NewsUCIPEM n. 800 – 5 APRILE 2020

NewsUCIPEM n. 800 – 5 APRILE 2020

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipemnazionale@gmail.com                                                           

 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.        

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviate una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza.               [Invio a 1.462 connessi]

 

 Carta dell’UCIPEM, Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979.

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

02 AFFIDO FAMILIARE                                  Non rinunciare all’affido

03 AFFIDO CONDIVISO                                Genitori separati/divorziati e gestione dei figli

05 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI     Figlie adottate: da rivedere il mantenimento dovuto dal papà

06 ASS. CONSUL CONIUG.  FAMILIARI   L’AICCeF e l’ascolto a distanza

06 AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI  Al Parlamento: curare le relazioni per garantire i diritti

07 CENTRO INTER. STUDI FAMIGLIA      Newsletter CISF – n.13, 1 aprile 2020

10 CHIESA CATTOLICA                                   Il silenzio profetico di papa Francesco

11 CHIESE EVANGELICHE                            Quale parola per dire «Dio»?

13 CITAZIONI                                                    Cristiani nella società: il valore dell’eguaglianza

17 CONSULTORI UCIPEM                            Como, colloqui di sostegno per personale sanitario covid-19

17                                                                          Cremona, sostegno psicologico ai sanitari

18                                                                          Cuneo. Servizio telefonico di supporto psicologico.

18                                                                          Faenza. Colloqui con consulenti familiari o con psicologi

18                                                                          Forlì. Ascolto psicologico

19                                                                          Mantova. Servizio di supporto psicologico online

19                                                                          Rimini. Serve a garantire la qualità della relazione

20 CORONAVIRUS                                          Genitori e figli nella coppia in crisi, ai tempi del covid-19

22                                                                          Separazioni consensuali, divorzi congiunti nell’emergenza

22 DALLA NAVATA                                        Domenica delle palme – Anno A –5 aprile 2020

23                                                                          La Croce è l’innesto del cielo nella terra

24 DONNE NELLA (PER) LA CHIESA         La luce della Maddalena sulla Chiesa nascente

25                                                                          Pareggiare i conti con le donne

27 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    De Palo: subito in decreto l’assegno straordinario per i figli

27 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Benedetta memoria che rigenera speranza

28 LITURGIA                                                     A proposito di un infortunio episcopale “de eucharistia”

30 OMOFILIA                                                   La Cassazione: non ci sono due “madri”

31 SINODO PANAMAZZONICO                 Il riformismo di Francesco guarda lontano.

38 TEOLOGIA                                                    Stato eccezione: liturgia, autorità vescovo, dispositivo di blocco

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AFFIDO FAMILIARE

Non rinunciare all’affido

Ringraziamo Dante Ghezzi, psicologo e psicoterapeuta della coppia e della famiglia, apprezzato non solo in Italia, per questa informata e pacata riflessione sul complesso problema dell’affido familiare. Ci offre un’informazione aggiornata con gli ultimi provvedimenti legislativi e illustra i vantaggi per i minori con difficoltà di origine familiare: la consapevolezza dei possibili rischi per abusi e di natura affettiva non possono oscurare la positività del provvedimento.

Premessa. Negli ultimi tempi si è molto parlato degli affidamenti familiari, si è discusso e polemizzato sui media e sui social dopo la pubblicizzazione delle vicende di Bibbiano (Reggio Emilia), vicende riguardanti presunti gravi e impropri comportamenti di operatori sociosanitari nei confronti di minori e delle loro famiglie nel campo degli abusi, della psicoterapia e degli affidi. Di quanto sia veramente successo a Bibbiano sapremo solo allo svolgimento dei processi penali, mentre il battage mediatico ha già trattato le accuse del pubblico ministero e del giudice delle indagini preliminari come fatti certi, provati, acclarati e ormai incontestabili, con un uso delle informazioni gestito in maniera approssimativa e scandalistica sia da giornalisti interessati al clamore sia da politici senza scrupoli, nel corso di una accesa campagna elettorale. Con buona pace della verità e degli interessi di famiglie e minori in difficoltà. Tra le accuse mosse agli operatori di Bibbiano sostenute dal pubblico ministero, che dovranno appunto essere provate in sede processuale, è presente quella di avere dato bambini in affido a persone amiche, ovviamente per favorire un lucro a loro vantaggio.

In questo clima in Regione Piemonte è stata avanzata recentemente la proposta di legge Allontanamento zero orientata a cancellare azioni di intervento protettivo nei confronti di minori, considerando ogni famiglia biologica, a prescindere dalla casistica, sempre e solo buona; definendo in buona sostanza l’affidamento familiare come uno strumento spurio da bandire. Fortunatamente a tale tesi estremista si sono opposte tutte le organizzazioni del privato sociale, del volontariato, ma anche delle categorie professionali di psicologi, assistenti sociali e avvocati di famiglia, le associazioni cattoliche, il vescovo e larga parte dell’opinione pubblica. Intanto però molti comuni hanno frettolosamente chiuso o ridimensionato i servizi affido, preposti a ricercare famiglie affidatarie, a programmare abbinamenti idonei alle necessità, a accompagnare lo svolgimento del percorso affidatario.

Che cos’è l’affido? L’affidamento familiare è un istituto previsto dalla legge e riformato con un provvedimento recente (legge 173/19 ottobre 2015) che intende garantire la collocazione temporanea di un minore, che per serie ragioni non può restare presso il proprio nucleo, presso un’altra famiglia per un lasso di tempo contenuto assicurandogli protezione, educazione e affetto.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/10/29/15G00187/sg

 L’affidamento familiare è quindi alternativo alla collocazione in una struttura comunitaria. Durante un affido, il minore, bambino piccolo, di età scolare, ma anche preadolescente o adolescente, sperimenterà l’accoglimento in una famiglia che, pur non essendo la sua, saprà garantire relazioni utili alla sua crescita. In un contesto affettivo la nuova famiglia porrà regole della buona convivenza, proporrà norme e abitudini sensate, manterrà contatti adeguati con il sociale. Tutti aspetti che in una famiglia problematica potevano risultare compromessi e che possono così essere recuperati a utilità della crescita di un figlio che non può stare con i suoi genitori.

Il diritto a crescere in famiglia. Un bambino prima di tutto è un figlio. L’essere generato da due genitori ne costituisce la premessa strutturale e identitaria. Nella sua famiglia solitamente cresce nella sicurezza dell’appartenenza che modella la sua personalità, che lo porterà ad acquisire quella progressiva autonomia capace di renderlo alla fine un adulto con buone caratteristiche di funzionamento personale e relazionale. Egli si sviluppa come figlio amato e valorizzato, prende dal suo nucleo le caratteristiche che sempre lo definiranno. Il legame verticale che caratterizza genitorialità e filiazione durerà sempre, pur nelle traversie e anche nei conflitti e nei dolori che possono connotare ogni nucleo, malgrado distanze fisiche e/o affettive che la vita proporrà. Il legame figli-genitori, nel bene e nel male, perdura perché le nostre radici sono tanto intime quanto inestirpabili.

Il diritto a crescere nella famiglia è sancito dalla nostra costituzione e riconosciuto dalle normative riguardanti le tematiche familiari. Questo corpus giuridico, a tutela del minore e del suo diritto per garantire ai piccoli, cui la non sa più correttamente sovvenire, la garanzia della collocazione presso altra famiglia idonea. La differenza tra adozione e affidamento sta nella definitività della prima scelta, quando il nucleo originario è considerato ormai gravemente inadatto o addirittura inesistente, e nella temporaneità della seconda, qualora si ritenga che il nucleo problematico possa recuperare competenza e qualità se adeguatamente supportato.

L’adeguatezza di una famiglia. Ma quali sono le ragioni per cui una famiglia si rivela a un certo momento inidonea ad allevare un proprio figlio? In primo luogo si può affermare che alcune coppie coniugali o conviventi partono svantaggiate in quanto il loro patto è di per sé scarsamente funzionante, con diverse motivazioni: qualora il legame con la famiglia originaria di uno dei due o di ambedue sia connotabile come patologico; qualora l’unione di coppia sia frutto di violenza e sfruttamento o caratterizzato da dipendenza da sostanze o da gravi debolezze personali o da malattie invalidanti. Quando non c’è evoluzione dalla situazione iniziale l’arrivo di figli determinerà per queste coppie genitoriali condizioni di precarietà e rischio che potrebbero rendere precaria se non pericolosa la vita familiare, con il possibile intervento dei servizi sociali a tutela dei minori. Altre volte, dopo buoni inizi, i genitori possono essere coinvolti, per ragioni personali e relazionali complesse, in uso di sostanze o alcool, entrare in grave confitto tra loro o con le famiglie di origine, attuare comportamenti violenti unidirezionali o reciproci oppure rivolti ai figli. La scuola e il vicinato sono i primi ad accorgersi delle situazioni di degrado, quando non sono i nonni dei bambini a preoccuparsi opportunamente del cattivo comportamento dei propri figli in qualità di genitori.

Tipologie e progetto. Esistono due tipi di affidamento, quello regolato da un atto formale dell’autorità – affido giudiziario – e quello che avviene per decisione spontanea di famiglia e affidatari – affido consensuale –. Un’altra distinzione è tra la collocazione di un minore presso una famiglia estranea al nucleo o invece presso parenti, si tratta degli affidi etero familiari o intrafamiliari, con pregi e limiti in entrambi i casi. È intuitivo che un affidamento intrafamiliare sia consigliato solo in presenza di rapporti positivi nella famiglia allargata, mentre risulta poco credibile se l’ambiente è caratterizzato da contese, rancori, biasimo, forti incomprensioni, giudizi negativi e conflitti colpevolizzanti. Gli affidi etero familiari, specie nel nord del paese, sono maggioranza.

I minori italiani in affidamento sono nel 2016 (ultimi dati statistici disponibili) 14.012, di cui il 38% con affido a parenti (affidamenti intrafamiliari). Il 69% del totale sono affidi giudiziari, regolati con provvedimento formale e il 62% è in affido da più di due anni.

Dante Ghezzi  Il gallo aprile 2020 pag. 12

www.ilgallo46.it/wp-content/uploads/2020/04/Il-gallo-aprile-.pdf

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AFFIDO CONDIVISO

Genitori separati/divorziati e gestione dei figli

Premesso che le misure di contenimento del Governo impongono la permanenza domiciliare, con uscite solo per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, assoluta urgenza e motivi di salute, si è da subito posto l’interrogativo se, per i genitori separati, dovessero o meno considerarsi sospese le visite ai figli.

Il Governo ha specificato sul sito istituzionale il 10 marzo 2020, il giorno dopo l’emanazione del DPCM che ha esteso le misure restrittive all’intero territorio nazionale, che “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio” e, in data 1 aprile 2020, ha modificato la risposta precisando che: “gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti anche da un Comune all’altro. Tali spostamenti dovranno in ogni caso avvenire scegliendo il tragitto più breve e nel rispetto di tutte le prescrizioni di tipo sanitario (persone in quarantena, positive, immunodepresse etc.), nonché secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio o, in assenza di tali provvedimenti, secondo quanto concordato tra i genitori”.

            Si è così chiarito che gli spostamenti dei genitori separati per far visita ai figli o per condurli nella propria abitazione rientrano fra quelle “situazioni di necessità” che consentono di uscire di casa senza incorrere nelle sanzioni previste inizialmente dal D.L. n. 6 del 23 febbraio 2020 e adesso dal D.L. n. 19 del 25 marzo 2020 in caso di inottemperanza delle misure di contenimento.

            In assenza di tale precisazione sarebbe stato difficile ritenere con certezza legittimi gli spostamenti dei genitori, con conseguenti contrasti interpretativi. La risposta del Governo sembra tuttavia non considerare adeguatamente l’interesse attuale e concreto del minore, e trascura di osservare che le modalità di visita stabilite in fase di separazione e di divorzio (e anche nei procedimenti di regolamentazione dei rapporti genitoriali per le coppie non sposate) potrebbero essere tali da non rispettare pienamente, nel contesto attuale, le esigenze dei singoli minori coinvolti.

