NewsUCIPEM n. 803 – 26 aprile 2020

NewsUCIPEM n. 803 – 26 aprile 2020

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

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 Carta dell’UCIPEM, Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

02 ADOZIONE                                                   Famiglie aperte e accoglienti x una Chiesa aperta e accogliente

03 ADOZIONI INTERNAZIONALI                Se il coronavirus non le frena. Il caso della Romania

04                                                                          Adozione e Procreazione medicalmente assistita

04 AFFIDO CONDIVISO                                 Dovere di visita al figlio minore: è un obbligo coercibile

05 CARCERI                                                       La doppia crisi delle celle affollate

06                                                                          Io, prete di galera, vi dico: qui l’epidemia è solitudine e terrore

08 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n.16, 22 aprile 2020

11 CHIESA CATTOLICA                                  Una nuova “cristianità”?                           

12                                                                          I limiti del pontificato di Francesco

16 CINQUE PER MILLE                                   Al via i pagamenti per le onlus

17 CITTÀ DEL VATICANO                             Una task-force per il post pandemia     

19 CO. ADOZIONI INTERNAZIONALI       CAI pubblica il Report statistico sulle adozioni nel 2019

19 COMUNIONE DEI BENI                           Come funziona

21 CONFER. EPISCOPALE ITALIANA         Una lacerazione ricucita a fatica             

23 CONSULTORI UCIPEM                            Arezzo 1. Consultorio La Famiglia.  “Pronto? Ti ascolto!”            

23                                                                          Mantova. Etica Salute & Famiglia – n. 03 – maggio giugno 2020

23                                                                          Vittorio Veneto. “Vicini anche da lontano”

23 COPPIE                                                         Cosa fare se un coniuge non vuole separarsi                    

25 CORONAVIRUS                                          La ricerca. Famiglia, lo stress di genitori e figli in isolamento

26                                                                          Come sta cambiando la nostra vita. La Ricerca del Cnr

27                                                                          New normals: 5 mutamenti globali caratterizzano nostro futuro

29                                                                          Stress violento da quarantena: minori vulnerabili, sos dei giudici

31                                                                          L’emergenza e la compressione del principio di bigenitorialità

32                                                                          Scuole chiuse? Sappiate che la noia fa bene ai bambini

33 DALLA NAVATA                                        III Domenica di Pasqua – Anno A – 26 aprile 2020

33                                                       Il viandante di Emmaus che si ferma a casa nostra

33 DIRITTI                                                          Il diritto alla speranza rivendicato dal papa

35 DONNE NELLA (per la) CHIESA            Più donne per formare i sacerdoti

37 ENTI TERZO SETTORE                              Alla sfida della trasparenza: ecco i modelli di rendicontazione

38                                                                          Riforma terzo settore: approvati gli schemi di bilancio

40                                                                          Cosa succede ad una ONLUS che non adegua lo statuto

42 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    Le famiglie senza risposte

42                                                                          Bassi: La famiglia, cura della società

44 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Se non cambia con la vita, la liturgia diventa un teatrino

46 LITURGIA                                                     Celebrante in tempo di pandemia

49                                                                          Dio è nella parola, non nella messa in streaming

50                                                                          Riscoprire l’interiorità, oltre il ritualismo

51                                                                          Sintonia tra magistero pastorale e magistero magistrale            

54 POLITICA                                                      Una costituzione mondiale: da utopia a realtà?

55 SEPARAZIONE E DIVORZIO                   Modifica se formazione di nuovo nucleo familiare e nascita di figli

56 TEOLOGIA                                                    Dire il Dio di Gesù Cristo

61 VOLONTARIATO                                        Il volontariato nel cuore di Papa Francesco

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ADOZIONE

Famiglie aperte e accoglienti per una Chiesa aperta e accogliente

Se non aiutiamo i bambini adottati ad avere un’identità forte, il futuro sarà sempre più incerto per le adozioni e tutte le pratiche riproduttive inumane e artificiali prenderanno il sopravvento.

Fra poche settimane sarà la festa della mamma. Facciamo parte di una famiglia numerosa, consacrata all’accoglienza. Sperimentiamo la grazia e le difficoltà di vivere in una piccola comunità cristiana. Uno dei bambini della nostra famiglia è adottato. Alle scuole elementari, ogni anno, all’avvicinarsi della festa della mamma, si riproponeva per lui il problema della poesia da recitare. I versi erano troppo legati all’aspetto biologico. Le poche poesie sull’adozione lasciavano una tristezza di fondo. Filomena iniziò a scrivere brevi poesie «festose e gioiose» per lui. Semplici ma non banali, frutto di una profonda riflessione e delle esperienze di tante amiche e dei loro figli adottati che raccontavano le loro paure, ansie e disagi ma anche l’immensa felicità di vivere una vita piena d’amore. Un modo semplice per imparare a valorizzare l’adozione. Siamo sempre più convinti che il linguaggio usato per parlare dell’adozione dimostra che le nostre culture non hanno ancora sviluppato una adeguata sensibilità.

            Queste poesie sono state pubblicate in italiano lo scorso anno e adesso, con grande gioia, incorniciate da bellissime illustrazioni, anche in lingua spagnola. Il titolo non lascia dubbi sul cambio di mentalità proposta: “Nasce una madre”. Poesie per bambini adottati delle scuole primarie, da recitare il giorno della festa della mamma, e in altre occasioni. «Amato da sempre, atteso per anni. Io! In un attimo l’incontro, nasce una madre». Il libro contiene anche due preghiere della mamma adottiva rivolte a Dio e alla Madonna per il proprio bambino.

            «Per far crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», recita un antico proverbio africano. L’accoglienza della vita e l’innesto nella comunità di ogni bambino ha bisogno di consapevolezza da parte di tutti. Questo vale ancora di più per i bambini adottati. Spesso la società fa sentire le mamme adottive che non hanno figli biologici, mamme di serie B. Figlie di un dio minore che le avrebbe private della vera gioia di procreare. Anche tra i cattolici sono molto diffuse espressioni dure che alludono ad un cammino di perfezione grazie alla mortificazione del desiderio di maternità e di paternità carnale (nei casi in cui non si può generare) per adottare un bambino «scartato e abbandonato». Esistono associazioni che si occupano di adozione con nomi tristi, improntati alla riparazione e all’espiazione. La teologia, quelle poche volte che è scesa in campo, su questo tema ha trovato tante difficoltà: parte dal «peccato» e dal «riscatto», vede il bambino da adottare come «frutto di colpe»: il livello profondo di riflessione si muove sulla categoria di «puro» e «impuro».

            I politici ci mettono del loro chiamando i bambini adottati, specialmente stranieri, «figli già confezionati», centrando l’attenzione sugli elementi legali della consegna del cognome e dell’eredità, quella che comunemente viene chiamata «adozione fiscale». È chiaro che nel “villaggio” della nostra cultura manca l’accoglienza vera. Anche tra i cristiani, nonostante gli slogan a favore della vita, persiste l’idea della «legge del sangue» e della discendenza. Eppure la genealogia di Gesù mette in evidenza che è proprio Lui a spezzare la catena della discendenza, per inaugurare una nuova umanità di «figli di Dio», di fratelli.

            Dopo generazioni di sangue per linea maschile, appare la novità: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). La fede si ferma alle parole, la realtà rimane precristiana, non registra il cambio. «Fa’ di me un genitore senza paure né timore. C’è nel mondo chi non riesce a capire che non è il sangue, ma l’amore ad unire».

            Se non diamo a questi genitori l’orgoglio di una maternità e paternità che nasce dall’amore coniugale; se non aiutiamo i bambini adottati ad avere una identità forte, il futuro sarà sempre più incerto per le adozioni. Tutte le pratiche riproduttive inumane e artificiali prenderanno il sopravvento. L’adozione deve essere una risposta d’amore alla vita, non soltanto della famiglia, ma della comunità, dove tutti hanno la stessa dignità. In una nuova umanità, quella che Cristo ha inaugurato, e che ha comunicato a tutti attraverso il mistero pasquale, questo atto di amore dovrebbe essere preso in considerazione da tutti i coniugi, a prescindere dalla sterilità.

            Accompagnare la vita è un dono, una missione. La diffusione di una cultura di accoglienza adottiva potrebbe contribuire a far nascere la nuova umanità sognata da Dio, nella quale la fraternità fra tutti i popoli non è soltanto teorica, ma è un cammino per dare amore e opportunità a tutti. Non si tratta tanto di solidarietà, perché questa mentalità porta a far sentire ai bambini adottati una sorta di obbligo eterno di riconoscenza e un senso di inferiorità. Invece quando l’adozione verrà considerata dalla comunità come una relazione di amore e di sincerità, come un impegno di creare legami personali autentici, il cammino si farà insieme, si realizzerà una storia diversa, e si scoprirà che sono quei bambini ad arricchire le famiglie e la società: «Ma la nostra è una storia speciale, l’adozione è un’avventura d’amore… Dove nulla è scontato e l’amore va scelto e conquistato. Dove le lacrime del passato vanno asciugate e le tante malinconie insieme superate».

            La Chiesa per prima dovrebbe esprimere questa nuova mentalità di fraternità universale. L’anno scorso, il 24 maggio 2019, Papa Francesco ha fatto riferimento all’antica usanza delle medaglie spezzate che le mamme lasciavano, insieme ai neonati quando erano costrette ad abbandonarli; con esse speravano un giorno, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli. Un’altra epoca; ora il problema delle adozioni è molto più complesso, come chiarisce lo stesso pontefice: «Oggi nel mondo ci sono tanti bambini che idealmente hanno la metà della medaglia. Sono soli. Le vittime delle guerre, le vittime delle migrazioni, i bambini non accompagnati, le vittime della fame. Bambini con metà medaglia. E chi ha l’altra metà? La Madre Chiesa. Noi abbiamo l’altra metà». C’è bisogno di famiglie cristiane aperte ed accoglienti, portatrici di pace, per una Chiesa aperta ed accogliente. «Non di fiori ti coronerei il viso, ma di teneri rami d’ulivo. Mamma, d’ulivo sai perché? Perché adottandomi hai portato la pace e l’amore dentro di me».

            Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo, insegnano insieme teologia in Italia e in Africa

Vatican insider 23 aprile 2020

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/04/23/news/famiglie-aperte-e-accoglienti-per-una-chiesa-aperta-e-accogliente-1.38753860

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Se il Coronavirus non frena le adozioni internazionali. Il caso della Romania

Liste di attesa quasi azzerate, tempi brevi. E con #Iorestoacasa con Ai.Bi. si può completare a distanza tutta la procedura pre-adottiva.

C’è un Paese in cui il Coronavirus non ha frenato le adozioni internazionali. Si tratta della Romania. Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Ente autorizzato all’adozione internazionale e organizzazione nata da un movimento di famiglie adottive e affidatarie oltre trent’anni fa, ha infatti praticamente esaurito la lista d’attesa per il Paese dell’est europeo: al momento sono sette le coppie che aspettano di incontrare il proprio figlio e, di queste, cinque sono già state ufficialmente abbinate, mentre una sesta lo sarà a breve.

Dall’inizio del 2020, anno segnato dall’immobilità dovuta all’epidemia da Coronavirus, sono già due le adozioni completate da Ai.Bi. in Romania, per altrettante coppie. Dalla riapertura delle adozioni nel Paese, in totale sono state 22 le coppie che hanno adottato grazie ad Ai.Bi. La Romania risulta essere una nazione virtuosa, in termini di iter adottivi, anche in quanto a tempi di attesa: a partire dalla data del conferimento dell’incarico ad Ai.Bi. si può riuscire a completare il percorso adottivo in 12-24 mesi, la tempistica più breve in assoluto rispetto a tutte le altre località in cui l’organizzazione opera nel mondo.

Certo, va detto che l’adozione internazionale in Romania è un procedimento che non tutti possono seguire: i criteri previsti dalle normative vigenti limitano infatti alle sole coppie di nazionalità rumena regolarmente residenti in Italia o alle coppie di cui almeno uno dei due coniugi sia di nazionalità rumena la possibilità di adottare nel Paese.

La procedura attuale prevede che gli abbinamenti vengano indicati dall’Autorità Nazionale per la Protezione dei Diritti del Minore e per l’Adozione (ANPDA) rumena, con un mese di tempo per l’invio alla stessa Autorità Centrale dell’autorizzazione al proseguimento dell’iter e della Lettera di Garanzia prodotta dalla Commissione Adozioni Internazionali. Quest’ultima è un documento con cui la Commissione Adozioni Internazionali italiana garantisce alla sua corrispondente rumena che il minore, una volta adottato in Italia, avrà gli stessi diritti di qualsiasi figlio biologico delle coppie italiane.

Comunque sia anche queste notizie che arrivano “da est” sono un segnale che, nonostante una pandemia che sta bloccando praticamente tutto il globo, la solidarietà e l’accoglienza non si fermano. Anche la CAI – Commissione Adozioni Internazionali, sta vagliando, lavorando con le autorità centrali dei Paesi d’origine, la possibilità di “corsie preferenziali” per tutte le coppie adottive che si trovano ad affrontare le fasi conclusive dell’iter nella contingente situazione di “lockdown”.

Proprio per gli stessi motivi, per non fare perdere tempo prezioso alle coppie in questo momento complicato, Ai.Bi. ha provveduto a una riorganizzazione interna in modo da poter fornire “a distanza” tutte le proprie attività formative e informative necessarie a completare le procedure pre-adottive, con la campagna #Iorestoacasa con Amici dei Bambini”

AiBinews                    21 aprile 2020

www.aibi.it/ita/se-il-coronavirus-non-frena-le-adozioni-internazionali-il-caso-della-romania-con-amici-dei-bambini

 

Adozione e Procreazione medicalmente assistita

Gentile Ai.Bi.,      siamo una coppia che non ha potuto avere figli ed abbiamo quindi pensato di percorrere la strada dell’adozione. In realtà, dopo tanti esami clinici, non abbiamo una certificazione dì sterilità accertata ma probabilmente una incompatibilità di coppia. Per questo motivo i medici ci hanno consigliato la strada della fecondazione artificiale a cui stiamo sinceramente pensando. Vorrei sapere se possiamo percorrere le due strade: quella della PMA e contemporaneamente quella della adozione.

Credo che non sia corretto porre la questione in questi termini. Ogni coppia può decidere quale percorso intraprendere e se la decisione è quella di voler sperimentare la strada della fecondazione artificiale (PMA) è certamente libera di farlo. Decidere però di voler dare disponibilità per una adozione è tutt’altra storia.

            L’adozione non può e non deve essere una scelta di ripiego, non deve essere l’ultima spiaggia. Il bambino adottivo che deve entrare a far parte della famiglia è un figlio e come tale deve essere atteso ed accolto. Le emozioni che si provano nel tempo del l’attesa devono essere rivolte a quel bambino “diverso” che entrerà a tutti gli effetti a far parte della famiglia. La testa ed il cuore devono essere concentrati su un unico progetto. Quel bambino abbandonato ha bisogno del vostro amore esclusivo: è su di lui che si devono concentrare i vostri sogni.

            Dovete decidere quale strada intraprendere: non sarebbe né giusto né corretto portare avanti ambedue i progetti. Dovete scegliere con la testa e con il cuore. Ogni singolo bambino ha diritto all’amore di due genitori in esclusiva.                                Irene Bertuzzi, Ufficio Adozioni Internazionali Ai.Bi.

AiBinews                    21 aprile 2020

www.aibi.it/ita/possiamo-fare-il-percorso-con-la-pma-e-contemporaneamente-seguire-liter-per-una-adozione

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AFFIDO CONDIVISO

Dovere di visita al figlio minore: è un obbligo coercibile?

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 6471, 6 marzo 2020

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Il diritto-dovere di visita spettante al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. Il dovere di visita del genitore non convivente al figlio minore non è coercibile neppure in forma indiretta. Questo è quanto ha chiarito la Cassazione Civile: ha affermato il seguente principio di diritto: “il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ. trattandosi di un potere-funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ., una “grave inadempienza”, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”.

Il Tribunale di Chieti, accertata la paternità naturale del genitore non collocatario, sanzionava quest’ultimo ai sensi e per gli effetti dell’art. 614 bis c.p.c. poiché si rifiutava di visitare il figlio minore. Il provvedimento di primo grado, successivamente confermato dalla Corte d’Appello dell’Aquila, stabiliva che il padre dovesse versare alla madre del minore la somma di 100 per ogni futuro inadempimento all’obbligo di incontrare il figlio.

            Il padre ricorreva in Cassazione con un unico motivo sostenendo che le misure di coercizione indiretta previste dall’art. 614 bis c.p.c. non sarebbero applicabili agli obblighi di visita del figlio poiché, al diritto del minore di ricevere visita, corrisponderebbe il diritto potestativo del genitore di fargli visita rimesso alla propria discrezionalità e, di conseguenza, non coercibile e non assoggettabile a provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale e alle sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c.

            La madre resisteva con controricorso deducendo che la misura di coercizione indiretta applicata avrebbe una connotazione pedagogica tesa, nel caso di specie, a far capire al padre la gravità della propria condotta e indurlo a frequentare il figlio anche contro la propria volontà.

            La Cassazione ha accolto il ricorso del padre non collocatario. L’ordinanza della Corte di Cassazione muove dal principio cardine del diritto di famiglia ossia l’attuazione dell’interesse preminente del minore. In tale ottica, il genitore non collocatario ha un vero e proprio “diritto” di visita nei confronti del figlio minore tutelato dall’ordinamento attraverso i risarcimenti e le sanzioni previste dall’art. 709 ter c.p.c., nel caso in cui l’altro genitore ne ostacoli o ne impedisca l’esercizio. Al “diritto” di visita corrisponde anche un “dovere” di frequentazione e visita del figlio minore da parte del genitore non collocatario, teso a realizzare il diritto del figlio alla bigenitorialità e ad una crescita sana ed equilibrata; tuttavia, non si tratta di un obbligo coercibile poiché è rimesso alla libera e consapevole scelta del genitore, così come è rimessa alla libera autodeterminazione del figlio, prossimo alla maggiore età, la scelta di frequentare o meno il genitore non collocatario. Pertanto, il Giudice non può in alcun modo sanzionare la condotta del genitore che si rifiuta di frequentare il proprio figlio minore, neppure attraverso l’adozione di provvedimenti di coercizione indiretta ex art. 614 bis c.p.c. poiché, così facendo, l’interesse supremo del minore subirebbe una monetizzazione preventiva e si banalizzerebbe il dovere di frequentazione del genitore che, invece, dovrebbe essere incoraggiato mediante percorsi condivisi di rielaborazione e miglioramento dei rapporti affettivi.

Resta inteso che il mancato esercizio del diritto di visita da parte del genitore non collocatario può essere, in ogni caso, soggetto ad ammonimento da parte del Giudice e, qualora tale comportamento pregiudizievole permanga, può portare anche alla modifica dei provvedimenti in vigore in tema di affidamento, in particolare l’applicazione dell’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore oppure la decadenza della responsabilità genitoriale e l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale per condotta pregiudizievole nei confronti dei figli e addirittura una responsabilità penale per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Giulia Mariotti           Altalex           22 aprile 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/04/22/dovere-di-visita-figlio-minore-obbligo-coercibile

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CARCERI

La doppia crisi delle celle affollate

Tra le questioni che la situazione di emergenza sanitaria ha posto e pone nel nostro Paese merita attenzione quella delle carceri, in cui convivevano, al manifestarsi dell’epidemia, più di sessantamila detenuti, dodicimila circa in più rispetto alla capienza regolamentare: e la situazione di pericoloso “affollamento” riguarda anche il numero altrettanto elevato (ancorché insufficiente) degli operatori delle carceri, le cui attività ovviamente non possono essere sospese né trasformate in “lavoro agile” a distanza. All’inizio sono stati disposti controlli sanitari sulle nuove persone che entravano negli istituti, si è sospeso l’accesso alle carceri da parte di volontari esterni, e si sono sospesi i colloqui “a vista” dei detenuti con i loro familiari (quest’ultima, tra le tante “chiusure”, ha una portata particolarmente afflittiva per coloro che, vivendo in carcere, avevano già poche occasioni di incontro con i loro cari).

Ma il rischio del dilagare del contagio è aggravato per effetto di un fenomeno preesistente al virus: il sovraffollamento “cronico” delle nostre carceri. Qualche anno fa, a seguito di una sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che aveva dichiarato come il sovraffollamento avesse dato luogo a un “trattamento inumano o degradante” di molti detenuti, con violazione di loro diritti fondamentali, il nostro legislatore si era mosso, prevedendo fra l’altro sconti di pena tali da favorire l’uscita anticipata di diversi detenuti. Ma in poco tempo, in mancanza di una adeguata politica di depenalizzazioni, e soprattutto di interventi che riducessero il ricorso alle pene detentive e alla loro esecuzione “intramuraria”, la situazione di sovraffollamento si è riprodotta negli stessi termini.

Il ricorso alle pene come risposta ai comportamenti antisociali dovrebbe essere solo l’extrema ratio; e soprattutto la pena detentiva dovrebbe essere riservata ai casi più gravi di pericolosità sociale, ampliando invece il ricorso a pene alternative. Inoltre il ricorso a misure alternative extracarcerarie (come l’affidamento ai servizi sociali e la detenzione domiciliare), per l’esecuzione della pena o di una parte di essa, dovrebbe essere reso più ampio.

L’emergenza coronavirus ha condotto, per quanto tardivamente, il legislatore ad allargare, con il Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, la possibilità, per i detenuti che debbano scontare una pena, anche residua, non superiore a 18 mesi, di eseguirla in regime di detenzione domiciliare. Questo istituto era già presente nell’ordinamento, ma, oltre che escluso per certe categorie di condannati, era subordinato nella sua attuazione all’accertamento, da parte del magistrato, che non vi fossero pericoli concreti di fuga o di commissione di nuovi reati, nonché all’esistenza di un domicilio idoneo. Il recente decreto si è limitato ad allargare le condizioni per la concessione, sostituendo le condizioni relative al pericolo di fuga o di nuovi reati con il potere del magistrato di valutare l’esistenza di “gravi motivi ostativi alla concessione della misura”, e imponendo, se la pena da scontare superi i sei mesi, il cosiddetto braccialetto elettronico, che però di fatto non è per lo più disponibile. Resta invece la condizione dell’idoneità del domicilio. Onde la nuova misura finora ha dato insufficienti risultati di deflazione della popolazione carceraria.

Permane dunque il rischio di un diffondersi del contagio. Ma soprattutto, anche a prescindere da esso, il sovraffollamento delle carceri non è accettabile in sé, riproducendo di fatto una permanente violazione di diritti umani fondamentali. Anche senza il coronavirus, avremmo dovuto e dovremmo farcene carico: ma l’emergenza sanitaria dovrebbe dare comunque la spinta per adottare in questa direzione provvedimenti decisivi e non provvisori. Occorrerebbe eliminare la condizione, ora impossibile da osservare, del braccialetto elettronico per le pene da scontare superiori a sei mesi, semplificare al massimo la procedura di concessione della detenzione domiciliare, e prevederla anche per pene da scontare superiori ai limiti attualmente stabiliti.

Certo, il problema dei detenuti (specie stranieri) privi di un domicilio idoneo è reale. Ma qui emerge un altro problema “cronico” del nostro sistema: la mancanza o l’insufficienza di strumenti che assicurino il diritto elementare di tutti ad avere una casa e i mezzi di sussistenza, per chi esce dal carcere ma anche per le altre persone che si trovino in situazioni simili.

Questa dovrebbe essere un’occasione per affrontare finalmente in modo serio il problema del sovraffollamento delle carceri e del ricorso eccessivo alla detenzione carceraria. Qualcuno invoca un provvedimento di amnistia o di indulto, o l’uso massiccio del potere di grazia da parte del Presidente della Repubblica. Ma non è questa la strada giusta: a eventuali “colpi di spugna” si può e si deve guardare semmai nel quadro di riforme sistemiche dell’ordinamento penale. Qui si tratta invece di incidere a fondo sulle modalità di esecuzione delle pene, prevedendo modalità che davvero rispettino l’imperativo costituzionale per cui le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Chissà che la crisi del coronavirus non aiuti a intraprendere, con coraggio e determinazione, questa strada.

Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, “Corriere della Sera” 21 aprile 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202004/200421onida.pdf

 

Io, prete di galera, vi dico: qui l’epidemia è solitudine e terrore

Chiudete per un momento gli occhi. Tornate alla notte tra domenica 8 e lunedì 9 marzo 2020, a quelle fiamme che salgono dai reparti delle carceri incendiate, a quegli uomini sui tetti, al fumo dei gas, al clangore degli scudi dei reparti antisommossa, all’eco degli scarponi sul terreno, alle urla, al canto ipnotico delle sirene spiegate. Alle tentate fughe. Ai morti. A quei 12 morti a Modena e Rieti, che si sono imbottiti di psicofarmaci e droghe rubate nelle infermerie devastate per dire addio al carcere al tempo del virus nell’unico modo in cui credevano di poterlo fare.

E poi cercate i frammenti di quella via Crucis di venerdì 10 aprile, quasi esattamente un mese dopo, in una Piazza San Pietro spettrale: li vedete quegli uomini e quelle donne che vengono dal carcere: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, volontari, magistrati di sorveglianza, che ne percorrono le stazioni in silente preghiera, dinnanzi al volto sofferente di Papa Francesco che ha voluto loro per celebrare questa Pasqua nella quale la speranza lotta come mai prima contro le tenebre della morte?

E, poiché il carcere inumano causa dolore e uccide la dignità, sentiamo su di noi la vergogna che dovrebbero provare i tanti Javert che considerano tutto ciò come la giusta punizione per chi ha sbagliato? Che restino dove stanno, decretano. E ora ascoltate le parole di quel mondo nelle meditazioni che vengono dal carcere Due Pozzi di Padova: “Tante volte, nei tribunali e nei giornali, rimbomba quel “Crocifiggilo, crocifiggilo!””, dice un ergastolano. “Una vera giustizia è possibile solo attraverso la misericordia che non inchioda per sempre l’uomo in croce”, risponde un magistrato di sorveglianza.

Dice Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti: “Quella via Crucis ci dice che il mondo del carcere non è altro da noi. E ci richiama a quel diritto alla speranza proclamato dal Pontefice, che era anche il titolo di un volume che gli abbiamo inviato e che è anche richiamato dalla Corte di Strasburgo quando dice che non può esserci condanna a vita senza speranza”.

“Credo che i detenuti in rivolta pensassero: se il virus arriva qua dentro sarà una strage” dice chi sta in carcere da una vita, “31 anni, più di un ergastolo”, ovvero don Sandro Spriano, 79 anni, da San Salvatore Monferrato, cappellano di Rebibbia, che ha vissuto in prima linea i giorni delle rivolte. “All’inizio l’allarme per il virus dentro il carcere era abbastanza basso”, racconta, “sono state le restrizioni alle visite ad accendere la scintilla della rivolta. Infatti cosa chiedevano i rivoltosi? Indulto, amnistia, misure alternative, le richieste di sempre, esasperate dal terrore che se l’epidemia dovesse arrivare in carcere sarebbe una strage. Vedo che ora il ministro Alfonso Bonafede parla di braccialetti per i detenuti. Giustissimo, per carità, ma perché attendono i fatti drammatici come i suicidi di Modena e Rieti (perché di questo si tratta di suicidi) per fare qualcosa? Le restrizioni alla vita sociale per chi già vive recluso diventano insopportabili, l’impossibilità di vedere i parenti diventa un incubo”.

Racconta Mauro Palma che nelle carceri in rivolta c’è andato subito: “Quel lunedì mattina a Regina Cɶli ho visto uno spettacolo tremendo: cancelli divelti dalle sbarre, il lancio delle stoviglie e gli sputi, mentre si udiva un sordo rumore di fondo, come un rombo. C’era tanta rabbia. Mi affrontavano duri: solo ora vi ricordate di noi? Chi ha la massima responsabilità doveva essere sul posto. Non vorrei che l’infiltrazione mafiosa che in taluni casi c’è stata, penso a Foggia, possa offuscare la comprensione di quanto avviene: le carceri italiane sono una bomba sociale pronta a esplodere. Così quando si è diffuso l’allarme per l’epidemia i detenuti si sono sentiti vittime di una doppia reclusione: quella dovuta alla pena e quella alle restrizioni sanitarie, di cui hanno visto solo divieto ai colloqui, perché le altre norme di sicurezza sono praticamente impossibili da adottare in queste condizioni. Sicché i detenuti si sono sentiti al tempo stesso rinchiusi e indifesi”, prosegue Palma.

Al 17 marzo 2020 i detenuti erano tornati a essere 60 mila circa, dinnanzi a una capienza di 50 mila, azzerando tutti gli sforzi compiuti dopo la condanna della Cedu del 2013, soprattutto per impulso del ministro Andrea Orlando e del suo direttore del Dap Santi Consolo. Un mese dopo, di fronte al procedere del virus (dati al 14 aprile: 104 contagiati tra i detenuti, di cui 11 trasferiti in ospedale, e 201 tra il personale) siamo a circa 55 mila persone nelle carceri italiane. Solo 1.800 detenuti (di cui 350 con braccialetto) sono usciti per andare ai domiciliari grazie alle timide misure prese dal ministro Bonafede (scarcerazione anticipata per chi aveva da scontare fino a sei mesi); gli altri 3.000 circa sono usciti grazie alle misure prese dai magistrati di sorveglianza in base alle vecchie norme.

“Negli ultimi giorni, per fortuna, i contagi hanno avuto una crescita limitata, ma all’inizio la progressione è stata esponenziale. Se dovesse riprendere a quel ritmo sarebbe una tragedia ecco perché dovremmo arrivare presto a non più di 47 mila detenuti in carcere”. Naturalmente di tutto questo avrei voluto parlare con il direttore del Dap, Francesco Basentini, nominato dal ministro Bonafede e criticato da tre partiti su quattro dell’attuale maggioranza per non essersi recato nelle carceri durante la rivolta, e gli ho inviato tre domande:

  1. Come mai le prime misure deflattive sono state prese dopo e non prima che scoppiassero le rivolte?
  2. Ritiene che le misure adottate finora siano sufficienti?
  3. Pensa che i detenuti siano più al sicuro dal corona virus dentro le carceri che fuori?

Questa è stata la sua risposta: “Le carceri non sono un argomento da trattare in tre battute. Contatti il mio ufficio stampa quando avrà il tempo di parlare seriamente del carcere”. A parte il fatto che avevo spiegato che avrei dato tutto lo spazio necessario alle sue risposte, lascio a voi giudicare cosa ci fosse di poco serio nelle mie domande.

Conviene allora tornare a parlarne “seriamente” con don Sandro. Chissà se, quando ha messo per la prima volta (piede) in un carcere, pensava che ci sarebbe rimasto tutta la vita: “Ci sono entrato per la prima volta nel Natale del 1988 per dire messa insieme al mio amico Salvatore Boccaccio, che era appena stato nominato vescovo e che mi disse: “Qua dentro c’è una pena enorme, perché non cerchiamo di fare qualcosa?””. Da allora non c’è giorno della sua vita che don Sandro non abbia dedicato al carcere: detenuti e detenute comuni, brigatisti e brigatiste, mafiosi al 41 bis. “Sono nato a San Salvatore Monferrato, in provincia di Alessandria, dove non c’era la scuola media e quindi, finite le elementari, per continuare non c’era che il Seminario. Così ci sono entrato bambino a 11 anni e ne sono uscito sacerdote a 23. Per conoscere il mondo a quel punto c’erano tre strade possibili: la fuga, il matrimonio, proseguire gli studi. Ho deciso di andare a Roma dove mi sono laureato in teologia all’Ateneo Salesiano. Poi l’incontro con la scuola. Insegnante di religione al liceo scientifico Archimede che era uno dei più turbolenti di Roma. Prima vicepreside, poi preside. A un certo punto, dal momento che ero iscritto alla Cgil un gruppo di insegnanti di destra mi denuncia come prete comunista e dunque mi viene tolto l’insegnamento. Per due anni ho vissuto grazie alla solidarietà degli amici. Due anni dopo il cardinale che mi aveva cacciato (ndr.: Poletti?) mi chiamò e mi chiese scusa”. Poi, l’incontro con il carcere: “Adesso sono al braccio femminile. Credo che le donne soffrano di più il carcere che è stato disegnato per le esigenze maschili, pensa che fino a qualche tempo fa nel carcere non si trovavano né assorbenti né pannolini. La mentalità del carcere è maschile. Le donne sono più reattive alla sofferenza, non si fanno una ragione del dover rinunciare alla maternità, ai figli”.

Il carcere di don Sandro è fatto di incontri che ti segnano. Quello con i brigatisti e le brigatiste: “Ho a che fare con quelli che si definiscono irriducibili. Sono persone che hanno scontato già 34 anni di pena, che hanno riconosciuto i propri errori, ma non vogliono fare nessuna richiesta allo stato, si aspettano che lo stato faccia autonomamente la sua parte. Si tratta di persone generalmente più acculturate della media dei carcerati, sono spesso atei. Ma anche il cuore che sembra più duro e abituato alla violenza può riconoscere i propri errori se trova qualcuno che lo accompagni “, dice. E racconta: “Mi è capitato spesso di accompagnare alcuni di questi detenuti in permesso e molti, mentre eravamo in macchina, mi chiedevano: senti don Sandro, possiamo passare un momento dalla tua chiesa?”.

Diverso l’incontro con i mafiosi ristretti al 41 bis, che don Sandro considera inumano e incompatibile con la rieducazione. Con loro il rapporto non è stato semplice: “Pensavano che la messa fosse un atto dovuto, davano per scontato che io la celebrassi. Allora l’ho sospesa. E hanno cominciato a scrivermi i sacerdoti del sud cui i boss si erano rivolti. Non è che io voglia convertire nessuno ma volevo che nessuno pensasse che la messa fosse un fatto scontato e ho ricominciato a celebrarla solo quando ho pensato che avessero capito. Uno dei boss, uno dei capi più importanti, mi disse: “Don Sandro, è la prima volta che qualcuno mi fa pensare al fatto che un omicidio è sempre sbagliato, anche se commesso a fin di bene”. Nella sua mentalità lui ordinava gli omicidi per mantenere l’ordine del suo mondo, ma il dubbio si era insinuato anche nel suo cuore”.

Vivere per i più deboli e fragili è fatica quotidiana, rinuncia, generosità. Ma, e ditemi se è poco in questo strano tempo sospeso tra crudeltà e speranza, per don Sandro è qualcosa che riempie la vita: “Vuoi sapere cosa mi rimane di tutti questi anni? Il fatto di aver vissuto sempre in mezzo alla gente: la parrocchia, la scuola, il carcere, il volontariato. Quando giro per Roma, prima o poi, a questo o quel semaforo incontro qualcuno che mi riconosce e mi saluta con affetto. E tanto mi basta”.

Carmine Fotia            “l’Espresso” 19 aprile 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202004/200420fotia.pdf

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 16, 22 aprile 2020

Molto più di ciò che pensi/more than you think. Anche quello che butti via può avere nuova vita, generare nuove opportunità. Una poetica rilettura della pietra scartata dai costruttori che diventa testata d’angolo: anche così si combatte la cultura dello scarto. Emozionante video, senza bisogno di parole – due minuti di speranza. Ne abbiamo tutti bisogno!        www.youtube.com/watch?v=Tn1deCRJAmA               

Il family international monitor è un progetto di indagine internazionale sulla famiglia, avviato nel 2018 e promosso congiuntamente da Cisf, Università Cattolica San Antonio di Murcia e il Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. In questa Newsletter daremo regolarmente notizie delle sue attività. Chi vuole essere informato con maggiore regolarità e tempestività sulle attività e sulle analisi del Family International Monitor può iscriversi alla Newsletter “Inside Families”.                                                                 www.familymonitor.net

Il fallimento dello stato sociale? Editoriale a cura del Prof. Javier Belda Iniesta, Professore di Storia del Diritto e delle Fonti Canoniche, Preside della Facoltà di Scienze e Tecnologie Umane, Canoniche e Religiose dell’Università Cattolica di Murcia, Direttore esecutivo del Family International Monitor. Davanti all’emergenza Covid-19, è emersa sia la vulnerabilità dell’essere umano, sia la fragilità dei modelli di Welfare State costruiti nei Paesi economicamente più avanzati, radicalmente messi in crisi dalla pandemia. “[…] E non vale dire che si tratta di un’emergenza o di una crisi. È perfettamente prevedibile che durante una situazione di questo tipo coloro che soffriranno maggiormente saranno i gruppi più svantaggiati e vulnerabili. Per questo avevano diritto ad una risposta adeguata. È un’esigenza intrinseca al preteso Stato Sociale […]”

https://b5094af5-fa37-47bf-8e1c-6a030eea0308.usrfiles.com/ugd/b5094a_47c006a0bd734109b7f998f20380b05b.pdf

Un mese fa Carlo Casini tornava alla casa del Padre. Un ricordo personale del direttore Cisf, sul sito di Famiglia Cristiana (F.Belletti). “E’ passato quasi un mese dal 23 marzo, giorno in cui Carlo Casini è tornato alla casa del Padre […] E’ stato un onore per me aver avuto tante occasioni di collaborazione con Carlo Casini e con tutta la costellazione delle opere da lui promosse attorno al Movimento per la Vita. Ho così incontrato una persona dall’intelligenza pronta, con la schiena dritta, serena e convinta delle sue idee, capace di dialogo e di confronto con tutti […]” [testo completo sul sito di Famiglia Cristiana] (F. Belletti)

www.famigliacristiana.it/articolo/un-mese-fa-la-scomparsa-di-carlo-casini.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_22_04_2020

Coronavirus

  • Stati Uniti. La gestione dello stress e dell’ansia durante la pandemia è un aspetto da non sottovalutare, anche perché i comportamenti “appropriati” dei singoli sono la prima e più efficace strategia di prevenzione e contrasto alla diffusione del virus. Per affrontare questo tema negli Stati Uniti il Center for Desease Control (CDC) utilizzata anche una rappresentazione grafica, per sdrammatizzare e sintetizzare “ciò che si può controllare” (su cui quindi vigilare e intervenire con rigore) e “ciò che è fuori dal nostro controllo” (di cui quindi bisogna tener conto, senza farsi prendere da frustrazione o rabbia).        www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/daily-life-coping/managing-stress-anxiety.html

“La nostra salute mentale e quella dei nostri figli è fortemente messa alla prova. Quale modo migliore per governare il nostro benessere mentale che farsi aiutare da un animale? La volpe nel poster ci spiega nel dettaglio cosa possiamo o non possiamo controllare, in questa crisi del Covid-19, aiutandoci ad alleggerire ansia, stress e altre tensioni”.      http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/aprile2020/5169/index.html

  • Un sito di esperienze innovative, che attraversano la pandemia con una speranza in azione. La società SECNewGate (realtà internazionale con sede a Milano – anche il Cisf ha collaborato con SEC, in occasione del progetto europeo sulle politiche familiari Family Platform 2010-2011) ha promosso un sito di “buone notizie”, sotto il nome/motto “primum vivere”, ricco di esperienze aziendali di resistenza e resilienza.                                                                                              www.secrp.com
  •  “C’è scritto anche nella nostra sala riunioni più grande, da tempi non sospetti: “Primum vivere, deinde comunicare”. Ma mai come in queste settimane ci si è imposto con tale evidenza che la vita viene prima (dei discorsi, dei commenti, delle strategie) e che la comunicazione deve saperla accogliere, assecondare, promuovere. […] Ed ecco allora primumvivere.it, una piattaforma on line dedicata alle storie dell’Italia migliore in questa emergenza Covid-19. Storie di aziende grandi e piccole, enti non profit, pubblica amministrazione, università, centri di ricerca…che la nostra redazione raccoglie, mette in bella e rilancia, perché possano iniettare coraggio, creatività, rinascita nel tessuto sociale ed economico del Paese.

