna di unirsi sessualmente a scopo generativo e non esclusivamente ludico. Si tratta di teoriche, talora ammantate da un certo culto ambientalistico ostile alla centralità dell’uomo nel creato, che odiano, sulla falsariga di certe tendenze gnostiche antiche, la generazione tramite l’incontro del sesso maschile con quello femminile, in quanto incontro aperto tragicamente a protrarre sulla terra il dominio del demiurgo creatore. Anche queste forme di odio, peraltro rivolte a un’istituzione fondamentale per la sopravvivenza stessa della società e per la promozione della pace sociale, dovrebbero, sulla base dei principi che ispirano le proposte legislative in oggetto, essere ricomprese sotto una previsione penale.

            Vi sono, poi, alcune tendenze, che si manifestano pubblicamente in teorie e in dichiarazioni, che propagandano l’eutanasia, anche non volontaria, nei confronti delle persone incapaci di libera autodeterminazione, gli infanti malformati, i gravi malati mentali, gli anziani in condizione di incapacità di intendere e di volere, i malati di Alzheimer, gli stessi malati in condizioni non più risanabili.

            Laddove si intendesse la tutela offerta all’orientamento sessuale e all’identità di genere come una tutela rivolta a soggetti vulnerabili, si dovrebbe a maggior ragione fornire una tutela penale anche per stigmatizzare le opinioni di odio delle istituzioni familiari, nonché di tutte quelle manifestazioni di pensiero che inducono a togliere la stessa esistenza per via eutanasica a persone incapaci di intendere e di volere o che sono gravemente disabili o inferme.

            Centro studi Livatino             22 maggio 2020                     

www.centrostudilivatino.it/omofobia-audizione-in-commissione-giustizia-del-senato

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PENSIONE DI REVERSIBILITÀ

Come si ripartisce tra ex coniuge e coniuge superstite?

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ordinanza n. 8263, 28 aprile 2020
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In caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, per determinare la quota spettante di pensione di reversibilità, la legge individua il criterio legale della durata dei rispettivi rapporti di coniugio. Tale criterio deve essere temperato da ulteriori elementi, correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità, come l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali. La circostanza che la convivenza prematrimoniale si sia “sovrapposta” parzialmente alla fase della separazione con l’altro coniuge non deve indurre il giudice ad ignorarla.

Una donna, in qualità di coniuge divorziata, conveniva in giudizio la coniuge superstite del defunto ex marito, nonché l’ente erogatore del trattamento previdenziale, al fine di vedersi riconoscere la pensione di reversibilità nella misura del 70%; chiedeva, inoltre, la condanna al pagamento del credito sino ad allora maturato. Tali richieste erano fondate sulla circostanza che il matrimonio fosse durato dal 1971 al 2000 e che l’ex coniuge le avesse corrisposto un assegno di divorzio per l’importo di 2 milioni di lire. La coniuge superstite si opponeva, in primis, sostenendo che la richiesta di arretrati dovesse essere limitata a 5 annualità, atteso che le precedenti erano cadute in prescrizione; inoltre, contestava la quantificazione della quota spettante al coniuge divorziato. Infatti, secondo la convenuta, il criterio della durata del matrimonio (art. 9 c. 3 legge 898/1970) andava integrato con ulteriori criteri, come la comparazione delle condizioni dei soggetti coinvolti nella vicenda, la valutazione del tenore di vita che il de cuius aveva assicurato al coniuge superstite, nonché dell’esistenza di un congruo periodo di convivenza precedente al secondo matrimonio. In primo grado, il Tribunale determinava la quota spettante alla coniuge superstite nel 65% e nel 35% quella per l’ex coniuge; in appello, la sentenza di primo grado veniva riformata e le quote erano rideterminate in 2/3 a favore della coniuge divorziata. Si giunge così in Cassazione.

Le norme di riferimento. Preme ricordare che la normativa di riferimento è la legge 898/1970, che disciplina i casi di scioglimento del matrimonio; in particolare, l’art. 9 c. 3. La disposizione così recita: «Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno di cui all’art. 5. Se in tale condizione si trovano più persone, il tribunale provvede a ripartire fra tutti la pensione e gli altri assegni, nonché a ripartire tra i restanti le quote attribuite a chi sia successivamente morto o passato a nuove nozze».

Viene in rilievo anche l’art. 5 c. 6in relazione all’assegno divorzile, in quanto, come vedremo, da tale norma si traggono ulteriori criteri di valutazione: «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». Interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 9 c. 3 legge sul divorzio

La coniuge superstite lamenta che il giudice del gravame abbia disatteso le indicazioni interpretative della giurisprudenza costituzionale (C. Cost. sent. 419/1999) e di legittimità (Cass. 11226/2013, Cass. 17636/2012, Cass. 25174/2011, Cass. 23670/2011, Cass. 25564/2010). La Suprema Corte ritiene fondata la doglianza; infatti, ricorda come la Consulta abbia affermato che il criterio di determinazione della quota della pensione di reversibilità non possa essere solo matematico. Al contrario, occorre impiegare un correttivo, diversamente opinando, potrebbe verificarsi il seguente paradosso:

  • Il coniuge superstite finirebbe per conseguire una quota di pensione del tutto inadeguata alle più elementari esigenze di vita,
  • L’ex coniuge potrebbe ottenere una quota di pensione del tutto sproporzionata all’assegno in precedenza goduto.