            A tal riguardo, desta in particolare perplessità l’aver ammesso incondizionatamente gli spostamenti dei genitori separati, rinviando alle “modalità previste dal giudice in sede di separazione o divorzio”, dapprima “in ogni caso”, con l’integrazione successiva aprendo agli accordi dei genitori, in “assenza di provvedimenti” giudiziari. Tale precisazione suscita ulteriori interrogativi: probabilmente il Governo ha inteso riferirsi alle situazioni in cui le visite genitori-figli non siano state regolamentate dal Tribunale o perché si tratta di coppie di fatto che non hanno ritenuto di formalizzare gli accordi presi, o perché si tratta di coppie (sposate o meno) in attesa della prima udienza. Di fatto sta che quella precisazione, per come è scritta, pare suggerire che un eventuale accordo dei genitori rilevi esclusivamente se non vi è un provvedimento giudiziario. Non si fa alcun accenno, invece, alla possibilità che i genitori si accordino per individuare modifiche temporanee legate alla situazione attuale.

            Il Governo deve aver confidato nel buon senso delle persone, che dovrebbe sempre guidare le scelte dei genitori, e a maggior ragione in questa situazione di emergenza: un buon senso che, in generale e nell’interesse della salute collettiva, imporrebbe di limitare comunque le visite, adottando soluzioni diverse rispetto a quelle previste dal giudice, per esempio utilizzando le video chiamate o accorpando i giorni di visita in modo da limitare gli spostamenti. Ma non tutti sono dotati di buon senso ed elasticità e quell’inciso, che sembrerebbe prima facie utile ad evitare conflitti, ben può essere fonte di scontro nelle ipotesi in cui l’interesse del minore esigerebbe soluzioni diverse da quelle previste precedentemente in sede giudiziaria.

            La parte che non vuole trovare un accordo teso a modificare temporaneamente quanto statuito in sede giudiziaria si sente dunque addirittura legittimata dal Governo a negare ogni possibilità di confronto, proprio grazie a quel riferimento ai provvedimenti già assunti.    Da qui l’inopportunità del richiamo operato dal Governo che, per come è stato formulato, rischia di ostacolare l’individuazione di modalità alternative nei casi in cui è già di per sé difficile mantenere un rapporto di collaborazione fra i genitori.

            Se da una parte il Governo, con quella risposta, ha opportunamente chiarito che vedere i figli rientra fra le situazioni di necessità, non ha però preso in considerazione o comunque ha posto in secondo piano l’aspetto fondamentale dell’interesse dei minori coinvolti. È pur vero che quest’ultimo dovrebbe essere stato già contemplato nei provvedimenti provvisori, separativi o divorzili, ma è altrettanto vero che la situazione di emergenza rende necessaria l’indagine concreta, caso per caso, sull’opportunità o meno di modifiche temporanee, da adottare di comune accordo fra i genitori. Nei casi in cui uno dei genitori dovesse ritenere opportuno modificare temporaneamente le modalità di visita, andrebbe prima di tutto cercata una soluzione condivisa fra i genitori. Qualora non si riuscisse a trovare un accordo, allora bisognerebbe continuare ad applicare i provvedimenti già esistenti, lasciando quale extrema ratio il ricorso al giudice in via d’urgenza, soltanto nelle ipotesi di possibile grave pregiudizio per il minore.

            Quel rigido richiamo alle modalità previste nei provvedimenti di separazione e divorzio sembrerebbe, dunque, non prestare un’adeguata attenzione ai bisogni dei minori, bambini e ragazzi che, forse più degli adulti, patiscono la permanenza forzata a casa, senza incontrare gli amici, fare sport e dedicarsi alle attività di svago necessarie alla loro crescita sana ed armoniosa: bambini e ragazzi che in questo periodo avrebbero bisogno di rassicurazioni, non già di ulteriori litigi fra i genitori.

            Per fare un esempio, se in generale è nell’interesse di un minore vedere il genitore con cui non vive abitualmente anche per tre volte a settimana, in questo periodo per quello stesso minore potrebbe invece rendersi necessaria una soluzione diversa, non corrispondendo più al suo interesse attuale, legato all’emergenza sanitaria, quanto già previsto in sede giudiziaria. Nelle ipotesi di collocamenti settimanali o bisettimanali alternati, il rispetto del provvedimento del giudice potrebbe contrastare con le concrete e attuali esigenze dei minori, ai quali potrebbe giovare di più restare in una delle due abitazioni, magari perché dotata di uno spazio privato all’aperto o degli apparecchi tecnologici necessari per la didattica a distanza, e ricevere invece le visite dell’altro genitore.

            La formulazione che il Governo ha adottato per consentire gli spostamenti ai genitori separati sembra perciò muovere esclusivamente dalla prospettiva degli adulti, senza alcun cenno ai bisogni dei minori e all’importanza di ascoltarli. Si è persa un’occasione per ricordare ai genitori che le visite ai figli sono prima di tutto un diritto di questi ultimi e devono essere sempre organizzate tenendo presente le esigenze e i bisogni dei minori e non già degli adulti.

            Sarebbe stato utile, infine, un richiamo al ruolo degli avvocati, non solo per la funzione sociale da essi svolta, ma soprattutto perché, avendo piena cognizione dei diversi casi già seguiti, rappresentano le figure più adatte a mediare e a suggerire di volta in volta le soluzioni migliori per evitare inutili conflitti e per tutelare al meglio gli interessi dei minori coinvolti.

Avv. Daniela Bianchini, Avv. Margherita Prandi, Avv. Eva Sala      aprile 2020

www.centrostudilivatino.it/genitori-separati-divorziati-e-gestione-dei-figli

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI

Figlie adottate: da rivedere il mantenimento dovuto dal papà

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n.7555, 27 marzo 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37890_1.pdf

Per la Cassazione, l’adozione delle figlie da parte del secondo marito della ex non esclude l’obbligo di mantenimento del padre, ma è utile per ridurne l’importo. La Cassazione accoglie due motivi del ricorso di un padre, obbligato a dover mantenere le figlie maggiorenni, da sempre lontane affettivamente e in più adottate dal nuovo marito della ex moglie. La Cassazione, con questa decisione, non vuol dire che dopo l’adozione del maggiore di età l’obbligo di mantenimento del padre viene meno. Questo fatto però deve essere preso in considerazione per determinare la misura dell’assegno dovuto.

Adozione figli maggiorenni. Dopo il divorzio il tribunale omologa l’accordo dei coniugi che prevede, tra le altre cose, il mantenimento delle figlie, nella misura di 500 euro mensili per la seconda nata e di 700 euro al mese per la primogenita. Il padre però ricorre in tribunale per chiederel’esclusione o la diminuzione degli assegni in favore delle figlie, dopo il matrimonio della ex moglie e l’adozione delle stessedaparte del nuovo marito. La ex moglie si costituisce in giudizio chiedendo l’aumento a 700 euro dell’assegno di mantenimento in favore di una delle due figlie, ma il giudice dispone la revoca in favore di una delle due e la riduzione a 200 euro dell’assegno in favore dell’altra.

La Corte d’appello invece ripristina l’obbligo di versamento dell’assegno di mantenimento in favore delle due figlie nella misura di 700 euro al mese ciascuna, oltre al 50% delle spese straordinarie.

Assenza di rapporti tra padre e figlie. Il padre obbligato ricorre in Cassazione sollevando i seguenti motivi di doglianza. Con il primo fa presente che non esiste un dovere generalizzato di mantenere il figlio maggiorenne. Nel caso di specie il giudice avrebbe dovuto vagliare l’assenza dei rapporti tra il padre e le figlie, le quali non hanno mai condiviso con il genitore alcun legame affettivo, progetto educativo o percorso di formazione. Chiaro inoltre che nel caso di specie il marito della ex moglie si è sempre occupato delle figlie adottive, condotta che il tribunale ha invece preso in considerazione ai fini dell’adozione.

Con il secondo fa presente che la corte non ha tenuto conto del fatto che il ricorrente ha sempre provveduto a mantenere le figlie maggiorenni. Con il terzo invece lamenta il mancato stralcio dalla documentazione di una lettera prodotta tardivamente. Con il quarto si chiede la riforma della condanna alle spese dei precedenti gradi di giudizio.

Figlie adottate: ridotto il mantenimento da parte del padre. La Corte accoglie i primi due motivi del ricorso, infondato il terzo e assorbito il quarto insieme ai motivi del ricorso incidentale, rinviando alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per il nuovo esame corrispondente. Ai fini del decidere la Corte ritiene doveroso esaminare:

  • L’ambito della possibile revisione delle statuizioni di una sentenza di divorzio passata in giudicato;
  • Il perimetro operativo dell’art. 337 septies c.c. in riferimento ai figli maggiorenni;
  • L’istituto dell’adozione dei maggiori di età.

Sul primo punto la Corte ribadisce che quando si avanza una domanda per la revisione del contributo al mantenimento per i figli minori o maggiore di età non autosufficienti, il giudice “deve limitarsi a verificare se, ed in quale misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione della nuova situazione patrimoniale. Ciò in quanto i “giustificati motivi”, la cui sopravvenienza consente di rivedere le determinazioni adottate in sede di divorzio dei coniugi, sono ravvisabili nei fatti nuovi sopravvenuti, modificativi della situazione in relazione alla quale la sentenza era stata emessa o gli accordi erano stati stipulati, con la conseguenza che esulano da tale oggetto i fatti preesistenti, ancorché non presi in considerazione in quella sede per qualsiasi motivo.”

Per quanto riguarda l’art. 337 septies c.c., la Corte prevede la possibilità per il giudice di disporre in favore dei figli maggiorenni non economicamente indipendenti il pagamento di un assegno periodico. Obbligo che viene a cessare quando il figlio ha iniziato a lavorare, senza la possibilità di una reviviscenza dell’obbligo in caso di perdita dell’occupazione o dell’andamento negativo della stessa.

Sulla questione dell’adozione dei maggiorenni, dopo aver illustrato l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale dell’istituto, la Cassazione dichiara di voler seguire l’indirizzo interpretativo meno rigido, privilegiando l’aspirazione, anche allaformazione di nuclei familiari stabili, soprattutto se, come nel caso di specie, il maggiorenne si è inserito stabilmente, di fatto, in un contesto familiare in cui si sente la necessità di assicurare a livello giuridico una legittimazione piena dei sentimenti e dei legami affettivi.

Detto questo, la Cassazione non intende porre a carico dell’adottante l’obbligo giuridico di dover mantenere gli adottati maggiori di età, né tanto meno liberare il padre dal relativo obbligo di mantenimento. Innegabile però che la misura dell’assegno mensile per le figlie non può non risentire dell’adozione e del fatto che comunque il padre ha sempre provveduto in via continuativa alle loro esigenze.

Annamaria Villafrate       Studio Cataldi 02 aprile 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37890-figlie-adottate-da-rivedere-il-mantenimento-dovuto-dal-papa.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

L’AICCeF e l’ascolto a distanza

I consulenti familiari sono impegnati ad ascoltare e sostenere le famiglie

Care colleghe e cari colleghi,                             questo momento di isolamento e distacco dalle prossimità, che tutti stiamo vivendo, man mano che passano i giorni ci sta facendo sperimentare sempre più il desiderio di utilizzare proficuamente il tempo a disposizione, nel rispetto delle recenti norme ministeriali. In molti è istintiva la voglia di essere di aiuto ad altri, portando ad interrogarsi circa il che cosa ciascuno può fare per l’altro. Un rinnovato senso di unità si fa strada, stimolando in ognuno il bisogno di riconoscersi nella comune appartenenza a cui attingere energia e fiducia per guardare con positività ai tempi futuri.

