UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 804 – 3 maggio 2020
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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Carta dell’UCIPEM, approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979, promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
02 ADOZIONI INTERNAZIONALI Coronavirus. Crollo della nascite. “Investire su adozione
02 AFFIDO CONDIVISO Frequentazione dei figli: giudici divisi
05 AFFIDO FAMILIARE Non rinunciare all’affido
06 AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO L’amministrazione di sostegno
08 BIBBIA Il virus è una punizione di Dio?
11 CENTRO GIOVANI COPPIE Registrazioni audio delle Conferenze
11 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n.17, 29 aprile 2020
14 CHIESA CATTOLICA Celebrare Messe aperte ai fedeli in questo tempo di coronavirus.
17 Wojtyla fondò il papato globale
22 CINQUE PER MILLE L’analisi del 5‰ 2018: meno firme, ma più pesanti
22 CONFER. EPISCOPALE ITALIANA Quando si può andare a Messa
24 Cardinale Bassetti: avanti, senza abbassare la guardia
24 In memoria
25 Le famiglie si riscoprono chiesa domestica
27 CONSULTORI UCIPEM Cremona. Collaborazione al Forum on-line per educatori
27 Mantova. Etica Salute & Famiglia – maggio-giugno 2020
27 Messina. Come intrattenere soggetti con disturbi autistici
31 CORONAVIRUS Perché l’influenza spagnola è un capitolo dimenticato della storia
34 La Chiesa che verrà
37 “Stress violento da quarantena”: minori vulnerabili, sos dei giudici
39 L’obbedienza e la responsabilità. La 1° è cosa giuridica, la 2° etica
40 Ripartenza: sette pagine da voltare
41 Il 1 maggio: ricordiamoci delle donne costrette a scegliere
42 La famiglia al tempo del coronavirus. Una ricerca
43 DALLA NAVATA IV Domenica di Pasqua. Anno A – 3 maggio 2020
44 Il pastore che chiama ogni pecora per nome
44 DONNE NELLA (per la) CHIESA Dittatura del ventre o codice materno?
46 ENTI TERZO SETTORE Beneficenza x Coronavirus, superato il miliardo: e adesso?
46 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI Nell’emergenza, il Paese ha retto anche grazie alle famiglie
47 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Omelia della celebrazione mattutina
47 Il papa sconfessa i vescovi: obbedire alle disposizioni
48 GENITORIALITÀ ARTIFICIALE Sui due papà la parola alla Corte Costituzionale
49 LITURGIA Messa con vecchio rito:rischio di una spaccatura
50 I due fallimenti di “Summorum Pontificum”
52 NULLITÀ MATRIMONIALE Omosessualità del coniuge e nullità del matrimonio
53 Come annullare un matrimonio
55 SEPARAZIONE Gli accertamenti patrimoniali nei procedimenti
56 TEOLOGIA Teologia «pop» e comunicazione
61 Lutero risponde alla CEI
62 Libertà di culto tra Vescovi e Lutero
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Coronavirus. Nuovo drammatico crollo della nascite. “Investire su adozione internazionale”
Le famiglie hanno voglia di accogliere ma c’è troppa burocrazia: occorre da parte dei servizi e tribunali il rispetto assoluto della legge sulla adozione internazionale. “Le proiezioni dell’ISTAT, audito sul DEF alla Camera dei Deputati, parlano di un crollo delle nascite che, per il 2021, potrebbe essere drammatico, come conseguenza dell’incremento della disoccupazione consequenziale, a sua volta, all’emergenza sanitaria da Coronavirus. Ecco che, proprio di fronte a tale drastico scenario, sembra quanto mai utile e necessario investire sulla adozione internazionale”. A sostenerlo è il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini.
“La vicenda di Napoli, dove si è scatenata subito una gara di solidarietà, come avviene ogni volta che la vicenda di un bambino abbandonato viene portata alla ribalta, per adottare la piccola Marienne, la bimba abbandonato dal padre nel quartiere Vasto perché non più in grado di prendersene cura, dimostra che le famiglie italiane non hanno perso la loro voglia di accoglienza. Ma perché allora le famiglie che si avvicinano alla adozione internazionale sono sempre di meno? Perché sono spaventate dalla deriva burocratica che ha subito nel nostro paese l’iter adottivo: tempi di legge non rispettati da servizi e tribunali; decreti di idoneità vincolati che di fatto impediscono alla coppia di conferire un mandato all’ente; passaggi burocratici non previsti dalla legge. Il primo passo per il rilancio della adozione internazionale – sembra assurdo affermarlo, ma è proprio così – inizia dal rispetto assoluto, da parte di servizi e tribunali, della normativa in vigore (legge 476/98) che ha segnato – quando è stata promulgata – un passo significativo verso la sburocratizzazione della adozione e che purtroppo non viene più applicata “
Il direttore del Dipartimento per la produzione statistica, Roberto Monducci, ha spiegato che le simulazioni dell’ISTAT, “pur senza sottoporci trasformazioni radicali, sottolineano l’accelerazione di quel processo che i media da tempo descrivono con l’immagine di un Paese dalle culle sempre più vuote”. Un processo evidentemente aggravato dalle criticità socio-economiche derivanti dall’attuale e drammatica situazione.
AiBinews 30 aprile 2020
www.aibi.it/ita/coronavirus-nuovo-drammatico-crollo-della-nascite-investire-su-adozione-internazionale
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AFFIDO CONDIVISO
Frequentazione dei figli: giudici divisi
L’emergenza provocata dal diffondersi dell’epidemia virale ha agito, in merito alla problematica della frequentazione dei figli di genitori separati, come una cartina di tornasole, evidenziando profonde differenze tra i vari tipi di approccio a livello giurisprudenziale.
L’ordinanza “negazionista” del tribunale di Bari. Limitandosi alle posizioni più chiaramente definite, si osserva il permanere di un atteggiamento nettamente conservatore e “negazionista”, schierato a baluardo del modello monogenitoriale, rappresentato anzitutto dal tribunale di Bari (ordinanza del 26 marzo 2020). La sostanza del provvedimento è che l’emergenza sanitaria è motivo sufficiente per sospendere le già ridotte occasioni di contatto del “genitore non collocatario” con la prole. Né lo sforzo di introdurre una compensazione autorizzando per la stessa durata del previsto “diritto di visita” contatti per via telematica tra padri e figli appare valido e soddisfacente. Premesso che non può darsi per scontato che gli strumenti necessari fossero disponibili presso l’abitazione di ciascuno dei genitori, è evidente che nessun figlio resiste per ore a conversazioni a distanza. Per cui la concessione appare più che altro un alibi rispetto alla mancata previsione di un recupero successivo degli incontri saltati. Ancora meno plausibile appare la citazione, per legittimare il provvedimento assunto, degli stessi decreti del governo: visto che affermano esattamente l’opposto. Difatti, ogni volta che si è avuta la segnalazione della problematica indotta nella frequentazione tra genitori e figli all’interno delle famiglie separate dalle limitazioni imposte ai cittadini alla libertà di movimento, sempre, direttamente o nelle precisazioni immediatamente seguite, è stato chiarito che nulla dovesse cambiare rispetto alle disposizioni già emanate dal giudice competente. In sostanza, quindi, l’ordinanza in questione, sviluppando opinabili considerazioni sulle gerarchie di tipo costituzionale fra diritto alla salute e diritto alla bigenitorialità a giustificazione della propria scelta, in concreto null’altro fa che dare lezioni di diritto all’organo (sia pur eccezionalmente) legislativo: contravvenendo al generale principio che il magistrato è soggetto alla legge e che per cambiare una norma ne occorre un’altra ad essa successiva.
Non minori perplessità, del resto, desta la preoccupazione che il tribunale manifesta non già per la possibilità che quel figlio si ammalasse nei contatti con il padre, ma perché il bambino potesse agire come agente infettante nei confronti del “genitore collocatario” e dei suoi conviventi: :”…ritenuto che non è verificabile, che nel corso del rientro il minore presso il genitore collocatario, se il minore, sia stato esposto a rischio sanitario, con conseguente pericolo per coloro che ritroverà al rientro presso l’abitazione del genitore collocatario.” Non poteva, dunque, essere confessato in maniera più convincente che l’interesse al centro delle attenzioni di una parte consistente della magistratura non è quello continuamente invocato “del minore”, ma dell’adulto investito del ruolo di “genitore prevalente” o “collocatario”. Non a caso, senza effettuare alcuna indagine, senza minimamente chiedersi quale sia la condizione di vita, la professione, l’intorno familiare di quel soggetto, si accredita sistematicamente a priori che la permanenza presso di lui rappresenti la migliore forma di prevenzione e di tutela per i bambini.
L’analoga decisione del tribunale di Vasto. Si è detto “parte consistente della magistratura” perché l’ordinanza barese si presenta come tutt’altro che isolata. In particolare, merita di essere segnalato in quanto ancora più recente un provvedimento del tribunale di Vasto (2 aprile 2020) che, non a caso, rimanda a quello di Bari. Non a caso, perché quasi tutte le considerazioni di carattere generale appena commentate si riproducono, identiche parola per parola, nella decisione del tribunale abruzzese, evidentemente trascinato dal prestigioso esempio. Quest’ultimo, in effetti, entra anche maggiormente nel merito della situazione specifica, ma senza molto guadagnarne in plausibilità, ma mettendoci del suo. Ad es., suscita non poche perplessità una affermazione come “fermo restando che il diritto del padre a mantenere rapporti significativi e costanti con la figlia può essere esercitato attraverso strumenti telematici”. Dove appare quanto mai impropria la citazione dei contenuti stessi del diritto soggettivo e indisponibile dei figli alla bigenitorialità, attribuendone la titolarità al genitore e definendoli “significativi”, anziché “equilibrati e continuativi”. Con evidente sostituzione di una determinante qualità parentale con quella che caratterizza il rapporto tra nipoti ed ascendenti, ai sensi del medesimo articolo 337 ter comma I c.c.
E c’è dell’altro. Se, infatti, evita di esprimere allarme per le condizioni di salute del collocatario (che tuttavia considera affidabile a priori); se pure evita lodevolmente il grottesco timore che il rischio consista nei percorsi stradali per passare da una abitazione all’altra (pure espresso da prestigiosi esponenti del sistema legale); nonché, altrettanto lodevolmente, si preoccupa di redarguire la madre affinché non interferisca con le chiamate; chiamate che colloca intelligentemente in una ragionevole fascia oraria e delle quali non predetermina la durata; tuttavia si esprime in modo decisamente preoccupante rispetto alle possibili fonti di contagio: “ritenuto, peraltro, che – nel caso di specie – non è verificabile se la minore si esponga a rischio sanitario, tenuto conto: a) che il padre proviene da un luogo ad alto tasso di contagio virale; b) che non è dimostrato che lo stesso abbia rigorosamente rispettato le prescrizioni imposte dalla normativa vigente; c) che non è chiaro se nell’abitazione di destinazione siano presenti altre persone, oltre al ricorrente”. Ora, per quanto attiene al primo punto la risposta era già contenuta nella richiesta stessa. Il padre, infatti, dimostrando senso di responsabilità, proponeva al giudice anche la possibilità di far partire la propria frequentazione dal 13 aprile, pur avendo raggiunto Aversa già dal 23 marzo. In questo modo nel momento di incontrare la bambina avrebbe già scontato addirittura una settimana in più del tempo normalmente previsto per la quarantena; il che spazza via la parte più rilevante della motivazione del rifiuto. Comunque, più preoccupanti ancora sono i punti successivi, che pongono un serio problema metodologico e di principio. È corretto che si chieda al cittadino di provare la propria innocenza o non è piuttosto all’accusa che tocca l’onere di dimostrare che c’è stata una violazione delle regole? Quanti siano sensibili al problema del rapporto del cittadino con le istituzioni non potranno evitare una fortissima sensazione di disagio.
In aggiunta, osservando ancora, ma da un punto di vista pratico, le preoccupazioni espresse ai punti b) e c) salta agli occhi la discriminazione tra genitore collocatario e non. Da dove si trae la “dimostrazione” opposta, da cosa risulta “chiaro” che quei capi d’accusa non sussistono a carico dell’altro genitore? Francamente, non sono interrogativi di poco conto.
L’intervento del Tribunale per i Minorenni di Roma. Fortunatamente, arriva il 9 aprile 2020 un decreto del Tribunale per i Minorenni di Roma di tutt’altra natura.
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38229_1.pdf
Al di là, infatti, della decisione di respingere l’istanza di una madre che chiedeva la sospensione degli incontri del figlio con il padre, hanno ben più peso e significato gli argomenti utilizzati a suo sostegno. Anzitutto, ancora una volta vengono citate le linee guida adottate dal Governo, ma questa volta dando loro la corretta interpretazione, definitivamente comprovata dalla formulazione della stessa modulistica che dispone l’attuazione delle norme. Recita, difatti, il decreto: “… rilevato che anche il modulo per la autodichiarazione, come da ultimo aggiornato, espressamente annovera ” gli obblighi di affidamento di minori” nell’ambito della elencazione esemplificativa delle circostanze da dichiarare legittimanti lo spostamento”. Quindi, le disposizioni date dal giudice per disciplinare i contatti tra genitori e figli non vengono toccate dalle limitazioni poste alla circolazione dei cittadini. Ma il Tribunale fa ben di più. Evita, infatti, di separare, contrapponendole, bigenitorialità e salute, osservando che il diritto a un rapporto equilibrato dei figli con entrambi i genitori si pone a fondamento del loro benessere psico-fisico: “diritto che assume rilievo nell’ordinamento costituzionale interno, e nell’ordinamento internazionale”.
Resta, dunque, in margine a questa illuminata decisione, ancora un passo da compiere (che purtroppo ancora non effettua il decreto romano, forse limitandosi ad usare termini che non sceglie, ma trova): accorgersi che la distinzione giuridica tra collocatario e non collocatario è una non lecita invenzione giuridica che va esattamente nel senso opposto allo spirito e alla possibilità di realizzazione di un affidamento condiviso e che occorre attribuire realmente ai figli pari possibilità di contatto con i genitori (da gestire flessibilmente in funzione dei propri bisogni), investiti di pari responsabilità e responsabilità. A questo ha pensato l’Unione Nazionale Camere Civili.
La posizione dell’UNCC. A conclusione di queste riflessioni sui variegati provvedimenti dei tribunali è d’obbligo rammentare la nota recentemente licenziata dall’Unione Nazionale Camere Civili (UNCC). Questa, oltre a compiere una corretta analisi della disciplina attuale, suggerisce anche quali potrebbero, o meglio dovrebbero, essere in generale le modalità della frequentazione, se davvero si volesse rispettare il diritto dei figli alla bigenitorialità. E del tutto concretamente, ossia come, al tempo stesso, realizzare le migliori condizioni per tutelare i figli non solo dagli attuali rischi di natura sanitaria, ma anche dagli inconvenienti più volte lamentati, tipo ping pong e sballottamento tra due case, derivanti dalla dominante consuetudine di limitare la frequentazione di uno dei genitori a spezzettate “visite” pomeridiane. Si legge infatti nella nota dell’UNCC, dopo avere caldeggiato un accorpamento dei contatti: “E’ dunque più che probabile che il problema abbia una matrice culturale, la cui responsabilità è da individuare all’interno del sistema legale. In altre parole, la discriminazione fra genitori – entrambi affidatari ed entrambi parimenti responsabili della cura, educazione e istruzione dei figli – introdotta dall’invenzione del genitore prevalente come figura giuridica, dovrebbe essere fatta cessare, come è avvenuto in molti Tribunali”. Coglie bene, dunque, l’UNCC il senso della evoluzione storica dei costumi, scegliendo di lasciarsi alle spalle modelli sociali arcaici, che la legge italiana ha ormai abbandonato da anni e che tuttavia residuano culturalmente in buona parte del sistema legale; così come nella normativa di paesi dell’America latina come Perù, Colombia ed Ecuador. Se, in effetti, la partecipazione paterna alla cura de figli è ancora minoritaria nella famiglia unita, perché contrastare, anziché incentivare, la paritetica assunzione di responsabilità e sacrifici quando con la separazione la donna potrebbe finalmente godere di pari opportunità?
Vale anche la pena di notare, nell’occasione, che una frequentazione paritetica nell’alternanza di due settimane consecutive (ma potrebbe essere anche una in tempi normali) è esattamente quanto disposto dal tribunale di Verona (27 marzo 2020) proprio al fine di proteggere meglio i figli dall’infezione rispettando al tempo stesso il loro diritto alla bigenitorialità.
Non è facile comprendere per quale motivo questa formula, intelligentemente caldeggiata dal documento dell’UNCC, non debba valere sempre, visto che le sue finalità e le sue premesse sono le medesime, a prescindere dalle circostanze.
Marino Maglietta Studio Cataldi 23 aprile 2020
www.studiocataldi.it/articoli/38229-frequentazione-dei-figli-giudici-divisi.asp
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AFFIDO FAMILIARE
Non rinunciare all’affido
L’affidamento familiare è un’operazione delicata perché lega parecchi aspetti complessi al fine di garantire il benessere del minore, che deve restare sempre al centro dell’impegno di tutti. In primo luogo è necessario definire un progetto, in cui precisare scopo e mete dell’affidamento, individuarne i modi, le regole e i tempi. É indispensabile evidenziare modalità corrette per mantenere i rapporti del minore con la sua famiglia, quasi sempre opportuni; sostenere la famiglia affidataria nel suo impegno e nel confronto non sempre facile con i genitori biologici del minore; gestire le difficoltà e gli incidenti di percorso che anche nelle migliori situazioni si possono verificare; predisporre il sostegno economico al nucleo affidatario.
Il benessere del minore. Ultimo, ma fondamentale, compito è aiutare la famiglia originaria a cambiare, a trovare un assetto che favorisca il ritorno positivo del bambino o del ragazzo in un ambiente migliorato e più sano. Per fare bene quanto prevede il progetto occorre che gli operatori pubblici coinvolti, assistenti sociali e psicologi in primis, facciano squadra e lavorino in équipe, evitando schieramenti perniciosi, privilegiando l’interesse del minore per la riuscita della non semplice impresa.
Oltre all’affidamento propriamente detto, che implica l’abitare stabilmente presso la famiglia affidataria, esistono altre tipologie minori variamente sperimentate e praticate. Ci sono affidi diurni per garantire al bambino un ambiente adeguato durante l’assenza lavorativa dei genitori, affidi per il fine settimana, affidi estivi per permettere vacanze in un contesto di buoni rapporti familiari e in luoghi climatici, affidi brevi per malattie acute o altre situazioni eccezionali a rapido superamento.
Esistono nel nostro paese anche le comunità per minori che non possono restare in famiglia, molte gestite con la presenza di operatori specializzati, altre di tipo familiare, ruotanti attorno a una coppia di genitori che accoglie anche bambini di altri. Non si deve togliere valore a comunità che operano al meglio nell’interesse di bambini e ragazzi, a volte passaggio necessario o collocamento idoneo per minori tanto sofferenti da non saper sostenere le relazioni troppo intime che si creano con le figure genitoriali di una famiglia affidataria.
Ma non si può non affermare che, a parità di altre variabili, una famiglia è meglio. La logica che sottende ogni tipo di affidamento, infatti, è chiara: nessun luogo è migliore, per un bambino o ragazzo che non può stare a casa sua, di un’altra famiglia che lo accolga.
L’affido è un progetto delicato. In alcune grandi città italiane del nord per situazioni molto difficili, dove si riscontra l’opportunità di un collocamento familiare affidatario, ma in presenza di bambini compromessi da violenze, deprivazioni, trascuratezze molto gravi, abuso sessuale, si è sperimentato l’affidamento professionale. In questi particolari nuclei affidatari, uno dei due genitori, opportunamente formato, viene retribuito con uno stipendio che gli permette un dedicarsi più pieno, con tempo libero da attività lavorative esterne alla famiglia, adatto alla condizione difficile del minore maggiormente bisognoso di cure e attenzioni.
Certamente l’affidamento familiare è un progetto delicato e impegnativo per tutti gli attori. Sicuramente per gli operatori psicosociali, per chi cerca una famiglia affidataria per quel bambino o quel ragazzo che per serie ragioni non può restare in famiglia, pur senza arrivare a doverla lasciare per sempre. Ma anche per i servizi che promuovono la ricerca e la formazione di nuove famiglie affidatarie e rispondono ad altri servizi che stanno cercando una famiglia idonea al caso. Preparazione, selezione e abbinamento sono impegni importanti che abbisognano di professionalità competenti. Comunque in tutte le regioni italiane le famiglie disponibili sono insufficienti rispetto al bisogno e sono anche in diminuzione. Né l’attacco dei media alla istituzione affido di cui si è parlato all’inizio della nostra riflessione facilita la ricerca odierna e può creare maggiori difficoltà per i minori che ne hanno necessità. Qualora la ricerca di una famiglia affidataria per quel bambino o ragazzo porti frutto e si costituisca un buon abbinamento, gli operatori delle due parti, famiglia originaria e famiglia affidataria, dovranno, come si diceva, fare squadra e rappresentare i punti di vista delle due parti per farli convergere nell’interesse del minore.
Non si possono azzerare i rischi. I rischi si corrono sempre. La famiglia naturale può sentirsi derubata negli affetti e boicottare l’affido, quella affidataria può vantare migliore competenza e divenire arrogante. Il bambino può sentirsi lacerato per un conflitto di lealtà: rassicurato dallo stare in un ambiente nuovo, buono, accogliente sgombro da tensioni, ma al contempo portatore di sensi di colpa per aver lasciato i genitori che litigano, la mamma che piange, i fratellini che non vengono protetti. Sia le due famiglie sia il minore vanno quindi accompagnati da operatori attenti, pensanti, collaboranti. In caso contrario un’operazione molto utile ma delicata rischia di zoppicare o fallire. I fallimenti nell’affido esistono, come esistono quelli adottivi e come si verificano fallimenti affettivi ed educativi nelle famiglie tradizionali, biologiche o naturali. Possiamo quindi affermare che è corretto chiedere ai servizi pubblici ogni impegno per la preparazione e la conduzione accurata di un provvedimento tanto importante quale l’affido per i figli sfortunati di sfortunate famiglie. Anche l’opinione pubblica dovrebbe sostenere la positività dell’affidamento familiare contro ogni detrazione ideologica, di principio o di comodo o addirittura di propaganda.
Misure di supporto. Il supporto alla famiglia affidataria comporta diverse misure. I comuni sono tenuti a fornire un contributo mensile che si aggira sui 5/600 euro per il mantenimento complessivo del minore, gli affidatari hanno diritto a un operatore referente per le difficoltà che possono incontrare con il bambino e/o con la famiglia originaria. Un ottimo supporto ricevono dalla partecipazione ai gruppi delle famiglie affidatarie, luogo di scambio periodico sulle difficoltà e sulle opportunità che la vita con il bambino nuovo arrivato procura.
Più complesso è il supporto alle famiglie originarie. È un luogo comune falso che l’affidamento sia messo in atto soprattutto di fronte alla povertà del nucleo originario; numeri e casistica dicono tutt’altro. Si tratta sempre e solo di dare un aiuto al bambino che non può continuare a stare con i suoi genitori quando in famiglia c’è violenza, maltrattamento, trascuratezza grave o altre forme di provata inadeguatezza. I servizi sociali e psicologici dovrebbero aiutare la famiglia a risalire alle origini del disagio, curarla, riabilitarla. Ciò si fa molto poco, sia per una mancanza di competenze diffuse, sia per i costi, sia per la penuria di personale. Purtroppo questo è il punto dolente perché, se poco viene fatto nell’ottica riparativa, il rischio è che al rientro del figlio in famiglia l’unico cambiato sia lui! Così, a fronte di bassi cambiamenti nella famiglia originaria, l’affido può perdurare perché il rientro di quel figlio è ancora rischioso. Molti affidi durano assai più dei due anni previsti dalla normativa, alcuni durano molti anni e diventano collocamenti che arrivano alla maggiore età, sono i cosiddetti affidi sine die, non previsti dalla norma, ma determinati da irrisolte difficoltà di vita.
Investimenti affettivi. Un tema importante è quello dei sentimenti e dei legami affettivi che si sviluppano nella famiglia affidataria, tra i suoi membri e il nuovo arrivato, in quanto un affidamento termina con il rientro del minore presso la sua famiglia originaria. Il tema reale è, nel sentire comune, quello dell’affezionarsi al bambino e poi del doverlo lasciare. Certamente non si devono scegliere famiglie che vorrebbero adottare e cercano un legame duraturo, possono essere poco adatte le coppie giovani e senza figli, quindi la selezione di chi è credibilmente idoneo è un procedimento da gestire con competenza professionale e finezza. Il pensiero che guida una buona famiglia affidataria può essere: «Accogliamo un piccolo, tra i nostri figli, per garantirgli accoglienza, un clima educativo, un ambiente orientato alla collaborazione la più possibile serena; lo accogliamo sapendo che ci potrà dare filo da torcere, metterci alla prova, resistere alla nostra disponibilità perché viene da un sistema relazionale inceppato, disfunzionale che può averlo debilitato, compromesso, reso refrattario a essere avvicinato. Intanto ci affezioniamo, e lui pure. Quando arriverà il momento del suo ritorno in famiglia faremo fatica, ma ci conforterà un pensiero e un sentimento: abbiamo aiutato un bambino o un ragazzo a crescere, a imparare modi buoni di stare con gli altri, a sperimentare l’affetto, a pensare meglio, a vivere contento». Non è poco.
Recentemente la legge, che ha innovato riguardo agli istituti dell’affido e dell’adozione, ha introdotto il concetto di continuità degli affetti come un’opportunità e, anzi, un diritto che va garantito per il dopo affido, incoraggiando, così, ogni volta che ciò sia utile e proficuo, il mantenimento di rapporti tra il ragazzo che torna a casa sua e chi lo ha accompagnato nell’avventura dell’affido. Pertanto i servizi sono ora caricati di questa ulteriore responsabilità nell’interesse del minore e degli adulti che lo circondano.
Dante Ghezzi, psicoterapeuta della coppia e della famiglia Il Gallo n. 5, maggio 2020, pag. 14
www.ilgallo46.it/wp-content/uploads/2020/05/il-gallo-maggio.pdf
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AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
L’amministrazione di sostegno
www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2004-01-19&atto.codiceRedazionale=004G0017&elenco30giorni=false
L’amministrazione di sostegno è un istituto giuridico finalizzato ad assistere i soggetti la cui capacità di agire risulti anche solo in parte compromessa.
Le finalità dell’amministrazione di sostegno. Con l’introduzione della figura dell’Amministratore di sostegno nel codice civile italiano, ad opera della legge n. 6/9 gennaio 2004, si è voluto offrire una tutela efficace a persone che, pur non essendo nella condizione di dover essere interdette o inabilitate, non sono comunque in grado di adempiere in completa autonomia alle funzioni della vita quotidiana. In particolare, l’articolo 1 della citata Legge 6/2004 recita che la funzione dell’Amministrazione di Sostegno è quella di “tutelare … le persone prive in tutto o in parte di autonomia, con la minore limitazione possibile della capacità di agire”.
Chi può beneficiare dell’amministrazione di sostegno. Tra i beneficiari dell’amministrazione di sostegno rientrano tutti coloro che, per effetto di una data infermità o di una qualsiasi menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche soltanto parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.
Si possono quindi includere in primo luogo i disabili, gli anziani, così come i tossicodipendenti (compresi gli alcolisti) oltre che i detenuti e alcune categorie di malati (compresi ad esempio i malati terminali o le persone colpite da ictus celebrale).
Secondo quanto dispone l’art. 404 del codice civile “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio”.
Come si richiede l’amministrazione di sostegno. Quello dell’Amministratore di Sostegno è un incarico per il quale non può essere riconosciuto alcun tipo di compenso, ma soltanto un rimborso delle spese e, in alcuni casi, un equo indennizzo stabilito dallo stesso Giudice Tutelare, che rappresenta la figura incaricata di effettuare la nomina dello stesso, in relazione al tipo di attività prestata. Va sottolineato che il giudice competente può nominare a priori l’Amministratore di Sostegno, agendo quindi in previsione di una futura incapacità di agire da parte di colui che presenta la richiesta e indicando la persona che avrà cura della persona e del patrimonio del richiedente. La richiesta della nomina di un Amministratore di Sostegno si fa con ricorso.
Possono presentare ricorso la persona interessata (c.d. beneficiario) anche se incapace, i familiari dell’interessato entro il 4°grado di parentela; gli affini dell’interessato entro il 2°grado; il Pubblico Ministero, il tutore legale dell’interessato; il curatore legale dell’interessato. In questi ultimi due casi essere presentata l’istanza di revoca dell’inabilitazione o dell’interdizione. Non si tratta solo di una “possibilità” perché può sorgere anche un vero e proprio obbligo di proporre il ricorso a carico dei servizi sociali e sanitari che vengano a conoscenza di fatti che possono far apparire necessaria la presenza dell’amministratore di sostegno. Per ciò che riguarda la procedura per la presentazione del tale ricorso, non è necessaria l’assistenza da parte di un avvocato: esso viene semplicemente presentato presso il Giudice Tutelare competente per il luogo di residenza del beneficiario. Nel caso, piuttosto frequente, in cui la persona interessata sia ricoverata presso una struttura di qualsiasi tipo (ospedale, casa di cura o altro) si fa riferimento al luogo della sede della struttura del caso.
La nomina
A seguito della presentazione del ricorso, l’Amministratore di Sostegno viene nominato con un decreto del giudice tutelare. Va inoltre specificato che nel caso in cui i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona siano a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna e giustificare l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono essi stessi tenuti a presentare al giudice tutelare il ricorso per la richiesta dell’Amministrazione di Sostegno o, in ogni caso, ad attivarsi per informare il Pubblico Ministero. Tuttavia, nessuno di questi soggetti può venire nominato per ricoprire la funzione di Amministratore di Sostegno.
Come viene scelto l’amministratore di sostegno? Veniamo ora ai criteri con i quali il giudice tutelare procede alla nomina dell’Amministratore di Sostegno. Innanzitutto, va sottolineato che la scelta dell’Amministratore di Sostegno avviene con esclusivo riguardo verso la cura e la tutela degli interessi della persona del beneficiario. Ogni persona può quindi designare più di un Amministratore di Sostegno, purché i soggetti indicati siano in subordine: l’indicazione deve quindi procedere in base a un ordine di priorità. La priorità serve a conferire l’incarico al secondo amministratore designato, nel caso di non disponibilità del primo. Si viene quindi così a stabilire anche una prevalenza nelle decisioni: in caso di divergenze rispetto alle decisioni da adottare, sarà prevalente la decisione del primo Amministratore di Sostegno rispetto a quello designato in subordine.
Riassumendo, nei casi in cui ciò sia possibile, il Giudice Tutelare incaricato di effettuare la nomina agisce seguendo il seguente ordine di priorità:
- Il coniuge che non sia separato legalmente
- La persona stabilmente convivente
- Il padre, la madre
- Il figlio
- Il fratello o la sorella
- Il parente entro il quarto grado
- Il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata.
L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato (beneficiario) mediante scrittura privata autenticata o atto pubblico, oppure, in presenza di gravi motivi, il Giudice Tutelare può designare un amministratore di sostegno diverso. In questo ultimo caso può essere designata anche una persona estranea al beneficiario purché possieda le caratteristiche e la professionalità necessarie. Comunque, nella scelta il giudice è tenuto a dare sempre la precedenza ai parenti più stretti a cominciare dal coniuge o dalla persona stabilmente convivente con il beneficiario.
La procedura di pubblicazione della nomina. La nomina può avvenire anche tramite scrittura privata non autenticata, senza l’assistenza di un notaio. A seguito della decisione da parte del Giudice Tutelare e della relativa nomina, viene data pubblicità all’avvenuto affidamento dell’incarico con una comunicazione all’ufficiale di stato civile. Ai sensi dell’art. 405 c.c. il decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno e il decreto di chiusura devono essere comunicati, entro dieci giorni, all’ufficiale di stato civile per le annotazioni in margine all’atto di nascita. In alternativa, si può procedere con l’iscrizione nel Registro delle Amministrazioni di Sostegno tenuto presso l’ufficio del Giudice Tutelare.
Giuramento. Da qui un’ulteriore considerazione, l’amministratore di sostegno dopo la nomina con decreto deve prestare giuramento di fedeltà e diligenza nel compiere gli atti di competenza. Il decreto deve quindi essere trasmesso entro 10 giorni all’ufficio di stato civile del comune di residenza del beneficiario per l’annotazione sui registri di stato civile e a margine dell’atto di nascita.
Il contenuto del decreto. Nel decreto il giudice deve indicare le generalità del beneficiario e dell’amministratore, quest’ultimo può essere indicato dallo stesso beneficiario, ma tale scelta non è vincolante per il giudice che deve però motivare una scelta diversa. Nel caso in cui non sia indicata una scelta, il giudice deve preferire il coniuge o la persona stabilmente convivente oppure, il genitore, fratello o sorella o comunque parenti entro il quarto grado. Deve indicare inoltre la durata, i poteri e gli atti che può compiere l’amministratore, atti che il beneficiario può compiere da solo, limiti alle spese per l’amministratore e il lasso temporale in cui deve riferire al giudice circa l’incarico svolto. Avverso il decreto si può proporre opposizione alla Corte d’Appello
La nomina d’ufficio. Va sicuramente inoltre menzionato il caso in cui le circostanze specifiche del caso impongano l’attribuzione d’ufficio di un Amministratore di Sostegno. Ciò può avvenire soltanto in caso di inerzia dei diversi soggetti privati legittimati, in particolare dello stesso beneficiario. L’Amministratore di Sostegno può quindi essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. In mancanza, o in presenza di gravi motivi, il giudice tutelare può invece designare, con decreto motivato, un Amministratore di sostegno diverso.
Reclamo contro la nomina. E’ possibile presentare reclamo contro la nomina da parte del Giudice Tutelare, da presentare alla Corte d’Appello a norma dell’art. 739 cp e, in caso di esito non soddisfacente, alla Cassazione contro il decreto della Corte d’Appello.
Revoca dell’amministrazione di sostegno. Inoltre, l’incarico dell’Amministrazione di sostegno può essere revocato quando ne vengono meno i presupposti che ne hanno generato la necessità o quando esso si è rivelata non idonea a realizzare la tutela del beneficiario. Si cita in particolare l’articolo 413 del c.c., in base al quale: “Quando il beneficiario, l’amministratore di sostegno, il pubblico ministero o taluno dei soggetti di cui all’articolo 406, ritengono che si siano determinati i presupposti per la cessazione dell’amministrazione di sostegno, o per la sostituzione dell’amministratore, rivolgono istanza motivata al giudice tutelare”. La decadenza della funzione non può, tuttavia, essere automatica, salvo che non si tratti di nomina a tempo determinato, e deve essere disposta dal Giudice Tutelare con apposito decreto e soprattutto a seguito di specifica istanza da parte dell’interessato, del suo amministratore o degli altri soggetti interessati.
IL diritto in pillole 25 aprile 2020
www.studiocataldi.it/articoli/13591-l-amministrazione-di-sostegno.asp
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BIBBIA
Il virus è una punizione di Dio?
«Venuta la sera (Mc 4,35). Da settimane sembra che sul mondo sia scesa la sera a causa del virus che ha causato una pandemia. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite, riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo, siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa».
Le parole della toccante omelia di papa Francesco sono risuonate sullo sfondo di una piazza San Pietro deserta e della basilica retrostante vuota. (27 marzo 2020).
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200327_omelia-epidemia.html
Un gesto profetico per edificare, esortare e confortare un mondo sconvolto dalla diffusione del Covid-19 che sta distruggendo così tante vite umane.
I profeti di sventura che manipolano la Bibbia. Per chi ama davvero la Bibbia può risultare sconcertante che qualcuno stia piegando a proprio uso e consumo alcuni passi biblici che potrebbero far alludere a una crisi come quella del coronavirus. Si tratta di versetti sistematicamente estrapolati dal contesto e applicati a forza alla realtà attuale. I profeti di sventura se ne servono per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito.
Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore. Sia i profeti di sventura sia i moralisti del «te l’avevo detto» sembrano irrefutabilmente convinti che la crisi Covid-19 rientri in un modello biblico di castigo o rimprovero divino.
Il caso del re Davide e della peste. Ci sono alcuni testi biblici particolarmente inquietanti che a questi profeti di sventura sembrano molto indovinati per le circostanze dell’attuale «pandemia» (termine moderno che sembra riecheggiare le antiche pestilenze). Uno dei più espliciti potrebbe essere 2 Samuele 24, un’appendice alla storia del re Davide. Il capitolo si apre con parole minacciose: «L’ira del Signore si accese di nuovo contro Israele» (2 Sam 24,1). Perché? Perché Davide aveva ordinato il censimento, nonostante la resistenza del suo generale supremo, Ioab. L’astuto Ioab sembrava consapevole del fatto che questa azione era in contrasto con il comandamento della Legge. Perché un censimento doveva essere indissolubilmente legato alla raccolta di denaro per il tempio. Leggiamo, infatti, nell’Esodo: «Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento» (Es 30,12).
In realtà, il conteggio del popolo, che era diventato molto numeroso, doveva essere collegato a un gesto di ringraziamento, di riconoscenza verso Dio, che aveva adempiuto le promesse fatte ai patriarchi: «Porrò la mia alleanza tra me e te e ti renderò molto, molto numeroso» (Gen 17,2). Invece Davide aveva ordinato il censimento ignorando la Legge, e così era tornato a dimostrare che tendeva a sostituirsi a Dio, che pretendeva di essere lui la fonte della forza del popolo, come del resto aveva già mostrato aspirando a costruire un tempio che Dio non voleva (cfr 2 Sam 7) e spingendosi fino a uccidere il marito di Betsabea, pur di farla propria (cfr 2 Sam 12). Sebbene Davide, una volta completato il censimento, si fosse pentito, il racconto biblico ci informa che Dio pretese un prezzo terribile. Permise a Davide di scegliere fra tre anni di carestia, tre mesi di fuga inseguito dai suoi nemici o tre giorni di peste. Il re chiese solo di non cadere nelle mani dei nemici. «Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone» (2 Sam 24,15). Soltanto quando l’angelo devastatore stese la mano su Gerusalemme, il Signore disse all’angelo: «Ora basta! Ritira la mano!» (2 Sam 24,16). Il ripensamento di Dio è provocato dal fatto che Davide si era assunto la responsabilità del suo peccato: «Io ho peccato, io ho agito male; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio padre!» (2 Sam 24,17).
Dalla falsa lettura alla corretta interpretazione. Eccoci al punto. Abbiamo la convergenza tra peccato e ira, tra offesa e conseguenze nefaste. Da questo passo, estrapolato dal contesto, i profeti di sventura – ai quali abbiamo fatto cenno sopra – potrebbero davvero desumere che l’attuale crisi – e prima di essa le inondazioni, gli uragani, le eruzioni vulcaniche, gli tsunami, l’Aids e qualsiasi altra calamità naturale e umana – sia segno del peccato e dell’ira, proprio come ciò che viene descritto nella Bibbia. E invece è importante sottolineare che chi traesse questa deduzione starebbe dando una lettura falsata del testo, ignorandone il contesto – sia storico sia narrativo –, le intenzioni dell’autore e il messaggio teologico sottostante. La narrazione del censimento, infatti, rientra in una lunga storia che inizia con l’ingresso nel Paese, nel libro di Giosuè, e si muove ininterrottamente verso la distruzione di Gerusalemme e del tempio. Questa ampia saga, scritta verso la metà del VI secolo a.C., è il frutto letterario di un autore o di una scuola di autori che gli studiosi chiamano «deuteronomista». Lo scottante problema dell’epoca era quello di meditare sulla sciagura della distruzione del tempio, che Salomone aveva costruito, e della città di Gerusalemme, con il conseguente esilio a Babilonia. Insomma, la domanda alla quale risponde quel testo è: com’è possibile che Dio abbia donato a Giosuè la terra e che questa sia stata perduta con l’invasione babilonese?