Per le ragioni sopra esposte, il giudice deve tenere conto di altri criteri, al fine di ricondurre ad equità la situazione. In particolare, la ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite deve avvenire considerando la durata dei rispettivi rapporti matrimoniali. La legge (art. 9 c. 3 legge 898/1970) impone al giudice di “tenere conto” – tale è l’espressione impiegata – dell’elemento temporale. Al dato cronologico spesso viene riconosciuto valore preponderante, tuttavia esso non esaurisce l’apprezzamento del giudice, la cui valutazionenon può limitarsi ad un mero calcolo matematico. Elementi ulteriori rispetto al criterio legale di durata del matrimonio

Alla luce di quanto affermato dalla Consulta in materia di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che i criteri da impiegare siano i seguenti:

  • La durata dei rispettivi matrimoni (criterio legale ai sensi dell’art. 9 c. 3 legge cit.),
  • L’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge,
  • Le condizioni economiche dei due (coniuge divorziato e coniuge superstite),
  • La durata delle rispettive convivenze prematrimoniali.

Gli elementi ulteriori alla durata del rapporto di coniugio sono correlati alla finalità solidaristica che presiede al trattamento di reversibilità. I suddetti elementi non devono essere considerati congiuntamente, in quanto il loro impiego rientra nel prudente apprezzamento del giudice di merito (Cass. 18461/2004, Cass. 6272/2004, Cass. 26358/2011; Cass. 16093/2012). Invero, si tratta di correttivi di carattere equitativo rispetto al criterio legale, tra i quali si annovera anche la durata della eventuale convivenza prematrimoniale del coniuge superstite, nondimeno non bisogna confondere la durata della prima con quella del matrimonio vero e proprio.

La sentenza impugnata ha ritenuto di non attribuire alcun rilievo alla convivenza prematrimoniale; infatti, secondo il giudice di merito, si trattava di mero rapporto more uxorio che, in quanto tale, non poteva “prevalere” rispetto al permanere del vincolo matrimoniale nella fase della separazione precedente al divorzio. Inoltre, il giudicante ha considerato equivalenti le condizioni economiche delle due coniugi (divorziata e superstite), benché così non fosse. In base a quanto sopra, la Suprema Corte censura la pronuncia gravata, giacché ha impiegato come unico parametro di valutazione il criterio del confronto di durata dei due rapporti matrimoniali; non sono stati tenuti in debito conto i dati storici acquisiti al processo, come il periodo di convivenza prematrimoniale e le concrete condizioni delle parti.

Gli ermellini chiariscono che la convivenza prematrimoniale non può essere parcellizzata, nel caso in cui coincida, in parte, con il periodo di separazione legale con l’altro coniuge. Al contrario, essa va valutata «quale indice sintomatico della funzione di sostegno economico assolta dal dante causa nel corso della propria vita mediante la condivisione dei propri beni con la persona poi divenuta coniuge». Tale affermazione non è volta a negare l’esistenza del vincolo matrimoniale durante la separazione (infatti, la separazione attenua il vincolo e non lo scioglie), ma mira ad «attribuire alla convivenza prematrimoniale (e non semplicemente more uxorio) la funzione di indice correttivo da inserire all’interno del complessivo ed articolato giudizio che deve condurre alla adeguata determinazione delle quote».

Conclusioni. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso del coniuge superstite, cassa la sentenza in parte qua e rinvia alla Corte d’Appello in diversa composizione. Secondo i giudici di legittimità, la convivenza prematrimoniale, benché parzialmente coincidente con il periodo di durata della separazione legale, deve essere valutata come criterio ai fini della determinazione della quota della pensione di reversibilità. Parimenti, vanno considerate le effettive situazioni economiche delle due parti; nel caso di specie, la moglie, con una bambina a carico, versava in precarie condizioni patrimoniali. Nella determinazione della quota della pensione di reversibilità, occorre rispettare i canoni costituzionali imposti dall’art. 38 Cost.; pertanto, bisogna fare uso:

  • Del criterio principale (ex art. 9 c. 3 legge 898/1970),
  • Dei criteri correttivi.

I suddetti criteri non possono essere trascurati, altrimenti la valutazione del giudice si ridurrebbe ad una mera comparativa aritmetica tra la durata dei diversi rapporti di coniugio. Una simile soluzione è stata da tempo superata sia dalla giurisprudenza costituzionale che di legittimità. La corretta interpretazione dell’art. 9 c. 3 legge cit. è nel senso che il giudice debba adottare dei correttivi al criterio della durata dei matrimoni; tali elementi possono trarsi dall’art. 5 legge 898/1970 e sono espressione della finalità solidaristica sottesa all’istituto del trattamento pensionistico di reversibilità

Marcella Ferrari        Altalex            26 maggio 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/05/26/pensione-di-reversibilita-come-si-ripartisce-tra-ex-coniuge-e-coniuge-superstite

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POLITICA

Perché non si guarda mai alla famiglia

«Genitori monoreddito senza bonus». Gli aiuti per baby sitter e centri estivi sono negati se il padre o la madre non lavorano. Ora attenzione e impegno perché il Family Act sia davvero equo

Gentile direttore, scrivo su un argomento di cui finora non si è parlato abbastanza. Il recente Decreto Rilancio concede a famiglie con figli entro i 12 anni di età la possibilità di fruire di un bonus baby sitter di 1.200 euro utilizzabile anche per l’iscrizione dei figli a campi estivi. Unica condizione per usufruire del suddetto bonus è che entrambi i genitori siano lavoratori dipendenti (nel nucleo familiare non ci deve essere un genitore non lavoratore). Tale beneficio non mi sembra aderire a principi di equità. Aveva una ragione nel periodo con scuole aperte ma sospese per Covid, per aiutare le citate famiglie di entrambi lavoratori a gestire i figli rimasti a casa. Ma da giugno in poi, a scuole chiuse per vacanze estive, e quindi in una situazione analoga a quella normale se non ci fosse la pandemia, è una dona- zione gratuita e a mio avviso ingiusta perché erogata solo a famiglie bireddito a prescindere da Isee (reddito complessivo) e numero dei figli del nucleo familiare. Inoltre, in tal modo, vengono discriminate, senza motivo, le famiglie monoreddito e magari numerose che non beneficiano (e finora non hanno mai beneficiato) di alcun supporto nonostante il superlavoro fatto finora dalle mamme per far andare avanti i propri figli piccoli nel percorso scolastico e gestirli tutto il giorno in casa. Non riesco a trovare alcun senso in questa misura, né economico per far ripartire l’economia italiana, né di aiuto a chi ha pochi mezzi, perché distribuisce a pioggia senza criterio di equità fiscale, magari supportando chi di mezzi ne ha già tanti. Se invece lei ne trova, le sarei grato se potesse chiarirmeli. Cordiali saluti.