Tutto ciò è palpabile anche nella famiglia AICCeF infatti, sono tanti i Consulenti familiari®, Soci effettivi, che hanno scelto di mettere le proprie competenze professionali a disposizione di chi, in questo momento, fa fatica ad affrontare la quotidianità.

Le strade scelte sono diverse, alcuni hanno aderito alle iniziative avviate spontaneamente dai Consultori Ucipem, Cfc, Cif, Parrocchie o altri Enti, altri si sono proposti come liberi professionisti, attivandosi autonomamente. Questo movimento verso gli altri, guidato dalla consapevolezza e dal forte senso di responsabilità espresso dai tanti Colleghi, rappresenta una risorsa importante a cui, come Associazione professionale desideriamo dare riconoscimento, supporto e visibilità.

Tutto questo ci piace immaginarlo come una rete di professionisti che in questo momento di particolare fragilità diffusa, abbraccia il territorio nazionale mettendo gratuitamente a disposizione di quanti ne sentano l’esigenza, uno spazio di ascolto di impronta socio-educativa, che possa fare da contenitore a pensieri, riflessioni, timori, aspettative, che inevitabilmente questa situazione può attivare.

Propongo pertanto di comunicarci le iniziative in cui ciascuno è impegnato o che autonomamente ha già avviato o intende avviare, affinchè possiamo darne informazione anche attraverso i nostri canali di comunicazione.

Stefania Sinigaglia, presidente 3 aprile 2020

www.aiccef.it/it/news/l-aiccef-e-l-ascolto-a-distanza.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI

L’Autorità garante al Parlamento: curare le relazioni per garantire i diritti

L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano ha inviato al presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e a quello della Camera, Roberto Fico, la “Relazione al Parlamento 2019”. Il documento, previsto dalla legge istitutiva, ripercorre le attività svolte dall’Agia lo scorso anno per l’attuazione dei diritti dei bambini e dei ragazzi presenti in Italia.

Nella stessa occasione, a conclusione dell’incarico come titolare dell’Autorità, Filomena Albano ha presentato una relazione sui quattro anni alla guida dell’Autorità, dal 28 aprile 2016 a oggi, intitolata “L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza: una realtà in divenire”.

La Relazione 2019. Il documento consegnato ieri ai presidenti Casellati e Fico è incentrato sul concetto di relazione come filo conduttore e chiave di lettura. “L’emergenza provocata dal coronavirus ci ha fatto riscoprire l’importanza delle relazioni, perché ha costretto le persone, da un lato, a vivere a distanza e, dall’altro, a vivere a stretto contatto, all’interno delle case” commenta Filomena Albano. “E l’emergenza ha inciso in modo significativo anche sulla vita e sul benessere di bambini e ragazzi, costretti a restare nelle abitazioni, senza la scuola e senza contatti sociali. Si tratta di limitazioni che, seppure nate per tutelare il diritto alla salute pubblica, finiscono per avere un impatto importante su bambini e ragazzi e per questo impongono alle istituzioni e alla comunità di attivarsi per trovare soluzioni che tengano conto anche dei diritti dei più piccoli”.

“Ci sono poi i più fragili – aggiunge – come i minorenni con disabilità, quelli che vivono fuori famiglia, in affido o in comunità e coloro che si trovano in condizione di povertà economica ed educativa o di marginalità sociale. Penso poi ai figli dei genitori detenuti, a quelli che hanno famiglie problematiche, ai figli di genitori separati e ai ragazzi inseriti nel circuito penale. Inoltre ci sono i bambini e i ragazzi segnati dall’epidemia, i cui genitori sono stati colpiti dal coronavirus o hanno essi stessi contratto il virus”. “Questa emergenza – prosegue la Garante – ci ha ricordato che ogni persona è relazione e vive di relazioni. Così, in un periodo storico che sembrava caratterizzato da egoismi e individualismo esasperato, ci siamo riscoperti comunità e abbiamo compreso l’importanza di scommettere sulla dimensione relazionale, sul noi”.

Se la relazione è lo spazio in cui si costruisce la persona e si sviluppa l’individuo, la “qualità” delle relazioni – in famiglia, a scuola, nei luoghi di aggregazione – può essere un “indice” di quanto un diritto è attuato e garantito. “I diritti – afferma la Garante – hanno tutti natura relazionale: implicano il coinvolgimento attivo di qualcuno che si prenda carico, si prenda cura, partecipi, renda effettivi principi stabiliti sulla carta. Mi ricordo che durante un incontro in una scuola un ragazzo mi ha detto che ‘la felicità è vera solo se condivisa con altre persone’. Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che la relazione rappresenta la dimensione essenziale della nostra vita, perché ciascuno di noi si costruisce e si comprende solo attraverso l’interazione con gli altri. E ciò vale ancora di più per bambini e ragazzi, per i quali avere relazioni buone, funzionali e funzionanti rappresenta non solo un diritto ma anche uno strumento per raggiungere la felicità”.

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/agia-relazione-parlamento-2019-web.pdf

I principali punti della Relazione 2019 (pdf)

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/02_-_scheda_relazione_2019.pdf

La Relazione 2016-2020. In questo secondo documento vengono ripercorsi l’evoluzione e i traguardi raggiunti da una delle più giovani Autorità italiane (l’Agia è nata nel 2011, per rispondere alle sollecitazioni dell’Onu) e, sotto forma di raccomandazioni alle istituzioni, le iniziative da adottare affinché, grazie a un’Autorità rafforzata, possano essere garantiti al meglio i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. “È stata un’esperienza preziosa, ma lo sarà ancor di più se a trarne beneficio saranno tutti i bambini e i ragazzi presenti in Italia” commenta la Garante.

Cosa serve per rafforzare l’Autorità e così garantire una migliore tutela dei diritti degli under 18? Ad esempio, il parere preventivo dell’Autorità sulle leggi statali e sugli atti di amministrazione attiva del governo in materia di infanzia e adolescenza, oggi facoltativo, dovrebbe diventare obbligatorio. Il legislatore, inoltre, dovrebbe motivare la ragione per cui eventualmente si discosti dalle indicazioni o dalle raccomandazioni ricevute. L’Autorità garante, inoltre, deve poter effettuare visite e ispezioni senza una preventiva autorizzazione, come invece è attualmente previsto. E ancora, l’Agia dovrebbe poter intervenire liberamente in giudizio a tutela dei diritti dei bambini e degli adolescenti.

Vanno anche disciplinate e rafforzate le incompatibilità del titolare dell’Autorità, così come deve essere prevista espressamente per legge la sua non rinnovabilità, proprio a garanzia dell’indipendenza della figura. Per funzionare in maniera continuativa, l’Agia ha poi bisogno di avere un ruolo stabile del personale, con una dotazione organica adeguata. Oggi, invece, tutti i dipendenti sono in comando da altre amministrazioni. Vanno infine assicurate indipendenza, autonomia e competenza esclusiva dei garanti territoriali, chiarendo le competenze a loro attribuite e definendone il raccordo con l’Autorità nazionale.

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/agia-relazione-2016-2020-web.pdf

Comunicato stampa   Roma, 2 aprile 2020

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/01_-_comunicato_stampa_relazione_2019.pdf

www.garanteinfanzia.org/news/relazione-2019-autorita-garante-infanzia-adolescenza

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 13, 1 aprile 2020

Don’t stop me now! La resilienza di un medico diventa un inno per tutti. Un medico ecografista di Varese nel pieno della tempesta Coronavirus trova un pianoforte nella hall dell’ospedale, come se ne trovano tanti, oggi, negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie o in altri spazi pubblici, e nel deserto del “distanziamento sociale”; solo con un paio di colleghi, si siede alla tastiera. Un momento prima di tutto per sé, per ritrovare nella musica un po’ di bellezza e di serenità – ma che diventa subito una gioia per tutti, grazie ad un video dal telefonino di un collega. Musica, ritmo, voglia di resistere, anche alla pandemia. E il titolo della prima canzone – dei Queen – è tutto un programma: “Don’t stop me now! Non fermatemi, ma anche “non mi farò fermare”! Molto meglio di tanti discorsi sentiti in queste settimane, per ridare speranza e resistenza a tutti!!!         www.youtube.com/watch?v=hoH-780vr4Y

Fare scuola in famiglia ai tempi del coronavirus. Opportunità e criticità. Una riflessione del direttore Cisf (F. Belletti).”[…]L’entrata della scuola dentro la quotidianità della famiglia tramite un video di computer è stata una grande opportunità, ma anche una sfida molto complessa: che sollievo, per figli e genitori, sapere che c’era un appuntamento fisso con i professori, con i compagni di classe, con quella  normalità scolastica apparentemente tanto disprezzata in tempi normali, ma di cui si soffre così tanto la mancanza, quando non puoi uscire di casa nemmeno per andare a scuola! D’altro canto, non tutte le offerte di formazione a distanza sono state adeguate alla vita familiare: in molti casi ai genitori è arrivato un rinnovato carico di “compiti a casa”, con schede da stampare, compilazione di questionari, lavoretti da fare insieme ai figli [….]”

/www.famigliacristiana.it/articolo/il-bello-della-scuola-on-line.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_01_04_2020

UE. Digigen. Digital Generation. Si tratta di un progetto triennale di indagine internazionale, finanziato all’interno di Horizon 2020, incentrato sul modo in cui le nuove tecnologie impattano la vita quotidiana di bambini e giovani, e su quali siano le sfide e le opportunità di questo nuovo ambiente, in costante e rapido mutamento. Digigen è promosso da un consorzio internazionale di ricercatori da otto istituzioni universitarie in Austria, Estonia, Germania, Grecia, Norvegia, Regno Unito, Romania e Spagna, con la partecipazione di COFACE Families Europe.                                         www.digigen.eu

Rapporto Cisf 2017. Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali. Il progetto Digigen acquista ulteriore centralità ed interesse proprio durante l’emergenza Coronavirus, in cui in brevissimo tempo è cresciuta in modo esponenziale l’ibridazione delle relazioni interpersonali (familiari, sociali, lavorative). Da un lato, infatti, le relazioni familiari face-to-face sono tornate centrali e “inevitabili”, data la “clausura forzata in casa” del distanziamento sociale; dall’altro, le connessioni via web, i social e lo smart working hanno ricevuto proprio dal “distanziamento sociale fisico” una improvvisa gigantesca espansione, diventando veicolo di “riavvicinamento relazionale”. Per il concetto di ibridazione delle relazioni

cfr. il Rapporto Cisf 2017

www.sanpaolostore.it/relazioni-familiari-nell-era-delle-reti-digitali-nuovo-rapporto-cisf-2017-9788892213289.aspx?Referral=newsletter_cisf_20200401

Vedi i principali risultati dell’indagine Cisf 2017 – 3.708 interviste ad un campione nazionale delle famiglie

https://infogram.com/cisf-le-relazioni-familiari-nellera-delle-reti-digitali-rapporto-sulla-famiglia-2017-1h0n25zp79rz2pe

Breve presentazione dei principali contenuti del Rapporto Cisf      http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf

Unione europea. Natalità, crisi economica e politiche di sostegno. Un confronto europeo.Uno studio dell’INED (Institut National d’Études Démographiques, prestigioso istituto di demografia del governo francese), pubblicato pochi giorni fa, nel segnalare che la Francia ha attualmente il più alto tasso di fecondità dell’intera Europa, ha confrontato l’andamento della fertilità nelle diverse macro-aree europee – e non solo – di fronte alla crisi del 2008-2010. Lo studio mostra come negli Sati Uniti, tra il 2007 e il 2018 il tasso di fecondità è calato del 23% (da 2,12 a 1,73), e nel Regno Unito del 17% (da 1,96 a 1,68), mentre in Francia solo dell’8%, da 2,02 a 1,84. Interessante la sua conclusione: «Lo shock della crisi e gli effetti della disoccupazione sono stati molto probabilmente attenuate da generose politiche sociali e familiari». Che sia un insegnamento da tenere ben presente quando finirà l’attuale emergenza coronavirus, e l’Italia si ritroverà con le altre sue emergenze, in primis la denatalità?

www.ined.fr/fichier/s_rubrique/30029/575.population.societies.march2020.fertility.france.europe.en.pdf

Migrazioni. Un tema tuttora attuale. La rivista on line Social Inclusion ha appena messo on line un numero monografico sulle migrazioni, dal titolo: Boundary Spanning and Reconstitution: Migration, Community and Belonging (2020, Volume 8, Issue 1 – Misurare e ricostruire i confini: migrazioni, com    unità e appartenenza)                                     www.cogitatiopress.com/socialinclusion/issue/view/115

Il numero monografico è dedicato alle esperienze di appartenenza/ esclusione sperimentate dalle persone migranti e al modo in cui le comunità nazionali vengono (ri)costruite nei Paesi di destinazione. I vari contributi riguardano diversi Paesi europei e migranti di numerose Nazioni di provenienza.