L’intera tradizione narrativa deuteronomista è stata scritta in un contesto di devastazione: tutto era andato perduto. Il popolo doveva rileggere la propria storia per assumersene la responsabilità e chiedere perdono a Dio. La pagina biblica non intende affermare la pestilenza come punizione divina, bensì la necessità che il popolo – come Davide – si assuma le proprie responsabilità negli eventi che hanno condotto all’esilio.
Certo, secondo la comprensione di Dio nella Scrittura, che è sempre in divenire, vi è qui ancora una mentalità religiosa che tende a riferire tutto a Dio come causa prima e a collegare ogni avversità con un precedente peccato commesso, dal singolo o da altri. Dopo la «correzione» successiva dei testi profetici (ad esempio Ezechiele), per cui ciascuno paga soltanto le conseguenze del proprio peccato, sarà Gesù a contraddire questa logica religiosa di stretta dipendenza tra colpa e castigo (come nel caso degli episodi della torre di Siloe e del cieco nato).
Il flagello nel Nuovo Testamento. La lettura di eventi biblici come quello del disastroso censimento di Davide pone una sfida che non si ferma all’Antico Testamento. Anche il libro dell’Apocalisse utilizza l’immagine della peste. Nel capitolo 16, una serie devastante di pestilenze, che ricordano quelle dell’Egitto, viene scagliata contro un popolo peccatore. Una voce celeste ordina a sette angeli: «Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio» (Ap 16,1). E sul mondo viene lanciata «una piaga cattiva e maligna» (v. 2); nel mare «si formò del sangue come quello di un morto» (v. 3); «i fiumi e le sorgenti delle acque […] diventarono sangue» (v. 4); «gli uomini bruciarono per il terribile calore» (v. 9); «tenebre» (v. 10); «le acque [del grande fiume Eufrate] furono prosciugate» (v. 12); «enormi chicchi di grandine, pesanti come talenti, caddero dal cielo sopra gli uomini» (v. 21).
Questo è un resoconto sommario di alcuni dei cataclismi che vengono enumerati nel capitolo 16 dell’Apocalisse. E di nuovo si potrebbe desumerne la chiara punizione divina inflitta a un mondo senza fede. Quel testo, infatti, riporta tante immagini pronte a essere riprese e usate per flagellare quel mondo al quale i moderni profeti di sventura si sentono così estranei. Ma è proprio questo ciò che il testo intende dire al nostro mondo moderno, che soffre alle prese con l’attuale pandemia?
Se lo si estrapola dal contesto, il testo perde il suo significato principale. Nel libro dell’Apocalisse, come del resto nelle profezie apocalittiche anticotestamentarie, si intrecciano tre elementi: discernimento, chiarezza di visione e risposta. Il libro cerca di discernere i tempi, il passato e il presente, delineando chiaramente le forze schierate in questo mondo e la posta in gioco, che comporta mettersi dalla parte di Dio. In questo discernimento, i contorni del futuro vengono delineati con discrezione. Il libro offre una visione basata sulla profonda fede nel fatto che Cristo ha già vinto la battaglia, e alla fine sconfiggerà il male, anche se lo scontro durerà a lungo.
Infine, il libro richiede una risposta, che non si risolve in una cupa profezia di sventura. Piuttosto, tutto dipende da come i credenti trasformano la propria vita alla luce della consapevolezza che alla fine Cristo sarà vittorioso. Essi devono impegnarsi attivamente nel rendere testimonianza e a cambiare il mondo con risolutezza. È un appello ad agire, a contribuire a costruire il Regno attraverso l’imitazione di Gesù, mite agnello immolato per la salvezza del mondo. Il libro dell’Apocalisse, posto alla fine del canone cristiano, ci spinge a una fede sempre più profonda, a una conversione sempre più profonda, a una sempre più profonda nostalgia del regno di Dio.
Una missione per il tempo di prova oggi. Ai nostri tempi, l’Apocalisse ci ricorda che la Chiesa è chiamata a non assecondare una cultura dominante, intrisa di paura, di accuse, di chiusure e di isolamento. Se il mondo offre una visione del futuro costruita sulla paura, la Chiesa, invece, ispirandosi alla Bibbia e al libro dell’Apocalisse che la conclude, offre una prospettiva diversa, animata e fondata sulla certezza della Buona Notizia della vittoria di Cristo. Quando tutto sembra oscuro, il discepolo di Gesù è chiamato a irradiare la certezza che il tempo delle tenebre è limitato, che Dio sta venendo e che la Chiesa è chiamata con la preghiera e la testimonianza a preparare questa venuta. Ciò significa che la nostra lettura della parola di Dio nella Bibbia deve tradursi in un messaggio di Buona Notizia che richiama alla conversione un mondo in crisi, non in un giudizio moralistico o in una profezia di sventura. La Parola deve essere proclamata «per edificazione, esortazione e conforto»; non ci è stata affidata per maltrattare, prevaricare o opprimere lo spirito.
C’è un tema che attraversa la Bibbia cristiana dall’inizio alla fine: Dio non ha permesso, non permette e non permetterà mai al peccato, all’oscurità e alla morte di prevalere. Nella sua straordinaria benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo scorso, papa Francesco ha saputo comunicare la Buona Notizia, ribaltando la tendenza a vedere la crisi come un giudizio di Dio. Rivolgendosi audacemente al Signore dall’interno del nostro mondo colpito dal Covid-19, ha detto: «Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri» (cfr 1 Cor 14,3).
David Neuhaus La civiltà cattolica Quaderno 4077, pag. 238→243 2 maggio 2020
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CENTRO GIOVANI COPPIE
Registrazioni audio delle Conferenze
Sono disponibili sul nuovo canale Youtube del Centro Giovani Coppie San Fedele le registrazioni audio di tutte le conferenze tenute presso il Centro stesso dal 2007 a oggi. L’indirizzo per connettersi è
www.youtube.com/channel/UCYmTqw5sH7Qr2kxo-7F89kw/playlists
Una volta connessi, troverete diverse playlist, all’interno delle quali potrete rintracciare le conferenze di vostro interesse secondo vari criteri di ricerca: per nome del relatore (in ordine alfabetico), per anno sociale, per area di argomento (psicologico, sociologico, pedagogico, filosofico/antropologico, spirituale, “conferenze-spettacolo”).
https://mailchi.mp/fb586df5aceb/centro-giovani-coppie-san-fedele-nuovo-canale-youtube?e=dc6e7d7dc1
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 17, 29 aprile 2020
v La dignità calpestata e ritrovata. Lettera da una RSA. Pur già ampiamente circolata sul web, questa lettera di un ospite dalla RSA (l’ultima prima della morte) deve assolutamente essere diffusa e letta. A ciascuno innescherà emozioni differenti e contrastanti, ma nessuno potrà restare indifferente: rabbia, dolore, rispetto, senso di impotenza, voglia di cambiare tutto…. Quello che a me ha colpito soprattutto, però, è la grande misura e il grande senso di equilibrio di una persona che ha subito un attacco alla propria dignità proprio nel momento di maggiore dipendenza dagli altri, dopo una vita vissuta in pienezza. E proprio questa lettera dimostra – e conferma – che, per quanto calpestata, la dignità della persona può ancora risplendere, nella memoria dei propri cari, nell’esplicita richiesta di non “ri-vendicare” alcunché, nonostante la denuncia, e infine nella consapevolezza dei doni ricevuti nella vita (e molti di questi doni sono volti, persone concrete). Anche in situazioni estreme, ingiuste, che sembrano senza via di uscita, anche se gli altri ti calpestano, tu rimani unico e irripetibile! Anche mio padre ci ha lasciati a 85 anni, in un’altra “reclusione”, quella della malattia di Alzheimer. Anche in lui, fino all’ultimo secondo, anche quando non ricordava più se stesso e la realtà, ho visto la gloria della vita. Come in questa lettera, triste ma non disperata, che invito tutti a leggere o ri-leggere. (F. Belletti)
www.famigliacristiana.it/articolo/coronavirus-la-lettera-di-un-nonno-in-una-rsa-prima-di-morire-in-questa-prigione-dorata-non-e-mi-mancato-nulla-se-non-le-vostre-carezze.aspx
v Emergenza coronavirus
- Rsa nella “tempesta perfetta” del covid. Un dramma europeo. Dichiarazione alla stampa di Hans Henri P. Kluge (Direttore regionale OMS Europa), Copenhagen, 23 aprile 2020. “Secondo le stime dei Paesi dell’Unione Europea, fino a metà dei morti di COVID-19 erano ospiti di servizi residenziali di lungodegenza (in Italia sinteticamente RSA). Questa è una tragedia umana impensabile”
www.euro.who.int/en/about-us/regional-director/statements/statement-invest-in-the-overlooked-and-unsung-build-sustainable-people-centred-long-term-care-in-the-wake-of-covid-19
- Rsa in Italia. Troppe scelte sbagliate su un sistema fragile. Questa documentata e vibrante ricostruzione di Riccardo Bonacina, su Vita.it (al 15 aprile 2020) evidenzia i molteplici errori avvenuti a livello nazionale e regionale nella gestione della pandemia rispetto alle Residenze Sanitarie per Anziani (e nel complesso, su quasi tutta la residenzialità di lungodegenza, anche per disabili). Anche se bisogna ricordare la drammaticità e l’urgenza di risposte immediate dei giorni peggiori. “La ricostruzione di 50 giorni che hanno visto la morte, prevista, di tanti anziani. Il nulla delle autorità preposte e della Protezione civile incapace di dare le dovute protezioni. Così le Rsa sono diventate un capro espiatorio perfetto anche per una cattiva coscienza sociale”
www.vita.it/it/article/2020/04/15/rsa-un-capro-espiatorio-perfetto-ma-le-responsabilita-sono-altrove/155028
- Rsa. Una criticità anche prima del coronavirus. Da alcuni giorni è balzato in primo piano nelle cronache di tutti i media quanto è successo (e sta succedendo) nelle cosiddette “case di riposo”, cioè le Residenze Sanitarie Assistenziali per anziani e persone in genere non autosufficienti. La mortalità tra le persone ivi ricoverate ha raggiunto quote elevatissime, tanto che si è parlato di “strage”, e moltissime famiglie sono state colpite dalla scomparsa, spesso in modo improvviso e brutale, senza alcuna comunicazione, dei loro cari. Per evitare di esprimere giudizi affrettati, legati solo all’emotività o peggio a pregiudizi ideologici, sul sito Lavoce.info è apparso un articolo di Marco Arlotti e Costanzo Ranci chiaro, preciso e documentato sulla situazione delle nostre RSA prima dell’emergenza coronavirus, in modo da situare quanto accaduto nel suo giusto contesto
www.lavoce.info/archives/65340/residenze-per-anziani-unemergenza-nellemergenza
- Progetto Gemma/happy life. Sostieni l’accoglienza della vita con un aperitivo on line di solidarietà. 3 maggio 2020 – rigorosamente online! Sostieni subito Progetto Gemma e dona 10€! “Ricostruiamo il nostro domani partendo dal futuro delle madri. In questo periodo di quarantena e distanziamento sociale, il volontariato non si è fermato: abbiamo continuato ad aiutare ed assistere centinaia di donne e ragazze con gravidanze difficili: abbiamo ascoltato a distanza le loro storie, problemi e preoccupazioni per il loro futuro e quello dei loro figli. Il nostro esserci ha fatto la differenza, ma questo non basta! Vogliamo e dobbiamo partire dal futuro di queste mamme e dei loro bambini per ricostruire il domani. Per riuscirci hanno bisogno di voi, di un gesto, della vostra vicinanza. Partecipate a Happy Life, un aperitivo solidale. Si possono fare grandi gesti anche con semplicità, come ascoltare un concerto privato bevendo un drink, e insieme facendo una donazione al “Progetto Gemma”.
v UE. Coface Europe. Otto azioni chiave per aiutare la ripresa di famiglie e imprese. Un breve documento indirizzato alle istituzioni europee, per far sentire la voce delle famiglie, da parte di una rete “laica” di associazioni familiari formalmente riconosciute dall’Unione Europea (COFACE)
www.coface-eu.org/wp-content/uploads/2020/04/COVID19positionpaper_FINAL.pdf
v Orientaserie, uno strumento online per scegliere le serie tv da vedere in famiglia. E’ online Orientaserie, il sito per conoscere e valutare le serie tv [www.orientaserie.it]. Nato da un’idea di Aiart (Associazione cittadini mediali) e realizzato in collaborazione con il Master MISP, International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica di Milano e con il CORECOM Lombardia (Comitato Regionale per le Comunicazioni), il sito rappresenta una risorsa molto utile per tutti, in particolare per quei genitori ed educatori che vogliano documentarsi su un mondo nel quale gli adolescenti trascorrono ormai una buona parte del loro tempo libero. Orientaserie ospita recensioni di critici ed esperti e promuove contenuti adatti alla visione in famiglia, offrendo tutte le informazioni necessarie per valutare i prodotti più popolari e poter così esprimere un primo giudizio fondato e credibile scegliendo in modo critico e consapevole cosa vedere. Le recensioni offrono un giudizio riassuntivo e un’analisi articolata, che prende in considerazione le varie stagioni di ogni serie.
www.orientaserie.it
v Il servizio civile in Italia. Una risorsa da potenziare ed innovare. L’emergenza pandemia ha costretto ad una riflessione innovativa anche sul servizio civile. Luigi Bobba interviene sul tema rilanciando una prima esigenza di ampliamento del numero di giovani in servizio civile, e soprattutto una visione di lungo periodo, per un servizio potenzialmente universale, e comunque sempre più aperto alla dimensione internazionale. “Nella riforma del servizio civile del 2017, c’è un tassello che potrebbe diventare una pietra angolare nella costruzione tra i giovani di una cittadinanza europea. Quale? Rendiamo obbligatoria (o fortemente premiante) la previsione in tutti i progetti di un periodo (2/3 mesi) di servizio civile in un altro paese della UE. Insomma un Erasmus del servizio civile. Come per gli studi universitari, decine di migliaia di giovani potranno così fare esperienza di Europa camminando sui sentieri della solidarietà. Un investimento sull’Europa di domani che vale più di mille vertici e di tanti trattati. Perché non cominciare? Se non ora, quando?”.
www.vita.it/it/article/2020/04/22/bobba-possiamo-permetterci-il-lusso-di-lasciare-a-casa-80000-giovani-c/155137/
v Finalmente ci incontreremo ancora di persona! Tutti abbiamo voglia almeno di ricominciare a progettare il futuro. Segnaliamo qui (e nelle prossime Newsletter), insieme alle iniziative via web, alcuni eventi di compresenza (quei begli incontri di una volta…), progettati oggi per l’autunno. Perché il “post-pandemia” va pensato da subito, e soprattutto va vissuto insieme.
v Iccfr – Berlin. Helping Families through Separation and Divorce: Collaboration, not Confrontation, in Social Plurality (Il sostegno alle famiglie per attraversare separazione e divorzio: collaborazione, non scontro, in una società plurale). 66.a Conferenza Internazionale ICCFR. L’International Commission on Couple and Family Relations (ICCFR), network internazionale cui il Cisf collabora stabilmente, ha programmato la sua 66.a Conferenza internazionale a BERLINO dal 29-30 ottobre 2020. Obiettivo della Conferenza sarà la comparazione tra i diversi contesti nazionali, alla ricerca di modelli di accompagnamento che consentano di affrontare positivamente il conflitto, verso soluzioni più “concertate”, a tutela del benessere dei coniugi e dei figli eventualmente presenti. La Conferenza si terrà in inglese. https://iccfr.org/berlin-2020
v Short Master su Affettività e Sessualità. L’associazione nazionale “La Bottega dell’Orefice” e l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro organizzano uno short master su “La socializzazione all’affettività ed alla sessualità”. Il corso, costituito da lezioni teoriche ed attività laboratoriali, avrà cadenza quindicinale e si svolgerà nei fine-settimana; consentirà di acquisire 7 CFU. La scadenza per l’iscrizione è rinviata al 30 maggio 2020, a causa dell’emergenza sanitaria. Sempre per l’emergenza sanitaria, l’inizio dello short master è posticipato all’autunno e avverrà a partire dalla seconda metà di ottobre 2020.
www.uniba.it/didattica/master-universitari/short-master/short-master-a.a.-2019-2020/la-socializzazione-allaffettivita-e-alla-sessualita
v Settimana e festival della comunicazione 2020. Il programma rimane, ci vediamo sul web! Il messaggio di Papa Francesco per la 54ª Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali ha messo a tema “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria (Es 10,2). La vita si fa storia”
www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/papa-francesco_20200124_messaggio-comunicazioni-sociali.html
A questo tema le Paoline e i Paolini daranno voce nella Settimana e nel Festival della Comunicazione, che si svolgeranno a partire dal 4 maggio fino al 24 maggio 2020. “La novità di questa edizione, che arriva nel mezzo dell’emergenza sanitaria, è soprattutto nella modalità organizzativa degli eventi: tutti rigorosamente online e in streaming. Il Festival, che è l’evento trainante della Settimana della Comunicazione, quest’anno è organizzato dalla diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, in collaborazione con le Paoline e i Paolini, con il contributo del Servizio Promozione sostegno economico alla Chiesa della Cei. In programma, nel Festival della Comunicazione online [vai al sito], incontri, dibattiti, conferenze con personaggi autorevoli e spunti tematici. Il vescovo di Molfetta, mons. Domenico Cornacchia, si è soffermato sull’importanza di guardare “non al passato con atteggiamento nostalgico ma al futuro con dinamismo profetico”, invitando tutti a “coltivare i nostri sogni, la bellezza, l’autenticità, la bontà. Dobbiamo lasciare alle future generazioni, una storia umana da narrare”. Il 4 maggio prenderà il via anche la 15ª edizione della Settimana della Comunicazione. https://settimanadellacomunicazione.it/festival-della-comununicazione-2020
v La casa editrice Effatà compie 25 anni. Merita gli auguri! Bella, la storia di un’impresa editoriale che nasce da un progetto di coppia e di famiglia. Auguri, complimenti e lunga vita alle vostre opere, Paolo e Gabriella! “24 aprile 1995, mattina: il corriere ci consegna le scatole con la nostra prima pubblicazione. L’emozione è grande, si sta realizzando il sogno che io (Gabriella) e Paolo abbiamo coltivato da tempo: lavorare insieme nell’ambito editoriale. Paolo ed io ci eravamo sposati nel 1988, avevamo tre bambini (Gregorio di 5 anni, Bernardo di 3 e Cecilia di 1). I libri erano per noi molto più di un oggetto: entrambi laureati in filosofia, leggere era sempre stato fondamentale per formarci, per informarci, per riflettere, per rilassarci […]”
https://editrice.effata.it/oggi-effata-editrice-compie-25-anni
v Dalle case editrici
Ciccone Stefano, Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore, Rosenberg &Sellier, Torino, 2019
Una delle rappresentazioni più diffuse, divenuta ormai un luogo comune, raffigura i maschi di oggi come depressi, intimoriti dalla perdita di ruolo, di riferimenti per la propria identità, aggrediti da un femminismo che avrebbe “esagerato”, messi in crisi dalla libertà e dall’autonomia delle donne, castrati dal confronto con una sessualità femminile disinvolta e aggressiva. Minacciati da un cambiamento fonte di sofferenza e disagio, sarebbero portatori di reazioni rancorose e desideri di rivincita su cui in modo sempre più esplicito fanno leva le retoriche emergenti xenofobe e reazionarie. È possibile invece una lettura della collocazione degli uomini nel cambiamento diversa dalla semplice categoria di crisi, che sappia interpretare senso e potenzialità di questa crisi? Il libro vuole proporre un’altra strada, in grado di interpretare la mutata esperienza maschile. Oltre il disagio, la frustrazione e il disorientamento, l’autore vuole contribuire a riconoscere le opportunità che si aprono per le vite concrete degli uomini e le loro prospettive esistenziali, oltre la retorica sul rischio di smarrimento della virilità maschile.
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CHIESA CATTOLICA
Celebrare Messe aperte ai fedeli in questo tempo di coronavirus.
Cari amici, in questi giorni molti mi hanno scritto per chiedere il mio parere come fratello nella Fede e come medico sull’opportunità o meno di celebrare Messe aperte ai fedeli in questo tempo di coronavirus. Mi permetto quindi di proporvi alcune mie considerazioni.
La priorità della salute fisica delle persone. Condivido l’opinione del prof. don Giovanni Ferretti, filosofo, teologo, già Preside dell’Università di Macerata e ora Rettore della chiesa di San Lorenzo a Torino, nella sua lettera scritta dopo la presa di posizione della CEI: “Quanto al contenuto, mi chiedo: veramente abbiamo come Chiesa italiana un comitato tecnico-scientifico che ci dia valutazioni migliori di quello governativo? E’ nostra competenza una tale valutazione? D’altro lato, siamo veramente in grado oggi di assicurare nelle Messe con il popolo, che non vi sarà pericolo di contagio per i fedeli? Sapremo sanificare bene le chiese come richiesto alle fabbriche e ai negozi, con controlli delle ASL e relative sanzioni? Metteremo alle porte delle chiese il controllo della temperatura della gente, un puntuale conteggio del numero contingentato degli ingressi, lasciando fuori gli altri? Sapremo obbligare la gente a tenere in chiesa le distanze richieste, a portare le mascherine, con un servizio d’ordine che faccia uscire chi non si adegua? E il prete celebrerà con la mascherina e lascerà cadere l’ostia dall’alto sulle mani dei fedeli? Che Messe con il popolo sarebbero mai queste? Una libertà senza responsabilità, lo abbiamo sempre predicato, non è vera libertà. Tanto più quando in gioco c’è la vita delle persone”. A parte il fatto che alcuni Parroci mi scrivono preoccupati dei costi che comporterebbe una vera sanificazione in Chiesa dopo ogni Liturgia: non basta certo passare uno straccetto sui banchi.
Una soluzione sarebbe la celebrazione di Messe all’aperto. Era il sistema che praticavano i nostri avi. Io fin da bambino vado in vacanza a Ceres, nelle Valli di Lanzo (TO). Al Pian di Ceres, salendo verso il Santuario di Santa Cristina, c’è la “Cappella della Peste”, in cui sono conservati pregevoli affreschi, opera di Giovanni Oldrado Perini (Perino) della Novalesa: tale Cappella fu costruita in epoca di pestilenza, nel 1575, per assistere alla Messa senza rischio di contagio. Infatti la Cappella si trova in un bosco, lontana dalle baite, è aperta sul davanti ed è capace di contenere soltanto il sacerdote celebrante. I montanari assistevano alla Messa sparsi nei prati, fra gli alberi, per evitare qualsiasi contatto con altre persone. Pare che analoga struttura e funzione avesse anche, sempre a Ceres, la Cappella della Frazione Fè. Ma quanto una tale soluzione sarebbe praticabile oggi?
Sono ben conscio che l’Eucarestia è “fonte e culmine della vita cristiana” (Lumen gentium, n. 11), e capisco le relative preoccupazioni pastorali, ma resta fermo per me il principio che bisogna salvaguardare la salute fisica dei fedeli, perché è sempre “meglio un asino vivo che un dottore morto”. Guai a pensare che… tanto Dio provvede, come alcuni dicono: mi sembra contraddica il Comandamento del Signore: “Non tenterai il Signore Dio tuo” (Lc 4,12). Se riusciamo a garantire una certa sicurezza contro il coronavirus nelle nostre Liturgie, riprendiamole. Ma credo che talora obbedire agli scienziati sia obbedire a Dio. Come dice il Siracide:
“Onora il medico come si deve secondo il bisogno, anch’egli è stato creato dal Signore. … Poi ricorri pure al medico – il Signore ha creato anche lui – non stia lontano da te, poiché c’è bisogno di lui. Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani. Anch’essi infatti pregano il Signore perché conceda loro di dare sollievo e guarigione per salvare la vita” (Sir 38, 1.12-14).
La Presenza reale di Gesù nella Bibbia. Questi tempi di digiuno eucaristico forzato forse sono pedagogia di Dio per aiutarci a riscoprire la presenza di Gesù in altre forme. La Bibbia non è solo un libro che ci parla di Gesù, che ci racconta la sua vita e il suo messaggio. La Bibbia è Presenza reale di Gesù. Il Concilio Vaticano II ha affermato che “la Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai… di nutrirsi del pane della vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli” (Dei Verbum, n. 21). Dice Girolamo: “Noi mangiamo la carne e il sangue di Cristo nell’Eucarestia, ma anche nella lettura delle Scritture… Io ritengo l’Evangelo corpo di Cristo”; e Ignazio di Antiochia: “Noi dobbiamo accostarci alla Scrittura come alla carne di Cristo“; e Massimo: “Il Verbo per mezzo di ogni parola scritta nella Bibbia diventa carne”; e Cesario d’Arles: “Chi ascolta in modo non attento sarà colpevole quanto colui che avrà lasciato cadere negligentemente per terra il Corpo del Signore”. Per questo i Padri parlano di “spezzare la Parola” così come si spezza il Pane eucaristico. Sia dunque questo un momento di particolare incontro con Gesù, presente nella Scrittura come nell’Eucarestia, attraverso l’ascolto orante della Sua Parola.
Scrive il monaco camaldolese Matteo Ferrari: «Perché insistere così tanto unicamente sulla Messa trasmessa per televisione? Può certo essere una cosa buona per persone sole o anziane; può essere utile per ascoltare le letture e l’omelia. Ma è una esperienza di comunità vera? Educa di più alla Celebrazione eucaristica vedere un presbitero celebrare da solo, oppure celebrare la Parola, in attesa di poter vivere pienamente l’Eucaristia? Non ci sono anche altri modi per ascoltare la Parola di Dio e per pregare, per vivere la comunione? Non potrebbe essere questo tempo forzato un’occasione per riscoprire che, secondo il dettato del Vaticano II, la Bibbia deve diventare il nutrimento di tutti ed essere in mano a tutti? Le famiglie potrebbero trovarsi insieme quotidianamente, prendere le letture del giorno, leggerle, stare un po’ in silenzio e concludere con un momento di intercessione e di preghiera. Si potrebbe dare alla Liturgia delle Ore il suo ruolo di celebrazione del mistero di Cristo nel ritmo del tempo della giornata, per santificarlo. Cioè per rendere visibile la presenza (“il peso”) di Dio nella vita quotidiana… L’uomo “non vive solo di pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). La quarantena del Covid-19 ricorda invece al credente di riscoprire che “preghiera” non è solo Messa, ma che proprio perché la celebrazione eucaristica sia feconda, occorre un ascolto personale delle Scritture e una preghiera non solo comunitaria. Può essere anche il tempo della riscoperta della preghiera in famiglia».
La Presenza reale di Gesù nei poveri. Dio ha una grande passione: essere amato nei fratelli. Il prossimo deve essere amato perché qualunque cosa fatta o non fatta a lui è fatta o non fatta a Dio. Questa misteriosa identificazione è proposta con forza come metro nei rapporti sociali: “Chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi ha pietà del misero lo onora” (Pr 14,31); “chi deride il povero offende il suo Creatore” (Pr 17,5).
Nel Nuovo Testamento viene ribadito che il Signore si identifica con l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…; ogni volta che non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46); “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4,20-21). A Saulo che va a perseguitare i cristiani di Damasco, Gesù dice: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4), identificandosi personalmente con gli oppressi.
Dice Clemente Alessandrino (150-215): “Se qualcuno ti appare povero o cencioso o brutto o malato…, non ritrarti indietro…; dentro a questo corpo abitano in segreto il Padre e il Figlio suo che per noi è morto e con noi è risorto”. Quando il grande filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) fu in punto di morte – ci racconta la sorella Gilberte nella “Vita di Pascal“-, non potendo comunicarsi, chiese che gli fosse portato innanzi un povero, per venerare in lui Cristo stesso. I poveri sono sacramento di Dio, sono Dio presente nel mondo.
E in questi tempi Gesù bussa alle porte delle nostre case nelle vesti del disoccupato che non ha più da mangiare, dell’anziano o del malato solo, dei poveri dei paesi di Missione dove il coronavirus non è solo pandemia, ma è vera fame e disperazione…
Riscoprire il Sacerdozio comune dei fedeli. Spesso ci viene raccomandato di “fare Chiesa” tramite le Liturgie televisive o in streaming. Quale occasione abbiamo perso di evangelizzazione! Spesso abbiamo assistito a Liturgie fredde, ingessate, talora proclamate con canti vetusti e incomprensibili, talora in latino o in greco, che certamente non hanno toccato non solo il cuore dei poveri e degli scartati, ma neanche quello dell’italiano medio, la cosiddetta “casalinga di Voghera”. Ho invece sentito esperienze di famiglie che celebrano in casa della paraliturgie, dove la Mamma presiede e recita le parti fisse della Messa, il Papà tiene l’omelia, magari avvalendosi anche… dei miei commenti settimanali, e i figli preparano i canti, con i testi e le basi musicali. Ha scritto su Repubblica Enrico Peyretti, nota figura del cattolicesimo torinese: “Una soluzione c’è, nell’emergenza. Sì, sì, Governo e Cei hanno le loro posizioni. Ma la messa non è una riunione orale. E’ un pasto, con pane, e anche vino, come Gesù ha detto di fare, per donarci, come ha fatto lui, gli uni agli altri, e al prossimo. E’ possibile questo pasto, in chiesa, distanziati? Con quali controlli? Chi ammettere e chi lasciar fuori? Mangiando il pane e bevendo il vino, in che modo? Adottando le regole che si prevedono per i ristoranti? Andiamo! Questo, sì, sarebbe poco degno. Una soluzione c’è. L’emergenza è grande. Prima dell’invenzione del clero, “tutti i credenti nelle case spezzavano il pane” ecc. Si riconosca ad una comunità familiare la possibilità, volendo, di compiere il “fate questo in memoria di me“, come Gesù ha chiesto che facciamo, nella viva memoria di lui. Che sia sacramento o no, non è decisivo: è certamente memoria reale di Gesù presente risorto con il suo Spirito, che ci ha promesso. Non sarebbe rifiuto dei ministeri riconosciuti. Sarebbe una prassi di emergenza, ma tutt’altro che priva di significato buono e santo. Evita la quantità di problemi di sicurezza, molto imbarazzanti, che sarebbero da affrontare con la messa in chiesa. Si avrà il coraggio di andare alla sostanza della fede e della presenza, più che alle forme rituali e alle dottrine? Temo che il sabato vinca ancora sulle persone. Ma bisogna dirlo”.
Paolo spesso parla di ” “kat’oìkon ekklesìa” “Chiesa domestica” (Rm 16,5). La comunità di Efeso “si riunisce nella casa” (1 Cor 16,19) di due coniugi, Aquila e Priscilla, grandi evangelizzatori e collaboratori di Paolo: trasferitisi a Roma, anche lì la Chiesa si radunerà a casa loro (Rm 16,5-7); la Chiesa asiatica della valle di Lico, forse di Colossi, si riunisce a casa di Filemone (Fm 2), quella di Laodicea a casa di Ninfa (Col 4,15), la famiglia di Stefana è il riferimento della comunità di Corinto (1 Cor 16,15-16).
Quando vado in Brasile, in villaggi dove il Prete può passare ogni tre o quattro mesi, assisto spesso a paraliturgie presiedute spesso anche da donne, con tanto di paramenti, che proclamano tutti i testi della Messa: certo, alla Comunione distribuiscono le Ostie consacrate dal Prete nel suo ultimo passaggio, magari tanti mesi prima. Ma il clima è festoso, conviviale, e certamente lì Gesù è presente. Non per niente Papa Francesco ha chiesto, nella “Querida Amazzonia”, che il loro ruolo di animatrici di Comunità venga riconosciuto ufficialmente dai Vescovi: “In una Chiesa sinodale le donne, che di fatto svolgono un ruolo centrale nelle comunità amazzoniche, dovrebbero poter accedere a funzioni e anche a servizi ecclesiali che non richiedano l’Ordine sacro e permettano di esprimere meglio il posto loro proprio. È bene ricordare che tali servizi comportano una stabilità, un riconoscimento pubblico e il mandato da parte del Vescovo. Questo fa anche sì che le donne abbiano un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle comunità, ma senza smettere di farlo con lo stile proprio della loro impronta femminile” (n. 103).
Spesso ci si dimentica che la grande novità di Gesù fu quella di abolire la “casta sacerdotale” dei leviti e la funzione del Tempio. La Chiesa tutta è popolo di sacerdoti. Così Pietro definisce la Chiesa: “Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1 Pt 2,9). L’espressione “sacerdozio regale” deriva dalla traduzione greca di Es 19,6, che parla di un “regno di sacerdoti”: la versione aramaica, il Targum, interpreta così: “Voi sarete per me re e sacerdoti”.
Richiamandosi alla lettera agli Ebrei (Eb 2,17; 3,1; 4,14-15; 5,1-10; 6,20; 7,15-28; 8,1; 9,11-12; 10,21), scrive don Andrea Fontana, già Direttore dell’Ufficio Catechistico di Torino e ora del Servizio Diocesano per il Catecumenato: “Gesù è l’unico sacerdote vero della Chiesa davanti a Dio: nelle varie religioni i sacerdoti sono sempre stati visti come una classe particolare di persone, diversi e separati dagli altri; coloro a cui è affidata una competenza nelle cose sacre, gli unici addetti al culto, i soli abilitati ad offrire sacrifici a Dio. Tutto questo propriamente parlando non ha più alcun senso nella religione cristiana. Sacerdote vero davanti a Dio è solo Gesù Cristo. Non ce ne sono altri: né accanto a lui, né sotto di lui. O, se vogliamo, in lui e con lui tutti i battezzati realizzano un nuovo tipo di sacerdozio, in quanto siamo consacrati a servizio di Dio nella testimonianza di tutta la vita, per offrire a lui il sacrificio di noi stessi, quale autentico culto in spirito e verità. E’ vero che noi oggi, quando parliamo di sacerdoti, intendiamo coloro che hanno ricevuto l’ordinazione e tutti sanno che solo i preti possono <<dire Messa>>: è vero, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle parole. In tutto il Nuovo Testamento coloro che noi oggi chiamiamo sacerdoti non vengono chiamati così. Addetti al culto sono tutti i cristiani. Apparteniamo tutti alla tribù di Levi”.
Abbiamo spesso dimenticato questa novità della Chiesa rispetto all’Israele antico: ormai tutti siamo sacerdoti. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha parlato di “sacerdozio comune dei fedeli” (Lumen gentium, nn. 10-11): “Ogni cristiano riceve con il battesimo un’assimilazione a Cristo sacerdote, che lo rende capace di questa funzione” (S. T. Stancati). Si noti che nel Nuovo Testamento mai i pastori della Chiesa vengono chiamati “sacerdoti”. Chi esercita “ministerialmente” il sacerdozio lo fa per conto e nell’ambito di un sacerdozio comune; come dice il Concilio: “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale… sono… ordinati l’uno all’altro. Infatti l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo” (Lumen gentium, n. 10).
“Lo stesso termine greco <laikós> è raro e tardivo, assente sia dai LXX che dal Nuovo Testamento: è connesso con <laós>, <popolo>… Non solo il termine <laico> ma l’idea stessa di <laico> inteso come <non chierico> è in realtà assente dall’intera Scrittura” (L. Mazzinghi).
Afferma Dianich: “Parlare quindi di laici, di laicato e di laicità in riferimento al sacerdozio, se si prende sul serio la dottrina neotestamentaria e quel <mutamento di legge> che regola la valutazione delle cose avvenute con Gesù, non significa in realtà far ricadere l’esistenza laicale in una significanza ridotta rispetto a quella primaria, propria del culto e di un sacerdozio che solo ha potere sulle cose sacre, bensì, al contrario, porre l’esistenza laicale con il suo intrinseco carattere sacerdotale, come la base fondamentale della missione stessa della Chiesa”.
Prendere coscienza di questo, non è forse un passo importante verso quella “declericalizzazione” della Chiesa tante volte auspicata da Papa Francesco? Con tutto ciò, si badi bene, non si vuole certo né misconoscere né sminuire l’Ordine sacro, ma al contrario valorizzarlo all’interno di un laicato consapevole, attivo, responsabile, conscio di aver ricevuto nel Battesimo il dono di essere tutti “Sacerdoti, Profeti, Re” (Catechismo Chiesa Cattolica, nn. 784-786). www.gliscritti.it/dchiesa/ccc/ccc.html#h5111
Che questo tempo di pandemia sia per tutti un’occasione di avvicinamento al Signore e di riscoperta dei doni con cui sempre, in ogni circostanza, arricchisce la sua Chiesa.
Carlo Miglietta, medico e biblista 20 aprile 2020
www.buonabibbiaatutti.it/mangiamo-la-carne-sangue-cristo-nelleucarestia-anche-nella-lettura-delle-scritture-ritengo-levangelo-corpo-cristo-girolamo
E Wojtyla fondò il papato globale
Colloquio con Daniele Menozzi, Cettina Militello e Andrea Riccardi.
Cent’anni fa, il 18 maggio 1920, nasceva in Polonia Karol_Józef_Wojtyła, destinato a guidare la Chiesa cattolica per quasi 27 anni con il nome di Giovanni Paolo II. Sull’eredità del suo pontificato abbiamo interpellato tre studiosi: lo storico Daniele Menozzi, autore del saggio Giovanni Paolo II. Una transizione incompiuta? (Morcelliana, 2006); la teologa Cettina Militello, autrice del libro Il sogno del Vaticano II (Edb, 2010) e curatrice con Serena Noceti del volume Le donne e la riforma della Chiesa (Edb, 2017); lo storico Andrea Riccardi, già collaboratore del Papa polacco, autore tra l’altro della biografia Giovanni Paolo II Santo (San Paolo, 2014).
Al momento della scomparsa, il 2 aprile 2005, Papa Wojtyla è stato molto esaltato, fino alla famosa invocazione «santo subito»; ma oggi la sua figura sembra passata in secondo piano. Si tratta di un ridimensionamento fisiologico o ci sono ragioni più specifiche?
Daniele Menozzi — Contano entrambi i fattori. Visto in prospettiva storica, Giovanni Paolo II viene inevitabilmente appiattito sul passato e perde il rilievo che gli si attribuiva durante il suo pontificato. Ma senza dubbio influisce anche la svolta introdotta da Papa Francesco nel governo della Chiesa. Wojtyla, come prima di lui Paolo VI e dopo di lui Benedetto XVI, cercava di gestire le nuove acquisizioni del Concilio Vaticano II in una chiave di continuità con la tradizione precedente. Con Jorge Mario Bergoglio l’ottica si è rovesciata: a essere privilegiati sono gli elementi d’innovazione contenuti nell’eredità del Vaticano II. E quindi diminuisce l’attenzione verso l’opera di Giovanni Paolo II, che si era mosso con grande energia e con successo in un’altra direzione.
Cettina Militello — Ogni Papa è sempre in discontinuità, più o meno accentuata, con i suoi predecessori, se non altro per ragioni culturali. Inoltre il pontificato di Giovanni Paolo II è stato molto lungo e il tempo logora le eventuali istanze innovative. Così, quando viene eletto un nuovo vescovo di Roma, quelli precedenti finiscono in ombra. Con Papa Francesco l’approccio verso l’eredità del Vaticano II è mutato, come osserva Menozzi, ma non sono molto ottimista circa una svolta decisiva. Resto perplessa perché vedo esplodere una resistenza violenta alle indicazioni conciliari che Papa Francesco cerca di riprendere. Quanto al grido «santo subito», lo trovo insensato: non perché Giovanni Paolo II non meritasse la canonizzazione, ma perché occorre sempre lasciare che il tempo passi per valutare tutte le sfaccettature di un pontificato.