Spagna. Mediazione intergenerazionale: una nuova proposta per superare i conflitti in famiglia. L’associazione spagnola UNAF Spain, membro di COFACE Families Europe, ha lanciato un nuovo servizio per facilitare il superamento dei conflitti che possono generarsi tra i membri della famiglia di età e generazioni differenti, soprattutto con i figli adolescenti, ma che viene proposta anche per genitori con figli adulti. La mediazione consiste in un processo strutturato, condotto da professionisti, le cui fasi principali sono un’intervista telefonica, una sessione informativa, una fase di pre-mediazione, la mediazione vera e propria, la valutazione finale e il monitoraggio successivo. Per approfondimenti

www.coface-eu.org/work-life-balance/services/mediation-key-for-solving-intergenerational-conflicts-in-families

https://unaf.org/mediacion-familiar

European Union. Micro- and macro-drivers of child deprivation in 31 European countries. 2020 Edition (Fattori micro e macro che determinano la deprivazione minorile in 31 Paesi europei. Edizione 2020). Il presente rapporto analizza la deprivazione minorile in 31 Paesi europei, utilizzando una scala di misurazione adottata ufficialmente a marzo 2018, combinando modelli uni e multidimensionali, per costruire una visione organica dei fattori che causano la deprivazione minorile in Europa.

https://ec.europa.eu/eurostat/documents/3888793/10400302/KS-TC-20-003-EN-N.pdf/71f09ad8-467e-ec94-0ec0-ac9fd4b79268

Genova. Gruppi di auto-mutuo aiuto e un’agenzia comunale per la famiglia. “In tempi di “disorientamento e solitudine da Coronavirus” il Comune di Genova con l’Agenzia per la Famiglia invita i cittadini ad attivare gruppi di Auto-mutuo-aiuto virtuali.   www.comune.genova.it/agenziaperlafamiglia

 Lo scambio interattivo continuo tra “pari”, cioè tra chi vive o ha vissuto situazioni simili, non ha la pretesa di risolvere i problemi ma offre la possibilità di un confronto che può diventare occasione di crescita e maturazione per tutti. Ora questo scambio si sposta sulle piattaforme online, come WhatsApp, Zoom, Skype e altre. Il Comune ha voluto che il 2020 fosse proprio l’anno dedicato all’Auto-mutuo-aiuto, di cui a Genova si stimano già attivi circa 100 gruppi formati da volontari, che si riuniscono settimanalmente su varie esperienze di vita (elaborazione di un lutto, dipendenze, l’adozione di un figlio, difficoltà relazionali)”

https://smart.comune.genova.it/comunicati-stampa-articoli/gruppi-di-auto-mutuo-aiuto-virtuali-ai-tempi-di-covid-19

Le attività di auto-mutuo aiuto sono realizzate in collaborazione con AAA (Associazione Aiuto Famiglia – organizzazione di volontariato).                                                                   www.aiutofamiglia.org

 Qui un interessante video, con la testimonianza di una coppia che ha partecipato ai gruppi

www.youtube.com/watch?v=0FcWDTZGe1E&feature=youtu.be

Non da soli. La voce delle famiglie ai tempi del coronavirus. Benché siamo ancora nel pieno della pandemia da coronavirus, giocando in anticipo sui tempi l’organizzazione Save the Children ha condotto un’indagine sulla situazione economica che si prospetta per le famiglie più fragili, quelle già precedentemente sulla soglia della povertà relativa. L’indagine, condotta su oltre 300 nuclei familiari con figli minorenni beneficiari del progetto Non da soli, ha messo in luce la gravità della situazione. Le famiglie tendenzialmente hanno fatto fronte all’improvvisa mancanza di disponibilità economica con il ricorso ai propri risparmi. I risparmi non bastano, tuttavia: il 63,9% delle famiglie ha ridotto da subito la spesa per l’acquisto di beni alimentari e una famiglia su due anche quella per l’acquisto o il pagamento di altri beni e servizi di prima necessità (affitto e utenze 35,9%, farmaci 30,8%, prodotti per l’infanzia 26,9%). Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children ha dichiarato: «Molto dipenderà dai provvedimenti economici e sociali che verranno presi nelle prossime settimane, ma l’allarme è serio. Non possiamo rischiare di accrescere ulteriormente la schiera di bambini in povertà assoluta e per questo è necessario agire il prima possibile, per dare un sostegno a tutte quelle famiglie che in queste ore stanno vedendo la loro condizione aggravarsi in maniera così repentina».

https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/secondo-rapporto-non-da-soli-cosa-dicono-le-famiglie.pdf

Webinar – formazione a distanza

  • “Il bambino al centro – l’Affido Familiare alla luce della Teoria dell’Attaccamento“. Quattro incontri di formazione on line. Il C.T.A., in collaborazione con la Scuola di Psicoterapia IRIS, propone un intervento formativo sull’affido familiare, articolato in 4 incontri (h 9.00/17.00): 11, 26 maggio, 9, 22 giugno 2020. Il percorso formativo è rivolto a Psicologi, Psicoterapeuti, Assistenti Sociali, Professionisti che si occupano di Affido e a tutti gli interessati alla tematica.

www.centrocta.it/newsletter/CorsoONLINE_%20affido_CTA_2020.pdf

Finalmente ci incontreremo ancora di persona! Sia in Italia che nel mondo è oggi davvero difficile immaginare quando si potrà ricominciare una vita sociale normale, uscendo di casa ogni mattina, andando a lavorare, ricominciando a fissare appuntamenti, convegni, momenti di formazione, ecc.  Ma tutti abbiamo voglia almeno di ricominciare a progettare il futuro, perché questi giorni di clausura domestica e di relazioni via skype ci hanno fatto riscoprire la bellezza del potersi vedere, trovarci insieme, condividere qualche spazio. Magari con la mascherina, magari senza darci la mano, magari seduti alla giusta distanza… ma finalmente insieme nello stesso posto. Così, ci piace segnalare qui (e nelle prossime Newsletter), insieme alle numerose iniziative innovative via web collegate all’emergenza pandemia, alcuni eventi di compresenza (quei begli incontri di una volta…), che sono progettati oggi per l’autunno. Perché confermano che il “post-pandemia” va pensato da subito, e soprattutto va vissuto insieme.

Reti generative. La ricchezza della relazione paterna: autorevolezza e autonomia nei percorsi di cura alla persona. In Lombardia oltre 20 associazioni – tra cui Confederazione Italiana dei Centri per la Regolazione Naturale della Fertilità, AGE, AGESC, SIDEF, Movimento per la vita – propongono la terza edizione del progetto “Reti generative a sostegno della bellezza dell’umano” sul tema della paternità. Nell’ambito del percorso saranno realizzate 3 giornate formative a Milano: sabato 3 ottobre 2020, sabato 7 novembre 2020 e sabato 28 novembre 2020.

www.confederazionemetodinaturali.it/userfiles/News/files/Programma_Reti_generative__19_Feb__2020.pdf

  • Dalle case editrici
  • Gegaj Mirjiana, Il sacramento del matrimonio come cammino di fede in Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Cantagalli, Siena, 2019, pp. 360. È necessario aver fede per sposarsi in Chiesa? Questa domanda non è l’oggetto di un unico trattato articolato nell’opera del teologo Joseph Ratzinger, poi papa Benedetto XVI, ma la questione torna spesso nei suoi scritti, nei quali il tema della fede occupa un ruolo rilevante. Lo studio cronologico della sua opera sul matrimonio fa emergere una significativa evoluzione nel suo pensiero. È, infatti, a partire dalla fede che la sua riflessione si sposta dalla questione della “validità” a quella della “pienezza” del matrimonio, evidenziando una maturazione nel suo pensiero riguardo la comprensione del concetto di “natura”. Il volume analizza la raccolta di tutti i testi di J. Ratzinger/Benedetto XVI sul sacramento del matrimonio, dai quali affiora in modo chiaro che per viverlo in pienezza il cammino di fede è indispensabile. Un tema di grande attualità, come dimostra il recentissimo documento della Commissione Teologica Internazionale (CTI), intitolato: “Reciprocità tra fede e sacramenti nell’economia sacramentale”, con un’ampia sezione dedicata al matrimonio.

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20200303_reciprocita-fede-sacramenti_en.html

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Una nuova “cristianità”?

La premessa è che noi non facciamo teologia, però osserviamo i movimenti della storia. (…)

Abbiamo letto l’intervista di papa Francescoal mondo di lingua inglese” duramente colpito dalla pandemia, raccontata in italiano da padre Spadaro sulla Civiltà Cattolica.

www.laciviltacattolica.it/news/il-papa-confinato-intervista-a-papa-francesco

Il pensiero o ipotesi che ne abbiamo tratto è che uscendo, come ne siamo usciti a fatica, dalla “cristianità”, si stia profilando e abbozzando (e sempre che l’abbozzo riesca) una nuova cristianità, che forse il secolo non chiamerà così ma rappresenterà un altro modo, soave e ricchissimo, di deposito dell’annuncio cristiano nel mondo.

La cristianità è quella che ha avuto corso legale nel mondo dalla riforma gregoriana dell’XI secolo al Concilio ecumenico Vaticano II, dopo il precedente fondativo di Teodosio, il primo Imperatore cristiano. Per fortuna la cristianità non ha esaurito in se stessa tutto il cristianesimo e la Chiesa, che sono stati in questo millennio fecondissimi, però ha preteso racchiudere in se stessa tutto il mondo via via conosciuto. Da essa ha preso congedo dottrinalmente l’ultimo Concilio, ed esplicitamente papa Francesco in uno dei punti più alti del suo magistero, parlando ai Capi d’Europa, compreso il Re di Spagna, venuti da lui a conferirgli il premio Carlo Magno (!). Ora la nuova “cristianità” che si intravvede non è in lizza per annettersi la totalità, non quella planetaria, sapendo ormai che “il tempo è superiore allo spazio”. Non è proselitistica. Gesù ce l’aveva con chi batteva mare e terra per fare un proselite e lo rendeva poi peggiore di prima. E, anche al meglio che si possa pensare, intendere gli altri come proseliti significa viverli come una mancanza, un’estraneità, un’assenza che ci priva di una ricchezza, di un compimento, e così, prima di farli propri, significa farne degli scarti. Invece per Dio non è scartato nessuno, quella totalità che la cristianità presumeva di realizzare in realtà già c’era, l’aveva rivelata Gesù, l’ebreo, stendendo le braccia sulla croce. È vero che poi ha detto di andare fino agli estremi confini della terra, ma per dare la notizia, perché tutti sapessero una cosa che comunque già c’era, l’abbraccio di Dio per l’umanità intera; perché a saperlo certo si è più felici e anche si può e forse si sa essere più giusti e la storia va meglio. E dunque così potrebbe essere la cristianità che domani riappaia, avendo molti nomi, e non c’è paura che ne manchino, tanti essendo i nomi di Dio. Sarà un farsi abbracciare da lui, facendosi un po’ lui, anche senza saperlo, quando molta più gente sarà stata raggiunta dalla notizia che Dio è amore senza gelosia, e se Dio fosse giustizia ma non misericordia, “non sarebbe neanche un Dio”, come attesta papa Francesco. Ma non si deve pensare che il prezzo di questa nuova cristianità immedesimata nel pleroma dell’umanità amata da Dio sia la deistituzionalizzazione   della Chiesa. Non c’è vita senza istituzione; ma come ha spiegato Francesco nell’intervista dal suo confinamento per il virus, la Chiesa è istituzionalizzata dallo Spirito Santo il quale con i carismi crea il disordine, ma poi da lì crea l’armonia. C’è il momento di scuotere le istituzioni (ce l’ha insegnato Ivan Illich) e c’è quello di inverare le istituzioni, come dal manicomio alla riforma psichiatrica, da Creonte ad Antigone. Lo Spirito Santo fa questo. E sono operazioni di “cristianità”.

Raniero La Valle                    25 aprile 2020

http://ranierolavalle.blogspot.com/2020/04/una-nuova-cristianita.html

 

I limiti del pontificato di Francesco

Papa Francesco rischia di perdere il sostegno delle persone che desiderano il suo successo e eviti alla Chiesa di cadere nelle mani di chi è contrario al cambiamento. È un momento importante, perché l’ottantatreenne sembra non capire che molti di coloro che credono fortemente nei suoi sforzi di riformare la Chiesa sono sempre più delusi. Il settimo anniversario della sua elezione a vescovo di Roma, il 13 marzo, è coinciso con il picco della consapevolezza della pandemia da coronavirus. Era impossibile in quel momento immergersi in complesse analisi di pontificato. Ma ora, vivere rinchiusi per limitare la diffusione del Covid-19 è diventata la nuova normalità, e sarà così per un certo periodo di tempo in molti paesi. E questo offre l’opportunità per cercare di osservare con maggiore attenzione ciò è successo nel pontificato di Francesco in questi ultimi mesi.

La pandemia ha cambiato alcune dinamiche chiave nella Chiesa cattolica. Innanzitutto, c’è stata una focalizzazione perfino maggiore sul papato e sul suo isolamento, che esprime bene la sua solitudine istituzionale. La straordinaria leadership spirituale di Francesco in questi momenti molto difficili ha confermato, ancora una volta, che il suo pontificato non è tanto una parte di un’epoca di cambiamenti, quanto piuttosto il pontificato di un protagonista attivo nell’evidente cambiamento di epoca. Ma recentemente sono successe alcune cose che preoccupano. E di cui non è facile parlare. Almeno per quelli di noi che credono che il papa gesuita stia offrendo alla Chiesa con la sua leadership di servizio ciò di cui essa ha bisogno proprio adesso. O per quei cattolici che, nei sette anni trascorsi, si sono sentiti maggiormente parte di un viaggio verso un nuovo modo di essere Chiesa, nell’unica e stessa Chiesa.

Ciò che è successo recentemente. Francesco sta offrendo un contributo inestimabile alla tradizione viva della Chiesa nei termini di forgiare un nuovo modo di rivitalizzare ed attualizzare gli insegnamenti del Concilio Vaticano II(1962-1965). Ha contribuito a liberare l’insegnamento morale cattolico dalla sua camicia di forza ideologica e ha trovato un nuovo equilibrio tra legge e misericordia. Ha riabilitato teologi che erano stati costretti al silenzio e puniti dalla politica romana successiva al Concilio Vaticano II. Ha anche guidato la

Chiesa nel cattolicesimo globale. Oltre a questo, il suo concentrarsi su problemi socio-economici (compresi quelli relativi all’ambiente), in un periodo in cui la globalizzazione è in profonda crisi, è stato profetico. Riguardo al dialogo con l’islam del mondo nominalmente cristiano, ha certamente fatto passi avanti. E ha riposizionato geopoliticamente la Chiesa verso il continente asiatico in rapido sviluppo, specialmente verso la Cina. Questi sono risultati già consolidati della sua eredità.

Ma durante lo scorso anno, è successo qualcosa di preoccupante. Si ha l’impressione che durante in questi molti mesi il dinamismo del suo pontificato stia avvicinandosi al suo limite. E questo non solo secondo teologi coinvolti nei dibattiti sulla riforma della Chiesa. Ma, almeno a me, è apparso evidente che le importantissime intuizioni spirituali di Francescomanchino di una chiara struttura sistematica tale da poter essere inserita in un quadro teologico ed in un ordine istituzionale.

Prendiamo le donne, per esempio. Tutti conoscono il modo informale in cui papa Francesco parla delle donne e le parole non politicamente corrette che talvolta usa per descrivere il loro ruolo nella Chiesa e nella società. Ma recentemente ci sono stati segnali più allarmanti. Due eventi recenti potrebbero indicare uno spostamento nel suo pontificato.

  1. Il primo è stato quanto accaduto nel periodo intercorso tra il Sinodo sull’Amazzonia dell’ottobre 2019 e la pubblicazione di Querida Amazonia nel febbraio 2020.
  2. E il secondo è stata la sua decisione di nominare nuovi membri per una seconda commissione pontificia sullo studio del diaconato femminile.

Questi due eventi possono essere letti in maniere anche molto diverse, a seconda di dove ci si colloca nell’ampio spettro del modo cattolico di credere e di pensare. I gruppi anti-Francesco si sono pubblicamente rallegrati e si sono sentiti giustificati per ciò che è successo.

Ma coloro che negli ambienti ecclesiali e teologici hanno sostenuto Francesco fin dall’inizio del suo pontificato si sono sentiti in un certo qual modo traditi. Nonostante ciò, hanno continuato a stare dalla sua parte senza mostrare eccessivamente lo choc e la delusione che provano. Il papato è giudicabile solo sul lungo termine. E questo vale in modo particolare per il papato di Francesco. Ma ci si chiede se ci possa essere effettivamente un lungo termine per una Chiesa che avrebbe bisogno proprio ora di decisioni su problemi istituzionali e strutturali.

Genesi del blocco. Gli ambienti pro-Francesco sono comprensibilmente riluttanti a parlare della crisi che sta bloccando il pontificato in questo momento. Personalmente, credo che tre cause siano alla base di questa crisi.

  1. La prima è lo stile di Francesco nel governare la Curia romana. La sua tendenza a seguire fondamentalmente un approccio di non intervento ha prodotto alcuni effetti collaterali negativi. Ad esempio, ha incoraggiato i sostenitori degli ambienti liturgici tradizionalisti, come si è visto recentemente con il nuovo decreto riguardante la “Forma straordinaria” della messa. Questo è particolarmente doloroso per i sostenitori più ardenti del papa, perché fin dalla sua elezione nel 2013 aveva chiarito in maniera assoluta che egli credeva che il tradizionalismo liturgico fosse incompatibile con una Chiesa “che va avanti”. Invece, non solo ha permesso che la scelta tradizionalista continuasse, ma non ha fatto nulla per impedire agli importanti uffici ed officiali del Vaticano di incoraggiarla. Questo ha peggiorato la situazione, specialmente per alcune chiese locali. Il papa può anche ignorare la Curia romana, ma non lo possono fare altri cattolici – tra cui vescovi e preti. Vedremo se e come questa situazione cambierà con l’annunciata costituzione apostolica mirante a riformare la Curia romana, già più volte posticipata
  2. 2.       La seconda cosa che ha affrettato la crisi attuale nel pontificato di Francesco è stata nello scorso annola pressione di vescovi e cardinali che ha messo a rischio la legittimità del papa. Non mi riferisco ad estremisti che sono diventate figure marginali in un religione cattolica virtuale, come l’arcivescovo italiano Carlo Maria Viganò. Parlo di cardinali che hanno un ruolo chiave nella Curia romana, o che lo hanno avuto fino a poco tempo fa. Nel febbraio 2019, ad esempio, il cardinale tedesco Gerhard Mueller aveva pubblicato un “Manifesto” in sette lingue rivolto a tutto il mondo. Questo documento dell’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (2012-2017) minacciava una pubblica correzione di Francesco, sostenendo che la maggioranza dei vescovi era preoccupata della sua ortodossia. Leggiamo la prima riga del “Manifesto”: “Dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione”.

Poi c’è il cardinal Robert Sarah, che Francesco ha nominato a capo della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti nel 2014. Verso la fine del 2019 il cardinale ghanese ha “arruolato” Benedetto XVI (in maniera ancora poco chiara) per avere il suo contributo per un libro controverso in difesa del celibato presbiterale obbligatorio. La scelta del periodo per l’uscita del libro non è stata casuale. Infatti il libro è stato pubblicato mentre papa Francesco stava ancora completando l’esortazione apostolica successiva al Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia – nel quale molti dei partecipanti avevano votato a favore del cambiamento della disciplina del celibato. Col senno di poi, il discorso del papa alla conclusione della riunione del Sinodo avrebbe potuto essere visto come l’inizio di un accordo con i tradizionalisti. In quella allocuzione finale – pronunciata il 27 ottobre 2019 nell’aula del Sinodo – Francesco richiamò quei cattolici “elitari” che si fissavano su piccoli argomenti “disciplinari” invece di considerare il “quadro d’insieme”. Alla luce dell’esortazione apostolica post-sinodale, Querida Amazonia, si potrebbe facilmente leggere l’opposizione del papa a quelle “élite” come il suo respingimento della proposta di riformare il celibato presbiterale. E potrebbe anche essere la ragione per cui ha respinto la proposta di dare alle donne un ruolo ministeriale nella Chiesa. In realtà, entrambe le proposte avevano incontrato un forte sostegno tra coloro che avevano partecipato alla preparazione del Sinodo, compresi i vescovi. Non credo, come altri, che Francesco abbia ceduto per paura in seguito alla pressione dei tradizionalisti. Ma storicamente, una pressione così forte su un papa è sempre un elemento di contesto da prendere in considerazione per comprendere la traiettoria di un pontificato (ad esempio, per quello di Paolo VI durante il Vaticano II).

Un elemento ulteriore è l’assoluzione dell’Alta Corte australiana, il 7 marzo, del cardinaletradizionalista George Pell, dall’accusa di abusi sessuali. Questo ha incoraggiato i cattolici che stavano spingendo per un’agenda di restaurazione – non solo a Roma, ma anche e specialmente nel paese natale del cardinale. Questo avviene nel momento in cui la Chiesa in Australia sta progettando un processo sinodale cruciale – un concilio plenario – benché l’attuale pandemia stia causando dei ritardi. Da notare comunque che il processo a Pell non rientra in questo equilibrio. Perfino importanti cattolici australiani che si oppongono al cardinale su molte questioni ecclesiali hanno dichiarato pubblicamente (e con buona ragione) che non sarebbe mai stato processato per tale crimine senza prove più consistenti.

   3.      Il terzo ed ultimo fattore che ha contribuito alla crisi di questo pontificato è in relazione con i limiti della teologia di Francesco quando parla di clericalismo e di donne. Fino ad ora, la maggior parte delle persone credeva che il papa argentino, indipendentemente dal suo modo di esprimersi derivante dall’uso di una seconda lingua o di espressioni particolari, fosse fondamentalmente aperto a cambiamenti disciplinari e a sviluppi compatibili con una comprensione organica della tradizione. Ma dopo l’ultimo anno – con Querida Amazonia e la decisione della nuova commissione sul diaconato femminile – alcuni si chiedono se il pontificato di Francesco sia giunto al limite delle possibili riforme.

Al termine dei suoi lavori, la prima commissione sul diaconato femminile ha steso una relazione finale. Che però non è mai stata resa pubblica. Ci si chiede a buon diritto il perché. In una Chiesa sinodale è giusto aspettarsi una certa dose di trasparenza. La formazione di una seconda commissione è stata annunciata l’8 aprile2020. Nessuno, tra i sette uomini e le cinque donne che compongono questo gruppo, proviene dal sud del mondo. Questo è molto difficile da capire e perfino impossibile da giustificare, specialmente per un papa che ha fatto tanto per la crescita della comprensione della dimensione globale della Chiesa cattolica. Papa Francesco dice che è necessario ascoltare tutte le parti prima di prendere una decisione. E questo è assolutamente giusto. Purtroppo, è difficile ritenere che questa seconda commissione rappresenti differenti visioni. Il pontificato si trova in una situazione molto seria. Che cosa ci sta dicendo questa situazione?

I sostenitori di papa Francesco e dei suoi sforzi per riformare la Chiesa cattolica sono preoccupati del fatto che il dinamismo del suo pontificato stia cominciando a declinare. Le sue importantissime intuizioni spirituali mancano di una chiara struttura sistematica tale da poter essere inserita in un quadro teologico e in un ordine istituzionale. Eventi recenti – come la sua decisione di ignorare il suggerimento del Sinodo sull’Amazzonia di ordinare preti sposati, e la sua creazione di una nuova commissione di studio sul diaconato femminile che non sembra favorevole all’ordinazione di donne diacono – fanno pensare ai cattolici desiderosi di riforme che questo pontificato sia in crisi. Che cosa ci dice la situazione attuale?  Papa Francesco è stato molto più efficace nel decostruire un paradigma ecclesiastico e teologico culturalmente e storicamente limitato che nel costruirne uno nuovo. Dopo sette anni di pontificato, questo deve essere detto. Su alcuni temi, Francesco ha preso delle decisioni che hanno prodotto effetti visibili. Ad esempio, determinate linee guida in Amoris lætitia hanno aiutato ad aprire i sacramenti ai cattolici in situazioni matrimoniali e familiari difficili, anche se il documento è ancora ignorato in alcune aree del mondo.

Ma quando si è trattato di riforme strutturali nella Chiesa, l’ottantatreenne papa appare come uomo di parole profetiche più che di concrete decisioni, parole che favoriscono una conversione personale piuttosto che un cambiamento istituzionale. Questo dà spazio alla creatività, quando è possibile. Ma può anche portare a contraddizioni. Prendiamo la costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle università ecclesiastiche, ad esempio. Apre molte possibilità, ma sostiene norme che riducono i modi di applicarle. Il problema è quanto Francesco abbia il controllo dell’apparato della Curia romana e dei suoi collaboratori teologici. Ci si chiede se l’isolamento effettivo di Bergoglio all’interno del Vaticano sia stato solo accresciuto dall’isolamento imposto dalla crisi sanitaria. Questo è importante perché, per quanto Francesco sia forte nell’offrire intuizioni spirituali che cambiano la vita a livello di conversione individuale e collettiva, il problema del cambiamento strutturale da un punto di vista sistematico ed ecclesiologico non è stato mai realmente impostato (neppure alla luce della tragedia della crisi degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica).

La visione trasformatrice di Francesco è un dono dello Spirito Santo quando parla di argomenti sociali, economici, ambientali (vedi specialmente la Laudato si’), e in termini di ecclesiologia della famiglia (il mio modo di essere genitore di figli piccoli è stato influenzato in maniera incredibilmente profonda dal pontificato di Francesco). Ma poi sembra bloccarsi quando si tratta di strutture ecclesiastiche di peccato, e quando si tratta di sviluppo dottrinale riguardante i ministeri. Il fatto è che anche la “conversione pastorale” richiede qualche “conversione ecclesiastica strutturale”. Ma Francesco non vuole andare in quella direzione – almeno non ancora. Ha interpretato il papato come spazi e processi aperti, a vari livelli, ma molto meno a livello della struttura ecclesiastica. L’ecclesiologia del popolo di Dio necessita di cambiamenti di struttura. Se questi cambiamenti non vengono anche dall’alto, l’ecclesiologia del popolo di Dio non va da nessuna parte. O va avanti solo quanto il cattolicesimo latinoamericano di Bergoglio.La sezione di Querida Amazonia sul presbiterato e il ministero non è solo præter (al di fuori) –Vaticano II. In alcuni passaggi sembra realmente pre-Vaticano II, che chiaramente non è ciò che Francesco pensa e prova sul Concilio.

Per quanto riguarda la sinodalità, Francesco ha fatto enormi passi avanti, in confronto a tutti i suoi. Le assemblee sinodali dei vescovi sono state, dal 2014, eventi ecclesiali chiaramente più genuini. È vero che, per il papa, il problema è anche che i vescovi non sono capaci di vivere la sinodalità, specialmente nella loro relazione con le loro chiese locali. Bisogna ammettere che, in altre tradizioni cristiane, la sinodalità non ha sempre funzionato bene. La Chiesa cattolica non dovrebbe imitare ciecamente altri modelli. Ma non è chiaro come Francesco veda, esattamente, la sinodalità. È semplicemente maggiore disponibilità di ascolto da parte del primato papale o è qualcosa di più?

Nominare una commissione pontificia che rappresenta solo una parte del sensus fidei [istinto della verità del Vangelo] della Chiesa cattolica e che non ha al suo interno dei rappresentanti del dialogo teologico su un argomento particolare, non è davvero un modo sinodale di affrontare certi temi. Qui Francesco paga il prezzo del fatto che sul tema della sinodalità lui è molto più progressista della maggior parte dei vescovi. Ma c’è sempre una distanza visibile tra Francesco e i teologi. La teologia cattolica ha bisogno della Chiesa e ha bisogno di servire la Chiesa più di quanto di solito ami ammettere. D’altra parte, la Chiesa e la riforma della Chiesa hanno bisogno della teologia, compresa la teologia accademica.

Grazie a Dio, la Chiesa non è governata da accademici. Ho criticato la mancanza di ricezione dell’insegnamento di Francesco da parte di ambienti teologici accademici, anche di teologi accademici progressisti. Ho anche messo in guardia contro i pericoli dell’autoreferenzialità nella teologia accademica. Ma il papato deve nutrire qualche forma di relazione con la teologia accademica; anche i teologi sono parte del popolo di Dio. I teologi dovrebbero essere parte del processo sinodale, anche a livello universale. Se non fosse per il lavoro dei teologi accademici negli ultimi tre decenni, nessuno oggi parlerebbe di sinodalità.

I prossimi cinque anni. I prossimi – pochi – anni saranno decisivi per il futuro della Chiesa. La pandemia di coronavirus è parte della crisi della globalizzazione. E questo accelera la crisi del sistema ecclesiale che è stato ereditato dalla cristianità medioevale. Il superamento di questo sistema non renderà necessariamente la Chiesa cattolica meno cattolica. Attualmente, molti cattolici guardano con grande speranza al concilio plenario in Australia, al “percorso sinodale” in Germania, all’attuazione del Sinodo sull’ Amazzonia e al prossimo incontro del Sinodo dei vescovi, che avrà luogo nel 2022 e si focalizzerà sulla sinodalità.

La Chiesa celebrerà un altro importante giubileo nel 2025. Si svolgerà nel diciassettesimo centenario del Primo Concilio di Nicea (325) e sarà una grande opportunità ecumenica. Nel frattempo, c’è ancora un bisogno urgente di riformare la Chiesa cattolica per rispondere alla crisi in corso degli abusi sessuali che è ora riconosciuta come un fenomeno globale. In alcuni paesi sarà l’ultima speranza che ha la Chiesa di chiamare le nuove generazioni a ricevere il Vangelo in una comunità ecclesiale.

I temi della sinodalità e del ministero femminile non sono parte di un’agenda progressista ormai ampiamente superata, ma parte della missione di evangelizzazione. Il fatto è che la questione delle donne nella Chiesa è centrale, ma è anche quella su cui l’esperienza personale di leader clericali maschi pesa di più. C’è il timore che i processi che sono stati aperti su questi due temi negli ultimi anni non siano in realtà aperti. Non c’è una sinodalità credibile senza un nuovo ruolo per le donne nella Chiesa; questo problema non può essere risolto con un linguaggio paternalistico sulle donne. Per essere chiari, non sto promuovendo un presbiterato femminile qui. Ma non si può rispondere a tutte le richieste di riforma riguardanti il ministero femminile nella Chiesa con le parole: “possono andare altrove”. L’emancipazione femminile un tempo era identificata con la tradizione cattolica. Ma ora la tradizione cattolica è ampiamente identificata con l’esclusione delle donne.

Questa non è solo la visione di secolaristi o parte di un’agenda progressista per modernizzare la Chiesa. Molti cattolici praticanti e fedeli hanno l’impressione che la loro Chiesa stia rifiutando di riconoscere un ovvio “segno dei tempi” – e cioè che Dio sta chiedendo alla Chiesa di cambiare. Papa Francesco l’ha detto nel suo discorso al Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazionenell’ottobre 2017: “Non è sufficiente trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce”.

Un eterno rinvio dei cambiamenti su questo tema porterà masse di donne cattoliche (e di uomini cattolici) ad allontanarsi dalla Chiesa o perfino a lasciare la fede. Non sarà la mia scelta, ma sarà la scelta di molti – molti di più di quelli che già l’hanno fatta. Per alcuni cattolici questa è veramente l’ultima chiamata. In quanto genitore, questa è personalmente la mia paura più grande.

Conclusione. Durante gli ultimi sette anni ha messo a fuoco dei modi di raggiungere i fedeli non mediati da canali curiali. Cambiamenti epocali come quelli che ci sta chiedendo di fare, ovviamente, hanno bisogno di tempo. Non c’è dubbio che, senza profondi cambiamenti spirituali e culturali, ogni cambiamento esterno sarà di breve durata o, peggio, deludente. Anche qui, bisogna giocare sul lungo termine. Il problema è che, senza decisioni su temi istituzionali e strutturali (e in particolare su donne e ministeri), in alcune Chiese semplicemente potrebbe non esserci un lungo termine.

Papa Francesco ha cambiato profondamente la vita di tantissime persone, e sta rendendo la Chiesa cattolica più evangelica. Questo è dovuto in gran parte alla sua impareggiabile abilità di offrire una lettura spirituale delle situazioni esistenziali. Ma anche questo cambiamento ha bisogno di cambiamenti strutturali. Lui e i vescovi non dovrebbero screditare o respingere le richieste di riforma istituzionale ritenendole tecnocratiche o elitarie. “La Chiesa è istituzione. La tentazione è sognare una chiesa de-istituzionalizzata, una chiesa gnostica, senza istituzioni, o soggetta a istituzioni fisse, che sarebbe una chiesa pelagiana”, ha detto il papa in una sua recente intervista con Austen Ivereigh, specificamente per cattolici anglofoni. “Chi fa la Chiesa è lo Spirito Santo, che non è né gnostico né pelagiano. È lo Spirito Santo che istituzionalizza la Chiesa, in una maniera alternativa, complementare”, ha detto il papa. Ci si chiede se e quando lo Spirito Santo abbia interrotto il suo lavoro di istituzionalizzare la Chiesa, o se è totalmente soddisfatto del sistema istituzionale attuale. Questa non è la protesta di un accademico che pensa che Dio abbia creato le facoltà teologiche per annunciare il vangelo. Non è l’espressione di una delusione, espressa da un progressista che si aspettava che Francesco creasse una “nuova Chiesa valorosa”.

La Chiesa tabula rasa non esiste. Queste preoccupazioni e riflessioni sono quelle di un laico cattolico la cui vita – come membro della Chiesa, come genitore e studioso – è stata profondamente trasformata da papa Francesco, in molti modi. Insieme a molti altri, sono e sarò sempre profondamente riconoscente per questo. Ma sento il dovere, in filiale devozione al papa, di aiutare la mia Chiesa a capire l’urgente bisogno di riforma. Uno dei teologi preferiti di Francesco, Yves Congar, nel suo memorabile libro Vera e falsa riforma della Chiesa indicava quattro atteggiamenti necessari per la riforma: obbedienza, pazienza, comunione e moderazione. Ma nella stessa sezione del libro ricordava ai leader della Chiesa la loro responsabilità di essere non troppo pazienti.