Sul tema conserva particolare interesse ed attualità il materiale raccolto e pubblicato sul web a partire dalla 65.a Conferenza Internazionale dell’ICCFR in collaborazione con il Cisf, sul tema: “Famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà”.

I materiali della Conferenza, risistemati e riorganizzati, sono reperibili sul sito ICCFR.

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/documentation

Quarantene familiari, disabilità e nuove tecnologie. Non lasciamo solo nessuno! La tecnologia in questo momento è sempre più utilizzata e apprezzata anche da chi l’ha sempre guardata con diffidenza: anziani in casa e in istituto, persone con disabilità fisica o intellettiva, ragazzi in condizioni di disagio sociale possono contare su un aiuto che è diverso sicuramente da quello di una settimana fa, ma che costituisce un sicuro sostegno per non isolarsi, per non sentirsi soli e, in qualche caso, per non vanificare il lavoro di tanti anni. Questo reportage dell’Anffas ci fornisce qualche esempio della creatività di tante associazioni e delle iniziative messe in campo, come segno della loro vitalità nonché stimolo ed esempio per chi volesse avviare qualche iniziativa on line e sperimentare nuove modalità di intervento.

www.anffas.net/it/news/13973/restano-a-casa-ma-non-lasciano-soli-ecco-cosa-si-inventano-le-associazioni

1 Scuole chiuse: attenti ai più deboli. Investing In Children e Alleanza per l’Infanzia, reti  nazionali costituite da enti e associazioni impegnate nella tutela dei diritti dell’infanzia, richiamano l’attenzione su un aspetto finora poco considerato, e cioè il rischio di aumentare il livello di esclusione sociale di bambini e ragazzi che, privati della possibilità di andare a scuola e di svolgere attività formative e sportive, a casa non dispongono degli strumenti e del livello culturale necessari per rimanere agganciati alle più basiche opportunità di inclusione sociale. “Quello che non abbiamo ancora messo a fuoco sono gli effetti sociali che derivano dalle misure che portano a sospendere a tempo indeterminabile il funzionamento delle istituzioni educative e formative”, affermano Gianluca Budano e Ivano Abbruzzi, portavoce di Investing In Children, insieme a Chiara Saraceno, Alessandro Rosina ed Emanuele Pavolini, di Alleanza per l’Infanzia.

www.alleanzainfanzia.it/comunicato-covid-19-e-chiusura-delle-scuole-aumenta-la-forbice-tra-bambini-di-serie-a-e-serie-b

2 scuole chiuse: attenti ai più deboli. Qualcosa comunque si muove. Proprio in relazione al rischio segnalato nella notizia precedente, nel rispetto delle indicazioni previste dall’ultimo Decreto del governo, Con i Bambini (impresa sociale che ha per oggetto l’attuazione dei programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile), invita gli enti capofila e i partenariati, coinvolti nei 355 progetti in corso sull’intero territorio nazionale, a continuare a supportare, per quanto possibile, le comunità, le scuole, le famiglie e i minori. In particolare i promotori dei progetti valuteranno la possibilità di favorire la diffusione di sistemi di apprendimento a distanza e di assistenza a ragazzi e famiglie che vivono particolari situazioni di fragilità.

www.conibambini.org/emergenza-coronavirus-apprendimento-a-distanza-nelle-scuole

Il non facile equilibrio tra lavoro a domicilio e tempi di vita. Un supporto psicologico. Tutti noi incontriamo svariate difficoltà ad adattarci ai nuovi (e forzati) ritmi del lavoro da casa e del brusco contenimento di relazioni interpersonali a cui ci costringe la pandemia che stiamo attraversando. L’associazione Sloworking, che nel suo logo non a caso reca come slogan “lavoro a ritmo di vita”, mette a disposizione (almeno fino al 3 aprile) il proprio team di psicologi, psicoterapeuti, coach, counselor e psicopedagogisti per rispondere a bisogni specifici e trovare nuove soluzioni per affrontare l’isolamento.  Significativo che tra i vari servizi offerti ce ne sia uno rivolto espressamente a “genitori che vivono situazioni di conflitto con i figli, dalla prima infanzia all’adolescenza, e coppie in difficoltà”.

www.sloworking.it/coronavirus-slowlistening

Sempre su telelavoro, un esempio di sostegno e nuove opportunità. La chiusura o il rallentamento di tante attività produttive ha posto in luce la necessità improrogabile che le aziende si dotino quanto prima e nella maggior misura possibile del cosiddetto smart working, o telelavoro. La Regione Lombardia, peraltro la più colpita dalla pandemia del Covid-19, promuove proprio in questi giorni un Avviso pubblico allo scopo di promuovere iniziative di smart working nelle imprese lombarde. Lo scopo è quello di consentire “una maggiore flessibilità per quanto riguarda il luogo e i tempi di lavoro” e “incrementare la produttività e aumentare il benessere di lavoratori e lavoratrici”. L’iniziativa è finanziata per 4,5 milioni di euro attraverso le risorse del Fondo Sociale Europeo, ed è rivolta ai datori di lavoro, iscritti alla Camera di Commercio o in possesso di partita IVA, con almeno 3 dipendenti. Le domande potranno essere presentate a partire dal 2 aprile 2020 fino al 15 dicembre 2021

www.fse.regione.lombardia.it/wps/portal/PROUE/FSE/Bandi/DettaglioBando/Agevolazioni/avviso-adozione-piani-aziendali-smart-working

Social Media, facebook e analisi del DNA: la ricerca delle origini attraverso reti e spirali. Seminario on line (webinar) promosso dal CTA di Milano. Sabato 4 aprile 2020. “Il seminario è rivolto principalmente ad adulti adottati, genitori adottivi, coppie in attesa di adozione, operatori dell’adozione e dell’area minori e famiglia e a tutti gli altri interessati. La trasmissione avverrà tramite la piattaforma Zoom. Gli iscritti riceveranno qualche giorno prima un link per partecipare”.

www.centrocta.it/social-media-facebook-e-analisi-del-dna-la-ricerca-delle-origini-attraverso-reti-e-spirali-seminario-2

Dalle case editrici

  • ·         AA.VV. Non c’è due senza te. Percorso per giovani coppie alla luce della Parola di Dio, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2020, pp. 176.

Garantire ai neo-sposi il supporto della comunità cristiana, perché non siano soli ad affrontare i primi passi della vita a due. È la proposta di questo libro, ispirato al modello di gruppo Non c’è due senza TE, una fortunata esperienza realizzata in alcune parrocchie lombarde, in cui le giovani coppie sono accolte in un percorso per scoprire i significati profondi e le sfide del matrimonio. Attraverso la Parola viva del Vangelo, il confronto di gruppo e le attività di laboratorio che ispirano riflessione, i neo-sposi sono invitati ad affrontare, in un clima conviviale e profondo insieme, temi come il rapporto con le famiglie d’origine, la fedeltà, la sessualità, il tempo di coppia, la fiducia, le promesse reciproche. Il volume è curato da tre coppie di amici, da diversi anni sposi e genitori, che hanno messo a disposizione il loro entusiasmo e la loro esperienza per la realizzazione del percorso del gruppo Non c’è due senza TE.

www.sanpaolostore.it/non-c-due-senza-te-roberta-fumagalli-9788892221345.aspx?Referral=newsletter_cisf_20200401

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/aprile2020/5166/index.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CHIESA CATTOLICA

Il silenzio profetico di papa Francesco

All’inizio dello scorso mese di marzo, papa Francesco ha indetto la XVI assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che si terrà nel mese di ottobre 2022 sul tema: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. Sarà, dunque, la sinodalità della Chiesa il tema della ricerca, del confronto e delle elaborazioni dei padri sinodali, un argomento diventato urgente non solo perché costantemente evocato dal Papa, ma anche perché va acquisito e assunto da tutta la Chiesa. È un tema che attende realizzazioni concrete, chiamate a diventare stile e prassi ecclesiale. Chiesa e Sinodo non sono ancora sinonimi.

Proprio questa scelta della sinodalità, come primo orizzonte del prossimo Sinodo, può aiutarci a comprendere la consapevolezza di Francesco, le sue scelte, le sue esitazioni e anche i suoi silenzi nella recente Esortazione apostolica Querida Amazonia. Questo testo, sul quale vi erano grandi attese, è stato accolto con molti silenzi dagli stessi protagonisti del Sinodo. E anche con accenti di delusione da parte di quanti attendevano che il Documento finale presentato dai padri sinodali al Papa fosse da lui approvato nelle sue istanze più innovative. Teologi e vescovi, che pure nutrono amore per Francesco, hanno mostrato reticenze in proposito. Qualcuno ha manifestato la sua incomprensione proprio riguardo al fatto che questo testo — come il Papa scrive nell’introduzione — non sviluppa tutte le questioni esposte nel Documento conclusivo, ma presenta solo le risonanze provocate in lui dall’evento di dialogo e di discernimento che è stato il Sinodo. L’Esortazione si riferisce, dunque, al Documento finale dei padri sinodali, invita a leggerlo con attenzione, ma non si esprime sulle diverse istanze ecclesiali emerse nel Sinodo

All’indomani della pubblicazione di Querida Amazonia, c’è stato chi ha sentito il bisogno di specificare che l’Esortazione del Papa ha valore magisteriale, mentre il Documento dei vescovi no. Credo, invece, che sia più onesto prendere atto che Francesco ha fatto un’operazione di discernimento quale successore di Pietro. E che si è mosso in obbedienza a ciò che lo Spirito suggeriva all’esercizio del suo ministero petrino, tenendo lo sguardo su tutta la Chiesa di cui è pastore. Il Papa non trascura il Documento finale dei vescovi, ma lo presenta e lo pone accanto alla sua Esortazione. I vescovi hanno presentato richieste e manifestato soluzioni relative a urgenze pastorali, che il Papa, in coscienza, non si è sentito per ora in grado di accogliere. A questa sua scelta deve andare l’obbedienza fiduciosa della Chiesa. In questo modo Francesco invita tutta la Chiesa a meditare, seriamente e con responsabilità, le richieste di un Sinodo che non è generale ma è proprio solo di una regione, l’Amazzonia, in modo che tutti insieme si possa, mantenendo l’unità, giungere a scelte anche innovative sul piano pastorale. Lo capiremo più tardi, ma questo silenzio di Francesco apparirà come un segno, una profezia per una Chiesa che sembra non essere capace di convergenza evangelica e di discernimento libero da ogni mondanità.