Andrea Riccardi — Con il passare del tempo tutto rimpicciolisce, tanto più che viviamo in un’epoca emotiva e smemorata. D’altronde la prima archiviazione dell’opera di Giovanni Paolo II è avvenuta con Papa Joseph Ratzinger, il suo fedele collaboratore che ne promosse la canonizzazione. Proprio Benedetto XVI ha ridimensionato la carica messianica impressa al pontificato dal suo predecessore, con un primo cambio di passo. Colpisce poi che nel celebrare i trent’anni dalla svolta del 1989 non sia stato sottolineato a sufficienza il ruolo svolto da Giovanni Paolo II nel caso polacco, che fu un detonatore (anche se non l’unico) per la dissoluzione del blocco sovietico. In fondo la svolta del 1989 rovesciò l’idea rivoluzionaria nata nel 1789 e basata su un ricorso alla violenza che poi ha segnato i grandi sommovimenti successivi per due secoli. Il richiamo alternativo di Papa Wojtyla ai valori spirituali e alla resistenza morale ha avuto un grande peso nella transizione pacifica dell’Est europeo. Su questo si trovò in piena sintonia con il presidente ceco Vaclav Havel, nonostante le loro matrici culturali fossero assai diverse.
Quanto ha influito l’origine polacca sulle scelte di Giovanni Paolo II?
Daniele Menozzi — Papa Wojtyla ha in un certo senso universalizzato aspetti legati alla sua specifica esperienza nazionale. In primo luogo la Chiesa polacca, stretta tra il protestantesimo tedesco e l’ortodossia russa, per distinguersi ha coltivato una forte dimensione identitaria, che ritroviamo nel modo in cui Giovanni Paolo II caratterizza la sua azione. Poi c’è nel cattolicesimo polacco un’accentuazione dell’elemento nazionale che Giovanni Paolo II recepisce, cercando di valorizzare le identità dei diversi popoli nell’ambito dell’universalismo cristiano. Il magistero di Wojtyla non condanna il nazionalismo in sé, ma le sue versioni esasperate, riproponendo un nesso tra patriottismo e fede cattolica che ha pesato molto (non sempre in modo felice) nella vicenda novecentesca della Chiesa. Un terzo punto è che il cattolicesimo polacco ha sempre rivendicato la dimensione orientale, spesso trascurata, della cristianità romana. Il richiamo di Giovanni Paolo II ai «due polmoni», occidentale e orientale, del cattolicesimo, con l’omaggio frequente a Cirillo e Metodio, evangelizzatori dell’Est e patroni d’Europa insieme ad altri santi, costituisce un aspetto centrale e positivo del suo pontificato.
Cettina Militello — Le parole identità e nazionalismo mi fanno venire la pelle d’oca, dopo le tragedie del XX secolo. Però non ho vissuto le esperienze di Giovanni Paolo II e della Chiesa polacca, quindi mi guardo bene dall’esprimere giudizi frettolosi. Tuttavia la Polonia, se è stata spesso oppressa, ha attraversato anche fasi di egemonia in cui ha dominato altri popoli. Invece l’apertura all’Oriente e l’immagine della Chiesa che respira con «due polmoni» esprimono l’attenzione di Papa Wojtyla alle alterità e alle diversità, che è un suo grande merito. Purtroppo è la concezione di un cattolicesimo identitario e nazionalista quella che prevale nella Polonia di oggi, che non mi pare certo un esempio da seguire.
Andrea Riccardi — Nel 1979, quando Giovanni Paolo II andò a Puebla, in Messico, per la Conferenza dell’episcopato latino-americano, l’arcivescovo brasiliano Hélder Câmara, noto per il suo impegno a favore dei poveri, gli disse: «Santo padre, ricordi che la Chiesa non è una grande Polonia». Era già chiara l’impronta personale e nazionale del pontificato. Pensate che invece Pio XII, rivolgendosi agli italiani, diceva «la vostra patria», perché la funzione pontificale era vista come spersonalizzante. Wojtyla rivendica le radici slave. L’io, con la sua storia, entra nel pontificato: il Papa usa il singolare «io», non il pluralis maiestatis «noi». Il suo radicamento nella storia polacca va però contestualizzato, non può essere assimilato al nazionalismo attuale.
Per quali ragioni?
Andrea Riccardi — Giovanni Paolo II nasce nel 1920, quando la sua patria ha recuperato l’indipendenza da soli due anni, e viene da Cracovia, città ex asburgica, diversa da una certa Polonia profonda. Assai significativa, in una Chiesa tradizionalmente antisemita, è la sua amicizia verso i «fratelli maggiori»: da arcivescovo nel 1968 visita la sinagoga di Cracovia mentre gli ebrei sono nel mirino del regime comunista. Wojtyla si richiama a un’idea di nazione che risale alla dinastia degli Jagelloni, a un regno polacco-lituano pluralista sotto il profilo religioso. E ha sempre pensato la Polonia dentro l’Europa. Crede nel valore della patria, ma è anche un pontefice globale, che mette in guardia contro il nazionalismo ed esorta all’accoglienza dei migranti. Forse è soprattutto nella Polonia attuale, nonostante la venerazione generale, che Giovanni Paolo II è stato accantonato.
Cettina Militello — Il paradosso è che tutto quello che Wojtyla ha fatto per la sua Polonia gli si è rivoltato contro. Lui stesso, nella parte finale del pontificato, esortò i compatrioti al recupero di valori che si andavano perdendo. Però vorrei porre anche un’altra questione. Se la Santa Sede non avesse riconosciuto subito la secessione della Croazia nel 1991, che cosa sarebbe successo in Jugoslavia? Sarebbe stato possibile evitare la guerra? Il tentativo di estendere il modello messianico polacco fu un errore che credo si possa imputare a Giovanni Paolo II. Secondo me, un Papa deve sempre oltrepassare la sua cultura nazionale e assumere una dimensione universale.
Daniele Menozzi — È difficile avventurarsi nella storia controfattuale, ipotizzando un diverso comportamento di Wojtyla verso la Jugoslavia. Però concordo nel dire che la proposta di distinguere tra sano patriottismo e nazionalismo degenere, tutt’altro che nuova, era decisamente inadeguata. Lo dimostrano gli eventi successivi e anche la realtà attuale dell’Est europeo.
Andrea Riccardi — Attenzione però a non fare processi alla storia. Non fu solo Wojtyla, ma tutta la diplomazia vaticana a volere il riconoscimento della Croazia, all’unisono con tedeschi e italiani. E più tardi Giovanni Paolo II corresse quella posizione unilaterale con il suo viaggio a Sarajevo. Credo che inoltre si debbano riconoscere i suoi sforzi di stabilire contatti con le realtà più diverse. Con la Cina l’incontro è mancato, con l’ortodossia russa ha dato risultati parziali. Ma in generale Wojtyla intuisce che le religioni hanno un ruolo importante da svolgere nel nostro tempo. È attento all’islam, al cristianesimo africano, ai fermenti dell’America Latina. Nel 1986 promuove l’incontro di Assisi con i rappresentanti delle grandi religioni, pochi mesi dopo avere visitato la sinagoga di Roma. Instaura un rapporto importante con il rabbino Elio Toaff, che è l’unica persona citata nel testamento di Wojtyla a parte il suo segretario Stanislaw Dziwisz.
Daniele Menozzi — Farei una distinzione. Da una parte Giovanni Paolo II è convinto che si possa imbrigliare il nazionalismo in una visione cattolica: si tratta di un’illusione che deriva dal suo retroterra culturale e gli impedisce di capire quali drammi abbiano prodotto i tentativi di comporre le ideologie identitarie con il cristianesimo. Al tempo stesso però Wojtyla lancia un messaggio di estrema importanza a livello planetario. Afferma che la religione non può giustificare la violenza, proclama che è una bestemmia legittimare la guerra in nome di Dio. È una linea perseguita con assoluta coerenza, che esclude definitivamente l’idea della guerra santa dall’orizzonte del magistero. Si tratta di uno dei punti più alti del pontificato di Giovanni Paolo II.
Andrea Riccardi — È un aspetto che fu apprezzato anche da padre Ernesto Balducci, mai tenero verso Wojtyla. Giovanni Paolo II da giovane aveva vissuto l’orrore della Seconda guerra mondiale, che nel 1939 cominciò proprio in Polonia. E vive con angoscia il ritorno dei conflitti bellici, quindi si oppone agli interventi armati americani contro l’Iraq, nel 1991 e poi nel 2003, e avvia contatti con esponenti di altre religioni per contrastare insieme a loro l’ideologia della guerra santa. Qui emerge una differenza con Ratzinger, che mostra perplessità verso l’incontro ecumenico di Assisi e non ha lo stesso afflato profetico sul tema della pace, pur essendo ostile alla guerra.
Cettina Militello — Anch’io ho apprezzato molto lo spirito di Assisi, che ha lasciato un segno costruttivo nei rapporti tra le religioni, così come la familiarità di Wojtyla con l’ebraismo. Mi rammarico però che quel suo colloquio con le altre religioni non sia stato impostato su un piano di parità, ma attribuendo alla Chiesa cattolica una sorta di leadership. Invece, secondo me, per aprire nuove frontiere di dialogo, bisogna avere l’umiltà di mettersi sullo stesso piano degli altri. Mi rendo conto che può apparire un’utopia ma, perché il ritorno delle fedi sulla scena mondiale giovi realmente al genere umano, bisogna riconoscere la verità di cui ciascuna religione è portatrice.
A Papa Wojtyla è stato rimproverato il conservatorismo dottrinale, per esempio nei riguardi della teologia della liberazione. Ma è anche il pontefice della richiesta di perdono per le colpe della Chiesa, il «mea culpa». Non sono aspetti contraddittori?
Daniele Menozzi — Per capire come possano conciliarsi, bisogna partire dallo slogan iniziale e programmatico del pontificato: «Non abbiate paura. Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo». Questo vuol dire che Gesù può entrare in tutte le dimensioni della vita umana, per animarla e fortificarla. Giovanni Paolo II ritiene che il messaggio cattolico sia dotato di una forza tale da potersi permettere anche di ripensare criticamente il passato della Chiesa e di chiedere perdono per i suoi peccati. Alcuni temono che ciò indebolisca l’istituzione ecclesiastica, Wojtyla no: non ha paura. Tale atteggiamento comporta però che la Chiesa si presenti nella forma di un’autorità centrale ben solida. Infatti, sotto Wojtyla, la Curia romana si rafforza, mentre le conferenze episcopali sono relegate in secondo piano. Ad esempio viene emanato un catechismo universale per fare da modello a quelli nazionali. Insomma, la Chiesa può mettersi in gioco, accettando anche di ridiscutere la funzione del papato in sede di dialogo ecumenico, proprio grazie alla centralità indiscussa del vescovo di Roma. Le concessioni di Giovanni Paolo II sono quindi parte di un disegno egemonico, nel quale rientrano anche le avviate canonizzazioni di altri Papi. La beatificazione di Pio IX e Giovanni XXIII contribuisce a riaffermare il ruolo fondamentale della cattedra di San Pietro.
Cettina Militello — Così però si è svalutato lo spirito del Concilio Vaticano II, che puntava a valorizzare gli episcopati e le Chiese locali e a promuovere la soggettualità del popolo di Dio. La centralizzazione al contrario riduce all’insignificanza le conferenze episcopali e promuove un’elefantiasi della Curia che mette fuori gioco le voci critiche, come la teologia della liberazione. Lo stesso mea culpa giunge nel 2000, quando il pontificato di Wojtyla è all’acme della sua enfatizzazione messianica. Trovo poi devianti le beatificazioni e canonizzazioni a non finire, in particolare quelle dei Papi. La Chiesa è santa in sé, non ha bisogno di affollare il calendario. Il giudizio su quelle scelte lo darà la storia, ma di certo sono andate fuori senso nella ricezione del Vaticano II. È una vicenda che vivo con estrema sofferenza: di fatto l’attuazione del Concilio si è bloccata ed è necessario ritrovare le sue linee direttrici rimaste inattuate. Troppo tempo è andato perduto.
Andrea Riccardi — Vorrei soffermarmi sulla teologia della liberazione. Wojtyla l’ha contrastata, in America Latina, perché la riteneva influenzata dal marxismo: un’ideologia a suo avviso oppressiva e irrecuperabile in una visione cristiana. La lotta alla teologia della liberazione ha due facce: quella più intransigente del cardinale Alfonso López Trujillo e quella più ragionata di Ratzinger; ma senza dubbio crea una lacerazione profonda. Già nel pontificato di Giovanni Paolo II c’è una ricucitura. La scelta, compiuta da Wojtyla, di nominare arcivescovo di Buenos Aires il cardinale Jorge Mario Bergoglio, non acquisito alla teologia della liberazione ed estraneo a quella contesa, è frutto di una nuova fase. Proprio in questa fase — è un paradosso — si evidenzia il successo dei neo-protestanti e neo-pentecostali in America Latina. Una volta un tassista, con grande acume, mentre passavo davanti a una delle loro chiese in Salvador, mi disse: «Vede? La Chiesa cattolica ha scelto i poveri, ma i poveri hanno scelto le sette».
E il «mea culpa»?
Andrea Riccardi — Secondo me va inserito in un progetto riformatore che Giovanni Paolo II persegue nella fase finale del pontificato, ma si blocca a causa della sua malattia. Quanto al respiro globale delle aperture di Wojtyla e alla questione della parità nel dialogo, alla fine è anche la storia che determina le dimensioni di un’istituzione e le situazioni d’incontro. D’altronde i processi di interconnessione a livello mondiale producono inevitabilmente una globalizzazione del papato. Lo stesso Papa Francesco, anche se parla di valorizzare le conferenze episcopali, mantiene una statura globale, come dimostra l’eco dei suoi gesti durante la pandemia. Vale anche per altre religioni: pensiamo al ruolo che ha assunto Ahmad Al Tayyeb, rettore dell’Università egiziana Al-Azhar, come rappresentante del mondo islamico nel dialogo con Bergoglio.
Cettina Militello — Il respiro globale del papato è un dato di fatto, ma va equilibrato con l’attenzione verso le realtà locali che costituiscono la Chiesa. Sul coronavirus Francesco è intervenuto, parlando a tutto il mondo, come vescovo di Roma. A mio avviso la globalizzazione della figura pontificale non è una soluzione auspicabile.
Andrea Riccardi — Non dico che sia una soluzione, è un processo in corso con cui occorre misurarsi.
Come giudicate l’atteggiamento di Wojtyla sulla questione femminile?
Cettina Militello — Quando nel 1988 uscì la lettera apostolica sulla donna Mulieris dignitatem, scrissi che Giovanni Paolo II era un po’ l’ultimo menestrello, un cantore dell’«amor cortese» medievale. In quel testo Wojtyla sviluppa quanto anticipato l’anno prima nell’enciclica Redemptoris Mater. Disegna una donna angelicata e altero-centrica che nella realtà non esiste. E così avalla un’ideologia che ritengo funesta. Se non prendiamo sul serio il passo di San Paolo (Galati, 3, 28) secondo il quale in Cristo «non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna», finiamo per parlare a vuoto. Mitizzare le virtù delle donne, indicando quale loro modello la madre di Dio, porta a concludere che sono tanto sante da non doversi occupare della gestione della Chiesa e della rappresentanza di Cristo, materie prosaiche da riservare ai meno santi maschi. È una logica alla quale mi ribello, perché non accetto la tesi di una differenza ontica tra maschi e femmine. Riproporre un’immagine idealizzata delle donne serve solo a fare regredire la questione, giustificando il pretestuoso rifiuto di una loro presenza paritaria nella Chiesa. Capisco le resistenze culturali, ma mi sarei aspettata più coraggio, come quello mostrato da altre confessioni cristiane.
In questo c’entra anche l’insistenza di Wojtyla sull’etica sessuale tradizionale?
Cettina Militello — Mi sembra un tema secondario. Ormai in quella sfera intima non ci sono disposizioni che tengano. Tutti, uomini e donne, si regolano secondo coscienza e rifiutano di vedersi imporre «pesi insostenibili», senza per questo sentire di doversi allontanare dalla Chiesa.
Daniele Menozzi — Concordo con quanto è stato appena detto, ma con alcuni aggiustamenti. Anche se conserva una visione tradizionale dell’universo femminile, Giovanni Paolo II si sforza di richiamare l’attenzione generale sulle condizioni disumane in cui le donne si vengono spesso a trovare sul lavoro o all’interno della famiglia. Denuncia il fatto che la loro dignità viene calpestata, cerca di promuovere un riconoscimento del loro ruolo sociale. Tuttavia sul versante opposto bisogna ricordare che Wojtyla ha conferito un carattere di definitività all’esclusione delle donne dal sacerdozio. Cioè ha pensato che quel divieto potesse essere trasmesso al futuro senza tenere conto delle trasformazioni che possono essere indotte dal divenire storico. Siamo di fronte a un blocco: Giovanni Paolo II ha assolutizzato una norma dettata da contingenze storiche e le ha attribuito una forte qualificazione teologica. Un terzo punto degno di nota riguarda la condanna che la Chiesa ha espresso verso l’ideologia di genere, sotto il pontificato di Wojtyla, senza considerare l’ampia articolazione che caratterizza una realtà variegata come il movimento delle donne. Ogni rivendicazione femminista è stata attribuita a un’inaccettabile ideologia di genere, e questo ha indotto a respingere in modo indistinto tutte le esigenze connesse al mutamento dei rapporti tra i sessi.
Andrea Riccardi — Le Chiese evangeliche, anglicane e luterane hanno compiuto scelte molto diverse rispetto a quella cattolica in fatto di ammissione delle donne al ministero, ma non è che la loro situazione sia confortante come adesioni dei fedeli: attraversano una crisi profonda. Giovanni Paolo II era nato nel 1920, in una società patriarcale come quella polacca dell’epoca, forse non aveva gli strumenti per misurarsi fino in fondo con la grande rivoluzione costituita dalla fine del dominio del maschio. Ma bisogna anche aggiungere che questo fenomeno riguarda soprattutto l’Occidente, perché la storia delle donne e della famiglia in ambito asiatico o africano rimane diversa.
Dunque è anacronistico rimproverare a Wojtyla di non essersi aperto abbastanza a istanze che erano forse impensabili negli anni della sua formazione?
Andrea Riccardi — Direi di sì, anche se tengo a sottolineare che il ceto dirigente della Chiesa di Giovanni Paolo II si era forgiato nel Vaticano II, aveva vissuto esperienze e dibattiti teologici molto intensi. Della Curia, che sicuramente venne ampliata come ricordava Menozzi, facevano parte personalità autorevoli come Agostino Casaroli, Roger Etchegaray, Johannes Willebrands. Pensiamo alle nomine di Carlo Maria Martini a Milano e di Jean-Marie Lustiger a Parigi. Wojtyla aveva collaboratori di un livello che oggi non si riscontra. Non solo diminuiscono le vocazioni, ma s’infiacchisce lo status culturale della gerarchia ecclesiastica, forse come quello dei ceti dirigenti politici. Una situazione che riversa ancora di più la responsabilità e l’iniziativa sulla figura globale del pontefice. Impegnato strenuamente nell’opposizione al comunismo, Giovanni Paolo II ha però messo sotto accusa anche il modello capitalista e le sue sperequazioni.
C’è chi vede in queste sue posizioni venature antimoderne, ma si potrebbero anche considerare profetiche. Che ne dite?
Daniele Menozzi — Fin dalle sue origini nel 1891, con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII, la dottrina sociale della Chiesa vuole rappresentare una terza via, in antitesi al socialismo marxista, visto come il pericolo maggiore, ma anche al capitalismo. Entrambi vengono giudicati dal magistero inadeguati a risolvere i problemi determinati dallo sviluppo della società moderna attraverso la rivoluzione industriale. Nei documenti che hanno poi aggiornato la dottrina sociale l’accento è stato posto di solito su quello che veniva ritenuto il male più grave, il comunismo ateo e materialista.
Prima del crollo dell’impero sovietico, Giovanni Paolo II segnala soprattutto i rischi di impoverimento e di soffocamento della libera iniziativa all’interno del modello collettivista. Ma dopo il 1989 la sua critica investe con più determinazione il liberismo capitalista. Ferma restando l’importanza del mercato come strumento di regolazione degli scambi, Wojtyla denuncia la mancanza di regole e di etica nel campo dell’economia, rilanciando come alternativa la dottrina sociale cattolica. Il rischio però è che questa terza via si ponga sullo stesso piano delle altre due: che diventi un’ideologia, come temeva il teologo francese Marie-Dominique Chenu, invece di fare in primo luogo riferimento al Vangelo come criterio di orientamento per il cristiano di fronte ai problemi sociali.
Cettina Militello — Senza dubbio nel magistero papale del Novecento l’opposizione al comunismo ha prevalso su quella al capitalismo. Oggi la sfida di ritornare al Vangelo, richiamata da Menozzi, è davanti a noi. Giovanni Paolo II ci ha provato, ma forse non con la necessaria decisione, anche se le sue condanne della guerra sono state molto importanti. Non è facile, avendo nei fatti accettato in precedenza le strutture economiche e istituzionali del capitalismo, riuscire a liberarsene. Serve una conversione profonda, per la quale ancora non usiamo strumenti culturali adeguati. Ricordarci la data di nascita di Wojtyla ci aiuta a capire fin dove poteva arrivare e a riconoscerne lo spirito profetico. Ma ci porta anche a rammaricarci per i limiti che il suo magistero ha avuto, soprattutto nella parte di mezzo del pontificato.
Andrea Riccardi — Giovanni Paolo II esprime pienamente l’esperienza del cattolicesimo e quindi anche la complexio oppositorum, la combinazione degli opposti, che la caratterizza da sempre. Nonostante il suo forte anticomunismo, mai smentito, l’essere vissuto nella Polonia agricola e poi socialista non lo aveva reso sensibile agli argomenti del liberalismo occidentale.
Quando parla del futuro dell’Est e della Russia dopo la caduta del blocco sovietico, Wojtyla non auspica che quei Paesi abbraccino il capitalismo. Viene semmai travolto dagli sviluppi della storia e dalla rapida adesione dell’Europa orientale al modello occidentale. Il suo messaggio sociale insiste sempre sulla necessità di mettere sotto controllo il mercato. Significativa, a questo proposito, è la sua posizione critica verso il capitalismo per quanto attiene ai rapporti tra il Nord e il Sud del mondo. Wojtyla si ricollega all’enciclica Populorum progressio, emanata nel 1967 da Paolo VI, ma va anche oltre, tessendo relazioni proficue con i Paesi poveri, in particolare africani.
Dunque la caduta del comunismo segna una cesura per il pontificato di Wojtyla?
Andrea Riccardi — Al momento della sua elezione il mondo è bipolare, con l’antagonismo tra l’impero americano e quello sovietico, ma dopo il 1989 rimane in piedi una sola superpotenza. Non è mai facile la posizione della Chiesa a confronto con un solo impero. Così Giovanni Paolo II si trova alle prese con l’egemonia assoluta degli Stati Uniti, un Paese che il Papa polacco per molti aspetti apprezza, ma del quale critica la politica quando sfocia nel ricorso alla guerra, a partire dal 1991. Si arriva così alla saldatura della posizione di Wojtyla con il movimento pacifista europeo, un altro elemento che evidenzia l’estrema complessità del suo pontificato.
Antonio Carioti “la Lettura” 26 aprile 2020
https://francescomacri.wordpress.com/2020/04/28/wojtyla-fondo-il-papato-globale/
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CINQUE PER MILLE
L’analisi del 5 per mille 2018: meno firme, ma più pesanti
Il ministro Nunzia Catalfo ha annunciato l’avvio dei pagamenti per gli Enti nell’elenco delle Onlus e volontariato, che da soli raccolgono il 67% del 5‰ 2018. Sforato per il secondo anno consecutivo il tetto dei 500 milioni. In tredici anni, i contribuenti hanno destinato 5,495 miliardi di euro. Qui un’analisi dei dati dell’edizione 2018
Tredici anni di 5‰ hanno trasferito 5,495 miliardi di euro dalle casse dello Stato a quelle degli enti che svolgono attività socialmente rilevanti, secondo le scelte dirette dei contribuenti. Lo sguardo d’insieme sul 5‰ deve essere innanzitutto questo: uno strumento sempre più essenziale, ormai saldamente entrato nelle abitudini degli italiani, tanto che anche l’edizioni 2018 (su anno fiscale 2017) ha sforato – come la precedente – il tetto dei 500 milioni di euro fissati a copertura. Non si tratta di cifre paragonabili a quelle “scippate” nelle edizioni 2010-2013, quando il non profit venne privato complessivamente di 310 milioni di euro, ma il meccanismo è lo stesso: dato il tetto, benché le risorse destinate dai contribuenti siano maggiori, l’Agenzia delle Entrate ricalcola tutti i contributi riparametrandoli sul tetto. Prova ne sia il fatto che anche quest’anno la somma del contributo ripartito fra gli Enti ammessi (495.475.691,04 euro) e quello “congelato” per i non ammessi (4.524.308,96 euro), fa esattamente 500 milioni di euro, al centesimo. La sforatura del tetto sarebbe – ha detto il Sole 24 Ore ieri – di 13 milioni di euro per l’edizione 2018, che vanno ad aggiungersi ai circa 8 dell’edizione precedente. La legge di Stabilità 2020 ha già innalzato il fondo a 510 milioni per l’anno 2020, 520 milioni per l’anno 2021 e 525 milioni a partire dall’anno 2022.
L’analisi del 5‰ 2018. I dati relativi sono stati pubblicati dall’Agenzia delle Entrate lo scorso 6 aprile 2020 e il pagamento dovrebbe avvenire in tempi più rapidi del solito. Ecco come di consueto un’analisi dei principali trend e delle novità, grazie alle elaborazioni di NP Solutions.
Meno firme, ma più pesanti. Le preferenze calano un po’ rispetto al 2017: quasi 40mila firme in meno benché il numero delle dichiarazioni sia leggermente aumentato (41.211.336 contribuenti contro i 40.872.080 dell’anno prima). Se tutti questi contribuenti avessero destinato il 5‰, esso ammonterebbe a 787 milioni di euro. Altri 2.250 milioni di firme sono andate in verità ai vari settori, senza esprimere una preferenza per un ente. Cresce però l’importo medio della firma: nel 2006, al debutto del 5‰, una firma valeva mediamente 22,63 euro, nel 2017 valeva 29,51 euro e nel 2018 è salita a 30,63 euro. Anno per anno, il contribuente che abbia sempre messo la firma nella casella del 5‰, ha destinato complessivamente 350 euro. Per i più curiosi, le firme più ricche in assoluto sono quelle ricevute dalla ASD Cremona Sportiva Atletica Arvedi, che con sole 4 firme si è portata a casa quasi 25mila euro, per una media di 6.174,845 a firma. Se complessivamente le firme perse nei vari elenchi sono state quasi 40mila rispetto all’anno precedente, va segnalato che l’elenco delle onlus e volontariato perde da solo 97mila firme, pur restando di gran lunga quello che raccoglie il maggior numero di preferenze fra gli italiani. L’inoptato, nell’edizione 2018, vale 59.688.148 euro, in costante calo.
Dove vanno le preferenze? L’elenco delle Onlus e del volontariato raccoglie il 67% del contributo destinato, in linea con l’anno precedente (perde lo 0,44%). La ricerca sanitaria porta a casa il 13,86% (+0,38% rispetto all’anno prima) e la ricerca scientifica il 12,97% (+0,14%). I Comuni hanno il 3%, le Associazioni Sportive Dilettantistiche il 2,8%, i beni culturali lo 0,33% e la new entry, le aree protette, lo 0,05%. L’edizione 2018 del 5‰ vede una significativa perdita di firme da parte di molte ong: con le dichiarazioni dei redditi fatte nella primavera 2018 le ong cioè hanno pagato l’attacco martellante a loro rivolto a partire dalla primavera 2017, con la retorica dei “taxi del mare” e dei porti chiusi.
Gli enti iscritti. Nell’edizione 2018 erano 64.937 gli enti iscritti: una crescita del +120% rispetto ai 29.532 enti che si contavano nel 2006, alla prima edizione. Fra tutti questi enti, quelli “fedeli” 5‰, che si sono iscritti per tutte le tredici edizioni, sono però relativamente pochi: appena 8.894. Ben 18.920 si compaiono in una sola edizione. Nello storico dei 13 anni, ci sono 7.260 che hanno avuto 0 o 1 preferenza e incuriosisce il dato di 8 ostinati enti che si sono candidati a tutte le 13 edizioni del 5‰, raccogliendo per 13 volte il miserrimo bottino di 0 o 1 firma.
Sara De Carli Vita.it 03 maggio 2020
www.vita.it/it/article/2020/05/03/lanalisi-del-5-per-mille-2018-meno-firme-ma-piu-pesanti/155318
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Quando si può andare a Messa
Le parole della Conferenza episcopale italiana sulle messe, in aperto contrasto con quelle del Pontefice, mostrano come in Vaticano sia ancora influente lo zoccolo duro wojtyliano e ratzingeriano, pronto a esprimere, appena possibile, una visione lontana da quella di Bergoglio. Il malcontento verso il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri unisce i due opposti e va, al di là della rima, dalla Cei ad Arcigay. Se a essere inaccettabile per la storica associazione Lgbt e larga parte del movimento arcobaleno italiano è la questione dei congiunti (rientrata nel primo pomeriggio del 27 aprile), per i vescovi italiani il vero vulnus del piano di Palazzo Chigi è nell’aver escluso «arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo».
Un comunicato durissimo quello giunto, domenica, dalla sede della Conferenza Episcopale Italiana a stretto giro di posta dalla conferenza stampa del presidente del Consiglio, che aveva unicamente dato il via libera ai funerali – che, fra l’altro, non sono celebrazioni esclusivamente cattoliche o religiose – con la partecipazione dei parenti più stretti fino a un massimo di 15 persone.
La Segreteria generale della Cei aveva avviato «un’interlocuzione continua e disponibile» con il ministero dell’Interno e la presidenza del Consiglio accettandone «con sofferenza e senso di responsabilità, le limitazioni governative assunte per far fronte all’emergenza sanitaria», ma ora sostiene che la libertà di culto sia compromessa dal nuovo decreto. Ricordando poi come nel corso di una tale interlocuzione si fosse «sottolineato in maniera esplicita che – nel momento in cui vengano ridotte le limitazioni assunte per far fronte alla pandemia – la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale», la Cei ha richiamato Conte e il Comitato tecnico-scientifico al dovere di «distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia».
Richiamo non caduto nel vuoto dal momento che, poco dopo, Palazzo Chigi ha diramato una nota in cui si rassicurava la Cei dello studio, già nei prossimi giorni, di «un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza». Parole che, in ogni caso, non hanno placato gli animi se, all’indomani, alcune Conferenze episcopali regionali, come quella siciliana e toscana, hanno comunicato «piena adesione alla nota della Cei».
Se sulla stesura della prima ha inciso il vescovo di Acireale, il colto Antonino Raspanti, che è tra i tre vicepresidenti della Cei, la seconda risente tutta della linea di pensiero del cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze. Il beniamino di Camillo Ruini ha voluto anzi commentare in video il comunicato della Conferenza episcopale toscana, in cui con si dice che «le ragioni economiche, culturali e sociali, in base alle quali vengono o verranno presto riaperti fabbriche, negozi e musei, parchi, ville e giardini pubblici, non possono avere una prevalenza rispetto all’esercizio della libertà religiosa, che è tra i principi fondamentali della Costituzione (come sanciscono gli artt. 2, 7 e 19) e definita dal Concordato tra Stato e Chiesa (si vedano gli artt. 1 e 2 dell’Accordo di revisione del Concordato tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984)».
Lo stesso Ruini, che già il 3 novembre 2019 aveva fatto risentire la sua voce di ultranovantenne invitando la Chiesa a «dialogare con Matteo Salvini», in un’intervista a Il Giornale ha criticato il governo che si è arrogato «competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana» e ha plaudito alla decisione della Cei di «protestare con forza. Ora il governo ha il dovere di rivedere le sue posizioni». Toni duri anche dall’arcivescovo di Genova ed ex presidente della Cei, Angelo Bagnasco, che ha scelto, invece, La Stampa per sparare a zero contro il governo autore di un «atto grave contro la Chiesa». E, se lunedì l’arcivescovo televisivo Giovanni D’Ercole, che è stato capoufficio della Sezione italiana della Segreteria di Stato sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è arrivato ad affermare che «è una dittatura quella di impedire il culto perché è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione», ieri un altro ruiniano, il vescovo di Livorno, Simone Giusti, ha dichiarato che Conte «ha preso in giro la Chiesa e adesso se ne deve assumere la responsabilità».
Parole, insomma, che pesano come macigni ma mostrano anche come, all’interno dell’episcopato italiano, sia ancora influente lo zoccolo duro wojtyliano e ratzingeriano, pronto a esprimere, appena possibile, la propria visione altra rispetto a quella di Bergoglio. Parole, quelle, soprattutto, di Ruini, Bagnasco e Giusti, la cui controtendenza alle posizioni di Francesco è di chiara evidenza in quanto pronunciate ieri. Nello stesso giorno, cioè, in cui il Papa, all’inizio della celebrazione mattutina a Santa Marta, ha sconfessato il duro comunicato della Cei: «In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia a tutti noi la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni».
Il senso del monito di Francesco – che, come noto, non nasconde la sua fiducia a Giuseppe Conte tanto da averlo ricevuto, il 30 marzo 2020, in piena fase emergenziale – è stato subito compreso dalla Cei. Il sottosegretario della Cei, don Ivan Maffeis, ha infatti dichiarato: «Il richiamo del Papa è un servizio alla Chiesa e al Paese, siamo nel tunnel e la prudenza e l’obbedienza sono la condizione per uscirne. Sarebbe sbagliato interpretare il 4 maggio come un libera tutti. Siamo davanti ad un percorso che per forza di cose andrà avanti per piccoli passi». Il tutto, intanto, si va ricomponendo con le notizie, trapelate da Palazzo Chigi, di un via libera alle messe all’aperto a partire dall’11 maggio. Suona perciò quale ennesima mascherata e goffa mossa antibergogliana l’invito di Salvini a una manifestazione di piazza per protestare contro il divieto di celebrare messa e reclamare la tutela della libertà di culto.
Il segretario della Lega – tutto rosario, Radio Maria e Medugorje da due anni a questa parte – vorrebbe capitanare una rivolta dei cattolici. Dimenticando forse che il non expedit ai cattolici può intimarlo solo il Papa. E che a un presidente del Consiglio può credere di farlo sempre il Papa, come si vede nella sesta puntata della serie televisiva The Young Pope di Paolo Sorrentino, certamente non una parte nostalgica della Conferenza episcopale.
Francesco Lepore Linkiesta 29 aprile 2020
www.linkiesta.it/202D0/04/quando-si-puo-andare-a-messa-papa-vescovi-bergoglio
Cardinale Bassetti: avanti, senza abbassare la guardia
Riprendere la celebrazione delle Messe con il popolo secondo linee condivise con il Governo italiano in un Protocollo di massima. Arriva in serata il commento del Presidente della Conferenza episcopale italiana su questo nuovo passaggio relativo alla fase due, di uscita graduale dall’emergenza legata alla pandemia.
“Esprimo la soddisfazione mia, dei vescovi e, più in generale, della comunità ecclesiale per essere arrivati a condividere le linee di un accordo, che consentirà – nelle prossime settimane, sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica – di riprendere la celebrazione delle Messe con il popolo”.
Così il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, commenta – in un comunicato della Cei – la definizione di un Protocollo di massima, relativo alla graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche. “Il mio ringraziamento va al Presidente del Consiglio dei Ministri – aggiunge – con cui in queste settimane c’è stata un’interlocuzione continua e proficua. Questo clima ha portato un paio di giorni fa a definire le modalità delle celebrazioni delle Esequie, grazie soprattutto alla disponibilità e alla collaborazione del Ministro dell’Interno e del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione”.
Nel contempo, “un pensiero di sincera gratitudine mi sento in dovere di esprimerlo al Ministro della Salute e all’intero Comitato tecnico-scientifico – prosegue il cardinale Bassetti -: questa tempesta, inedita e drammatica, ha posto sulle loro spalle un carico enorme in termini di responsabilità”. “Come Chiesa – riconosce – abbiamo condiviso, certo con sofferenza, le limitazioni imposte a tutela della salute di tutti, senza alcuna volontà di cercare strappi o scorciatoie, né di appoggiare la fuga in avanti di alcuno; ci siamo mossi in un’ottica di responsabilità, a tutela soprattutto dei più esposti. Alla vigilia di quella che ci auguriamo possa essere una rinascita per l’intero Paese, ribadisco l’importanza che non si abbassi la guardia ma, come abbiamo ripetuto in questi mesi, si accolgano le misure sanitarie nell’orizzonte del rispetto della salute di tutti, come pure le indicazioni dei tempi necessari per tutelarla al meglio”. “Al Paese – conclude il cardinale Bassetti – voglio assicurare la vicinanza della Chiesa: ne sono segno e testimonianza le innumerevoli opere di carità a cui le nostre Diocesi e Parrocchie hanno saputo dar vita anche in questo difficile periodo; ne è segno pure la preghiera che, anche in forme nuove, si è intensificata a intercessione per tutti: le famiglie, quanti sono preoccupati per il lavoro, gli ammalati e quanti li assistono, i defunti”.
Vatican news 2 maggio 2020
www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-05/cardinale-bassetti-avanti-senza-abbassare-guardia-cei.html
In memoria
La decisione dei vescovi, in Italia e in Francia, di intervenire su Conte e su Macron per una deroga a favore della Chiesa cattolica alle norme sul confinamento, ai fini di radunare il popolo per l’Eucaristia, ha suscitato un dissenso profondo non solo da parte di “cristiani critici” pronti e forse adusi a dar sulla voce alle gerarchie, ma anche da parte di teologi autorevoli, intellettuali, vescovi.
Così la messa che è la grande istituzione per l’unità – la “comunione” – dei fedeli, è diventata causa di divisione. Si è perfino sostenuto che emergessero due Chiese, una nella tradizione dei sacramenti e del culto, l’altra del Vangelo. In ogni caso la Chiesa di tutti, la Chiesa dei poveri ama tutte e due, anche perché esse non sono così nettamente distinte tra loro e c’è molto traffico di frontalieri attraverso i loro confini.
Neanche noi abbiamo condiviso la rivendicazione dei vescovi e motivi validissimi ne sono stati recati e messi in circolazione da molti. Ciò che soprattutto ci ha turbato è stata la ragione, un po’ ultimativa, addotta dai funzionari di un ufficio della CEI, secondo la quale con meno messe ci sarebbe stato meno servizio ai poveri, alla comunità; come a dire niente sacramento niente lavanda dei piedi, l’una cosa essendo alimento dell’altra, e ciò come se la messa, e solo lei, fosse un distributore di benzina o una centralina per il rifornimento di elettricità, senza cui la macchina non va. È verissimo che per servire i poveri, lavarsi i piedi l’un l’altro, essere cristiani ci vuole una ingente energia, ma, a non essere pelagiani, si sa che questa energia viene dallo Spirito del Signore, e ci mancherebbe altro che lo Spirito Santo si facesse interdire dalla scarsità di messe in tempi di pandemia o in regioni amazzoniche, sarebbe come tagliare la luce al palazzo occupato, che l’Elemosiniere del papa, il divino elettricista, è andato a riattaccare.
Per uscire dalla controversia, se essa non vuole essere tenuta in vita e strumentalizzata ad altri scopi, basterebbe rifarsi alle parole di Gesù quando ha dato il suo pane, ed ha detto: “fate questo in memoria di me”. Dunque il pane, che poi i teologi hanno spiegato come transustanziazione, è il mezzo, il fine è ricordarsi di lui. E qui il mezzo non è il messaggio, il fine è superiore al mezzo. Per questo abbiamo sempre pensato che sarebbe bello che i cristiani si ricordassero di lui ogni volta che spezzano e mangiano il pane, cioè sempre, tanto più se condiviso; e infatti c’è un’antica tradizione popolare secondo cui a tavola il padre, o la madre, o uno degli altri, benedice il pane prima che tutti lo mangino.