Paolo Manconi

Lei coglie nel segno, gentile signor Manconi, quando sottolinea l’ennesima contraddizione presente nel Decreto Rilancio. Richiesto dal direttore, le rispondo francamente che non vedo sbagliata in sé l’idea dell’erogazione di un bonus, senza limiti di reddito, per il pagamento di baby sitter o l’iscrizione dei minori di 12 anni a campi estivi. Tutto ciò che viene mobilitato in quest’estate difficile – di impoverimento per molti e di difficoltà nell’accedere ai servizi per tutti – è non solo positivo, ma direi ‘benedetto’. Il fatto, però, che il bonus sia limitato ai nuclei nei quali entrambi i genitori sono occupati come dipendenti e/o autonomi ne rivela la reale natura: non un sostegno alla famiglia, ma un altro aiuto mirato ai lavoratori. Utile, per carità, come si diceva. Ma che per l’ennesima volta tradisce l’incapacità anche di questo governo – come di molti altri e di vario colore che l’hanno preceduto – di progettare interventi pensando alla famiglia come un soggetto unico, come un organismo che per sua natura non può essere smembrato nei singoli componenti, segmentato e incasellato a seconda dell’occupazione dei genitori. Questo organismo sociale va invece sempre colto, sostenuto e promosso guardando al suo insieme, perché ciò che lo caratterizza, rende unico e forte, sono proprio l’equilibrio e l’interazione solidale che si sviluppa fra i suoi componenti. In questo quadro generale, le famiglie monoreddito sono particolarmente penalizzate tanto sul piano fiscale quanto su quello degli aiuti, perché da un lato non possono massimizzare i benefici come invece le coppie bireddito e, dall’altro, scontano il pregiudizio per cui il genitore che sceglie il lavoro di cura sia una sorta di ‘privilegiato’, che non merita né agevolazioni né supporti monetari o di servizi.

 Su queste colonne i miei colleghi e io stesso denunciamo questa e altre iniquità… dal secolo scorso. E, ai governi dell’uno e dell’altro schieramento, abbiamo provato a suggerire interventi come il ‘quoziente familiare’ alla francese, il ‘fattore famiglia‘ elaborato dal Forum delle associazioni familiari sino alla proposta ora maturata di un assegno unico per ogni figlio. O anche solo la correzione delle storture del bonus Renzi, appena riproposto. In sede di conversione del Decreto Rilancio con un semplice emendamento si potrebbe aprire l’accesso al bonus per il pagamento almeno dei centri estivi anche ai nuclei monoreddito. Soprattutto, però, ora è importante concentrare attenzione e impegno sul varo del cosiddetto Family Act, annunciato come imminente dal ministro della Famiglia Elena Bonetti. La legge delega prevede finalmente l’istituzione di un assegno universale, di carattere progressivo, per i figli e il riordino di quei diversi strumenti (detrazioni fiscali, assegni familiari, bonus vari) di cui oggi le famiglie beneficiano, ma in maniera molto selettiva e con (bassi) limiti di reddito. Bene, meglio tardi che mai. Ma perché l’operazione alla fine risulti insieme efficace ed equa vanno rispettati almeno due criteri fondamentali.

  1. Il primo è il riconoscimento che i figli rappresentano un bene pubblico e come tale vanno valorizzati. Tutti, a prescindere dall’occupazione, dal tipo di contratto e dai redditi dei genitori.
  2. Il secondo è che le politiche di sostegno alla famiglia e alla natalità vanno tenute ben distinte da quelle (pur importanti) contro la povertà

. Caro signor Manconi, noi continueremo a vigilare e a insistere su questa battaglia per i nuclei monoreddito e per tutte le famiglie. Speriamo di non dover registrare l’ennesima delusione che, in un momento come questo, sarebbe esiziale.

Francesco Riccardi     Avvenire         29 maggio 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/genitori-monoreddito-senza-bonus-perch-non-si-guarda-mai-alla-famiglia

 

UE. Quali azioni per arrestare il declino demografico

L’Europa, considerato che la sua popolazione è al minimo storico in percentuale di quella mondiale e dato che un nuovo baby boom è improbabile, deve adottare un approccio globale se vuole invertire il suo declino demografico, favorendo l’occupazione e affidandosi a politiche economiche e sociali che possano ristabilire la fiducia dei suoi cittadini nel futuro, ha dichiarato il Comitato economico e sociale europeo (CESE) il 7 maggio 2020.

www.eesc.europa.eu/it/our-work/opinions-information-reports/opinions/demographic-challenges-eu-light-economic-and-development-inequalities-exploratory-opinion-request-croatian-presidency

Nel parere Sfide demografiche nell’UE alla luce delle disuguaglianze economiche e delle disparità di sviluppo, il CESE afferma che un approccio del genere dovrebbe dare priorità a politiche attive del mercato del lavoro volte a combattere la disoccupazione e a contribuire alla creazione di posti di lavoro di qualità, soprattutto per i giovani, i cui tassi di disoccupazione rimangono a un livello che è circa il doppio del tasso medio di disoccupazione in tutti gli Stati membri.

Un altro elemento fondamentale per garantire tendenze demografiche positive sono politiche della famiglia stabili e proattive e politiche del lavoro incentrate sulle persone, che promuovano l’equilibrio tra vita professionale e vita personale, quali il congedo parentale e il lavoro flessibile. Servizi di custodia e di assistenza di elevata qualità per i bambini, le persone con disabilità e le persone anziane sono di primaria importanza e investire in servizi pubblici efficienti è indispensabile per stabilire standard di vita e di lavoro dignitosi e per un contesto ambientale in cui le persone vogliano lavorare, vivere e formare una famiglia.