Ma che cosa possiamo dire rileggendo con calma Querida Amazonia, dopo due mesi? Non commento i primi tre “sogni” del Papa — il sogno sociale, quello culturale e quello ecologico —, che confermano il magistero espresso da lui nella Laudato si’ e ne forniscono una prima applicazione all’Amazzonia. Vorrei, invece, fare alcune annotazioni sul quarto sogno, quello ecclesiale, peraltro il più esteso. La sua prima parte appare veramente profetica. Viene, innanzitutto, ribadito con molto vigore il primato del Vangelo nella missione. E viene focalizzato ancora una volta, in modo efficace, il nucleo incandescente dell’annuncio cristiano: Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, è amore per tutta l’umanità, e a questo amore chiede che si risponda con l’amore fraterno. Si mette poi in risalto come «il processo di inculturazione non disprezza nulla di quanto di buono già esiste nelle culture amazzoniche, ma lo raccoglie e lo porta a pienezza alla luce del Vangelo» (QA 66). Quando poi il sogno di Francesco tocca l’inculturazione della liturgia e della ministerialità, lo scritto si fa più dottrinale, meno propositivo, perdendo dunque quel respiro profetico che attraversa la parte precedente dell’Esortazione. Si denuncia che, nonostante il concilio Vaticano II avesse richiesto lo sforzo di inculturare la liturgia nei popoli indigeni, trascorsi oltre cinquant’anni si sono fatti pochi progressi in tale direzione, ma non vengono fornite indicazioni affinché questo cammino possa compiersi in modo concreto nelle Chiese dell’Amazzonia.

Allo stesso modo, riguardo all’inculturazione della ministerialità, si evade la richiesta dei padri sinodali di conferire il sacramento dell’ordine ai “diaconi uxorati”, mentre si invoca l’invio di missionari da parte di altre Chiese meno povere di presbiteri. La Chiesa non è matura per una tale scelta? Possibile, ma è, comunque, triste sul piano ecumenico constatare che l’eccezione dei presbiteri uxorati venga consentita a chi si converte alla Chiesa cattolica (e a molti questo pare un incentivo), con un giudizio che rischia di valutare come meno eccellente il ministero presbiterale uxorato delle Chiese ortodosse e delle Chiese cattoliche di rito orientale. Non si tratta di abolire il celibato o di renderlo facoltativo, ma semplicemente di consentire delle eccezioni qualora lo richieda la salvezza delle persone (salus animarum). Proprio su questo tema si è registrata l’incapacità di quanti non sanno distinguere tra disciplina, tradizioni pur sante e Vangelo e bene della Chiesa.

Per quanto concerne le donne, non poteva esserci altra risposta se non quella finora tradizionale, che ritiene impossibile conferire loro il sacramento dell’ordine. Va detto chiaramente e senza paura: oggi nella Chiesa cattolica e in quelle ortodosse questa eventualità resta impensabile, ancor prima che impossibile. Ma si resti vigilanti e discreti sull’uso della metafora di Cristo quale sposo e della Chiesa sua sposa. Soprattutto, si ascoltino le donne e non si applichino loro delle immagini che non riescono a comprendere, o addirittura rifiutano. Affermare che «il Signore ha voluto manifestare il suo potere e il suo amore attraverso due volti umani: quello del suo Figlio divino fatto uomo e quello di una creatura che è donna, Maria» (QA 101), non è una felice espressione teologica. Nell’incarnazione del Figlio Gesù Cristo non vi è più né maschio né femmina, ma uomo e donna sono chiamati alla stessa sequela di Cristo (cf Gal 3,28), e sia gli uomini sia le donne sono battezzati nella morte e risurrezione di Cristo, unico evento salvifico.

Sì, il cammino verso una ministerialità inculturata e verso una presenza della donna riconosciuta dalla

Chiesa nella sua piena dignità resta ancora da compiere. E, per molti aspetti, ancora da iniziare. Il prossimo Sinodo sarà l’occasione affinché ciò che è stato abbozzato nel Sinodo sull’Amazzonia, possa trovare sviluppo e realizzazione in una Chiesa unita, umile, che non abbia paura di percorrere vie nuove in obbedienza allo Spirito.

 Enzo Bianchi  “Vita Pastorale” aprile 2020

www.monasterodibose.it/fondatore/articoli/articoli-su-riviste/13767-il-silenzio-profetico-di-papa-francesco

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CHIESE EVANGELICHE

Quale parola per dire «Dio»?

    Un giorno chiesi a Gabriella Caramore: «Per chi scrivi i tuoi libri?». Mi rispose più o meno così: «Li scrivo per chi, essendo troppo vicino a Dio, non capisce più quanto sia problematica e discutibile la fede in lui; e li scrivo per chi, essendo troppo lontano da Dio, non riesce più neppure a riconoscere il peso e il valore che la parola “Dio” ha avuto e continua ad avere nell’esperienza e nella storia dell’umanità».

      I «troppo vicini» e i «troppo lontani» sono dunque i primi, anche se non gli unici, destinatari anche di quest’ultimo libro*, agile e denso, nato, come lei stessa confida (p. 133), nello spazio della trasmissione Uomini e profeti di Rai RadioTre, da lei condotta per vent’anni, nel corso dei quali si è «appassionata» alla parola “Dio”, con cui lei ora, scrivendo queste pagine, si è confrontata direttamente e personalmente, da sola, un po’ come (si licet parva componere magnis) Giacobbe alle prese con l’angelo, per tutta una notte, al guado di Iabbok (Esodo 32, 22-32).

* G. Caramore, La parola Dio. Torino, Einaudi, 2019, pp. 131.

     Il libro si apre rievocando un dialogo avvenuto a Marburgo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Martin Mordechai Buber [(Vienna, *8 febbraio 1878 – †Gerusalemme, 13 giugno 1965) filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano. Si deve a lui l’emersione alla cultura europea del movimento hassidim, ma soprattutto a lui si deve l’idea che la vita è fondamentalmente non-soggettività, bensì intersoggettività, anzi per Buber soggetto e intersoggettività sono sincronicamente complementari e ne era talmente convinto che non esitò ad affermare: «In principio è la relazione»] e un anziano professore universitario. Buber gli stava leggendo un suo testo, e a un certo punto il professore lo interruppe per manifestare il suo stupore che Buber adoperasse così spesso e con tanta disinvoltura la parola “Dio”, dato che – disse – «non c’è nessun’altra parola del linguaggio umano così maltrattata, macchiata, oltraggiata».

    Buber si dichiarò d’accordo e disse: «Sì, è la parola più sovraccarica del linguaggio umano. Nessun’altra è stata così insudiciata, così lacerata. Ma proprio per questo non devo rinunciare ad essa». Certo, «non possiamo lavare di tutte le macchie la parola “Dio”, e nemmeno lasciarla integra; possiamo però sollevarla da terra e, macchiata e lacera com’è, innalzarla sopra un’ora di grande angoscia».  

    Ma è davvero possibile, oggi, un secolo dopo, fare quello che Buber sperava di fare allora? «La posta in gioco», come la chiama l’autrice, è «capire se c’è un nucleo, un nervo che si possa salvare dentro questa parola […], se sia possibile farla ancora vibrare di quelle scintille che per secoli l’hanno tenuta in vita, ma senza aggirare il confronto con un’umanità radicalmente distante da quella che confidava pienamente in essa» (pp. 4-5).

      Certo, un discorso di questo genere reca in sé innegabilmente qualcosa di paradossale, per non dire di surreale, dato che ribalta completamente l’impostazione che per millenni ha regolato il rapporto tra l’uomo e Dio, secondo la quale Dio era il salvatore e l’uomo il salvato. Ora è il contrario: non è più Dio che salva l’uomo, ma l’uomo che decide se valga la pena, oppure no, di salvare Dio! Infatti, la domanda di fondo percorre tutto il libro: è possibile «salvare la parola “Dio”» (e quindi anche Dio stesso) come parola umana ancora o di nuovo carica di senso e di valore? Prima di rispondere, è però il caso di segnalare il capitolo centrale del libro (pp. 41-83), che è una bella, ricca esposizione di pensiero biblico, nella quale l’autrice mette a frutto la sua conoscenza intelligente delle Scritture (Antico e Nuovo Testamento), acquisita attraverso tante puntate di Uomini e Profeti, ma soprattutto in una vera e propria lectio divina laica e continuata di quasi tutta la Bibbia, svolta per tre anni di seguito – impresa mai compiuta in Italia attraverso un mezzo di comunicazione di massa come RadioTre.

     Ma torniamo alla domanda: «È possibile salvare la parola “Dio”»? La risposta del libro è questa: Sì, è possibile, a una condizione: che questa parola si traduca in amore – non «amore sentimentale», ma «assunzione su di sé del peso dell’altro», e che questo amore venga a sua volta «declinato nel senso della giustizia e della misericordia» (p. 88). In pratica la proposta è: invece di parlare di Dio, si parli piuttosto di giustizia e misericordia.

     Così l’uomo d’oggi capirà meglio (o per la prima volta!) di che cosa si parla quando si parla di Dio. Soddisfa questa risposta? Sì e no, o meglio: soddisfa con una riserva. Perché soddisfa? Perché effettivamente giustizia e misericordia sono le due grandi passioni di Dio che, come sappiamo, preferisce giustizia e diritto piuttosto che culti solenni e cerimonie religiose (Amos 5, 21-24!) e vuole misericordia e non sacrificio (Matteo 12, 7!). Giustizia, quindi, sì, a tutto campo, nel senso inclusivo della Bibbia, che comprende sia la giustizia retributiva di cui parlano molti passi della Scrittura, e in particolare parecchi Salmi, sia l’altra giustizia, più che mai di Dio, anzi solo sua, quella che «giustifica l’empio» (Romani 4, 5) – immeritatamente, incomprensibilmente, incondizionatamente: questo è il «cielo» in cui Dio abita! E così la misericordia, sì, purché sia quella radicale di Dio che ama ciò che non è amabile, che dimentica tutto il resto per cercare il perduto finché lo trova, che trae su il povero dal letame per farlo sedere con i principi (Salmo 113,7).

     Alla giustizia e alla misericordia si sarebbe potuto aggiungere il perdono, che certo sta sia dentro la giustizia sia dentro la misericordia, ma forse valeva la pena non lasciarlo nell’implicito, ma farne, insieme alla giustizia e alla misericordia, il terzo specchio di Dio, no, molto più che specchio, il cuore stesso di Dio, la sua natura profonda e verità segreta – il perdono inatteso, incomprensibile, scandaloso, miracolo puro, grazia assoluta: l’adultera doveva essere lapidata secondo la santa Legge di Dio (Levitico 20, 10), e invece no, nessuno la condanna perché Dio, per mezzo di Gesù, non la condanna. La Legge è importante, ma non è Dio. Dio dà la Legge, perché ne abbiamo bisogno, ma Lui non è Legge, bensì Grazia, di cui abbiamo ancora più bisogno. Sì, giustizia – misericordia – perdono, questa santa trinità, è il significato della parola “Dio”, di più Dio è questa santa trinità.

     Perciò la risposta del libro alla domanda se sia possibile salvare la parola “Dio”, soddisfa. Ma qual è la riserva? È questa: che il nome di Dio non si esaurisce nel significato della parola “Dio”. Gli Ebrei lo hanno capito, perciò pronunciano la parola Dio, ma non pronunciano il nome di Dio, cioè il famoso «tetragramma sacro» rivelato da Dio a Mosè: Esodo 3, 14. Perciò da un lato è giusto e salutare insistere sul significato della parola “Dio”, ma dall’altro va ricordato che il nome di Dio è qualcosa d’altro rispetto alla parola “Dio” e ai suoi significati, i quali, quindi, non possono sostituire il nome di Dio, prendendone il posto. Forse è questo che la Bibbia intende quando associa il nome di Dio al suo «timore» (Malachia 3, 16), che chiama «principio» e «scuola di sapienza» (Proverbi 9, 10 e 15, 33).

     In conclusione, questo libro farà del bene non solo a chi è «troppo vicino» e a chi è «troppo lontano», ma anche a chi non sa neppure bene dov’è (perché non sa dov’è Dio) e perciò non sa dove andare. Qui, se vuole, troverà una pista.