È bello che il pane sia legato alla memoria, per questo le celebrazioni della Parola che si fermano alle letture prima della consacrazione, come si usava a Bologna nell’entusiasmo della riscoperta della Bibbia dopo il Concilio, in questo mancano, nel rendere visibile la memoria. Per questo non c’è mai stata più memoria di Gesù in questi tempi, di quanta c’è n’è ora intorno alla messa di Papa Francesco, che grazie al virus è trasmessa e “vista” in TV ogni mattina da Santa Marta. E se il pane rende visibile la memoria e la fa anche cibo, epidemia permettendo, la memoria del Signore non vive di solo pane. E se no, come sarebbe giunta fin qui?
Raniero La Valle “www.chiesadituttichiesadeipoveri.it” 30 aprile 2020
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/in-memoria
Le famiglie si riscoprono chiesa domestica”
In queste settimane di lockdown la chiesa domestica “si è appropriata di gesti ordinari facendoli diventare extra-ordinari perché abitati dalla presenza del Signore”; l’auspicio è che alla ripresa delle messe le famiglie tornino in chiesa “da protagoniste”. L’importanza di liturgie familiari per “respirare con due polmoni”. Parla p. Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della famiglia
Scopo dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia è il supporto alla pastorale familiare delle diocesi, in attuazione del Direttorio di pastorale familiare per la Chiesa in Italia (1993) e tenendo presente la famiglia non solo come problema ma come risorsa preziosa
L’istantanea delle famiglie in preghiera davanti allo schermo televisivo sul quale scorrevano le immagini del Papa in una piazza San Pietro sferzata dalla pioggia quell’indimenticabile sera del 27 marzo 2020, solo e immenso come un patriarca biblico che intercede per il suo popolo, è forse un pallido riflesso di quella “ecclesia domestica” costituita dai primi cristiani che si riunivano nelle abitazioni per celebrare il culto a Dio. In queste settimane, la sospensione delle messe legata all’emergenza Covid-19 ha costretto i fedeli ad un ritiro forzato, a pregare nelle proprie case, a seguire in tv o in streaming le celebrazioni liturgiche. Con la certezza, come afferma Amoris Lætitia al n. 315, che “la presenza del Signore abita nella famiglia reale e concreta, con tutte le sue sofferenze, lotte, gioie e i suoi propositi quotidiani”.
Per padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Cei, “questa forma di chiesa domestica è forse stato l’inizio di un percorso”. “La pandemia – spiega al Sir – è scoppiata in un tempo liturgico forte, la Quaresima e il tempo di Pasqua, centro della nostra vita di fede, che ha fatto avvertire intensamente la mancanza dei riti. Molti sacerdoti si sono ingegnati affinché la messa potesse raggiungere la gente a casa; elemento certamente importante ma che fa ancora una chiesa domestica essenzialmente ‘spettatrice’”. E così, per aiutare le famiglie a fare delle loro abitazioni “un cenacolo per accogliere Gesù”, l’Ufficio catechistico e l’Ufficio per la pastorale della famiglia della Cei hanno elaborato in vista del Triduo pasquale tre sussidi destinati a famiglie, bambini e adolescenti e intitolati “La ‘chiesa domestica’ celebra la Pasqua”.
Padre Vianelli, che cos’è la chiesa domestica?
Non è essere spettatori di un rito solo visibile. La Chiesa ci invita ad essere partecipi, protagonisti della messa. E’ interessante che in queste settimane si sia avvertita l’esigenza di rendere pregnanti alcuni gesti familiari. Ascoltando le consulte sul territorio, ci siamo resi conto che il primo registro attivato dal lockdown è stata la preghiera: forme di preghiera familiare e interfamiliare attraverso piattaforme come Zoom che consentono, ad esempio, la contemporanea partecipazione di diverse famiglie alla recita del rosario. E poi i gesti: cominciare a chiedersi scusa o fare il pane azzimo per poterlo spezzare la domenica di Pasqua ha fatto sì che una serie di atti che appartengano alla ferialità della famiglia – come fare il pane – siano divenuti “sacramentali”. La chiesa domestica si è appropriata di gesti ordinari facendoli diventare extra-ordinari perché abitati dalla presenza del Signore.
Dunque durante il lockdown è cresciuta la consapevolezza della presenza di Dio nelle nostre case?
Il n. 48 di Gaudium et spes dice che la famiglia cristiana, nata dal matrimonio come immagine e partecipazione del patto d’amore con Cristo e con la Chiesa, manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo e la genuina presenza della Chiesa. A tutti e ovunque, non solo nei luoghi e nei gesti di culto: la presenza del Signore nell’eucarestia si riverbera nelle case. Inoltre, proprio in queste settimane le famiglie hanno scoperto di essere immagine di una Chiesa che prega, fa catechesi rendendo ai figli ragione della propria fede, fa carità nei quotidiani gesti d’amore e di servizio. Cristo si rende presente nell’amarsi degli sposi, afferma il n. 73 di Amoris Lætitia; pertanto, in forza del sacramento delle nozze, nelle famiglie vi sono dei tabernacoli.
Certamente la chiesa domestica non vive senza Eucarestia, ma è grammatica per la chiesa grande. Sarà importante, quando ci torneremo, che questa esperienza possa essere riportata in chiesa. Mi auguro che le famiglie vogliano tornare a messa da protagoniste, che gesti simbolici ma significativi fatti a casa, come pregare insieme tenendosi per mano e guardandosi negli occhi, vengano compiuti anche in chiesa.
Molte coppie di divorziati risposati o conviventi vivono un amore fatto di tenerezza, responsabilità, serio impegno reciproco: queste famiglie cosiddette “ferite”, fondate su un amore sincero che però non ha ricevuto il sigillo sacramentale possono considerarsi chiesa domestica? Che valore ha la loro “fatica” davanti a Dio?
La presenza di Cristo in ciascuno di noi è legata anzitutto al battesimo. In Amoris Lætitia il Papa distingue tra forme d’amore in piena contraddizione con il modello che il Signore ci propone, e forme in parziale contraddizione.
Non è che l’amore tra divorziati risposati o conviventi non sia amore o non possa in qualche modo contenere l’amore di Cristo; gli mancano però alcuni elementi che potrebbero portarlo a piena comunione. Il Signore ci invita tutti al banchetto; ognuno di noi è chiamato a godere della piena comunione con Lui, ma non tutti gli invitati sono nelle condizioni di poter mangiare ogni cosa.
Tuttavia, su quel tavolo pensato per tutti, c’è qualcosa al quale tutti possono accedere. Per alcuni questa pienezza è completa, per altri è parziale, ma è comunque una forma di partecipazione alla grazia.
Non sono né esclusi né scomunicati, come ha chiarito il Papa; il Signore non è assente in quelle forme d’amore, ma nella dimensione sacramentale la sua presenza è più piena. Pur senza giudicare, occorre però chiarire che sposarsi o non sposarsi non è la stessa cosa. Anche se l’intensità dei gesti d’amore nella coppia non sposata è la stessa, sono diversi l’accesso alla grazia e la presenza del Signore.
Quale è allora la sfida pastorale?
Fare leva su quello che c’è e al tempo stesso far capire che cosa manca per conformarsi sempre più al modo di amare di Cristo.
Chiesa domestica e liturgia familiare: che relazione c’è?
Ritengo importante condividere buone prassi. Penso all’esperienza degli ebrei che hanno mantenuto la forte presenza di una liturgia familiare. In occasione di feste come Pesach o Hanukkah la famiglia si riunisce, compie gesti e preghiere avvertendo in essi una presenza e un’appartenenza.
Noi che veniamo dall’esperienza della domus ecclesiæ, abbiamo spostato il culto nella chiesa parrocchiale – parrocchia vuol dire casa tra le case -, ma forse è il momento di pensare anche liturgie familiari, così domani, quando potremmo ritrovarci di nuovo insieme, sarà come respirare con due polmoni. Oggi la sfida pastorale più grande è non perdere la preziosità di una significativa ritualità familiare, non alternativa ma complementare a quella nella chiesa parrocchiale.
Giovanna Pasqualin Traversa AgenziaSIR 30 aprile 2020
www.agensir.it/chiesa/2020/04/30/coronavirus-covid-19-p-marco-vianelli-cei-le-famiglie-si-riscoprono-
chiesa-domestica
{Nel 1949 l’AVE pubblicò un libro di Carlo Carretto che aveva proprio questo titolo, “Famiglia piccola Chiesa”. L’integralismo clericale si scandalizzò per il paragone sconveniente, il libro fu ritirato e l’autore venne successivamente allontanato (1952-Luigi Gedda e Po XII) dall’Azione Cattolica, di cui era Presidente nazionale della GIAC. Ndr}
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Cremona. Collaborazione al Forum on-line per catechisti ed educatori
La Focr (Federazione Oratori Cremonesi) inaugura il forum on-line dove catechisti ed educatori possono incontrarsi e confrontarsi il 5, 6 e 7 maggio: tre incontri on-line aperti (su iscrizione) per la condivisione di idee e buone prassi per affrontare con bambini e adolescenti questo tempo di cambiamento. Verranno aperte tre piattaforme di confronto e scambio di buone prassi tra educatori di bambini (iniziazione cristiana), pre-adolescenti (mistagogia [apprendimento→ conoscenza→ testimonianza]) e adolescenti della diocesi, in una modalità semplice che si spera aiuterà a far circolare il pensiero e l’incoraggiamento ad abitare questo tempo.
I tre momenti serviranno anche per rilanciare la proposta “Io avrò cura di te” che la Diocesi sta costruendo e rivolgendo agli educatori. Tanti piani che si intersecano, nella consapevolezza che il confronto tra adulti rafforzerà il saper esserci e il saper far bene, benché segnati da tante domande e fatiche che appesantiscono soprattutto l’età evolutiva.
Il percorso è stato realizzato con la preziosa collaborazione, oltre all’Area giovani, dei Consultori di Caravaggio-Treviglio, Cremona Ucipem e Viadana Ucipem e della Commissione formazione CSI Cremona. I destinatari sono tutti coloro che, come giovani ed adulti, decidono di essere disponibili alla relazione educativa oggi, domani e dopodomani: catechisti, genitori, insegnanti, educatori di Oratorio, Capi scout.
https://www.teleradiocremona.it/2020/04/28/la-focr-inaugura-il-forum-online-dove-catechisti-ed-educatori-possono-incontrarsi-e-confrontarsi
Mantova Etica Salute & Famiglia – anno XXIV n. 03 – maggio – giugno 2020
Periodico a cura del Consultorio UCIPEM di Mantova e dell’Associazione Virgiliana di Bioetica
Bioetica al tempo del Coronavirus. Scegliere chi curare? Quali criteri Armando Savignano
La comunicazione medica al tempo del Covid -19 Gabrio Zacchè
Ipotesi di futuro Anna Orlandi Pincella
Cambiamenti in quarantena: effetti sui pazienti e sui nuclei problematici Paolo Breviglieri
Ostetrica ai tempi del Covid-19 Federica Cestaro
Il servizio pastorale nei reparti Covid Paolo Gibelli, Stefano Menegollo
Aiuto sarò mamma al tempo del Coronavirus! Alessandra Venegoni
Il dolore al tempo del Covid-19 Giuseppe Cesa, Silvana Ignaccolo
Usciremo … Paolo Breviglieri
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA%20SALUTE_FAMIGLIA%20-%202020%20anno%20XXIV%20n%C2%B003%20-%20Maggio%20Giugno.pdf
Messina. Come intrattenere i bambini e i ragazzi con disturbi autistici
Il coronavirus ci costringe tutti a casa. Non vi è scuola, non vi sono attività riabilitative da effettuare, non si può passeggiare. Tutto sembra cospirare contro i genitori e i loro figli che presentano disturbi autistici. Eppure questo periodo, questo tempo, può essere prezioso per questi bambini e per i loro genitori. Il suggerimento che ci sentiamo di dare, è quello di utilizzare costantemente, per almeno un’ora al giorno uno strumento vecchio come la stessa umanità, anzi ancora più antico, poiché prima della comparsa dell’uomo sulla terra era già usato dai cuccioli di moltissimi animali: questo prezioso strumento si chiama semplicemente: “gioco”.
È noto che il gioco ha svariate e importanti funzioni ed è molto importante per la crescita psicologica, sociale, relazionale, intellettiva di ogni bambino, poiché esso:
- è stimolo allo sviluppo motorio e intellettivo;
- è strumento di esplorazione e conoscenza del proprio corpo, di quello degli altri, degli oggetti, degli animali e della natura che ci circonda;
- è veicolo privilegiato di comunicazione e socializzazione;
- è mezzo per lo sviluppo della creatività e della fantasia;
- è strumento di conoscenza delle proprie e altrui emozioni e sentimenti;
- ha la capacità di migliorare il contatto e il controllo delle proprie emozioni;
- è palestra per l’autonomia personale e sociale;
- è occasione per rafforzare la volontà;
- ed infine è il migliore strumento atto a creare e mantenere tra le persone complicità, intesa, reciproco legame affettivo, serenità, gioia e piacere.
Il gioco libero. Per tali motivi utilizzando il gioco libero nel quale, i bambini stessi, di comune accordo si danno in ogni momento, regole e indicazioni, i piccoli degli esseri umani imparano a esplorare, conoscere, comunicare, socializzare e rendersi autonomi. Inoltre mediante quella che sembra una banale, semplice attività ludica, i bambini di tutto il mondo e di tutte le generazioni, riescono a capire, controllare e modellare le proprie e altrui emozioni, così da diventare capaci di costruire delle relazioni piacevoli ma anche efficaci, utili e durature. Insomma i bambini, mediante il gioco libero, riescono, tra l’altro, a costruire momenti di socialità. Questi momenti di socialità, a loro volta, non solo tenderanno a migliorare il loro mondo interiore, rendendolo più disteso, sereno, fiducioso, allegro e ottimista, ma li aiuteranno nella loro crescita affettiva ed emotiva.
Purtroppo i piccoli che presentano sintomi autistici non riescono a utilizzare questo tipo di gioco, poiché il loro sviluppo affettivo – relazionale è troppo immaturo e il loro mondo interiore è eccessivamente instabile, disturbato, insicuro, fragile e inquieto, per permettere loro di intraprendere un’attività ludica, come il gioco libero, che di solito si effettua in piena collaborazione e intesa con i coetanei. Ciò in quanto, essendo questi bambini emotivamente molto chiusi e scarsamente disponibili a mediare e ancor più ad accettare le richieste degli altri, non riescono a farsi accettare dai coetanei, i quali si aspettano che i loro compagni siano in grado di capire le regole del gioco, siano capaci di ascoltare, mediare e accettare quanto proposto anche dagli altri.
Dice la De Clercq: “In presenza di altri bambini, Thomas diventava immediatamente nervoso e stressato e noi, altrettanto rapidamente, non riuscivamo più a tenere sotto controllo il suo comportamento”. Pertanto è bene evitare loro questo tipo di esperienze negative, che non solo non apporterebbero alcun beneficio, ma potrebbero peggiorare la loro psiche, giacché potrebbero essere seguite anche da atteggiamenti di bullismo e di rifiuto da parte dei bambini normali, con seguente peggioramento dell’autostima e del loro mondo interiore, già notevolmente turbato. Di conseguenza i soggetti con sintomi di autismo non sono in grado di acquisire mediante il rapporto con gli altri bambini, gli apporti preziosi offerti da questo tipo di gioco, così come non sono in grado di gustare il piacere e la gioia dell’intesa, dello scambio e della complicità. Tutte cose che permettono di instaurare quegli affettuosi legami reciproci che sono fondamentali nel mantenere e accrescere in ogni essere umano un buon equilibrio psichico.
Il gioco libero autogestito. Se il gioco con gli altri bambini è impossibile, la stessa attività è invece perfettamente utilizzabile quando è attuata insieme a degli adulti, se questi riescono a tenere conto della realtà interiore di questi particolari soggetti. In particolare è necessario conoscere e accettare:
- Che in questi bambini è presente una chiara sfiducia negli esseri umani e nel mondo che li circonda. Sfiducia che li costringe alla difesa, piuttosto che all’accoglienza delle idee e degli interventi che provengono dall’esterno. Sfiducia che li porta a rifiutare e ad opporsi a qualunque richiesta venga dagli altri, in quanto viene da loro giudicata come una costrizione e un’imposizione (indifferenza od opposizione ai giochi proposti dagli altri bambini o dagli adulti).
- Che lo stato d’iperattiva zione mentale, di ansia, di paura e a volte confusione, con la quale sono costretti a confrontarsi in ogni momento, non permette loro di ascoltare con serenità ed equilibrio le indicazioni, le necessità e i bisogni e degli altri, così da regolare le loro azioni e i loro comportamenti. Pertanto ogni stimolo ad effettuare dei particolari giochi o attività, che agli occhi degli adulti potrebbero essere interessanti ed educative li blocca, li mette in ansia, li disturba. È indispensabile quindi che i genitori accettino i giochi da essi in quel momento cercati, desiderati o proposti, qualunque essi siano.
- È necessario inoltre accettare che può essere presente nel loro animo una notevole instabilità, irritabilità e aggressività che li costringe, specialmente quando si trovano in una fase nella quale non è presente una totale chiusura, ad effettuare dei giochi caotici, aggressivi e distruttivi. In questi casi, istintivamente, saremmo portati a respingere questo tipo di attività, poiché negli adulti è nettamente prevalente l’atteggiamento educativo e di controllo. Tuttavia, tenendo conto del loro bisogno di dar sfogo a queste emozioni, tranne che i giochi proposti e attuati non comportino un reale pericolo per sé e per gli altri, la vostra accettazione deve includere anche questo tipo di giochi.
- La notevole ansia presente nella loro mente li disturba continuamente e li obbliga a utilizzare gli stessi giochi per molto tempo (giochi interminabili). Se il genitore accetterà di effettuare insieme a loro lo stesso gioco per numerose volte senza stancarsi e senza annoiarsi, scoprirà presto come questo suo momentaneo sacrificio sarà stato prezioso per permettere al bambino di iniziare o riprendere il cammino della crescita affettivo – relazionale.
- Questi bambini, a causa delle loro notevole fragilità nell’affrontare e accettare le frustrazioni, tendono a non accettare di sbagliare o perdere nei giochi che riescono ad effettuare con gli altri. Perciò, almeno inizialmente, preferiranno giochi molto semplici e ripetitivi, che hanno soltanto lo scopo di diminuire la sofferenza che attanaglia il loro animo. È quindi necessario che gli adulti accettino questo tipo di giochi che sono molto importanti per loro. D’altra parte sarebbe assolutamente controproducente pensare di effettuare insieme a loro un tipo di gioco in cui l’adulto discuta con il bambino quali regole applicare o peggio ancora sia lui a dettare le regole (gioco guidato). Tale tipo di gioco lo farebbe sentire, ancora una volta, un bambino incompreso, costretto a fare o a non fare, ciò che gli altri desiderano o gli impongono e non ciò di cui lui ha bisogno e necessità in quel determinato momento.
Da quanto abbiamo detto l’unico gioco che questi bambini possono e dovrebbero effettuare costantemente, in quanto riesce a dare a questi piccoli con disturbi dello spettro autistico un notevole piacere, tanta gioia e soprattutto molta gratitudine verso chi accetta di giocare con loro, producendo di conseguenza importanti effetti positivi e terapeutici è il Gioco Libero Autogestito. In questo particolare tipo di gioco la conduzione e la gestione dell’attività è affidata completamente al bambino. Questi può scegliere il tipo di gioco, la sua durata, le modalità con le quali eseguirlo. Egli può scegliere inoltre quando e con quale altro gioco sostituire quello che in un determinato momento non è più di suo interesse o gradimento.
Voi genitori:
- Date ai vostri figli una presenza rassicurante, serena, affettuosa e rispettosa. Rispettosa soprattutto dei loro sintomi, che evidenziano le gravi problematiche interiori delle quali soffrono. Rispettosa degli sforzi che fanno per limitare o combattere la sofferenza e l’angoscia dalle quali si sentono sommersi. Rispettosa delle loro capacità ma anche dei loro limiti. In tal modo dimostrerete con i fatti e non con le parole che conoscendo le necessità, i bisogni dei loro limiti li comprendete e accettate con gioia.
- Parlate poco e solo se è strettamente necessario. Questi bambini non amano essere sommersi di parole, perché hanno difficoltà a interpretarle e viverle serenamente, per cui le parole e soprattutto i grandi e impegnativi discorsi, li confondono e li innervosiscono. Dice la De Clercq, una mamma di un figlio con disturbi autistici, parlando del figlio: “Nel frattempo, sembrava che le parole avessero su Thomas un effetto deleterio. Più frasi gli venivano dette e più diventava teso”. Il motivo è semplice da comprendere: a causa dell’ansia e del tumulto presente nella mente di questi bambini, l’attenzione verso le parole richiede loro un grande sforzo, che non possono sostenere se non per pochissimo tempo, dopodiché le parole diventano motivo di irritazione e sono causa di altra ansia. Parlate quindi molto poco e solo se è necessario. Parlate piano, con dolcezza, senza alzare mai la voce.
- Evitate di imporre o di spingerli ad effettuare attività e giochi da voi desiderati ma da loro non richiesti.
Questo è l’impegno più difficile da attuare e mantenere. In noi adulti è quasi insito geneticamente, l’essere nei confronti di ogni bambino degli educatori, che hanno il compito di scegliere e proporre, ciò che pensiamo sia utile, necessario, interessante o importante. Nei bambini con sintomi di autismo questo comportamento è errato. Perché è sbagliato considerarli come bambini normali dal punto di vista psicologico ma neurologicamente carenti di molteplici capacità, alle quali sopperire mediante svariati stimoli e terapie. È invece è esattamente il contrario. Essi, dal punto di vista psicologico, sono notevolmente disturbati ma possiedono, almeno in potenza, normali capacità e qualità. D’altra parte dobbiamo necessariamente tener conto del loro mondo interiore nel quale imperversano paure e terrore, ansie ed angosce, diffidenza e chiusura, se non proprio caos e confusione. Pertanto ogni proposta che viene dall’esterno, nella condizione psichica nella quale versano, è da loro avvertita come un’imposizione e una mancanza di attenzione nei confronti delle emozioni negative delle quali soffrono.
In definitiva questo tipo di approccio sottovalutando ampiamente i loro bisogni e desideri, le loro possibilità e necessità, rischia di peggiorare la diffidenza e la ripulsa nei confronti del mondo e delle persone che li circondano e quindi rischia di peggiorare la loro condizione psichica globale. La qual cosa li costringe a non abbandonare la chiusura verso il mondo esterno che avevano istintivamente attuato. Se invece riuscite a rispettare fino in fondo e senza tentennamenti, le emozioni di questi bambini, vi accorgerete molto presto come in realtà le loro capacità di base non erano affatto carenti, ma semplicemente non potevano essere espresse, a causa della presenza di un mondo interiore particolarmente disturbato.
Per tale motivo, soltanto in un secondo momento, quando avrete stabilito con loro una buona relazione e quando le loro emozioni si saranno normalizzate, potete iniziare a proporre qualche gioco che pensate possa divertirli e interessarli.
4. Rispettate il loro spazio di sicurezza. La vostra presenza fisica non deve mai essere avvertita come invasiva e coartante. Quando, e se è necessario, restate in un angolo, in silenzio, ma con l’animo attento, disponibile, affettuosamente vicino, fino a quando non avvertite che essi sono disponibili all’incontro con voi e pertanto cercano la vostra collaborazione all’attività o al gioco intrapreso.
5. Aspettate che siano loro a stabilire quando e come avere con voi un contatto fisico. Anche questo comportamento è difficile per l’adulto, specie per un genitore. Tuttavia è un comportamento necessario per dare un chiaro segnale di rispetto dei loro sentimenti e delle loro emozioni e bisogni. Come dire: “Io ci sono. Io sono qui, vicino a te, ma non ho alcuna intenzione di toccarti, né tantomeno di abbracciarti o baciarti, se tu non lo desideri e cerchi. Quando tu sarai più maturo e disponibile, le mie braccia sono pronte ad aprirsi per accoglierti con gioia”.
6. Accettate e collaborate alle attività e ai giochi da loro intrapresi o proposti. Accettate e collaborate ai loro giochi, anche se questi possono sembrarvi inutili, sciocchi, ripetitivi o tendono a manifestare ed esprimere in modo eclatante la loro aggressività e il loro disordine interiore, dei quali vorrebbero liberarsi. In definitiva non è importante quello che fanno o non fanno, ma il modo affettuoso e gioioso con il quale riuscirete a far vivere loro i vari momenti e le varie realtà che cercherete di rendere quanto più e possibile tranquille, serene, sane e accoglienti.
7. Impegnatevi ad instaurare con questi bambini un legame solido. Un legame forte, intenso, ricco di ascolto, tenerezza ed empatia. Come dice Zannantoni: “Nel ritrovamento di un rapporto interpersonale buono, possiamo dire empatico, come su di una luminosa superficie specchiante, la persona sofferente può costruire il proprio contenitore di significato e ritrovare pensieri e parole per raccontare a se stessa”.
8. Impegnatevi a costruire un legame d’amore. In definitiva cercate in ogni modo di costruire un legame di accettazione e d’amore, facendo vostro l’appello della Notbohm: “Date a vostro figlio amore incondizionato, un amore che non dipenda dalle pagelle, dalle mani pulite o dalla popolarità. Date a vostro figlio la vostra accettazione con tutto il cuore: l’accettazione delle sue fragilità. Oltre che delle sue abilità e virtù”. Questi vostri comportamenti li stimoleranno ad avere fiducia negli altri e nel mondo e quindi permetteranno a ogni bambino che soffre di sintomi autistici di aprire una breccia nel muro di diffidenza che aveva creato per difendersi dalla sofferenza. Quest’apertura sarà preziosa poiché potrà liberare tutte le loro energie così da poterle indirizzare verso una normale crescita affettivo – relazionale, che avrà importanti ricadute anche sul piano cognitivo e comportamentale.
Poiché questi bambini, nei loro giochi, preferiscono utilizzare, un po’ come i bambini piccoli, oggetti veri, permettete loro di giocare con questi oggetti, piuttosto che con i soliti giocattoli di plastica. E poiché amano la musica e i suoni dolci li rilassano, lasciate nelle loro mani qualche strumento musicale.
A quali giochi partecipare? La risposta a questa domanda è semplice: “A quasi tutti”. Tranne che non siano giochi sessuali, o giochi nei quali il bambino potrebbe fare realmente del male a sé stesso o agli altri, dobbiamo riuscire a partecipare a tutte le attività e a tutti i giochi dal bambino attuati o proposti. Le iniziative del bambino possono essere di vario tipo, e soprattutto nella fase iniziale possono essere molto semplici e lontane dalla nostra concezione di gioco come:
- Muoversi avanti e indietro.
- Sfarfalleggiare le mani davanti agli occhi.
- Lisciare una stoffa o un oggetto.
- Accendere e spegnere le luci.
- Versare acqua da un recipiente all’altro.
- Mettere in fila tutta una serie di oggetti.
- Mettere gli oggetti, uno alla volta, dentro un contenitore.
- Riversare a terra tutti gli oggetti da un contenitore.
- Riversare a terra tutti gli oggetti e calpestarli.
- Buttare a terra gli oggetti con forza per ascoltarne il rumore.
- Guardare fissamente le lancette o il pendolo di un orologio.
- Aprire e chiudere un ombrello o aperto farlo girare a terra.
- Strappare dei pezzetti di carta per farli volare come farfalline dal balcone.
In definitiva qualunque attività faccia il bambino, anche se può essere classificata come una stereotipia, può e deve essere trasformata in gioco, nel momento in cui vi parteciperete con gioia, scherzando con lui, ridendo insieme a lui, imitandolo, aiutandolo, sostenendolo. È questa partecipazione gioiosa che riesce a trasformare una detestata stereotipia in una piacevole attività di gioco che infonderà al bambino ciò che gli manca veramente: la sicurezza, la gioia, la fiducia negli altri, il desiderio di stabilire un prezioso legame al di fuori di sé, con il mondo che lo circonda.
Ragazzi e adulti con autismo. I ragazzi o gli adulti spesso non amano giocare ma vi sono in loro il bisogno e il piacere di raccontare e confidarsi con gli altri sia con le parole sia mediante il disegno o la scrittura.
A volte essi raccontano delle storie fantastiche, spesse volte sono ripetitive e violente. Ebbene anche quest’ascoltare con attenzione e partecipazione a queste storie senza fare alcun commento o interpretazione particolare, è un’ottima terapia.
In altri casi gli adulti con autismo amano disegnare scene violente, nelle quali le persone muoiono e poi risuscitano per poi morire ancora, aggrediti da violenti mostri o personaggi. Anche l’ascolto e la partecipazione ai loro racconti, qualunque sia l’argomento, anche se è ripetitivo, crudele e ricco di coprolalie, diventa terapia se trasmettiamo nell’ascolto la nostra vicinanza affettiva, se riusciamo a evitare di annoiarci, o di scandalizzarci, per cui vorremmo evitarlo.
È così è terapia ascoltare le loro difficoltà con gli insegnanti e compagni di classe. Se i cambiamenti positivi avvengono gradualmente e nel tempo, tuttavia sono tanto più rapidi quanto più i bambini sono piccoli, quanto meno grave è la patologia ma anche quanto più i genitori e gli altri adulti che sono in contatto con loro saranno attenti e disponibili a modificare sostanzialmente l’approccio che avevano precedentemente in un altro: più vicino, tenero, dolce, allegro e gioioso; un approccio fatto di comprensione e rispetto per le loro ansie, per le loro paure e per la sofferenza presente nel loro animo.
dott. Emidio Tribulato, neuropsichiatria infantile, psicologo
www.consultorio-ucipem.messina.it/autismo
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CORONAVIRUS
L’altra pandemia. Perché l’influenza spagnola è un capitolo dimenticato della storia italiana passim
https://it.wikipedia.org/wiki/Influenza_spagnola
https://www.epicentro.iss.it/passi/storiePandemia
Quattro milioni e mezzo di contagi e 600mila morti su una popolazione di 36 milioni di abitanti, economia colpita, tensioni sociali, tutto a cavallo tra la Grande Guerra e il fascismo. Eppure ne abbiamo pochissima memoria. Nell’ottobre del 1918 l’Italia è stremata. La Prima Guerra Mondiale è agli sgoccioli: prima della fine del mese ci sarà la battaglia di Vittorio Veneto, che sancirà definitivamente la sconfitta e il disfacimento dell’Impero austro-ungarico, e la vittoria italiana. Ma sono giorni difficili, per chi è al fronte come per chi è rimasto nelle città. Alla fine dell’estate sulla penisola si è abbattuta una seconda ondata di influenza spagnola, che sta facendo più vittime della guerra.
Se la prima ondata del virus, nella primavera precedente, era passata quasi sottotraccia, il nuovo picco di settembre non può essere ignorato: la maggior parte dei circa 4 milioni e mezzo di contagi e 600mila morti – su una popolazione di 36 milioni di abitanti – viene colpita proprio in quelle tredici settimane da settembre a dicembre. La situazione degenera rapidamente. Conseguenza soprattutto delle tardive contromisure del governo e delle amministrazioni locali, che in un primo momento avevano sottostimato l’impatto dell’influenza spagnola e provato a nasconderla per non aggiungere ulteriori preoccupazioni agli italiani.
Nei mesi più duri del conflitto la censura della guerra aveva contribuito a sbiadire l’impatto del virus, mentre sui giornali si creavano contraddizioni tra le numerose colonne di necrologi e i minuscoli trafiletti di cronaca creati ad arte per rassicurare la popolazione con sole informazioni di servizio.
Ora che è tutto finito e la pandemia è esplosa, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Vittorio Emanuele Orlando si trova costretto a vietare il suono delle campane per i funerali, soprattutto dove il morbo fa più vittime, come a Torino – una situazione “gravissima” nelle parole di Turati – dove nel mese di ottobre si registrano anche 400 morti al giorno.
In pieno autunno il bilancio della spagnola inizia a diventare insostenibile e lo Stato deve reagire. Il 17 ottobre 1918 viene pubblicato il decalogo dettagliato del comune di Milano, con una serie di indicazioni da seguire: “Fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese, sale di conferenze). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento”, e così via.
In tutta Italia le autorità centrali e locali danno il via a una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici per assecondare le richieste dell’opinione pubblica. L’inizio della scuola viene posticipato a data imprecisata; viene ridotto l’orario di apertura dei negozi, con le sole farmacie a beneficiare di un allungamento dei turni; cinema e teatri restano chiusi nonostante le proteste dei proprietari che chiedono di essere risarciti.
La classe dirigente vuole fermare solo i servizi non essenziali, facendo lavorare a pieno regime le principali attività economico-produttive: fermare la complessa macchina statale avrebbe incalcolabili ripercussioni sull’operatività dell’esercito in un momento decisivo del conflitto. La conseguenza però è l’aumento di assembramenti all’ingresso dei negozi alimentari; nonostante la consapevolezza del pericolo, lo Stato sceglie di non aggiungere limitazioni per non aggiungere nuove ansie.
I ceti popolari temono di rimanere senza viveri e assicurare loro il pane – al netto della carenza di beni di prima necessità – è un tentativo di calmare gli animi. Il governo sceglie anche di non fermare le fabbriche. Gli spostamenti quotidiani di migliaia di operai, però, moltiplicano le occasioni di contagio: le condizioni igieniche e lavorative non possono garantire la salute dei lavoratori, la distanza non è rispettata, né le precauzioni eseguite alla lettera. Così la malattia avanza inesorabilmente nelle industrie facendo crollare la produttività.
Gli stabilimenti dipendenti dal Comitato regionale di mobilitazione industriale per l’Italia centrale e la Sardegna (nei centri di Roma, Ancona, Terni e Chieti) registrano dal 10 ottobre al 27 novembre 12.426 casi d’influenza su 40.048 operai, che causano circa 75mila assenze dal lavoro. “L’Italia scontava un duplice ritardo, sia per le strutture statali, sia per la condizione della popolazione”, spiega Paolo Mattera, professore di Storia Contemporanea all’Università Roma Tre. L’impostazione della sanità si dimostra del tutto inadeguata per una pandemia di quella portata. In assenza di un ministero della Sanità – sarebbe stato istituito solo nel 1958 – le malattie infettive, considerate un problema di ordine pubblico, sono in carico al ministero dell’Interno, e l’unico provvedimento certo – conosciuto e condiviso anche nel resto del mondo – è il distanziamento sociale.
“Si guardava prevalentemente alla sicurezza – spiega il professor Mattera – si puntava a isolare i malati in casa. Questi, privi di cura, morivano in numero maggiore, e contagiavano i familiari nelle case, che morivano di conseguenza”. Ma non va poi tanto meglio a chi è ricoverato in ospedali travolti dall’emergenza sanitaria: il personale sanitario è abituato a una routine lenta, compassata, con procedure farraginose, incapace di adeguarsi con la dovuta rapidità. I medici protestano per le estreme condizioni lavorative, con poco personale e mezzi inadeguati: alcuni di loro arrivano ad abbandonare il servizio. E non sono gli unici a protestare.
Con il passare delle settimane il peso di quella seconda ondata di influenza spagnola presenta il conto a tutta la popolazione italiana, che manifesta la propria preoccupazione, impressionata dalle spaventose scene a cui si assiste nelle città e nelle campagne a causa dell’eccesso di mortalità. Fino all’estate l’impatto sui cittadini era stato diverso. Durante la prima ondata di influenza, meno letale, era prevalso il desiderio di liberarsi dal peso e dai dolori della guerra: per quanto potesse essere diffusa la spagnola avrebbe impiegato del tempo per scavarsi un posto tra le preoccupazioni degli italiani. La stessa guerra – la più devastante a memoria d’uomo – aveva completamente stravolto la percezione e il valore della morte. Una buona parte della popolazione vive in piccoli borghi, o nei villaggi, con un orizzonte esistenziale molto ristretto. Per molti italiani nel 1918 lo Stato è ancora una realtà astratta, distante, che si presenta soltanto per le tasse e la leva militare: c’è una certa diffidenza, o comunque distanza, verso le istituzioni.
“Questi sentimenti – spiega Mattera – si trasformano in ostilità quando ci si rende conto che le contromisure dello Stato non hanno effetto. Lo si nota in alcune lettere inviate dai cittadini alle istituzioni, che nel corso dell’epidemia passano da un tono di supplica a uno di avversione, a volte sfociando perfino in teorie del complotto: si diceva che il malfunzionamento delle istituzioni fosse frutto di chissà quali oscuri interessi di Roma. Alimentando ulteriori paranoie e anche la diffusione di false notizie in piena escalation di influenza”.
A novembre l’epidemia sembra aver allentato le maglie.
Il 9 novembre 1918 la Giunta sanitaria di Milano rileva “il quasi completo ripristino dello stato normale della salute pubblica, ferme quelle disposizioni la cui efficacia è stata dimostrata chiede la revoca di tutti i provvedimenti eccezionali”. Ma forse è ancora troppo presto e nelle settimane successive i contagi riprendono a crescere.
“Finita la guerra, mio padre ritornava grazie a Dio vivo e sano, ma nella nostra casa regnava la miseria, più guaio ancora finita la guerra, vi è stata una malattia infettiva chiamata la spagnola, anche mio padre e quasi tutto il popolo era infettato e l’agente moriva a catastrofi nel nostro piccolo paese. Al giorno morivano tante volte due o tre in una famiglia, anche mio padre appreso quel male, ed è arrivato impunto di morire fino a portarle il viatico e l’estrema unzione il nostro parroco. […] All’ora eravamo 4 fratellini forse Dio l’avuto pietà e lo à fatto campare”, racconterà Tommaso Bordonaro, di Bolognetta, provincia di Palermo, nove anni nel 1918, nel libro di Francesco Cutolo “L’influenza spagnola del 1918-1919”.
Nel Mezzogiorno l’influenza spagnola colpisce ancora più forte, vista l’inadeguatezza delle strutture sanitarie e la scarsa preparazione di una parte della classe dirigente. Anche lì riaprire e tornare alla normalità non porta il sollievo sperato: la pandemia ritorna per una terza ondata. Anche a causa dei reduci del conflitto, che ritornano alle loro case e alimentano nuovi focolai.
L’11 gennaio il periodico socialista “La Squilla” di Bologna ancora scrive: “Censura / Morti in guerra: 462.740 / Feriti: 987.340 / Invalidi e mutilati: 500.000 / Non c’è la statistica dei morti di spagnola, perché la “maledetta” continua ad ammazzare! / Dopo il cannone, lei ci voleva! / Ma da che mondo è mondo la peste andò sempre dietro la guerra / È storia; è anche nella Bibbia!”.
Nei mesi immediatamente successivi alla Grande Guerra, la voce del partito socialista si fa più insistente, si inserisce nelle pieghe del malcontento e incendia gli animi dei cittadini. Non a caso l’Italia è il secondo paese europeo che la III Internazionale ritiene più prossimo alla rivoluzione, dopo la Germania. Nel 1919 gli scioperi operai e agrari conoscono un aumento considerevole di intensità e visibilità. La masse diventano protagoniste della scena pubblica italiana e il Partito Socialista Italiano cresce fino a diventare il primo partito nazionale: alle elezioni del novembre 1919 il PSI diventerà il partito di maggioranza relativa con il 32% dei voti. Quello dei socialisti si rivela, però, un fronte spaccato in profondità, tra massimalisti (la maggioranza, favorevole all’attuazione del programma massimo del partito) e riformisti (minoranza che controlla il gruppo parlamentare, la Confederazione generale del lavoro e le molte amministrazioni comunali “rosse” del centro-nord).
Sul fronte opposto, però, c’è crescente tendenza nazionalista di una frangia di italiani che alimenta il mito della vittoria mutilata. Nel settembre del 1919 un corpo di volontari guidato – tra gli altri – dal poeta Gabriele d’Annunzio occupa la città di Fiume per annetterla, in contrasto con quanto stabilito dalla Conferenza di Versailles. Più del risultato, l’impresa di Fiume conferma la forza crescente di un nuovo protagonista politico, il movimento fascista fondato nel marzo precedente dall’ex socialista Benito Mussolini.