            Sebbene possa compensare le carenze di manodopera e di competenze, l’immigrazione non è la soluzione definitiva per affrontare le conseguenze dell’invecchiamento demografico in Europa, afferma il CESE nel suo parere. Il parere, elaborato su richiesta della presidenza croata dell’UE, è stato adottato nella prima sessione plenaria del CESE seguita al diffondersi della pandemia di Covid-19; per la prima volta nella storia del CESE, la sessione si è tenuta a distanza e i membri hanno espresso il loro voto con procedura scritta.

Nel parere il CESE avverte delle rilevanti ripercussioni della crisi della pandemia di Covid-19 sulle future politiche dell’UE dirette a rispondere alle sfide demografiche e alle crescenti disuguaglianze tra gli Stati membri. Chiede all’UE di preparare con urgenza politiche pertinenti con una dotazione di fondi consistente per proteggere i cittadini dagli effetti della pandemia e dalle conseguenze sociali negative della crisi economica che è destinata a farvi seguito. Ciò dovrebbe essere fatto in consultazione con le parti sociali e la società civile organizzata.

“Gli Stati membri con politiche della famiglia solide, le quali riflettono le loro culture, si trovano in una situazione demografica migliore rispetto a quelli in cui tali politiche non esistono o sono deboli”, ha affermato il relatore del parere, Stéphane Buffetaut. “Le politiche della famiglia sono tuttavia elementi di un quadro più ampio che ne garantisce l’efficacia: posti di lavoro, dinamica economica e sociale, una cultura favorevole alla famiglia, una politica degli alloggi adeguata, un sistema d’istruzione efficiente e politiche ambientali.” “L’obiettivo” – ha sottolineato – “è quello di garantire che avere figli, che assicurano il futuro dell’Europa, non abbia un effetto penalizzante sul tenore di vita o sulle prospettive di carriera.”

Secondo il correlatore del parere, Adam Rogalewski, l’attuazione del pilastro europeo dei diritti sociali rappresenta un fattore di grande importanza nel migliorare la situazione demografica dell’UE in virtù delle forti misure sociali che prevede. “Gran parte del reddito della popolazione europea deriva in effetti dal lavoro, e senza creazione di posti di lavoro, prospettive del mercato del lavoro dinamiche, sicurezza nel mercato del lavoro e posti di lavoro di qualità è difficile creare una famiglia e offrirle condizioni di vita dignitose”, ha aggiunto Rogalewski, “ecco perché il rimedio più praticabile ed efficace contro le conseguenze negative dell’invecchiamento demografico non consiste nel concentrarsi sull’aumento dei tassi di fecondità o della migrazione, ma piuttosto su una maggiore partecipazione della forza lavoro.”

Il parere espone cifre che testimoniano del declino demografico dell’Europa e del fatto che il suo peso demografico è ai minimi storici, come mostra il fatto che la quota della sua popolazione rispetto a quella mondiale è scesa dal 27 % nel 1950 a meno del 10 % nel 2017. Negli ultimi 25 anni, certe aree dell’Europa hanno registrato un calo costante della popolazione ogni anno, facendo segnare un numero di decessi superiore a quello delle nascite e un tasso di fecondità negli Stati membri spesso significativamente e durevolmente al disotto della soglia del rinnovo generazionale. Tale fenomeno riguarda un po’ più della metà dei paesi dell’UE e cioè Germania, Bulgaria, Croazia, Spagna, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Italia, Lettonia, Lituania, Portogallo, Romania e Slovenia.

Inoltre, malgrado la migrazione, l’Europa sta facendo segnare un incremento della proporzione delle persone di 65 anni e oltre sulla popolazione totale. Il problema potrebbe diventare particolarmente acuto nell’Europa centrale, orientale e meridionale, i cui paesi stanno assistendo a una fuga della forza lavoro a tutti i livelli di qualificazione e a una fuga dei cervelli a causa del fatto che i loro cittadini partono per andare a lavorare in paesi economicamente più forti. La maggior parte dei lavoratori che lasciano i loro paesi sono giovani nella cui istruzione e formazione questi hanno investito solo per vederne beneficiare altri paesi che possono offrire condizioni di lavoro e sociali migliori; ciò non fa altro che approfondire il divario tra l’Europa occidentale e quella meridionale e orientale.

A parere del CESE, sebbene la libertà di circolazione dei suoi cittadini sia una libertà fondamentale dell’UE, livelli così elevati di migrazione all’interno dell’UE possono presentare sfide particolari per gli Stati membri di origine di tali flussi, in quanto accelerano l’invecchiamento della loro popolazione e la perdita di forza lavoro e di competenze. Tale fenomeno comporta sfide anche per i paesi di destinazione dei flussi migratori. “Si dovrebbe […] prestare attenzione a non incoraggiare la migrazione sistematica dei lavoratori con elevate qualifiche e competenze poiché ciò aggraverebbe ulteriormente il divario di competenze con i paesi in via di sviluppo, pregiudicandone lo sviluppo economico e sociale”, sostiene il CESE nel suo parere.