Paolo Ricca    “Riforma”

settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi- l 3 aprile 2020

https://riforma.it/it/articolo/2020/03/31/quale-parola-dire-dio

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CITAZIONI

Cristiani nella società: il valore dell’eguaglianza

          Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune (Assemblea Nazionale –Francia Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 26 agosto1789, art. 1)                                           www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm

          Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza (ONU Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, 10 dicembre 1948, art. 1)

www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn

             Tutti gli uomini, dotati di un’anima razionale e creati ad immagine di Dio, hanno la stessa natura e la medesima origine; tutti, redenti da Cristo, godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino: è necessario perciò riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti (Concilio Vaticano II Gaudium et spes, 29, 7 dicembre 1965)

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html

      È indubbio che il cristianesimo, fin dal suo sorgere, abbia introdotto una radicale originalità nei rapporti tra religione e società, tra appartenenza religiosa e appartenenza alla polis. Quando Gesù ha insegnato che occorre «rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12, 17 e par.), è stata affermata una distinzione tra potere politico ed evento cristiano capace di scuotere in profondità i rapporti sociali e la vita della collettività. E a questo proposito si deve confessare che i cristiani stessi non sempre hanno saputo trarre le dovute conseguenze da questa parola di Gesù: il loro rapporto con la società ha trovato soluzioni molto diverse nella storia, diventando, di volta in volta, occasione di incontro, di confronto, talora addirittura di scontro tra Chiesa e società civile.

      Se ripercorriamo brevemente la storia del cristianesimo, troviamo alle origini un atteggiamento dei cristiani che poteva apparire di astensione, di fuga rispetto alla polis. Nei primi tre secoli i cristiani riconoscono la legittimità dell’impero romano – Tertulliano, per esempio, assicura che i cristiani pregano incessantemente perché nella società regnino pace, giustizia e ordine sociale, e pregano dunque anche per le autorità politiche – ma la loro lotta anti-idolatrica provoca diffidenza nei loro confronti. Sovente essi si rifiutano di fare parte dell’esercito imperiale, si astengono dal partecipare all’amministrazione civile, si mostrano critici verso i costumi e le consuetudini sociali della polis: ciò spiega le persecuzioni che si abbattono su di loro a fasi alterne durante i primi secoli della nostra era. Secondo la testimonianza di Origene (240 ca.), Celso accusa i cristiani in questi termini: «Celso ci esorta a partecipare al governo della patria, quando ciò sia necessario, e a fare questo per la salvezza delle leggi e della pietas. Ma noi, in qualunque città abitiamo, conosciamo una specie diversa di patria, fondata sulla parola di Dio […]. Non è per sfuggire ai doveri civili di questa esistenza che noi cristiani ci asteniamo da certe responsabilità, ma per dedicarci a un servizio più santo.»

     Un bellissimo testo della stessa epoca, la Lettera a Diogneto, parla dei cristiani come «anima nel mondo», legge tutta la loro solidarietà con la compagnia degli uomini, mostra una visione positiva della società e una simpatia con la storia degli uomini, pur non chiedendo ai cristiani di partecipare direttamente alla costruzione della città terrena. Basti citare un passo assai noto di questo piccolo capolavoro: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di vita […]. Ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati. Mettono in comune la mensa ma non il letto.»

     In questo brano appare molto chiara la differenza dei cristiani, che risulta dal loro essere una minoranza all’interno di una società pagana; una minoranza che sa vivere con simpatia tra i non cristiani e che, nel contempo, è consapevole di poter offrire un contributo specifico su un tema per lo più sconosciuto al mondo circostante: il tema della concreta condivisione dei beni, strumento per trascendere le differenze e le disuguaglianze sociali.

     Ma all’inizio del IV secolo la Chiesa, con il battesimo dell’imperatore Costantino, dà origine alla cristianità, in cui potere politico e religioso non saranno quasi mai identificati, ma ove il potere – l’universalis potestas – è pensato, proclamato e percepito come cristiano: è il lungo periodo del compromesso tra Chiesa e potere politico in occidente e, specularmente, del monolitismo teocratico in oriente. E così la Chiesa, da perseguitata, finisce per trovarsi nella posizione di chi convive con il grande potere imperiale diventato cristiano, traendone anche benefici. Mi piace ricordare la reazione a questa nuova situazione da parte di Ilario, vescovo di Poitiers, che nel 360 scrive: «Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga […]. Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci dà la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro.»

     Dal V all’XI secolo, poi, la Chiesa si trova investita di funzioni di supplenza, a causa della caduta dell’impero romano d’occidente e dell’«emergenza barbarica», fino ad assumere un potere che si manifesterà sempre più come temporale: essa commette così il peccato di non dare più a Cesare quello che è di Cesare, ma di pretendere per l’autorità religiosa anche la funzione politica.

     Ma la storia avanza e questa compromissione conosce significative contraddizioni. A partire dal XVI secolo, in particolare, inizia un percorso di autonomia delle sfere umane rispetto a quelle di competenza della religione e a qualsiasi riferimento al trascendente. Mentre la cristianità, ossia quell’identità tra società e Chiesa nata con la pax costantiniana, va in frantumi, la scienza rivendica un’autonomia della ragione scientifica rispetto alla verità della religione; la politica rivendica la sua alterità, soprattutto dopo le sanguinose guerre di religione, ed elabora un diritto fondato su base razionale, non più religiosa; anche la morale, seppur più lentamente, cerca una sua fondazione autonoma rispetto a qualsiasi riferimento trascendente. È l’epoca della modernità, in cui la laicità appare come il frutto del processo di secolarizzazione, cioè del progressivo allontanamento dall’influsso della religione cristiana sulla vita della società.

     Questo processo è stato vissuto, soprattutto nei Paesi cattolici, mediante una forte contrapposizione tra le idee propugnate dall’Illuminismo, diffuse anche dalla rivoluzione francese, e la tradizione cattolica, con esiti molto diversi da nazione a nazione. In Francia la laicità si è posta in termini non solo di separazione tra Stato e Chiesa, ma anche di esclusione dallo spazio politico di ogni riferimento religioso, con la conseguenza di relegare l’appartenenza religiosa e la sua espressione nella sfera privata. In altri Paesi, come l’Italia e la Spagna, il rapporto tra Stato e Chiesa è stato segnato da vicende alterne, in cui il cattolicesimo ha cercato di ergersi a religione di Stato, accarezzando ancora l’ipotesi di uno Stato confessionale. Per restare all’Italia, con la caduta del potere temporale della Chiesa e la fine dello Stato pontificio, i cattolici sono stati indotti ad astenersi dal partecipare alle istituzioni di uno Stato che aveva negato alla Chiesa il suo secolare potere politico.

    Negli stessi anni, però, si è aperta una nuova fase in cui è maturata poco per volta una necessaria distinzione degli ambiti: da parte della Chiesa è apparsa possibile la rinuncia alla propria egemonia normativa, da parte dello Stato la rinuncia a porsi in posizioni di scontro rispetto alla Chiesa. È stata una stagione in cui i cristiani hanno dovuto inventare modi di partecipazione alla vita della polis, mentre la Chiesa ha formulato la «dottrina sociale» per dare un’ispirazione conforme alla fede a questa inedita forma di partecipazione dei cristiani alla storia e al mondo. Insomma, è maturata una giusta separazione tra Stato e Chiesa, ma anche una presenza dei cristiani nella politica, nella vita sociale, nella lotta per la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, la libertà. E così, nell’ora del Concilio Vaticano II e negli anni immediatamente successivi, i cristiani hanno formulato un giudizio ampiamente positivo su questo processo di secolarizzazione e di scoperta della laicità dello Stato, come testimonia, per es., l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi. Ed è stato lo stesso Paolo VI a leggere nella fine del potere temporale della Chiesa un evento provvidenziale, in quanto ha reso la Chiesa stessa più evangelica e ha abilitato i cristiani alla costruzione della polis insieme agli altri uomini.

     A mio avviso, si è trattato di una stagione di cui oggi non siamo purtroppo ancora in grado di fare una lettura intelligente; ma un giorno sarà possibile con fierezza divenire consapevoli dell’apporto che i cristiani, e i cattolici in particolare, hanno dato all’idea e alla costruzione dell’Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro Paese, all’emergere di valori legati alla difesa e alla promozione della persona umana.

      I cittadini e l’uguaglianza. In questa storia della presenza dei cristiani nella società, quale apporto essi hanno fornito riguardo al valore dell’uguaglianza? È indubbio che i cristiani abbiano sempre confessato l’uguale dignità dell’uomo e della donna, così come di ogni essere umano, a qualunque etnia, lingua o popolo appartenga. E questo perché le Sante Scritture affermano, fin dalla prima pagina del libro della Genesi: «Dio creò il terrestre a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). E quando il cristianesimo si è inculturato nel mondo greco-romano ha anche ereditato il diritto di uguaglianza forgiato da quella cultura, l’isonómia, principio che informava di sé la vita della polis. Di più, in nome della fede cristiana Paolo è giunto a dichiarare che, dopo l’evento Gesù Cristo, tutti gli esseri umani sono «originalmente» uguali: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Ecco perché le differenze di etnia, di classe e di sesso nello spazio ecclesiale sono superate per mezzo della caritas, quell’amore unilaterale che non esige neppure di essere corrisposto. In tal modo il cristianesimo ha favorito quel processo per cui il principio dell’uguaglianza è giunto a riguardare davvero tutti gli appartenenti alla polis, non solo i civites ma anche i barbari; va riconosciuto che, soprattutto nell’ora della pressione da parte dei barbari ai confini della civitas romana, i cristiani hanno saputo dare un grande contributo, riconoscendo l’uguaglianza dei diritti a tutti quelli che entravano a far parte di quello spazio civile.

     D’altra parte, occorre purtroppo ammettere che ben presto, già a partire dalla fine del IV secolo, il cristianesimo è stato foriero di disuguaglianza: infatti coloro che restavano fedeli alla religio dei padri, al paganesimo, venivano privati dell’uguaglianza con i civites, ormai identificati esclusivamente con cristiani appartenenti alla grande Chiesa. Insomma, se nel 313 il cristianesimo era divenuta religio licita, religione lecita al pari dei culti pagani, nel 392 l’imperatore Teodosio I, influenzato anche da Ambrogio, emise a Milano un editto che stabiliva la messa al bando di qualunque sacrificio pagano pubblico o privato, e vietava per la prima volta l’accesso ai santuari e ai templi e l’adorazione di statue. In quel testo si afferma, tra l’altro, che chi praticava la religione dei romani doveva essere accusato di lesa maestà: era reus majestatis, reus violatæ religionis.

     Durante il «regime di cristianità», di fatto, i cristiani accettarono di convivere con le disuguaglianze che segnavano la società: disuguaglianza uomo-donna, disuguaglianze economiche, disuguaglianze giuridiche; essi accettarono persino la disuguaglianza religiosa, la cui conseguenza più nefasta fu quella di rendere vittime gli ebrei, gli eretici, i pagani, quanti cioè erano extra ecclesiam. L’annuncio del Vangelo continuava ad affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si accettava e si instaurava la disuguaglianza in nome di una sua interpretazione restrittiva, che non riconosceva uguali diritti e uguale dignità a chi non apparteneva alla societas cristiana. E qui occorre ricordare che lungo tutto il Medioevo solo gli ideali monastici hanno permesso di tenere viva l’esigenza dell’uguaglianza tra barbari e latini, tra nobili e appartenenti alle classi sociali più basse, tra ricchi e poveri. Nella vita cristiana secolare, invece, il magistero restava chiuso nello schema dell’«uguaglianza proporzionale », che riconosceva a ciascuno solo ciò che gli era dovuto in base al suo rango, in base all’ordo e alla potestas accordatigli dal consesso civile.