Massimo Faggioli  “La Croix International” 4 aprile 2020 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/04/i-limiti-del-pontificato-di-Francesco-m.-faggioli-la-croix-intern..pdf

www.stmoderna.it/faggioli-massimo_a378

{Il termine cardinale deriva dal latino cardo, “cerniera”, “cardine” inteso come centro di rotazione. I cardinali, infatti, aiutano il pontefice nell’amministrazione della Curia romana e più in generale nel governo della Chiesa universale. Al tempo di papa Cleto (I secolo) 25 presbiteri coadiuvavano il pontefice nel governo della comunità cristiana. Da essi nacque il titolo di cardinale presbitero, in quanto titolare di una chiesa della Diocesi di Roma; sette erano invece le diaconie, dal numero di dipartimenti (regiones) in cui la città di Roma era stata divisa per la cura dei poveri, ciascuno affidato ad un diacono. Da essi nacque il titolo di cardinale diacono.  I Cardinali vescovi In origine in numero di sette, erano i vescovi delle chiese suburbicarie. Ora, potrebbero avere la nomina ad tempus e quindi, al termine del loro impegno, ritornare alle diocesi di provenienza. Sarebbero cardinali pro tempore i presidenti delle Conferenze episcopali e\o delle Federazioni delle Conferenze episcopali. Il pontefice incarica ad tempus i cardinali della Curia responsabili delle Congregazioni e dei Dicasteri. I cardinali non più elettori e quelli che hanno terminato l’incarico curiale ritornano alle diocesi di provenienza.}

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CINQUE PER MILLE

Al via i pagamenti per le onlus

«Ho firmato il decreto con il quale è stata reso disponibile il fabbisogno di cassa di 334 milioni di euro necessario al pagamento del 5‰ 2018, che pertanto potrà avere inizio»: così in serata di ieri la ministra Nunzia Catalfo, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, ha annunciato l’avvio del pagamento del 5‰ 2018 agli enti ammessi al beneficio nell’elenco delle Onlus e del volontariato. Tale elenco ha raccolto 10.326.160 preferenze e 652.651 firme generiche al settore sulle 16.477.545 totali, solo per gli enti ammessi, destinando a onlus e volontariato il 67% delle risorse attribuite con il 5‰. L’annuncio, la ministra Catalfo, lo ha dato intervenendo ieri pomeriggio alla cabina di regia sul Terzo Settore convocata dal Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. La ministra ha affermato anche che «i competenti uffici ministeriali stanno provvedendo con continuità a tutti i trasferimenti delle risorse finanziarie residue agli enti».

Una seconda buona notizia sul fronte 5‰ è arrivata sempre ieri dalla Commissione Bilancio del Senato rispetto al pagamento rapido del 5‰ 2018 (entro giugno) e anche a quello del 5‰ 2019 già entro dicembre 2020. La commissione ha espresso parere sullo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recante disciplina delle modalità e dei termini per l’accesso al riparto del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche degli enti destinatari del contributo, nonché le modalità e i termini per la formazione, l’aggiornamento e la pubblicazione dell’elenco permanente degli enti iscritti e per la pubblicazione degli elenchi annuali degli enti ammessi (n. 171). Sul medesimo DPCM si era già espressa la Camera.

Il DPCM prevede che la pubblicazione degli elenchi degli ammessi e degli esclusi, con relative preferenze ottenute, avvenga entro sette mesi dall’ultimo giorno utile per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi (ricordiamo che il 5‰ può essere destinato non solo attraverso il 730 ma anche con la scheda allegata alla Certificazione unica e al modelle Redditi persone fisiche). Gli importi inferiori ai 100 euro non verranno assegnati all’ente, bensì ripartite all’interno della medesima finalità. L’erogazione del contributo dovrà avvenire entro il termine di chiusura del secondo esercizio finanziario successivo a quello di impiego.

Poche le annotazioni fatte dalla Commissione: la richiesta di valutare l’opportunità di prevedere che una parte anche modesta dell’inoptato possa essere utilizzata per sostenere specifiche gli enti di minori dimensioni, per favorirne la capacità di fundraising e di valutare l’opportunità di far confluire nel cosiddetto “inoptato” anche le risorse rivenienti da soggetti esclusi o i cosiddetti residui (per esempio, gli importi accantonati per enti che non comunicano le coordinate bancarie o nel frattempo hanno cessato l’attività), visto che queste risorse, che pure derivano da una espressione del contribuente, non vengono al momento assegnate.

Sara De Carli Vita.it  aprile 2020

www.vita.it/it/article/2020/04/30/5-per-mille-al-via-i-pagamenti-per-le-onlus/155283

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CITTÀ DEL VATICANO

In Vaticano una task-force per il post pandemia.

Cinque gruppi di lavoro, collaborazioni con Accademie, Enti pubblici e privati e organismi internazionali, un approccio multidimensionale per i settori di economia, salute, politica, sicurezza, ecologia. È la “Covid-19 Vatican Commission”, la task force voluta da Papa Francesco per affrontare la pandemia di coronavirus che ha messo in ginocchio il mondo intero. Il nuovo organismo è stato istituito in seno al Dicastero per lo Sviluppo umano integrale ed è presieduto dal cardinale Peter Turkson.

Nella “cabina di regia” figura anche padre Augusto Zampini, recentemente nominato segretario aggiunto dello stesso Dicastero. Cinquant’anni, argentino di Buenos Aires, ha nel suo background il lavoro a fianco ai ricchi e per i poveri. Ex avvocato specializzato in diritto bancario e finanziario, vanta infatti master internazionali e collaborazioni con la Banca Centrale Argentina e il prestigioso studio legale Baker & McKenzie; a 35 anni ha sentito la chiamata al sacerdozio e, per anni, ha speso il suo ministero al servizio dei diseredati delle favelas e delle Villas miseria. Illustra il lavoro della Commissione voluta dal Papa. «Esplorare ogni alternativa per evitare che i poveri siano i più colpiti. Affrontiamo la stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca».

Padre Zampini, concretamente come si svolge il lavoro di questa task-force vaticana per affrontare la pandemia di coronavirus?

            «Il Papa ha creato la Commissione non solo per rispondere alle necessità immediate delle Chiese locali, ma soprattutto come meccanismo di analisi e riflessione sulle conseguenze socio-economiche, culturali, politiche e spirituali della pandemia. Dobbiamo prevedere ciò che sta accadendo e lavorare da ora, nella prospettiva della scienza e della fede. Nella Commissione non pretendiamo di risolvere i problemi del mondo, non è nostra competenza… Vogliamo però contribuire a dare una risposta globale a questa crisi che consideriamo multidimensionale per le cause e gli effetti sulla salute, sull’economia, l’ecologia e la sicurezza. Le decisioni che i leader mondiali oggi prendono influenzeranno profondamente il futuro dell’umanità. E la Chiesa può essere d’aiuto».  

            In che modo? «Vogliamo accompagnare i leader mondiali nelle loro decisioni perché non si ripetano gli errori della crisi del 2008 e, questa volta, si tenga conto dei più vulnerabili. La situazione in cui siamo immersi ha rimarcato infatti le contraddizioni e le debolezze intrinseche delle nostre strutture sociali e delle istituzioni. Segnerà indubbiamente un cambiamento d’epoca. E, come in tutti i cambiamenti, la storia ci insegna che le prime vittime sono i poveri. La disuguaglianza è sia causa che conseguenza della pandemia, nel senso che coloro che sono più gravati dalle disparità economiche corrono un rischio maggiore di contagio; allo stesso tempo, la malattia porta ripercussioni economiche più dure per chi si guadagna da vivere giorno per giorno o per i Paesi che si trovano ad affrontare grandi sfide socio-economiche (disoccupazione, violenza, mancato accesso a servizi essenziali come l’acqua). Possiamo dire che stiamo affrontando la stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca: alcuni sono su barche grandi con possibilità di essere curati ed aiutati, altri stanno su piccole imbarcazioni, indifesi ed esposti. Ecco, la Chiesa vuole contribuire a porre un freno a tutto questo e, attraverso il prezioso patrimonio della Dottrina sociale, aiutare a prendersi cura dei più “piccoli”. In questo tempo di confusione e disperazione, la Chiesa può emergere come punto di riferimento e speranza. Insieme ad altre confessioni vogliamo aiutare a ricostruire una solidarietà universale, dinanzi all’aumentare dell’indifferenza, dell’esclusione sociale e della ricerca degli interessi personali al di sopra del bene comune».

            Parla di cambiamento epocale. Quali effetti avrà?

«Dopo il Covid-19, non possiamo continuare a mantenere un atteggiamento “business as usual”. La crisi, dicevano gli antichi filosofi greci, è una doppia prova. Da un lato, per affrontare qualcosa di terribile, qualcosa già rotto che ora produce malattia e morte. Dall’altro, per stabilire nuovi criteri affinché non si ripetano certi errori e si possa creare un mondo più giusto, inclusivo, sostenibile. Per questo lavoriamo con altri Dicasteri di Curia, istituzioni, movimenti sociali ed enti pubblici e privati in diverse parti del mondo. Insistiamo sul fatto che questo tempo, pur nel dramma, può essere occasione per realizzare un mondo più sano, con persone sane, istituzioni sane ed un pianeta sano». 

            Crede che questo accadrà realmente?

«Temo che il ciclo di disuguaglianze si prolungherà ancora. Se così fosse, ci aspettano altre crisi. Il problema è che non si esce da una crisi sanitaria con una crisi sociale».

            A proposito di povertà, il Papa recentemente ha lanciato la proposta di un “salario universale” per i precari del mondo. Lei, che alle spalle ha studi e importanti incarichi in campo economico e legale, vede l’indicazione del Pontefice una possibilità o un’utopia?

            «La menzione di un salario universale ha causato alcune controversie. Siano le benvenute! Almeno la questione è stata messa sul tavolo, il che può permettere un dialogo franco e serio su quale tipo di società vogliamo. Di fronte a questi eventi imprevisti, dobbiamo infatti esplorare ogni alternativa possibile per evitare che i poveri siano, ancora una volta, i più colpiti. Penso, ad esempio, a chi non è assicurato o vive in alloggi precari: come fa a stare a casa? E coloro che non hanno un’occupazione formale, non hanno un’assicurazione per la disoccupazione e non ricevono alcun risarcimento dallo Stato o dal mercato, come fanno a sbarcare il lunario in tempi di pandemia? Possono essere invisibili per alcuni, ma non per il Papa e la Chiesa».

            La discussione su “alcune” remunerazioni universali peraltro non è una novità del Papa, né della politica economica.

            «Esatto. Un’alternativa radicale a questo tema è il Reddito di Base universale (Universal Basic Income – Ubi). Il vantaggio è che è più facile da attuare (tutti sono pagati allo stesso modo) e che chi riceve il beneficio, essendo povero, non è intrappolato in un sistema di welfare (non ci sono requisiti specifici). Ci sono però dei rischi, come il fatto che l’Ubi non distingue tra famiglie bisognose e quelle che non necessitano di assistenza. Esempi storici dell’applicazione dell’Ubi, con risultati diversi, si trovano in Iran, Finlandia, Kenya, Alaska. Il Papa tuttavia, a mio parere, non si riferiva a niente di tutto questo perché siamo in una crisi diversa dalle precedenti e abbiamo bisogno di nuovi strumenti. Al di là delle discussioni tecniche, comunque, la verità è che milioni di persone non possono smettere di lavorare e al contempo prendersi cura di se stesse e sopravvivere. Se non abbiamo una società di persone sane, alla fine saranno in pochi quelli in grado di lavorare. Lotta contro la pandemia e ripresa economica vanno di pari passo».

            Sempre il Papa ha lanciato l’allarme per la comparsa degli usurai. Il vostro Dicastero sta facendo qualcosa in merito?

            «Sì, stiamo lavorando a proposte per rinvio, riduzione e cancellazione dei debiti. Se una comunità deve impiegare una grande percentuale delle sue risorse per pagare il debito, non sarà in grado di investire adeguatamente nella salute. Ci sono Paesi con i mercati emergenti che, mentre affrontano la pandemia, combattono una dura crisi finanziaria. Da gennaio, gli investimenti esteri nei Paesi poveri sono stati congelati o ritirati, le relazioni commerciali internazionali diminuite, e molti Paesi in via di sviluppo che dipendono dalla esportazione delle merci vedono i prezzi di queste diminuire rapidamente, così come i Paesi che dipendono dal turismo non hanno afflussi di valuta estera. Tutto ciò rende difficile importare altri prodotti di cui hanno bisogno per sopravvivere. Oltre 90 Paesi hanno chiesto ora aiuto al Fondo Monetario Internazionale. Ma non si può uscire da questa crisi indebitando coloro che sono già indebitati. Questo è quanto viene discusso in diversi forum internazionali ed è quello su cui stiamo lavorando».

            Lei personalmente su cosa lavora?

            «All’interno della Commissione coordino il gruppo di lavoro 2 che si occupa delle analisi multidisciplinari e delle proposte per il mondo post Covid-19. Come segretario aggiunto mi unisco al presidente il cardinale Peter Turkson e al segretario monsignor Bruno-Maria Duffé nella “cabina di regia” che coordina i cinque gruppi».

            Prima di approdare in Curia ha studiato legge e lavorato in importanti banche e istituti legali. Poi, la chiamata di Dio. Com’è accaduto? Era insoddisfatto della vita precedente seppur di successo?

            «Per tutta la vita ho sognato di essere avvocato, sono stato privilegiato nella formazione e nella professione. Dio però aveva altri piani per me. In missione con un gruppo di giovani a Salta, nel nord dell’Argentina, ho sentito una chiamata. Pensavo di essere diventato pazzo, ma dopo ho scoperto che anche Dio è “pazzo”: pazzo di amore per l’umanità, tanto da chiamare una persona indegna come me. È stato così generoso e misericordioso Dio da avermi invitato a servirlo con un’attenzione speciale per i più poveri ed esclusi, cercando la giustizia. La Sua giustizia, non la mia».

Salvatore Cernuzio                Vatican insider                       24 aprile 2020

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/04/24/news/in-vaticano-una-task-force-per-il-post-pandemia-zampini-a-fianco-ai-leader-mondiali-per-non-ripetere-gli-errori-della-crisi-2008-1.38753786

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

CAI pubblica il Report statistico sulle adozioni internazionali nel 2019

La pubblicazione Dati e prospettive nelle adozioni internazionali: rapporto sui fascicoli dal 1°gennaio al 31 dicembre 2019″ è disponile on-line.

www.commissioneadozioni.it/notizie/cai-pubblica-il-report-statistico-sulle-adozioni-internazionali-nel-2019

L’analisi dei dati del 2019 ci restituisce l’immagine di un’adozione internazionale in forte decrescita in Italia e nel mondo. Per la prima volta, nel nostro Paese, il numero di coppie adottive scende sotto la soglia delle mille unità (969) per 1.205 minori di cui il 53,3% maschi e il 46,7% femmine. Rispetto al territorio nazionale, solo cinque realtà, nel corso del 2019, superano i 100 ingressi annui: la Campania (153), la Lombardia (151), la Puglia (116), il Veneto (110) e la Toscana (104). Per quanto concerne i paesi di provenienza, il 2019 segna il deciso sorpasso della Colombia sulla Federazione Russa; tra il 2018 e il 2019 la Colombia aumenta il numero degli adottati da 169 a 222 per un incremento percentuale del 31,3%, contestualmente la Federazione Russa diminuisce da 200 a 159 adozioni per una diminuzione percentuale del 20,5%. Seguono Ungheria (129), India (104), Bulgaria e Bielorussia (81).

Il calo delle adozioni è un fenomeno di portata mondiale i cui dati sono analizzati e discussi nella nuova sezione del report dedicata all’Italia nel contesto internazionale. Tra il 2004 e il 2018 nei ventiquattro principali Paesi di accoglienza si è passati da 45.483 a 8.299 adozioni ossia l’81,7% in meno. L’Italia resta comunque il Paese al mondo con la più alta propensione all’adozione internazionale, in ragione del rapporto abitanti e minori adottati e seconda solo agli Stati Uniti per numero assoluto di adozioni. CAI pubblica il Report statistico sulle adozioni internazionali nel 2019

L’analisi dei dati del 2019 ci restituisce l’immagine di un’adozione internazionale in forte decrescita in Italia e nel mondo. Per la prima volta, nel nostro Paese, il numero di coppie adottive scende sotto la soglia delle mille unità (969) per 1.205 minori di cui il 53,3% maschi e il 46,7% femmine. Rispetto al territorio nazionale, solo cinque realtà, nel corso del 2019, superano i 100 ingressi annui: la Campania (153), la Lombardia (151), la Puglia (116), il Veneto (110) e la Toscana (104). Per quanto concerne i paesi di provenienza, il 2019 segna il deciso sorpasso della Colombia sulla Federazione Russa; tra il 2018 e il 2019 la Colombia aumenta il numero degli adottati da 169 a 222 per un incremento percentuale del 31,3%, contestualmente la Federazione Russa diminuisce da 200 a 159 adozioni per una diminuzione percentuale del 20,5%. Seguono Ungheria (129), India (104), Bulgaria e Bielorussia (81).

            Il calo delle adozioni è un fenomeno di portata mondiale i cui dati sono analizzati e discussi nella nuova sezione del report dedicata all’Italia nel contesto internazionale. Tra il 2004 e il 2018 nei ventiquattro principali Paesi di accoglienza si è passati da 45.483 a 8.299 adozioni ossia l’81,7% in meno. L’Italia resta comunque il Paese al mondo con la più alta propensione all’adozione internazionale, in ragione del rapporto abitanti e minori adottati e seconda solo agli Stati Uniti per numero assoluto di adozioni.

Dati e prospettive nelle adozioni internazionali: rapporto sui fascicoli dal 1° gennaio al 31° dicembre 2019

http://www.commissioneadozioni.it/media/1732/report_cai_2019_200417.pdf

www.commissioneadozioni.it

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COMUNIONE DEI BENI

Comunione dei beni: come funziona

Il regime patrimoniale della famiglia: quando i coniugi scelgono la comunione dei beni. Tu e il tuo fidanzato avete finalmente deciso di sposarvi. Entrambi lavorate e siete pronti per fare il grande passo. Tuttavia, non avete ancora parlato degli aspetti economici del vostro rapporto, cioè quale regime patrimoniale scegliere: comunione o separazione dei beni? Vorresti saperne di più, ad esempio, sulla comunione dei beni: come funziona? Forse di questi tempi, la cosa migliore sarebbe scegliere il regime della separazione dei beni. In questo modo, ognuno resta proprietario esclusivo dei propri beni. Tu, però, vorresti optare per il diverso regime della comunione per condividere ogni acquisto con il tuo futuro marito. Hai deciso, quindi, di informarti meglio.

Comunione dei beni: cos’è? Prima di affrontare il tema centrale, cerchiamo di capire cos’è la comunione dei beni. Devi sapere che prima di sposarti hai la possibilità di scegliere il regime patrimoniale, vale a dire il regime che regolerà gli acquisti dei beni effettuati da te e il tuo coniuge nel corso del vostro matrimonio. Quindi, in buona sostanza, il regime patrimoniale regola esclusivamente gli aspetti economici del matrimonio.

Se, al momento della celebrazione del matrimonio, la coppia non specifica nulla circa il regime patrimoniale, scatterà automaticamente la comunione dei beni. Con tale regime, ogni acquisto compiuto dai coniugi (anche separatamente), appartiene ad entrambi (fatte salve alcune eccezioni che vedremo tra poco). Facciamo un esempio pratico: supponiamo che tu sia sposata in regime di comunione dei beni e acquisti un televisore e un frigorifero. In tal caso, tuo marito sarà proprietario per metà (quindi al 50%) sia del televisore sia del frigorifero, nonostante detti beni siano stati acquistati da te soltanto. La stessa cosa vale, ovviamente, anche per gli immobili (ad esempio, la casa).

Comunione dei beni e separazione dei beni: qual è la differenza? La comunione dei beni e la separazione dei beni sono entrambi due regimi patrimoniali che i coniugi possono scegliere di adottare per regolare i loro rapporti economici. Sussiste, però, una differenza sostanziale: mentre con la comunione dei beni, i coniugi scelgono che i beni acquistati in costanza di matrimonio appartengono ad entrambi per metà; con la separazione dei beni avviene l’esatto opposto, nel senso che ciascun coniuge è libero di acquistare un bene ed esserne il proprietario esclusivo. Quindi se, ad esempio, tuo marito compra una motocicletta, questo bene apparterrà soltanto a lui. Inoltre, il regime della comunione si instaura in automatico al momento della celebrazione del matrimonio in assenza di un diverso accordo dei coniugi. Per la separazione dei beni, invece, è necessaria una espressa dichiarazione nell’atto di matrimonio (oppure successivamente, tramite atto pubblico stipulato davanti al notaio).

Comunione dei beni: come funziona? A questo punto, ti è chiaro che scegliendo il regime patrimoniale della comunione, ogni bene acquistato dopo le nozze sarà di proprietà di entrambi i coniugi. Ma praticamente, come si attua il regime della comunione dei beni? In automatico, se i coniugi non manifestano alcunché. In altre parole, se gli sposi – al momento della celebrazione del matrimonio – non dicono nulla in merito al regime patrimoniale, si applicherà la comunione dei beni; se, invece, dichiarano di voler optare per la separazione dei beni, in tal caso l’ufficiale di stato civile (o il sacerdote) annoterà tale decisione sull’atto di matrimonio.

            Va detto che i beni oggetto della comunione si dividono in tre categorie:

  1. Beni che rientrano nella comunione al momento dell’acquisto (cosiddetta comunione immediata): si pensi, ad esempio, agli acquisti effettuati dai coniugi durante il matrimonio (ad esempio, la casa, un terreno, una macchina, una bicicletta, ecc.), alle aziende costituite dopo il matrimonio e gestite da entrambi i coniugi, agli utili e agli incrementi dell’azienda di cui è titolare un solo coniuge e costituita prima del matrimonio;
  2. Beni che rientrano nella comunione solo al momento dello scioglimento della stessa (cosiddetta comunione de residuo): ad esempio, supponiamo che un coniuge percepisca un canone di locazione. Al momento dello scioglimento della comunione, il coniuge dovrà dividere con l’altro la somma di denaro percepita a titolo di locazione e non ancora spesa;
  3. Beni personali che non rientrano nella comunione, in quanto rimangono nella titolarità esclusiva del coniuge. Si pensi, ad esempio, ai beni che appartengono al coniuge prima del matrimonio, ai beni acquistati per effetto di una donazione o di un testamento dopo il matrimonio, ai beni di uso strettamente personale (ad esempio, i capi di abbigliamento, i gioielli, ecc.), ai beni destinati all’esercizio della professione, ecc.

Per quanto riguarda la gestione della comunione, ciascun coniuge è libero di amministrare i beni comuni in maniera autonoma. Se però gli atti eccedono l’ordinaria amministrazione, occorre il consenso dell’altro (si pensi, ad esempio, a quando un coniuge intende vendere la casa). Se manca l’accordo, l’atto eventualmente compiuto può essere annullato.

Come si scioglie la comunione dei beni? Il regime della comunione può sciogliersi nei seguenti casi:

  • Morte di uno dei due coniugi oppure dichiarazione di assenza o morte presunta del coniuge;
  • Separazione personale, divorzio o annullamento del matrimonio;
  • Separazione dei beni;
  • Convenzione con cui i coniugi scelgono di abbandonare il regime della comunione dei beni;
  • Fallimento del coniuge dichiarato con sentenza del giudice. Lo scioglimento della comunione sarà automatico nel momento stesso del deposito della sentenza di fallimento.

La causa statisticamente più frequente di scioglimento del regime di comunione è sicuramente la separazione personale dei coniugi. Al riguardo, occorre chiarire che lo scioglimento della comunione dei beni si avrà solo nel momento in cui la sentenza di separazione passa in giudicato, cioè diviene definitiva.

Comunione dei beni e separazione dei beni: quale conviene? La comunione dei beni conviene sceglierla quando uno dei due coniugi si trova in una posizione più debole rispetto all’altro. Si pensi, ad esempio, alla moglie che non lavora.

Conviene optare per il diverso regime della separazione dei beni, invece, quando uno dei coniuge è un libero professionista, un titolare di partita iva, un lavoratore autonomo, un lavoratore dipendente con incarichi dirigenziali. Ciò in quanto eventuali suoi creditori potrebbero aggredire i beni della comunione. Si pensi, ad esempio, ad un ingegnere che nella progettazione di un’opera commetta degli errori. In un’eventuale causa, l’altro coniuge potrebbe essere chiamato a risarcire il danno cagionato a terzi.

La legge per tutti        24 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/368533_comunione-dei-beni-come-funziona

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Una lacerazione ricucita a fatica

Non è bastata neppure la precipitosa retromarcia di Conte, dopo il duro comunicato della Cei, a placare le polemiche suscitate dalla sua conferenza stampa di domenica sera, in cui aveva annunciato il mantenimento della sospensione sine die delle celebrazioni eucaristiche. Immediata la risposta della Conferenza Episcopale Italiana, che aveva denunciato la violazione dell’«esercizio della libertà di culto». Un’accusa grave, foriera di una rottura che il presidente del Consiglio sicuramente non prevedeva e non voleva. Da qui la nota con cui palazzo Chigi, nella tarda serata dello stesso giorno, tentava di recuperare annunciando l’elaborazione di un protocollo per la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche. Si è saputo, dopo, che la decisione del governo era stata presa su indicazione del Comitato tecnico-scientifico, in base alla considerazione che le chiese sono frequentate soprattutto da persone anziane, particolarmente esposte al contagio.

            Ora si parla di una ripresa delle celebrazioni liturgiche per domenica10 maggio, privilegiando le messe all’aperto e mettendo in atto una serie di precauzioni per evitare il contagio.

Le reazioni favorevoli alla Cei. Questi i fatti. Ma, al di là dell’episodio, resta il vespaio di reazioni e di commenti, che hanno delineato una netta spaccatura nell’opinione pubblica, prima di tutto in quella cattolica.

La netta maggioranza di quest’ultima si è schierata con la Cei. Da un capo all’altro d’Italia vescovi, parroci, semplici fedeli, hanno salutato la presa disposizione della Conferenza Episcopale come una salutare reazione a un provvedimento che rischiava di perpetuare la situazione di disagio che la sospensione delle messe aveva creato. A colpire sono stati soprattutto l’unilateralità della decisione e lo scarso valore attribuito alla dimensione religiosa. Per quanto riguarda la prima, in un’intervista al «Giornale» il cardinale Camillo Ruini, ex presidente della Cei, ha accusato il governo di essersi arrogato «competenze non sue riguardo alla vita della comunità cristiana».

            Sullo sfondo, l’art.7 della Costituzione, dove si dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». O, ancora più monte, la famosa risposta data da Gesù ai dottori della legge che lo interrogavano sulla liceità del pagamento del tributo a Cesare: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). Quanto al misconoscimento della dimensione religiosa, un altro ex presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, ha fatto notare che «la persona ha desideri non solo materiali, ma anche spirituali. Assicurare il pane della tavola è doveroso, ma non riconoscere anche il pane dello spirito significa non rispettare l’uomo e impoverire la convivenza. L’esperienza della fede genera energia morale, e questa è la vera forza di una società».

Le reazioni critiche. Non sono mancate le reazioni contrarie alla presa di posizione dei vescovi, anche da parte di cattolici. Emblematica la posizione di don Giovanni Ferretti, [Torino] noto filosofo: «Libertà di culto non è libertà di infettare la gente. La nota Cei mi ha profondamente amareggiato, come cittadino, come cattolico e come prete, mi pare un errore politico e pastorale». I motivi: «Siamo in grado oggi di assicurare che non vi sarà pericolo di contagio? Sapremo sanificare le chiese? Sapremo obbligare la gente a tenere le distanze le mascherine? E il prete celebrerà con la mascherina? Che Messe con il popolo sarebbero mai queste?».

            Ci sono stati anche commenti più aspri, come quella del teologo Alberto Maggi, [OSM Macerata] che ha esortato a non dare troppa importanza all’opinione dei vescovi, incapaci, a suo avviso, di percepire le vere esigenze della società e degli stessi cristiani. Convergendo così, paradossalmente, con la posizione di Antonio Socci, instancabile critico di Francesco e della Chiesa da lui guidata, secondo cui «da sempre la Cei – su ordine del papa argentino, mosso dalla precisa intenzione di attaccare la Lega di Salvini – era stata più che collaborativa: servile». Tardiva, dunque, secondo Socci, la protesta per la decisone di Conte: «La Cei raccoglie quello che ha seminato. Da servi si sono comportati, da servi vengono ora trattati».

L’ammonimento di papa Francesco. Grande rilievo i mezzi di comunicazione hanno dato alle parole del papa, durante una messa a Santa Marta: «In questo tempo nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni». Una preghiera interpretata da molti come un segnale di sostegno alla posizione del governo nello scontro con la Cei, tanto da far parlare a un quotidiano di «una vistosa mancanza di comunicazione» e di «forti incomprensioni tra papa Francesco e la Conferenza episcopale italiana». Così del resto hanno interpretato le parole del papa quei cattolici che già da tempo vedono in Francesco un dissacratore della genuina tradizione cattolica e che hanno commentato con giudizi del tipo: «Il primo Papa ateo della storia», «Papa comunista», «Ritorni in Argentina».

Il punto di vista dell’altro. Cosa pensare di questa vicenda e, soprattutto, delle prese di posizione che essa ha suscitato? La prima cosa appare evidente è che ci sono state delle difficoltà a mettersi nel punto di vista dell’“altro”. È stato sicuramente l’errore di Conte che, pur avendo delle importanti ragioni scientifiche e sanitarie a favore della sua soluzione iniziale, non ha tenuto affatto conto della grande fatica con cui il mondo cattolico e i suoi pastori avevano vissuto questo periodo, con sincero spirito di collaborazione col governo, ma attendendosi anche una adeguata comprensione, da parte di quest’ultimo, delle proprie esigenze. Il premier non si è neppure reso conto che i vescovi si trovavano pressati da una base inquieta e perplessa, a cui i “conservatori” e i partiti di destra – con in testa Salvini, il quale aveva fatto la proposta (lasciata cadere dalla Cei) di riaprire le chiese per la Settimana Santa – offrivano continue sollecitazioni, accusando la gerarchia di “resa” di fronte al potere politico.

Le esagerazioni del comunicato e di molte reazioni dei cattolici. Anche da parte della Cei, è vero, l’accusa rivolta a Conte di voler violare la libertà di culto, è suonata in sé esagerata. E il tono appare troppo rivendicativo e quasi minaccioso. È mancata – nel comunicato dei vescovi, ma soprattutto in tanti commenti provenienti dal mondo cattolico – una sfumatura di comprensione nei confronti del governo, alle prese con una sollevazione generale, da parte di tutte le categorie che vogliono riaprire le rispettive attività, in un momento in cui i medici dicono che la riapertura è un grosso rischio.

Le ragioni della Cei. Alla Cei bisogna tuttavia riconoscere l’impatto della delusione, davanti a una decisione bruscamente unilaterale, mentre era ancora in corso un dialogo rispettoso col governo. Tanto più che il decreto prevedeva, entro i primi di giugno, la data di riapertura di musei e ristoranti. Finché si era trattato, come finora, di farmacie e tabaccai, era stato facile rispondere ai critici interni che una veloce compravendita non è comparabile alla partecipazione di una folla a una messa domenicale. Ma i musei e i ristoranti? Possibile che non ci fosse neppure par condicio fra i McDonald’s e le chiese? Resta la violenza di una frangia consistente di cattolici che hanno dato l’impressione di pensare il problema solo in termini confessionali, contraddicendo l’etimologia di “cattolico”, che indica una pienezza e universalità di visione. Giusta la richiesta della ripresa delle funzioni, non sempre il tono.

Il bilanciamento negato. Altrettanto unilaterale appare l’atteggiamento di coloro che si sono indignati per la presa di posizione dei pastori. Fermo restando il valore primario della salute, oggi si sente giustamente l’urgenza di bilanciarlo con altri, per tentare una difficile ma non impossibile conciliazione. Lo si fa per il lavoro e la produttività, senza cui si rischia di morire di fame, invece che di coronavirus. Lo si fa per la cultura, riaprendo le librerie e i musei. È giusto chiedere che si faccia anche per le funzioni religiose. A meno di dare per scontato, come purtroppo accadeva anche prima del coronavirus (quando le chiese erano aperte!), che ciò che non muove il Pil sia irrilevante e venga dopo.

Che significa essere cattolici “praticanti”? Soprattutto però appare preoccupante la scarsa percezione, dall’una e dall’altra parte, che questa società potrà risollevarsi, anche dal punto di vista materiale, solo reinterpretando la dimensione spirituale. Non lo capiscono coloro che mettono in secondo piano, come optional, la sfera religiosa. Ma sembrano non capirlo neppure coloro che, per recuperarla, si pongono soltanto il problema di ripristinare il culto pubblico.

            In questi giorni, in un articolo apparso su «Settimananews», Ivo Seghedoni [parroco a Modena] ha fatto notare che il coronavirus ha fatto saltare lo spartiacque tra cattolici “praticanti” e “non praticanti” a cui eravamo assuefatti da secoli, e che indicava nei secondi coloro che non vanno in chiesa la domenica. Oggi ci siamo trovati tutti ad essere, in quel senso, “non praticanti”. Ma questo ci costringe a chiederci se davvero la “pratica” che caratterizza il cristiano si possa ridurre alla frequenza ai riti, o se non dobbiamo prendere coscienza che essa oggi esige un ripensamento più profondo, che non escluda il culto ma riproponga aspetti dimenticati del Vangelo. Perché ora a messa ci torneremo, ma, così come non abbiamo cessato di essere “praticanti”, nel senso evangelico per il solo fatto di essere esclusi dai riti, non è detto che lo saremo davvero perché la domenica ci presenteremo a prendere l’eucaristia.

www.tuttavia.eu/2020/04/29/i-chiaroscuri-ritorno-in-chiesa-cronaca-di-un-conflitto

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Arezzo. Consultorio La Famiglia.  “Pronto? Ti ascolto!”

E’ il nuovo servizio di accoglienza e sostegno telefonico del Consultorio: è un servizio pensato per tutte le persone che vivono un momento di difficoltà o di incertezza e che desiderano confrontarsi con professionisti iscritti all’albo dei Consulenti Familiari. È un servizio di “ascolto attivo”, non è una vera e propria consulenza, ma offre un colloquio attento e autentico, anonimo e gratuito, in vista della ripresa del cammino personale di ciascuno. Il servizio viene svolto in collaborazione con la Diocesi di Arezzo, Cortona e Sansepolcro e con il contributo di A.I.C.C.eF.® ed A.C.L.I.  È un servizio gratuito e anonimo aperto a tutti. La sede del Consultorio si trova in Via San Niccolò, 51 ad Arezzo.

www.consultoriolafamiglia.it/categorie.php?categoria=1

 

Mantova         Etica Salute & Famiglia – anno XXIV n. 03 – marzo – aprile 2020

 Periodico a cura del Consultorio UCIPEM di Mantova e dell’Associazione Virgiliana di Bioetica

Bambini terminali. No all’accanimento terapeutico   Armando Savignano                            

Testa e cuore                                                                   Anna Orlandi Pincella 

Un tempo per tacere e un tempo per parlare               Paolo Gibelli

Scautismo e solidarietà internazionale                         Giuliana Belfanti, Benedetta Spallanzani

Culle vuote. Prospettive                                                 Anna Orlandi Pincella

Guardare e capire il bambino                                       Laura Brutti

Il figlio ad ogni costo e la fecondazione assistita         Alessandra Venegoni

Obesità e integrazione dell’approccio terapeutico      Giuseppe Cesa

In ospedale…….su un comodino                                   Paola Sampietri

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA%20SALUTE_FAMIGLIA%20-%202020%20anno%20XXIV%20n%C2%B002%20-%20Marzo%20Aprile.pdf

 

Vittorio Veneto. “Vicini anche da lontano”

       Aumentano i disagi all’interno delle famiglie ma anche per chi vive da solo durante l’emergenza Coronavirus e il Comune di Pieve di Soligo ha deciso di pubblicizzare, tramite il sito istituzionale dell’ente, le attività del centro di consulenza familiare del Consultorio familiare Socio Educativo Ucipem –Associazione di Promozione Sociale riconosciuta dalla Regione Veneto di via Fogazzaro 28 a Vittorio Veneto.

     Si promuove infatti l’iniziativa “Vicini anche da lontano”, l’attività gratuita di ascolto a distanza per tutte le persone che, in questa fase così delicata, dovessero aver bisogno di questo servizio.

     “Viviamo in un momento di emergenza sanitaria – scrive in una nota il Consultorio – che ha cambiato le abitudini di vita sociale e i ritmi consueti delle giornate; al punto da sentirsi spaesati, preoccupati per il domani e coinvolti in emozioni non sempre positive”. “I nostri consultori familiari – continua la nota – offrono un’opportunità di ascolto a chi sente la necessità di un confronto, di uno sfogo, di un momento di condivisione o di una rassicurazione per riprendere fiato, per sentirsi rincuorati, per essere meno soli”.

     La segreteria del consultorio affiderà la persona che dovesse contattare la struttura ad un consulente familiare nella modalità più adatta al richiedente (telefono o piattaforma telematica).

     Il servizio gratuito è rivolto a giovani, adulti e anziani; singoli o coppie.

www.qdpnews.it/pieve-di-soligo/36216-vicini-anche-da-lontano-il-comune-di-pieve-di-soligo-promuove-l-attivita-del-consultorio-cfse-ucipem

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COPPIE

Cosa fare se un coniuge non vuole separarsi

    Tra te e tua moglie manca la stima reciproca da tanto tempo. Non dormite più nello stesso letto e non riuscite ad avere un dialogo. Data la situazione, le hai comunicato l’intenzione di volerla lasciare. Lei ti supplica di ripensarci per il bene dei figli. Soprattutto non vuole “dare scandalo”. Cosa direbbe la gente del fallimento del vostro matrimonio? Tu, però, non ce la fai più. La situazione è diventata intollerabile. Decidi allora di rivolgerti ad un avvocato per capire cosa fare se un coniuge non vuole separarsi. Accade davvero come si vede nei film? La moglie può rifiutarsi di firmare le carte per la separazione? L’avvocato ti tranquillizza. Fortunatamente, nel nostro Paese le cose funzionano in modo ben diverso. Se infatti un coniuge non vuole proprio saperne di separarsi, l’altro potrà ricorrere alla separazione giudiziale. È opportuno, tuttavia, cercare di riflettere bene e limitare i danni prima che sia troppo tardi.