Nella seconda metà del 1920 il fascismo si organizza in squadre paramilitari, si preoccupa di spezzare la rete delle organizzazioni socialiste e di quelle cattoliche, e attira attorno a sé un nuovo blocco sociale composto in prevalenza da ceti medi ed egemonizzato dal padronato agrario e industriale: in questo modo prosciuga la base di consenso che ancora rimaneva ai liberali. Nel novembre del 1921 nasce il Partito nazionale fascista, che conta ben 300mila iscritti (il PSI, alla sua massima espansione superava di poco i 200mila). Passerà meno di un anno prima che Mussolini decida di passare all’attacco facendo marciare su Roma decine di migliaia di “camicie nere” (ottobre 1922).
In questo scorcio di storia d’Italia il peso dell’influenza spagnola è quasi del tutto assente. Non è più priorità per il governo, le amministrazioni locali o i cittadini. Le rivoluzioni delle masse iniziate nel ’19 difficilmente trovano una causa scatenante nella pandemia. Al più, può essere intesa come un amplificatore del malcontento delle fasce più basse della popolazione.
Come spiega Marco Mondini, professore di Storia dell’Università di Padova: “Sappiamo che l’epidemia ebbe un ruolo nella fine della guerra, contribuendo a decimare ulteriormente gli eserciti. Ma abbiamo meno correlazioni con quel che è arrivato dopo. Potremmo trovare un legame solo indiretto, immaginando come l’ulteriore piaga possa aver esacerbato il popolo, trasformando il desiderio di migliorare la propria condizione nella realizzazione che questo rischiava di diventare impossibile”.
Al contrario, si potrebbe ipotizzare che i movimenti delle masse abbiano in un certo senso contribuito alla fine dell’influenza spagnola, almeno a livello di percezione nell’opinione pubblica: hanno fatto sì che questa fosse intesa ancor meno come una preoccupazione. Più in concreto, invece, non è chiaro cosa abbia portato al termine della pandemia. La risposta unanimemente condivisa dalla comunità scientifica è che la quarantena ha portato i suoi benefici. Lo ricorda anche Laura Spinney nel suo libro “1918 L’influenza spagnola”, dopo aver collezionato dati di tutto il mondo, e confrontato comunità che se la sono cavata bene grazie al distanziamento sociale con quelle che non l’hanno applicata e hanno avuto risultati molto peggiori.
È probabile che con il passare dei mesi il virus abbia subito una mutazione verso una forma meno letale. Ma un altro fattore che avrebbe portato alla fine dell’influenza spagnola potrebbe essere la sensibile diminuzione demografica successiva alla seconda ondata, quella dell’autunno del 1918.
Come spiega il professor Mondini: “Se guardiamo l’Italia sappiamo che l’epidemia, combinata alla Grande Guerra, uccise circa un milione e 200mila persone per lo più comprese tra i 18 e i 30 anni nel quinquennio ’15-’20. Il combinato delle due cause devastò la piramide demografica italiana in modo talmente profondo che secondo alcuni demografi ne siamo venuti fuori solo dopo la Seconda Guerra Mondiale”. È possibile, quindi, che nell’estate del ’19 tutti quelli che erano entrati in contatto con il virus siano morti o abbiano sviluppato una forma di immunità.
Alessandro Cappelli Linkiesta 4 aprile 2020
www.linkiesta.it/2020/04/perche-linfluenza-spagnola-e-un-capitolo-dimenticato-della-storia-italiana
La Chiesa che verrà
José Ignacio González Faus, nato a Valencia nel 1935, gesuita, studi nella Facoltà teologica di Innsbruck e al Pontificio Istituto Biblico di Roma, teologo di fama internazionale, docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica della Catalogna fin dal 1968, autore di varie pubblicazioni, in un’intervista rilasciata a José Manuel Vidal e pubblicata sul Boletín Religión Digital, il 17 aprile 2020 scorso, risponde ad alcune domande cruciali sul dopo coronavirus riguardanti i cambiamenti che potranno avvenire nella mentalità e nei comportamenti, anche religiosi e spirituali, della gente, e sul futuro della Chiesa. Quale impatto avranno questi cambiamenti sulla Chiesa di papa Francesco, sulla teologia, in particolare quella sacramentale, e sul ruolo dei laici?
La crisi del coronavirus sta facendo emergere il lato religioso di molte persone, finora nascosto o coperto? Gli indifferenti torneranno al cattolicesimo o andranno definitivamente alla ricerca di nuove spiritualità?
Tutta la religiosità che incarni il detto: «Ricordiamo santa Barbara solo quando tuona», dura poco. E questo pericolo esiste ancora. Il poeta latino Lucrezio scrisse «timor fecit deos» (la paura ha creato gli dèi). E quegli dèi durano poco e si tradurranno presto in ridicole superstizioni con le quali si crede di propiziarseli. Perciò credo che, quando passerà la paura di oggi, torneremo a dimenticarci di “santa Barbara” come ci siamo dimenticati oggi di altre crisi passate. Tendiamo sempre a pensare che qualsiasi guerra o crisi sia stata l’ultima, siamo restii a cambiare e, quando giunge la prossima crisi, veniamo colti di nuovo di sorpresa. Questo, che tutti ci portiamo un po’ dentro, è inoltre indispensabile perché funzioni una società del consumo.
A parte questo, già diverso tempo fa molta gente si stava accorgendo che il significato della vita non può consistere solo nel consumare e consumare. C’è molta gente in stato di ricerca, più seria e profonda in alcuni e meno in altri. Diversi di essi, delusi dalla Chiesa, hanno cercato in Oriente, come tu insinui. Ma il pericolo è che la visione occidentale delle cosmovisioni (o religioni) orientali è molte volte una visione “che piace al consumatore” (è il pericolo di molte religiosità): i più giovani (o una parte di essi che non è stata indottrinata negativamente) condividono meno questo inganno e sembrano più inclini a cercare qualcosa nella Chiesa, nonostante che molti esitino per il tema della sessualità. In ogni caso, ciò che io dico di solito ai non credenti con cui ho a che fare è: non so se Dio vuole che tu sia cristiano (o che lo sia già oggi): ciò che posso dirti è che Dio desidera che tu abbia a tirar fuori da te la migliore versione umana di te stesso. Cominciamo da qui.
Questo senza nascondere che io condivido la visione di Francesco che il vangelo è la migliore offerta che sia stata fatta all’umanità in tutta la storia. Ma Gesù stesso ha detto che la via non è un’autostrada, bensì una “via stretta” (curiosamente, Budda diceva la stessa cosa con altre parole). Per assimilare questo occorre del tempo e, a volte, noi evangelizzatori siamo impazienti; non so se è perché pensiamo più al nostro successo che a quello di Dio. Oggi in cui si studia molto il cristianesimo delle origini, abbiamo scoperto che la fede cristiana si diffuse non tanto per la propaganda fatta dai cristiani, ma per l’impatto e gli interrogativi che suscitava il loro modo di vivere.
La paura della morte che ha percorso il corpo sociale ha trovato nella Chiesa significato, consolazione e speranza? Senza la possibilità di celebrare funerali, la Chiesa ha perso comunque l’ultimo rito che le rimaneva?
Il tema della morte è troppo complesso e tendiamo a semplificarlo molto. Da un lato, c’è la logica della resistenza della vita a scomparire, che è propria anche degli animali (hai visto come corre una formica che se ne stava tranquilla e all’improvviso si sente minacciata?). C’è inoltre anche la morte dei propri cari; alla mia età rimango impressionato dalle coppie che ho conosciuto, che avevano vissuto più di 50 anni così meravigliosamente unite e, all’improvviso, uno dei due si trova solo: la sensazione di aver perso ciò che Orazio chiamava «dimidium animæ meæ», la metà della mia anima deve essere tremenda.
C’è anche l’interrogativo che tutti ci portiamo dentro: riguarda cosa può succedere dopo: perché, per quanto uno sia molto sicuro delle sue convinzioni, fino a quando non si ha la prova esperienziale, rimane sempre uno spazio per il dubbio. C’è anche la domanda che lasciò Camus (oggi che La peste è tornata di moda): un uomo ha diritto di essere felice in un città infestata dalla peste? In un blog che ho postato in Religión Digital ho cercato di rispondere a questo interrogativo completando ciò che avevo detto in altre circostanze, perché all’improvviso non diventiamo tutti anacoreti, per il fatto che queste cose durano poco. Ho suggerito di collegare la gioia con la gratuità (e con la gratitudine), anziché con quella falsa meritocrazia a cui pretende di vincolarla la nostra cultura.
Ciò che mi sembra innegabile è che, se la morte ha bisogno – come dici tu – di «una sincera consolazione e speranza», solo la Chiesa può darla. Forse è per questo che la nostra cultura, ostile al cristianesimo, tende a nasconderci la morte e che oggi ci manca questa “familiarità con la morte” più tipica delle generazioni passate. Ci potrebbero allora essere diverse reazioni: potrebbero esserci delle “danze della morte”, a volte molto provocatorie.
Francesco d’Assisi poteva pregare: «Benvenuta, sorella morte». Altri potrebbero limitarsi al «mangiamo e beviamo che domani moriremo». Ma la cultura di oggi (asservita tante volte all’economia) ciò che vuol dirci è: “mangiamo e beviamo, che non moriremo mai”. Per questo ha potuto essere così forte l’impatto del coronavirus: all’improvviso abbiamo scoperto di essere più fragili di quanto credevamo.
La familiarità con la morte (vista ora da una visione di fede) infrange questo linguaggio abituale quando qualcuno muore: “se ne è andato”. Come se questa terra fosse la nostra vera dimora. Ma c’è un’altra esperienza che dice: “è già arrivato” perché avverte che qui siamo di passaggio, siamo in cammino. Prova ne è l’impatto che ha in te, quando ormai, a una certa età, qualcuno ti dice: “ehi, ti trovo molto bene!”. Il sottinteso di questo saluto è: “non dovresti essere così”. Ma la nostra società ha creato il mito dell’eterna giovinezza (nuovamente molto utile al consumismo) e abbiamo un’enorme voglia di ingoiare questo mito. Sarebbe meglio se guardassimo a questa vita come a una specie di “gravidanza consapevole”: ciò significa che siamo qui non “per farci”, non per restarci. Detto questo, credo che i funerali sono più un bisogno nostro e del nostro cordoglio che non una necessità o un espediente della Chiesa perché, qualsiasi volto le diamo, la morte ha un tratto molto doloroso. La morte è separazione. E questo è un fatto da digerire.
Certamente, la Chiesa può (deve!) diffondere speranza e consolazione sempre e in mille modi. Anch’io in questi giorni ho sofferto la partenza di due compagni molto cari (non per il virus ma per un’altra malattia) e la “povertà” di esequie celebrate per dieci o dodici persone quando sarebbero potute essere una folla (perché erano ambedue persone molto popolari). Ti posso dire che, in una di queste, ho avuto una strana e profonda sensazione che non so ancora come spiegare, ma era come se il defunto mi facesse vedere, dall’altra sponda, l’inutilità di tutti i nostri sforzi di offrire a lui qualcosa.
L’Internet (un tempo demonizzato da molti uomini di Chiesa) è stato esaltato come un grande mezzo di umanizzazione e di evangelizzazione.
Beh, non so cosa dirti. L’Internet, come tutte le cose nuove che nascono, può avere i suoi grandi vantaggi e i suoi grandi pericoli. L’ho visto più demonizzato da alcuni sociologi che dai chierici: perché è servito per migliaia di manipolazioni, fake news ed eccessi di passività. L’importante è che tutti questi pericoli vengano superati.
Come sarà la Chiesa del post-coronavirus? Quali caratteristiche avrà? A quali linee di fondo mirerà? Coronerà le riforme di papa Francesco?
Prima e dopo il coronavirus, mi sono stancato di ripetere che la Chiesa oggi ha bisogno di tre grandi cambiamenti:
- Essere veramente la Chiesa dei poveri,
- Una profonda riforma del papato, episcopato e ministero,
- L’unità dei cristiani.
Ti rimando al mio libro Apocalipsis hoy? in cui c’è tutta una parte dedicata alla riforma della Chiesa.
L’esperienza del coronavirus, se sfruttata bene, può aiutare l’espressione di Francesco (che tu vuoi raccogliere in un libro inchiesta): “Chiesa in uscita” (o ospedale da campo). Mi riferisco a ciò che è stato detto nella mia risposta a quell’altra inchiesta. È già celebre la frase del vescovo Gaillot: «Una Chiesa che non serve, non serve a nulla». Si può rafforzare ancora di più: la Chiesa come serva dei più bisognosi e dei meno serviti da questo mondo tanto ingiusto. In ogni caso, se tiriamo fuori il meglio di noi stessi, l’esperienza del virus può aiutare la riforma di Francesco, il quale mira anche (come tutto il vangelo) a che tiriamo fuori il meglio di noi. Come la parabola di Luca 12,13-21 del “ricco stolto”, la presenza costante della nostra fragilità ci porterà a esercitare meno egoisticamente il nostro potere.
Potrà continuare a conservare la sua attuale struttura economica, territoriale e funzionale?
A dire il vero, non lo so. Ma credo che questa domanda vada oltre il tema del coronavirus: è un interrogativo della nostra ora storica. Bisogna tener presente che la Chiesa del futuro sarà molto più asiatico-africana che europea. Come bisogna anche tener presente che, per quanto lavoriamo per la riforma della Chiesa, non potremo mai sentirci del tutto a nostro agio in essa: semplicemente perché un’istituzione di mille e trecento milioni di persone è impossibile che piaccia a tutti e a ciascuno, data la nostra diversità di esseri umani.
La pandemia ha risvegliato nei laici la consapevolezza del loro essere “popolo sacerdotale” e, quindi, l’esigenza di assumere ministeri ordinati?
Qui credo che ci siano problemi di linguaggio che possono rendere difficile il capirsi. Ti dico qual è il mio linguaggio: il laicato è l’unico popolo sacerdotale secondo il Nuovo Testamento, sottolineando che è un popolo «di ogni razza, lingua o nazione». Il ministero ordinato non è un ministero sacerdotale: il Nuovo Testamento chiama sacerdoti i ministri della Chiesa perché non c’è che un solo sacerdozio che è quello di Cristo, e ad esso partecipa allo stesso modo tutto il popolo di Dio. D’altronde, dire che il laico assume ministeri ordinati significa che egli cessa di essere laico, indipendentemente dal fatto che sia sposato o celibe. Ha una sua responsabilità nella Chiesa (condivisa con tutti, non solo con la mia personale); di questo si è preso coscienza dopo il Vaticano II in molti settori, e oggi ci sono buoni gruppi di laici ammirevoli in questo senso. Ciò che chiamiamo “ministero ordinato” (responsabile della comunità, prete o comunque si voglia chiamarlo, ma non sacerdote come ti ho detto) è una funzione che, oltre alla responsabilità di ogni battezzato nella Chiesa, riceve una missione importante: quella di essere creatore di comunità in quelle Chiese (o diocesi, o parrocchie) che serve.
Siccome questo è molto lungo da spiegare, mi permetto di rinviarti al libro Hombres de la comunidad (Uomini della comunità), che nella traduzione inglese (con molto più successo) è stato intitolato Builders of community (Costruttori di comunità). Forse ricordi che questo libro mi ha creato qualche piccolo problema con l’episcopato spagnolo di allora (1989); piccolo perché hanno riconosciuto che era dogmaticamente sicuro, ma creava una «grande preoccupazione pastorale» per paura che non suscitasse «vocazioni sacerdotali». L’interrogativo che mi rimase fu di sapere se si trattava di vocazioni “secondo l’ordine di Aronne” o “secondo l’ordine di Melchisedek”.
Bisognerà rivedere l’attuale prassi sacramentale, specialmente quella dell’eucaristia e della penitenza?
Oggi quando i temi teologici diventano popolari (cosa in sé buona) c’è la tendenza quasi inarrestabile che quando un’opinione presenta qualche difficoltà o qualche crepa, subito diamo assolutamente per certa l’opinione contraria. Questo è tipico della nostra difficoltà a vivere tranquillamente nella non conoscenza (e mi piace ricordare che Nicola Cusano definiva la teologia come «docta ignorantia»). Per questo preferisco dirti che non conosco la risposta alle domande che qui mi poni. Posso solo dire che le nuove tecnologie pongono dei problemi alla prassi sacramentale tradizionale e questo è un fatto che bisognerà studiare seriamente e con tutta calma.
Al momento possiamo difenderci con alcuni principi della teologia sacramentale più classica, del tutto ignorati da coloro che cercano risposte veloci e passano ad altro.
- Per esempio (te lo dirò in latino perché suoni più antiquato) “Deus non tenetur sacramentis”. Dio non è legato ai suoi sacramenti e può agire senza di essi e come vuole.
- Oppure “sacramenta propter homines”, che riprende qualcosa da Gesù che vale sia per il “sabato” di allora, come per l’economia di oggi, sia per la teologia: i sacramenti sono fatti per gli uomini, non gli uomini per i sacramenti.
- E il terzo è quel famoso “supplet Ecclesia”, quando ci siamo trovati davanti a un imprevisto garbuglio e abbiamo agito come potevamo senza sapere se bene o male, “supplisce la Chiesa”: perché i sacramenti non sono un atto del sacerdote ma della Chiesa (che è il sacramento originario) rappresentata in essi dal ministro.
Da parte mia, posso dirti per essere più concreto, che in questi giorni ho dato due assoluzioni attraverso il cellulare: in un caso non ho visto alcun problema perché mi è sembrato chiaro che negli atti assolti c’era una mancanza di libertà che impediva che fossero realmente peccato grave; credo pertanto che l’assoluzione non fosse necessaria e che le mie parole fossero piuttosto una forma di preghiera. Nell’altro caso ho dato l’assoluzione dietro espressa richiesta dell’interlocutore, spiegandogli prima per sua tranquillità che non è l’assoluzione ciò che dà il perdono: il perdono lo ha già dato Dio in antecedenza. Nell’assoluzione ciò che tu fai consiste nel ricevere questo perdono di Dio, riconciliandoti anche con la Chiesa di cui il sacerdote è rappresentante e che tutti i nostri peccati danneggiano e abbruttiscono: ecco perché nella prassi penitenziale primitiva il peccatore rimaneva un certo tempo fuori delle chiese, alla porta, e il giorno del perdono tornava a rientrarvi.
E quando (siccome questa prassi era molto dura) si generalizzò la confessione privata nella sua forma attuale, si spiegava che il sacerdote era lì come rappresentante della Chiesa, non come rappresentante di Dio. Perciò invalse l’uso, durante buona parte del Medioevo, di andare a confessarsi da un laico cattolico, quando non c’era a portata un presbitero. E questa pratica non fu proibita. Sant’Ignazio racconta nella sua autobiografia di avervi fatto ricorso prima di una battaglia. La ragione è che, come ha voluto chiarire il Vaticano II, la Chiesa è come il sacramento fontale (l’Ursakrament come diceva il teologo tedesco Semmelroth), da cui scaturiscono tutti gli altri sacramenti.
Inoltre, la teologia tradizionale insegnava che, assieme ai sacramenti, ci sono anche i cosiddetti “sacramentali” che non agiscono “ex opere operato” [“per il fatto stesso di aver fatto la cosa” anche se il ministro è in peccato], ma “ex opere operantis” [necessità della santità del ministro].
Prova a immaginarti adesso alcune monache di clausura che sono rimaste in questi giorni senza particole consacrate, si riuniscono con pane e vino, leggono la Parola e poi qualcuna recita il racconto della cena, spezzano il pane e si passano il calice. Hanno celebrato messa? No, e non l’hanno nemmeno preteso. Hanno celebrato un sacramento? Secondo la teologia classica, no, e non l’hanno nemmeno preteso. In nessun modo hanno voluto sostituirsi alla Chiesa né a chi è il suo rappresentante ufficiale; volevano solo celebrare e coltivare la loro fede. Non c’è qui qualcosa di analogo alla confessione ad un laico di cui si diceva prima?
Queste monache immaginarie non hanno voluto celebrare né ricevere alcun sacramento. Però possono aver celebrato un sacramentale, forse, le ha trasformate di più (ha dato loro maggior grazia) dei molti frati maschi che, meccanicamente, sono andati a comunicarle, se potevano… Dio non è legato ai sacramenti!
E, per concludere, ciò che rimane di questa domanda è che la teologia dei sacramenti è quella che meno si è evoluta dopo il Vaticano II: i sacramenti continuano ad essere ridotti a una specie di riti magici, anziché essere dei segni o simboli o finestre che si aprono ad un più-in-là qui presente e che, inoltre, sono intrinsecamente comunitari. Ho cercato di avviare qualcosa del genere in un quaderno di “Cristianesimo e Giustizia” intitolato “Simboli di fraternità”. Ma era solo un inizio.
Antonio Dall’Osto e Francesco Strazzari Settimana news 23 aprile 2020
www.settimananews.it/chiesa/la-chiesa-verra
Coronavirus. “Stress violento da quarantena”: minori vulnerabili, sos dei giudici
I giudici minorili hanno già coniato un neologismo che fotografa bene la situazione vissuta all’interno di tante famiglie in questi mesi di emergenza sanitaria: stress violento da quarantena obbligata. Sono le situazione ad alto rischio che si determinano quando, in un quadro spesso già compromesso, le persone sono costrette a cambiare le proprie abitudini, a condividere spazi spesso insufficienti, ad accettare dinamiche che anche prima dell’emergenza sanitaria erano sopportate a fatica. Facile intuire che, in questa situazione, violenze, maltrattamenti, episodi di grave intolleranza siano esplosi, anche se è impossibile stilare una statistica. Le due fonti più significative da cui arrivavano queste segnalazioni, la scuola e il servizi sanitari, sono state entrambe spente dal coronavirus, anche se per motivi diversi. Sono rimasti, a regime ridotto e con capacità di intervento variabile da regione a regione, i servizi sociali. Mentre per gli episodi molti gravi, quelli per cui era davvero impossibile non intervenire, sono serviti gli interventi delle forze dell’ordine. Eppure, anche in questa circostanza, i tribunali per i minorenni, bene o male, hanno retto. Anche se carenze strutturali e mancanza di risorse, più volte segnalate anche prima dell’emergenza sanitaria, hanno continuato a pesare in modo evidente su un sistema a cui servono riforme intelligenti per un cambio di rotta destinato a ripristinare quell’alleanza virtuosa tra giustizia, servizi e famiglie in difficoltà incrinata in passato da troppi casi negativi.
Lo spiegano tre magistrati impegnati in prima linea per la tutela dei minori: Ciro Cascone, responsabile della procura dei minorenni di Milano, Maria Francesca Pricoco, presidente dell’associazione dei magistrati minorili e responsabile del Tribunale dei minorenni di Catania, e Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna.
Quali difficoltà per la giustizia minorile a causa delle limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria?
Ciro Cascone: Scontiamo anni di mancati investimenti e tecnologie arretrate, il processo telematico, che già funziona egregiamente nel civile, non è ancora arrivato nella giustizia minorile. Abbiamo sistemi obsoleti. Questo ci lascia impantanati tra i faldoni. E quindi, avendo limitato l’accesso agli uffici, tutto è stato rallentato.
Maria Francesca Pricoco: L’emergenza sanitaria ha certamente provocato una rimodulazione della funzione di giustizia minorile. Alcune procedure, per l’urgenza devono però essere trattate (minori per esigenze di protezione allontanati dalla famiglia , minori stranieri soli e quelli tutelati nei procedimenti per abbandono ovvero che si trovino in situazione di grave pregiudizio ) nonostante le difficoltà obiettive registrare in alcuni tribunali, come locali inadeguati e la difficoltà di conciliare il divieto di assembramenti per le ragioni di sicurezza sanitaria sia al fine della trattazione delle udienze che per le camere di consiglio causa . Anche i servizi sociali hanno rallentato fortemente e, in alcune situazioni, sono stati costretti a sospendere le attività.
Giuseppe Spadaro: Dal mio osservatorio la preoccupazione più grande è rivolta ai minori che vivono, nell’attuale situazione, una condizione di accresciuta vulnerabilità se non di vero e proprio trauma, come quelli in famiglie con genitori violenti o maltrattanti ed esposti al rischio di violenza diretta o assistita, per i quali erano stati aperti procedimenti di sostegno e monitoraggio per evitare, ove possibile, l’affidamento provvisorio ad altra famiglia. Così come per quelli che, invece, vivono attualmente fuori dalla famiglia di origine e sono temporaneamente collocati in comunità o accolti da famiglie affidatarie nell’ambito di provvedimenti civili e, non ultimi, i minori inseriti nel circuito penale che, nella situazione emergenziale, hanno dovuto sospendere percorsi di istruzione e formazione, interrompendo importanti rapporti educativi con il mondo esterno.
Si sono verificati casi di maltrattamenti in famiglia o altre situazioni gravi su cui la giustizia non è stata posta nelle condizioni di intervenire?
Cascone – Le segnalazioni sono nettamente diminuite. Tante arrivavano dalle scuole, chiuse ormai da quasi due mesi, e dai servizi sanitari, impegnati in gran parte per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Anche da parte dei servizi sociali c’è stata una flessione. Certo, le situazioni pesanti, quelle segnalate dalle forze dell’ordine, emergono comunque. Alcuni interventi in base all’art.403 siamo stati comunque costretti a farli. Un ragazzo per esempio che ha aggredito in modo molto serio il fratello e il padre perché gli impedivano di uscire per incontrare la fidanzata. Oppure alcuni episodi pesanti di maltrattamento, violenza sulle donne a cui hanno assistito i minori (la cosiddetta violenza assistita), oppure situazioni di grave incuria.
Pricoco– Quando i servizi sociali oppure le forze dell’ordine sono riusciti a fare le segnalazioni, i tribunali si sono attivati e hanno avviato e trattato i procedimenti per l’immediata tutela dei minori. Il problema si verifica quando né servizi né forze dell’ordine riescono ad individuare le situazioni di grave pregiudizio. Allora anche per noi è molto difficile attivare tutte le procedure indispensabili per mettere in protezione bambini e ragazzi, assicurando loro tutte le garanzie di protezione, cura e di tipo educativo, che rimane il nostro obiettivo primario.
Spadaro: Pensando, in particolare, alle situazioni di urgenza e di grave pregiudizio dove si verificano condizioni di rischio conclamato e, nei casi più gravi, in presenza di circostanze che prefigurano ipotesi di reato quali maltrattamenti familiari, abusi, violenza assistita o gravi trascuratezze che possono comportare la necessità di un allontanamento temporaneo dalla famiglia di origine, mi associo all’allarme lanciato di recente dalla Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, perché anche nel nostro territorio molte comunità educative e terapeutiche hanno difficoltà ad accogliere nuovi ospiti per il rischio di contagio o, in alcuni casi, per problemi sanitari e di sovraccarico lavorativo degli operatori presenti. Nell’ambito dell’applicazione delle indicazioni volte a limitare spostamenti e contatti fra le persone, devo aggiungere che si registrano difficoltà nel caso degli “incontri protetti” o più in generale dei possibili contatti tra i minori già accolti in affidamento familiare o in strutture residenziali e le loro famiglie di origine. Non sfugge la discrezionalità con la quale, pur tenendo conto sempre dei casi concreti, sono valutate le situazioni dove tali contatti sono da ritenere strettamente necessari e indifferibili ovvero, con non poche incertezze, è opportuno posticiparli a data successiva al termine dello stato di emergenza.
Tanti genitori si sono lamentati a causa della sospensione degli incontri protetti. Come avete risolto questi problemi?
Cascone – Fino al 20 marzo le strutture erano in difficoltà e abbiamo dato suggerimenti per tutelare gli ospiti ed evitare nuovi focolai di infezione. Sono stati limitati gli incontri, ma sono state date indicazioni per agevolare agli incontri virtuali in tutte le modalità. Una scelta che ha determinato un po’ di confusione e qualche protesta. Ma abbiamo fatto la scelta giusta. Cosa sarebbe successo se fosse esploso un focolaio in una comunità di minori? Anche nelle carceri minorili purtroppo hanno reagito male. Ma non c’erano alternative, pur nel massimo rispetto per questi genitori e per la loro sofferenza.
Pricoco: i tribunali per i minorenni sono rimasti attivi, pur in mezzo alle difficoltà. È evidente però che servano risorse maggiori e strumenti per interventi di sostegno anche di tipo psicologico e sanitario (ci sono minori che non hanno potuto seguire trattamenti di psicoterapia, per il recupero del linguaggio e di accompagnamento educativo). Ci sono state segnalate difficoltà anche per i minori all’interno delle comunità, oltre a criticità per i minori in collocamento protetto nell’ambito di programmi per il recupero della genitorialità. L’autorizzazione concessa ad alcuni minori per rientrare nelle proprie abitazioni durante il fine settimana, ha determinato preoccupazioni e paure. Si è temuto per il contagio. In alcuni casi si è scelto, in ottemperanza alle normative d’urgenza, di non farli spostare, potenziando le attività educative all’interno delle strutture e le comunità hanno incrementato i contatti con i familiari attraverso i mezzi telemetrici. Tutte nuove difficoltà che i tribunali per i minorenni hanno dovuto gestire. Ma con le risorse e gli organici di sempre e la mancanza di strumenti e di formazione informatica per il personale.
Spadaro: Compatibilmente con le difficoltà organizzative preesistenti, anche dai servizi sociali competenti sono stati attivati, in tutti i casi dove ciò sia possibile, forme di contatto regolare telefonico o attraverso altri strumenti telematici, quali ad esempio video chiamate, offrendo la possibilità ai genitori di tenersi in contatto e di ricevere messaggi, con l’obiettivo di non interrompere contatti o relazioni in corso con bambini e famiglie esposte a condizioni di particolare vulnerabilità. Anche i nostri Uffici si sono da subito attrezzati per promuovere ed attivare collegamenti da remoto per lo svolgimento delle principali funzioni giurisdizionali, con particolare attenzione ai casi urgenti. Il nostro sistema della tutela minorile, già attraversato prima dell’emergenza sanitaria da gravi circostanze che ne hanno messo in luce limiti e disfunzioni, a maggior ragione in una fase di inevitabile palingenesi deve affrontare con lucidità e determinazione alcuni nodi strutturali come il rinnovato sostegno alle famiglie per prevenire la necessità di ricorrere agli allontanamenti, a partire dalla riforma delle relative norme esistenti compresa la disciplina dei procedimenti giudiziari in materia di responsabilità genitoriale, assicurando agli uffici giudiziari minorili e ai servizi sociali le risorse necessarie.
Luciano Moia Avvenire 23 aprile 2020
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/minori-vulnerabili-sos-dei-giudici
L’obbedienza e la responsabilità. La prima è cosa giuridica, la seconda etica
Bisogna leggerli per rendersi conto di qualcosa di meraviglioso e, al tempo stesso, di patologico nel rapporto tra governo e cittadini. Parlo dei Dpcm – i Decreti del presidente del Consiglio dei ministri, acronimo del nostro tempo, misterioso e minaccioso – sul contenimento della diffusione dell’infezione virale. Sono testi meravigliosi nel senso etimologico della parola: stupefacenti. Mi riferisco all’idea di base: che le abitudini, le attività e le esigenze materiali e spirituali delle persone siano materia inerte, modellabile come cera fin nei più piccoli dettagli. Modellabile attraverso atti d’autorità che aprono e chiudono, concedono e vietano, impongono e consigliano, disapprovano, esortano e raccomandano.
L’essere umano non come persona naturalis capace di autodeterminazione, ma come persona legalis forgiata dalla legge: l’ideale del giuridicismo estremo. Nelle 70 pagine dell’ultimo Dpcm con i suoi allegati c’è il disciplinamento di buona parte delle nostre giornate, in casa propria, per strada, nei luoghi di lavoro e di ricreazione, nelle scuole, nei negozi, nei ristoranti e nelle mense, nei parchi pubblici e nel modo di sedere e di salire e scendere dai mezzi di trasporto, eccetera. Leggiamo di divieti di spostamento, di obblighi di distanziamento, di modalità di comportamento super-dettagliate perfino sul modo di starnutire, soffiarsi il naso, collocare le mascherine tra il mento e il naso medesimo. Le situazioni personali e personalissime, come la deambulazione e l’esercizio fisico, le occasioni di socialità come nei ritrovi amicali nelle case, nei servizi funebri, nelle cerimonie religiose e nei raduni in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono oggetto di minutissima descrizione e regolamentazione. Le attività industriali, commerciali e professionali sono distinte in categorie dettagliatissime, dagli estetisti e parrucchieri ai lavoratori negli iper-mercati e nelle fabbriche. Leggiamo ammirati questa enciclopedia. Gli storici che, nel quarto millennio, si chiederanno come si viveva nel nostro inizio del terzo, troveranno in questo documento una summa che esaudirà e quasi esaurirà le loro curiosità. Apprenderanno che c’erano passeggiate solitarie e in coppia, cinematografi, teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi scommesse e bingo, discoteche e locali assimilati (?).
L’insidia del virus epidemico è invasiva al massimo grado e, dunque, la risposta non può essere grossolana e generica. Questo è ovvio. Tanti, anzi tantissimi, sono i momenti e i luoghi dell’esistenza che offrono occasioni all’infezione. Giusto che si faccia attenzione a tutte le pieghe in cui il contagio può insinuarsi e riprodursi. Solo certi giuristi credono, però, che le abitudini di vita si possano cambiare a colpi di decreti: le abitudini si cambiano con altre abitudini, non soltanto con le leggi. In qualunque società libera, le leggi senza le abitudini soccombono o, comunque, durano poco. Prima o poi, la loro efficacia, senza la collaborazione dei cittadini, perde mordente e rischia di finire come le grida impotenti del tempo di un’altra epidemia, quattrocento anni fa. Già ora si riscontra, nei discorsi e nelle condotte del tempo del coronavirus, un distacco, un’indifferenza e un’insofferenza crescenti. All’allentamento del timore o anche all’abitudine al pericolo corrisponde l’allentamento dei comportamenti.
C’è perfino un inizio di teorizzazione in nome della libertà: che m’importa della salute e addirittura della vita se mi si priva della libertà? Nobilissimo è l’argomento. Ignora però, e questo è molto meno nobile, il piccolo particolare che nelle infezioni epidemiche in gioco non c’è solo la propria salute, la propria vita, la propria libertà, ma anche quella degli altri. È la tipica situazione “olista” in cui bene e male del singolo e di tutti si convertono l’uno nell’altro. L’argomento della libertà, come dotazione individuale, non vale. È un prezzo che la libertà individuale paga alla “globalizzazione”, la globalizzazione dei rischi. Non c’è oggi una questione di “deriva autoritaria” o di “corsa ai pieni poteri”, secondo categorie ricevute dal passato e usate per interpretare il momento presente.
Almeno così mi pare. Anzi, mi paiono eccessivi e, talora, anche ridicoli gli alti lai sulla democrazia sospesa, sulla Costituzione violata, sui proclami al Paese di stampo peronista del presidente del Consiglio, eccetera. Mi chiedo quanto ci sia di esagerato e di strumentale in questi “al lupo, al lupo” e quanta incomprensione della natura del problema che abbiamo di fronte a noi. La critica, piuttosto, mi pare debba essere indirizzata altrove: in quella pretesa di trasformarci in persone modellate giuridicamente, di cui si diceva all’inizio, come se la virtù del buon cittadino sia di essere semplicemente un “osservante” che s’inchina a un legislatore onnipossente. In una società libera e di fronte a problemi dove il bene dei singoli e il bene di tutti si implicano strettamente, la legge incontra limiti di efficacia se non può contare sulla partecipazione responsabile di ciascuno e di tutti. E questa è una questione etica.
Orbene, i Dpcm da cui siamo partiti mescolano vere e proprie prescrizioni giuridiche, con annessa comminazione di sanzioni, a consigli ed esortazioni che, evidentemente, di giuridico hanno poco o nulla ma riguardano l’assunzione di condotte autonome e responsabili. Bene sarebbe distinguere: una cosa è l’ubbidienza, altra cosa è la responsabilità. Il difetto è la confusione. La prima è cosa giuridica, la seconda è cosa etica. I mezzi per promuovere l’ubbidienza non sono quelli per promuovere la responsabilità. Anche quest’ultima implica doveri, ma sono doveri autonomi che ciascuno impone a se stesso in nome della libertà propria e degli altri, in nome cioè della solidarietà. Mescolare ubbidienza e responsabilità è cosa contraria alla natura dell’una e dell’altra, come mescolare soggezione e adesione, vincolo e libertà. Chiamare all’ubbidienza e sollecitare la responsabilità sono cose profondamente diverse. A ciascuno il suo: al governo le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e imporre), alla società nelle sue tante articolazioni, la promozione dell’etica della responsabilità.
Gustavo Zagrebellsky “la Repubblica” 30 aprile 2020
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2020/04/30/lobbedienza-e-la-responsabilita01.html?ref=search
https://francescomacri.wordpress.com/2020/04/30/lobbedienza-e-la-responsabilita-la-prima-e-cosa-giuridica-la-seconda-etica/#more-55588
Ripartenza: sette pagine da voltare
Si parla ormai insistentemente di ripartenza, dopo la gelata delle attività sociali ed economiche imposta dall’emergenza sanitaria. La deriva più facile è quella di tornare agli assetti e alle abitudini di prima, ma il risveglio sociale che attendiamo con ansia potrebbe essere l’occasione per voltare pagina su aspetti qualificanti della nostra vita personale e collettiva.
Più inclusione. Provo quindi a proporre un’agenda in sette punti per il post-emergenza, combinando elementi descrittivi con le aspirazioni che mi sembrano più condivisibili tra quelle emergenti.
- Il primo punto muove da una delle più avvertite esperienze della crisi da pandemia: nessuno può salvarsi da solo. Abbiamo scoperto, se ne avevamo bisogno, che siamo legati inestricabilmente gli uni agli altri, compresi coloro che meno vediamo e consideriamo: addetti alle pulizie, operatrici socio-sanitarie di base, fattorini delle consegne, magazzinieri, cassiere, edicolanti e tanti altri. Tra cui molti immigrati, fra l’altro, il cui apporto non è stato finora adeguatamente riconosciuto. L’auspicio è che la gratitudine permanga, che il senso di comunità persista, che i confini dell’inclusione si allarghino. Una maggiore giustizia economica e sociale ne sarebbe la logica conseguenza politica.
- Meno liberismo. Al primo punto se ne collega un secondo: la domanda di più stato sociale, di servizi pubblici migliori, di maggiore protezione contro gli squilibri del mercato e le minacce imprevedibili del mondo globale. Questa tendenza può assumere connotati regressivi, di ripiegamenti nazionalisti o derive autoritarie. Ma sembra oggi soprattutto porre in discussione l’ortodossia neo-liberista che ha preso il sopravvento in gran parte del mondo dagli anni Ottanta del secolo scorso. Abbiamo riscoperto i beni comuni, la sanità per prima, e compreso che libero mercato da solo non è in grado di produrli, almeno non per tutti e in misura corrispondente ai bisogni effettivi, compresi quelli non solvibili. Un nuovo equilibrio tra stato, mercato e società civile è richiesto dalla dura lezione della pandemia. Non sappiamo ancora come configurare questo rapporto, ma ne avvertiamo la necessità. Tra i beni comuni da tutelare e promuovere sono riemerse la scienza, la ricerca, le competenze esperte, dopo una stagione di delegittimazione e definanziamento.