    Alle nuove esigenze spirituali di uguaglianza, emerse anche grazie alle istanze sollevate dalla Riforma, la Chiesa cattolica reagirà in modo sordo e negativo, fino a esprimere un magistero difensivo e apologetico, che condannerà la «modernità», soprattutto in seguito all’emergere di dottrine riguardanti proprio la libertà e l’uguaglianza: basterebbe ricordare come in quei secoli il cristianesimo si sia macchiato della pratica della schiavitù, giustificandola anche a livello giuridico. Tra il XVIII e il XIX secolo si consumerà dunque un grave scontro tra le Chiesa e il pensiero liberale e illuministico: come dimenticare in proposito la condanna ecclesiastica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, enunciata a Parigi dall’Assemblea Nazionale nel 1789? Sì, va detto con chiarezza: se in quei secoli c’è stata affermazione del diritto di uguaglianza, questo è avvenuto fuori dello spazio cattolico, e con una dura opposizione della Chiesa, che ha conosciuto il suo apice nel magistero di Pio IX, sintetizzato nel Sillabo del 1864 (allegato all’enciclica Quanta cura).

www.vatican.va/content/pius-ix/it/documents/encyclica-quanta-cura-8-decembris-1864.html

       Il rapporto tra Chiesa e società civile oggi. Quale rapporto si può cogliere tra Chiesa e società civile in quest’ora della «globalizzazione», nell’ora della percezione sempre più diffusa del mondo come «villaggio globale»? Come si collocano oggi i cristiani nella società?

     Possiamo dire con sicurezza che l’autonomia tra Chiesa e Stato è un dato accettato ormai da tutti, almeno in occidente; la definizione della laicità dello Stato richiede però una continua revisione, per i mutamenti e le dinamiche accelerate nella società odierna. Di fatto la laicità va costantemente ridefinita, proprio tenendo conto di alcuni nuovi elementi socio-culturali.

     Innanzitutto occorre tener presente che siamo in una nuova fase della secolarizzazione, in cui si registra l’emergenza del soggetto, dell’individuo, che si percepisce come autoreferenziale, unicamente teso a realizzare il proprio desiderio e incentrato sul proprio interesse: i desideri di questo soggetto tendono ad essere sentiti come «diritti» dell’individuo. Zygmunt Bauman descrive giustamente la nostra società come società di «turisti consumatori», in cui vige il primato del «fare esperienze», del perseguire il proprio desiderio in modo narcisistico. È una società senza un orizzonte comune, senza la preoccupazione della solidarietà e della percezione dell’altro in vista di un bene comunitario: individualismo indifferente ed edonismo egoista tendono a richiedere da parte dello Stato il riconoscimento di pretesi «diritti» che pongono la politica in congiunture finora inedite.

    Un novum molto appariscente è poi la sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla fede; in Italia tale condizione è però difficile da misurare, perché il 90% dei cittadini si dichiara cattolico, ma solo il 25% ha una prassi almeno domenicale di partecipazione alla vita cristiana. Questa condizione di minoranza è inoltre accentuata dal pluralismo delle religioni e delle culture ormai vistosamente presenti nella nostra società, un fenomeno che caratterizza in modo crescente la popolazione delle nostre città. Tale situazione di pluralismo di fedi, di visioni del mondo e, soprattutto, di etiche diverse, investe i vari livelli del rapporto tra fede e ragione, compreso il concetto di uguaglianza, causando reazioni di paura, sospetto, scontro.

     In altre parole, come custodire e approfondire l’identità cristiana senza cadere in atteggiamenti di chiusura preconcetta e di rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come vivere questa volontà di incontro, questa possibilità di dialogo, senza cadere nella tentazione secondo cui «una religione vale l’altra», abdicando così anche alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l’identità della fede cristiana, ma anche quella culturale di un popolo: in entrambi questi ambiti si assiste al fiorire di atteggiamenti ispirati da paura, da difesa di una identità definita una volta per sempre, quasi che ogni identità personale e culturale non si costruisse attraverso l’incontro e il confronto con gli altri!

    Infine, un altro aspetto che costituisce come il quadro di fondo della situazione attuale è l’enorme capacità tecnologica causata dai progressi della scienza. Le conquiste scientifiche hanno portato l’uomo a un potere impensato e dai limiti sconosciuti: si è giunti fino alla possibilità di creare con mezzi tecnologici l’uomo stesso e, specularmente, a quella di distruggere l’umanità e la vita sulla terra. Si pensi, per es., alle potenzialità che la scienza oggi possiede in ordine alla determinazione del nascere e del morire di ogni uomo. Anche questa situazione richiede una ridefinizione della laicità dello Stato, il quale è chiamato a legiferare sovente su materie che dividono e contrappongono le etiche e le fedi presenti nella società.

     Nel febbraio del 2005 Giovanni Paolo II, in occasione dell’anniversario della legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato promulgata in Francia nel 1905, scriveva ai vescovi francesi: «Il principio di laicità, se ben compreso, appartiene alla dottrina sociale della Chiesa. Esso ricorda la necessità di una giusta separazione dei poteri […]. La non confessionalità dello Stato permette a tutte le componenti della società di lavorare insieme al servizio di tutti e della comunità nazionale […]. La laicità, lungi dall’essere un luogo di scontro, è realmente l’ambito per un dialogo costruttivo, nello spirito dei valori di libertà, di uguaglianza e di fraternità

     Nonostante queste affermazioni così chiare e decisive, noi assistiamo in realtà sempre di più ad atteggiamenti che finiscono per causare scontro e polemica tra Stato e Chiesa, tra cristiani e non cristiani, tra i laici non cristiani e alcune porzioni di Chiesa, proprio su come siano da intendere la laicità e l’uguaglianza dei diritti di quanti appartengono alla polis. Negli ultimi anni è in atto anche una ripresa dell’anticlericalismo, atteggiamento che è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano…

       Conclusione. La “differenza cristiana”. Alla Chiesa è chiesto di stare nel mondo, nel pieno degli impegni e delle problematiche, con umiltà e intelligenza, senza pregiudizi né atteggiamenti ideologici, e senza logiche di inimicizia. Di certo, nell’opera di edificazione della polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il Vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis. L’obbedienza creativa al Vangelo abilita invece il cristiano a immergersi nella storia, nella compagnia degli uomini, portando sempre un messaggio profetico, un messaggio per l’uomo.

    Tale atteggiamento dovrebbe manifestarsi anche a proposito del tema dell’uguaglianza: non si dimentichi che nelle comunità cristiane delle origini vi è stata l’abilità di tradurre il messaggio dell’agape, dell’amore, in concreti atteggiamenti di uguaglianza. Basterebbe leggere i cosiddetti «sommari» degli Atti degli apostoli (cfr. At 2, 42-45; 4, 32-35; 5, 12-16), per comprendere come l’uguaglianza non fosse affermata solo in termini di dignità umana, ma anche a livello materiale: «Tutto era tra loro comune e a ciascuno era dato secondo il suo bisogno» (cfr. At 4, 32.35). Nessun egualitarismo, certo, ma una dinamica feconda in cui l’uguaglianza contrassegna la comunità cristiana e appare come una realizzazione visibile della forma della koinonia richiesta dal Vangelo.

     Ebbene, in una società come la nostra, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, i cristiani sono chiamati a vivere una differenza proprio nella qualità delle relazioni, divenendo quella comunità alternativa che esprima, a favore di tutti gli uomini, la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. In questo consiste a mio avviso la «differenza cristiana», una differenza che chiede oggi alla Chiesa di saper dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal Vangelo: nella costruzione di una vera communitas il cristianesimo mostra la propria eloquenza e il proprio vigore, e dà un contributo peculiare alla società civile in cerca di progetti e idee per l’edificazione di una città veramente a misura d’uomo. Né si può dimenticare che proprio con la capacità di originare forme di vita comunitaria, inventando strutture di governo ispirate a corresponsabilità, rapporti di autorità vissuti come servizio, il cristianesimo mostra la sua vitalità storica e svolge un’importante diaconia per la società civile. Questa «differenza cristiana», infine, deve esprimersi soprattutto nell’attenzione ai poveri, agli ultimi: Gesù ha infatti detto con chiarezza che saranno proprio i poveri il metro del giudizio finale (cfr. Mt 25, 31-46). Di più, per noi cristiani i poveri sono certamente il sacramento di Cristo (cfr. 2Cor 8, 9), ma sono anche «il sacramento del peccato del mondo», e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra fedeltà al Signore e il nostro vivere nel mondo quale corpo di Cristo.

    Sì, a mio avviso è decisivo che i cristiani oggi si esercitino più che mai, insieme agli altri uomini, nel cercare vie in cui l’uguaglianza dei diritti e della dignità delle persone, l’uguaglianza economica, l’uguaglianza di tutti i cittadini, a qualunque fede o etica appartengano, possa trovare realizzazione nella polis: su questo si gioca ancora una volta la loro fedeltà al Vangelo.

      Enzo Bianchi        La rivista Il Mulino 24 dicembre 2019

     [Questo articolo è uscito per la prima volta su “il Mulino”, n. 4/2007. Lo riprendiamo oggi, vigilia di Natale, con il consenso dell’autore]

www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4980

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONSULTORI FAMILIARI UCIP

Como, colloqui di sostegno per personale sanitario COVID-19

      Grazie alla convenzione attiva tra Consultorio La Famiglia e Ospedale Valduce per tutto il personale sanitario, chiamato a far fronte all’emergenza COVID-19, garantiamo colloqui di sostegno gratuiti. Le persone che lavorano quotidianamente a contatto con sofferenze acute, in condizione di elevata emotività quale l’epidemia da COVID-19, nonostante spesso sviluppano un’alta soglia di tolleranza agli eventi traumatici, possono manifestare disturbi psicopatologici a breve e lungo termine, a seguito della traumatizzazione vicaria.

      Un team di operatori del Consultorio, specializzato nell’elaborazione del disturbo post-traumatico da stress, li accoglierà, a seguito della loro richiesta, per essere di sostegno in questo periodo di intensa fatica.

www.lafamigliaconsultorio.org/supporto-psicologico-per-il-personale-sanitario-dellospedale-valduce

Cremona, sostegno psicologico ai sanitari

     Il Consultorio Ucipem sempre al lavoro, ma con nuove modalità: sostegno psicologico ai sanitari. Il consultorio Ucipem, che lavora dal 1975 sul territorio e che ha sede in via Milano, nel corso del 2018 (ultimo dato rilevato, nda) ha supportato oltre 2mila utenti (2.069). Le attività svolte dal consultorio privilegiano “la dimensione socio-psico-educativa dell’attività, pur valorizzando quella sanitaria, sempre integrata con la precedente”. E, in questo periodo di emergenza sanitaria, gli operatori del consultorio hanno deciso volontariamente di offrire sostegno psicologico agli operatori sanitari.

Una realtà consolidata sul territorio, dunque, ma che oggi deve fare i conti con le restrizioni legate all’epidemia del coronavirus. “Stiamo portando avanti – spiega la direttrice Maria Grazia Antonioli – sia l’attività psicologica che di attenzione sanitaria, ovviamente nelle modalità che questa situazione ci permette. “. Antonioli infatti sottolinea come Ucipem non sia “solo uno sportello sull’emergenza, ma è anche molto altro” e confessa: “Sono calate le richieste, anche perché non si pensa ci sia la possibilità di accedere a questo servizio, anche se restano le persone che avevamo già in carico e che hanno accettato la nuova modalità degli incontri”. Il consultorio, infatti, non è chiuso, ma ha mantenuto attivi diversi servizi, avvalendosi della tecnologia: i colloqui sono infatti online o telefonici. Tutto in maniera gratuita, grazie all’accreditamento presso Regione Lombardia. “La modalità – ammette la direttrice – non è quella più confacente, ma è pur sempre un modo per iniziare a prendersi cura della propria situazione”.

Antonioli poi spiega: “I colloqui non sono solo per i bisogni che emergono adesso, come attacchi di panico, rielaborazione di lutti, solitudini, sensi di colpa, ma siamo anche disponibili ad affrontare colloqui su problematiche che magari ci sono da molto ed ora si trova il tempo per affrontarli e a costruire un percorso”. L’equipe degli operatori del consultorio infatti è variegata: solo per fare alcuni esempi ci sono assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, consulenti familiari, ostetriche e medici.