Cos’è la separazione? Quando la coppia entra in crisi è facile che decida di separarsi. In questo modo, alcuni effetti del matrimonio (come, ad esempio, l’obbligo di coabitazione) vengono sospesi in attesa di una riconciliazione o di una pronuncia di divorzio. Ad esempio: Tizia e Caio sono sposati da 10 anni. Ad un certo punto della loro vita matrimoniale, le cose cominciano ad andare male fino a quando Tizia scopre il tradimento del marito e decide di lasciarlo per sempre. Può farlo? Certo.

            Con la separazione, i coniugi, pur continuando ad essere marito e moglie, sono autorizzati a non vivere più insieme e, perfino, ad avere nuove relazioni sentimentali. Qualora ci ripensassero, e ad esempio riprendessero la convivenza, allora la separazione verrebbe meno.

Tipologie di separazione. La separazione legale tra coniugi può essere:

  1. consensuale: quando i coniugi sono pienamente d’accordo sulle condizioni della separazione relative alla casa coniugale, al mantenimento, ai figli, ecc. In tal caso, è possibile rivolgersi al tribunale per far omologare l’accordo oppure scegliere la via della negoziazione assistita o la dichiarazione dinanzi al sindaco;
  2. giudiziale: in tal caso, non c’è l’accordo dei coniugi, quindi ciascuno sarà libero di depositare un ricorso in tribunale e chiedere la separazione.

Cosa fare se un coniuge non vuole separarsi. Supponiamo che tua moglie non voglia separarsi. Hai cercato di convincerla a trovare un accordo. L’hai perfino rassicurata, dicendole che sei disposto a darle un mantenimento di tutto rispetto. Lei, però, si ostina a non accettare la fine del vostro matrimonio. Ebbene, come comportarsi in questi casi? Devi arrenderti e vivere un matrimonio pieno di sofferenze? Nessuna legge ti costringe a stare con una persona che non ami. Quindi, se l’altro coniuge non vuole separarsi, l’unica strada da percorrere è quella della separazione giudiziale. In pratica, si tratta di avviare un procedimento contenzioso, depositando un ricorso in tribunale con cui chiedi la separazione per:

  • Fatti che hanno reso intollerabile la prosecuzione della convivenza: ad esempio, un tradimento, una totale carenza di dialogo, ecc.;
  • Fatti che hanno recato un pregiudizio all’educazione dei figli: ad esempio se due genitori non si parlano questo si ripercuote inevitabilmente sulla prole.

Depositato il ricorso, viene fissata un’udienza nella quale i coniugi devono comparire personalmente dinanzi al presidente del tribunale. A questo punto, potrebbero aprirsi tre diversi scenari:

  1. I coniugi si presentano all’udienza; in questo caso, il presidente tenterà una conciliazione che, in caso di esito positivo, porterà alla fine del procedimento. In alternativa, il procedimento prosegue;
  2. Il coniuge ricorrente (cioè chi ha depositato il ricorso) non si presenta; in tal caso, il procedimento si chiude per rinuncia;
  3. Il coniuge convenuto (cioè la controparte) non si presenta; in questo caso, il giudice fissa una nuova udienza e, se ritiene opportuno, decide gli aspetti urgenti che non possono essere rinviati.

Supponiamo che i coniugi si siano presentati all’udienza di comparizione e che il tentativo di conciliazione sia fallito. In tal caso, il procedimento prosegue con l’attività istruttoria durante la quale saranno sentiti testimoni, saranno acquisiti documenti, verranno disposte verifiche fiscali, ecc. Un aspetto da non sottovalutare è che il giudice può pronunciare la separazione con addebito a carico di uno dei due coniugi. In altre parole, si tratta di attribuire la colpa per la fine del matrimonio al marito o alla moglie (oppure ad entrambi). Ad esempio, si pensi al marito che ha tradito la moglie con la vicina di casa. A causa di tale circostanza, la convivenza è divenuta intollerabile, pertanto la moglie può chiedere la separazione con addebito al marito.

Il procedimento di separazione giudiziale termina con una sentenza. Attenzione però: il coniuge che si è ostinato a non voler trovare un accordo, potrebbe anche essere condannato al pagamento delle spese legali. Il consiglio, quindi, è sempre quello di rivolgersi ad un buon avvocato il quale ti illustrerà tutte le possibili soluzioni per limitare i danni. Inoltre, tieni presente che la separazione giudiziale può durare anche diversi anni rispetto a quella consensuale che solitamente si risolve nel giro di mesi.

Effetti della separazione giudiziale

  • Il coniuge a cui è stata addebitata la separazione perde il diritto all’assegno di mantenimento e i diritti successori. Tuttavia, qualora ricorrano i presupposti (come, ad esempio, lo stato di bisogno), può essergli riconosciuto l’assegno alimentare necessario per il suo sostentamento;
  • Viene meno l’obbligo di coabitazione: nel senso che ciascuno può vivere per conto proprio;
  • Viene disposto l’affidamento condiviso dei figli minori. In altre parole, i figli vengono affidati ad entrambi i genitori con collocamento prevalente presso uno dei due (solitamente, la mamma). Se uno dei due genitori è inadeguato al suo ruolo, allora potrà essere disposto l’affidamento esclusivo;
  • Se ci sono figli, la casa coniugale verrà assegnata al coniuge (anche se non proprietario) che convive con gli stessi;
  • Si scioglie la comunione dei beni;
  • Ciascun coniuge è libero di avere un’altra relazione sentimentale purché non leda la dignità dell’altro;
  • Occorre attendere 12 mesi per chiedere il divorzio (e non 6 mesi come previsto per la separazione consensuale).

                        La legge per tutti        22 aprile 2020

www.laleggepertutti.it/373286_cosa-fare-se-un-coniuge-non-vuole-separarsi

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CORONAVIRUS

La ricerca. Famiglia, lo stress di genitori e figli in isolamento

Ricerca dell’Università Cattolica: così i nuclei familiari hanno attraversato la fase più critica dell’emergenza Covid. Con i figli minorenni tanta fatica, ma per il 70% anche tanta forza di coesione

Sei famiglie su dieci hanno vissuto forti momenti di stress durante il momento più drammatico dell’emergenza sanitaria. Il peggio è toccato alle famiglie con figli piccoli o adolescenti dove, oltre alla paura del coronavirus per sé e per i propri familiari, hanno pesato preoccupazioni per il lavoro, per il futuro dei figli, per la scuola, per il venir meno delle relazioni, per le tante incertezze che gravavano sulla vita di tutti i giorni. Ma per il 72% delle famiglie, questo momento pesantissimo ha lasciato anche momenti positivi, ha permesso di crescere nella capacità rigenerativa dei legami, di scoprire nelle pieghe di una situazione drammatica, risorse inattese nei rapporti di coppia e in quelli tra genitori e figli. La sfida del cambiamento insomma promette di non lasciare solo macerie e fa sperare che tante profezie di sventura riguardo all’impennata delle separazioni e dei divorzi, che secondo alcuni dovrebbe verificarsi alla fine del lockdown[confinamento], potrebbero rivelarsi inesatte.

Lo spiega la ricerca “La Famiglia al tempo del Covid 19”, condotta da un gruppo di ricercatori psico–sociali del Centro di Ateneo studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica diretto da Camillo Regalia, insieme alla società Human Highway. È una ricerca svolta in due fasi: la prima si è appena conclusa, la seconda verrà effettuata dopo la fine del periodo del lockdown, quando le attività sociali ed economiche cominceranno a riprendere. La ricerca ha coinvolto 3.000 persone in Italia di età compresa tra i 18 e i 85 anni, che hanno risposto a un questionario on line tra il 30 marzo e il 7 aprile 2020.

            «Da quasi due mesi a questa parte le famiglie italiane hanno   i conti con una vera e propria rivoluzione con un repentino passaggio dalla dimensione del “fuori” a quella del “dentro”. Un cambiamento totale – spiega Camillo Regalia – senza una previa preparazione che colloca tutti in un tempo sospeso».

            Che famiglia emerge da questi dati?

Sospesa tra stress e opportunità, che deve fronteggiare diverse difficoltà che rischiano di sopraffarla, ma che allo stesso tempo mostra una capacità di attivare risorse al proprio interno per orientare e trasformare in senso positivo i cambiamenti affrontati.

            Più figli più fattori di stress, ci dice la ricerca. Quanto ha pesato per tanti genitori la sensazione di essere lasciati soli dalle istituzioni?

            Due terzi hanno espresso un giudizio negativo, o hanno preferito astenersi. Solo un terzo delle famiglie si è sentita supportata dalle istituzioni nell’affrontare questa fase critica: il sovraccarico di responsabilizzazione per il gran numero di attività ricadute all’interno della famiglia si è tramutato spesso in una delega a trovare soluzioni alla gestione della complessità.

            Quali sono stati i fattori di stress che più hanno inciso?

La preoccupazione per la salute propria e dei propri familiari, la conciliazione famiglia–lavoro, le preoccupazioni economiche (il 45% del campione si attende una diminuzione delle proprie entrate), la limitazione della vita sociale. In particolare la tensione è maggiore per le famiglie che hanno figli conviventi al proprio interno, soprattutto se in età scolare o adolescenti.

            E per quanto riguarda le altre tipologie di famiglie?

Se si suddivide il campione in funzione degli stress sperimentati, il 61% delle famiglie con figli in casa e il 51% delle famiglie con figli fuori casa dichiara di vivere una molteplicità di stress. Il 58% delle famiglie monocomponenti e il 51% delle coppie senza figli dichiara di sperimentare al massimo un solo stress.

            Quanto ha contato l’effetto “quarantena blindata”?

Vivere in famiglia in un contesto ampio di restrizioni non è certo facile. Il 58% dei rispondenti afferma di sentirsi maggiormente in gabbia rispetto a prima. È anche relativamente aumentata l’insofferenza nei confronti dei propri familiari, maggiore (36%) per le famiglie in cui ci sono figli in casa, più contenuta per chi ha figli non in casa (29%) e decisamente minore per chi vive in coppia o da solo (19% e il 12%).

            Anche in questa situazione la capacità rigenerativa della famiglia non è venuta meno. Un risultato inatteso?

            Per certi versi sì. I membri della famiglia hanno fatto squadra e riscoperto i valori dello stare insieme, in particolare la coesione, più accentuata proprio per le famiglie che hanno figli.

            Su quali aspetti si è concretizzata questa coesione?

La dimensione in particolare più toccata ha riguardato la sfera emotiva. Ben il 61% dei rispondenti avverte un incremento della coesione tra i componenti della famiglia, pur con dei distinguo abbastanza chiari in funzione della struttura famigliare. Sono risultati importanti, come il comunicare, il parlare, lo stare insieme. Anche in queste fasi di grande stress non è venuta meno la dimensione fondante della famiglia.

Luciano Moia   Avvenire 26 aprile 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/famiglie-la-fatica-e-la-rinascita

 

Come sta cambiando la nostra vita. La Ricerca del Cnr

La vita di coppia è messa a dura prova dall’isolamento a casa, tanto che il 15% di chi convive crede ci sia il rischio che si verifichino episodi di violenza psicologica, mentre il 6% si dice preoccupato per la stabilità della relazione. E la paura per il futuro e per la propria stabilità economica è forte: circa 4 persone su 10 prevedono di andare incontro a gravi perdite economiche, più di una su 10 di perdere il lavoro o la propria attività, e due su 10 di andare in cassa integrazione.

Sono alcuni dei dati emersi dalla ricerca realizzata nelle ultime settimane dall’osservatorio Mutamenti Sociali in Atto-COVID2019 del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), il quale si avvale del contributo di un gruppo di ricerca ampio e multidisciplinare, con competenze nel campo sociologico, statistico, demografico, antropologico e psicopedagogico.

            L’indagine ha previsto la realizzazione di un sondaggio condotto per mezzo di un questionario di ricerca, di tipo elettronico e semi-strutturato, diffuso mediante piattaforme virtuali e canali formali e informali. Il questionario – ancora attivo – può essere compilato con qualunque apparato in grado di navigare su Internet ed è anonimo.

Il metodo utilizzato permette l’immediata registrazione dei dati raccolti direttamente sul server del CNR in modo da rendere disponibili i risultati in brevissimo tempo. Lo scopo del progetto è quello di indagare gli atteggiamenti e i comportamenti della popolazione nell’emergenza sanitaria scaturita dal Coronavirus, soffermandosi specialmente su quella dimensione interpersonale, psicologica ed economica che il distanziamento sociale ha imposto. L’avviso per la compilazione è stato diffuso, su scala nazionale, attraverso il sito del CNR-Irpps e le relative pagine social (Twitter e Facebook) istituzionali. In totale sono state fino ad ora raccolte oltre 140.000 interviste. Il questionario somministrato on-line richiede alcune informazioni caratteristiche, come il sesso, l’età (compresa fra i 18 e i 79 anni), il titolo di studio, la regione di domicilio, la dimensione della località, la presenza di familiari, la dimensione dell’abitazione, la disponibilità di tecnologie e il tipo di occupazione. Informazioni necessarie per fornire un quadro quanto mai completo ed esaustivo da ogni punto di vista.

Il decreto per combattere il Coronavirus del Presidente del Consiglio dei Ministri che ha stabilito una chiusura generale del Paese ha, infatti, prodotto un sensibile e repentino cambiamento soprattutto in materia di interazione sociale e socialità in varie forme. Lo studio ha fornito importanti dati circa la condizione abitativa, relazionale e lavorativa, analizzando nello specifico quali sono le attività quotidiane, quanto uso si fa di Internet, a che livello è diffusa la violenza domestica, quanta fiducia viene riposta – in questo momento di emergenza – nel sistema.

I rapporti di coppia. I rapporti di coppia e la convivenza sono due àmbiti che hanno risentito notevolmente delle condizioni restrittive che la crisi sanitaria ha imposto, facendo vacillare quelle certezze e quella stabilità che si credeva di avere. Attualmente il 73,1% degli intervistati ha un partner, con cui convive per il 56,7%, a fronte del 13% di persone che abitano da sole. Si pensi che il 5% di chi vive in coppia dichiara che il clima è poco collaborativo, pacifico e affettuoso. Il 6% degli intervistati che vive con un partner è seriamente preoccupato per la stabilità della coppia proprio a causa della convivenza forzata. La quarantena ha costretto le coppie a relazionarsi in un modo nuovo, in molti casi stando insieme 24h su 24; non è un caso, quindi, che in contesti consimili si sia sviluppato ulteriormente un tipo di violenza domestica non solo fisica, ma in alcuni casi anche psicologica. Il 56,7% dei soggetti convive, come si è detto, con un partner o ex-partner. Per il 15% è possibile che si verifichino atti di violenza psicologica commessa dagli uomini sulle donne e per il 9% dalle donne sugli uomini. Il rischio di violenza fisica degli uomini sulle donne è percepito dal 13% e quella delle donne sugli uomini dal 3%. Inoltre, in tali situazioni familiari i genitori dichiarano che i ragazzi assistono alle loro liti nel 5% dei casi.

Lavoro e tempo libero. Improvvisamente ci si è ritrovati a stare a casa, ogni giorno e a tutte le ore. Il distanziamento sociale e la chiusura di qualsiasi tipo di attività commerciale hanno comportato un aumento considerevole del tempo libero. Attualmente, secondo i dati del CNR, il 49,3% degli intervistati è impiegato a tempo pieno e per il 24,9% dei soggetti l’attività lavorativa è sospesa. Tra i rimanenti lavoratori, il 23,4% continua la sua attività attraverso lo smart working, mentre il 10,8% si reca sul posto di lavoro. La sospensione delle attività lavorative, o comunque lo smart working – che permette di continuare a lavorare, offrendo tuttavia un ampio margine di gestione dei tempi – hanno portato ad una rimodulazione del tempo libero. Tra le principali attività che si svolgono in questi giorni la lettura di libri torna a primeggiare, seguita dalle classiche mansioni quotidiane come l’impegno in cucina o l’ascolto dei notiziari. Com’è ovvio, aumenta anche il tempo trascorso sul Web e l’utilizzo dei social media. Internet ha permesso non solo di abbattere i muri imposti dalla quarantena forzata, ma è anche diventato uno dei principali mezzi per conoscere i fatti, offrendo, secondo alcuni, informazioni che i notiziari nascondono deliberatamente. Per 4 soggetti su 10 si è registrato un incremento del tempo di utilizzo pari quasi al doppio di quello che si trascorreva prima della diffusione del virus: fino a 60 minuti per il 21,5%; da 1 a 3 ore per il 42,1%; oltre 3 ore per il 33,7%. Tutti, indipendentemente dall’età, passano, in questo momento, più tempo sui social. I più giovani utilizzano il Web soprattutto con finalità ludiche e comunicative, tanto che questo tipo di iper-connessione potrebbe diventare un fattore patologico. Il 44,5% delle persone ritiene, infatti, che la comunicazione virtuale possa sostituire quella personale (faccia a faccia), legittimando, in questo modo, la trasposizione del reale sulla Rete, soprattutto in quest’ultimo periodo.

La paura del futuro. Un altro aspetto fondamentale è relativo alle conseguenze che l’emergenza sanitaria avrà sull’economia e sul futuro del Paese. Circa 4 persone su 10 prevedono di andare incontro a gravi perdite economiche, più di una su 10 di perdere il lavoro o la propria attività, e due su 10 di andare in cassa integrazione. Il rischio di non riuscire a far fronte alle esigenze alimentari nei prossimi giorni, nonostante le misure messe in atto dal Governo, riguarda 3 persone su 10, soprattutto nel Centro e Sud Italia. In questo senso, si giustifica il sentimento di paura, ansia e rabbia che interessa la maggior parte degli intervistati. La felicità ottiene il punteggio più basso, lasciando trasparire quella frustrazione e quel senso di insicurezza legato all’imminente futuro. Tale incertezza è connessa anche alla scarsa fiducia nutrita nei confronti di politici, banche e Unione europea – l’unica ad aver registrato un calo. Raccolgono invece la fiducia degli intervistati la Protezione civile, gli scienziati, le Forze dell’ordine, la sanità.

I risultati ottenuti dall’osservatorio del CNR delineano l’immagine dell’Italia che ci siamo oramai abituati a vedere. I problemi economici e sociali ben presto dovranno essere affrontati, così come il nuovo peso che la comunicazione digitale ha assunto nella nostra quotidianità. Ben presto, con la riapertura del Paese, bisognerà tornare alla “normalità”, una normalità alla quale ci siamo con fatica disabituati, ma che, tuttavia, non sarà facile ricostituire. Sono cambiati i modi di relazionarci e le nostre abitudini; sono cambiate le emozioni ma anche gli stessi individui, e non è certo che saremo in grado e disposti a tornare a quello che c’era prima del Coronavirus.

Ilaria Tirelli    l’Eurispes.it     22 aprile 2020

www.leurispes.it/coronavirus-come-sta-cambiando-la-nostra-vita-la-ricerca-del-cnr

 

New normals: i cinque mutamenti globali che caratterizzano il nostro futuro

Uno studio prodotto da un’esperta Undp illustra le sfide del mondo post-Coronavirus. Tra queste il mutamento tecnologico, l’accentramento della governance, l’e-commerce, il distanziamento sociale e il clima.

“Covid-19 sembra una tempesta, ma viene letta come una storia di fantasia”. Prateeksha Singh, a capo del settore di sperimentazione del team di innovazione regionale delle Nazioni Unite in Asia e nel Pacifico, ha recentemente elaborato un documento dal titolo “What are the new normals that Covid-19 might be pointing to?”, focalizzato sull’identificazione dei new normals, ovvero le nuove dinamiche che verranno a crearsi a livello globale dopo la crisi, e che influenzeranno permanentemente la nostra vita.

“Le conseguenze di questa crisi stanno ancora prendendo forma, ma sappiamo che lascerà dietro di sé una lunga scia di sconvolgimenti” afferma la studiosa indiana. “La vera domanda non è quali potrebbero essere le conseguenze, ma come modelleremo le nostre società e istituzioni rispetto a queste”.

Per rispondere a questa domanda Prateeksha Singh ha individuato cinque new normals che caratterizzeranno i prossimi anni: il mutamento tecnologico e le sue influenze; il nuovo centro della governance; il territorio economico inesplorato; il distanziamento sociale e la connettività collettiva; l’opportunità e la minaccia per il cambiamento climatico.

  1. Il mutamento tecnologico e le sue influenze. Tra i primi fattori che la studiosa ha individuato c’è la possibilità che il Covid-19 possa essere sfruttato come punto di accesso per normalizzare il controllo dei dati da parte di governi e aziende. “Già nelle ultime settimane abbiamo visto diversi Stati dichiarare che il monitoraggio dei cittadini attraverso le app è la chiave per gestire lo sviluppo della pandemia” spiega Prateeksha Singh. “Tuttavia, una volta dissipata questa utilità a breve termine, esiste una nuova serie di implicazioni, tra cui quella della privacy e dell’integrità dei dati”. Sempre collegata al mutamento tecnologico è la nuova ondata di collaborazione online di massa, che ha portato alla condivisione di documenti in rete, con il prezzo pagato dai siti di editoria accademica. La sanità subirà inoltre notevoli mutamenti, data la manifestazione di inadeguatezza dei sistemi centralizzati, attraverso strumenti come l’intelligenza artificiale e il machine learning (ovvero la capacità delle macchine di apprendere autonomamente le informazioni). Un altro punto su cui si sofferma la studiosa è l’infodemia [Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni]: “I troll russi diffondono disinformazione, così anche l’estrema destra americana, che utilizza il virus con narrazioni apocalittiche per reclutare seguaci, formando gruppi neonazisti per proclamare la supremazia bianca”. Un esempio di un’alternativa all’infodemia è emerso in Thailandia, dove viene monitorato il numero di notizie sul Covid-19, offrendo un’opzione per taggare informazioni false.
  2. Il nuovo centro della governance. “Il Covid-19 offre una visione rara di come i governi di tutto il mondo stiano rispondendo alla stessa crisi” afferma Prateeksha Singh. Tra i primi segni di cambiamento c’è l’accettazione del ruolo centrale assunto dai governi. Come dichiara l’economista Marianna Mazzucato “Questo richiede un ripensamento di ciò che i governi devono fare: piuttosto che semplicemente riparare i fallimenti del mercato quando si presentano, dovrebbero spostarsi verso la formazione attiva e la creazione di mercati che promuovano una crescita sostenibile e inclusiva”. Allo stesso tempo, però, il panorama internazionale rimane pieno di narrative nazionalistiche. Il Coronavirus mette inoltre in evidenza problematiche di redistribuzione urbana, e la capacità abitativa marginale nascosta in molte città del mondo, da sfruttare in caso di ulteriori crisi sanitarie.
  3. Il territorio economico inesplorato. Date le previsioni di una recessione economica globale, i governi stanno lavorando per introdurre pacchetti di stimolo economico interno e, da questo punto di vista, “esiste un’opportunità per proporre un piano competitivo che non dipenda dai combustibili fossili”. Ma chi avrà la priorità nel ricevere questi finanziamenti? I governi sono inoltre costretti a riesaminare le strutture di assistenza sanitaria, diritti dei lavoratori (precedentemente considerati una questione sindacale) e sostegno economico per i lavoratori dipendenti, revisionando tutte le reti di sicurezza attualmente in crisi. Uno dei tanti cambiamenti che stiamo registrando in questi giorni, a causa dell’isolamento sociale, è quello che riguarda la vendita al dettaglio. “Lo shopping online sta prendendo il sopravvento e le imprese di e-commerce definiranno le nuove opportunità economiche” precisa la studiosa indiana. Il Coronavirus sta infatti accelerando l’Amazonizzazione [da Amazon, azienda di commercio elettronico] del Pianeta, con molte implicazioni di questo monopolio sul lavoro precario, la robotizzazione e il futuro di migliaia di piccole imprese. La pandemia sta infine modificando i connotati della globalizzazione, che fino a oggi ha strutturato catene di fornitura globali incentrate quasi esclusivamente sulla Cina. Si parla a questo proposito di una nuova “globalizzazione regionale”, con i Paesi che tenderanno a stabilire catene di approvvigionamento con gli Stati territorialmente vicini.
  4. Il distanziamento sociale e la connettività collettiva. Il mondo è diventato un grande alveare sociale, e il Covid-19 lo ha messo in mostra. “Non ci sono dubbi sull’interconnessione della società, le nostre interdipendenze e il bisogno di comunità” spiega Prateeksha Singh, che aggiunge: “È chiaro che questa crisi sta cambiando il corso delle conversazioni tradizionali”. Nell’articolo si legge inoltre che il nostro rapporto con il tatto e i germi verrà riscritto, così come con il cibo (menù elettronici presso i ristoranti, robot al posto dei camerieri, consegne a domicilio). “Molte persone scrivono della loro paura e ansia di toccare, prendersi cura della famiglia e degli anziani. L’economia senza contatto sembra pronta a crescere”. La pandemia ha rivelato anche l’inadeguatezza dei nostri sistemi di sanità pubblica, specialmente per quanto riguarda la cura degli anziani e immunocompromessi. “Siamo forti solo quanto il nostro anello più debole” dichiara Prateeksha Singh. Infine, in questo periodo stiamo assistendo a esperimenti globali di telelavoro e homeschooling: la transizione online potrebbe rendere più inclusivo l’ambiente lavorativo per persone con disabilità e diminuire notevolmente inquinamento e incidenti stradali, ma deve essere supportata da interventi di infrastruttura digitale, per evitare che le forme di digital divide si amplifichino. Affrontare le conseguenze del Coronavirus vorrà dire anche ripensare gli spazi condivisi, come biblioteche, bar, musei, cinema.
  5. L’opportunità e la minaccia del cambiamento climatico. Il Covid-19 ha mostrato come l’azione individuale e collettiva possa drasticamente ridurre l’inquinamento, i rifiuti e i gas serra. Il cambiamento sostenibile dipenderà tuttavia dal fatto che i governi si attrezzino a ristrutturare politiche obsolete. “Stiamo già assistendo ad alcuni impegni di regressione: ad esempio la Cina ha già iniziato a ridurre gli standard di emissione delle auto e si sta concentrando per raggiungere gli obiettivi di Pil precedentemente fissati”. Gli ambientalisti osservano però che questo trend potrebbe anche andare in un’altra direzione. Ad esempio, dopo la recessione finanziaria del 2008-2009, in Cina si registrò il record di emissioni di combustibili fossili dal 2003. L’ultimo punto su cui si sofferma la studiosa è il ripristino del contatto con la natura, in un periodo di forte distanziamento sociale. “Questo può essere un momento fondamentale per riflettere e re-immaginare la conservazione e la protezione della fauna selvatica, ricostruendo rispettosamente i confini infranti che ci hanno portato qui oggi”.

Flavio Natale ASVIS – Alleanza per lo SVI Sostenibile           9 aprile 2020             

https://asvis.it/home/46-5372/new-normals-i-cinque-mutamenti-globali-che-caratterizzano-il-nostro-futuro-

 

Coronavirus. “Stress violento da quarantena”: minori vulnerabili, sos dei giudici

    L’impegno dei tribunali per arginare le conseguenze delle situazioni più difficili. Parlano Ciro Cascone, Maria Francesca Pricoco, Giuseppe Spadaro

I giudici minorili hanno già coniato un neologismo che fotografa bene la situazione vissuta all’interno di tante famiglie in questi mesi di emergenza sanitaria: stress violento da quarantena obbligata. Sono le situazione ad alto rischio che si determinano quando, in un quadro spesso già compromesso, le persone sono costrette a cambiare le proprie abitudini, a condividere spazi spesso insufficienti, ad accettare dinamiche che anche prima dell’emergenza sanitaria erano sopportate a fatica. Facile intuire che, in questa situazione, violenze, maltrattamenti, episodi di grave intolleranza siano esplosi, anche se è impossibile stilare una statistica. Le due fonti più significative da cui arrivavano queste segnalazioni, la scuola e il servizi sanitari, sono state entrambe spente dal coronavirus, anche se per motivi diversi. Sono rimasti, a regime ridotto e con capacità di intervento variabile da regione a regione, i servizi sociali. Mentre per gli episodi molti gravi, quelli per cui era davvero impossibile non intervenire, sono serviti gli interventi delle forze dell’ordine. Eppure, anche in questa circostanza, i tribunali per i minorenni, bene o male, hanno retto. Anche se carenze strutturali e mancanza di risorse, più volte segnalate anche prima dell’emergenza sanitaria, hanno continuato a pesare in modo evidente su un sistema a cui servono riforme intelligenti per un cambio di rotta destinato a ripristinare quell’alleanza virtuosa tra giustizia, servizi e famiglie in difficoltà incrinata in passato da troppi casi negativi.

 Lo spiegano tre magistrati impegnati in prima linea per la tutela dei minori: Ciro Cascone, responsabile della procura dei minorenni di Milano, Maria Francesca Pricoco, presidente dell’associazione dei magistrati minorili e responsabile del Tribunale dei minorenni di Catania, e Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna.

Quali difficoltà per la giustizia minorile a causa delle limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria?

Ciro Cascone: Scontiamo anni di mancati investimenti e tecnologie arretrate, il processo telematico, che già funziona egregiamente nel civile, non è ancora arrivato nella giustizia minorile. Abbiamo sistemi obsoleti. Questo ci lascia impantanati tra i faldoni. E quindi, avendo limitato l’accesso agli uffici, tutto è stato rallentato.

Maria Francesca Pricoco: L’emergenza sanitaria ha certamente provocato una rimodulazione della funzione di giustizia minorile. Alcune procedure, per l’urgenza devono però essere trattate (minori per esigenze di protezione allontanati dalla famiglia , minori stranieri soli e quelli tutelati nei procedimenti per abbandono ovvero che si trovino in situazione di grave pregiudizio ) nonostante le difficoltà obiettive registrare in alcuni tribunali, come locali inadeguati e la difficoltà di conciliare il divieto di assembramenti per le ragioni di sicurezza sanitaria sia al fine della trattazione delle udienze che per le camere di consiglio causa . Anche i servizi sociali hanno rallentato fortemente e, in alcune situazioni, sono stati costretti a sospendere le attività.

Giuseppe Spadaro: Dal mio osservatorio la preoccupazione più grande è rivolta ai minori che vivono, nell’attuale situazione, una condizione di accresciuta vulnerabilità se non di vero e proprio trauma, come quelli in famiglie con genitori violenti o maltrattanti ed esposti al rischio di violenza diretta o assistita, per i quali erano stati aperti procedimenti di sostegno e monitoraggio per evitare, ove possibile, l’affidamento provvisorio ad altra famiglia. Così come per quelli che, invece, vivono attualmente fuori dalla famiglia di origine e sono temporaneamente collocati in comunità o accolti da famiglie affidatarie nell’ambito di provvedimenti civili e, non ultimi, i minori inseriti nel circuito penale che, nella situazione emergenziale, hanno dovuto sospendere percorsi di istruzione e formazione, interrompendo importanti rapporti educativi con il mondo esterno.

            Si sono verificati casi di maltrattamenti in famiglia o altre situazioni gravi su cui la giustizia non è stata posta nelle condizioni di intervenire?

Cascone – Le segnalazioni sono nettamente diminuite. Tante arrivavano dalle scuole, chiuse ormai da quasi due mesi, e dai servizi sanitari, impegnati in gran parte per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Anche da parte dei servizi sociali c’è stata una flessione. Certo, le situazioni pesanti, quelle segnalate dalle forze dell’ordine, emergono comunque. Alcuni interventi in base all’art. 403 del codice civile [Intervento della pubblica autorità a favore dei minori] siamo stati comunque costretti a farli. Un ragazzo per esempio che ha aggredito in modo molto serio il fratello e il padre perché gli impedivano di uscire per incontrare la fidanzata. Oppure alcuni episodi pesanti di maltrattamento, violenza sulle donne a cui hanno assistito i minori (la cosiddetta violenza assistita), oppure situazioni di grave incuria.

            Pricoco– Quando i servizi sociali oppure le forze dell’ordine sono riusciti a fare le segnalazioni, i tribunali si sono attivati e hanno avviato e trattato i procedimenti per l’immediata tutela dei minori. Il problema si verifica quando né servizi né forze dell’ordine riescono ad individuare le situazioni di grave pregiudizio. Allora anche per noi è molto difficile attivare tutte le procedure indispensabili per mettere in protezione bambini e ragazzi, assicurando loro tutte le garanzie di protezione, cura e di tipo educativo, che rimane il nostro obiettivo primario.

            Spadaro: Pensando, in particolare, alle situazioni di urgenza e di grave pregiudizio dove si verificano condizioni di rischio conclamato e, nei casi più gravi, in presenza di circostanze che prefigurano ipotesi di reato quali maltrattamenti familiari, abusi, violenza assistita o gravi trascuratezze che possono comportare la necessità di un allontanamento temporaneo dalla famiglia di origine, mi associo all’allarme lanciato di recente dalla Presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, perché anche nel nostro territorio molte comunità educative e terapeutiche hanno difficoltà ad accogliere nuovi ospiti per il rischio di contagio o, in alcuni casi, per problemi sanitari e di sovraccarico lavorativo degli operatori presenti. Nell’ambito dell’applicazione delle indicazioni volte a limitare spostamenti e contatti fra le persone, devo aggiungere che si registrano difficoltà nel caso degli “incontri protetti” o più in generale dei possibili contatti tra i minori già accolti in affidamento familiare o in strutture residenziali e le loro famiglie di origine. Non sfugge la discrezionalità con la quale, pur tenendo conto sempre dei casi concreti, sono valutate le situazioni dove tali contatti sono da ritenere strettamente necessari e indifferibili ovvero, con non poche incertezze, è opportuno posticiparli a data successiva al termine dello stato di emergenza.

            Tanti genitori si sono lamentati a causa della sospensione degli incontri protetti. Come avete risolto questi problemi?

Cascone – Fino al 20 marzo le strutture erano in difficoltà e abbiamo dato suggerimenti per tutelare gli ospiti ed evitare nuovi focolai di infezione. Sono stati limitati gli incontri, ma sono state date indicazioni per agevolare agli incontri virtuali in tutte le modalità. Una scelta che ha determinato un po’ di confusione e qualche protesta. Ma abbiamo fatto la scelta giusta. Cosa sarebbe successo se fosse esploso un focolaio in una comunità di minori? Anche nelle carceri minorili purtroppo hanno reagito male. Ma non c’erano alternative, pur nel massimo rispetto per questi genitori e per la loro sofferenza.

Pricoco: i tribunali per i minorenni sono rimasti attivi, pur in mezzo alle difficoltà. È evidente però che servano risorse maggiori e strumenti per interventi di sostegno anche di tipo psicologico e sanitario (ci sono minori che non hanno potuto seguire trattamenti di psicoterapia, per il recupero del linguaggio e di accompagnamento educativo). Ci sono state segnalate difficoltà anche per i minori all’interno delle comunità, oltre a criticità per i minori in collocamento protetto nell’ambito di programmi per il recupero della genitorialità. L’autorizzazione concessa ad alcuni minori per rientrare nelle proprie abitazioni durante il fine settimana, ha determinato preoccupazioni e paure. Si è temuto per il contagio. In alcuni casi si è scelto, in ottemperanza alle normative d’urgenza, di non farli spostare, potenziando le attività educative all’interno delle strutture e le comunità hanno incrementato i contatti con i familiari attraverso i mezzi telemetrici. Tutte nuove difficoltà che i tribunali per i minorenni hanno dovuto gestire. Ma con le risorse e gli organici di sempre e la mancanza di strumenti e di formazione informatica per il personale.

Spadaro: Compatibilmente con le difficoltà organizzative preesistenti, anche dai servizi sociali competenti sono stati attivati, in tutti i casi dove ciò sia possibile, forme di contatto regolare telefonico o attraverso altri strumenti telematici, quali ad esempio video chiamate, offrendo la possibilità ai genitori di tenersi in contatto e di ricevere messaggi, con l’obiettivo di non interrompere contatti o relazioni in corso con bambini e famiglie esposte a condizioni di particolare vulnerabilità. Anche i nostri Uffici si sono da subito attrezzati per promuovere ed attivare collegamenti da remoto per lo svolgimento delle principali funzioni giurisdizionali, con particolare attenzione ai casi urgenti. Il nostro sistema della tutela minorile, già attraversato prima dell’emergenza sanitaria da gravi circostanze che ne hanno messo in luce limiti e disfunzioni, a maggior ragione in una fase di inevitabile palingenesi deve affrontare con lucidità e determinazione alcuni nodi strutturali come il rinnovato sostegno alle famiglie per prevenire la necessità di ricorrere agli allontanamenti, a partire dalla riforma delle relative norme esistenti compresa la disciplina dei procedimenti giudiziari in materia di responsabilità genitoriale, assicurando agli uffici giudiziari minorili e ai servizi sociali le risorse necessarie.

Luciano Moia Avvenire 23 aprile 2020

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/minori-vulnerabili-sos-dei-giudici

 

L’emergenza sanitaria e la compressione del principio di bigenitorialità

L’emergenza sanitaria sembra comprimere l’esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti e non risparmia i diritti dei minori, specialmente per le famiglie separate. Una delle questioni più dibattute è la legittimità degli spostamenti dei genitori separati con figli minori e la possibilità di garantire, anche nella stagione del Coronavirus, una frequentazione adeguata con entrambe le figure genitoriali.

La situazione di incertezza, dovuta alle difficoltà interpretative dei diversi interventi normativi, ha determinato, in alcuni casi, un acuirsi di situazioni già conflittuali, con un frequente ricorso ai Tribunali, costretti a pronunciarsi d’urgenza con provvedimenti inaudita altera parte. Va considerato, oltre al rischio di strumentalizzazione dell’epidemia, l’impatto sull’equilibrio psicofisico dei figli minori, già esposti al sacrificio e allo stress contingente, privati del sostegno di entrambi i genitori in un momento così drammatico.