Eliminare le disparità economiche e sociali tra l’ovest e il sud e l’est e l’ovest è il miglior modo di rallentare questo trasferimento della forza lavoro. In quest’ottica, il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo di coesione e il Fondo sociale europeo devono essere orientati in modo particolare ad aiutare i paesi dell’UE che presentano risultati economici meno buoni a sviluppare progetti per migliorare il loro sviluppo sociale ed economico affinché essi possano continuare o cominciare a essere attraenti per i loro stessi cittadini

Nel parere il CESE propone anche di riconoscere e sostenere l’attività dei prestatori di assistenza volontari, di solito membri della famiglia, che hanno scelto di non lavorare per prendersi cura e fornire assistenza a familiari malati o con disabilità e ad altri familiari non autosufficienti. Gli Stati membri dovrebbero prevedere uno statuto adeguato e un sostegno finanziario per queste persone e diritti a prestazioni del sistema di sicurezza sociale. Non ci si può tuttavia attendere che i cambiamenti avvengano dall’oggi al domani. “La demografia è un ambito che si proietta nel lungo termine e richiede un’azione coordinata a livello europeo. L’UE dovrebbe elaborare orientamenti comuni basati sulla solidarietà tra le generazioni e sulla parità di genere, tenendo conto delle differenze tra culture e politiche sociali nazionali”, è la riflessione conclusiva del CESE.

Blog di Francesco Macri        27 maggio 2020

francescomacri.wordpress.com/2020/05/27/ue-quali-azioni-per-arrestare-il-declino-demografico

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POLITICHE DELLA FAMIGLIA

Ciò che gli uomini pensano e le donne sanno rinnovare

“Molto tempo dopo, Edipo, vecchio e cieco, camminava lungo la strada. Avvertì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?”. “Hai dato la risposta sbagliata”, disse la Sfinge. “Ma questo era ciò che ha reso tutto possibile”, rispose Edipo. “No”, disse. “Quando ti chiesi: “Cosa cammina a quattro zampe al mattino? due a mezzogiorno e tre la sera, tu hai risposto, L’uomo. Non hai detto niente sulla donna”. “Quando dici Uomo”, disse Edipo, “includi anche le donne. Lo sanno tutti”. La Sfinge rispose: “Questo è quello che tu pensi”” (“Mito”, Muriel Rukeyser).

Dire uomo, in questo periodo di pandemia, e nei mesi o anni che seguiranno all’emergenza sanitaria, non include anche le donne. Anzi, è proprio il contrario, si tende a non vederle e a escluderle. Da una parte chiunque vive questi mesi tremendi con una donna, magari madre di figli in età scolare e magari in smart working, ha visto di più rispetto ai tempi ordinari il peso enorme, a volte insostenibile che le è caduto sulle spalle – ce lo dimenticheremo presto? Meno vediamo però che gli effetti della pandemia sono e saranno diversi e più pesanti per le donne. Sul piano economico e sociale si aggraveranno le disuguaglianze tra uomini e donne, ed è in aumento il tempo per colmare il gender gap: erano “solo” 208 anni nel 2018, e sono diventati 257 prima della pandemia, a inizio 2020 e ora aumenteranno ancora. Le donne, in proporzione maggiore degli uomini lavorano in settori informali, con meno protezioni, ma anche nei settori più colpiti a livello economico: turismo, ospitalità e ristorazione.

A partire da queste evidenze, dai rischi di disgregazione sociale che ne possono emergere, e volendo trasformare questo tempo in un’opportunità, è nato il lavoro della task force femminile all’interno del Ministero della Famiglia e delle Pari opportunità. La task force è stata chiamata riflettere, elaborare proposte, affiancare il Ministero nell’attraversare il periodo più duro che l’Italia si trova a vivere dal dopoguerra. Si tratta dell’avvio di un processo: è parso chiaro a tutte quando ci si è ritrovate a lavorare insieme, donne con competenze e sensibilità diverse, ma accomunate dal desiderio di cogliere questo momento per guardare la realtà con uno sguardo nuovo, per entrare nei drammi e nelle speranze di chi è più in difficoltà, per sostenere con decisione un cambio di paradigma verso una visione più integrata e integrale dell’alleanza uomo-donna. A un mese dalla sua costituzione, la task force, dopo aver lavorato in sottogruppi attorno ai temi della promozione del lavoro femminile e dell’inclusione delle donne nei ruoli decisionali, della riorganizzazione dei tempi di vita e di lavoro e di metodologie di comunicazione volte al superamento di stereotipi, e della ricerca e delle discipline scientifico- tecnologiche (Stem), ha elaborato le prime riflessioni e le prime proposte, che sono offerte a chi dovrà prendere decisioni, e intendono essere una base da cui partire e sulle quali confrontarsi con tutte le realtà che desiderano apportare il loro contributo nella direzione auspicata: quella in cui uomini e donne contribuiscano insieme a costruire un futuro diverso, più umano. Si sente spesso ripetere che nei mesi e anni a venire niente sarà come prima, ma quello che dovrà o potrà essere va preparato ora. La task force ha lavorato in questo senso partendo da un’analisi della situazione e immaginando interventi nel breve e medio termine, partendo dalle risorse disponibili, ma anche con un’attenzione alle fragilità e alle vulnerabilità che andranno ad aumentare. Non si è entrato in tutti gli ambiti, in quanto alcuni sono sotto attenzione di politiche specifiche e di un lavoro che il Ministero sta già portando avanti. Si è cercato anche di fare uno sforzo nell’individuazione di strumenti legislativi e fiscali già esistenti, per i quali non si richiedono dunque risorse aggiuntive, ma che possono essere visti e applicati in modo diverso. Ad esempio, gli strumenti di welfare aziendali possono diventare facilitazioni allo smart working e alla gestione dei carichi familiari, e non semplicemente erogazioni di buoni spesa. Un accento si è posto anche al tema dell’indipendenza finanziaria delle donne, primo passo per il superamento anche di tante forme di sopraffazione e a volte di violenza. E tanto altro ancora che verrà ripreso, offerto alla discussione e all’implementazione di azioni e misure di più ampio respiro.

Il breve e medio termine, però, acquistano un significato solo se animati da una visione di più lungo periodo, un orizzonte che ci fa alzare lo sguardo. Nel nostro caso è quello di una migliore comprensione dell’essere umano e delle sue relazioni, nelle dimensioni essenziali che lo contraddistinguono, il lavoro e il prendersi cura gli uni degli altri. Il mondo avrà fatto un passo in avanti se quando incontriamo una persona, prima di chiederle “che lavoro fai?”, le chiederemo “di chi ti prendi cura?”.