- Meno povertà. Il nuovo senso di comunità e la riscoperta dello stato sociale coinvolgono un terzo aspetto: un investimento consistente e determinato nella lotta alla povertà. Abbiamo assistito a una grande ondata di generosità in queste settimane, con organismi e iniziative ecclesiali in prima fila, insieme a un’impressionante discesa in campo di migliaia di volontari. C’è da sperare che questa mobilitazione di risorse spontanee prosegua, ma la politica dovrebbe necessariamente farsi carico della dimensione strutturale della questione. Il piano Marshall di cui si parla dovrebbe porre tra le sue priorità lo sradicamento della povertà e la costruzione di alternative alla precarizzazione delle condizioni di vita di troppe famiglie e persone. Evitando di contrapporre alcuni poveri ad altri poveri, magari sulla base della cittadinanza o dell’anzianità di residenza. Tra stato e mercato, al terzo settore dovrebbe spettare un ruolo di rilievo nella ricucitura del tessuto sociale, nella risposta all’esclusione, nel coinvolgimento dei cittadini nella realizzazione di una società più solidale e coesa. Tra le povertà da combattere va sottolineata l’emarginazione degli immigrati in condizione irregolare. Da molte parti sono state avanzate richieste di emersione: per ragioni non solo economiche (braccia per l’agricoltura e per altri settori), ma anche sanitarie (vite da proteggere, contagi da evitare) ed etiche (no alla cultura dello scarto), una manovra di regolarizzazione appare urgente e necessaria.
- Più ecologia. Pensare di vivere sani in un mondo malato è un’illusione, come ha richiamato papa Francesco. Nell’enciclica Laudato si’ il legame tra il futuro dell’umanità e quello del mondo naturale era già stato, del resto, esemplarmente illustrato. Il quarto punto dell’agenda quindi investe una rinnovata sensibilità ambientale. Se non mancherà chi pretenderà meno vincoli ecologici e più libertà d’inquinare per accelerare la ripresa, bisognerà rispondere che la ripresa dovrà essere più verde, oppure non durerà, lasciando alle future generazioni un mondo ancora più devastato. Comincerei per esempio con una mobilità urbana più ecologica, per chi ne ha la possibilità, giacché i trasporti pubblici per un pezzo non saranno molto popolari.
- Più smart working. Gli ultimi tre punti dell’agenda passano dalla dimensione macro, delle grandi scelte politiche, alla dimensione micro, dei nostri comportamenti e stili di vita. Il quinto punto propone pertanto: più lavoro «agile» o smart working che dir si voglia. Certo, molti di noi desiderano tornare al lavoro, ritrovare colleghi, occasioni di scambio e rapporti sociali che vanno oltre la sfera meramente professionale. Ma ci siamo anche accorti che forse non tutte le riunioni sono necessarie, o quanto meno non richiedono la presenza fisica, che non tutti i lavori vanno svolti in un ufficio, che si può discutere e decidere anche da lontano. La combinazione tra lavoro tradizionale e lavoro a distanza ha subito un’accelerazione a causa del blocco degli spostamenti, destinata probabilmente a ripiegare solo in parte. Il telelavoro pone certo nuove sfide, come la sovrapposizione tra ufficio e casa, tra compiti lavorativi e compiti familiari. In altri termini, non è detto che lavorare avendo bambini in casa o anziani da accudire sia sempre una benedizione. Senza contare la perdita di socialità, di rapporto quotidiano con il mondo esterno. Ma si sono aperti nuovi spazi di negoziazione, e forse di scelta, sulle forme, i tempi, i vincoli organizzativi di molti lavori.
- Più relazioni. Ecco quindi il sesto punto, che in parte compensa il precedente: riaperti i luoghi dello scambio sociale, anche se con gradualità e prudenza, saremo nella condizione di guardare con occhi nuovi alle relazioni interpersonali. Potremo riscoprire e apprezzare il grande dono degli incontri che costellano le nostre giornate e le arricchiscono. Il sesto punto dell’agenda recita: più investimento nelle relazioni con gli altri.
- Più qualità nell’uso del tempo. La prospettiva si allarga, nel punto finale, ai nostri rapporti con il tempo e con lo spazio, per molti di noi urbano. Non credo alla retorica della lentezza e magari del distacco dal nostro indaffararci quotidiano. Credo anzi che tornati più o meno alla normalità dovremo correre per recuperare il tempo perduto, per rispondere alle legittime attese di quanti si aspettano qualcosa da noi e dal nostro lavoro. Prendere la vita con lentezza mi pare comporti deresponsabilizzazione e inaffidabilità. Ciò che mi sentirei invece di proporre va nella direzione di una maggiore qualità nel nostro uso del tempo e della città: una maggiore selettività nei nostri investimenti di energie e di dedizioni. Avendo azzerato o quasi l’agenda dei nostri impegni, forse possiamo ora cercare di ricostruirla con più saggezza e attenzione. Senza dimenticare i punti precedenti.
Maurizio Ambrosini, sociologoRe blog maggio 2020
https://re-blog.it/2020/05/04/ripartenza-sette-pagine-da-voltare/?utm_source=newsletter-mensile&utm_medium=email&utm_campaign=202008
Il primo maggio ricordiamoci delle donne costrette a scegliere tra famiglia e lavoro
Storicamente considerate personale intermittente, si chiamano quando serve, si rimandano a casa quando la necessità svanisce. E ora con il covid-19 la politica si è scordata di loro. Rieccolo qui il Primo Maggio, con l’obbligo canonico di ricordare il lavoro. Qui lo vorremmo celebrare da donne lavoratrici, che a qualcuno sembrerà un punto di vista minoritario ma riguarda la metà del Paese (anzi un po’ di più). Sappiamo tutte che le italiane hanno un accesso paritario al lavoro da pochissimo tempo: fino ai ’60 erano escluse per legge da settori importanti come la magistratura, fino al 2003 non esisteva una donna prefetto. Quel che spesso sfugge è che pure nei lavori manuali, dove da un secolo sono presenti in massa, le donne sono state storicamente considerate personale intermittente, in termini marxisti si direbbe “l’esercito industriale di riserva”. Si chiamano quando serve, si rimandano a casa quando la necessità svanisce. Servivano durante le guerre mondiali, con gli uomini al fronte, e quindi furono fatte saldatrici, meccaniche, camioniste, operaie di ogni specializzazione. Finite le guerre, stop: nel ’47 cattolici e Cgil rivendicavano addirittura un salario familiare (da corrispondere agli uomini, ovviamente), per “permettere alla donna sposa e madre la tranquilla dedizione alla cura della famiglia”.
Perché ne parliamo? Perché siamo di nuovo lì. Magari il Covid non è stata una guerra, ma la politica l’ha interpretata così fin dall’inizio e alla fine le dinamiche belliche sono scattate a dispetto di qualsiasi ragionamento avverso. La più interessante riguarda il nostro esercito industriale di riserva, che fra tre giorni si troverà in larga parte costretto a scegliere tra l’abbandono dei figli (legarli in casa? Stordirli col sonnifero?) e il ritorno sul posto di lavoro. Sappiamo già cosa sceglierà, ovviamente. L’esercito di riserva resterà a casa usando le aspettative se ne ha diritto e le preghiere a Santa Rita, la Santa dei casi impossibili, in mancanza di meglio.
La differenza col ’47 è che adesso non è previsto né richiesto neanche il mitico salario familiare: la donna “sposa e madre”, ma anche non-sposa e madre, si attacca e basta. Speriamo per lei che abbia un capo comprensivo, o due lire messe da parte: nei ragionamenti sull’emergenza le sue difficoltà e problemi sono semplicemente spariti, come se si trattasse di un trascurabile sotto-gruppo del mondo dell’occupazione, i toelettatori canini o i pescatori a mosca. Persino la protesta se le è dimenticate. I cartelli contro la Fase 2 portati da Fratelli d’Italia sotto Palazzo Chigi citavano parrucchieri, gestori di agriturismi, fioristi, tassisti, ballerini, agenti immobiliari, ma “madri lavoratrici” no, di quelle non si è fatto parola né nelle stanze del governo né nelle piazze della contestazione.
La questione dei figli, peraltro, è stata a lungo giudicata dalla cultura italiana come un difetto genetico delle lavoratrici. Un tempo, quando la maternità coincideva con le nozze, veniva debitamente sanzionata da specifiche norme. Fino al ’55 nei contratti d’assunzione era legale la “clausola di nubilato” che consentiva il licenziamento delle donne che si sposavano. Una circolare ministeriale la dichiarò illegittima, ma continuò a essere applicata fino al ’63, quando per iniziativa della senatrice socialista Lina Merlin (sì, quella dell’abolizione delle case chiuse) fu approvata una norma che la vietava in modo esplicito. Ora la clausola torna ad agire in modo più sottile perché ad attivarla non sarà il datore di lavoro – siamo pur sempre nel 2020, la cosa susciterebbe disagio – ma le madri stesse, con una semplice telefonata: “Mi spiace, ma non posso tornare. Ho i bambini a casa e nessuno che li guardi”.
È un Primo Maggio complicato, insomma, per molte ragazze e signore del nostro esercito di riserva. Anche per questo gli auguri sono più sinceri del solito e l’invito a non rassegnarsi è più caloroso. Il lavoro, lo stipendio, l’indipendenza economica, sono la prima e più autentica forma di libertà: non rinunciateci.
Flavia Perina Linkiesta 1 maggio 2020
www.linkiesta.it/2020/05/1-maggio-festa-lavoro-donne-casa-bambini/
La famiglia al tempo del coronavirus. I risultati di una ricerca
Quasi il 75% dei genitori è preoccupato e spaventato. Ma nel clima d’emergenza scatenato dal coronavirus, i figli sembrano più responsabili. Il tempo passato insieme aumenta e i ragazzi si aprono inoltre a una nuova relazione con gli adulti, sempre più coinvolti con la loro vita scolastica. Resta per loro l’ansia e la paura di madri, padri e bambini, ma i ragazzini si dimostrano più maturi. Almeno questa è la fotografia di uno studio sui giorni della convivenza forzata del Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica, coordinato dalla professoressa Emanuela Confalonieri. La ricerca è stata realizzata dal 23 marzo al 31 marzo 2020 e che cerca di esaminare la percezione del rischio da parte delle famiglie e il modo in cui i genitori stanno affrontando questa situazione nella relazione e nella comunicazione con i loro figli. I partecipanti sono 301 genitori, tutti residenti in Lombardia (età media 43,6 anni), per lo più madri (89%). I partecipanti hanno in media 2 figli ciascuno. Il 43% ha almeno un figlio di età inferiore ai 5 anni, il 42% ha almeno un figlio di età compresa tra i 6 e i 10 anni, il 27% ha almeno un figlio di età compresa tra gli 11 e i 13 anni, il 24% ha almeno un figlio di età compresa tra i 14 e i 18 anni e il 18% ha almeno un figlio di età superiore ai 18 anni.
Preoccupazioni dei genitori. Un primo studio, realizzato dallo stesso gruppo di ricercatori nell’ultima settimana di febbraio e nelle prime due settimane di marzo, aveva registrato una preoccupazione minore delle famiglie. A fine marzo è cresciuta la percentuale dei genitori che si dichiara in ansia e preoccupato rispetto all’attuale situazione sanitaria legata: il 23% lo è moderatamente, mentre il restante 77% lo è in modo elevato.
Anche la paura di essere ricoverati e di esserlo in terapia intensiva si è innalzata, circa un terzo del campione si dice moderatamente preoccupato e un terzo molto preoccupato. Circa un terzo del campione si dice moderatamente preoccupato di rischiare di morire o che muoia il figlio, mentre solo il 20% è molto preoccupato.
Comportamenti ed emozioni dei figli. I ricercatori hanno cercato di capire come reagiscono i ragazzi alla situazione. Il 53% dei genitori ha dichiarato di aver notato dei cambiamenti nei comportamenti e/o nello stato emotivo dei propri figli. Fra i ragazzi fino a 12/13 anni c’è una crescita di ansia, nervosismo irritabilità, rabbia: madri e padri li descrivono come “degli uccellini in gabbia”, “elettrici”. Sono inoltre più preoccupati per sé, ma soprattutto per gli altri, chiedono di più la presenza del genitore. Inoltre cercano di evitare telegiornali e notizie.
Raccontano che “in tv trasmettono solo dati di persone morte” e in molti chiedono agli adulti cosa sia la morte, se si può tornare indietro e perché le persone malate non possono salutare i loro familiari. I ragazzini non vogliono più sentir parlare di morte e sentono la mancanza di nonni e amici
Più responsabili. Ma esiste anche un elemento positivo che è una maggiore attenzione reciproca, un maggior senso di responsabilità in famiglia. Con i figli più grandi, oltre a ansia e preoccupazione, citate appaiono stati d’animo come malinconia, apatia, disinteresse, una strana accettazione passiva della situazione. Tendono a giocare di più on line, sentono la mancanza di uscire con gli amici, alcuni sono insofferenti per la reclusione, altri non vogliono proprio uscire di casa, forse più in apprensione dei genitori stessi. Anche loro però appaiono più aperti e interessati al dialogo coi genitori e al confronto. I principali stati emotivi riscontrati sui ragazzi sono la preoccupazione (45%) l’interesse (44%), seguiti dall’indifferenza (22%) e dalla tristezza (21%).
Genitori più coinvolti nella vita dei figli. Il 43% dei partecipanti ha osservato un cambiamento nel rapporto con i propri figli. La quasi totalità dei partecipanti riferisce di essere coinvolto nella relazione con loro e sente che sono i figli stessi a coinvolgerlo maggiormente, rispetto alla normalità, nelle loro attività (46%). Nella relazione con i figli, i partecipanti riferiscono di essere affettuosi (94%) e comprensivi (92%). Circa un terzo del campione si percepisce come ansioso nella relazione con loro (35%) e/o irritato (30%).
La scuola. L’80% dei partecipanti al sondaggio riferisce inoltre di essere coinvolto nell’attività didattica ed educativa che viene proposta ai figli dalla scuola. In particolare i figli seguono lezioni online in diretta (55%), assegnazione di compiti (51%) e lezioni in streaming (26%).
Il 40% dei genitori con figli non ancora in età scolare, riferisce anche di essere coinvolto nell’attività ludica proposta dalla scuola. Il 35% dei partecipanti riferisce che queste attività hanno una ricaduta sullo smart working, principalmente perché è richiesto il loro supporto per lo svolgimento dell’attività didattica e aiuto nei compiti assegnati.
Il 71% dei genitori è convinto che i metodi didattici consentono agli insegnanti di essere in una relazione educativa e di comunicare con i loro figli. E le famiglie parlano per lo più di insegnanti attivi, attenti e presenti che cercano nuovi modi per mantenere l’attenzione e tenere alto il grado di coinvolgimento, “mantenendo così buone relazioni affettive, momenti di comunicazione e dialogo positivo ed empatico che non è solo didattica”. E questo vale anche per i bambini più piccoli, per i quali video, saluti e attività sono molto importanti “per non dimenticare le loro educatrici, per tenerli attivi”.
Le difficoltà degli insegnanti. Non mancano anche criticità con problemi di natura gestionale organizzativa come la mancanza di organizzazione e la poca dimestichezza nell’uso degli strumenti per la didattica on line che non consente una buona strutturazione dell’attività proposta. In alcuni casi gli insegnanti si limitano ad assegnare i compiti e materiale da studiare senza spiegazioni aggiuntive.
Alcuni genitori segnalano di sentirsi troppo caricati della responsabilità educativa sentendosi loro gli insegnanti dei loro figli costretti a spiegare e presentare i compiti e gli argomenti nuovi. Per alcuni infine il contatto umano è troppo ridotto, c’è poca empatia, e gli insegnanti vengono percepiti come distaccati e asettici.
Valeria Pini la Repubblica Riflessioni F. Macri 27 aprile 2020
https://francescomacri.wordpress.com/2020/04/27/la-famiglia-al-tempo-del-coronavirus-i-risultati-di-una-ricerca
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DALLA NAVATA
IV Domenica di Pasqua. Anno A – 3 maggio 2020
Atti Apostoli 02, 14. [Nel giorno di Pentecoste,] Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».
Salmo 22, 03. Rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
1Pietro 02, 25. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.
Giovanni 10,03. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori
Il pastore che chiama ogni pecora per nome
A sera, i pastori erano soliti condurre il loro gregge in un recinto per la notte, un solo recinto serviva per diversi greggi. Al mattino, ciascun pastore gridava il suo richiamo e le sue pecore, riconoscendone la voce, lo seguivano (B. Maggioni). Su questo sfondo familiare Gesù inserisce l’eccedenza della sua visione, dettagli che sembrano eccessivi e sono invece rivelatori: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Quale pastore conosce per nome le centinaia di pecore del suo gregge e le chiama a sé a una a una? Per Gesù le pecore hanno ciascuna un nome, ognuna è unica, irripetibile; vuole te, così come sei, per quello che sei. E le conduce fuori. Anzi: le spinge fuori. Non un Dio dei recinti ma uno che apre spazi più grandi, pastore di libertà e non di paure. Che spinge a un coraggioso viaggio fuori dagli ovili e dai rifugi, alla scoperta di orizzonti nuovi nella fede, nel pensiero, nella vita.
Pecore che non possono tornare sui pascoli di ieri, pena la fame, ma “gregge in uscita”, incamminato, che ha fiducia nel pastore e anche nella storia, nera di ladri e di deserti, ma bianca di sentieri e di sorgenti. Il pastore cammina davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini. Non un pastore alle spalle, che grida o agita il bastone, ma uno che precede e convince, con il suo andare tranquillo che la strada è sicura. Le pecore ascoltano la sua voce. E lo seguono. Basta la voce, non servono ordini, perché si fidano e si affidano. Perché lo seguono? Semplice, per vivere, per non morire. Quello che cammina davanti, che pronuncia il nome profondo di ciascuno, non è un ladro di felicità o di libertà: ognuno entrerà, uscirà e troverà pascolo. Troverà futuro. Io sono la porta: non un muro, o un vecchio recinto, dove tutto gira e rigira e torna sui suoi giri. Cristo è porta aperta, buco nella rete, passaggio, transito, per cui va e viene la vita di Dio. «Amo le porte aperte che fanno entrare notti e tempeste, polline e spighe. Libere porte che rischiano l’errore e l’amore. Amo le porte aperte di chi invita a varcare la soglia. Strade per tutti noi. Amo le porte aperte di Dio» (Monastero di San Magno). Sono venuto perché abbiano la vita, in abbondanza. Questo è il Vangelo che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: lui è qui per la mia vita piena, abbondante, potente, vita «cento volte tanto» come dirà a Pietro. La prova ultima della bontà della fede cristiana sta nella sua capacità di comunicare vita, umanità piena, futuro; e di creare in noi il desiderio di una vita più grande, vita eterna, di una qualità indistruttibile, dove vivi cose che meritano di non morire mai.
www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-3-maggio-2020-p-ermes-ronchi
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DONNE NELLA (per la) CHIESA
Dittatura del ventre o codice materno?
«Adoriamo la perfezione, perché non la possiamo raggiungere; se l’avessimo ci ripugnerebbe. Il perfetto è il disumano, perché l’umano è l’imperfetto». Lo scriveva l’inquieto e geniale Fernando Pessoa, parole che oggi suonano come una profezia e un monito. Un monito, perché finora siamo andati avanti alla cieca sulla strada della fattibilità tecnica. La scienza e la tecnica ci dicono cosa si può fare, non cosa è meglio fare. E le due cose non necessariamente coincidono, anzi. Si è riusciti a scindere l’atomo, e questa è stata una conquista grandiosa, ma lanciare bombe atomiche non è stata cosa buona, benché tecnicamente possibile.
Ma facciamo un passo indietro, per non cadere in uno sterile moralismo. L’essere umano, a differenza degli animali, nasce incompleto. È “neotenico”, si dice, perché il processo di differenziazione degli organi e di raggiungimento della forma definitiva è lento e tardivo rispetto a quello di altri esseri viventi. Per questo è anche plastico, e a differenza degli (altri) animali, non si limita ad adattarsi, ma prende forma dando forma al mondo. È la sua “natura”: intervenire su di sé e sul mondo, anche attraverso la tecnica, che è uno sviluppo delle capacità squisitamente umane di fabbricare, formare, produrre, far essere. Per chi crede, un segno della somiglianza con Dio, che ha dato mandato al genere umano di portare a compimento la creazione.
Per l’essere umano, in ogni caso, la natura esiste solo in quanto “abitata”, cioè rivestita di senso e plasmata in forme sempre nuove, scriveva Romano Guardini. La “legge di natura” è la capacità dell’essere umano di intervenire sulla natura stessa. Siamo esseri simbolici, cioè culturali. Oggi il dibattito natura/cultura non può più essere letto in chiave ingenua, e soprattutto dualista. Il dualismo, secondo Guardini, è un “peccato originale metafisico”. Dire che l’uomo deve essere solo natura, o che deve emanciparsi dalla natura per essere solo cultura sono due parzialità egualmente assurde e mutilanti. Il dualismo, che è un tagliare ciò che è unito, finisce col legittimare mostruose separazioni: se posso separare corpo e mente, e se il corpo in questa separazione è svalutato, posso anche ridurlo a strumento della volontà, a materia manipolabile a misura delle intenzioni. Il dualismo platonico del corpo-carcere dell’anima, che anche il cattolicesimo ha per certi aspetti paradossalmente avallato, con la perdita degli orizzonti religiosi diventa corpo-materia a disposizione.
L’uomo è l’unico animale che non si accontenta di essere ciò che è, scriveva Albert Camus. Siamo esseri spinti oltre noi stessi; desideranti, autotrascendenti. Ma questa tensione all’oltre può assumere forme pienamente umane e forme disumane. Postumano, transumano sono termini relativamente recenti, portatori di una ambivalenza che non può essere affrontata solo dentro una prospettiva tecnica. Postumano può indicare il superamento di un “antropocentrismo dispotico”, come lo chiama Papa Francesco, dove la superiorità dell’uomo si è tradotta in sfruttamento scriteriato della natura e del mondo, che ora ci si rivoltano contro. Ma cadere nell’eccesso opposto, ovvero nell’equivalenza dell’essere umano rispetto ad animali, piante, artefatti tecnici è restare vittime della fallacia dualista: o sei tutto o non sei niente, o sei sovrano o sei un servo qualsiasi. Obliterare i confini tra persone e cose è rischioso, ci ricorda Jürgen Habermas, e non è un egualitarismo zoocentrico che renderà il mondo più vivibile.
Così per il transumano: andare oltre l’umano è, paradossalmente, tipicamente umano. In che modo e fino a che punto andare oltre, e se ogni “oltre” è legittimo, è anche questa faccenda umana: non possiamo lasciarla alle leggi autopoietiche della fattibilità tecnica. Bisogna perciò fare delle differenze. Penso, per fare un esempio che tutti conoscono, a Bebe Vio e a come la tecnica si è fatta alleata della vita contro la morte. Si chiama healing, significa curare per rigenerare, e così fare rinascere. Ma la tecnica fa molto di più che “riparare”: potenzia. Si chiama enhancement (innalzamento, accrescimento) ed è una dimensione fondamentale del transumano. Penso qui al sogno di fabbricare la vita in provetta, estendendo a tutti (quelli che potranno pagare) il diritto alla genitorialità, a prescindere da ogni altra considerazione: l’essere umano è entrato nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Come scrive Sylviane Agacinski, oggi «la medicina supera la sua missione terapeutica per assumere una funzione antropotecnica, che ci permette non solo di riparare ma di rettificare il corpo umano e persino di produrlo da zero». Già Hannah Arendt parlava dello sforzo per fabbricare l’essere umano in provetta come il tentativo di scambiare la vita ricevuta con un prodotto delle proprie mani. Trasformare il generare (che è relazione: con chi ci ha preceduto, con il partner, con la progenie) in fabbricare (che è estensione della volontà dell’io assoluto, sciolto dai legami) significa considerare il limite solo come impedimento, anziché occasione, per la libertà.
Ma che cos’è il limite? È la porta di accesso alla realtà: dove tutto è possibile niente è reale, scrive Miguel Benasayag. È davvero cancellando i limiti che si diventa più liberi? La tecnica fa meraviglie, ma procede con leggi proprie e quando si salda col sistema tecno-economico ci rende schiavi vendendo una libertà che è solo apparente. Anche la differenza di genere è un limite. Ivan Illich sosteneva che la scienza è doppiamente sessista: perché è un’attività dominata dai maschi e perché si fonda su categorie e procedure “neutre” (per le quali il femminile è un fastidioso punto di resistenza).
La tesi che cerco di esprimere è che la via dell’astrazione radicale, attraverso il superamento di ogni limite, quale quella che la tecnica suggerisce come condizione di libertà, è in realtà una via di alienazione, di trasferimento di dominio ad altri (al sistema tecnocratico) e quindi di schiavitù. E che l’antidoto a questa deriva non viene da una battaglia di principi ma dal riconoscere e saper vivere consapevolmente (e antidualisticamente) la concretezza delle tensioni che segnano l’esistenza umana, come quella tra la vita e la morte, o tra sé e altro da sé, o tra attività e passività. E anche tra maschile e femminile, non dimensioni biologiche ma simboliche tra le quali non c’è dualismo ma reciprocità. Ogni dualismo che contrappone; ogni rifiuto della differenza che la equipara a dominio; ogni tentativo di emanciparsi dal limite della natura in nome di un presunto “neutro” che la tecnica propone e impone, sono tutte vie destinate a produrre nuove e più potenti disuguaglianze, inedite e più sottili forme di dominio.
“Andare oltre” non è cancellare il limite, ma assumerlo. Il limite è dato dalla realtà che fa resistenza all’io; è dato dall’altro, ed è un limite benefico. Ci ricorda il senso della nostra precarietà e interdipendenza. Ma anche che noi non abbiamo un corpo, siamo un corpo. E questo corpo non può essere alienato (come da Dichiarazione dei diritti dell’uomo). In un contesto dove il neutro è un maschile mascherato, la femminilità diventa pericolosa: «Il desiderio di essere liberati dalla carne può essere letto come un desiderio maschile, il desiderio di liberarsi da questa carne femminilizzata» scrive Agacinski.
L’ultimo sogno della tecnica, fabbricare la vita, è il sogno di rendere pleonastico il contributo di reciprocità del femminile. Ed è proprio da qui che può venire oggi un nucleo di resistenza allo strapotere della tecnocrazia, e di riumanizzazione. Perché il codice materno reca iscritta l’alterità (e dunque il limite) nella propria matrice. Volersi liberare dalla “dittatura del ventre” è voler cancellare ogni limite, per disporre di tutto. E se abbracciamo questa logica, ci consegniamo a un potere più grande di noi e acconsentiamo a essere trattati come oggetti. L’altro ci mette di fronte al nostro limite e allo stesso tempo ci apre ad altro da noi. Questo è il movimento della relazione feconda e anche della fede: non c’è preghiera senza il senso della nostra precarietà (non a caso la radice è la stessa).
Ma la citazione iniziale di Pessoa è anche una profezia, perché il tempo che stiamo vivendo è uno schiaffo alla nostra hybris, al nostro pretenderci padroni della vita e artefici di immortalità. Proprio nel cuore dell’avanzatissima Europa un organismo piccolissimo viaggia a velocità istantanea sulle infrastrutture connettive che abbiamo costruito e risulta quasi impossibile da sconfiggere con armi tecniche. Anzi, gli ospedali diventano luoghi di contagio da covid-19. Da dispositivi di guarigione diventano focolai di diffusione, da strutture in cui si va a guarire a luoghi in cui si va a morire, soli.
Senza nessuna dietrologia apocalittica, non possiamo non lasciarci interpellare dal tempo in cui viviamo. La tecnologia è un’arma spuntata senza la responsabilità delle persone, senza la dedizione di chi sta in prima linea per curare chi sta male, senza la solidarietà per i più fragili, senza la reciprocità tra uomini e donne, giovani e anziani, sani e malati. Serve un miracolo oggi, ma non possiamo fabbricarlo. L’unico miracolo che possiamo fare sarà quello di continuare a vivere, difendere la fragilità della vita giorno per giorno (José Saramago).
Chiara Giaccardi, sociologa UCSC Milano 25 aprile 2020
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-04/donne-chiesa-mondo-cardinale-ouellet-romilda-ferrauto.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=NewsletterVN-
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ENTI TERZO SETTORE
Beneficenza contro il Coronavirus, superato il miliardo: e adesso?
La generosità degli italiani è l’anticorpo più veloce attivato contro il Covid-19. L’enorme manovra della solidarietà è partita dal basso subito: quantificarla con esattezza in euro è impossibile. Ma Buone Notizie ha analizzato, incrociato e comparato i dati forniti da diverse indagini.
Il risultato è la stima della più grande operazione di raccolta fondi di sempre: almeno 1,2 miliardi di euro in denaro, beni e servizi messi a disposizione da aziende, enti e cittadini. Senza queste risorse private, gli ospedali non avrebbero retto il colpo dell’emergenza. E non solo gli ospedali. Nei giorni scorsi anche Italia Non Profit ha diffuso i dati relativi alle molteplici iniziative realizzate a sostegno di ospedali e enti del Terzo Settore (ne avevamo parlato qui). Quali proposte e risorse potranno sostenere, nel medio e lungo periodo, il Terzo Settore e traghettarlo fuori dalla crisi?
Giulio Sensi, Corriere Buone Notizie, 5 maggio 2020
https://secondowelfare.it/terzo-settore/beneficenza-contro-il-coronavirus-superato-il-miliardo-e-adesso.html
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
“Nell’emergenza, il Paese ha retto anche grazie alle famiglie italiane: meritano un grazie”
Alla vigilia del flash-mob nazionale #graziefamiglie, Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, spiega al Sir il senso e la motivazione di questa iniziativa, ricordando che quello che hanno fatto le famiglie, chiuse in casa, “è inimmaginabile e non quantificabile sotto ogni aspetto”, e che, se il Paese ha retto, “ha retto grazie anche alle famiglie italiane: al pari di medici e infermieri, seppur in condizioni e luoghi diversi, attenendosi scrupolosamente alle indicazioni ricevute dal governo, hanno contribuito a fermare la diffusione del virus e il contagio”
“In questi giorni più volte gli italiani si sono ritrovati a ringraziare medici, infermieri e chiunque abbia dato un contributo, anche a costo della vita, per salvare e mandare avanti questo Paese. Domenica prossima vogliamo estendere questo grazie anche alle famiglie italiane. Anch’esse hanno compito casi gesti eroici”. Annuncia così, Gigi De Palo, presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, il flash-mob nazionale #graziefamiglie, in programma domenica 3 maggio. Un invito ad affacciarsi, per applaudire e ringraziare, ciascuno a suo modo e con il proprio stile: genitori, bambini e nonni che, non uscendo di casa, hanno dato un contributo decisivo al bene comune.
Sembra scontato ma quale è il senso e il perché di questa iniziativa?
Quello che hanno fatto le famiglie è inimmaginabile e non quantificabile sotto ogni aspetto. Mi riferisco ad esempio a tutte quelle famiglie chiuse in piccoli appartamenti costrette a convivere con non poche difficoltà; a quelle nelle quali i genitori si sono quotidianamente improvvisati, o ingegnati, a fare i maestri, i tecnici informatici, i fisioterapisti per i figli disabili. Tutto questo senza dimenticare le esigenze dei propri cari anziani, e soprattutto, portando avanti il proprio lavoro, da casa, senza orari o pause ristoro. Insomma, hanno fatto tanto. Ecco tutto questo non è scontato. Tutto questo va celebrato e ringraziato. Credo che se il Paese ha retto, ha retto grazie anche alle famiglie italiane.
Al pari di medici e infermieri, seppur in condizioni e luoghi diversi, attenendosi scrupolosamente alle indicazioni ricevute dal governo, hanno contribuito a fermare la diffusione del virus e il contagio. Le indicazioni senza qualcuno che le incarna e le rispetta restano lettera morta.
Vero, eppure, rispetto alle vostre richieste, non mi pare ci sia stata ancora una risposta adeguata da parte del governo.
La famiglia è la grande assente nel decreto “cura Italia”. A mio avviso almeno 10 miliardi dei 75 complessivi stanziati dal governo potevano e dovevano essere destinati alle famiglie italiane con figli. Quando abbiamo parlato di assegno unico ci è stato detto di aspettare il prossimo anno, ma il prossimo anno è arrivato per così dire in anticipo, e tenendo conto che ogni anno il bilancio dello Stato si aggira intorno ai 30 miliardi, è paradossale che ora, pur avendone a disposizione 75, non ce ne sia una parte da destinare alla famiglia.
Cosa vuol dire?
Vuol dire che non c’è la volontà politica di sostenere di aiutare la famiglia, la si considera un bel tesoro ma si fa poco per sostenerla. Se non si capisce che la prima causa di povertà è legata alla perdita di lavoro di un componente familiare e la seconda alla nascita di un figlio è grave, ed è grave perché non si ha la percezione del Paese reale. Le famiglie ora stanno vivendo tutto questo. Questa “mega manovra” tiene conto delle esigenze di diverse categorie di persone, ma non delle famiglie con figli. Facciamo un esempio. Gli 800 euro destinati a chi è titolare di una partita Iva sono appena sufficienti se chi li riceve vive da solo, magari in una casa propria, ma se è in affitto e se soprattutto è padre di uno, due o più figli quel contributo non basta. È come se i bambini fossero completamente scomparsi dall’orizzonte dello Stato e delle istituzioni, e non considerare i figli, forse non è l’unica, ma sicuramente è una delle ragioni alla base della crescente denatalità del Paese. La famiglia non è una categoria è il comune denominatore di ogni situazione.
Ci sono famiglie che sopravvivono grazie all’aiuto dei genitori e dei suoceri, magari pensionati, un ammortizzatore sociale del nostro tempo. Tra l’altro, questi 75 miliardi sono in deficit, vale a dire che graveranno per anni sui bilanci degli italiani e delle famiglie italiane. Per questo diciamo che l’assegno familiare o si fa adesso si rischia di abbandonarlo definitivamente.
Cosa fare allora?
Bisogna osare! Proprio nei momenti più difficili e di crisi è necessario fare passi importanti cosa che non vedo in questo momento, sempre in riferimento alla famiglia. Si poteva e si doveva semplificare. Le famiglie chiedono semplificazione, chiedono attenzione, chiedono una vita dignitosa. Se vai a fiaccare le famiglie non c’è futuro. Ecco perché abbiamo voluto dire grazie alle famiglie italiane. Vorrei che le famiglie facessero sentire all’Italia la loro voce. In fondo, basterebbe che il presidente Conte in conferenza stampa si ricordasse delle famiglie italiane, e magari dicesse loro un bel “grazie” per quanto fatto, da sempre e in particolare in questo periodo, nel silenzio e nel rispetto delle istituzioni. Fino ad ora non c’è stato neanche questo e allora, abbiamo deciso che l’applauso, almeno quello, ce lo facciamo da soli.
Amerigo Vecchiarelli AgenziaSIR 2 maggio 2020
www.agensir.it/italia/2020/05/02/coronavirus-de-palo-forum-famiglie-nellemergenza-il-paese-ha-retto-anche-grazie-alle-famiglie-italiane-meritano-un-grazie
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Omelia della celebrazione mattutina
Preghiamo oggi per i governanti che hanno la responsabilità di prendersi cura dei loro popoli in questi momenti di crisi: capi di Stato, presidenti di governo, legislatori, sindaci, presidenti di regioni… Perché il Signore li aiuti e dia loro forza, perché il loro lavoro non è facile. E che quando ci siano differenze tra loro capiscano che, nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo, perché l’unità è superiore al conflitto.
Francesco, 2 maggio 2020
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200502_lecrisi-occasioni-diconversione.html
Il papa sconfessa i vescovi: obbedire alle disposizioni
«Obbedienza alle disposizioni». Con tre parole pronunciate ieri mattina durante la messa a Santa Marta, il papa rimette in riga la Conferenza episcopale italiana e getta acqua sulle fiamme della polemica attizzata dai vescovi contro il governo che non ha ancora dato il via libera alle messe con la partecipazione dei fedeli.
«In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena – ha detto papa Francesco prima di cominciare la celebrazione –, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e della obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni».
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200428_laverita-dellatestimonianza.html
Contenuti e toni nettamente diversi da quelli della Cei di domenica sera, che accusava la Presidenza del consiglio di aver preso una decisione «arbitraria», denunciava la limitazione dell’«esercizio della libertà di culto» e affermava che «la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale».
Le parole del papa devono essere arrivate forti e chiare negli uffici di Circonvallazione Aurelia, se poco dopo è lo stesso portavoce della Cei, don Ivan Maffeis, a fornire un’interpretazione meno barricadiera e più conciliante della nota dei vescovi. «In quelle parole non c’era volontà di strappare col governo», spiega, ma solo di esprimere «delusione» e «amarezza di fronte al fatto che con la ripartenza di attività considerate giustamente strategiche per la vita del Paese non ci venisse riconosciuta la possibilità di tornare ad abitare le nostre chiese nel rigoroso rispetto delle norme».
Quindi nessuna «fuga in avanti», ma «avanti col dialogo costruttivo». Infatti il dialogo fra Palazzo Chigi e Segreteria generale della Cei procede, ora anche agevolato dall’intervento da pompiere del papa. Sono allo studio dei protocolli per accelerare la ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo: cerimonie all’aperto, riduzione della capienza nelle chiese per permettere il distanziamento fra i fedeli, igienizzazione delle mani all’ingresso, no allo scambio della pace, distribuzione delle ostie consacrate evitando il contatto fisico. Il via libera dovrebbe arrivare per il 18 maggio, lo stesso giorno in cui riapriranno negozi, biblioteche e musei. Se invece sarà prima, l’11 o addirittura domenica 10 maggio come auspicano i vescovi, la sparata della Cei sarà riuscita a forzare il governo a costruire una corsia preferenziale per le messe.
La questione non riguarda solo i cattolici, ma anche le altre confessioni religiose (la scorsa settimana è cominciato il Ramadan per i musulmani), che invece sembrano escluse dal dibattito pubblico e dal dialogo con le istituzioni. La Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, per mezzo del suo presidente, il pastore Luca Negro, chiede al governo che «la ripresa venga almeno calendarizzata e non lasciata all’ultimo posto». Toni simili anche dal presidente dell’Ucoii (Unione comunità islamiche in Italia), Yassine Lafram: «È importante continuare a rispettare le disposizioni del governo per superare l’emergenza, ma chiediamo fermamente che vengano messe a disposizione il prima possibile delle misure ad hoc che permettano ai fedeli di partecipare alle preghiere congregazionali in condizioni di sicurezza». Più deciso l’imam Yahya Pallavicini, presidente del Coreis: non consentire le celebrazioni religiose è una «scelta politica» del governo, che decide di «dare priorità alle attività produttive e non ritiene di dare la stessa priorità, anche graduale e controllata, all’esercizio della libertà religiosa».
Tornando alla Chiesa cattolica, che quelle di papa Francesco non siano state parole estemporanee bensì una mossa deliberata per alleggerire le tensioni – e anche prendere le distanze dai vescovi italiani –, lo dimostra L’Osservatore Romano. Se infatti alla polemica Cei-Conte il quotidiano della Santa sede ha dedicato un articolo di cronaca decisamente asettico («Il governo italiano annuncia la fase 2. Graduale riapertura dal 4 maggio»), l’edizione di oggi apre con un titolo a tutta prima pagina: «Prudenza e obbedienza perché la pandemia non torni». Un invito rivolto agli oltranzisti cattolici pronti alle crociate, ai preti che radunano i fedeli clandestinamente e dicono messa di nascosto e a immarcescibili cardinali, come Ruini, che ieri ha detto al Giornale: il governo «si è arrogato competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana, ora ha il dovere di rivedere le sue posizioni».