Se, infatti, l’emergenza sanitaria può essere invocata in alcuni casi per giustificare il mancato esercizio di visita da parte del genitore non collocatario, è altrettanto vero che non può costituire un pretesto per impedire a quest’ultimo di vedere i figli e ciò soprattutto in assenza di un provvedimento eventualmente modificativo di quello già in essere.

Vi è, inoltre, l’esigenza di tutelare i genitori stessi da possibili sanzioni, in un quadro normativo apparso da subito poco chiaro.

Gli ultimi chiarimenti del Governo. Le proroghe delle attuali restrizioni al 13 aprile 2020, poi successivamente al 3 maggio, hanno visto, contestualmente, un intervento, da molti auspicato, da parte del Governo. Nelle FAQ pubblicate sul sito istituzionale lo scorso 2 aprile si legge: «Gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti anche da un Comune all’altro. Tali spostamenti dovranno in ogni caso avvenire scegliendo il tragitto più breve e nel rispetto di tutte le prescrizioni di tipo sanitario (persone in quarantena, positive, immunodepresse etc.), nonché secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio o, in assenza di tali provvedimenti, secondo quanto concordato tra i genitori».

Si chiarisce, quindi, la legittimità degli spostamenti tra Comuni diversi, (non tra Regioni) considerando anche equipollente al provvedimento del Giudice, lo scambio di accordi tra genitori o tra i rispettivi legali.  In realtà un primo segnale in tal senso era intuibile già con l’inserimento nell’ultimo modello di autodichiarazione, tra i vari motivi legittimanti gli spostamenti, degli “obblighi di affidamento di minori

In conclusione. Il diritto alla salute può considerarsi di pari rango rispetto ad altri diritti fondamentali, come quello alle relazioni familiari, tanto più in un momento che mette a dura prova anche l’equilibrio psicofisico dei figli minori. Ciò richiede probabilmente uno sforzo per superare precedenti automatismi nella regolazione del regime di frequentazione dei genitori, come dimostrano anche alcune recenti pronunce giurisprudenziali.

Nel necessario bilanciamento dei diritti resta in ogni caso centrale il principio del superiore interesse del minore: occorre trovare soluzioni fondate sul buon senso e la ragionevolezza, considerando le specificità del caso concreto, evitando di esporre i minori a situazioni potenzialmente di maggior rischio, così come contatti dei minori stessi con i nonni o con soggetti particolarmente vulnerabili.

Giovanna Megna        Il familiarista 20 aprile 2020

http://ilfamiliarista.it/articoli/focus/il-diritto-dovere-di-visita-dei-genitori-separati-ai-tempi-del-coronavirus?utm_campaign=ilfamiliarista_22042020&utm_medium=email&utm_source=MagNews

 

Scuole chiuse? Sappiate che la noia fa bene ai bambini

L’allerta coronavirus lascia a casa i bambini di tutta Italia e conferma lo stop ad attività sportive, visite museali e gite in alcune delle regioni più colpite. Se pensate che intrattenerli sia un problema, sappiate che la noia è uno stato mentale specifico molto “generoso”. Parola di psicologa.

            Con le scuole chiuse e la riapertura rimandata a data da destinarsi, organizzare le giornate dei bambini che restano a casa non è certo semplice. In iniziano ad accusare “la noia“. Ebbene, questa pausa da tutto, questo spazio lento e libero in cui navigare, potrebbe far loro bene.

            Il motivo: abbiamo bisogno della noia per sentire noi stessi, di calmare il rumore fuori, di spegnere il mondo in certi momenti per collegarci con ciò che abbiamo dentro. È importante non essere distratti per avvertire animarsi qualcosa in noi. Un black out di stimoli esterni più smobilitare grandi risorse costruttive. Anche ai bambini sono necessari momenti vuoti nei quali non fare niente. La loro vita è in gran parte pressata, movimentata, una catasta di cose da fare tra compiti, appuntamenti, attività, corsi, giochi, feste, sport. Tutto tempo importante, certo, ma nella loro agenda così piena manca quasi sempre quello spazio lento e libero che permette di stare sulle emozioni, di sentire cosa si prova e di imparare così a gestire la propria vita emotiva.

Sembra un paradosso, ma in questi giorni di reclusione forzata possiamo rendere i nostri figli più sereni donando loro un po’ di noia, oltre ai giochi. Salviamoli dallo tzunami sensoriale ed emotivo scatenato da oggetti sonori, schermi lampeggianti, joystick colorati, proposte, offerte, intrattenimenti, svaghi, richieste. Perché poi, non è raro vederli passare da un pacchetto all’altro eccitatissimi e, poco dopo, ritrovarli nervosi, svuotati oppure lagnosi. Ci impegniamo così tanto per renderli felici, ma sembra quasi non siano pronti a metabolizzare troppi stimoli, spesso non dimostrano nemmeno interesse per gli oggetti che ricevono.

            Come genitori ci sembra necessario occupare ogni momento della loro vita, programmare il tempo in modo che la loro attenzione sia sempre orientata su qualcosa. “Mi annoio” sono parole che allarmano, alle quali sentiamo di dover rispondere immediatamente perché pensiamo che lasciarli annoiare è un po’ come trascurarli. Li vogliamo liberare dalla noia che noi stessi temiamo. La tecnologia spesso è la risposta più comoda, sembra necessaria per fare più cose, imparare, comunicare e vivere di più. Poi però ci lamentiamo perché i bambini non sanno stare sulle cose, sono incapaci di stare fermi, di rimanere attenti, di aspettare, di approfondire, di tollerare frustrazioni.

            Impariamo a pensare, invece, che il tempo vuoto ha valore. Che è meglio abbassare i toni, smorzare gli stimoli, incontrare il nulla di tanto in tanto. Non lasciamo che sia sempre il mondo esterno a fornire eccitazione e novità. La noia non è depressione o apatia ma uno stato mentale specifico molto generoso, offre l’occasione ad alcune parti “dormienti” del nostro cervello di accendersi con idee, immagini, intuizioni che altrimenti perderemmo. Lasciamo che i bambini tollerino a volte il vuoto apparente, accettiamo di non poterci fare carico di questo disagio, cerchiamo piuttosto di avere fiducia nella loro capacità di farvi fronte, recuperiamo il potere dell’immaginazione e della creatività. Quando dicono “Mi annoio” stanno guardando solo ciò che è fuori da loro alla ricerca di qualcosa che li intrattenga, se offriamo subito qualcosa è come dire indirettamente che c’è bisogno di qualcos’altro oltre loro stessi per stare bene, che da soli non bastano.

La mancanza di cose da fare o da vedere invece spinge ad impegnarsi e attingere dentro di sé in senso creativo, immaginativo ma anche conoscitivo, trasformativo. Una programmazione eccessiva, suggeriscono le ricerche, impedisce ai bambini di scoprire ciò che li interessa veramente. Gli studi dimostrano invece che la noia facilita la soluzione di compiti creativi. Una mente costruttivamente annoiata è pronta a scoprire, a creare, a immaginare, non è un cervello intorpidito! Ma non è solo questo. Uno spazio nel quale annoiarsi offre l’opportunità di sentire cosa proviamo, di collegarci con le emozioni, di prenderne confidenza. Fa crescere il senso di sé. Aiuta a consolidare la relazione con noi stessi, ad evitare il disagio stando soli, a sentire che non c’è bisogno di cercare distrazione o compagnia per forza, che Se stesso è un posto dove stare bene. I bambini non sono vuoti da riempire con intrattenimento e informazioni. Hanno bisogno di pensare da soli a cosa sia meglio, di farsi domande, di capire cosa provano, di sentire che le risposte possono arrivare da dentro e non solo da fuori.

            Così, non solo lasciamoli annoiare, ma pianifichiamo accuratamente per inserire “momenti di niente” nella loro giornata. All’inizio saranno infastiditi, protesteranno, dovranno allenarsi con il tempo a questa nuova esperienza libera, eppure stiamo attenti a non offrire proposte per riempire quel vuoto. La noia riserverà sorprese, vediamo cosa ne faranno.

Brunella Gasperini, psicologa              5Donna it       20 aprile 202

https://d.repubblica.it/life/2019/12/24/news/perche_la_noia_fa_bene_ai_bambini_diritto_alla_noia_consigli-4647199

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DALLA NAVATA

III   Domenica di Pasqua.  Anno A – 26 aprile 2020

Atti Apostoli   02, 32. Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire».

Salmo              15, 11. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.

51 Pietro          01, 17 Carissimi, se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri.

Luca               24, 33. Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Il viandante di Emmaus che si ferma a casa nostra

Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio si avvicina sempre, viandante dei secoli e dei giorni, e muove tutta la storia. Cammina con noi, non per correggere il nostro passo o dettare il ritmo. Non comanda nessun passo, prende il nostro. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini.

Gli basta il passo del momento. Gesù raggiunge i due viandanti, li guarda li vede tristi, rallenta: che cosa sono questi discorsi? Ed essi gli raccontano la sua storia: una illusione naufragata nel sangue sulla collina. Lo hanno seguito, lo hanno amato: noi speravamo fosse lui… Unica volta che nei Vangeli ricorre il termine speranza, ma solo come rimpianto e nostalgia, mentre essa è «il presente del futuro» (san Tommaso); come rammarico per le attese di potere tramontate. Per questo «non possono riconoscere» quel Gesù che aveva capovolto al sole e all’aria le radici stesse del potere.

Ed è, come agli inizi in Galilea, tutto un parlare, confrontarsi, insegnare, imparare, discutere, lungo ore di strada. Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler «andare più lontano». Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti. Allora nascono parole che sono diventate canto, una delle nostre preghiere più belle: resta con noi, perché si fa sera. Hanno fame di parola, di compagnia, di casa. Lo invitano a restare, in una maniera così delicata che par quasi siano loro a chiedere ospitalità. Poi la casa, non è detto niente di essa, perché possa essere la casa di tutti. Dio non sta dappertutto, sta nella casa dove lo si lascia entrare. Resta. E il viandante si ferma, era a suo agio sulla strada, dove tutti sono più liberi; è a suo agio nella casa, dove tutti sono più veri.

Il racconto ora si raccoglie attorno al profumo del pane e alla tavola, fatta per radunare tanti attorno a sé, per essere circondata da ogni lato di commensali, per collegarli tra loro: gli sguardi si cercano, si incrociano, si fondono, ci si nutre gli uni degli altri. Lo riconobbero allo spezzare il pane. Lo riconobbero non perché fosse un gesto esclusivo e inconfondibile di Gesù – ogni padre spezzava il pane ai propri figli – chissà quante volte l’avevano fatto anche loro, magari in quella stessa stanza, ogni volta che la sera scendeva su Emmaus. Ma tre giorni prima, il giovedì sera, Gesù aveva fatto una cosa inaudita, si era dato un corpo di pane: prendete e mangiate, questo è il mio corpo.

Lo riconobbero perché spezzare, rompere e consegnarsi contiene il segreto del Vangelo: Dio è pane che si consegna alla fame dell’uomo. Si dona, nutre e scompare: prendete, è per voi! Il miracolo grande: non siamo noi ad esistere per Dio, è Dio che vive per noi.

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DIRITTI

Il diritto alla speranza rivendicato dal papa

Renderlo effettivo significa attivare un processo costituente per rifondare l’ordine mondiale sull’universalismo nei diritti, sull’uguaglianza, sulla solidarietà e sulla consapevolezza della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destinoLuigi Ferrajoli

 

Nella sua omelia di sabato 11 aprile 2020, Papa Francesco ha parlato del “diritto alla speranza” come “diritto fondamentale”. Ovviamente non si tratta di un diritto stabilito da leggi o Costituzioni. Si tratta, piuttosto, di un meta-diritto, una sorta di principio costitutivo della morale e della politica che forma il presupposto di qualunque lotta per i diritti e per la trasformazione in senso progressivo della società. Mi ha ricordato un celebre passo di Kant del 1793: “senza la speranza di tempi migliori, un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano”. La speranza nel progresso, infatti, forma il presupposto sia dell’impegno morale che di quello politico. Ma soprattutto quel “diritto alla speranza” mi ha ricordato Il principio speranza di Ernst Bloch, scritto tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta del secolo scorso e pubblicato da Garzanti in tre volumi nel 1994. Il principio della speranza si contrappone infatti ad ogni accettazione passiva di quanto accade come inevitabile, perché necessario e senza alternative. Che è precisamente la fallacia realistica che ha sorretto le politica liberiste di questi anni: la tesi che non esistono alternative all’attuale realtà delle relazioni economiche, politiche e sociali e il discredito come utopia di quella “speranza di tempi migliori” evocata da Kant come presupposto di qualsiasi impresa informata al bene comune.

La pandemia del coronavirus sta mostrando drammaticamente la mancanza di realismo proprio di quanti suppongono che la realtà possa rimanere come è senza andare incontro a catastrofi. Con il suo quotidiano bilancio di nuovi contagi e di morti, essa sta mostrando l’imprevidenza e la dissennatezza delle nostre politiche, sedicenti realistiche, incapaci di affrontare le sfide globali dalle quali dipendono la salute e la vita di miliardi di persone. Benché il pericolo di una pandemia fosse stato più volte previsto, nulla è stato fatto, dalle nostre politiche “realiste” per fronteggiarlo. In vista delle guerre si fanno esercitazioni militari, si costruiscono bunker, si mettono in atto simulazioni di attacchi e tecniche di difesa e si accumulano armi sempre più micidiali. Contro il pericolo annunciato di una pandemia non è stato fatto nulla. Il coronavirus ci ha fatto scoprire l’assurda insufficienza del numero dei medici e degli infermieri e l’incredibile mancanza di reparti di terapia intensiva, di respiratori, di tamponi e di mascherine.

Ci siamo accorti di essere stati privati, dal “realismo” delle nostre politiche, delle misure più elementari per fronteggiare il contagio. La follia estrema è stata raggiunta nel Paese più potente del mondo, gli Stati Uniti, dove si è continuato a produrre armi contro nemici inesistenti e si è rilanciato la corsa agli armamenti nucleari, mentre decine di milioni di poveri venivano abbandonati a se stessi perché privi di assicurazione medica e decine di migliaia di americani stanno morendo a causa dell’assenza di una sanità pubblica e per la mancanza di posti-letto e di test diagnostici.

Il diritto alla speranza rivendicato da papa Francesco equivale al diritto di contestare e contrastare queste insensate politiche di morte. Come è già avvenuto nella storia, la tragedia che stiamo vivendo può determinare un risveglio della ragione in ordine alla necessità di prendere sul serio e di dare attuazione, istituendo nuove funzioni e istituzioni globali di garanzia, alle grandi promesse – l’uguaglianza, la pace, la dignità della persona, i diritti umani – formulate in tante Carte costituzionali e internazionali all’indomani degli orrori dei fascismi e delle guerre mondiali. Il diritto alla speranza e il principio politico della speranza sono il presupposto necessario di questo ripensamento e di questa rifondazione razionale della politica e del diritto. E’ infatti da questa comune speranza, in grado di coinvolgere l’impegno di tutti gli esseri umani, che può provenire l’energia costituente necessaria a rifondare l’ordine mondiale sull’universalismo nei diritti, sull’uguaglianza, sulla solidarietà e sulla consapevolezza della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino.

Questo primato e questa universalità dei diritti fondamentali non sono stati soltanto negati in passato dalle politiche liberiste, informate al primato del mercato. Continuano di nuovo a essere negati dalla corsa dissennata alla riapertura dei mercati sollecitata dai poteri economici, anche a costo di un nuovo scatenarsi dei contagi, per il timore della concorrenza o peggio per la volontà di conquistare fette di mercato a danno di altri. Non solo. Sono negati anche dalle ideologie e dalle politiche populiste e sovraniste, anti-europeiste e anti-cosmopolitiche, che vorrebbero farci regredire ai nefasti conflitti nazionalisti e identitari della prima metà del secolo scorso.

La pandemia del coronavirus, colpendo tutto il genere umano, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze, può farci ripensare il nostro futuro e generare la speranza di un reale mutamento di rotta. Può provocare la presa di coscienza dei pericoli di altre gravi catastrofi – ambientali, nucleari, umanitarie – che incombono sul nostro futuro e che possono essere fronteggiate soltanto dalla costruzione di istituzioni globali di garanzia: un’Organizzazione mondiale della Sanità in grado di gestire in maniera globale e omogenea le pandemie e le aggressioni alla salute, a garanzia non solo dell’uguaglianza ma anche della massima efficacia delle misure contro il contagio; l’istituzione di un demanio planetario a tutela di beni comuni come l’acqua, l’aria, i grandi ghiacciai e le grandi foreste; la messa al bando delle armi nucleari ed anche di quelle convenzionali, la cui diffusione è responsabile di centinaia di migliaia di omicidi ogni anno; il monopolio della forza militare in capo all’Onu; un fisco globale in grado di finanziare i diritti sociali alla salute, all’istruzione e all’alimentazione di base, pur proclamati in tante Carte internazionali. Sono queste le grandi novità che il principio della speranza rende oggi pensabili e possibili.

Con i più cordiali saluti                        Luigi Ferrajoli

Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”      18 aprile 2020

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-diritto-alla-speranza

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DONNE NELLA (per la) CHIESA 

Più donne per formare i sacerdoti

Il cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, nel numero di maggio di “Donne Chiesa Mondo”, il mensile dell’Osservatore Romano in uscita on line sabato 25 aprile, si sofferma sui diversi aspetti del ruolo della donna nella formazione sacerdotale, nelle comunità parrocchiali e più in generale nella vita della Chiesa

È un fatto: le donne rappresentano spesso una presenza numericamente maggioritaria tra i destinatari e i collaboratori dell’azione pastorale del sacerdote. Al numero 151 della Ratio fundamentalis del 2016, si legge che la presenza femminile nel percorso formativo del Seminario ha una propria valenza, anche in ordine al riconoscimento della complementarità tra uomo e donna. Ma per il cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, rimane molto da fare. Il modello è ancora clericale. Serve una rivoluzione culturale.

Eminenza, lei si è già detto favorevole alla presenza di donne nella formazione dei sacerdoti e nell’accompagnamento spirituale. Ci può spiegare perché? E per cosa?

Possono partecipare in molti modi: nell’insegnamento teologico, filosofico, nell’insegnamento della spiritualità. Possono fare parte della squadra dei formatori, in particolare nel discernimento delle vocazioni. In questo campo abbiamo bisogno del parere delle donne, della loro intuizione, della loro capacità di cogliere il lato umano dei candidati, il loro grado di maturità affettiva o psicologica. Per quanto riguarda l’accompagnamento spirituale, la donna può essere di aiuto, certo, ma credo che sia meglio che sia un sacerdote ad accompagnare un candidato al sacerdozio. La donna, invece, può accompagnare la formazione umana, un aspetto che non è, secondo me, abbastanza sviluppato nei seminari. È necessario valutare il grado di libertà dei candidati, la loro capacità di essere coerenti, di stabilire il loro programma di vita, e anche la loro identità psicosociale e psicosessuale.

L’affettività è un campo nel quale la formazione sacerdotale sembra carente. C’è un’altra questione sensibile: il clericalismo, lo spirito di casta dei sacerdoti, a volte anche il sentimento di impunità. La presenza di donne nelle squadre di formatori può aiutare, secondo lei, in questi punti cruciali?

            Credo che l’esperienza della collaborazione con donne a un livello paritario aiuti il candidato a prospettare il suo futuro ministero e il modo in cui saprà rispettare le donne e collaborare con loro. Se non si comincia durante la formazione, il prete rischia di vivere il suo rapporto con le donne in modo clericale.

Nella Ratio fundamentalis del 2016, pubblicata dalla Congregazione per il Clero, si propone una formazione integrale del prete, capace di unire la dimensione umana, spirituale, intellettuale e pastorale. In questo contesto, la presenza della donna è “integrativa” o “fondamentale”?

            Credo che questo testo necessiti di ulteriori aperture e sviluppi. Siamo ancora in una concezione clericale della formazione che si sforza di progredire ma rimanendo nella continuità di ciò che si è fatto. Ci sono elementi in più riguardo alla formazione umana, ma credo che sia ancora molto carente per quanto riguarda l’integrazione della donna nella formazione.

            Si sente spesso dire che bisognerebbe dare alle donne incarichi di responsabilità. Questo è certamente importante. Ma se ho ben capito, lei auspica soprattutto una rivoluzione culturale? Forse un cambiamento delle mentalità?

            Sì. Esattamente. In un mio recente intervento alla plenaria della Congregazione per l’Educazione cattolica, ho riconosciuto il valore creativo del proemio del documento del Santo Padre Veritatis gaudium (la costituzione apostolica di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche del 29 gennaio 2018) per il rinnovamento degli studi superiori. Ma ho fatto notare che manca la dimensione della problematica della donna e della risposta della Chiesa. Non si tratta solo di promuovere la donna, ma di considerarla come parte integrante di tutta la formazione. Sarebbe stato necessario che in un testo di questa importanza che guarda al futuro ci fosse almeno una allusione a questo. Ciò è indicativo di dove siamo ancora! Quando sono intervenuto alla plenaria della Congregazione per l’Educazione cattolica, c’erano i rettori delle Università romane; c’erano parecchie donne ma proporzionalmente una su dieci. C’è ancora molto da fare negli studi superiori delle università cattoliche. Rivoluzione culturale significa un cambio di mentalità. Per tornare alla formazione sacerdotale, un prete si può preparare a predicare bene, a compiere tutte le funzioni come si deve. Ma la pastorale è anzitutto la cura delle persone. E l’attenzione alle persone è una qualità naturalmente femminile. Conta la sensibilità della donna per la persona, meno per la funzione. Papa Francesco, in tutta la sua riconversione pastorale, ci chiede di prendere in considerazione la gente, di chiederci come facciamo per accompagnarla a crescere. Finora ci siamo preoccupati soprattutto dell’ortodossia, di conoscere bene la dottrina, di insegnarla bene. Ma tutta quella povera gente che la deve digerire… Come facciamo ad accompagnarla?

Le relazioni fra i presbiteri e le donne sono soggette ancora a molti condizionamenti. C’è spesso un “disagio” reciproco. Difficoltà a stabilire un rapporto paritario, lei lo diceva prima. A che cosa è dovuto? Ad alcune lacune nella formazione sacerdotale?

Il problema è probabilmente più profondo. Viene dal modo in cui la donna è trattata nelle famiglie. C’è un disagio, perché c’è la paura… Più da parte dell’uomo verso la donna che dalla donna verso l’uomo. Per un prete, per un seminarista, la donna rappresenta il pericolo! Mentre, in realtà, il vero pericolo sono gli uomini che non hanno un rapporto equilibrato con le donne. È questo il pericolo nel sacerdozio, è questo che dobbiamo cambiare radicalmente. Per questo durante la formazione è importante che ci siano contatto, confronto, scambi. Ciò aiuta il candidato a interagire con le donne, in modo naturale, e anche a far fronte alla sfida che rappresenta la presenza della donna, l’attrazione verso la donna. Questo si deve insegnare e imparare sin dall’inizio, non isolare i futuri preti che poi si ritrovano brutalmente nella realtà; e allora possono perdere il controllo.

             Molti pensano che se le donne fossero state più associate alla formazione (e alla vita) dei sacerdoti, la crisi degli abusi non avrebbe raggiunto livelli così drammatici. È vero o è solo un cliché?

            C’è certamente una parte di verità in questo. Perché l’uomo è un essere affettivo. Se è assente l’interazione tra i sessi, c’è il rischio di sviluppare compensazioni… che possono essere di tipo alimentare, oppure esprimersi nell’esercizio del potere, o in relazioni chiuse, una chiusura che diventa manipolazione, controllo… e che può sfociare negli abusi di coscienza e negli abusi sessuali. Credo che per il prete, imparare a rapportarsi con la donna, nell’ambito della formazione sia un fattore umanizzante che favorisce l’equilibrio della personalità e dell’affettività dell’uomo.

            Lei ha detto più volte che la questione femminile esige da parte della Chiesa un investimento importante, che non si fa abbastanza. Perché non si percepisce l’urgenza di questo tema?

            Gli ultimi quarant’ anni sono stati segnati da grandi trasformazioni sociali, perlomeno in Occidente. La presa di coscienza della presenza della donna nel mondo del lavoro, nella vita pubblica è ancora una novità, per così dire. La Chiesa cammina lentamente. Abbiamo un ritardo da recuperare perché la società è andata oltre. Ha contribuito a rallentare anche la pretesa di raggiungere una parità totale, ministeriale, come se la differenza sessuale non contasse per niente. Siamo anche qui di fronte all’omologazione maschile, ideologica, che si impone. Serve realmente creatività, affinché ci sia una presenza maggiore delle donne, ad esempio nel campo profetico, nella testimonianza, e anche nel governo. Ci sono parecchie curie dove ci sono delle donne cancelliere, che coordinano l’attività pastorale. Ma il problema è il modello ecclesiologico clericale. Nella Chiesa contano coloro che hanno ruoli di primo piano: che predicano la Parola, che danno i sacramenti, come se i preti fossero la realtà essenziale della Chiesa, ma non è così. Il centro della Chiesa non è il ministero, è il battesimo, cioè la fede. E proprio la testimonianza della fede è un luogo dove la donna può occupare uno spazio straordinario.

            Lei cosa risponde alle donne cattoliche che sono irritate dall’esaltazione del genio femminile, da alcuni stereotipi sulla femminilità? Qualcuno ha scritto che si è passati dalla misoginia alla mitizzazione in positivo!

            Ambedue sono atteggiamenti sbagliati e alla fine sono identici. Manca la visione di fondo. Su questo, penso che anche la riflessione teologica abbia dei passi da fare, anche la riflessione antropologica e spirituale sulla donna, o sul rapporto uomo-donna. Per secoli, l’esegesi ha fatto completamente astrazione della differenza sessuale nella dottrina dell’Imago Dei, l’immagine di Dio. Perché? Perché Dio è spirituale. Ma il senso del testo della Genesi è la dinamica dell’a m o re tra l’uomo e la donna che è immagine di Dio. Cioè, la coppia come tale. Adesso, gli esegeti hanno sviluppato questo pensiero. Ma per farlo passare nella cultura ci vuole una assimilazione di ciò che sono l’uomo e la donna.

            La predominanza femminile tra coloro che partecipano attivamente alla vita delle comunità parrocchiali è ormai proverbiale: da dove viene, allora, l’idea che la Chiesa sia una realtà maschilista? Forse perché il ministero ordinato è riservato all’uomo e questo crea in partenza e comunque una inferiorità della donna nella Chiesa, relegandola a compiti meno “nobili”?

            Grazie per questa domanda importante. La risposta è: perché il modello è clericale. Se la donna non ha potere di funzione, non esiste. Mentre la funzione è molto secondaria perché essa è al servizio del battesimo, deve fare vivere la filiazione divina nel cuore degli uomini. Questo è la Chiesa! E tutto il resto, l’annuncio della Parola, il dono del sacramento, serve a fare vivere questa realtà essenziale. Papa Francesco lo dice riprendendo una idea di Hans Urs von Balthasar. Dice che nella Chiesa Maria è superiore a Pietro, perché Maria rappresenta il sacerdozio battesimale nella sua massima espressione, è la mediatrice del dono del Verbo incarnato al mondo. E quindi, la forma della Chiesa è femminile perché la fede è l’accoglienza della Parola e c’è un’accoglienza fondamentale della grazia che è femminile. Maria ne è il simbolo. È questa Ecclesiologia che io chiamo “nuziale”, perché quando dico nuziale io metto l’amore al primo piano. Questo vale non solo per gli sposi ma anche per la vita consacrata, per la vita sacerdotale, ministeriale, tutto è unificato in questo rapporto nuziale fra Cristo e la Chiesa che rivela al mondo il mistero di Dio che è amore.

Romilda Ferrauto  Vatican news                   24 aprile 2020

www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-04/donne-chiesa-mondo-cardinale-ouellet-romilda-ferrauto.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=NewsletterVN-

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ENTI TERZO SETTORE

Terzo settore alla sfida della trasparenza: ecco i modelli di rendicontazione

Per la prima volta, il terzo settore italiano avrà un modello unificato di rendicontazione. Così come per le società e gli altri soggetti non profit, infatti, anche gli enti del terzo settore (Ets) avranno l’obbligo di redigere il proprio bilancio consuntivo utilizzando schemi uniformi a partire dall’esercizio 2021. Gli schemi sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale lo scorso 18 aprile 2020 con un provvedimento emanato ai sensi dell’art. 13 del codice del terzo settore, che pone le basi per una maggiore uniformità delle modalità di rendicontazione delle risorse economiche e finanziare che a vario titolo pervengono agli enti di terzo settore. Questo permette sia una comprensione più immediata ed oggettiva dei dati di bilancio, sia – in prospettiva – una loro compiuta comparabilità nel tempo e nello spazio.               www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/18/20A02158/sg

Tale decreto completa il quadro della “strumentazione” a disposizione degli Ets così come prefigurata dal legislatore per dare gambe al processo di accountability degli enti di terzo settore: le linee guida sul bilancio sociale e le linee guida sulla valutazione di impatto sociale. Gli schemi individuati nel decreto hanno una chiara derivazione da quelli proposti dall’Agenzia per il Terzo Settore con proprio atto di indirizzo emanato nel 2008. A sua volta l’atto di indirizzo riprendeva ed integrava il contenuto di un primo lavoro realizzato nel 2001 dal Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti. Già all’epoca infatti emergeva chiaramente l’esigenza di individuare schemi di bilancio ad hoc per gli enti non profit in grado di fornire informazioni immediate sulla gestione che gli schemi previsti nel codice civile per le società, e per gli altri soggetti profit, difficilmente avrebbero potuto restituire.

Proprio la stipula della convenzione con il Consiglio Nazionale dei Dottori commercialisti e degli Esperti Contabili, avvenuta nel giugno del 2018, ha permesso a Csvnet di lavorare insieme ai dottori commercialisti in termini di condivisione della conoscenza ed esperienza sui temi della rendicontazione economica. E la presenza di CSVnet all’interno del Consiglio Nazionale del Terzo Settore ha consentito di monitorare l’iter con il quale i contenuti del decreto hanno assunto la loro attuale fisionomia e fornire il necessario contributo in termini di esperienza maturata dai centri durante gli anni della loro attività a fianco degli enti del terzo settore.

I nuovi schemi di bilancio interesseranno direttamente anche i Csv in quanto Ets. Pertanto l’impatto di tale provvedimento normativo si avrà anche sui soggetti che compongono il sistema dei Csv. Nel 2011 CSVnet, Acri e Forum Terzo Settore hanno adottato il “Modello Unificato di Rendicontazione delle attività dei Csv” che declina gli schemi proposti dall’Agenzia per il Terzo Settore adattandoli alle specifiche esigenze rendicontative dei centri; questa scelta oggi si rivela lungimirante. Infatti i nuovi schemi, previsti oggi per legge, adottano la medesima impostazione metodologica e contenutistica rendendo più agevole il processo di adeguamento che nei prossimi mesi interesserà anche i Csv.

La sfida che i Csv sono chiamati a raccogliere nei prossimi mesi è quella di supportare gli Ets nell’adozione dei nuovi schemi di rendicontazione economica. In tal senso va detto che i contenuti del decreto prevedono delle componenti estremamente innovative.

  • In primis l’introduzione di uno schema di “rendiconto per cassa” utilizzabile dagli enti con volumi di entrate inferiori a 220.000 euro in luogo dello Stato Patrimoniale e del Rendiconto Gestionale. Nel pieno rispetto dell’art. 13 del codice del terzo settore, e con l’obiettivo di semplificare il carico amministrativo/contabile in capo agli enti di più piccole dimensioni, la produzione di tale schema di rendiconto necessita dell’adozione di una contabilità di “pura cassa”. Sebbene questa sia già utilizzata da moltissimi enti sarà necessario approfondirne caratteristiche e principi oltre che delinearne i contorni e le differenze rispetto alla classica contabilità per competenza economica, evitando pericolosi approcci ibridi che ne mettano in discussione la validità.
  •  Ma la componente forse più innovativa è l’introduzione dei modelli relativi alla valorizzazione degli oneri e dei proventi figurativi. Sebbene indicati come prospetti facoltativi da riportare in calce agli schemi di bilancio (sia per competenza economica che per cassa), non c’è dubbio che siamo di fronte ad un importante novità che contempla, tra gli altri, il delicato tema della valorizzazione dell’attività di volontariato.

Il percorso è all’inizio. I contenuti del decreto gettano le basi di un nuovo modo di pensare al tema della rendicontazione economica degli enti del terzo settore. Appare evidente che non basta un atto normativo per disciplinare e risolvere un tema di così ampia portata in termini di accountability Gli schemi di bilancio dovranno superare importanti banchi di prova. Verrà verificata sul campo la loro effettiva capacità di rispondere agli obiettivi che la riforma ha delineato. Saranno necessari ulteriori interventi soprattutto in termini di definizione di specifici principi contabili che permetteranno una migliore applicazione ed interpretazione dei contenuti degli schemi di bilancio.

E in tale contesto appare decisivo il lavoro che dovrà svolgere CSVnet e la rete dei Csv affinché questo primo fondamentale tassello normativo costituisca un’accelerazione al processo avviato da tempo dalla nostra rete finalizzato a rendere l’attività degli Ets sempre più trasparente e capace di rendere conto agli stakeholder di riferimento del proprio agire.

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3625-terzo-settore-alla-sfida-della-trasparenza-ecco-i-modelli-di-rendicontazione?Itemid=893

 

Riforma terzo settore: approvati gli schemi di bilancio

In Gazzetta Ufficiale la modulistica che diventerà obbligatoria per rendicontare il bilancio del 2021. Sotto la soglia dei 220.000 euro basterà il rendiconto per cassa. Pubblicato anche un glossario per redigerli senza sbagliare

            La Riforma del terzo settore fa un ulteriore passo avanti. In attesa del decreto attuativo di istituzione del registro unico nazionale del terzo settore (Runts), è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18 aprile 2020 il decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 5 marzo 2020 con la modulistica di bilancio degli enti del terzo settore.                                    www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/04/18/20A02158/sg

            Il decreto era previsto dall’articolo 13 del Codice del terzo settore, che prevede indicazioni minime sul bilancio da redigere per gli enti del terzo settore che non esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale. I modelli saranno obbligatori per rendicontare il bilancio del 2021.

Quali documenti è necessario predisporre? Gli enti del terzo settore con ricavi, rendite, proventi o entrate non inferiori a 220.000 euro devono redigere un bilancio di esercizio con stato patrimoniale, rendiconto gestionale e relazione di missione (principio di competenza economica).

            Per chi ha ricavi inferiori a 220.000 euro, basterà un bilancio in forma di rendiconto per cassa. In questo caso, bisogna escludere le entrate relative al reperimento di fonti finanziarie e ai disinvestimenti, come nel caso di alienazioni a qualsiasi titolo di elementi aventi natura di immobilizzazioni. Questi, infatti, come specificato nell’Introduzione agli schemi di bilancio, non sono afferenti alla gestione corrente dell’ente.

            In entrambi i casi, il riferimento è al volume di ricavi, proventi o entrate comunque denominate conseguiti come risultanti dal bilancio dell’esercizio precedente.

Attività diverse e strumentali. Il decreto mette in luce alcuni aspetti da tenere in considerazione nella gestione dei modelli di schemi di bilancio. Per quanto riguarda le attività diverse e strumentali, ex art.13, c.6 del Codice del Terzo settore, è l’organo di amministrazione a documentarle a seconda dei casi nella relazione di missione, in una annotazione in calce al rendiconto per cassa o nella nota integrativa al bilancio.

Raccolte pubbliche di fondi. Per quanto riguarda gli enti del terzo settore non commerciali e quelli che si avvalgono del regime forfetario che effettuano raccolte pubbliche di fondi, devono inserire nel bilancio un rendiconto specifico (il riferimento è al comma 3 dell’art. 48 del Codice del terzo settore, tenuto e conservato ai sensi dell’art. 22 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600) dal quale devono risultare in modo chiaro e trasparente e anche utilizzando una relazione illustrativa, le entrate e le spese relative a ciascuna delle celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione.

Cosa bisogna sapere sulla relazione di missione. Illustra, da un lato, le poste di bilancio e, dall’altro lato, l’andamento economico e finanziario dell’ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie, cumulando informazioni che il Codice civile colloca per le società di capitali, distintamente, nella nota integrativa e nella relazione sulla gestione.

Conformità del bilancio di esercizio ai principi enunciati dal Codice civile. La sua predisposizione è conforme alle clausole generali, ai principi generali di bilancio e ai criteri di valutazione relativi agli articoli 2423 e 2423-bis e 2426 del codice civile e ai principi contabili nazionali, in quanto compatibili con l’assenza dello scopo di lucro e con le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale degli enti del terzo settore. Nella relazione di missione, inoltre, l’ente dà atto dei principi e criteri di redazione adottati. Il rendiconto per cassa si ispira ai principi e ai criteri sopra richiamati, in quanto applicabili.

Come modificare gli schemi? I modelli devono essere considerati come schemi “fissi”. Come si legge nel decreto, però, per favorire la chiarezza del bilancio è possibile suddividere le voci precedute da numeri arabi o da lettere minuscole dell’alfabeto, senza eliminare la voce complessiva e l’importo corrispondente. È possibile, inoltre, raggruppare le citate voci quando è irrilevante o quando esso favorisce la chiarezza del bilancio. In questo contesto, gli enti che presentano voci precedute da numeri arabi o da lettere minuscole con importi nulli per due esercizi consecutivi possono eliminare dette voci. Possono, in ultimo, aggiungere, laddove questo favorisce la chiarezza del bilancio, voci precedute da numeri arabi o da lettere minuscole dell’alfabeto. Eventuali raggruppamenti o eliminazioni delle voci di bilancio devono risultare esplicitati nella relazione di missione, al punto 3.