Alessandra Smerilli, economista, accademica e religiosa italiana, docente di economia politica e statistica presso la Pontificia Università Auxilium, consultore della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, consigliera per l’economia presso il Consiglio di Stato Vaticano e membro della commissione Donne per un nuovo Rinascimento istituita dal ministro per le pari opportunità e per la famiglia Elena Bonetti.

Avvenire” 30 maggio 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/ci-che-gli-uomini-pensano-e-le-donne-sanno-rinnovare

 

La Ministra Bonetti istituisce il Gruppo di lavoro su minori e Covid-19

Mercoledì 20 maggio 2020, la Ministra per le pari opportunità e la famiglia, prof.ssa Elena Bonetti, ha dato il via alle attività, in modalità videoconferenza, del gruppo di lavoro su minori e Covid-19, che affianca i lavori dell’Osservatorio nazionale sull’infanzia e l’adolescenza. I 20 componenti, coordinati dalla prof.ssa Chiara Saraceno ed in parte già membri dell’Osservatorio, rappresentano Amministrazioni centrali e territoriali, organizzazioni della società civile, ordini professionali e della comunità scientifica. Il Gruppo ha il compito di elaborare azioni, strategie e politiche a favore della tutela e della promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel quadro del contrasto alle conseguenze dell’emergenza epidemiologica, sia nel corso dell’attuale periodo emergenziale sia nelle fasi successive, al fine di contrastare l’insorgere di ogni forma di disagio, isolamento, discriminazione o ineguaglianza a danno delle persone di minore età.

            Quale indirizzo ai lavori del Gruppo, la Ministra Bonetti ha voluto evidenziare 3 fattori centrali per le azioni governative al sostegno del benessere dell’infanzia e l’adolescenza:

  • Il contrasto all’impoverimento economico ed educativo;
  • La continuità delle relazioni per i bambini e i ragazzi;
  • La valorizzazione del ruolo delle comunità educative.

All’esito dell’incontro, il Gruppo di lavoro si è impegnato a produrre un documento utile per la predisposizione di ulteriori linee guida per minori della fascia d’età 0-3, con specifici approfondimenti educativi. La prossima riunione è fissata a venerdì 29 maggio 2020

Dipartimento per le politiche della famiglia               20 maggio 2020

famiglia.governo.it/it/notizie/il-ministro-bonetti-istituisce-il-gruppo-di-lavoro-su-minori-e-covid-19

   

Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza

L’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, presieduto dal Ministro con delega in materia di politiche per la famiglia, si compone di circa 50 membri, in rappresentanza delle diverse amministrazioni centrali competenti in materia di politiche per l’infanzia e l’adolescenza, delle Regioni e delle autonomie locali, dell’Istat, delle parti sociali, delle istituzioni e degli organismi di maggiore rilevanza del settore, nonché di rappresentanti del terzo settore e di esperti della materia.

È stato istituito, insieme alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, dalla legge 451/23 dicembre 1997 ed è attualmente disciplinato dal DPR 14 maggio 2007 n. 103. L’Osservatorio nazionale ha il compito di predisporre documenti ufficiali relativi all’infanzia e all’adolescenza:

  • Il Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, elaborato ogni due anni con l’obiettivo di conferire priorità ai programmi riferiti ai minori e di rafforzare la cooperazione per lo sviluppo dell’infanzia nel mondo.
  • Il Piano nazionale, acquisito il parere obbligatorio della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è approvato dal Consiglio dei ministri, adottato con decreto del Presidente della Repubblica e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale;
  • La Relazione biennale sulla condizione dell’infanzia in Italia e sull’attuazione dei relativi diritti;
  • Lo schema del Rapporto del Governo all’ONU sull’applicazione della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, alle scadenze indicate all’articolo 44 della Convenzione

http://famiglia.governo.it/it/politiche-e-attivita/natalita-infanzia-ed-adolescenza/osservatorio-nazionale-per-linfanzia-e-ladolescenza/informativa

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UTERO IN AFFITTO

Maternità surrogata, dopo i bambini parcheggiati in Ucraina ora basta

La denuncia dell’associazione Scienza & Vita: la vita umana non è una merce. Webinar per tenere viva l’attenzione sul fenomeno svelato dalla vicenda dei bebè ordinati a un’azienda specializzata di Kiev.

Appuntamenti in diretta su Facebook con Scienza & Vita per discutere di maternità surrogata con scienziati ed esperti. Il ciclo di incontri “Incontriamoci e parliamone” è condotto da Maurizio Calipari, bioeticista e portavoce dell’associazione. «In occasione del convegno nazionale che si teneva normalmente in maggio – spiega Alberto Gambino, giurista e presidente di Scienza & Vita – abbiamo scelto di mantenere l’impegno di attività culturale divulgativa via Web. La tematica attuale è quella della surrogazione di maternità: la vicenda di Kiev, con le immagini dei bambini sistemati nella hall di un albergo per la pandemia in attesa che le coppie committenti possano andare a ritirarli, ha straziato i cuori. Il contratto prevede infatti che la donna che ha partorito venga subito allontanata dal bambino. E il video mostra in modo chiaro come i neonati abbiano bisogno di calore, attenzione e vicinanza».

La giornalista Emanuela Vinai sottolineando che i piccoli sono trattati alla stregua di merci ha osservato che l’utero in affitto «è una nuova forma di schiavitù, in cui si possiedono la surrogante e il bambino». Carlo Bellieni, neonatologo, ha ricordato che «durante la gravidanza avviene uno scambio di sensazioni e di ormoni fra madre e figlio che si riflette per tutta la vita». Chiara Mantovani, medico, ha ricordato «la ricchezza dell’esperienza umana della maternità e il rispetto che si deve alla dignità dell’embrione». «Il segnale che intendiamo lanciare – commenta Gambino – è che la legge italiana è molto debole perché, pur vietando la surrogazione di maternità, prevede una pena inferiore ai tre anni e di conseguenza chi la organizza, la commercializza e la pratica non è perseguibile all’estero». Quanto al format digitale degli incontri, «molti sono stati i riscontri positivi delle associazioni locali».