Luca Kocci “il manifesto” 29 aprile 2020
https://ilmanifesto.it/search/Il+papa+sconfessa+i+vescovi%3A+obbedire+alle+disposizioni
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GENITORIALIETÀ ARTIFICIALE
Cassazione. Maternità surrogata: sui “due papà” la parola alla Corte Costituzionale
La Cassazione strappa, sconfessa se stessa e riapre il dibattito – umano e giuridico – sulla possibilità per due uomini di essere riconosciuti entrambi, dall’Italia padri di un bimbo. Lo ha fatto con un’ordinanza depositata ieri, in cui ha devoluto la questione alla Corte Costituzionale. Ovviamente, i due uomini non possono essere entrambi genitori secondo natura. E infatti, anche in questo caso, uno di loro è assolutamente estraneo alla fecondazione dell’ovulo: semplicemente, è parte del contratto di maternità surrogata, attraverso il quale ha scelto con il compagno la donna che avrebbe fornito gli ovociti, e allo stesso modo – sostanzialmente su un catalogo – quella in cui sarebbe stato impiantato per la gravidanza l’embrione ottenuto in provetta. Questa pratica, in Italia, è vietata dalla legge 40 del 2004, che molti connazionali cercano di eludere attraverso l’espatrio temporaneo. Così, per lo Stato che fornisce loro questo “servizio” sono entrambi genitori, mentre nel Belpaese…forse. In effetti, dopo una serie di pronunce contrastanti, la stessa Cassazione sembrava aver posto un punto fermo sulla questione lo scorso maggio: con una sentenza pronunciata a Sezioni unite, e cioè in quella composizione plenaria le cui decisioni sono destinate a formare un precedente difficilmente sovvertibile, aveva stabilito che i componenti di una coppia dello stesso sesso non possono essere riconosciuti in Italia quali genitori di un bimbo. La pronuncia di ieri, invece, riapre la questione devolvendola alla Corte Costituzionale. Ed ecco la questione giuridica: quando una coppia ricorre alla maternità surrogata in un Paese che la consente, l’atto di nascita del bimbo menziona come genitori i due contraenti (cioè coloro che hanno sottoscritto il contratto di surrogazione). Perché però questa filiazione sia riconosciuta anche in Italia, serve la cosiddetta “trascrizione” dell’atto presso l’anagrafe del Comune di residenza. Una sorta di riconoscimento formale, insomma, imposto dal diritto internazionale con un breve elenco di eccezioni: tra queste, la contrarietà del documento rispetto all’ordine pubblico. Vale a dire ai principi fondamentali su cui si regge uno Stato.
Da qui la domanda: è tale la maternità surrogata? Sì, secondo la Cassazione, che già nel 2014 aveva spiegato come in gioco, in questi casi, ci fossero il supremo interesse del minore e la dignità della donna. Anzi, delle donne: di quella pagata per portare a termine la gravidanza, così come di quella che fornisce gli ovociti dietro un formale rimborso spese, ma che il più delle volte dissimula un vero e proprio compenso. Anche recentemente, con una sentenza dello scorso aprile, la Suprema Corte aveva ribadito il principio per cui due persone dello stesso sesso – donne, in questo caso, che si erano servite della fecondazione eterologa, all’estero – non possono essere riconosciute dall’Italia come entrambe madri. Ieri, però, il colpo di scena: tutto ciò premesso, la Cassazione ha aderito al dubbio di legittimità costituzionale di questo impianto sollevato dai ricorrenti, a loro avviso incarnato dalle norme che “non consentono secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestazione per altri del cosiddetto genitore d’intenzione non biologico”. Da qui, il rinvio alla Consulta per una parola definitiva. Un’altra ancora, dopo quella che la Cassazione aveva promesso come tale nel maggio dell’anno scorso.
Marcello Palmieri Avvenire 29 aprile 2020
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LITURGIA
Messa con vecchio rito: un teologo di Friburgo vede il rischio di una spaccatura
Il Vaticano ha cambiato disposizioni per la messa tridentina. Il prof. Martin Klöckener di Friburgo ritiene che i vescovi “non dovrebbero abituarsi semplicemente ad una situazione problematica”. La lotta per l’autorità e le competenze in Vaticano si arricchisce di un episodio: sotto papa Francesco è passato un cambiamento liturgico più consono al suo predecessore Benedetto XVI. Si tratta ancora una volta del tema scottante della messa tridentina.
Il Vaticano ha emanato in marzo delle disposizioni riguardanti la “forma straordinaria del rito romano”. Ci si riferisce alla liturgia che risale alla riforma del Concilio di Trento nel XVI secolo – e più specificamente all’ultima versione del 1962. Quindi preconciliare in testo e rito, tutta in latino, con il prete con le spalle rivolte al popolo. La variazione risale ancora a Benedetto XVI, è stato detto su diversi media. Vi si oppone una petizione di circa 200 teologhe e teologi. Sottoscritta anche da Martin Klöckener, professore di liturgia all’Università di Friburgo.
Lei è indignato. Ma si tratta poi solo di due decreti.
A mio avviso non ha alcun senso riformare la vecchia messa. Le variazioni ora introdotte si riferiscono a modelli del passato che il Concilio Vaticano II ha dichiarato superati per buoni motivi.
Si potrebbe dire che tale riforma riguarda pochi nostalgici. Dov’è il problema?
Benedetto XVI aveva disposto la riammissione della forma straordinaria del rito romano per contribuire in questo modo al superamento della spaccatura della Chiesa con i lefebvriani. Oggi, a 13 anni di distanza, sappiamo che questo tentativo è definitivamente fallito e che i membri della Fraternità San Pio X su questo punto non si sono mossi. Si è giunti addirittura ad un ulteriore inasprimento della contrapposizione.
Ritiene che questo tentativo sia un segnale rivolto alla Fraternità San Pio X?
I membri della Fraternità San Pio X sono scismatici, non fanno parte della Chiesa cattolica. Perciò tale tentativo nei loro confronti non è rilevante. Qui si tratta piuttosto di una attenzione alla liturgia preconciliare tutta interna alla Chiesa da parte di determinati ambienti influenti.
Questi ambienti mettono a repentaglio l’unità della Chiesa?
Vedo il pericolo di una spaccatura pastorale. Alcuni ambienti che usano questo rito rifiutano il Concilio Vaticano II. Ci sono seminari in cui viene insegnata anche la vecchia forma del rito. Questo crea difficoltà anche nei seminari e porta a spaccature nella formazione dei preti. Perché ogni rito ha anche qualcosa a che fare con l’identità della persona che lo fa proprio. Si tratta di immagini di Chiesa, di immagini di prete che sono in opposizione l’una con l’altra e anche di altre questioni fondamentali.
Le petizioni che anche lei ha co-firmato avranno probabilmente scarso effetto in Vaticano.
Non ne sono così sicuro. Intanto c’è già una reazione di un collaboratore della Curia. Certo, è stata redatta a proprio nome, ma questo mostra che la petizione è oggetto di discussione nella Curia.
I vescovi possono fare qualche cosa?
Spero che i vescovi prestino particolare attenzione a tali questioni e semplicemente non si abituino ad una situazione problematica. In fondo, la competenza per la liturgia nelle diocesi spetta ai vescovi. Con l’ammissione del rito tridentino nel 2007, Benedetto XVI aveva anche eluso questo diritto. I vescovi dovrebbero riavere questo diritto e decidere quale versione della liturgia può o meno essere ammessa nella loro diocesi.
Può darsi che papa Francesco dica, con un’argomentazione pastorale: se può aiutare le persone, fate pure.
Nella liturgia del Concilio Vaticano II si trova un potenziale enorme ed una ricchezza spirituale per molti bisogni pastorali. Io mi augurerei pure che molte di quelle cose trovassero migliore applicazione nella prassi pastorale-liturgica. Ma sono questioni che non si risolvono creando nuovi riti speciali.
Papa Francesco agisce talvolta in maniera più conservatrice di quanto non lasci presumere la sua immagine di riformatore.
Francesco ha ripetutamente chiarito di essere totalmente sulla linea del Concilio Vaticano II anche in ambito liturgico. Ci vedo qui all’opera piuttosto dei gruppi legati alla precedente commissione papale “Ecclesia Dei”. Francesco l’ha abolita e inserita nella Congregazione per la Dottrina della fede. Naturalmente, gli interessi di quegli ambienti non sono semplicemente scomparsi.
I tentativi sono venuti dalla Congregazione per la Dottrina della fede, non dagli esperti di liturgia in Vaticano.
Due congregazioni lavorano sullo stesso ambito con interessi differenti. È un esempio di spaccatura invece che di sintonia. Inoltre, bisogna anche porre la questione delle competenze specifiche.
La Congregazione per la dottrina della fede ha condotto un’indagine tra i vescovi a proposito della forma straordinario del rito romano. Come valuta questo?
Un’indagine di questo tipo era già annunciata in precedenti dichiarazioni. Che io sappia, non è stata inviata prima della pubblicazione dei due nuovi decreti. Ma non si deve vedere in questo alcun annuncio di soppressione della forma straordinaria del rito romano come temono certi ambienti ultraconservatori.
Ma?
Il Vaticano ha fatto spesso indagini di questo tipo tra i vescovi. Per il momento non ne trarrei assolutamente conseguenze di vasta portata.
Raphael Rauch “www.kath.ch” 3 maggio 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)
https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202005/200503klockenerrauch.pdf
I due fallimenti di “Summorum Pontificum” (ad extra e ad intra) e un altro “Magnum principium”
Nell’ambito delle obiezioni che sono state sollevate alla “Lettera Aperta sullo stato di eccezione liturgica”una si segnala per frequenza e per argomentazione.
www.cittadellaeditrice.com/munera/una-lettera-aperta-sullo-stato-di-eccezione-liturgica
www.cittadellaeditrice.com/munera/elenco-dei-firmatari-della-lettera-aperta-sullo-stato-di-eccezione-liturgica
La indico brevemente qui di seguito. Essa interpreta Summorum Pontificum (SP) [Benedetto XVI – 7 luglio 2007]
www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html
come un “argine” alle degenerazioni determinate dalla Riforma Liturgica: il fatto di affiancare ai nuovi riti frutto della riforma i riti precedenti avrebbe la funzione di “moderare” gli eccessi iconoclasti della riforma liturgica scaturita dal Concilio Vaticano II. Ovviamente questa lettura suppone una lettura accentuatamente unilaterale della storia successiva al Concilio, come se si trattasse di una “perdita” e di una “corruzione” o addirittura di una “catastrofe”. Comunque sia, questo può essere identificato come il “versante interno” delle intenzioni di Summorum Pontificum: da un lato esso infatti mirava a “recuperare” i transfughi lefebvriani (ad extra), ma dall’altro intendeva la liturgia scaturita dal Concilio Vaticano II (ad intra).
a) Liturgiam authenticam come premessa. E’ evidente che sia il prima che il secondo intento sono sostanzialmente falliti, ma per motivi diversi e anche con effetti differenti. Il secondo, infatti, non è fallito del tutto, almeno a medio termine. Perché la logica di SP era stata anticipata, qualche anno prima, da Liturgiam Authenticam (LA) [approvata da Giovanni Paolo II – 12 marzo 2001], la V istruzione sulla applicazione della riforma liturgica, che pretendeva di bloccare la evoluzione della “forma ordinaria” secondo una rigida “deduzione dal latino”. (in italiano solo un breve riassunto)
www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20010507_comunicato-stampa_it.html
www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20010507_liturgiam-authenticam_lt.html
Questo documento, che è di 6 anni precedente a SP, essendo del 2001, ha avuto un grande impatto su tutte le traduzioni dei testi liturgici, rendendole o incomprensibili o non approvabili. LA ha preparato il terreno a SP, facendo diventare la “liturgia in latino” l’unica vera forma comunicativa nella vita della Chiesa e gettando su tutte le traduzioni un “inferiority complex” che, con il tempo, le ha sostanzialmente emarginate. Se nella Chiesa si inizia a dire e a pensare che “solo in latino” è possibile capire davvero la liturgia, è evidente che non si riesce neppure a concepire che tutti i nuovi ordines siano stati pensati e scritti da Vescovi, preti e semplici fedeli di cui nessuno parla e pensa in latino! L’effetto “straniante” – o meglio alienante – della operazione è davvero impressionante. E molti, non tutti, si sono accodati a questa “deriva insensata”, per cui tutte le lingue “vernacole” devono essere il “calco del latino”, per cui se in latino c’è “pro multis”, in italiano si dovrebbe dire “per molti” e in tedesco “fuer viele”, e però poi si dovrebbe spiegare che “molti vuol dire tutti” e “viele vuol dire alle“.
b) Doppia forma e doppio tavolo. Dopo alcuni anni, nel 2007, il “versante interno” di SP ha inciso su questo “lato frenante” della riforma liturgica, che appare altrettanto rilevante quanto quello esterno. Ma se il progetto verso i lefebvriani è fallito per progressiva indisponibilità al dialogo da parte loro, il versante interno è imploso proprio a causa del “metodo” che è stato seguito. Il metodo dipende, evidentemente, dalla teoria della “doppia forma” dell’unico rito romano. Il metodo che ne discende pretende di lavorare, appunto, su “due tavoli”. Di modo che un tavolo possa influenzare l’altro. Ma qui c’è un ostacolo insormontabile. Se si costruisce una ipotesi di convivenza di “due forme diverse dello stesso rito romano” non si determina affatto un “interscambio” tra la forme, ma piuttosto le si irrigidisce ancor più, quasi condannando ogni forma a restare bloccata nella sua identità specifica. Così il rito straordinario “non vuole” diventare ordinario, e per converso il rito ordinario “rifiuta” ogni contaminazione con lo straordinario. Ed è qui che casca l’asino! Come è successo con i lefebvriani, così è capitato con la “riforma della riforma”. Come con i primi abbassare la asticella è solo servito a far alzare le loro richieste, e ad arrivare ad un nulla di fatto, così creare il modello di due “forme parallele”, e di “due tavoli” di esperienza e di confronto, ha solo irrigidito entrambe le parti ed ha quasi azzerato le possibilità di una vera evoluzione della forma ordinaria.
c) Un singolare criterio di scelta dei candidati all’episcopato. Va però aggiunto un secondo “effetto interno” di Summorum Pontificum, che non deve essere sottovalutato: SP non ha inciso solo sulle competenze episcopali, riducendo il loro controllo alla forma ordinaria ed esautorandoli di fatto dal controllo della “forma extraordinaria”, controllata direttamente dalla Commissione Ecclesia Dei, bensì un secondo effetto interno, indiretto ma per certi versi ancora più pesante, è stato l’utilizzo del “gradimento verso Summorum Pontificum” come criterio per selezionare i candidati all’episcopato. Sicuramente, tra il 2007 e il 2012 il fatto di “non aver parlato contro SP” è stato assunto come criterio di valutazione del presbitero episcopabile. E questo ha inciso, indirettamente, sul modo con cui il futuro vescovo sarebbe stato intenzionato a “prendersi cura” della liturgia diocesana. Anche su questo piano la incidenza di SP si è mossa nella direzione di una “esautorazione preventiva” nella nomina dei vescovi. Il che non appare proprio come la forma ideale di “pacificazione ecclesiale”.
d) Non due forme in contrasto, ma una forma comune differenziata. Se uniamo l’effetto ad extra e il duplice effetto ad intra, dobbiamo costatare purtroppo un esito talmente problematico, da far sorgere in noi la questione: come è potuto accadere? In effetti la astrattezza della teoria delle forme parallele – concepita come in provetta – ha subito la vendetta da parte della realtà. Se si vuole imporre un “modello duplice” di forme rituali, in vista di una riconciliazione ecclesiale, bisogna fare attenzione di non causare una più forte lacerazione, che si appoggia proprio sulla diversi dinamica celebrativa, che diventa emblema e vessillo di identità non compatibili. Non si è sufficientemente considerato, fin dall’inizio, che una “forma straordinaria” avrebbe attirato le attenzioni e i pensieri di tutti coloro che non accettavano il Concilio Vaticano II.
Superare questo regime è oggi un compito. Occorre porre fine allo “stato di eccezione liturgica”. Ma è legittimo chiedersi: come si può fare, concretamente? Alcuni ritengono, pessimisticamente, che ai fatti nuovi non si possa più rimediare. Io penso invece che il rimedio stia proprio nel superare la logica dei “due tavoli” e porre tutte le questioni sull’unico tavolo: quello dei riti riformati. Su quei riti il confronto è aperto e necessario. Il recupero dei “linguaggi elementari”, la forza del “non verbale”, le dinamiche di partecipazione corporea e la correlazione con la realtà viva del mondo e della storia sono tutti “cantieri aperti”. E lo saranno tanto meglio se non ci si illuderà più di condizionare la evoluzione non con il dibattito, il confronto e la discussione sull’unica forma del rito romano, ma giocando solo a “saltare” da un tavolo all’altro, con una crescente estraneità dell’uno all’altro.
Un altro “magnum principium” deve essere affermato: non solo quello della “partecipazione attiva” che valorizza le lingue madri di coloro che celebrano, ma anche quello dell’unica forma rituale comune e vincolante per tutta la Chiesa (“communis rituum forma”). La vera differenziazione rituale non può essere quella tra forma “ordinaria/straordinaria”, che in quanto tale paralizza ogni sviluppo possibile, ma quella di un’unica forma ordinaria che si declina e si differenzia in tutte le lingue madri degli uomini e delle donne: lingue composte di linguaggi verbali e di linguaggi non verbali, che fanno bella la Chiesa delle mille variazioni dell’unico mistero pasquale. Al centro non si colloca una “teoria vuota” sul parallelismo tra forme astratte, ma l’ “esperienza concreta” di un’unica forma comune, che si dice, si canta, si muove e si riconosce così: differente nell’unità e identica nella diversità.
Andrea Grillo blog: Come se non 27 aprile 2020
www.cittadellaeditrice.com/munera/i-due-fallimenti-di-summorum-pontificum-ad-extra-e-ad-intra-e-un-altro-magnum-principium
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NULLITÀ MATRIMONIALE
Omosessualità del coniuge e nullità del matrimonio
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza 7923, 20 aprile 2020
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_38202_1.pdf
La Corte di Cassazione sulla delibazione della sentenza di nullità. Non c’è discriminazione se appare che entrambi i coniugi abbiano avuto volontà di non rispettare diritti e gli obblighi del matrimonio. Un matrimonio durato 10 anni e da cui sono nati anche tre figli, ma il Tribunale Ecclesiastico acconsente all’annullamento. Una decisione su cui “pesa” l’omosessualità della moglie, orientamento sessuale dai giudici ecclesiastici valutato alla stregua di un “disturbo grave della personalità”, una “malattia” che avrebbe minato la sua capacità di libero consenso.
Omosessualità del coniuge e simulazione. Tale pronuncia potrebbe apparire “discriminatoria”, ma il giudice civile ritiene ugualmente di procedere alla delibazione in quanto la causa di nullità rilevata si atteggia in modo non dissimile dalla “simulazione” prevista dall’art. 123 c.c., norma che presuppone che entrambi i coniugi abbiano convenuto di non adempiere agli obblighi e di non esercitare i diritti da esso discendenti. Infatti, oltre al “grave difetto di discrezione” della moglie, anche il marito aveva manifestato dubbi in ordine “all’indissolubilità” del vincolo coniugale, oltre che per “grave difetto di discrezione” della moglie.
Una conclusione confermata anche dalla Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso del Sostituto Procuratore Generale contro il provvedimento della Corte d’Appello che aveva dichiarato efficace nella Repubblica italiana la sentenza del Tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio.
La decisione del Tribunale ecclesiastico “tra giudizio e pregiudizio”. Per il Sostituto Procuratore, la decisione del giudice ecclesiastico si muove “tra giudizio e pregiudizio” poiché fonda la nullità del matrimonio unicamente sull’omosessualità della moglie, in quanto “malattia” che ha minato la sua capacità di libero consenso. Tuttavia, per la Corte territoriale che si è pronunciata in contumacia della donna, la sentenza ecclesiastica non sarebbe stata in contrasto con i principi dell’ordine pubblico italiano in quanto la causa di nullità ritenuta sussistente sarebbe stata simile all’ipotesi della “simulazione” di cui all’art. 123 del codice civile.
Una conclusione che, secondo il ricorrente, viola il limite dell’ordine pubblico interno e internazionale, con riferimento al diritto fondamentale di vivere liberamente la vita sessuale e affettiva, sancito dalla Costituzione, dalla CEDU e dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché con riferimento al principio di non discriminazione.
La convivenza tra coniugi, pacificamente di durata ultra-triennale, e la nascita di tre figli appaiono circostanze univocamente indicative di una stabile situazione familiare di fatto allargata anche ai figli protrattasi senza particolari problematiche dal 1990 al 2000 atteso che solo alla nascita del terzo figlio la moglie aveva cominciato a “manifestare una crescente insofferenza nei confronti della vita coniugale”.
La tesi della Procura, che ritiene “discriminatoria” la pronuncia, viene tuttavia respinta dalla Corte di Cassazione che ritiene non fondata la censura sulla decisiva rilevanza dell’omosessualità della moglie nella decisione del Tribunale ecclesiastico e sui riflessi sulla violazione dell’ordine pubblico nazionale e sovranazionale.
Omosessualità del coniuge: nessuna discriminazione se c’è “simulazione”. Ciò in quanto nella sentenza impugnata si afferma che la domanda di nullità del matrimonio è stata accolta dal Tribunale ecclesiastico per “esclusione dell’indissolubilità da parte dell’attore” oltre che “grave difetto di discrezione di giudizio della convenuta circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente” e per “incapacità della convenuta ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio per cause di natura psichica”.
Ne consegue, secondo gli Ermellini, che la condizione soggettiva della moglie non è stata affatto l’unica ragione fondante la decisione del giudice ecclesiastico”, come affermato in ricorso. Valutato l’eventuale contrasto con l’ordine pubblico, la Corte territoriale lo ha escluso facendo riferimento all’ipotesi ritenuta non dissimile a quella della simulazione ex art. 123 c.c. che presuppone da parte di entrambi i coniugi la volontà di non adempiere gli obblighi e di non esercitare i diritti discendenti dal matrimonio.
Dunque, se il vizio di nullità del matrimonio è dipeso dalle condotte di entrambi i coniugi, in base a quanto accertato nella sentenza impugnata, non rivestono rilevanza alcuna, nella specie, il principio di non discriminazione o il diritto di vivere liberamente la vita sessuale ed affettiva nel senso prospettato in ricorso.
Lucia Izzo Studio Cataldi 22 aprile 2020
www.studiocataldi.it/articoli/38202-omosessualita-del-coniuge-e-nullita-del-matrimonio.asp
Come annullare un matrimonio
La procedura da seguire per ottenere l’annullamento del matrimonio civile e religioso. (…)
Il matrimonio è l’atto con cui due persone di sesso diverso costruiscono una stabile comunione di vita materiale e spirituale. Per contrarre un matrimonio, occorre che i nubendi abbiano:
- la maggiore età, cioè aver compiuto 18 anni. Tuttavia, in caso di gravi motivi, può contrarre matrimonio anche chi ha compiuto 16 anni (su autorizzazione del tribunale per i minorenni);
- la capacità naturale, cioè la capacità di intendere e di volere necessaria ad esprimere un consenso valido. Ad esempio, non può sposarsi chi è stato dichiarato interdetto;
- la libertà di stato: cioè la mancanza di un precedente vincolo matrimoniale. In altre parole non può sposarsi chi è già sposato con un’altra persona;
- la diversità di sesso: in Italia, le coppie omosessuali possono ricorrere all’unione civile.
Nel nostro ordinamento, sono previste le seguenti tipologie di matrimonio:
- civile: è il matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di Stato civile;
- concordatario: è il matrimonio celebrato in chiesa davanti al sacerdote e regolarmente trascritto nel registro di Stato civile;
- canonico: il matrimonio religioso valido solo per Chiesa cattolica ma non per lo Stato;
- acattolico: il matrimonio celebrato da un ministro di culto non cattolico (ad esempio, ebreo) e che produce effetti civili qualora trascritto nel registro di Stato civile.
Cos’è l’annullamento del matrimonio? L’annullamento determina la perdita di efficacia del matrimonio, come se lo stesso non fosse mai stato celebrato.
Per il matrimonio canonico è errato parlare di annullamento, dal momento che la Chiesa non può annullare un matrimonio che si è costituito validamente in quanto si tratta di un sacramento indissolubile. Tuttavia, in presenza di determinati requisiti, è possibile ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio canonico. In pratica, la Chiesa dichiara che il consenso espresso da uno dei due nubendi (o da entrambi) non è valido e di conseguenza che il matrimonio è stato nullo fin dall’inizio.
Il matrimonio civile può essere annullato in caso di:
- impedimenti assoluti o relativi: ad esempio, per difetto di età, per mancanza di libertà di stato, per rapporti di parentela o affinità tra nubendi ecc.;
- vizi della volontà: si pensi, ad esempio, all’errore sulla identità del coniuge oppure alla violenza posta in essere per costringere taluno a contrarre matrimonio, ecc.;
- l’incapacità naturale, permanente o transitoria, di uno dei coniugi al momento della celebrazione del matrimonio;
- la simulazione: ad esempio, quando una persona si sposa solo per far ottenere al coniuge straniero la cittadinanza italiana. In questo caso, si parla di matrimonio simulato.
Il matrimonio canonico, invece, può essere annullato in caso di:
- simulazione: quando una persona pur acconsentendo al matrimonio in realtà non ha alcuna intenzione di sposarsi;
- esclusione della prole: ossia il rifiuto categorico di voler procreare i figli durante il matrimonio;
- esclusione della fedeltà: si pensi al soggetto che si sposa convinto di poter avere il cosiddetto “matrimonio aperto” e quindi pronunci la frase “mi sposo, tanto posso sempre divorziare”;
- incapacità per mancanza di sufficiente uso di ragione: ossia coloro che, per assunzione di alcool, sostanze stupefacenti o farmaci oppure per schizofrenia, paranoia, ecc. sono incapaci di autodeterminarsi liberamente in ordine alla scelta del matrimonio;
- incapacità per grave difetto di discrezione di giudizio: causata da gravi forme di nevrosi e psicopatie oppure da alcolismo e tossicodipendenza. Il soggetto, quindi, non è in grado di valutare bene i diritti e doveri che nascono dal matrimonio;
- errore sull’identità o sulla qualità della persona: si pensi, ad esempio, a Caia che contrae il matrimonio nella convinzione si sposare Tizio, invece sposa Sempronio (gemello di Tizio) oppure a Caia che sposa Tizio, nella convinzione di sposare un dirigente di banca quando invece Tizio è un semplice impiegato;
- violenza o timore: cioè quando una persona è stata costretta al matrimonio quando in realtà non voleva sposarsi.
Come annullare un matrimonio: la procedura.
Se intendi chiedere l’annullamento del matrimonio civile, dovrai rivolgerti ad un avvocato, il quale notificherà all’altro coniuge un atto di citazione e, se la convivenza è diventata intollerabile, anche una richiesta di separazione temporanea. Ovviamente, si instaura un processo, che può durare qualche anno, dove verranno sentiti testimoni, raccolte prove, disposte perizie, ecc. Se, invece, entrambi i coniugi sono d’accordo per l’annullamento del matrimonio, può essere promossa un’azione congiunta. Qualora le condizioni siano conformi alle norme di legge e rispondano all’interesse dei figli minori, il giudice convaliderà l’accordo.
Per ottenere la nullità del matrimonio canonico, invece, è necessario rivolgersi ad un avvocato ecclesiastico, il quale dovrà valutare se sussistono i presupposti per chiedere la nullità ai sensi del Codice di diritto canonico. In tal caso, provvede alla redazione dell’atto introduttivo (il cosiddetto libello) che viene depositato presso il tribunale ecclesiastico regionale del luogo di residenza della parte convenuta o dal luogo di celebrazione del matrimonio. Dopo il deposito del libello, il procedimento si snoda in più udienze durante le quali saranno sentiti i coniugi e i testimoni (di solito familiari e amici dei coniugi). Al termine dell’istruttoria, un collegio composto da tre giudici decide se la domanda di nullità del matrimonio è fondata oppure no.
Annullamento del matrimonio: quali sono gli effetti?
Nel momento in cui viene dichiarato l’annullamento del matrimonio civile, entrambi i coniugi riacquistano lo stato libero dalla data di celebrazione del matrimonio. Inoltre, vengono meno tutti gli obblighi derivanti dal matrimonio come ad esempio l’obbligo di coabitazione, di assistenza, di fedeltà, ecc. Inoltre, non è previsto l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento all’altro coniuge più debole dal punto di vista economico, a meno che:
- I coniugi non fossero in buona fede al momento della celebrazione, nel senso che non conoscevano le cause che hanno portato all’annullamento oppure se il loro consenso è stato estorto con violenza o timore. In questo caso, il giudice può riconoscere al coniuge che non dispone di redditi adeguati un assegno per tre anni (a condizione che non abbia contratto nuove nozze);
- Uno dei due coniugi era in buona fede. A quest’ultimo verrà riconosciuto un assegno di mantenimento per tre anni, o un importo a titolo di alimenti (sempre se non ci sono altri soggetti).
Va detto, infine, che la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico non produce effetti nell’ordinamento italiano. In altre parole, se dopo aver ottenuto la nullità del matrimonio canonico intendi sposarti nuovamente in chiesa, occorre che la sentenza venga resa esecutiva attraverso il giudizio di delibazione. Basterà presentare un ricorso o un atto di citazione – a seconda che la domanda provenga da entrambe le parti o da una sola – alla Corte d’Appello competente per territorio, la quale farà una valutazione sulla sussistenza dei requisiti, senza scendere nel merito della questione. Con la delibazione, il matrimonio canonico è come se non fosse mai stato celebrato e tu sarai libero di sposarti nuovamente in chiesa.
Se entrambi i coniugi erano in buona fede oppure il loro consenso è stato estorto con violenza o timore, allora gli effetti del matrimonio valido si producono fino alla sentenza che pronuncia la nullità. Il matrimonio contratto in malafede da entrambi i coniugi, invece, produce effetti solo rispetto ai figli nati o concepiti durante lo stesso.
La legge per tutti 1 maggio 2020
www.laleggepertutti.it/369907_come-annullare-un-matrimonio
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SEPARAZIONE
Gli accertamenti patrimoniali nei procedimenti di separazione e divorzio
Quali sono gli accertamenti patrimoniali che il giudice può delegare alla Polizia Tributaria nell’ambito dei procedimenti in materia di famiglia. Come è noto, nei procedimenti in materia di famiglia, segnatamente nell’ambito delle separazioni e dei divorzi, uno degli aspetti sui quali maggiormente le parti in giudizio si trovano in contrapposizione tra loro è la determinazione delle condizioni economiche relative al mantenimento dei figli minori o del coniuge.
Le controversie sulle condizioni economiche. [Nello specifico, sovente una delle parti prospetta al giudice che la posizione economica e patrimoniale del proprio coniuge sia differente da quella da esso allegata in giudizio, perché, ad esempio, quest’ultimo svolge attività lavorativa in nero; percepisce rendite familiari non dichiarate o è l’effettivo proprietario di beni (o attività redditizie) formalmente intestati a terze persone. Invero, il codice di rito non fornisce particolari indicazioni in merito al contenuto del ricorso ed alle allegazioni documentali delle parti e la mancata allegazione delle dichiarazioni dei redditi non produce alcuna conseguenza negativa per la parte negligente. Infatti, anche se in molti Tribunali con l’emanazione del provvedimento di fissazione dell’udienza presidenziale i coniugi vengono invitati a depositare documenti comprovanti la loro effettiva consistenza patrimoniale e reddituale, spesso le parti non vi ottemperano o producono una documentazione incompleta e/o non veritiera.
Gli accertamenti di polizia tributaria. Per tale ragione, spesso risulta necessario, ai fini di un’equa determinazione degli obblighi economici da porre a carico delle parti, procedere a mirati accertamenti di polizia tributaria nei confronti del soggetto le cui dichiarazioni reddituali vengono contestate. La suesposta necessità, però, si scontra con la circostanza che il processo civile è informato al c.d. principio dispositivo. In altri termini, il giudice nell’assumere le proprie determinazioni in ordine all’ istruzione della causa deve basarsi su quanto prospettatogli dalle parti – sulle quali incombe l’onere della prova – non potendo assumere in merito iniziative autonome.
Nel caso di specie, quindi, egli non può disporre, neanche su richiesta di una delle parti, accertamenti patrimoniali di carattere meramente esplorativo. Per converso, egli avrà la facoltà di attivare indagini di carattere patrimoniale solamente quando dalla documentazione a lui sottoposta emergano elementi che facciano desumere una sproporzione tra l’effettivo tenore di vita di una delle parti e quanto dichiarato. Di conseguenza, la parte che intenda richiedere nell’ambito di un procedimento di separazione o di divorzio l’espletamento di accertamenti patrimoniali dovrà fornire al giudice indizi, anche di natura presuntiva, idonei a fondare la domanda.
Gli accertamenti delegabili d’ufficio dal giudice. Come anticipato, il giudice può disporre indagini di Polizia Tributaria quando elementi idonei a fondare il sospetto di una sproporzione reddituale gli vengano forniti da una delle parti o siano desumibili dagli atti processuali già depositati. Tuttavia, nel momento in cui egli delega gli accertamenti patrimoniali gode di pieni istruttori potendo, ex art. 155 c.c. (relativo ai provvedimenti riguardo ai figli in caso di separazione o divorzio) estendere gli stessi anche a terze persone che ritiene detengano o siano intestatari (come prestanome) di beni o attività direttamente o indirettamente riconducibili ad una delle parti in causa ed avendo, altresì, la facoltà – ai sensi del D.L. 132/2014 – di attivare ricerche telematiche finalizzate alle indagini patrimoniali, avvalendosi all’uopo anche dell’ anagrafe tributaria dell’ Agenzia delle Entrate.
Per quanto concerne gli elementi che la parte può prospettare al giudice al fine di richiedere le indagini patrimoniali, essi devono essere funzionali a ricostruire l’effettivo tenore di vita del nucleo familiare in costanza di matrimonio. Ad esempio, potranno essere prodotti in giudizio: scontrini; quietanze relative al canone d’ affitto o al mutuo bancario della casa coniugale; ricevute di alberghi atte a provare la frequenza di viaggi di piacere e bollette delle utenze domestiche ecc. Alcuni Tribunali hanno ritenuto idonee a fondare il sospetto di una sproporzione tra reddito effettivo e dichiarato anche le fotografie presenti sui social network ritraenti i coniugi in località di villeggiatura esclusive. Inoltre, possono essere assunte al riguardo anche prove testimoniali volte a dimostrare il tenore di vita del nucleo familiare (es. esplicitando la frequenza di uscite e cene di lusso o quali modelli di autovettura fossero nella disponibilità dei coniugi).
In linea generale, le indagini patrimoniali vengono delegate dal giudice alle articolazioni territorialmente competenti della Guardia di Finanza e vengono, solitamente, esperite mediante due differenti metodologie operative: l’ acquisizione di documentazione afferente la consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare dell’ investigato, e l’ assunzione di informazioni da soggetti potenzialmente in grado di riferire relativamente alla reale situazione patrimoniale della parte (che viene espletata in prima persona dal giudice).
Nel primo caso, quindi, si procederà all’ acquisizione (ed alla successiva analisi) di tutta la documentazione presente presso i pubblici registri (Conservatorie dei Registri Immobiliari, Pubblico Registro Automobilistico ecc) ed alla ricerca di conti correnti bancari, titoli azionari ed obbligazionari. Si procederà, per di più, ad appurare l’eventuale titolarità o disponibilità di carte di credito o debito riferibili a conti corrente intestati a soggetti terzi e la consistenza dei depositi bancari nei tre anni precedenti il processo. Sarà oggetto di verifica, altresì, anche l’eventuale partecipazione del soggetto investigato a società o la sua organicità a consigli d’ amministrazione. Inoltre, si procederà ad analizzare la dichiarazione dei redditi della parte, con specifica attenzione alle singoli di voci. In particolare, nel caso in cui risultino emesse fatture di acquisto o di spesa risulterà necessario verificare l’esistenza delle prestazioni ad esse sottostanti.
Tuttavia, attesa la difficoltà di individuare mediante la mera analisi documentale eventuali patrimoni non dichiarati, sovente si rende necessario procedere all’esame testimoniale dei soggetti informati su eventuali beni ed attività intestati a terzi ma riconducibili alla parte (ad. Es. clienti di un negozio di cui è notorio essere il gestore che possono riferire sui prezzi praticati e sull’indicativo volume di affari).
I mezzi a disposizione della parte. Ovviamente, anche la parte, nei limiti delle facoltà attribuite dalla legge ai soggetti in causa di far valer i propri diritti, potrà esperire direttamente alcune attività di accertamento finalizzate a ricostruire l’effettiva consistenza patrimoniale del proprio contraddittore.
In primo luogo, qualora non riuscisse a procurarsi alcuni documenti ritenuti utili allo scopo (es. dichiarazione dei redditi) potrà chiedere al giudice di emettere un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. o l’acquisizione di atti prodotti nell’ambito di altro giudizio.
Inoltre, la parte potrà anche conferire un incarico ad un investigatore privato autorizzato volto ad appurare l’effettivo tenore di vita del coniuge, le cui risultanze verranno relazionate in un report che pur non acquisendo autonomo valore probatorio sarà idoneo a fondare, unitamente alle eventuali fotografie allegate, la successiva testimonianza dell’investigatore privato stesso.
Infine, la parte potrà direttamente chiedere al giudice di assumere la testimonianza di terze persone in possesso di informazioni utili a ricostruire l’effettiva attività lavorativa svolta o la consistenza patrimoniale della controparte.
Le conseguenze fiscali degli accertamenti. Le risultanze degli accertamenti patrimoniali effettuati nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio possono essere poste a fondamento di un successivo accertamento ad opera dell’amministrazione fiscale. Invero, sia la Guardia di Finanza sia il giudice civile hanno l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate gli esiti delle attività esperite in merito a sproporzioni tra reddito dichiarato e reddito effettivo. Sovente, difatti, tali vicende processuali rappresentano la scaturigine di contestazioni fiscali, contenziosi tributari o, addirittura, procedimenti penali. Nondimeno, giova al riguardo precisare che ai fini della legittimità dell’eventuale recupero d’ imposta l’amministrazione finanziaria deve rispettare tutte le tutele previste dalla normativa tributaria a favore del contribuente come, ad esempio, i termini di decadenza del potere di accertamento e l’instaurazione di un contraddittorio preventivo tra Fisco e contribuente.
Vittorio Guarriello –Studio Cataldi 30 aprile 2020
www.studiocataldi.it/articoli/38181-gli-accertamenti-patrimoniali-nei-procedimenti-di-separazione-e-divorzio.asp
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TEOLOGIA
Teologia «pop» e comunicazione
From Angels to Aliens, uno studio di Lynn Schofield Clark, ha indagato il modo in cui gli adolescenti cercano le proprie identità spirituali e religiose, attingendo spesso a narrazioni, immagini e personaggi della cultura pop, cioè propri di quelle espressioni artistiche di vario tipo che hanno avuto diffusione di massa a partire dalla seconda metà del Novecento. Gli anni dell’adolescenza, forse più di altri periodi della nostra vita, segnano un momento di esplorazione dell’identità e, al tempo stesso, della propria collocazione all’interno di gruppi di pari. La studiosa ha notato come gli adolescenti alla ricerca di un senso religioso attingessero alla cultura pop indipendentemente dal loro livello di istruzione religiosa: questi processi esplorativi erano ricorrenti in tutti i vari gruppi di adolescenti oggetto della sua ricerca, che andavano dai «resistenti» (quelli a cui la religione organizzata non interessava, o che addirittura le erano avversi) agli «sperimentatori» (quelli che indagavano un elemento che consideravano un regno soprannaturale) e ai «coinvolti» (quelli che aderivano alla religione organizzata). Molti materiali utili per questa ricerca le sono stati forniti dalla cultura televisiva, che la studiosa ha esaminato insieme a quegli adolescenti.
Clark ci offre importanti indicazioni sul modo in cui le persone creano narrazioni religiose nella propria vita. Alcune di esse nascono in gruppi collegati a un’esperienza con il sacro o a un vissuto di conversione o a una tradizione. Senza dubbio le organizzazioni confessionali propongono alcune di quelle che potremmo definire «narrazioni pubbliche» della religione, che danno una certa legittimazione a determinate storie e pratiche, mentre ne delegittimano altre. Resta però il fatto che il singolo individuo si ritiene autorizzato a decidere personalmente che cosa considerare «religioso» o «spirituale», e queste definizioni a volte includono credenze e pratiche che possono stupire chi dà per scontato un collegamento più diretto fra la religione istituzionale e l’identità «religiosa» o «spirituale».