Il ruolo dell’organo di controllo (e, nel caso, del revisore legale dei conti). All’organo di controllo è affidato il compito di esprimere, con un’apposita relazione, un giudizio sul bilancio composto da stato patrimoniale, rendiconto gestionale e parte della relazione di missione che illustra le poste di bilancio. Nella relazione devono essere presenti, ex art.14, c.2, lett. e) del Decreto legislativo 39/2010:

  • Il giudizio di coerenza con il bilancio;
  • Il giudizio della parte della relazione di missione che illustra l’andamento economico e finanziario dell’ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie;
  • Il giudizio di conformità della medesima parte della relazione di missione con le norme di legge e la dichiarazione sugli errori significativi.

Si rammenta che, superati i limiti dimensionali di cui all’articolo 31, comma 1, gli enti devono nominare un revisore legale dei conti o una società di revisione legale. La revisione legale dei conti può essere effettuata anche dall’organo di controllo ma in questo caso deve essere costituito da revisori legali iscritti nell’apposito registro.

       Mod. A: stato patrimoniale. Lo stato patrimoniale deve essere redatto in conformità al seguente schema.

Qui una tabella riassuntiva realizzata da Cantiere terzo settore

www.cantiereterzosettore.it/images/Documenti/MOD_A_-_STATO_PATRIMONIALE_-_SCHEMI_DI_BILANCIO_ETS.pdf

Mod. B: rendiconto gestionale. Il rendiconto gestionale deve essere redatto in conformità al seguente schema

Parte di provvedimento in formato grafico

www.gazzettaufficiale.it/do/atto/serie_generale/caricaPdf?cdimg=20A0215800100010110001&dgu=2020-04-18&art.dataPubblicazioneGazzetta=2020-04-18&art.codiceRedazionale=20A02158&art.num=1&art.tiposerie=SG

Mod. C: relazione di missione. Qui una tabella riassuntiva realizzata da Cantiere terzo settore

https://www.cantiereterzosettore.it/images/Documenti/MOD._C_RELAZIONE_DI_MISSIONE_-_SCHEMI_DI_BILANCIO_PER_GLI_ETS.pdf

Mod. D: rendiconto per cassa. Il rendiconto per cassa deve essere redatto in conformità al seguente schema

Parte di provvedimento in formato grafico

www.gazzettaufficiale.it/do/atto/serie_generale/caricaPdf?cdimg=20A0215800100010110002&dgu=2020-04-18&art.dataPubblicazioneGazzetta=2020-04-18&art.codiceRedazionale=20A02158&art.num=1&art.tiposerie=SG

Per facilitare la redazione degli schemi, il Decreto contiene anche un Glossario sulle poste del bilancio qui riassunto.

www.cantiereterzosettore.it/images/Documenti/GLOSSARIO_SULLE_POSTE_DEL_BILANCIO_-_SCHEMI_DI_BILANCIO.pdf

Lara Esposito             Cantiere Terzo Settore           21 aprile 2020

www.cantiereterzosettore.it/component/content/article/9-notizie/189-riforma-terzo-settore-approvati-gli-schemi-di-bilancio?Itemid=101

 

Riforma ETS: cosa succede ad una ONLUS che non adegua lo statuto

A seguito dell’approvazione del nuovo codice del terzo settore, si sono formate diverse polemiche e problematiche da risolvere all’interno del mondo del no profit. La riforma ETS continua a restare sospesa, lasciando gli enti ad orbitare in un incerto regime transitorio.

Il Decreto legislativo n. 117/2017 ha completamente stravolto ogni certezza giuridica, riducendo la platea delle tipologie di associazioni che grazie al nuovo regolamento hanno diritto ad usufruire di determinati vantaggi fiscali.                                                          www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/08/2/17G00128/sg

Come specificato nell’art. 4 del D.lgs 117/2017: “Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociali.”

            Sulla base di quanto sopra evidenziato, si rende quindi evidente che l’applicazione del nuovo codice del terzo settore ha obbligato le associazioni a compiere opportune riflessioni, in modo da comprendere se il loro asset organizzativo e la loro mission potessero essere incanalate nel nuovo panorama delineato da tale riforma, scegliendo anche il vestito più adatto alla loro struttura tra quelli previsti dal decreto.

Riforma ETS: abolizione qualifica fiscale di ONLUS. Con il D.lgs. n. 460/97 è stata data la possibilità ad alcune organizzazioni che perseguivano utilità sociali e rispondevano a determinati requisiti, la possibilità di richiedere ed ottenere una qualifica valida ai fini fiscali, grazie alla quale potevano beneficiare di diverse agevolazioni, impegnandosi a rispettare l’obiettivo non lucrativo attraverso lo svolgimento della loro attività.                                               www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1998/01/02/097G0489/sg

La riforma del terzo settore ha però eliminato tale qualifica, richiedendo quindi alle organizzazioni iscritte all’anagrafe delle Onlus di adeguare i propri statuti, delineando la loro forma scegliendo tra tre opzioni:

  1. Odv (Organizzazioni di volontariato);
  2. Aps (Associazioni di promozione sociale);
  3. c.       Un altro ente tra quelli previsti dall’art. 4 del D.lgs 117/2017.

La qualifica di ONLUS ha garantito negli anni molti vantaggi fiscali alle associazioni che avevano i requisiti per beneficiarne, attraverso di essa era infatti possibile, grazie all’applicazione dell’art. 150 del DPR n. 917/1986 prevedere l’irrilevanza tributaria dei proventi derivanti dall’esercizio di attività commerciali a patto che esse fossero strettamente legate allo svolgimento di attività considerate istituzionali, ovvero condotte per il perseguimento dello scopo sociale così come descritto dallo statuto dell’associazione, e relativamente alle attività direttamente connesse alle prime. Tale previsione conosciuta come decommercializzazione è il fulcro della convenienza fiscale di tale qualifica, la quale permetteva infatti alle organizzazioni non lucrative di svolgere attività che l’universo tributario avrebbe considerato imponibili perché di natura commerciale, senza però dover sottostare a tassazione, mentre invece le attività prettamente istituzionali erano ab origine escluse dall’imponibilità fiscale. La tassazione ai fini IRES di una ONLUS si riduceva quindi solo ad alcune categorie reddituali, quelle che concorrono alla formazione del reddito complessivo degli enti non commerciali, sulla base dell’art. 143 del DPR 917/86.

Cosa succede ad una ONLUS che non decide di passare al terzo settore. A seguito dell’introduzione del nuovo codice le ONLUS, come anche le altre associazioni, si sono trovate a dover compiere una serie di riflessioni, in merito alla convenienza di un eventuale passaggio o meno all’interno del nuovo registro degli ETS il cosiddetto RUNTS. È di certo possibile che alcuni enti decidano di non adeguare i propri statuti e di non voler entrare a far parte del nuovo registro e della nuova configurazione del panorama associativo. Tale decisione porta con sé molta incertezza, dovuta soprattutto ad una lentezza applicativa che questa riforma sta riscontrando nel panorama legislativo. Gli scenari non sono ancora ben definiti, ed anche il termine ultimo entro il quale i nuovi statuti per gli ETS dovranno essere approvati sembra slittare continuamente.

            Proviamo quindi adesso a fare un po’ di chiarezza ripercorrendo le indicazioni fornite attraverso circolari ministeriali e dell’Agenzia delle Entrate.

Cosa succede ad una organizzazione non lucrativa quando perde la qualifica di ONLUS. È bene sottolineare che una ONLUS non è un soggetto di diritto, ma è puramente una qualifica che viene riconosciuta ad una organizzazione non lucrativa, la quale risponde ai requisiti richiesti dalla normativa D.lgs 460/1997.

            Pertanto per avere una ONLUS è prima necessario costituire un ente non commerciale sotto forma di associazione, fondazione od altro, il quale se rispetterà ogni anno determinati requisiti potrà mantenere tale qualifica. L’eventuale perdita della qualifica di ONLUS dovuta all’attuazione del nuovo codice del terzo settore ed una eventuale decisione dell’ente di non entrare a far parte del RUNTS non comporta quindi l’estinzione dell’associazione preesistente all’ottenimento di tale qualifica fiscale, comporta però determinati obblighi patrimoniali. La circolare ministeriale 26 giugno 1998 n. 168/E precisa che la perdita della qualifica equivale ai fini della destinazione del patrimonio allo scioglimento dell’ente e comporta quindi la conseguente devoluzione del patrimonio stesso ad altra associazione non lucrativa, pertanto una ONLUS che decide di non entrare nel terzo settore deve devolvere il suo patrimonio ai fini di pubblica utilità.

https://def.finanze.it/DocTribFrontend/getPrassiDetail.do?id={C22AFFB0-E593-453D-B8BD-D8D6A3982976)

Quale è il termine per l’adeguamento dello statuto. Un altro degli interrogativi più controversi riguarda la scadenza entro la quale le associazioni dovranno decidere se entrare a far parte del terzo settore, adeguando quindi i propri statuti alle nuove norme disciplinate dal codice del terzo settore, oppure rinunciarvi e tenersi al di fuori di tale universo mantenendo l’essenza di puro ente non commerciale. Come chiarito però dall’articolo 43, comma 4-bis, del d.l. 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla l. 28 giugno 2019 n. 58 previsto, tra l’altro, in deroga a quanto disposto dal comma 2 dell’art. 101 del d.lgs. 3 luglio 2017 n. 117: “i termini per l’adeguamento degli statuti delle ONLUS, delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale sono prorogati al 30 giugno 2020”. Tale termine sulla base di una interpretazione ministeriale, stabilito al 30 giugno 2020 dal d.l. n. 34/2019, per l’adeguamento degli statuti al Codice del Terzo Settore, è meramente ordinatorio e non perentorio. Non indica quindi una scadenza vincolante, ma delimita la possibilità di poter usufruire di semplificazioni procedurali per l’adeguamento dello statuto per quelle associazioni che hanno intenzione di passare al terzo settore ed iscriversi al RUNTS.

Il 30 giugno 2020 non è infatti una reale scadenza esclusiva, non comporta di per sé un termine ultimo oltre il quale le organizzazioni non lucrative non potranno decidere di entrare a far parte del RUNTS, tale data sancisce solamente un limite entro il quale le eventuali modifiche allo statuto potranno essere effettuate seguendo un iter procedimentale semplificato. Entro il 30 giugno sarà infatti possibile effettuare le predette modifiche con delibera dell’assemblea ordinaria dei soci, e senza il raggiungimento di maggioranze qualificate.

È evidente quindi che anche dopo tale data le organizzazioni no profit potranno comunque modificare i propri statuti, attraverso però una delibera assunta dall’assemblea straordinaria, la quale dovrà essere in grado di esprimere le proprie decisioni con quorum qualificati.

Regime transitorio ONLUS. Il problema di carattere pratico che le ONLUS si trovano a dover fronteggiare riguarda la regolamentazione da attuare nel periodo compreso tra l’approvazione del nuovo codice del terzo settore ed il suo effettivo funzionamento, che dovrà avvenire l’esercizio successivo rispetto alla costituzione del RUNTS – Registro unico del terzo settore. Grazie ai chiarimenti dell’agenzia delle entrate è possibile delineare i contorni di un regime transitorio, che caratterizza l’abrogazione differita della normativa di cui al D. Lgs n. 460/97 propria delle ONLUS, e che le quali possono seguire fino all’effettivo funzionamento della riforma. Fino al momento in cui non si sarà ottenuta l’autorizzazione della Commissione europea a proposito dei regimi contabili da applicare alle nuove forme associative e non vi sarà l’effettiva istituzione del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, sarà possibile per le ONLUS godere degli attuali vantaggi in termini fiscali.

La risoluzione 89/E del 25/10/2019 dell’Agenzia delle Entrate specifica chiaramente che: “Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali con circolare n. 13 del 31 maggio 2019, alla quale, per gli aspetti extra-fiscali si fa integrale rinvio, ha fornito chiarimenti in relazione all’articolo 101, comma 2, del CTS, sopra riportato. Per quanto riguarda le ONLUS, la circolare fa riferimento al contenuto dell’articolo 102, comma 2, lettera a), del Codice ed esplicita che la disciplina relativa alle ONLUS resterà in vigore fino a quando non troveranno applicazione le nuove disposizioni fiscali recate dal Titolo X del Codice. Stante il perdurare, nel periodo transitorio, dell’efficacia delle disposizioni recate dal D.lgs 460 del 1997, la circolare afferma che la verifica dello statuto alle nuove disposizioni codicistiche dovrà essere condotta dall’ufficio del RUNTS territorialmente competente.”

Quando avverrà la decadenza dalla qualifica di ONLUS. Un’associazione, in questo caso una Onlus, che deciderà di non effettuare il passaggio al terzo settore potrà quindi mantenere i benefici fiscali ed i relativi trattamenti, così come specificato dall’Agenzia delle Entrate “fino periodo di imposta successivo a quello di operatività del Registro unico”. Nel momento in cui il RUNTS sarà costituito, gli enti territoriali procederanno con le comunicazioni obbligatorie, attraverso le quali il registro stesso assumerà contezza delle associazioni iscritte all’interno delle anagrafi territoriali. Sarà quindi poi l’ufficio competente in ordine territoriale del RUNTS ad inviare una comunicazione alle associazioni iscritte ai diversi registri del volontariato tra cui anche le ONLUS, con la quale chiederanno, nel caso in cui non fosse stato ancora fatto, di adeguare lo statuto, sarà quindi concesso un ulteriore periodo di tempo che le organizzazioni potranno sfruttare per decidere se entrare a far parte del terzo settore oppure uscire da tale universo. Infine la verifica della coerenza dello statuto alle nuove disposizioni del codice sarà effettuata dall’ufficio del registro unico competente.

            Riassumendo quindi l’effettiva decadenza della qualifica, derivante dalla concreta abrogazione della disciplina del D.Lgs. n. 460/97, si verificherà alla compresenza di due condizioni fondamentali cioè che il RUNTS sia stato costituito e sia operativo e che sia stata emanata l’approvazione della Commissione UE delle disposizioni di cui allo stesso Titolo X del codice del terzo settore, e comunque non prima dell’esercizio successivo a quello della messa in funzione del Registro.

Cristina Cherubini                 informazione fiscale   20 aprile 2020

www.informazionefiscale.it/riforma-ets-onlus-non-adegua-statuto

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Le famiglie senza risposte

Lettera del presidente del Forum delle Famiglie a Giuseppe Conte: “La prima risposta che chiediamo all’esecutivo è quella di soluzioni concrete e immediate affinché il 4 maggio le famiglie sappiano come conciliare serenamente il lavoro e l’attività di cura dei propri figli. La seconda? L’assegno per ogni figlio nel DL di aprile”.

Il 4 maggio i genitori torneranno al lavoro ma ancora non sanno a chi potranno lasciare i figli. “Chiediamo di inserire l’assegno straordinario per ogni figlio nel dl di aprile. Nei 55 miliardi di euro che saranno messi a disposizione non può non esserci questo assegno”: così il presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, Gigi De Palo, in una lettera aperta inviata al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dopo l’incontro di ieri sul tema delle misure di sostegno economico e sociale alle famiglie.

Il suo “osservatorio privilegiato” permette di avere bel il ‘termometro’ delle famiglie italiane: “riceviamo ogni giorno feedback allarmanti. Il timore è che, se non arrivano risposte chiare entro le 130 ore che restano all’avvio della fase due, la delusione sarà tanta. Le famiglie non chiedono elemosina, ma di essere messe nelle condizioni di vivere dignitosamente. La prima e più urgente risposta che chiediamo all’esecutivo è quella di soluzioni concrete e immediate affinché il 4 maggio le famiglie sappiano come conciliare serenamente il lavoro e l’attività di cura dei propri cari a casa”.

“Confido pertanto – conclude la lettera – nella possibilità di non perdere l’opportunità aperta dal nostro incontro di ieri, al quale auspichiamo seguano nuovi appuntamenti, per trasformare una crisi storica e drammatica per le famiglie in opportunità di rilancio e di costruzione del Paese che verrà”.

Redazione Vita.it        aprile 2020

www.vita.it/it/article/2020/04/28/130-ore-alla-fase-due-le-famiglie-senza-risposte/155238

 

Bassi: La famiglia, cura della società

In tempi come gli attuali di emergenza sociale, economica e sanitaria e di continui decreti, più o meno efficaci, detti Cura Italia, riproponiamo quella che, anche secondo la nostra Costituzione, dovrebbe essere la prima “risorsa” della società, ovvero la «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (art. 29).

            Ne parliamo con Vincenzo Bassi, primo presidente italiano della Federazione delle associazioni familiari cattoliche in Europa (FAFCE), la più importante rete associativa familiare di ispirazione cristiana del continente, con sede a Bruxelles, alla quale aderiscono una ventina di associazioni nazionali di altrettanti Paesi europei in rappresentanza di diverse decine di milioni di famiglie. L’Italia è rappresentata dal Forum delle associazioni familiari, che federa nel nostro Paese 47 associazioni nazionali e 18 Forum regionali, a loro volta composti da Forum locali e da 582 associazioni, per un totale di circa 5 milioni di famiglie.

Avv. Bassi, come nasce e in cosa si sta concretizzando il suo impegno alla guida della Federazione delle associazioni familiari cattoliche europee?

            Questo impegno nasce in maniera molto spontanea e direi anche naturale, vista la continuità d’intenti e di vedute con il mio predecessore, Antoine Renard, che apprezzo moltissimo. Inoltre, dopo nove anni di presidenza francese e dopo i complessivi 22 anni di esistenza delle Federazione, era arrivato il momento di un impegno più intenso del Forum italiano, membro quasi fin dalla sua creazione, ma che mai aveva detenuto la presidenza. Un punto di svolta è stato anche il Consiglio di Presidenza di Roma nel giugno 2017 (riunione semestrale di tutti i presidenti e i rappresentanti delle associazioni familiari componenti la Federazione), all’occasione del 20° anniversario della Federazione. Questo è stato il primo Consiglio accolto dal Forum delle Famiglie nella nostra Capitale, che ha visto anche un’udienza privata con il Santo Padre, il quale ci ha incoraggiato con forza a continuare nel lavoro iniziato e ad ampliare il nostro campo di azione e la nostra rappresentatività. Da allora si è notata anche una chiara domanda rispetto a un maggiore impegno di noi italiani, che veniva da tutti, riunendo approcci che sono storicamente e culturalmente diversi, come possono essere considerati ad esempio quello tedesco o quello polacco.

            La FAFCE non è un monolite rigido, ma una realtà che unisce tante realtà associative diverse, con tutta la diversità che fa la ricchezza e la complessità della nostra Europa. Come italiani e, aggiungo, come cattolici italiani, abbiamo una responsabilità tutta particolare, che per la sua storia si fa capace di rispettare questa diversità e di farne la sintesi. Le nostre associazioni, come dicevo, sono decisamente variegate tra loro, per la loro storia e per il tipo di lavoro che svolgono sul terreno. La nostra missione come FAFCE è portare queste esperienze in Europa, portare la voce delle famiglie presso le istituzioni europee, dare segno di unità ed essere testimoni della bellezza della rivelazione cristiana sul matrimonio e sulla famiglia.

Prima di diventare presidente FAFCE, lei è stato per diversi anni responsabile giuridico del Forum delle famiglie italiano. A questo proposito le chiedo: com’è compatibile, non solo dal punto di vista politico ma anche giuridico, l’attuale ordinamento, per esempio del welfare, con il dettato della prima parte della nostra Costituzione?

Non è compatibile: urge ripensare il sistema, urge per essere fedeli allo spirito dei padri costituzionali che – parlando di famiglia come società naturale – non avevano in mente un concetto astratto o ideologico, ma il punto di partenza per la ricostruzione del Paese. Questo, oggi come allora, può diventare la chiave di volta della nostra rinascita. È nei momenti di crisi che si è capaci di guardare all’essenziale e della vita nostra personale e delle nostre comunità. In questo senso, l’attuale emergenza si presenta come un’occasione preziosa che rischiamo di lasciarci sfuggire.

Lei ha parlato di famiglia come cura della società da diverso tempo prima dello scoppio dell’attuale emergenza Covid-19. In passato ha peraltro definito quella della natalità «la grande emergenza dell’Europa». A maggior ragione quindi per la prossima e, speriamo imminente, ripartenza del Paese, su quali punti essenziali dovrebbero convergere tutte le forze politiche e sociali?

            Senza famiglia non ci sono bambini e senza bambini non c’è futuro… Questo è un dato di fatto che è stato palesato dalla crisi in corso: il ruolo di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia e la sua capacità generativa non hanno prezzo per il contributo che sono capaci di dare alla comunità tutta intera e al bene comune.

La famiglia è “cura” della società anzitutto perché è scuola di vita e di riconoscimento della complementarietà uomo-donna. Nella disarticolazione e opposizione dei ruoli maschio-femmina, donna-madre e padre-madre veicolati dai grandi media, come si possono riaffermare i valori naturali di riferimento sulla famiglia?

            Parlando di generatività. Come dicevo, al giorno d’oggi – nella crisi attuale – si presentano due fattori come evidenti sotto gli occhi di tutti.

            Da un lato, si torna a guardare all’essenziale: è evidente che la famiglia è il luogo della cura primordiale e della cura e della responsabilità nei confronti dei più deboli, è evidente che il Covid-19 colpisce maschi e femmine, non 65 e più generi diversi… è evidente che la famiglia è una risorsa insostituibile.

            Dall’altro lato, però, notiamo una tendenza all’individualismo, all’isolamento, non solo per motivi di salute pubblica, ma anche per paura ad aprirsi e per conformismo. Per esempio, sono sempre più numerose le statistiche e gli articoli di opinionisti che parlano di un aumento dei divorzi dopo questo periodo di quarantena generalizzata… Ma nessuno si chiede quanti sono i matrimoni che si salvano in questo periodo, quante sono le relazioni curate e preservate dallo stress del tran tran quotidiano che hanno in queste settimane l’occasione di rinascere.

            È urgente essere testimoni di questa rinascita, in maniera non conflittuale né polemica, ma in un modo che renda evidente – con fatti concreti – la capacità generativa della famiglia e del matrimonio.

Politiche e investimenti per la famiglia

 In periodi di crisi come quello che stiamo attraversando, oltre a misure immediate e di medio/breve termine, occorre mettere in campo anche una “strategia” di lungo termine per la riforma della società che, come sempre, non può che ripartire dal sistema scolastico, universitario e della formazione professionale. Ritrovando le radici del rispetto delle funzioni della famiglia, non crede che la promozione del diritto/dovere dei genitori di educare i propri figli sia una priorità da riconquistare e, da quest’ultimo punto di vista, dalla quale ripartire?

            Certamente, una strategia di lungo termine è davvero necessaria. Il punto di ripartenza, secondo me, lo stiamo sperimentando proprio in questo periodo, tutti chiusi nelle nostre case in famiglia: a cominciare dallo sperimentare la famiglia come Chiesa domestica. La Provvidenza ci sta in un certo qual modo obbligando a fare questa esperienza e a pregare con i nostri figli, a trasmettere loro direttamente la fede, senza delegare questo compito alla parrocchia e ad associazioni e realtà ecclesiali, che pure sono buone e devono poter dare il loro fondamentale contributo: penso che, come cristiani, spesso abbiamo dato il cattivo esempio in questo, delegando troppo e non assumendoci le nostre responsabilità di genitori cristiani. In seguito, c’è tutta la tematica dell’educazione e del sistema scolastico: mai come in questo tempo i genitori sono stati in prima linea (in casa mia spesso si svolgono tre lezioni in contemporanea e mia moglie e io siamo spesso correttori nonché risolutori di problemi di matematica e di versioni di latino…). Tutto questo ci sta mostrando il ruolo insostituibile della famiglia, cosi come anche della libertà di scelta educazionale che vediamo continuamente minacciata nel nostro Paese ma non solo. C’è tantissimo lavoro da fare.

Venendo ora all’approccio specificamente economico delle politiche per la famiglia, ci può parlare cosa la FAFCE pensa di proporre per riattivare un rapporto virtuoso tra impresa, vita domestica e lavoro?

            Si tratta di eliminare gli ostacoli perché le famiglie possano liberamente esercitare la loro funzione essenziale e insostituibile per il bene comune. La persona è troppo spesso considerata dalle politiche pubbliche come un individuo consumatore o lavoratore, ma mai nella sua funzione relazionale e – quindi – generativa, che si può espletare principalmente nel matrimonio e nella famiglia. Questa funzione generativa, propria della famiglia, è la chiave di volta per riattivare il rapporto tra impresa, vita familiare e lavoro, in vista di una vera ripartenza economica: molte ricerche (ma anche l’esperienza personale di tanti) mostrano come una vita familiare serena ed un matrimonio siano sinonimo di maggiore produttività lavorativa e di una più marcata creatività nei lavoratori e negli imprenditori. Se pensiamo al settore della sanità, oggi, dov’è che gli infermieri ed i medici, in questi giorni, potevano trovare riposo, conforto e consolazione (a parte la preghiera)? Gli applausi sui balconi, per quanto belli e simbolici, non avrebbero mai potuto sostituire il calore e il sostegno delle loro famiglie.

            Pochi giorni prima dello scoppio della pandemia ha scritto per L’Osservatore Romano un articolo sul “coraggio” di essere apostoli nei tempi di vita e di lavoro ordinario (Il tempo del coraggio, 4 marzo 2020, p. 7). Non crede che in questo periodo di crisi le tante difficoltà che stiamo affrontando come Paese stiano facendo cadere a molti i muri e le “difese” alla testimonianza cristiana?

            Decisamente. Non a caso quest’articolo è stato redatto prima di questa pandemia… in un momento in cui le circostanze attuali erano ancora impensabili. Davvero questo è un tempo di prova e anche di grazia, come affermano i vescovi europei cattolici e protestanti in un messaggio congiunto dei loro rappresentanti a Bruxelles in vista della Pasqua. Come ci invita il card. Jean-Claude Hollerich, presidente della COMECE (Commissione degli episcopati dell’Unione Europea), «Dio è più forte della morte!».

Giuseppe Brienza                   Settimana news                      22 aprile 2020

www.settimananews.it/famiglia/bassi-la-famiglia-cura-della-societa   

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Se non cambia con la vita, la liturgia diventa un teatrino

Mai, forse, la liturgia è al centro dell’attenzione – e non soltanto di quella dei credenti – come durante la settimana santa. In particolare, poi, durante il triduo pasquale. Quest’anno la situazione drammaticamente inedita che da quasi due mesi ha stravolto i nostri usi e costumi, inoculando paura e incertezza nelle vene del nostro quotidiano, ha fatto implodere i già stanchi “equilibri liturgici” che garantivano che tutto si ripetesse in modo sempre meccanicamente uguale. Che poi le chiese fossero sempre più vuote sembrava poco rilevante.

Se mai questa prova così dolente avrà qualcosa da dire alle chiese, la riflessione dovrà partire proprio dalla liturgia. Non è un caso, d’altra parte, che il primo documento del concilio Vaticano II sia quello che riguarda la riforma liturgica. Né è un caso che in questi mesi, in cui tutti siamo stati travolti dalla pesantezza dell’imponderabile, abbiamo visto accadere di tutto proprio riguardo alla liturgia. A ulteriore testimonianza di quanto da tempo, in realtà, era chiaro, e cioè che per la Chiesa cattolica, purtroppo, l’esperienza liturgica si riduce esclusivamente alla celebrazione della messa. Soprattutto, però, a testimonianza di come l’ostinata resistenza alla ricezione del Vaticano II e alle sue aspettative ecclesiologiche riguardo ai ministeri e all’ecumenismo si rifletta pesantemente nell’incapacità di coniugare lex orandi e lex credendi all’interno dei tempi e degli spazi della città secolare.

Non è questo il luogo per esaminare perché la Chiesa cattolica faccia tanta fatica a lasciarsi alle spalle la forma di Chiesa costantiniana e il modello liturgico tridentino e abbia pervicacemente preferito mondanizzarsi piuttosto che riformarsi. Basti dire che mai come ora essa appare ancora arroccata, dal punto di vista delle istituzioni, in un’interpretazione del non prevalebunt evangelico a dir poco puerile e paralizzata dal rifiuto di dare ascolto a quei teologi coraggiosi e lungimiranti che, da tempo, avevano indicato le strade da percorrere per aprirsi al futuro.

È su questo sfondo che Francesco ha preso su di sé, durante la quaresima e soprattutto durante il triduo pasquale, tutto il peso di una liturgia ormai messa di fronte alle sue responsabilità. La sua figura è stata dominante. Certamente, in virtù del verticistico centralismo romano sostenuto dalla potenza di fuoco comunicativa del Vaticano, ma anche grazie alla sua personale caratura spirituale. Ne ha dato conferma il patetico tentativo di imitazione da parte di vescovi che, dopo aver rispolverato piviali e mitrie dell’epoca della lotta per le investiture, hanno cercato anche loro di calcare la scena, ma con poca fortuna. Da Roma, invece, Francesco non ha parlato al mondo, ma ha parlato con il mondo, e i suoi gesti, seppur a volte non del tutto scevri da rievocazioni medievali, sono però riusciti a dare corpo allo psicodramma nel quale l’intero pianeta è piombato negli ultimi mesi.

Va detto che non tutti i credenti, infatti, hanno ancora acquisito la capacità di (o sono nella situazione adatta per) mettere in pratica le diverse indicazioni offerte dalle chiese locali per diventare soggetti in grado di celebrare la Pasqua nelle proprie case e con le proprie famiglie. E così per tre volte papa Francesco ha dovuto riempiere l’enorme vuoto di una basilica di San Pietro e infondere vita alla inerte teatralità di una celebrazione eucaristica fatta di troppi oggetti, di troppi movimenti e di troppe riverenze. Se non ci fosse stato il respiro di un papa, anziano e affaticato ma indomito, la scena sarebbe stata surreale, una sorta di teatrino in cui uno sparuto manipolo di “soldatini di stagno”, rispettosi del distanziamento sociale, ma rigorosamente schierati in ordine gerarchico pretendevano di rappresentare l’intero corpo ecclesiale. Per fortuna, per Francesco celebrare significa pregare con intensità ed egli riesce così a coinvolgere non solo gli astanti, ma anche i milioni e milioni presenti solo virtualmente. Francesco riesce a essere televisivo senza utilizzare stratagemmi scenografici e, anzi, rende sbiadita e perfino un po’ ridicola qualsiasi scenografia. Imprime infatti alla celebrazione eucaristica il carattere di una spiritualità robusta, quella ignaziana, per la quale la profonda devozione individuale non scade mai in forme di insano pietismo. Il tono delle sue parole, ma anche quello del suo silenzio fanno sì che nessuno possa semplicemente assistere, ma che ciascuno si senta chiamato a partecipare.

Per due volte, poi, lo sterminato popolo virtuale che ha preso parte alle celebrazioni del papa ha fatto esperienza della possibilità di uscire dal tempio e di trasformare la piazza in luogo di una celebrazione liturgica che non fosse la messa. Finalmente, liturgia e vita si sono saldate insieme, non artificialmente, come nelle preghiere dei fedeli precotte che vengono “recitate” con meccanica ripetitività, ma lasciando che la vita irrompesse nella preghiera, anzi, che la preghiera scaturisse dalla vita.

Indicendo il 27 marzo 2020 un lungo momento di preghiera dal respiro planetario, il papa gesuita non ha preteso di riempire il vuoto di una piazza San Pietro ma ha fatto percepire l’assenza di tutti come la presenza di ciascuno, lo ha reso così luogo abitato nel quale raccogliere l’angoscia del mondo e dal quale innalzare la preghiera di supplica. La sera del venerdì santo, poi, Francesco non ha “presieduto”, ma ha partecipato alla Via crucis, assommando nella sua figura tutti i credenti e non credenti che da tempo ormai hanno imparato a rivivere l’antica pratica devozionale. Lo ha fatto dando finalmente la parola a coloro che, in un sotterraneo della storia come il carcere, vivono cammini di dolore e di speranza in carne e sangue, cammini che, come i salmi biblici, sono già di per sé preghiera. E all’autorità di quelle parole, finalmente non “prestate”, Francesco non ha voluto aggiungere nessun’altra parola: con quel suo silenzio ha compiuto con autorevolezza magisteriale un gesto di cui, non a caso, si ha paura di parlare, perché mette radicalmente in discussione quell’uso/abuso della parola tipicamente clericale durante le nostre liturgie.

Le nostre nonne dicevano che Dio manda il freddo secondo i panni ma, forse, si può anche dire che Dio manda i panni secondo il freddo: a una chiesa cattolica che da troppo tempo ormai vive celebrazioni imbalsamate un anziano papa gesuita sta suggerendo che può ripartire solo dalla vita: se spegne la vita dentro formule e riverenze, la liturgia perde la sua funzione originaria e la sua forza originante.

Marinella Perroni       Il Regno delle donne   20 aprile 2020

www.ilregno.it/regno-delle-donne/blog/se-non-cambia-con-la-vita-la-liturgia-diventa-un-teatrino-marinella-perroni

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LITURGIA

Celebrante in tempo di pandemia

Se la Chiesa non può radunarsi, è inevitabile che entri in crisi. Uno dei modi storici per lottare contro le Chiese è stato quello di impedirne l’atto elementare, che sta scritto a chiare lettere nel loro nome. Ecclesia è assemblea, essere convocati, chiamati, radunati. Senza raduno non c’è Chiesa. Chi impedisce il raduno è nemico. Questo immaginario è scattato in molti cuori, non solo in quelli cupamente reazionari. Ma se il raduno è vietato non per far male alla Chiesa, ma per il bene comune dei cittadini, allora le cose cambiano e le pratiche si complicano.

Il raduno è un bene e il suo divieto è un bene maggiore cui sacrificare l’assemblea. Tra i due beni non sono possibili spazi di mediazione. Questo apre un ventaglio di questioni e opportunità che sono effettivamente nuove e come tali devono essere affrontate, sapendo che i precedenti sono pochi, o troppo dissimili o troppo poco rilevanti. Proviamo allora a farne una rassegna.

Se i corpi restano a casa, almeno gli occhi, le orecchie, le menti e i cuori provano a uscire, cercano d’incontrarsi, non tardano a connettersi. Attraverso gli schermi dei PC, dei tablet, degli smartphones o dei televisori abbiamo provato a sopperire. E questa via ha trovato facile riconoscimento, anzitutto ufficiale, ma anche particolare, personale, pastorale. Moltissime parrocchie hanno attivato dirette streaming, altre si sono appoggiate a TV locali. Questo, però, è un canale che facilmente spettacolarizza il rito. Non «fai Pasqua», ma guardi un altro che, poco più che solo, fa Pasqua. Questo non solo è triste, ma va contro l’idea, profetica, che il popolo di Dio non sia «muto spettatore», tanto più se accomodato sul divano di casa. Non tutto, però, è stato condotto in questo modo. Abbiamo visto il bambino che segue la messa a casa, ma vestito da chierichetto. Abbiamo sentito di forme di partecipazione più intensa, più attiva e interattiva. Abbiamo anche trovato la forza di «fare comunione» non visuale, ma corporea e pratica.

L’incontro con il Signore, se non può essere garantito dal raduno di popolo, può esserlo nella forma domestica, casalinga, economica della Chiesa. Così persino il Triduo pasquale, cuore pulsante dell’assemblea ecclesiale, ha preso forma a casa, con una creatività, una pertinenza e un’intensità che forse nessuno si sarebbe atteso.

Il fatto da accettare e la spiegazione da offrire. Un secondo punto, più delicato, è parso, finora, il complesso percorso di giustificazione della rinuncia al raduno e di una teologia capace di elaborarlo in modo significativo. Entrambi questi passaggi non sono stati indolori. Da un lato, infatti, almeno all’inizio dell’epidemia, era corsa nel corpo della Chiesa la percezione che chiudere, rinunciare sarebbe stato tradire la Tradizione, la missione, la testimonianza, la carità… ma non appena il fenomeno ha assunto tutta la sua tragicità di sofferenza e di morte, a esitare sono rimasti soltanto o i fedelissimi senza cuore, o i comunicatori con cuore da sciacalli. La questione, però, non si è risolta, si è solo spostata. Così, acquisita la condizione di chiusura, si è entrati nel tunnel oscuro delle giustificazioni. E qui, ahimè, si è vista molto chiaramente una scissione drammatica tra l’iniziativa lodevole di diversi ministri e fedeli e la lettura fredda, burocratica, distante, puramente normativa di una parte non irrilevante del corpo episcopale.

Se, di fronte alla dura necessità di rinunciare al raduno, scatta immediatamente, quasi come un riflesso, la lettura eucaristica centrata sul prete, che quindi, anche da solo, costituirebbe «soggetto sufficiente» alla celebrazione, tutto questo sembra un messaggio assai dissonante rispetto alla sensibilità maturata dopo il Vaticano II.È parso che la ragione teologica dell’emergenza venisse improvvisata con gli scampoli mal composti di una teologia vecchia e senza cuore. Questo va poi sommato a circolari e decreti, emessi a livello universale o particolare, nei quali, quasi fossimo in una Chiesa-nave sorpresa da una grave tempesta che ne alterasse gravemente l’assetto di galleggiamento, tutte le istruzioni fossero dedicate all’equipaggio, mentre i passeggeri risultassero come lasciati a loro stessi o rimandati al divano con vista TV.