Giovanna Sciacchitano Avvenire       30 maggio 2020

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/scienza-vita-maternita-surrogata-dopo-i-bambini-parcheggiati-in-ucraina-e-l-ora-di-dire-basta

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VIOLENZA

Integra il reato di molestie rivolgere insistenti battute a sfondo sessuale alle colleghe

Corte di Cassazione, terza Sezione penale, sentenza n. 1999/20 gennaio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37123_1.pdf

La Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla configurabilità del reato di molestie in capo a chi abbia rivolto insistenti battute a sfondo sessuale alle proprie colleghe di lavoro. La pronuncia ha avuto origine dalla vicenda giudiziaria che vedeva come protagonista un uomo, il quale era stato condannato, in entrambi i gradi del giudizio di merito, per i reati di violenza sessuale, ex art. 609 bis del c.p., e di molestie, ex art. 660 del c.p., per aver palpeggiato, due sue colleghe, e per aver rivolto loro, insistentemente, battute e domande a sfondo sessuale, nonostante a suo avviso il suo intento fosse meramente giocoso.

            Di fronte alla condanna pronunciata nei suoi confronti, sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, l’imputato ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione. L’uomo, con il proprio atto di ricorso, eccepiva, in primo luogo, come i giudici di merito avessero errato nel riconoscere valenza di atto sessuale al fatto di aver toccato i glutei di una delle colleghe, attribuendo valore soltanto al verbo “palpeggiare” usato dalla parte offesa, e non anche al verbo “toccare”, anch’esso da lei utilizzato. L’uomo contestava, inoltre, l’attendibilità della versione dei fatti data dalla persona offesa, essendo stato ritenuto rilevante soltanto l’episodio in cui egli si era trattenuto con la donna, per qualche secondo, in un camerino, nonostante dal filmato delle telecamere di sorveglianza non fosse emerso che essa avesse urlato. Si eccepiva, inoltre, la violazione e falsa applicazione, da un lato, dell’art. 660 del c.p., in quanto, secondo il ricorrente, l’uso di un linguaggio improprio e sconveniente, non poteva integrare il requisito del disturbo richiesto per la configurazione delle molestie, e, dall’altro, dell’art. 609 bis del c.p., con riferimento alla connotazione sessuale attribuita alle condotte di palpeggiamento contestate all’agente e ritenute idonee ad integrare la violenza sessuale, anziché, anch’esse, le molestie.

            La Suprema Corte ha, tuttavia, rigettato il ricorso, giudicando inammissibili tutti i motivi proposti a causa della loro genericità e manifesta infondatezza. Secondo gli Ermellini è, innanzitutto, infondata la tesi difensiva per cui la condotta del ricorrente non avrebbe avuto una connotazione sessuale. I giudici di merito non hanno errato nel considerare, quello posto in essere dall’imputato, come un gesto del tutto consapevole e volontario, e non, dunque, un mero “gioco”, tenuto conto sia delle implicazioni sessuali dello stesso, il quale ha senza dubbio violato la sfera sessuale della parte offesa, sia delle ripetute frasi a sfondo sessuale che l’imputato era solito rivolgere alle colleghe.

A tal fine i giudici di legittimità hanno, peraltro, ribadito come, sulla base di un loro costante orientamento, integri “la fattispecie criminosa di violenza sessuale nella forma consumata, e non tentata, la condotta che si estrinsechi in toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime della vittima, o, comunque, su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale, anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo a tal fine irrilevante che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica” (cfr. ex multis Cass. Pen., n. 12506/2011).

Con riferimento, poi, all’asserito fine giocoso della condotta realizzata dall’imputato, gli stessi Ermellini hanno, già in passato, affermato che “l’intrusione violenta nella sfera sessuale di un soggetto, anche se avvenuta “ioci causa” o con finalità di irrisione della vittima, travalica il mero atto di violenza privata e si qualifica come atto sessuale punibile ai sensi dell’art. 609 bis del c.p.” (Cass. Pen., n. 20927/2009).

            Contrariamente, poi, a quanto eccepito dal ricorrente, la Corte ha ritenuto corretto riconoscere piena attendibilità a quanto raccontato dalla parte offesa, in merito all’episodio verificatosi all’interno di un camerino. Come, infatti, correttamente ritenuto dal giudice di merito, dalle immagini emerge come l’imputato abbia trascinato nel camerino la ragazza, chiudendo la porta e trattenendosi al suo interno per alcuni secondi, tempo giudicato sufficiente a mettere in atto l’aggressione sessuale denunciata, tanto che la vittima si è messa a urlare, interrompendo così la condotta dell’aggressore.

            Quanto, infine, all’idoneità delle condotte realizzate dall’imputato ad integrare le fattispecie contestategli, la Corte di legittimità, concordemente a quanto deciso dai giudici di merito, ha ritenuto che il rivolgere con insistenza battute o domande a sfondo sessuale integri, senza dubbio, la fattispecie di molestie. Secondo un, seppur risalente, orientamento della stessa Cassazione, infatti, “il reato di molestie, commesso assillando la parte lesa con ossessivi riferimenti alle sue abitudini sessuali, non è escluso dal fatto che l’interlocutore assuma con il molestatore, al fine di raccogliere elementi utili per individuare l’autore delle telefonate, un tono confidenziale rivolgendogli del tu e consentendo a questi di fare altrettanto poiché tale comportamento non può essere interpretato come di acquiescenza o comunque attenuare nell’autore delle molestie la consapevolezza della illiceità della propria condotta” (cfr. Cass. Pen., n. 521/1996).