Certamente efficace è quello che Clark definisce il modello della «cultura come strumentario», una sorta di cassetta degli attrezzi, costituita da concetti o idee della cultura «popolare», che ciascuno utilizza come vuole per configurare il proprio io. Uno dei suoi punti di forza è che esso libera le singole persone da una sorta di posizionamento socio-economico, o anche religioso, all’interno della società e sottolinea il fatto che le azioni individuali avvengono «in relazione alle pratiche, o alle abitudini: non soltanto quelle del singolo, ma anche quelle condivise da molti, in quanto coerenti con modi di vedere il mondo che diamo per scontati». D’altra parte, questo modello può accentuare eccessivamente l’idea che l’individuo sia tutto, dimenticando che la cultura non è separata da noi. «Le narrazioni della cultura popolare, come quelle delle sue religioni, spesso incarnano significati che i loro membri non riescono a esprimere».
I media sono polisemici. Prima di iniziare la fase analitica, la studiosa rinnova il suo monito riguardo ai contesti. Non c’è dubbio che esaminare i rapporti tra espressione pop e credo religioso sia importante, e tuttavia affermare che la prima cambi direttamente il secondo equivale a negare il modo in cui i media tendono a riflettere i valori culturali nell’atto stesso di rappresentarli. Ciò non vuol dire che i media non siano influenti. Dobbiamo però riconoscere che i programmi televisivi e i film sono polisemici, cioè aperti a molti livelli di interpretazione: da quello più ovvio e letterale a quello metaforico e mitico. Lo studio di Clark attesta il fatto che i giovani da lei esaminati – e, per estensione, molte altre persone –, nella ricerca di un significato più ampio della loro esistenza, non esitano ad attingere – anche inconsciamente – alla cultura popolare. Nel libro Understanding Theology and Popular Culture, Gordon Lynch aggiunge a questa intuizione alcune precisazioni teoretiche. Egli propone quattro grandi aree di sovrapposizione:
- Come la religione si collega con la vita quotidiana;
- Come la cultura popolare svolge funzioni religiose;
- Come le religioni rispondono alla cultura popolare in chiave fisiologica;
- Come i gruppi o gli individui religiosi utilizzano «testi» della cultura popolare quali luoghi di riflessione teologica.
Lynch fornisce utili informazioni su quanto espresso dal lavoro scientifico in ciascuna di queste aree.
- Riguardo alla prima, coloro che studiano la religione nella vita quotidiana hanno cercato di guardare ai «modi in cui testi e pratiche culturali popolari hanno influenzato le credenze, le strutture o le prassi di gruppi religiosi»; alle modalità di presenza della religione nella cultura popolare; a «come i gruppi religiosi interagiscono con il più vasto ambito della cultura popolare».
- All’interno della seconda area – le funzioni religiose della cultura popolare – Lynch identifica tre ruoli chiave della religione:
- Una funzione sociale: la religione offre alle persone un’esperienza comunitaria e le vincola a un ordine sociale di credenze e valori condivisi che fornisce una struttura per la loro vita di tutti i giorni;
- Una funzione esistenziale-ermeneutica: la religione offre alle persone un insieme di risorse (per esempio: miti, riti, simboli, credenze, valori e narrazioni) che possono aiutarle a vivere con un senso di identità, con un significato e uno scopo;
- Una funzione trascendente: la religione fornisce un mezzo attraverso il quale le persone possono sperimentare «Dio», cioè il numinoso o il trascendente.
Questo approccio funzionale, sostiene Lynch, si sovrappone alla cultura pop, perché elementi di quest’ultima (cinema, televisione, arte e, potremmo aggiungere, il mondo della rete digitale) svolgono alcune di queste funzioni per una parte della popolazione.
- La terza area indicata da Lynch – la missiologia – implica un movimento che va dalle Chiese verso la cultura popolare: le prime infatti tentano di evangelizzare la seconda attraverso vari tipi di sensibilizzazione.
- Nella quarta area, Lynch ripercorre la storia delle vie seguite da quanti hanno utilizzato materiali culturali pop come fonte di riflessione teologica.
Tre degli approcci teorici di Lynch suggeriscono ambiti in cui la cultura popolare potrebbe svolgere dei ruoli nella formazione della fede:
- Quello di plasmare la cultura in cui vivono i credenti;
- Quello di sovrapporsi alle funzioni della religione;
- Quello di fornire spazi di riflessione.
Una comprensione al di fuori della teologia. Nella celebre definizione della teologia offerta da sant’Anselmo – «la fede che cerca di comprendere» – possiamo scorgere un metodo generale in cui un individuo parte da una fede e poi giunge a una comprensione più profonda di tale credo. Oltre a illustrare il metodo teologico del suo autore (basato sulle pratiche agostiniane), la definizione descrive anche un atto che ogni credente effettivamente compie a un certo livello, spesso implicitamente: le persone cercano di comprendere le loro credenze, siano esse religiose o secolari. Clark ha effettivamente documentato questo processo all’interno del gruppo giovanile che ha studiato. In che modo, quindi, le persone cercano questo tipo di comprensione? La studiosa afferma che ogni individuo – in maniera tipica, abituale e di solito teologicamente ingenua – si serve degli elementi che trova a portata di mano, ovvero degli strumenti che la cultura ha preparato per lui. E poiché nessuno di noi esercita questo tentativo di comprendere la fede dal nulla, tutti possiamo trovare abbastanza facilmente espressioni significative di una simile fede che cerca di comprendere. Tuttavia, per chi possiede un profilo teologico più sofisticato, ciò che troviamo presenta due limiti, il secondo dei quali è più grave del primo.
- Il primo limite è che la comune comprensione della fede raramente si alimenta o si svolge all’interno di ciò che la comunità accademica e la Chiesa intendono per teologia, ossia testi scritti ed elaborati secondo le regole accademiche o del catechismo. In quella che chiamiamo «teologia popolare» le persone esplorano – e hanno esplorato per secoli – la loro fede sotto ogni forma mediatica a loro disponibile: nell’architettura degli spazi del culto, nelle storie di fede (espresse oralmente), nell’arte, nella musica, nei codici miniati, nelle vetrate, nei graphic novel, nei film, nei programmi radiofonici e televisivi, e oggi anche nei social media.
- Il secondo limite della «fede popolare che cerca di comprendere» riguarda le questioni di ortodossia. Ogni espressione di fede richiede di essere interpretata e, come ha documentato Clark, i materiali a nostra disposizione sono polisemici. Le Chiese hanno sviluppato metodi per guidare l’interpretazione e giudicare l’ortodossia delle espressioni di fede: la storia della teologia è costellata di tentativi falliti. Non è detto che la formazione alla fede nel contesto popolare rientri nei limiti del credo ortodosso. A chi spetterà giudicarlo? Il più delle volte la comunità dei credenti tace sulla «teologia popolare», sebbene sia questa a fornirle una base per la riflessione religiosa.
L’immaginaria «signora Murphy» che, secondo il liturgista Aidan Kavanagh, sarebbe «la prima tra i teologi» grazie alla sua devozione e alla sua preghiera, benché carente di formazione teologica formale, offre una prima verifica su un’invenzione sconfinata di idee religiose. Altre verifiche avvengono nell’insegnamento della Chiesa. Tuttavia, anche se la teologia accademica, quella catechetica e quella del seminario si riferiscono alla riflessione sulla fede più astratta o più sviluppata, non è da lì che la maggior parte delle persone prende le mosse per la propria riflessione sulla fede. Molti partono dalla sua dimensione popolare, e quindi noi dovremmo prendere tale dimensione sul serio.
In seguito svilupperemo questi due punti, soffermandoci maggiormente sul primo, ma offrendo anche alcune strategie per affrontare il secondo e per trasformarlo in un processo di formazione della fede.
- Processi di formazione della fede. La nozione di «formazione della fede» si riferisce, da un lato, al suo insegnamento formale, alle pratiche spirituali, alla crescita della vita comunitaria e così via (mediante le lezioni, il culto, le omelie, la direzione spirituale, la lettura spirituale o altre attività organizzate); dall’altro, all’appropriazione informale, autodiretta o culturale, della fede. Se la prima forma si svolge nelle aule e nelle chiese, ben riconoscibili sotto il profilo accademico ed ecclesiastico, la seconda avviene in gran parte attraverso la teologia popolare. Quest’ultimo tipo di formazione della fede è ovviamente diverso dal primo, ma ha la stessa importanza delle pratiche dell’insegnamento formale; pertanto, sarebbe un grave errore ignorarlo.
- Poiché già altri studiosi si sono dedicati alla formazione della fede più formale, noi qui ci concentreremo sulla seconda prospettiva, ovvero su quella formazione alla fede che passa attraverso la teologia popolare. La nostra vita è caratterizzata da riflessioni sulla fede. Ogni volta che entriamo in una chiesa, abbiamo sotto gli occhi la testimonianza di come le generazioni che ci hanno preceduto abbiano compreso il loro credo: dagli altari di pietra nelle chiese cattoliche (che indicano il sacrificio della Messa) alle immagini dei santi (che manifestano la comunione dei santi nel Corpo di Cristo). Le persone si raccontano storie di fede: pensiamo ai tempi in cui le nostre nonne spiegavano che «Dio ha un progetto su di te», o a quando i genitori rassicuravano i bambini raccontando che i loro angeli custodi vegliavano su di loro. Ciascuna di queste storie comportava un’affermazione teologica. Troviamo analoghe espressioni di fede negli inni che cantiamo, e persino nella musica popolare che ascoltiamo, nell’arte che ci aiuta a vedere Dio nella natura nel cinema e alla televisione, attraverso i social media, e in tanti altri mezzi di comunicazione in cui c’imbattiamo tutti i giorni. Gran parte di questo tipo di formazione della fede avviene inconsciamente: lo apprendiamo dalla cultura che ci circonda, mentre assorbiamo tante altre cose che diamo per scontate.
Possiamo vedere questo processo in atto nel cinema e alla televisione, che probabilmente sono due dei più potenti mezzi di comunicazione attraverso i quali la cultura influisce su di noi. George Gerbner e i suoi colleghi studiosi di scienze della comunicazione hanno proposto la «teoria della coltivazione» per spiegare il modo in cui i media ci influenzano. L’hanno anche sperimentata per oltre 20 anni, verificando come gli individui interpretino il loro mondo in base alle suggestioni della televisione. Essi notano che «la televisione è un sistema centralizzato di narrazione. È parte integrante della nostra vita quotidiana. Gli spettacoli, gli spot pubblicitari, le notizie e altri programmi portano in ogni casa un mondo relativamente coerente di immagini e messaggi comuni». Alcuni ribattono che questa teoria pretende troppo o che dà per scontato ciò che si propone di dimostrare. Ma essa effettivamente ci offre un modo per capire come le persone imparano a interpretare i loro mondi religiosi. Questa teoria si può facilmente estendere ai social media. Sebbene non siano un sistema centralizzato come la televisione, essi forniscono una narrazione adatta a ogni utente, dal momento che le persone tendono a scegliersi le loro reti sociali. I social media possono rafforzare le influenze culturali anche più della televisione. In entrambi, comunque, le persone utilizzano spiegazioni «preconfezionate» su come opera il mondo per modellare le proprie credenze.
Possiamo analizzare questo processo forse in modo meno deterministico, pensando al rapporto tra il cinema e la fede. Per molti registi, il loro modo di intendere la fede coinvolge le loro scelte di temi, personaggi e materiali. Fin dalle origini della storia del cinema, molte narrazioni bibliche hanno offerto motivi interessanti di carattere epico e spettacolare, trovando grande risonanza nel pubblico; più di recente, questo si è verificato per il film di Mel Gibson La passione di Cristo (2004). Questo tipo di approccio tende semplicemente a illustrare storie bibliche con interpretazioni teologiche tradizionali. Il film diventa una narrazione visiva che reintroduce nella vita delle persone molti degli aspetti che appaiono negli edifici di culto. Inoltre, Richard Blake ha sottolineato come la teologia – spesso assorbita fin dall’esperienza religiosa dell’infanzia – impregni quella che lo studioso definisce l’«immaginazione sacramentale» dei registi, quella di cui essi si servono anche quando raccontano storie ordinarie. I mondi che essi creano sono pieni di potenziale teologico. Scrittori e registi più sofisticati o ambiziosi affrontano la riflessione sulla loro fede da altre prospettive. Per esempio, creano un mondo (teologico) e pongono queste domande: «Che cosa succede se si verificano queste cose?»; «Qual è il comportamento morale delle persone in tale situazione?». Troviamo molti esempi di questo tipo di operazione in diversi film popolari. Ad esempio, il regista americano Clint Eastwood esplora i temi del perdono (nel film Gli spietati, 1992), o della scelta morale (in Million Dollar Baby, 2004), o dell’amore per il prossimo (in Gran Torino, 2008).
Molti commentatori hanno elencato decine di film popolari intrisi di temi teologici. Sono le caratteristiche stesse del cinema a determinare i modi in cui i registi riflettono sulla propria fede, secondo canoni sia narrativi sia esplorativi, invitando il pubblico ad addentrarsi a sua volta in una riflessione sul possibile significato di tali situazioni. Dalle considerazioni degli spettatori sui film, Lynch trae gran parte del materiale per illustrare la sua quarta area di intersezione tra la teologia e la cultura popolare. Allo stesso modo, anche la televisione offre alle persone opportunità per mettere in discussione o per comprendere la propria fede, ma generalmente lo fa più a lungo termine, consentendo quella «coltivazione» delle credenze indicata da Gerbner. Come i film, anche le serie televisive creano una sorta di mondo alternativo, un mondo fittizio, e invitano le persone a riflettere su ciò in cui credono a seconda del ruolo svolto da quella fede in vari scenari ideati dagli scrittori e dai produttori. Serie recenti come le statunitensi Lost (2004-10) e The Good Place (2016-20), quella indiana Typewriter (2019), o di più vecchia data, come la statunitense Buffy The Vampire Slayer (1997-2003), non soltanto sollevano questioni sul soprannaturale, sulla responsabilità personale e comunitaria, ma offrono anche risposte a quelle domande che presuppongono una particolare scelta di fede. Per certi versi questi programmi fanno da commento a testi precedenti, proprio come la Chiesa medievale aveva elaborato commenti sui materiali ricevuti dai Vangeli, drammatizzandoli. Il modello rimane lo stesso: il mezzo di comunicazione offre l’opportunità o la convenienza per un tipo di pensiero che non si può esprimere in un testo scritto.
Così pure, il loro retroterra teologico e la loro formazione spinge i produttori a un approccio e a un’interpretazione particolari. Per Blake, si tratta di un’«immaginazione teologica indelebile», che plasma la nostra riflessione. Per gli ideatori di film e di programmi televisivi le prime esperienze esistenziali nei campi dell’arte, della musica, del culto religioso e delle relazioni familiari forniscono un criterio spesso inconscio per comprendere Dio. D’altra parte, questa prospettiva determinerà come tali registi e tali sceneggiatori descriveranno e creeranno nuovi mondi nei loro media. E questi, a loro volta, potranno indirizzare il pubblico e i giovani verso la teologia. Clark descrive questo processo in modo molto più dettagliato, attingendo alle interviste fatte agli adolescenti. Pur nella varietà dei riscontri specifici, le persone riflettono sulla loro fede partendo dai contenuti di cui dispongono. Ad esempio, le raffigurazioni degli angeli (online, nelle chiese, nelle immaginette o nei film) le inducono non soltanto ad accettare la realtà degli angeli, ma anche a raffigurarseli in maniere particolari. La studiosa riferisce che molti adolescenti non religiosi «ritenevano che i media non avessero nulla a che fare con la religione». Ma ciò non significa che essi non abbiano usato costrutti mediatici per dare un senso ai loro mondi. Le loro esperienze riflettono la descrizione, fatta da Lynch, delle funzioni sociali ed ermeneutiche della cultura e della religione popolare: fornire un’esperienza di comunità e offrire una serie di strumenti o di immagini per dare un senso al proprio mondo.
L’accesso agli elementi costitutivi della teologia pop trova opportunità ancora maggiori nei social media. Tuttavia ciò si verifica meno nelle lunghe forme narrative del cinema e della televisione e più nelle brevi forme dei clip di YouTube, dei meme [elemento autopropagantesi], della musica popolare e delle idee condivise. Semmai – e su questo argomento si è indagato ancora poco – questo mondo più frammentato presenta una riflessione meno strutturata sulla fede. Ma la funzione propria dei social media rende le persone più propense ad accettare un’ermeneutica online. La portata stessa e la natura imprescindibile della teologia popolare implicano che essa eserciti un’importante formazione della fede in ogni segmento della cultura. Negli Stati Uniti, con la loro vasta gamma di religioni e la riluttanza a criticarle pubblicamente, la teologia pop tende adesso a esprimere un teismo generalizzato o, forse per l’emergere di gruppi cristiani di alto profilo, una sorta di cristianesimo generalizzato, intriso di eufemismi riguardo alla sofferenza, alla morte e al sacrificio. In un tale mondo, come potrebbe funzionare la formazione della fede legata a un credo specifico, ad esempio il cattolicesimo?
Un approccio dialogico. Poiché la teologia pop offre di rado «teologie» coerenti o sistematiche – e senza dubbio i media attraverso i quali si diffonde non consentono questo tipo di riflessione –, occorre compiere un ulteriore passo perché questo tipo di formazione della fede si traduca in un dialogo con la formazione più tradizionale. Questo passo conduce al confine con le questioni dell’ortodossia. Poiché esso riguarda la formazione della fede, gli insegnanti non dovrebbero partire dagli errori della teologia popolare, o imporre un’attenzione forzata al catechismo; invece, un programma di formazione della fede dovrebbe basarsi su ciò che i giovani hanno già acquisito e offrire loro una struttura. A questo punto si manifestano due compiti: indurre le persone a osservare con spirito critico ciò che assorbono inconsciamente, cioè a tematizzarlo; imparare a esprimere le proprie riflessioni personali sulla fede, ma in dialogo con la fede della Chiesa.
- I contenuti della teologia pop rimangono sempre aperti all’interpretazione; quindi, un primo passo consisterà nell’invitare i giovani a esprimere innanzitutto la loro comprensione della realtà di fede. In questo caso la discussione si potrebbe concentrare semplicemente sugli elementi della cultura popolare. Gli insegnanti dovrebbero prendere sul serio tali elementi, dal momento che la cultura racchiude un primo approccio alla fede e manifesta preoccupazioni più vicine al pensiero della gente rispetto al catechismo tradizionale. Questo approccio dialogico affonda le radici in un’area di comunicazione diversa dagli studi sui media: mira a creare un legame di fiducia e di rispetto reciproci, in quanto sia l’insegnante sia lo studente passano da un’appropriazione inconscia della fede a una consapevole. Queste discussioni trovano un appoggio nella pedagogia religiosa e consentono agli insegnanti di aiutare gli studenti a giungere a una comprensione corretta di quelle aree che essi stessi hanno individuato come meritevoli di riflessione.
- Un secondo passo guida gli studenti dal mero assorbimento alla creazione. Finora la maggior parte di essi si è limitata a ricavare immagini e temi dalla cultura popolare e a utilizzarli per dare un senso al proprio mondo. Il processo di formazione della fede deve andare oltre, per aiutare le persone a comprendere sia l’impatto dei contenuti dei media sia come funziona la creazione dei contenuti. Non si tratta di un processo complicato che richieda competenze mediatiche. Ognuno di noi può raccontare storie di fede; può immaginare come esse potrebbero tradursi in forme visive (grafica, video ecc.) o in contesti musicali. La maggior parte di noi ha, a questo proposito, abilità maggiori di quanto si possa immaginare. Se si incoraggiano le persone a utilizzare forme diverse e popolari per esprimere la propria fede, il programma di formazione della fede può rafforzare quelle funzioni chiave individuate da Lynch sia per la cultura pop sia per la teologia:
1) creare una comunità;
2) creare un significato esistenziale o ermeneutico, cioè dare un senso religioso al mondo;
3) offrire un’esperienza del trascendente.
Innanzitutto, dalle discussioni sulla cultura e sulla fede «popolare» scaturisce un più profondo senso della comunità. Inoltre, le persone possono cooperare per esprimere il loro modo di intendere quello in cui credono secondo le diverse forme dei media, e anche questo è un modo per creare un senso di comunità. In secondo luogo, il processo stesso di provare a esprimere la propria fede nei diversi media aiuta chi lo intraprende – lo studente, la classe ecc. – a raggiungere una comprensione più sistematica nell’ambito della fede istituzionale. Così le persone sviluppano processi ermeneutici più organizzati: interpretano la propria esperienza religiosa per gli altri, e lo fanno all’interno della tradizione della Chiesa[21]. Inoltre, il processo creativo insegna loro come offrire una critica della teologia popolare, in quanto ne vivono le sfide in prima persona. Infine, questo processo creativo può aiutare gli individui a sperimentare qualcosa di trascendente, anche solo partecipando alla potenza creatrice di Dio.
L’uso della teologia popolare nella formazione della fede può collegare i suoi due versanti – quello formale e quello informale – sulla base delle esperienze vissute e delle domande di coloro che cercano di comprendere la propria fede.
Paul A. Soukup Civiltà cattolica Quaderno 4077, pag. 226 – 237 2 maggio 2020
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/teologia-pop-e-comunicazione/?utm_source=Newsletter+%22La+Civilt%C3%A0+Cattolica%22&utm_campaign=b76c761e70-Newsletter_quaderno_4077_05_02_2020&utm_medium=email&utm_term=0_9d2f468610-b76c761e70-227762110
Lutero risponde alla CEI
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, domenica 26 aprile, annunciando la cosiddetta “fase 2” dell’isolamento necessario per combattere la pandemia, ha ribadito, sicuramente a malincuore e non con qualche imbarazzo, che ancora per qualche settimana non sarà possibile aprire le chiese al pubblico per le funzioni religiose. Unica eccezione fatta è stata quella dei funerali che potranno essere presieduti da una quindicina di persone.
Poche ore dopo questa dichiarazione la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha risposto con le sue rimostranze al Governo, accampando due motivazioni fondamentali:
- La prima di tipo costituzionale (non sono stati interpellati come prevedrebbe il dettato costituzionale),
- La seconda di tipo teologico.
Riportiamo quello che dice il comunicato della CEI a proposito dell’importanza di celebrare Messa, in ordine alla seconda motivazione: “I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Come si può leggere il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano, e magistralmente analizzata qualche decennio fa dal teologo evangelico Vittorio Subilia. Si tratta, in sostanza, di una delle principali caratteristiche di distinzione tra il cattolicesimo e il protestantesimo. Un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti. Questa forma di disciplina ecclesiale è da noi evangelici ritenuta sbagliata in quanto cozza con quello che ci pare essere l’insegnamento biblico centrale sulla salvezza che fa leva sulla sola fede in Gesù Cristo. Questo è il vangelo, questa è la buona notizia. Il Riformatore Martin Lutero sintetizzò mirabilmente questo punto nella sua Tesi 62 riportata sopra. Nel 1527, quando Lutero scrive a Rudolf Hess nel periodo di diffusione della peste, ha ben chiaro questo concetto. Ma la sua voce è oggi utile anche per i consigli relativi alla questione fondamentale del discorso epidemiologico: il contagio possibile o probabile.
- In primo luogo, Lutero ha la preoccupazione per le comunità locali e ritiene che sia fondamentale in una città colpita dall’epidemia che rimangano dei ministri di culto per adempiere essenzialmente a due compiti del loro ministero: il conforto delle anime e il seppellimento dei morti.
- In secondo luogo, anch’egli ritiene doveroso mantenere i luoghi di culto aperti, anche se essenzialmente per due cose: il conforto che deriva del Vangelo e la preparazione alla morte che, in caso di epidemie, è sempre in agguato. Vi è anche un accenno al sacramento che, come è noto, per il teologo tedesco aveva una funzione diversa: ricordare la Grazia ricevuta tramite la Croce di Cristo.
Ma sono soprattutto le sue raccomandazioni relative al contagio quelle che vogliamo sottolineare in quanto sono quelle preminenti su tutto. Raccomandiamo queste parole a tutti coloro che in questo momento percepiscono il peso delle restrizioni fino a parlare addirittura di pericolo per la libertà di culto. «È ancora più disonorevole per una persona non prestare attenzione al suo proprio corpo e non riuscire a proteggerlo dalla pestilenza al meglio delle sue capacità, e poi infettare e avvelenare gli altri che sarebbero potuti restare vivi se quella persona si fosse presa cura del suo corpo come avrebbe dovuto. Egli è quindi responsabile davanti a Dio per la morte del suo prossimo ed è omicida molte volte. Infatti, una tale persona si comporta come se una casa stesse bruciando nella città e nessuno stesse cercando di spegnere il fuoco. Invece dà libertà alle fiamme in maniera tale che l’intera città bruci, dicendo che se Dio lo volesse, potrebbe salvare la città senza acqua per spegnere il fuoco. No, miei cari amici, questo non va bene. Usate le medicine; prendete le pozioni che vi possono aiutare; disinfettate la casa, il cortile, la strada; evitate le persone e i luoghi dove il vostro vicino non ha bisogno della vostra presenza o è guarito, e agite come un uomo che vuole aiutare a estinguere le fiamme della città. Cos’altro è l’epidemia se non un incendio che invece di distruggere legno e paglia divora vite e corpi? Dovresti pensare in questa maniera: “Molto bene, per decisione di Dio il nemico ci ha mandato frattaglie velenose e mortali. Perciò io chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza. Se Dio vorrà prendermi, sicuramente mi troverà e io avrò fatto ciò che egli si aspetta da me, e così non sarò responsabile per la mia propria morte o per la morte degli altri. Se il mio vicino ha bisogno di me, comunque, non eviterò i luoghi o le persone ma ci andrò volontariamente, come ho già affermato”. Vedi, questa è una fede realmente basata sul timore di Dio perché non è insolente né avventata né tenta Dio». (M. Lutero)
Se abbiamo lo scopo primario di preservare l’umanità e far sì che tutti possano godere di buona salute, allora ci sentiamo di dire che il restare a casa per evitare gli assembramenti che possono mettere a rischio la vita del prossimo è un bene supremo. Lo Stato ha l’onere di assumere delle decisioni per il bene comune mentre il nostro compito è quello di ubbidire, pur potendo, all’interno del dibattito democratico, dissentire su decisioni che possono essere soppesate con il pro e il contro. Si potrebbe pensare però che quando è in gioco l’ubbidienza a Dio, l’ubbidienza allo Stato non deve essere vincolante (At 5:29). E allora chiediamoci: come ci rapportiamo noi cristiani evangelici a questa situazione? Per grazia di Dio, e in ragione di una visione della chiesa che ci viene direttamente dal Maestro, dalla testimonianza apostolica e dai vangeli, possiamo continuare a sentirci e a essere chiesa anche in queste condizioni difficili. I moderni mezzi informatici permettono di ricostituire la comunità locale anche a distanza, pur tra mille difficoltà, consentendoci di avvertire la presenza spirituale del Signore anche se mancano gli abbracci: è il radunamento “nel suo nome” quello che assicura la presenza del Signore (Mt 18:20); inoltre riceviamo l’assicurazione che il culto a Dio deve essere reso in spirito e verità, esigenza questa che non viene scalfita per nulla da un radunamento non in presenza (Gv 4:21–23)!
Ascoltiamo dunque un consiglio che, al di là della teologia, risuona di buon senso. “Chiederò a Dio misericordioso di proteggerci. Poi disinfetterò, aiuterò a purificare l’aria, darò e prenderò le medicine. Eviterò luoghi e persone dove la mia presenza non è necessaria per non contaminarmi e quindi forse infettare e contaminare gli altri, e così causare la loro morte come risultato della mia negligenza” (M. Lutero)
V. Bernardi e Giacomo Carlo Di Gaetano
“Dipartimento di ricerca e studi dei Gruppi Biblici Universitari” 27 aprile 2020
https://dirs.gbu.it/lutero-risponde-alla-cei
La messa, la fede, la carne e il sangue. Libertà di culto tra Vescovi e Lutero
“Nondimeno, la liturgia è culmen et fons” (Sacrosantum Concilium § 10)
Voglio spiegare anzitutto perché sento l’urgenza di scrivere qualcosa di chiaro su questo punto delicatissimo e decisivo della nostra identità cristiana, di cristiani della Chiesa cattolica e romana. E cerco di comprendere, anzitutto davanti a me stesso, perché mi ha colpito tanto, stamattina, nella preghiera, riascoltare il grande testo di Giovanni 6: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”.
Queste espressioni, ascoltate nella liturgia della parola di questa mattina, 1 maggio 2020, sono risuonate con accenti nuovi, singolari e forti. Il contesto che stiamo vivendo, con le sue caratteristiche particolari, le rilegge e le risignifica in una maniera potente. Vorrei provare a ricostruire questo contesto, con altri due testi, che in qualche modo “discendono” da questo. Il primo testo è la frase conclusiva della “Dichiarazione di dissenso” con cui un Ufficio della CEI ha criticato le decisioni comunicate dal Presidente del Consiglio domenica scorsa. Il testo si conclude con questa frase: “l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale.”
Senza considerare le questioni di merito e di opportunità, qui viene illustrata una sorta di “gerarchia delle fonti”: il servizio deriva dalla fede, e la fede è nutrita dai sacramenti. Dunque i sacramenti nutrono la fede e la fede genera il servizio. Come vedremo, si tratta di una lettura legittima, fondata, ma unilaterale della tradizione. Ma su questo torneremo dopo.
Aggiungo un terzo testo, che traggo da un intervento apparso in questi giorni, con riferimento critico al medesimo Comunicato CEI (Lutero risponde alla CEI) dove i due autori evangelici fotografano la posizione espressa dai Vescovi in questo modo: “il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano”.
E poi cercano di chiarirla ulteriormente così: “Un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti”
E’ evidente che, se consideriamo il testo di Giovanni, la ermeneutica dei Vescovi cattolici e la reazione degli autori evangelici, comprendiamo che il problema non sta, come potrebbe sembrare, in una differenza confessionale, ma nel modo con cui intendiamo “riempire” la categoria inevitabilmente astratta di “libertà di culto”. Ed è su questo che vorrei fermare la mia attenzione.
La contrapposizione “formale”. Tutta la vicenda che abbiamo percorso in questi ultimi giorni, ed anche in questi due mesi, si può spiegare da qui: da questa “differenza”. Davvero i cattolici “partono” dalla eucaristia, mentre gli evangelici partono dalla fede? Io non credo che sia così. E cerco, in queste righe, di dimostrare che questa differenza nasconde una profonda unità, che entrambe le “parti”, per buone ragioni, non riescono a riconoscere. Forse perché, su entrambi i lati del “fronte” siamo stati costretti a rappresentare l’altro (e anche noi stessi) in modo esasperato, forzato, quasi caricaturale. Così è capitato che gli evangelici contestano i cattolici perché mettono “prima di Dio” le loro liturgie, mentre i cattolici rispondono contestando agli evangelici di mettere prima la loro fede in Dio, piuttosto che Dio stesso. In fondo entrambi i fronti sono preoccupati della medesima istanza: che Dio stia prima, e vedono nella liturgia degli uni e nella fede degli altri un “ostacolo”, una “perdita”, una “corruzione”, addirittura una “idolatria”. Dio sostituito dalle liturgie della Chiesa o dalla fede dei soggetti.
Io però, in questo caso, non voglio riflettere su questo piano ecumenico, che pure sarebbe interessante. Mi sta a cuore, invece, mostrare, nei termini più classici del cattolicesimo, che la visione di eucaristia che indirettamente traspare dalla conclusione della Nota CEI non può essere considerata una espressione “classica” del cattolicesimo. Forse lo sarebbe di quello del Concilio di Trento – ma anche su questo avrei qualche dubbio – ma sicuramente non lo è rispetto alla teologia successiva al Concilio Vaticano II.
Due modelli di sacramento. Che cosa è cambiato, con il Concilio Vaticano II, nella liturgia? Direi soprattutto due cose: il ruolo del popolo di Dio e la relazione con la fede. A partire dal medioevo si era affermata – e ancora resiste – una lettura estrinseca del sacramento – quasi una forma magico-strumentale di esso – che lo affidava – come una res – alle cure del “sacerdote”, il quale “rendeva presente” il corpo e sangue di Cristo, comunicando al quale il singolo fedele guadagnava la vita eterna. Questa rappresentazione, in cui sia la azione rituale sia la fede sono spostate quasi totalmente sul sacerdote, e che pone il soggetto all’esterno della azione, come semplice recettore del sacramento, costituisce la visione che il cattolicesimo ha superato da almeno 60 anni. Anche se viene ripetuta da singoli cattolici, da emittenti radio, da qualche giornalista, da qualche politico interessato, e qualche volta persino da vescovi distratti, questa visione è del tutto inadeguata a spiegare l’esperienza sacramentale cattolica.
Il nuovo modello. In che cosa consiste, dunque, la novità? Consiste in un modo di pensare la presenza di Cristo, la funzione della assemblea, il ruolo del ministro e la natura della azione. La celebrazione eucaristica ha due soggetti principali: il Signore che convoca e la assemblea convocata. Il sacerdozio di Cristo corrisponde al sacerdozio comune, proprio di ogni battezzato e quindi di quella assemblea che il Concilio chiama “comunità sacerdotale” (Lumen Gentium §11). La assemblea è presieduta dal ministro ordinato, il cui sacerdozio è ministeriale perché serve Cristo e serve la chiesa. Sta al servizio dei due veri soggetti. Non è l’unico ministro, perché l’assemblea è servita da una molteplicità di servizi, anche se è presieduta soltanto dal ministro ordinato. Tutta questa “compagine bene ordinata”, edificio di pietre vive intorno alla pietra scartata che è testata d’angolo, condivide l’azione di rendimento di grazie, nell’ascolto della parola e nella condivisione orante dell’unico pane e dell’unico calice. Questa liturgia è giustamente detta culmen e fons di tutta l’azione della Chiesa.
Gli equivoci e le opportunità. Se si chiarisce questa dinamica, e si scopre che cosa è in gioco quando si parla di “vita sacramentale”, si comprende la delicatezza del tema e la sua facile deformazione. Nelle cose più importanti della vita di fede la differenza tra verità ed errore resta sempre sottile come un capello (Barth). Dunque sarebbe molto grave se ci lasciassimo convincere dai nostri fratelli evangelici che la posizione cattolica si lascia ridurre ad “assolvere tutti i sacramenti”. Ma la forza con cui possiamo “convincere” i nostri fratelli di diversa confessione passa inevitabilmente attraverso una accurata “conversione” da parte nostra. Per questo una serie di precisazioni possono essere qui aggiunte:
- La liturgia non è solo fons, ma anche culmen. Come ho detto, la frase conclusiva del testo CEI ricorre ad una immagine del tutto legittima, assolutamente preziosa, ma di per sé unilaterale, perché dice una verità irrinunciabile, che però è e resta solo “mezza verità”: è giusto ricordare che il servizio nasce dalla fede, e che la fede è nutrita dalla vita sacramentale. Ma, per la Chiesa, è cosa vera e preziosa dire anche il contrario: ossia che la eucaristia presuppone la fede e che la fede nasce nell’incontro con Cristo, che si presenta nel prossimo sofferente. Perciò la liturgia e l’eucaristia non è solo “fons”, ma anche “culmen” (SC §10). E, a conferma di ciò, quando Sacrosantum Concilium introduce ai sacramenti afferma che “non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono” (SC §59).
- Che cosa significa, alla luce di queste considerazioni, “libertà di culto”? Il culto cristiano è certamente “azione comune”. Non è “distribuzione di cose sacre”, non è “azione di uno cui altri assistono”, ma “azione comune”. Per questo le perplessità sulle “messe in pandemia” non derivano semplicemente da “decreti esterni” – che possono essere anche percepiti come lesivi della libertà ecclesiale – ma da “esigenze interne”, direi intrinseche al culto cristiano. Abitare con una “azione comune” una Chiesa non è la stessa cosa che “comprare sigarette in una tabaccheria”, “correre sul lungomare” o “fare la spesa al supermercato”. Nessuno di questi luoghi suppone una “azione comune”. Non vi è soltanto un “impedimento esterno alla libertà di culto”, ma una difficoltà intrinseca a porre la “azione comune” di ascolto della parola e di condivisione del pane e del calice”. Sono azioni consentite solo “in famiglia”. Nella diffidenza non si dà azione comune. Parola e condivisione, per ora, passeranno solo dai luoghi della confidenza. Per godere a tutti i costi del “diritto al culto” rischiamo di contrarre il culto ad “atto individuale”. E rischiamo di farlo anche solo adottando, persino in Chiesa, questo linguaggio formale della “libertà di culto”, che è termine sacrosanto, ma vuoto.
- “Chi mangia la mia carne e chi beve il mio sangue”: sono le parole che sono risuonate nel vangelo proclamato oggi. Questo atto non ha a che fare con una “cosa”. Entriamo nella dinamica sacramentale quando, facendo corpo nel raduno, lasciando la Parola al Signore, ripetendo con Lui la preghiera di benedizione e riconoscendolo nello spezzare il pane, diventiamo suo corpo e suo sangue. E’ evidente che anche nella “vita sacramentale” il servizio e la fede non sono semplicemente “conseguenze”, ma sempre anche “cause”. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa entrare, con la fede, nel suo santo servizio: lavare i piedi, curare i malati, ospitare gli stranieri, perdonare i peccati, alimentare la speranza, dire bene piuttosto che male, poter lodare, saper rendere grazie.
- Proprio questo “mangiare” la carne e “bere” il sangue non è “accedere individualmente alla salvezza contenuta in una cosa sacra”, ma “compiere un gesto comune, spudoratamente familiare, che trasforma la identità in rapporto diretto con il Signore”. E’ interessante che la “manducatio”, il mangiare, sia rimasto sempre, nella tradizione, come atto inaggirabile. Anche la “comunione spirituale” non era affatto “rinuncia al mangiare”, ma passaggio al “mangiare in modo spirituale”. Cosa che, in certi casi, era ritenuta superiore al mangiare sacramentale. Ascoltare insieme la parola e condividere insieme pane spezzato e calice condiviso, nella fede, realizza la Chiesa come discepolato di Cristo e servizio al Vangelo nei poveri e ai poveri nel Vangelo.
Una Chiesa può soffrire molto per la interruzione forzata della celebrazione della messa. Ma sa che il Signore si offre nel rito comune – per ora impossibile alla comunità – per essere nel cuore di ogni uomo e nella vita del mondo. Con la messa divenuta impossibile non ci è sottratto il Signore che alimenta la nostra fede e il nostro servizio, ma è sospeso il linguaggio più elementare e più potente per dirne l’azione nel mondo e nei cuori. Quello più simile alla brezza leggera con cui Dio fa il suo ingresso nel mondo e nella storia, raddrizzando ciò che è storto e scaldando ciò che è gelido. La libertà di culto, la libertà di esercizio del culto cristiano, può trovare, in questo “vai e vieni” tra il servizio e la liturgia, attraverso la fede, i suoi ritmi, di volta in volta. E non sarà impossibile ritornare a celebrare senza troppi vincoli sanitari, se nel frattempo avremo alimentato la fede bagnando ciò che è arido e piegando ciò che è rigido. Perché la liturgia non solo nutre, ma anche è nutrita. Non solo genera, ma anche è generata. Perché il Signore sta alla porta e bussa non solo “sotto le specie”, ma anche aldiqua delle specie e aldilà delle specie.
Andrea Grillo blog: Come se non 1 maggio 2020
www.cittadellaeditrice.com/munera/la-messa-la-fede-la-carne-e-il-sangue-liberta-di-culto-tra-vescovi-e-lutero
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