Solo il prete, prete solo. Un aspetto che non è stato facile mettere a fuoco è la correlazione complessa tra l’imporsi dello «stato di eccezione civile», con il distanziamento, il contenimento e il divieto d’assembramento, e lo «stato d’eccezione liturgica», che causa, ormai da 13 anni, nella Chiesa, l’accettazione di un distanziamento, di un raduno parallelo che minaccia la qualità della vita ecclesiale. Per certi versi i due stati di eccezione si sostengono, per altri versi si oppongono. Da un lato, infatti, si discute sull’«eccezione liturgica», ossia su un regime strano e poco trasparente, con cui la Chiesa, per rispondere a una contingenza di 13 anni fa, ha imboccato una strada da cui non riesce più ad uscire. Ma vi è, accanto a questo, la pressione di un momento del tutto eccezionale, in cui siamo costretti dal presidio sanitario a rinunciare a molte pratiche consolidate e a inventarne di nuove. Se consideriamo che nel pieno della pandemia la Congregazione per la dottrina della fede ha presentato due decreti (Quo magis e Cum sanctissima) con cui modifica l’Ordo missæ del 1962, per scongiurare lo scandalo occorre precisare che:

  • La legittimità di un atto non implica la sua opportunità o giustizia;
  • La trama istituzionale della Chiesa diventa opaca quando afferma prima di tutto la ripetizione inerziale di se stessa;
  • Le trasformazioni di una procedura devono essere controllate e verificate con molta attenzione.

Così, se una procedura, che era stata pensata per un commissione speciale – com’era Ecclesia Dei e che ora viene svolta da una sezione della Congregazione per la dottrina della fede, si occupa di «riformare il rito del 1962», l’effetto ecclesiale di questo atto appare mutato di segno. E la Congregazione, quasi automaticamente e senza colpo ferire, diventa il luogo di un dissidio tra forme concorrenziali dello stesso rito romano. Questo è un segnale estremamente negativo per la comunione ecclesiale.

Un sistema eccezionale voluto da papa Benedetto in vista e nella speranza di una riconciliazione, genera invece continuamente divisione, separazione, per non dire sedizione. Giustificare tutto ciò dicendo che «la legge lo consente» non è una soluzione, ma anzi trascina anche la legge nello scandalo che doveva essere evitato. La differenza tra la legge del 2007 (Summorum pontificum) e il disegno del concilio Vaticano II ci permette di dire che «lo stato di eccezione è finito». Possiamo tornare alla logica conciliare. Perciò il contenimento civile fa esplodere due logiche opposte e antitetiche. Corrobora una Chiesa di soli preti (e di preti soli) e rilancia l’iniziativa dei fedeli non chierici e non maschi. In particolare ne emerge, allo stesso tempo:

  • Il tentativo d’avvalorare una Chiesa d’emergenza di soli preti celebranti, che attinge a lessici e a canoni primo-moderni e preconciliari;
  • Il tentativo di giustificare il ruolo dell’assemblea, di una ministerialità allargata e del ruolo femminile, che implica la ripresa di discorsi forti e decisivi su questi temi.

Tutto ciò impone una de-clericalizzazione radicale e urgente, che possa dire tre cose decisive, anche se niente affatto nuove.

  1. L’assemblea celebrante è il corpo di Cristo risorto (e quindi non può in alcun modo essere pensata o resa accessoria);
  2. L’assemblea ha bisogno di più ministeri, non del solo presbitero;
  3. Le donne possono esercitare funzioni d’autorità, perché possono e debbono essere riconosciute titolari di un ministero in senso forte e pieno. Nelle donne è implicato e si esprime l’annuncio apostolico, dal quale dipende la stessa tradizione ecclesiale nella sua piena verità.

Talora, l’arroganza. Questo passaggio è difficile ed è anche teologicamente assai esigente. Potrà mettere definitivamente in soffitta i discorsini clericali che s’accontentano di citare frasi di uomini geniali, vissuti però in tutt’altro tempo, e che scambiano gli assetti istituzionali nei quali si trovano senza averli scelti col Vangelo, come se fossero di diritto divino. Sono i trucchi tipici di una Chiesa che non c’è più e che appare bene solo a porte chiuse. Perché c’è una Chiesa che è sempre stata a porte chiuse anche quando le porte erano aperte, che è rimasta bloccata in ruoli vecchi, che ha parole e forme vecchie. E proprio ora si vede meglio, perché realizza pienamente se stessa, grazie alla epidemia. E ha l’ingenuità semplice e talora un’arroganza senza pudore nel dirlo apertamente.

Ma non c’è solo questo. C’è anche, e ben viva, una Chiesa che ha bisogno urgentissimo di rilanciare i grandi discorsi, che la ufficialità ecclesiale ha avuto la forza di fare apertamente e solennemente solo sessant’anni fa e che oggi sembra tanto confusa quando deve ripeterli in modo credibile. C’è però chi lo sa fare. E si trova proprio in quel vertice della piramide che è rovesciata. Proprio per questa condizione rovesciata, ben prima della pandemia di oggi che desertifica il mondo, anche quando usciva ancora in una piazza S. Pietro aperta, in mezzo alla folla festante, Francesco era già apparso tremendamente solo, per il fatto di vivere lui a porte aperte in una Chiesa che le preferiva chiuse, già allora.

È quella stessa Chiesa che si rivitalizza oggi se può fare senza il popolo, se può sostituirlo in tutto, con un timbro o con un decreto. Se si ha la pazienza di leggere i discorsi scritti nelle ultime settimane da molti che stanno a stretto contatto con questo vertice di piramide capovolta, non si fa grande fatica a riconoscere questa condizione paradossale di solitudine raddoppiata: dalla chiusura civile che reduplica la chiusura ecclesiale. Le porte chiuse, dunque, aprono un doppio compito, meravigliosamente complicato: a chi in chiesa ci può stare, di starci diversamente. A chi in chiesa non ci può stare, di saper essere Chiesa altrove e diversamente.

A entrambe queste categorie di soggetti non guasta il ritorno a una delle fonti decisive del sapere eucaristico comune. L’uso dei termini più adeguati è spesso il primo segno di uno stile ecclesiale e di un metodo idoneo. Il testo normativo ufficiale, nel descrivere la esperienza di «celebrazione eucaristica» non usa mai il termine «messa senza popolo». La griglia che viene usata dall’Ordinamento generale del messale romano (OGMR, III edizione), per parlare delle diverse forme di celebrazione eucaristica, dice: «messa con il popolo», «messa concelebrata», «messa cui partecipa un solo ministro».

www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccdds/documents/rc_con_ccdds_doc_20030317_ordinamento-messale_it.html

Ciò accade perché l’OGMR sa che non si può celebrare «privatamente», neppure se sei il papa. La messa è, antropologicamente ed ecclesialmente, un fenomeno plurale. Umanamente non inizia mai dal singolo, ma da una comunità. Questa è la medesima sapienza che rimane scritta anche nella legge canonica, quando al can. 906 afferma: «Il sacerdote non celebri il sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa». In cima sta il «celebrare comune» e il «caso di necessità» è una dolorosa e pesante eccezione. La sapienza teologica sta nel percepire e comunicare queste differenze, sottili come un capello, ma decisive.

La logica inclusiva. La piena comprensione di un necessario stile liturgico e pastorale si può leggere nei numeri 91-96 dell’OGMR. Il primo numero dichiara:

 «91. La celebrazione eucaristica è azione di Cristo e della Chiesa, cioè del popolo santo riunito e ordinato sotto la guida del vescovo. Perciò essa appartiene all’intero corpo della Chiesa, lo manifesta e lo implica; i suoi singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, dei compiti e dell’attiva partecipazione. In questo modo il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”, manifesta il proprio coerente e gerarchico ordine. Tutti perciò, sia ministri ordinati sia fedeli laici, esercitando il loro ministero o ufficio, compiano solo e tutto ciò che è di loro competenza». Dire che la messa «appartiene all’intero corpo della Chiesa» è la visione di fondo nella quale non vi è concorrenza tra soggetti, cosa che capovolgerebbe il senso stesso della eucaristia. Ognuno è soggetto. La logica non è mai quella che distingue tra autonomo/dipendente. Si farebbe un errore nell’uso delle categorie. È come se si accettasse la logica del giochino della torre, classico e perverso: nella messa, chi butti giù dalla torre? Il prete o la assemblea?

La stessa logica inclusiva si legge nel passo dedicato al presbitero (OGMR 93), in cui la autorità di presidenza è correlata al servizio a Dio e al popolo, senza usare categorie di oggettivo/soggettivo. Tale servizio non può essere scisso, nel senso che come non si può servire il popolo senza servire Dio, così non si può servire Dio senza servire il popolo: l’«offerta del sacrificio» sta nel «presiedere il popolo radunato».

Ciò si riverbera anche nella ricca e articolata lettura del «ministero della assemblea». Qui sarebbe assai opportuno recuperare, da parte di tutti i fedeli e ministri ecclesiali, la forza di questi testi, senza lasciarsi distrarre da documenti gravemente fuorvianti che hanno avuto la sfrontatezza d’invitare alla «cautela» nell’uso della categoria di «assemblea celebrante».

Dare respiro ecclesiale. Talora, in modo improvvido, queste logiche apologetiche di «lotta agli abusi», impediscono di ragionare con tenerezza sulle dinamiche ecclesiali. Il vescovo e il presbitero, dovrebbe sempre essere chiaro, «presiedono un’assemblea che celebra». L’atto del celebrare è costitutivamente plurale. Per questo OGMR 95-96 ricorda:

 «95. I fedeli nella celebrazione della messa formano la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato e il sacerdozio regale, per rendere grazie a Dio, per offrire la vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote ma anche insieme con lui, e per imparare a offrire se stessi. Procurino quindi di manifestare tutto ciò con un profondo senso religioso e con la carità verso i fratelli che partecipano alla stessa celebrazione. Evitino perciò ogni forma di individualismo e di divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra loro fratelli.

  96. Formino invece un solo corpo, sia nell’ascoltare la parola di Dio, sia nel prendere parte alle preghiere e al canto, sia specialmente nella comune offerta del sacrificio e nella comune partecipazione alla mensa del Signore. Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme».

Qui è evidente e toccante il «respiro ecclesiale» di questa ariosa presentazione dell’esperienza eucaristica. In questo orizzonte di «comune offerta del sacrificio e di comune partecipazione alla mensa del Signore», con la comunione nella parola e nel sacramento, prende forma l’esperienza della Chiesa, che non si lascia chiudere in una pratica da funzionari assediati, che tradirebbe non solo il munus episcopale, ma il senso stesso del ministero ordinato.

Non scendere sotto il tono dell’OGMR – per far fronte alla sfida di un tempo così sorprendente e così spiazzante – a me pare l’unico modo per accedere davvero sia a un minimo sindacale di tenerezza ecclesiale, sia a un minimo episcopale di competenza eucaristica.

Andrea Grillo “Il Regno” – Attualità – n. 8, 15 aprile 2020

www.ilregno.it/attualita/2020/8/liturgia-covid-19-diversamente-chiesa-andrea-grillo

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202004/200422grillo.pdf

 

Dio è nella parola, non nella messa in streaming

Preti che celebrano l’eucaristia da soli, nelle chiese vuote, ripresi da una webcam che trasmette in streaming il rito. E fedeli che guardano la messa in televisione o sullo schermo di un computer o di uno smartphone, come spettatori di un film o di una serie su Netflix. È l’esperienza religiosa al tempo del coronavirus, da quando cioè, per decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri – ma Vaticano e Conferenza episcopale italiana si sono attenute alle restrizioni senza protestare –, in tutta Italia sono state vietate messe, funerali e altre celebrazioni liturgiche con la partecipazione dei fedeli.

Si celebra nel tempio, ma senza il popolo, perché il popolo non può più andare a pregare in un tempio. Un’immagine è diventata icona di questo tempo: papa Francesco che prega da solo, al centro di una piazza San Pietro deserta, oppure che celebra la veglia e la messa di Pasqua nella basilica vuota. È il rovesciamento della natura profonda della fede cristiana, ma anche di altre esperienze religiose e spirituali, fondate su una dimensione comunitaria che ora è inevitabilmente assente.

            Ne abbiamo parlato con p. Alberto Maggi, direttore del Centro studi biblici “Giovanni Vannucci” di Montefano (Mc) e straordinario lettore e divulgatore della Scrittura, sempre «interpretata al servizio della giustizia, mai del potere», come dice egli stesso; e con il teologo Vito Mancuso.

 

Padre Alberto, cosa pensi della sospensione delle messe e delle altre celebrazioni in questo periodo?

Qui a Montefano abbiamo chiuso la chiesa prima ancora che arrivasse il decreto della Presidenza del consiglio dei ministri. Se ci sono luoghi veicolo di infezioni, questi sono proprio le chiese, perché la gente tocca, bacia, sbaciucchia… Io combatto quotidianamente con persone che dicono: “Ma io ho fede”. Ed io rispondo che il virus non va a vedere chi ha fede e chi no. Quindi le chiese vanno chiuse, è necessario chiuderle.

            Ti sembra una circostanza negativa?

No, anzi, la ritengo positiva. Si è insistito troppo sull’incontro con il Signore dentro la chiesa, e questo ha fatto sì che poi, uscendo, ci si dimentica di Dio. Il Signore non è presente soltanto dentro una chiesa, ci aspetta soprattutto fuori, quando ci mettiamo a servizio degli altri. Lì c’è la presenza di Dio.

            Però non si può celebrare l’eucaristia.

È vero, e l’eucaristia è il momento centrale della vita della comunità cristiana. Ma in molte aree geografiche del mondo, pensiamo all’Amazzonia, alcune comunità se vedono il prete e celebrano la messa una volta l’anno è un miracolo! Forse per questo sono meno cristiani? Questa chiusura forzata e questo digiuno eucaristico ci fanno riscoprire la presenza di Gesù anche nella Parola. Noi qui a Montefano abbiamo chiuso la chiesa e abbiamo annullato tutti gli incontri e le celebrazioni. Ma attraverso il nostro canale su Youtube, leggiamo e commentiamo il Vangelo del giorno e abbiamo un seguito incredibile da parte delle persone. Allora questo tempo ci può aiutare a riscoprire la presenza di Dio anche nella Parola.

            Non celebrate la messa da trasmettere in streaming?

No. La messa in streaming proprio non la capisco, non può essere celebrata in streaming, la messa ha bisogno delle persone presenti. È come se mi prepari un bel dolce e poi lo mangi solo tu. Noi facciamo la lettura della Parola, ma la messa ci siamo sempre rifiutati di farla. Meglio altre celebrazioni, come appunto quelle della Parola. Dio si fa pane e diventa nutrimento per gli altri. Ma questo pane non è soltanto nell’eucaristia, è anche nella Parola. È ugualmente pane. È presenza di Dio. E ci aiuta a farci pane per gli altri. Per farci pane, dobbiamo ricevere questo pane. Se adesso non è possibile la celebrazione eucaristica, facciamo la celebrazione della Parola. E la Parola ci nutre. Poi quando tutto questo sarà finito, allora torneremo a celebrare con una gioia ancora più grande.

            Si può celebrare anche nelle case, come del resto facevano le prime comunità cristiane?

Sarebbe auspicabile, ma è la cosa più difficile, perché le persone non sono state abituate: pensano che c’è il prete, che è il prete che celebra, e celebra in chiesa. Invece se ci sono famiglie dove i genitori si fanno carico di spezzare il pane, di proclamare la Parola, di leggere il Vangelo, lì c’è la presenza del Signore. Bisogna usare la fantasia, perché, ripeto, la presenza del Signore non è soltanto dentro una chiesa.

            Più facile a dirsi che a farsi.

            Il problema non sono i laici. Il problema sono i preti, che sono cresciuti, educati e abituati al rito, per cui senza il rito si sentono persi, smarriti, vanno fuori di testa, non sanno più cosa inventarsi. Forse solo in alcune comunità, penso per esempio alle Comunità di Bose, si fa questo, ma normalmente non succede. Del resto il verbo maggiormente ricorrente nelle liturgie pasquali è “andare”, l’annuncio di Gesù risorto non è restate qui e adorate, ma “andate”: avete fatto l’esperienza che la vita è più forte della morte, ora andate a comunicarlo agli altri. Il Signore accompagna i discepoli, ma sono loro ad andare, rafforzandoli con la sua presenza. Allora, nonostante le restrizioni, questa che abbiamo appena vissuto, può diventare una Pasqua dinamica, che non si esaurisce nei riti, una Pasqua dell’andare verso gli altri.

            Non potrebbe essere un’occasione anche per i preti per modificare le loro abitudini?

            «Che si converta un prete è una cosa quasi impossibile. Sai quando un prete si converte? Quando si innamora. Solo allora capisce che c’è un’altra dimensione della vita. Del resto sono stati educati in seminario, che è una fabbrica atroce di funzionari del sacro, che cambia il cervello. Dicono gli psichiatri che sono tre gli ambiti in cui il cervello viene modificato: i seminari, le caserme e le sette. Per cambiare ci vuole uno shock. E saranno i laici a convertire i preti. Pietro era convinto di dover convertire il centurione Cornelio, invece è stato Cornelio, un pagano, che ha convertito Pietro. Un pagano ha fatto scoprire a Pietro che doveva essere cristiano. Fin quando i preti divideranno fra puri e impuri, ammessi e non ammessi, non avranno mai capito il messaggio di Gesù. Quando invece capiranno che agli occhi di Dio non c’è nessuna persona esclusa o rifiutata, allora l’annuncio pasquale brillerà. Ma ti ripeto: questo momento non è tutto negativo, può essere una opportunità di crescita, non sprechiamolo».

Intervista di Luca Kocci a p. Alberto Maggi               Adista Notizie n. 16, 25 aprile 2020

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Riscoprire l’interiorità, oltre il ritualismo

Celebrare la fede nel tempo della pandemia da coronavirus è anche il tema che abbiamo discusso con Vito Mancuso, filosofo e teologo, già docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano e di Storia delle dottrine Teologiche presso l’Università degli Studi di Padova, autore di numerosi volumi di grande successo di pubblico, l’ultimo dei quali, edito da Garzanti, è La forza di essere migliori.

 

Mancuso, ormai da oltre un mese assistiamo a celebrazioni eucaristiche senza la partecipazione dei fedeli. Ha senso celebrare la messa senza popolo?

            In realtà ci sono preti che dicono messa da soli regolarmente. Certo diventa un’altra cosa. Si trasforma in una preghiera individuale del celebrante che, secondo la teologia cattolica, può diventare un grande momento di intercessione per tutti coloro che vorrebbero partecipare ma non possono farlo. Ripeto è un’altra cosa rispetto ai banchetti rituali intorno ai quali è nata la comunità cristiana: i credenti si riunivano, mangiavano insieme e facevano memoria di Cristo morto e risorto. Viene meno la dimensione comunitaria. Però chi sono io per dire che non abbia senso? Per un prete ha senso celebrare anche senza popolo: una presenza solitaria di fronte al mistero, come è stata in fondo, per secoli, la messa tridentina. Anzi si può recuperare il valore di quella tradizione, che per secoli ha generato una pietà eucaristica religiosa, con il prete che non era immediatamente al cospetto del popolo, ma era al cospetto di Dio. Per cui non c’è bisogno di recitare le parole perché qualcuno le capisca, non c’è bisogno di fare gesti teatrali, non c’è bisogno di essere pedagogo di nessuno, devo essere pedagogo di me stesso. Quindi per molti preti può essere anche un momento di conversione. Io credo che se riuscissimo a capire che ha valore sia la celebrazione eucaristica con i fedeli, sia la messa senza popolo, recuperando il valore che possono trasmettere entrambe le impostazioni, faremmo un passo in avanti.

            Questo vale per il prete. Ma i fedeli che non possono partecipare al banchetto eucaristico, quali forme di celebrazione o di preghiera possono riscoprire?

            Il valore della Parola. O anche il silenzio. L’esperienza religiosa, non solo quella cristiana ma quella umana, contempla da sempre una dimensione comunitaria. Non c’è nessuna religione che non abbia nel proprio codice genetico la dimensione comunitaria. Ma non c’è religione che non abbia anche la dimensione individuale. Ci sono forme varie di presenza, di celebrazione comunitaria, di riti, ma anche insegnamenti che invitano a raccogliersi in se stessi. È quello che dice Gesù nel capitolo 6 del Vangelo di Matteo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Questo segreto, questa cripta, è la nostra interiorità. La connessione con Dio è lo spirito, e questo attiene alla solitudine. Fare silenzio di fronte al cielo, di fronte ad una pianta, ad una pietra, ad una nuvola, diventa una forma di celebrazione dell’esserci.

            E le celebrazioni comunitarie nelle case, come del resto faceva il popolo di Israele in esilio, oppure le comunità cristiane prima dell’era costantiniana?

            Sarebbe bellissimo. La Chiesa cattolica dovrebbe incoraggiare queste forme di celebrazione. Molti già lo fanno quotidianamente, si raccolgono insieme, leggono una pagina di Vangelo, spezzano il pane vero. Certo il monopolio clericale quando sente queste cose reagisce in maniera aggressiva e reprime sul nascere queste forme di celebrazione, perché appunto viene meno il monopolio. Ma secondo me quella che abbiamo davanti è un’occasione propizia per riscoprire queste forme.

            Del resto è la dimensione e la pratica di numerose comunità sparse in molte parti del mondo, dove non è possibile celebrare la messa quotidiana.

            Esattamente. Penso all’Amazzonia, o ai cristiani hanno vissuto in regimi totalitari comunisti dove non si poteva celebrare l’eucaristia. In fondo qual è la finalità ultima del rito? Forse quella di riempire le chiese? Di fare una bella processione? Di cantare tutti insieme? Secondo me la finalità ultima del rito è quella di riempire l’anima del singolo individuo di spirito, così da essere davvero in comunione con il divino. Un divino che si può pensare come Signore Gesù, come Spirito, ma anche in altri modi e in altre forme. La cartina di tornasole che fa capire se l’esperimento è riuscito oppure no è l’anima del singolo, non la bella celebrazione collettiva. Quello è ritualismo, il rito per se stesso. I riti sono un grande momento, un laboratorio dove avvengono delle cose. Ma la reazione chimica che deve avvenire è la trasformazione dell’anima del singolo, della coscienza, dell’interiorità che entra in comunione con il divino. Dovremmo ricordarcene anche quando torneremo a celebrare insieme, affinché ci sia profonda spiritualità e non vuoto formalismo.

            Quindi questo è un momento propizio?

Può esserlo. Questo tempo, Cronos [tempo], se lo si interpreta bene, può diventare un Kairos  [momento opportuno], un momento propizio. Certo può diventare anche un momento sfavorevole. Le situazioni limite sono così: ti possono distruggere o ti possono elevare, a seconda di come si vivono, di come si interpretano.

            A proposito del celebrare senza popolo, che impressione hai avuto dell’immagine di papa Francesco solo in piazza San Pietro?

Un’icona potentissima della spiritualità di questo tempo. Una manifestazione dell’impotenza del divino e della religione, come è stato per la Shoah. Scoprirsi impotenti, soli, vuoti, desolati. Io credo che questa sia la via di accesso. Lo cantava anche Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce”. La ferita profonda può diventare feritoia da cui entra la luce.

Intervista di Luca Kocci a Vito Mancuso  Adista Notizie n. 16 del 25 aprile 2020

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Sintonia tra magistero pastorale e magistero magistrale

 Sotto esame lo “stato di eccezione liturgica” di “Summorum Pontificum”

Una notizia è apparsa ieri pomeriggio su agenzie statunitensi, e presto si è diffusa in tutti gli ambienti ecclesiali. Si riferiva ad una “indagine” intorno all’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, chiesta direttamente da papa Francesco, e realizzata subito mediante un Questionario, destinato a tutti i Vescovi e accompagnato da una lettera della Congregazione per la dottrina della fede. Nel documento si pongono ai Vescovi di tutto il mondo nove questioni intorno agli effetti della “forma straordinaria” nella vita delle diocesi.  Appare così confermata, anche se maturata per via totalmente autonoma, la preoccupazione sollevata da 180 teologi, studiosi e studenti, in seguito alla presentazione a fine marzo dei Decreti di riforma del Messale del 1962. In sostanza, il dato rilevante, e per certi versi sorprendente, è che una comune preoccupazione caratterizza il vertice e la base della Chiesa cattolica. Dopo 13 anni, Summorum Pontificum non solo non ha affatto ottenuto il risultato di pacificazione con i lefebvriani che si era ripromesso, ma in compenso ha causato lacerazioni, divisioni, ha incoraggiato separazioni e conflitti interni alla Chiesa. Fino a diventare, apertis verbis et factis, un supporto identitario esplicito ad ogni opposizione contro la riforma della Chiesa, contro i segni dei tempi, contro lo stesso papa Francesco.

            Mi sembra importante ricordare le tappe di questa presa di coscienza ecclesiale. Vi è stata una “maturazione teologica” che nel corso di questi anni ha mostrato le gravi lacune teologiche, canoniche, ecclesiologiche, liturgiche e spirituali che la soluzione proposta da SP aveva posto alla esperienza ecclesiale. Ma è stata proprio la “pandemia” e lo “stato di eccezione civile” ad aver aperto gli occhi di molti, con una urgenza quasi irresistibile, su questo “stato di eccezione liturgica” che nella Chiesa si protrae ormai da 13 anni e con esiti sempre più preoccupanti. Vorrei ricordare una serie di interventi, che hanno animato il dibattito nelle ultime settimane: anzitutto la “Lettera aperta sullo “stato di eccezione liturgica”, che è stata firmata da 180 nomi qualificati, con alcuni tra i più noti teologi e liturgisti italiani, francesi, tedeschi, svizzeri, americani, brasiliani, spagnoli, Ma poi questa lettera, oggetto di discussione e di un primo dibattito, è diventata una petizione pubblica, che ha già raccolto più di 400 firme. Alla lettera ha risposto, seccato e polemico, Markus Graulich, Sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, cui ho risposto punto per punto. E già a questo punto un primo dato appare evidente, come risulta anche da dialoghi e scambi con colleghi: il MP Summorum Pontificum è privo di fondata giustificazione teologica. La teoria che vorrebbe dare ragione di “due diverse forme” dello stesso rito non regge ad un esame serio. Di questo si sono resi conto non solo teologi, sotto diverse angolature, ma anche canonisti come Pierluigi Consorti, Pierre Vignon e Umberto Del Giudice, o filosofi, come Andrea Ponso. Ma ora si scopre che, in forma del tutto autonoma, come attesta la data della lettera della Congregazione (7 marzo 2020), anche la Curia romana, su iniziativa di Papa Francesco, ha messo in moto un tempo di riflessione e consultazione episcopale, che durerà fino al 31 luglio, data ultima di consegna dei “questionari” distribuiti in questi giorni nelle curie di tutto il mondo. Ma esaminiamo anzitutto il questionario.

Le domande del questionario. Consideriamo le domande del questionario, cui faremo seguire una breve considerazione di carattere teologico:

  1. Qual è la situazione all’interno della Sua diocesi riguardo la forma straordinaria del Rito Romano?
  2. Se vi è celebrata la forma straordinaria, ciò è dovuto a una necessità pastorale reale o è promosso dall’iniziativa di un singolo sacerdote?
  3. Secondo Lei, esistono aspetti positivi o negativi dell’uso della forma straordinaria?
  4. Le norme e le condizioni del Summorum Pontificum sono rispettate?
  5. Ritiene che all’interno della Sua diocesi la forma ordinaria abbia adottato elementi della forma straordinaria?
  6. Per la celebrazione della Messa, Lei usa il Messale promulgato da Papa Giovanni XXIII nel 1962?
  7. Oltre alla celebrazione della Messa nella forma straordinaria, vengono fatte altre celebrazioni (per esempio il Battesimo, la Confermazione, il Matrimonio, la Penitenza, l’Unzione degli Infermi, l’Ordinazione, l’Ufficio Divino, il Triduo Pasquale, i riti funerari) seguendo libri liturgici anteriori al Concilio Vaticano II?
  8. Il motu proprio Summorum Pontificum ha influenzato la vita dei seminari (il seminario della diocesi) e di altri istituti di formazione?
  9. Tredici anni dopo il motu proprio Summorum Pontificum, qual è il Suo giudizio sulla forma straordinaria del Rito Romano?

La logica zoppa di SP e le sue lacune teologiche, ecclesiologiche e liturgiche. Le domande del questionario sono chiare e non generiche. Saranno i Vescovi a rispondere, secondo le loro competenze territoriali e pastorali. Qui vorrei solo mettere in luce alcuni aspetti di questa “normativa eccezionale” che vorrebbe pretendere di passare per “normale”. Si tratta in realtà della introduzione nella Chiesa di uno “stato di eccezione liturgica” che sottrae ai vescovi la autorità liturgica somma. Lo stato di eccezione deve finire, almeno per 4 motivi:

  1. L’autorità del Concilio Vaticano II: il presupposto negato. Uno dei “cortocircuiti” di Summorum Pontificum (SP) è la ambigua relazione con il Concilio Vaticano II. Va detto che il problema non è solo, come vedremo, nell’uso del testo, ma nel testo in quanto tale. Poiché di fatto esso consente una prassi, e lo fa a livello universale, che contraddice una esplicita domanda del Concilio Vaticano II (in particolare di Sacrosanctum Concilium) quando ha non solo prospettato, ma preteso la riforma del rito romano.

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_it.html

Se un Concilio domanda una riforma, e un Motu Proprio, dopo 40 anni, rimette in vigore quell’Ordo che il Concilio ha chiesto di cambiare, la contraddizione è “in re”. Ma c’è di più. SP, che conosce il proprio difetto, chiede perciò a chi vuole far uso della “forma straordinaria” di affermare formalmente la sua non opposizione e la sua fedeltà alla forma ordinaria. Curiosamente, proprio quando si è diffusa la notizia del questionario inviato ai Vescovi dalla Congregazione, una delle prime reazioni di un sito che è “portavoce” dei nostalgici ha scritto: “Una nuova minaccia incombe su quanti amano la liturgia tradizionale col rischio che si vedano costretti ad accettare tutto l’impianto dottrinale, liturgico e disciplinare del Vaticano II, che a quella liturgia è palesemente alieno”. Il punto è proprio questo: “accettare l’impianto dottrinale del Vaticano II” sarebbe il presupposto per poter usare della forma “straordinaria”. In realtà, come è evidente, la “forma straordinaria” è diventata, fin dal 2007, la trincea di resistenza al Concilio Vaticano II. Questo è semplicemente incompatibile con la comunione ecclesiale e deve essere superato.

b) La inconsistenza teologica e giuridica della teoria delle “due forme dello stesso rito romano”.

Il secondo punto “maggiore” di contestazione della logica di SP è il suo “impianto teologico” che è contraddittorio e privo di fondamento. La teoria secondo cui il “rito romano” – come lex orandi della Chiesa cattolica ed espressione della sua lex credendi – si presenterebbe in due forme (ordinaria e straordinaria) che esprimerebbero la medesima fede, è un dispositivo teorico che permette (e promette) di configurare lo spazio potenziale di una grande riconciliazione, ma lo fa al prezzo troppo alto di una totale astrazione, senza radice nella realtà e nella storia. Essa, infatti, astrae dalla storia complessa e controversa, che ha generato, dopo una “forma straordinaria” del rito romano (1570-1962), una “forma ordinaria” (1969). Questa successione non è avvenuta per un “gioco di società” o “come in una scoperta geografica”, ma per una urgenza pastorale inaggirabile. La astrazione, che si paga a caro prezzo, è l’oblio pesante e sordo che in tal modo viene fatto calare sulle ragioni che hanno portato da una forma all’altra. Perché non si tratta di due forme che, autonomamente siano sviluppate, una a Milano e l’altra a Roma, una in Italia e l’altra in Ispagna, una per tutti e l’altra solo per i domenicani, per i francescani o per i gesuiti. No, è lo stesso medesimo rito romano che da una forma precedente è stato autorevolmente riformato, per la volontà di più di 2.000 vescovi, nella forma successiva. Anche la terminologia della aggettivazione – ordinario/straordinario – contribuisce ad alimentare questo rischioso oblio sulla storia. Si dimentica che la “diversità” del rito straordinario è la ragione che ha fatto sorgere quel processo che ha prodotto, dopo anni di accurata elaborazione, il rito ordinario. Sistematicamente, dunque, la distinzione tra le due “forme” è il tentativo di traduzione sincronica di una storia di mutamento urgente e qualificante, nel quale un Concilio ecumenico ha giocato il futuro della Chiesa. Di questa storia non si può tacere la realtà, ma anche i passaggi traumatici e necessari.

c) La Riforma liturgica negata. Il rito del 1962 è l’ultima versione del rito tridentino, ed è il frutto di una piccola e provvisoria riforma compiuta da Giovanni XXIII a partire dal 1960. Giovanni XXIII si era limitato a pochi fondamentali interventi, proprio perché sapeva che di lì a poco si sarebbe tenuto un grande Concilio, che lui stesso aveva già convocato, e che tale Concilio avrebbe stabilito gli “altiora principia”, in base ai quali si sarebbe proceduti ad una grande riforma del rito romano. Che fu effettivamente compiuta negli 8 anni successivi, mediante l’iter di elaborazione dei nuovi riti. Se si analizza serenamente questa storia, si capisce immediatamente che la logica di questo processo non può approdare in nessun caso a “due forme dello stesso rito”, bensì “allo stesso rito in una (sola) forma nuova”. Perciò, proprio sul piano sistematico, risulta del tutto fuorviante parlare di “due forme dello stesso rito”. E sorprende che anche teologi competenti siano rimasti così passivi di fronte ad una formula tanto debole. Bisogna parlare, piuttosto, dello stesso rito che passa da una forma inadeguata (giudicata tale esplicitamente dal Concilio Vaticano II) ad una forma adeguata. Chi mai potrebbe credere che la Chiesa abbia celebrato un Concilio ecumenico, abbia istruito commissioni, abbia elaborato documenti, stilato e approvato nuovi ordines, solo per poi teorizzare che alla nuova forma adeguata il singolo prete e anche comunità, a certe condizioni, avrebbero potuto sempre sostituire la forma inadeguata? Le parole giuste, per descrivere le due forme sul piano storico, sono: è lo stesso rito romano, prima nella forma inadeguata e che poi viene riformata nella forma adeguata. Qualsiasi teorizzazione di un possibile parallelismo tra forma inadeguata e forma adeguata deve far dimenticare questa genealogia e tenta di mettere sullo stesso piano ciò che non può stare sullo stesso piano. Come se leggessimo la biografia di una persona come un “accumulo” di forme, e non come un “passaggio” tra forme. L’espressione “forme diverse dello stesso rito” acquisisce il suo giusto significato solo sul piano storico, ma diventa un sofisma vuoto se si pretende di assumerla sul piano sincronico. Al centro di Summorum Pontificum vi è, dal punto di vista sistematico, un sofisma astratto, senza fondamento storico e senza praticabilità effettiva. Esso poteva essere giustificato, come lo è stato, come tentativo di favorire una profezia di comunione contro le logiche di uno scisma. Ma si è rivelato, invece, fallimentare, a causa di questa sua debolezza sistematica originaria, dalla quale non ha mai potuto emanciparsi.

d) Desiderio di pace e lacerazione ecclesiologica e pastorale. Proprio nel cuore di SP la ragione sistematica, che regge tutta la impalcatura disciplinare del testo, appare singolarmente debole. Una astrazione, che ha voluto essere profezia di comunione, si dimostra, a causa di questa sua originaria astrattezza, come un motivo di divisione e di lacerazione ecclesiale. Una analisi accurata a livello sistematico esibisce le ragioni che impongono la fuoriuscita da questo dispositivo di emergenza, che non risponde più – e forse non ha mai risposto – alle esigenze per cui è stato creato. Bisogna riconoscere che il Card. Ruini, nel giorno successivo a quello in cui SP fu pubblicato, apparve facile profeta quando scrisse, sull’Avvenire dell’8 luglio 2007, che bisognava evitare “il rischio che un Motu Proprio emanato per unire maggiormente la comunità cristiana sia invece utilizzato per dividerla”. A distanza di 13 anni, questo timore può diventare parola chiara dei teologi e azione risoluta degli ufficiali. Mettiamo fine a questo stato di eccezione che genera illusione e divisione. Mediante un rigoroso ripensamento della tradizione, che non si lasci depistare da concetti ambigui e da visione astratte, la Chiesa può finalmente dire a se stessa: “Fa’ la cosa giusta”. E può farla subito, uscendo da discipline giuridiche aberranti e da sintesi sistematiche astratte. Ora, su questo processo complesso e profondamente distorto, si è aperta una giusta fase di riesame e di riconsiderazione, ricollocando la questione al suo livello originario: ossia restituendo la parola ai Vescovi, che Summorum Pontificum aveva arbitrariamente fatto tacere.                    Andrea Grillo             blog Come se non 25 aprile 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/sintonia-tra-magistero-pastorale-e-magistero-magistrale-sotto-esame-lo-stato-di-eccezione-liturgica-di-summorum-pontificum

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POLITICA

Una costituzione mondiale: da utopia a realtà?

Le gravi difficoltà planetarie, che non si riducono a quelle attuali della pandemia, e che sono messe impietosamente allo scoperto dal processo di globalizzazione dominato da tecnica e finanza, fanno affiorare il tema assolutamente primario di un governo politico della famiglia umana, in nome della comune umanità che non tollera discriminazioni, rifiuto della solidarietà e della fratellanza. Riemergono le questioni dell’unità politica mondiale, della pace perpetua, di istituzioni comuni aventi responsabilità a raggio mondiale. Tra innumerevoli ostacoli avanza la consapevolezza di un bene comune planetario dell’umanità e di beni comuni, che devono esseri assicurati allo stesso livello: è l’immensa questione di un’autorità politica mondiale o, come anche si dice, di una costituzione mondiale.