            Parimenti corretto è, poi, attribuire valenza di atto sessuale ai palpeggiamenti e toccamenti dei glutei e dell’interno coscia con una certa insidiosità, come avvenuto, nel caso di specie, all’interno di un camerino. Secondo il costante orientamento della Cassazione, infatti, “integra il reato di violenza sessuale e non quello di molestia sessuale (art. 660 c.p.) la condotta consistente nel toccamento non casuale dei glutei, ancorché sopra i vestiti, essendo configurabile la contravvenzione solo in presenza di espressioni verbali a sfondo sessuale o di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale” (Cass. Pen., n. 27042/2010).

Redazione giuridica Brocardi 29 maggio 2020

https://www.brocardi.it/pdf/4/2299/85afd99666a79ecea0a398b5e07d363b.pdf?view=1

https://www.brocardi.it/notizie-giuridiche/integra-reato-molestie-rivolgere-insistenti-battute-sfondo-sessuale/2299.html

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WELFARE

Assegno per i figli, c’è l’intesa politica. Tensione col Tesoro su 7 miliardi

L’esame del Parlamento andrà una riforma generica, con il seguente principio: nell’ordinamento fiscale entra l’assegno e la dote unica ed escono detrazioni, assegni familiari e bonus odierni. L’approdo è ancora lontano. Così come il reperimento delle risorse. Quello che si avvicina, piuttosto, è un passaggio politico. Pd e Italia Viva depongono l’ascia di guerra sulla “paternità” dell’assegno unico per figlio, il nuovo, auspicato strumento che dovrebbe introdurre in Italia (in altri Paesi europei è già realtà) un concetto rivoluzionario: per ogni figlio lo Stato dà un contributo mensile e una dote annuale per i servizi educativi che in buona parte prescinde dal reddito e che premia anche gli autonomi.

Nelle ultime ore si è raggiunto un accordo tra la ministra renziana alla Famiglia, Elena Bonetti, e i parlamentari dem più impegnati sul tema, in particolare Graziano Delrio e Stefano Lepri. L’intesa sarebbe la seguente: la settimana prossima, forse lunedì, il Consiglio dei ministri licenzierebbe il “Family act” di Bonetti, un Ddl delega. Contestualmente, il ministro annuncerebbe lo stralcio dell’articolo 2, quello riguardante l’assegno unico, perché i medesimi contenuti sono nella “Pdl delega” di Delrio, già in commissione Affari sociali alla Camera. In sostanza il Family act – che contiene anche una riforma dei congedi – e la proposta Delrio avanzerebbero in parallelo, dando “soddisfazione” a entrambi i partiti, nella speranza che poi la soddisfazione diventi delle famiglie.   Entrambi i testi, come detto, sono deleghe al governo. Quindi, completati gli iter parlamentari, l’esecutivo avrebbe 6 mesi per varare i decreti legislativi. Correndo e chiudendo i passaggi parlamentari a luglio, i decreti attuativi arriverebbero in contemporanea con la manovra di autunno. Della mediazione si è fatto carico anche il premier Conte, che sul Family act ha preso un impegno con Matteo Renzi, come ricordavano ieri sera dalle parti di Iv confermando che «abbiamo fiducia nel premier» nonostante il Cdm della sera non avesse la misura in scaletta.

Ma una parte l’ha giocata anche il Tesoro, e lo si comprende da un dettaglio: come è privo di cifre il testo del ministro Bonetti, anche il Pd, nell’andare avanti, si impegna a togliere dalla Pdl riferimenti economici specifici. Sparirà, dunque, la cifra massima di 240 euro al mese per i figli sino a 18 anni, l’ulteriore contributo di 80 euro per i figli sino a 26, la “dote annuale” di 400 euro per i servizi educativi (ridotta a 200 euro dai 3 ai 14 anni). All’esame del Parlamento andrà perciò una riforma generica, con il seguente principio: nell’ordinamento fiscale entra l’assegno e la dote unica ed escono detrazioni, assegni familiari e i vari bonus ora esistenti. Resterebbe la “clausola di salvaguardia” per garantire la stessa somma a chi andrebbe a perdere dallo scambio tra assegno unico e vecchi strumenti. E rimarrebbe la soglia oltre la quale il beneficio si spegnerebbe, ovvero i 100mila euro. Salvo anche il principio per cui l’assegno unico non concorre al reddito tassabile.

I condizionali sono tutti d’obbligo. I 15,5 miliardi che si ricavano cancellando detrazioni, assegni familiari e bonus non sono sufficienti per istituire l’assegno unico e la dote annuale. Mancano all’appello almeno 5–7 miliardi. Sino a quando non è chiaro il quadro dei fondi europei disponibili, e sino a quando le misure per le famiglie restano in “concorrenza” con altre misure, tutto resta in bilico.

In contemporanea allo “sblocco” dell’assegno per figli, si svilupperà la questione degli emendamenti al decreto “Rilancio”. Il Forum delle Associazioni familiari ha presentato propri “emendamenti”. Spicca la proposta per riparare ad una vera e propria beffa, quella che impedisce di chiedere il voucher baby sitter a quasi 300mila famiglie che, durante la “Fase 1”, hanno optato per il congedo straordinario.

Il Forum chiede di inserire la possibilità di disporre un buono ad hoc da 600 euro per questa platea. Una proposta di buon senso che il Forum presenta insieme ad altre che chiedono di aumentare la dote dei sussidi e proporzionarli al numero di figli. Si chiede anche di allargare le maglie del Rem, rafforzare le scale di equivalenza per i minori e renderlo disponibile come integrazione a chi ha pensioni di reversibilità molto basse

Marco Iasevoli Avvenire        29 maggio 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/assegno-per-i-figli-intesa-politica

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