            Pochi mesi fa si è formata in Italia l’associazione “Costituente terra” che persegue tale obiettivo. Domenica 5 aprile 2020 l’inserto “La lettura” del “Corriere” ha ospitato un articolo di Sabino Cassese dal titolo “Il sogno di una costituzione mondiale”, in cui l’attenzione si rivolge in specie al tragitto politico e intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, che dall’Italia si trasferì in Usa negli anni ’30.

Borgese fece parte sin dall’inizio del comitato per la redazione di una costituzione mondiale, presieduto dal presidente dell’università di Chicago, Robert Maynard Hutchins, e composto da poco più di dieci membri che lavorò dal novembre 1945 al luglio 1947, preparando il progetto di una costituzione mondiale. Il gruppo tenne rapporti con persone esterne tra cui Jacques Maritain e Luigi Sturzo. Il testo fu pubblicato in varie lingue, e in italiano dalla Mondadori nel 1949, ma non ebbe grande accoglienza: era già cominciata l’epoca della guerra fredda.

            Il lavoro non fu però inutile. Nel 1949 Maritain tenne alcune lezioni presso l’università di Chicago che formarono poi L’uomo e lo Stato, uno dei classici del pensiero politico novecentesco. In quest’opera l’autore dedica un capitolo a “Il problema dell’unificazione politica del mondo” che si riassume negli obiettivi di una pace permanente, nel superamento della sovranità degli Stati (severamente criticata) e nella formazione di un’autorità politica mondiale, garante della pace e della giustizia tra i popoli.

Non presento qui l’elaborazione maritainiana, che si differenzia alquanto da quella kantiana sulla pace perpetua. Mi interessa un altro elemento d’immenso rilievo: nel promulgare nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in Terris, Giovanni XXIII dedica profonda attenzione alla messa in opera di Poteri pubblici e Istituzioni a raggio planetario. Nella parte IV del testo il papa scrive: «Il bene comune universale pone ora problemi che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di Poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti».

            La prospettiva è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (29 giugno 2009).

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20090629_caritas-in-veritate.html

È impensabile che la soluzione ai problemi globali che sono ulteriormente cresciuti possa essere trovata senza un grande progetto che conduca ad un’autorità politica globale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Essa, che oltrepassa ma non cancella il livello dello Stato e/o quello di unioni politiche regionali, è necessaria in quanto esiste un bene comune universale che non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata.

            Questo dislivello strutturale è forse la più grave causa del disordine mondiale. Il cammino verso un’autorità politica mondiale, da non intendersi come un Superstato e ancor meno come un impero mondiale, ma ricorrendo ai principi di sussidiarietà e solidarietà, è un itinerario lungo e arduo. Nonostante tutto dovrebbe imporsi se l’umanità globalizzata per il bene e il male, intenderà sopravvivere. Intanto un certo cammino può essere compiuto, e già lo è stato, mediante la creazione di organismi mondiali in campi fondamentali quali l’economia, la salute, il commercio, il cibo: Fmi, Banca Mondiale, Wto, Oms, Fao ne sono esempi, mentre sull’ambiente bisognerebbe procedere a istituirlo. Non ci si inganni però, in quanto tali organismi spesso sono indirizzati dalle potenze dominanti. Il loro arrancante e precario funzionamento, in specie durante le crisi più gravi, è uno dei motivi della paura e della chiusura che colpiscono popoli e nazioni, conducendoli al nazionalismo e al sovranismo sotto la spinta di capi politici incapaci di guardare oltre.

            Su questi nuclei il compito dell’Europa dovrebbe essere primario e l’appello di papa Francesco il giorno di Pasqua è chiaro. L’Europa è risorta dopo il 1945 grazie a un intento di unione per superare le rivalità passate: «È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero».

            Da anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono gravemente indebolite. Alcune frasi del discorso del presidente Trump all’assemblea generale dell’Onu (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale. È dunque ancor più necessario riprendere il progetto di un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti svolti dall’Oms e dalla Fao nei loro campi rispettivi.

            Jürgen Habermas ha parlato di “politica interna del mondo” e in Italia Luigi Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato. Le istituzioni di garanzia perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e di controllo, e il vecchio dogma della sovranità è lungi dall’essere superato.

Vittorio Possenti Avvenire     22 aprile 2020

www.avvenire.it/agora/pagine/governo-mondiale-da-utopia-a-realta-vittorio-possenti

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SEPARAZIONE E DIVORZIO: ASPETTI ECONOMICI

La modifica in caso di formazione di un nuovo nucleo familiare e di nascita di figli

La nascita di un figlio generato dal partner separato o divorziato con un nuovo partner rappresenta un fatto sopravvenuto che può incidere sulla modificabilità delle condizioni economiche di separazione, di divorzio o di affidamento. Tale “fatto nuovo” è astrattamente idoneo ad integrare un giustificato motivo sopravvenuto, rispetto alla sentenza di separazione, divorzio o di affidamento che consente la revisione delle condizioni economiche.

La giurisprudenza tiene conto dell’incidenza della creazione del nuovo nucleo familiare sull’importo dell’assegno dovuto all’ex coniuge secondo il principio in base al quale ove, a supporto della richiesta di modifica dell’assegno, siano documentati sopravvenuti obblighi familiari dell’obbligato, il Tribunale deve valutare se la sopravvenienza del figlio determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze, facendo carico al ricorrente, di fornire un esaustivo quadro in ordine alle proprie condizioni patrimoniali.

Lo stesso principio si applica in tema di modifica dell’assegno di mantenimento per i figli in considerazione dei maggiori oneri patrimoniali gravanti sul “nuovo genitore” e della conseguente alterazione dell’equilibrio economico sussistente tra le parti al momento della pronuncia di separazione, divorzio o affidamento.

Le potenzialità economiche della nuova famiglia. Oltre all’effettivo depauperamento della capacità patrimoniale dell’obbligato il tribunale deve valutare anche le potenzialità economiche della nuova famiglia in cui il figlio è stato generato, e quindi avendo riguardo pure alla condizione dell’altro genitore.

L’indirizzo interpretativo secondo il quale non vi deve essere una penalizzazione economica del nuovo nucleo familiare merita piena tutela, in quanto valorizza due principi fondamentali, ovvero il principio di eguaglianza, previsto nell’art. 3 della Costituzione, che garantisce un pari trattamento economico ai figli ed il principio di libera espressione della dignità umana, contenuto nell’art. 2 della medesima Carta costituzionale, tenuto conto che la scelta del coniuge di costituire una nuova famiglia, non solo è pienamente legittima, ma è anche esplicazione di quei diritti inviolabili di libertà dell’uomo «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»

Nuovi oneri familiari e modifica assegno di mantenimento. Come in precedenza accennato i nuovi oneri familiari gravanti su uno dei coniugi non costituiscono automaticamente motivi sopravvenuti che giustificano, da soli, la soppressione o la riduzione dell’assegno di mantenimento originariamente fissato dal Giudice in favore dell’altro coniuge e/o dei figli, essendo necessario accertare se, a seguito degli obblighi economici derivanti da tali nuove insorgenze, si sia determinato un reale ed effettivo depauperamento delle sostanze o della capacità patrimoniale dell’obbligato, tenendo conto della capacità economica della nuova famiglia.

Se si ritiene che il contributo originariamente è stato fissato in misura che, pur giudicata adeguata alle necessità dei figli, sia inferiore all’esborso che la capacità economica dell’obbligato avrebbe consentito – e a tale ipotesi è equiparabile il sopravvenuto incremento della capacità economica dell’obbligato – i menzionati motivi non sono da soli sufficienti a giustificare la riduzione, la quale può essere disposta, invece, solamente se e nei limiti in cui il contributo originariamente fissato non trovi capienza egualmente, e cioè nonostante gli obblighi derivanti dai motivi sopravvenuti, nella capacità economica dell’obbligato.

In sostanza, la nascita di un ulteriore figlio dell’obbligato non esplica efficacia automatica ma deve essere accompagnata dalla prova concreta che i maggiori carichi di spesa rendano in concreto all’obbligato impossibile continuare a far fronte, nella loro interezza, a quelli precedentemente assunti nell’interesse della prole. La circostanza della nascita di un nuovo figlio è senza dubbio economicamente più rilevante ove il genitore goda di scarsi proventi. Infatti, a seguito dei doveri nascenti dal nuovo rapporto di filiazione la quota di reddito disponibile dell’onerato, su cui calcolare l’assegno, diminuisce in modo apprezzabile.

Se è vero, infatti, che un genitore ben abbiente potrà ammortizzare la nuova esigenza costituita dalla nascita di un secondo figlio tagliando le spese voluttuarie o semi voluttuarie, altrettanto non può dirsi per chi percepisce un reddito basso. Il genitore onerato che gode di un reddito modesto non potrà continuare a contribuire al mantenimento del primo figlio (o dei primi figli) con la stessa somma che ha corrisposto sino alla nascita degli altri figli perché, in caso contrario, verrebbero ad essere compresse le esigenze di questi ultimi.

L’orientamento della giurisprudenza. In materia di convivenza di fatto, per la giurisprudenza più risalente in sede di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, il Giudice non potrà considerare, quale nuovo fatto sopravvenuto idoneo ad incidere sulla attribuzione e quantificazione dell’assegno di mantenimento liquidato in favore dell’altro coniuge o dei figli, l’asserito obbligo di mantenimento del nuovo partner dell’onerato, tenuto conto che il mantenimento della compagna, sia pure convivente more uxorio, non può allo stato della legislazione incidere negativamente sul diritto della moglie al mantenimento, previsto dall’art. 156, comma 1, c.c., non esistendo norma che imponendo il mantenimento della convivente, costituisca possibile controbilanciamento del diritto nascente dal richiamato art. 156, comma 1, c.c. in favore della consorte “legittima”.

Lo scrivente non ritiene condivisibile tale orientamento in quanto sostiene che nella valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche dei coniugi la circostanza che il coniuge obbligato all’assegno, ovvero il coniuge avente diritto al medesimo, conviva more uxorio con un terzo spiega rilievo se e nei limiti in cui tale convivenza venga ad incidere sulla reale situazione dell’uno o dell’altro, in quanto si traduca per il primo in esborsi di tipo continuativo – proporzionali agli altri suoi impegni economici e quindi qualificabili come adempimento di obbligazione naturale – ovvero implichi per il secondo un’entrata caratterizzata da regolarità e relativa sicurezza. Peraltro, la famiglia di fatto è’ indirettamente tutelata dalla Costituzione in quanto formazione sociale all’interno della quale si svolge la personalità dell’individuo. Vieppiù l’entrata in vigore della c.d. Legge “Cirinnà” disciplina diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi prevedendo anche la possibilità di sottoscrivere veri e propri accordi di convivenza.

Quindi, in virtù del riconoscimento specifico e della regolamentazione normativa della famiglia di fatto, il giudice ai fini della determinazione dell’assegno non potrà non tener conto della nuova stabile convivenza dell’obbligato.

avv. Matteo Santini    Studio Cataldi                       20 aprile 2020

www.studiocataldi.it/articoli/38160-modifica-delle-condizioni-di-separazione-e-divorzio-aspetti-economici.asp

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TEOLOGIA

Dire il Dio di Gesù Cristo

Introduzione. «E` falso sino all’assurdo vedere in una «credenza» il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano… Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria: l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi… Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere.» (F. Nietzsche, L’anticristo, Adelphi, Milano 1977, p. 50)

Queste parole di Friedrich Nietzsche [*1844 †1900], un pensatore non certo tenero nei confronti del cristianesimo, costituiscono un buon punto di partenza per interrogarsi su cosa è essenziale alla fede cristiana, ovvero sulla singolarità del cristianesimo. Ai nostri giorni siamo costantemente raggiunti dal messaggio che il cristianesimo è un monoteismo, accanto all’ebraismo e all’islam. Se questa è una verità, tuttavia è importante per noi cristiani comprendere l’irriducibile differenza della nostra fede rispetto a quella dei credenti ebrei e, di conseguenza, a quella dei credenti dell’islam.

Ora, è già pericoloso ridurre il cristianesimo ad una religione, perché il cristianesimo è una fede che si differenzia fondamentalmente da tutte le religioni, secondo la felice formula coniata dal filosofo francese Marcel Gauchet, che vede in esso «la religione dell’uscita dalla religione». Insomma, se il cristianesimo si riveste degli elementi caratteristici di ogni religione – una professione di fede, un culto liturgico, alcune indicazioni etiche… –, tuttavia resta vero che attraverso la sua fede giudica ogni espressione religiosa e, dunque, non può essere ridotto a religione. In tal modo è anche in grado di denunciare gli ostacoli frapposti dalla religione a quella ricerca di Dio che, nel cristianesimo, dovrebbe sempre coincidere con un’istanza di libertà per l’uomo.

Ma c’è di più. Il cristianesimo ha una singolarità anche rispetto ai due monoteismi, l’ebraismo e l’islam, per cui non è possibile ridurre il cristianesimo a un monoteismo. E questo lo dice chi appartiene a una generazione che ha avuto la grazia di riscoprire l’ebraismo e di poter affermare, dopo un silenzio di venti secoli, l’ebraicità di Gesù. Oggi noi cristiani siamo consapevoli di essere «fratelli gemelli» degli ebrei, in quanto figli dell’Antico Testamento al pari di loro: sia l’ebraismo rabbinico – erede della corrente farisaica – sia il cristianesimo hanno infatti elementi di continuità e di novità rispetto all’Antico Testamento, loro comune matrice. Siamo cioè figli di due interpretazioni ugualmente possibili ma fondamentalmente diverse delle Scritture di Israele: una focalizzatasi sulla Torah, l’altra su Gesù Cristo, riconosciuto dai suoi primi discepoli quale Messia che ha adempiuto le promesse fatte ai padri.

Vi sono dunque elementi che ci uniscono all’ebraismo, così come elementi di rottura e di differenza, causati dall’«evento Gesù Cristo»: Gesù è colui che, da ebreo fedele al Dio dei padri, ci lega definitivamente agli ebrei e, nello stesso tempo, ci divide e separa dall’ebraismo, nella misura in cui confessiamo che egli ci ha definitivamente raccontato Dio! Se pertanto il cristianesimo è un monoteismo lo è in maniera molto particolare: è un monoteismo nel quale Dio si è fatto uomo, e nel quale un uomo concreto e reale, Gesù di Nazaret, ci ha narrato compiutamente il volto di Dio.

Per favorire la comprensione del mio percorso, probabilmente abbastanza arduo e per molti aspetti «nuovo», cercherò di articolarlo in alcuni punti ben precisi:

1. Gesù ci ha raccontato Dio. Alla fine del prologo del quarto vangelo si legge un’affermazione che costituisce una vera e propria sintesi della fede cristiana: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito … ce lo ha raccontato (xeghésato)» (Gv 1,18). Exeghésato: verbo che può essere tradotto con «raccontare», «fare l’esegesi», «narrare», «spiegare», «rivelare»; parola che racchiude in sé tutto il cristianesimo. Giovanni afferma innanzitutto una verità semplicissima, che appartiene all’esperienza comune di ogni essere umano: «Dio nessuno l’ha mai visto», oppure, come dirà lo stesso autore nella sua Prima lettera, «Dio nessuno l’ha mai contemplato ( tethe´atai)» (1Gv 4,12). Finché noi uomini siamo in vita Dio resta invisibile, inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), poiché «chi vede Dio muore» (cf. Es 33,20), come recita l’adagio biblico. Da sempre «gli uomini hanno cercato Dio, come a tentoni, se mai potessero giungere a trovarlo» (At 17,27): nel cuore dell’uomo vi è un’incessante ricerca di Dio, un quærere Deum condotto in culture e tempi diversi, approdato a risultati multiformi. Anzi, Dio è stato cercato anche in cammini che non è corretto definire religioni, ma che occorrerebbe chiamare «spiritualità»: mi riferisco al buddhismo, al confucianesimo, «vie» indifferenti all’esistenza di Dio. Già qui emerge un problema di non poco conto: bisogna fare molta attenzione ogni volta che si pronuncia la parola «Dio», perché è connaturale all’uomo un’ansia che lo spinge a ricercare qualcosa che nelle religioni è definito Dio, mentre all’interno di altre vie spirituali è tensione verso una liberazione, verso una meta capace di dare un senso alla vita.

Ebbene, l’uomo cercava Dio a tentoni, ma non poteva conoscerlo pienamente, restava nell’ignoranza (cf. At 17,30); proprio per questo Dio ha alzato il velo su di sé, ha scelto di rivelarsi agli uomini da Abramo (cf. Gen 12) in poi, ponendosi in alleanza con Israele, il popolo disceso da quest’uomo, e impegnandosi con esso mediante delle promesse. E così «Dio ha parlato per mezzo dei profeti», da Abramo fino a Giovanni il Battista; infine lo ha fatto attraverso Gesù, che non solo è stato «profeta potente in azioni e in parole» (Lc 24,19), non solo è stato riconosciuto quale Cristo, Messia, ma si è rivelato l’ultima e definitiva Parola di Dio agli uomini, il compimento di «tutte le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (cf. Lc 1,55): è Gesù, che ci ha raccontato e spiegato compiutamente Dio. In altri termini, dal momento in cui Dio si e` umanizzato in Gesù, quest’uomo ha aperto un sentiero unico per andare a Dio, al punto che egli stesso ha potuto affermare nel quarto vangelo: «Nessuno può andare al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6).

Con Gesù si è operato di fatto un mutamento, sul quale non si riflette a sufficienza: prima di lui occorreva credere in Dio, nel «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» (Es 3,6; Mc 12,27), e questa fede poteva anche condurre a credere al Messia, fino a riconoscerlo in un uomo venuto sulla terra; dal giorno della glorificazione di Gesù, della sua morte e resurrezione, tale cammino non è più primario. Da quel giorno occorre innanzitutto credere in Gesù, conoscerlo, amarlo e seguirlo: ed è in questo cammino che può rivelarsi anche Dio, un Dio ben diverso da come gli uomini lo avevano cercato e immaginato. La fede in Dio non è dunque condizione di accesso al Vangelo – questo almeno per i gojim, per le genti, mentre resta un preliminare necessario per gli ebrei –, ma è conoscendo l’esistenza umana di Gesù che noi possiamo essere condotti al Dio vivente e vero. Si tratta di un capovolgimento importantissimo, che in questi due millenni di cristianesimo non abbiamo ancora realmente assunto: basti pensare al fatto che, all’interno della nostra catechesi, si continua a incominciare il discorso da Dio per giungere a Gesù solo in un secondo momento. E` invece necessario percorrere esattamente l’itinerario opposto! Possiamo trovare sintetizzato questo cammino nella testimonianza fornita dal centurione romano che, sotto la croce, «vedendo Gesù morire in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). E` un pagano che, vedendo tutta la vita di Gesù sintetizzata nell’atto della sua morte, ha avuto la rivelazione del Dio vivente professato da Israele e cercato dalle genti.

Dio: parola decisiva e tuttavia parola che ha ricoperto significati molto diversi, che si è prestata e si presta a utilizzazioni religiose, sociali, politiche e morali disparate. Sì, per noi cristiani Dio è una parola insufficiente! Scriveva significativamente già Giustino, un padre della chiesa del II secolo: «La parola “Dio” non è un nome, ma un’approssimazione naturale all’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile» (II Apologia 6). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo; Dio è affermato dai credenti, è negato dagli a-tei – etimologicamente i «senza Dio».  Ebbene, ciò che è decisivo per la fede cristiana non sta in Dio quale premessa, ma si rivela quale meta di un percorso compiuto dietro a Gesù Cristo e con lui, «l’iniziatore della nostra fede» (tês pìsteos archegòs: Eb 12,2).

E qui va detto che occorrerebbe prendere maggiormente sul serio il fenomeno dell’ateismo, per chiederci: quando un uomo nega Dio, che cosa realmente nega di Dio? Quale Dio nega? O meglio, quali immagini di Dio, forgiate da noi credenti e dalle chiese, un ateo contrasta? In questo senso, paradossalmente, la parola Dio è pericolosa: si pensi solo alle guerre che si sono fatte e si fanno in nome di Dio… Senza dimenticare che gli uomini, soprattutto gli uomini «religiosi», sono sempre pronti a plasmarsi un vitello d’oro (cf. Es 32,1-6), un Dio manufatto secondo i loro bisogni e desideri… No, noi cristiani andiamo a Dio attraverso Gesù, «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15): narrando Dio con la sua vita, Gesù ha giudicato tutte le immagini e i volti di Dio che gli uomini si fabbricano con le proprie mani: ormai ciò che di Dio può essere conosciuto e predicato e ciò che è stato vissuto e predicato da Gesù.

2. Gesù, uomo come noi. Se è vero che per la fede dei cristiani è decisivo aderire a Gesù anche in questo caso bisogna però intendersi sulle parole: quando si dice «Gesù», ci si riferisce a un uomo, un vero uomo, debole, fragile e mortale come lo siamo noi; un uomo di carne (sàrx: Gv 1,14), che è nato, vissuto e morto come ogni figlio di Adamo. Gesù è stato un uomo, una realtà che si poteva ascoltare, vedere, toccare (cf. 1Gv 1,1), un uomo con parole e gesti pienamente umani. Come la fede di Israele in Dio è stata generata da eventi nella storia, primo tra tutti l’esodo dall’Egitto, così anche la fede dei cristiani nasce dalla vita umana di Gesù: Dio ha infatti operato nella storia di un popolo e infine, compiutamente, nella vita di un uomo. E` quanto espresso dal prologo della Lettera agli Ebrei: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, negli ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).

Se dunque c’è un Dio, per noi cristiani è il Dio che deve essere conosciuto e «visto» nell’esistenza umana di Gesù di Nazaret (cf. Gv 14,9). Per questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei vangeli da parte chi è stato coinvolto nella sua vicenda, i discepoli, divenuti «servi della Parola» (Lc 1,2); solo attraverso questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a confessarlo «Signore», «Figlio di Dio», «Salvatore», e così giungere alla fede in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero. Ecco perché ritengo sia un grave rischio per i cristiani quello di «deificare» Gesù prima di conoscerne la concreta esistenza umana. Se infatti non si conosce l’umanità di Gesù si finisce per credere in lui come a una realtà da noi immaginata e costruita. Non è sufficiente riempirsi la bocca di slogan, pur nobili, come quello preso a prestito da Vladimir Soloviev: «Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù Cristo»; l’importante è rendersi conto di cosa si cela dietro frasi come questa, ossia di quale Gesù Cristo si sta parlando.

Ora, nell’antichità molti uomini sono stati «deificati»: imperatori, eroi, figure carismatiche… Gesù invece non si è mai definito Dio, e la chiesa indivisa ha impiegato ben tre secoli per giungere a tale articolo di fede, nel Concilio di Nicea (325): «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Gesù preferiva chiamarsi «Figlio dell’uomo», titolo enigmatico, ma capace di arginare possibili derive deiste; egli non voleva neppure essere confessato Messia, per evitare di essere identificato con un liberatore politico. Occorre dunque grande attenzione da parte nostra a non «deificare» Gesù troppo velocemente: ciò avviene quando l’accento è posto sulla sua nascita verginale, sui miracoli da lui compiuti, sullo straordinario nella sua vita. No, è assolutamente necessario guardare alla sua esistenza umana quotidiana, leggervi l’espressione compiuta di Dio, e, di conseguenza, cogliere anche gli elementi «straordinari» della sua vicenda come segni, segnali – semeîa secondo il quarto vangelo (cf. Gv 2,11.18.23; 3,2; ecc.) – capaci di orientare la nostra fede.

Qui sta la singolarità del cristianesimo: Dio si è rivelato in Gesù, si è fatto conoscere nella sua umanità; Dio si è fatto uomo e l’incarnazione è l’umanizzazione di Dio. Di conseguenza – ripeto – si deve partire dall’umanità di Gesù, e alla luce di essa comprendere Dio. Per questo il grande attentato al cristianesimo è sempre venuto dalla negazione della vera e piena umanità di Gesù. Già alla fine del I secolo d.C., proprio perché a causa dell’ideologia religiosa dominante era difficile accettare che Dio avesse preso una forma umana fino alla sofferenza e alla morte, questo rischio si manifestò sotto la forma delle correnti gnostiche e docetiche, le quali davano di Gesù un’interpretazione tesa a negare la sua piena umanità. E` significativo che Ignazio di Antiochia, all’inizio del II secolo, si veda costretto a denunciare queste derive e a insistere con forza sulla dimensione umana, storica di Gesù. Egli scrive: Chiudete le orecchie di fronte ai discorsi di quelli che non parlano di Gesù Cristo come discendente della stirpe di David e figlio di Maria; come colui che è veramente nato, ha mangiato e ha bevuto; che ha veramente sofferto la passione sotto Ponzio Pilato; che è stato veramente crocifisso ed è morto, di fronte al cielo, alla terra e agli inferi; che è veramente risorto dai morti. (Ai Tralliani 9,1-2)

Nel II secolo tocca poi a Marcione, Basilide e ai loro seguaci «dissolvere Gesù» (cf. 1Gv 4,3), svuotare cioè la realtà della sua incarnazione, fino a negarne la morte (cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie I,24,4); ed è altamente significativo che per il Corano Gesù è stato sostituito all’ultimo momento da un altro uomo perché non era possibile per il Messia la morte di croce (cf. Sura IV,157). Insomma, è arduo credere che Dio, il tre volte Santo (cf. Is 6,3), l’Altro dall’umanità per eccellenza, il Trascendente sia diventato uomo; è difficile credere che Dio abbia il volto di un uomo: eppure è questo il proprium del cristianesimo! Era ed è più facile scorgere in Gesù una sorta di apparizione angelica, un messaggero venuto sulla terra e ritornato al cielo, ma privo di una vera vita umana. E numerosi sono gli odierni sostenitori di analoghe posizioni docetiche, spesso espresse in modo ben più grossolano… In breve: è più facile un atteggiamento di deismo rispetto all’autentica fede cristiana. E` forse un caso che il grande Blaise Pascal, trattando della fede, consideri «il deismo tanto lontano da essa quanto l’ateismo, che le è affatto contrario» (Pensieri, 556 [Brunschvicg])

In Gesù l’umanità è sempre trasparente: il divino è velato, ma nello spessore della sua umanità Dio è raccontato. Nell’uomo Gesù – come dirà Paolo due decenni dopo la sua morte – la condizione di Dio ha subito una kénosis, uno svuotamento: colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio (cf. Fil 2,6-7), e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo «fino alla morte, anzi alla morte di croce» (Fil 2,8)! La sua condizione di Dio è stata per così dire «messa tra parentesi», e Gesù è stato uomo, uomo come noi, depotenziato del divino e soggetto dunque alla nostra limitata condizione mortale. Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile, esattamente come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato nella storia come uomo, pienamente uomo: un uomo capace di fare della sua vita un capolavoro d’amore.

3. La resurrezione di Gesù, vittoria dell’amore sulla morte. Come ultima tappa del nostro percorso occorre riflettere su quello che è sempre stato percepito come il proprium per eccellenza del cristianesimo: la resurrezione dai morti, possibilità inaudita aperta per tutti gli uomini dall’evento pasquale, dalla resurrezione di Gesù, «il primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29). Anche in questo caso è opportuno porsi con franchezza una domanda: perché Gesù è risorto da morte? Sarebbe troppo sbrigativo affermare che egli è risorto perché era Figlio di Dio. Questa risposta non basta, è frutto dello stesso errore da cui siamo partiti: cominciare dalla fede in Dio, e poi solo in un secondo momento credere in Gesù. D’altra parte, non è neppure sufficiente leggere la resurrezione come il miracolo dei miracoli: tale interpretazione contiene certamente una verità, perché la resurrezione è l’inaudito per noi uomini, è ciò che contraddice la certezza universale secondo cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana; ma è ancora una spiegazione insufficiente.

Partendo proprio dalla realtà della morte vorrei qui abbozzare una meditazione che consenta di comprendere in che senso la resurrezione di Gesù è l’evento determinante della fede cristiana. Nell’Antico Testamento la morte è il segno per eccellenza della fragilità umana. Ogni uomo porta dentro di sé «il senso dell’eterno» (olam:Qo 3,11), l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! Noi troviamo senso nella misura in cui sappiamo vivere dei gesti che restano nel tempo: ma se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra esistenza?

E` qui che entra in gioco la riflessione che ogni uomo e ogni donna fanno sotto il cielo, da sempre e in tutte le culture: vivere e` amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore; quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: «Ti amo», ciò equivale ad affermare: «Io voglio che tu viva per sempre». Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore della Bibbia consiste proprio nel fatto che in esso si parla di amore dall’inizio alla fine, dell’amore umano tra un ragazzo e una ragazza che diventa cifra di ogni amore. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato: Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore, tenace come l’inferno è lo slancio amoroso. Le sue vampe sono fiamme di fuoco, una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).

Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio greco eros–thanatos). La Scrittura, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. Insomma, se e` vero che l’Antico Testamento non ha pagine chiare e nette sulla resurrezione dai morti, al suo cuore sta però la consapevolezza che l’amore può combattere la morte.

Tenendo presente questo orizzonte, possiamo ora ritornare alla nostra domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agápe, è stata amore vissuto per gli uomini e per Dio fino all’estremo: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (eis télos)» (Gv 13,1). Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena. In altre parole, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? È questa la domanda che si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: «Dio ha risuscitato Gesù sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,2). Com’era possibile che l’amore restasse preda degli inferi? Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto e ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto ciò che è essenziale per conoscere lui.

È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba pasquale, nell’alba di quel «primo giorno dopo il sabato» (Mc 16,2)? Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade. Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. Di più, egli si è manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: «Rabbunì, mio maestro!» (Gv 20,16); i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane (cf. Lc 24,30-31.35), cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; è il discepolo amato che lo riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade e grida a Pietro: «È il Signore!» (Gv 21,7)… Insomma, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che «Dio è amore» (ho theòs agápe estìn: 1Gv 4,8.16).

Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare e infine mettere per iscritto nei vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli emarginati, di perdonare la donna adultera (cf. Gv 8,1-11), di accettare il gesto d’amore della peccatrice (cf. Lc 7,36-50), di chiamare Giuda «amico» (Mt 26,50), proprio mentre per colpa sua veniva arrestato… E dopo aver raccontato tale amore per tutta la vita – fino a dire, sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) –, avrebbe potuto restare preda della morte? Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una ragione per cui morire e, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore dei fratelli, vissuto quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, quell’amore che non può morire!

Eccoci così tornati a noi, noi discepoli di Gesù ma anche noi uomini tutti: l’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in profondità è quello dell’amore. Siamo cioè chiamati a immergerci nell’amore di Dio, quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo, che ha speso giorno dopo la giorno la vita per i fratelli (cf. Gv 15,13): allora la nostra vita potrà avere un senso, una direzione, un sapore… Ecco perché quando siamo incapaci di sperare nella resurrezione, è perché in verità non crediamo che l’amore possa avere l’ultima parola: credere e sperare la resurrezione è una questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la resurrezione di Gesù. Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con umiltà e discrezione, a tutti gli uomini. Affermare semplicemente che «Gesù è risorto» è un bella notizia, ma troppo breve per essere davvero Vangelo per tutti gli uomini. Forse invece anche i non credenti sono interessati a percorrere un cammino nel quale si parta dal presupposto che l’amore è in grado di combattere la morte, fino a vincerla: ecco il senso profondo della resurrezione di Cristo, ecco come questo evento può parlare a tutti gli uomini, nostri fratelli.

            Conclusione. L’apostolo Giovanni che nel prologo del vangelo ha scritto: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato» (Gv 1,18), è lo stesso che nella sua Prima lettera ha affermato:

Dio nessuno l’ha mai contemplato, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza … Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui (1Gv 4,12.16).

            L’amore che Gesù ha vissuto deve essere vissuto anche da noi cristiani: solo così anche noi potremo conoscere Dio – questo significa che egli rimane in noi – e narrarlo nelle nostre vite. Dove infatti vi è un’esperienza di amore autentico, là è presente l’amore di Dio in noi, e la nostra vita umana partecipa delle energie d’amore di Dio, capaci di vincere la morte. Di nuovo, si pensi alla portata di tale affermazione anche per i non cristiani: già di qui, già prima della morte «chi ama è passato dalla morte alla vita» (cf. 1Gv 3,14). Certo, vinceremo definitivamente la morte nel Regno (cf. Ap 21,4), grazie alle energie di vita donateci dal Risorto; ma è possibile predisporre tutto per tale evento, vivendo quell’amore che già oggi ci fa partecipare alla vittoria dell’amore sulla morte.

La specificità del cristianesimo consiste nell’annuncio che l’amore vince la morte, buona notizia che siamo chiamati a decodificare e a tradurre qui e ora, nella storia e nella compagnia degli uomini… Insomma, quando lo stesso Giovanni, nella sua meditazione per ondate successive sull’amore, rivela: Amatissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7-8), egli espone l’essenziale del cristianesimo. Il Dio cristiano è amore perché è stato narrato da Gesù, colui che ha vissuto l’amore più forte della morte: ecco perché Gesù è risorto, e noi, trascinati dietro a lui nella sua vita umana, possiamo fare un cammino di ritorno al Padre, un cammino che si apre sulla vita eterna.

                        Enzo Bianchi   Milano, 8 aprile 2011. Basilica di S. Ambrogio. Quaresimale

www.monasterodibose.it/fondatore/conferenze-e-omelie/omelie-e-lectio/864-lectio-divina/8699-dire-il-dio-di-gesu-cristo

citato da    https://francescomacri.wordpress.com/2020/03/20/il-dio-di-gesu-cristo/

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VOLONTARIATO

Il volontariato nel cuore di Papa Francesco

Il volontariato è importante. Si sa. Lo confermano gli studi e le ricerche, lo testimoniano le persone che ogni giorno, nelle società opulente del Nord e in quelle povere del Sud del mondo, toccano con mano l’importanza di poter beneficiare di tanti servizi gratuiti: dall’educazione all’assistenza passando per la cultura.

Tra i più convinti sostenitori del volontariato, c’è senza dubbio Papa Francesco. Non mancano certo, infatti, pensieri e interventi del Pontefice al riguardo. E Vincenzo Comodo, docente alla Pontificia Università Lateranense, è partito proprio da queste considerazioni per dare alle stampe il libro, edito da If Press, «Il volontariato nel cuore di Papa Francesco».

Se il volontariato risulta decisivo per le sorti dei singoli Stati, è evidente che c’è una presenza sempre più continua della Chiesa nel Terzo Settore. «E questo trend è destinato a incrementarsi, visti anche i vantaggi e le agevolazioni che il Terzo Settore offre per progettare, realizzare e portare avanti opere in favore dei bisognosi».

            Sempre Comodo descrive il Terzo Settore come «l’insieme delle organizzazioni private che producono beni e servizi, mediante forme di azione volontaria e gratuita, per realizzare attività civiche, solidaristiche e di utilità sociale, nell’interesse comune e senza scopo di lucro». Ma qual è il legame con la sfera religiosa? La Dottrina Sociale della Chiesa è una buona base per cercare delle risposte.

            L’opera presenta tre obiettivi (raggiunti):

a)       Fornire una sorta di guida, avvalendosi del pensiero del Papa, per chi fa volontariato;

b)      Diffondere una cultura del volontariato;

c)       Far germogliare il seme del volontariato.

Comodo descrive il rapporto tra Chiesa e volontariato, dove quest’ultimo rappresenta un’esperienza di vita adatta a tutte le età, per i più giovani ma anche per gli anziani, come ha sottolineato in più occasioni Francesco. «La Chiesa – continua – è la madre del volontariato. Francesco apprezza il ruolo svolto da consacrati e laici. C’è una grande affinità con la cultura della misericordia». Nei suoi discorsi il Papa ha scelto di valorizzare, oltre al modello Gesù, alcune figure emblematiche: Maria, il buon samaritano, Madre Teresa e la coppia di sposi, probabilmente meno nota, Priscilla e Aquila. Paolo, dopo il soggiorno ad Atene, arrivò a Corinto dove trovò ospitalità presso la casa di Aquila e Priscilla che, ebrei, erano stati cacciati da Roma. «Questi coniugi – spiegò il Papa durante l’udienza generale del 13 novembre 2019 – dimostrano di avere un cuore pieno di fede in Dio e generoso verso gli altri, capace di fare spazio a chi, come loro, sperimenta la condizione di forestiero. Questa loro sensibilità li porta a decentrarsi da sé per praticare l’arte cristiana dell’ospitalità e aprire le porte della loro casa per accogliere l’apostolo Paolo. Così essi accolgono non solo l’evangelizzatore, ma anche l’annuncio che egli porta con sé: il Vangelo di Cristo».

Ci sono degli orientamenti da osservare per non far prevalere lo spirito imprenditoriale sul valore del servizio e sulla mission di un ente del Terzo Settore. Ecco perché è indispensabile, ricorda l’autore, «una formazione permanente che deve includere anche un itinerario spirituale». «Fortunatamente – come ebbe a dire il Papa incontrando, nel gennaio del 2016, il Movimento Cristiano Lavoratori – la gran parte delle organizzazioni di volontariato compie fedelmente la propria missione e si fa incontro al prossimo, ponendo l’intelligenza al servizio dell’amore». Il volume, che può contare sulla prefazione di monsignor Nunzio Galantino, rappresenta, quindi, un’opportunità di conoscenza e di discernimento per chi è già impegnato e una proposta allettante per chi non ha ancora deciso di dedicare una parte del proprio tempo agli altri.

Luciano Zanardini                 Vatican insider           23 aprile 2020

https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/04/23/news/il-volontariato-nel-cuore-di-papa-francesco-1.38754011

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