Questo periodo di permanenza forzata in casa, infatti, influisce anche sul rapporto con i propri figli: “E’ importante sostenere i genitori in questo periodo e andare incontro a coloro che si trovano soli a causa dell’isolamento senza poter contare sull’aiuto di famigliari e conoscenti”. Anche i neogenitori non sono abbandonati: “Offriamo servizi che spesso sono sospesi attualmente negli ospedali pubblici, come l’accompagnamento alla nascita o le attività di gruppo legate ad esempio all’allattamento e allo svezzamento.

www.cremonaoggi.it/2020/04/05/consultorio-ucipem-sempre-al-lavoro-ma-con-nuove-modalita-tra-cui-il-sostegno-psicologico-ai-sanitari

 

 

Cuneo – Supporto telefonico di supporto psicologico

     Il Consultorio Familiare Ucipem di Cuneo offre un aiuto ai cuneesi. Mette a disposizione i propri volontari, offrendo un servizio telefonico gratuito per chi necessita di supporto psicologico, per affrontare le difficoltà, l’ansia, le tensioni, proprie e dei propri familiari. Chi lo desidera può contattare i volontari al numero 3311191439, una consulente vi metterà in contatto con professionisti che potranno fornire un sostegno alle vostre necessità. ww.laguida.it/2020/04/04/il-consultorio-familiare-ucipem-offre-un-aiuto

 

Faenza. Possibilità di colloqui con consulenti familiari o con psicologi.

     Immaginiamo che per qualcuno la situazione si stia evolvendo in modo semplice e lineare. Potrebbe essere che invece qualcuno incontri più difficoltà, soprattutto nel gestire le emozioni che in queste settimane vengono continuamente sollecitate: stiamo pensando alla paura del contagio, il timore anche solo nell’andare a fare la spesa o al lavoro, gli spazi di casa che improvvisamente diventano stretti, la difficoltà a trovare valvole di sfogo attraverso lo sport, le continue informazioni che dalla TV e da internet giungono come un torrente in piena senza sosta, con l’aumento inevitabile dell’ansia. Per non parlare delle previsioni future che, dal punto di vista economico e lavorativo, potrebbero costringere molti a tempi difficili.

     E’ per questo che abbiamo pensato di offrirvi la possibilità di un aiuto: da una parte indicazioni, spunti, “regole” che abbiamo intenzione di pubblicare sul sito                                  www.pastoralefamiliarefaenza.it

dall’altro la possibilità di colloqui con consulenti familiari o con psicologi.

Potete diffondere la proposta a chiunque ritenete abbia necessità. I riferimenti sono

  • Poliambulatorio “la filigrana” promosso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII
  • Consultorio Ucipem di Faenza

www.pastoralefamiliarefaenza.it/wp/wp-content/uploads/2020/04/Lettera-Pastorale-Famigliare-per-emergenza-Covid-19.pdf

Forlì. Emergenza sanitaria. Ascolto psicologico

    La diocesi di Forlì-Bertinoro, sull’esempio di quella di Bergamo, attiva “Un cuore che ascolta”, servizio di consulenza telefonica, spirituale e psicologica, in collaborazione con Ucipem, Consultorio familiare cittadino, con l’associazione “Parole diverse” e “La rete magica”, e con la disponibilità di sacerdoti e laici per quanto riguarda la spiritualità. E’ possibile contattare una segreteria che raccoglierà e vaglierà le diverse richieste, indirizzando poi ai numeri telefonici disponibili per l’ascolto psicologico o al numero di un sacerdote per quanti cercano un accompagnamento spirituale. “Il servizio – spiega il vicario generale, mons. Pietro Fabbri – è rivolto a coloro che in questo momento avvertono più impellenti le domande di senso, il bisogno di un conforto spirituale, la necessità di un confronto della fede, la condivisione della preghiera. Ci rivolgiamo inoltre a coloro che sentono il bisogno di un supporto psicologico e che stanno vivendo questo momento di emergenza con difficoltà sia perché appesantiti dal contesto sociale, che crea tensione, sia perché stanno vivendo in prima persona la preoccupazione per sé e per i propri cari (es. quarantena, ricovero, lutto). Infine agli operatori socio-sanitari o lavoratori costretti ad esercitare la loro professione in situazione di rischio o in condizione emotivamente pesante”. La diocesi precisa che un “Un cuore che ascolta” non fornisce informazioni o risposte a bisogni concreti come spesa a domicilio, consegna di farmaci, perché questi servizi sono già attivati da altre realtà.

https://www.agensir.it/quotidiano/2020/4/1/coronavirus-covid-19-diocesi-forli-bertinoro-telefono-amico-un-cuore-che-ascolta-per-esigenze-psicologiche-e-spirituali

 

Mantova. Servizio di supporto psicologico online

     Il Comune di Mantova ha predisposto nuovi servizi online, oltre a quelli già partiti, per essere ancora più vicino a tutti i cittadini in questo difficile momento. “Stiamo vivendo una crisi che tocca ciascuno di noi e ci mette a dura prova da tutti i punti di vista – ha detto il sindaco di Mantova Mattia Palazzi –. Stiamo cercando in ogni modo di tenere per mano la nostra comunità, nessuno deve sentirsi abbandonato dalla sua città e dal Comune perché ne usciremo insieme”. Se da un lato si chiede di stare in casa, dall’altro vi sono necessità che riguardano bisogni fondamentali della nostra vita, dalla gestione dei figli alla spesa di alimenti e farmaci, sino al bisogno di un supporto per affrontare in modo efficace lo stress emotivo dovuto all’isolamento nelle nostre case, alla paura del contagio e più in generale all’incertezza del momento.

     Per dare una risposta concreta a questi bisogni la Giunta Palazzi ha organizzato, in collaborazione con realtà specializzate che operano sul territorio, una serie di servizi professionali, gratuiti e online.

     Il primo, già attivato e che sta dando grandi risultati, è quello della Spesa a domicilio. Un servizio dedicato alle persone anziane, gestito dai volontari del Sepris coordinati dall’Assessorato ai Servizi Sociali del Comune di Mantova, e prevede la possibilità di telefonare al numero unico messo a disposizione dal Comune, indicare gli alimenti e i farmaci di cui si ha bisogno e riceverli direttamente al proprio domicilio.

     In partenza in queste ore anche altri quattro servizi: Ostetrica Online, Consulenza Pedagogica Online, Servizio di Supporto Psicologico Online e Per fare un libro.

  • Ostetrica Online. Questo servizio, inserito nel progetto Baby Bag dell’Assessorato alla Famiglia del Comune di Mantova e svolto in collaborazione con La Tela di Mamata, fornisce consulenze gratuite, telefoniche o attraverso canali telematici, alle famiglie di rientro a casa dopo la nascita.
  • Consulenza Pedagogica Online. Un sostegno gratuito ai genitori di bambini e bambine da zero a 6 anni. Questo servizio coordinato dall’Assessorato ai Servizi Educativi e Pubblica Istruzione del Comune di Mantova, rientra nel progetto Poli ed è svolto in collaborazione con il Giardino dei Bimbi.
  • Servizio di Supporto Psicologico Online. Ascolto e sostegno psicologico qualificato e gratuito per aiutare i cittadini ad affrontare al meglio in questo particolare periodo stress e preoccupazioni. Il servizio è svolto dai professionisti del Consultorio familiare UCIPEM e coordinato dall’assessorato alla Famiglia del Comune di Mantova.
  • Per fare un libro. Un’iniziativa online dedicata ai più piccoli, realizzato dalla Biblioteca Baratta, che li vede nei panni di giovanissimi scrittori impegnati nella scrittura di un libro nel quale potranno raccontare le loro storie ed esperienze in un momento così particolare.

www.altramantova.it/it/cronacaam/mantova-am/24913-emergenza-coronavirus-dalla-spesa-a-domicilio-all-ostetrica-on-line-passando-per-il-supporto-psicologico-ecco-tutti-i-servizi-offerti-on-line-dal-comune-di-mantova.html

 

Rimini. Serve garantire la qualità della relazione.

     E’ una Pastorale davvero Familiare. (…)  Tra i tanti esperti messi in campo dall’ l’Ufficio di Pastorale Familiare della Diocesi di Rimini UPF, ne figurano anche diversi riminesi. Tra le briciole per la coppia e la famiglia, in quarantena, oltre alla psicologa Silvia Tagliavini e alla psicoterapeuta della famiglia e fondatrice del consultorio Ucipem di Rimini Vittoria Maioli Sanese, si segnala l’intervento della psicoterapeuta Cinzia Bertuccioli, membro dell’associazione APGXXIII e del poliambulatorio La Filigrana. “24 ore al giorno in contatto con gli altri. Serve garantire la qualità della relazione. Relazione con noi stessi, con l’altro, con gli altri e con l’Altro” è la riflessione proposta dalla Bertuccioli. (…)

Paolo Guiducci               www.ilponte.com/scrivi-alla-redazione

 

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

 

 

CORONAVIRUS

Genitori e figli nella coppia in crisi, ai tempi del covid-19

Decreto-Legge n. 18, 17 marzo 2020

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/03/17/20G00034/sg

Notevoli sono le ricadute che l’attuale situazione di emergenza sanitaria, e la conseguente normativa, porta anche sui rapporti dei genitori in crisi, con la prole e per la prole. Basti pensare, a questo riguardo: per un verso a come il distanziamento sociale possa incidere sull’attuazione della bigenitorialità, e, dunque, sulle frequentazioni tra figli minori e genitori non conviventi; per altro verso, a come la diminuzione, e, in certi casi, anche il completo azzeramento delle entrate, causato a molti dalla crisi in atto, possa incidere sulla possibilità di pagare esattamente i propri debiti, e, tra questi, anche l’assegno di mantenimento per la prole.

  1. Un’indicazione del Governo sugli spostamenti per incontrare i figli. Sul sito del Governo italiano, tra le “domande frequenti” sulle misure adottate con i vari Decreti #iorestoacasa, si può anche leggere: “sono separato/divorziato, posso andare a trovare i miei figli?”.  La risposta offerta a tale domanda è la seguente: “Sì, gli spostamenti per raggiungere i figli minorenni presso l’altro genitore o comunque presso l’affidatario, oppure per condurli presso di sé, sono consentiti, in ogni caso secondo le modalità previste dal giudice con i provvedimenti di separazione o divorzio”.  Con riferimento a questa risposta, tuttavia, occorre, immediatamente, portare due precisazioni.
  2. Incontri con i figli non conviventi e adempimento degli obblighi di mantenimento. La prima è che la giurisprudenza di merito ha già negato portata normativa a codeste indicazioni (espressamente, ad esempio, Trib. Bari, 26.3.2020: “il vademecum stilato dal Governo sul proprio sito…non ha natura di fonte normativa ma solo di indirizzo interpretativo”) e pare, più ancora, orientata piuttosto a sospendere visite e incontri “in presenza” tra minore e genitore non convivente, sostituendoli con modalità di videochiamata o similari (così, oltre alla decisione appena richiamata, ad es.: App. Bari, 26.3.2020; App. Lecce, 20.3.2020; App. Bari, 16.3.2020; Trib. Napoli, 26.3.2020; Trib. Matera, 12.3.2020).

La seconda è che, benché il Governo si sia soffermato solo sulla questione della legittimità dello spostamento del genitore non convivente per incontrare i figli, è evidente che, oltre a questa, altre e più rilevanti sono le questioni sollevate dall’emergenza sanitaria con riguardo ai rapporti tra genitori in crisi, con la prole, e in funzione della prole.

            Per limitare l’attenzione ai soli aspetti di diritto civile sostanziale, basti ricordare, ad esempio, per un verso, come, prima ancora della legittimità dello spostamento al fine di incontrare “in presenza” la prole, ci si debba porre la questione della legittimità stessa di proseguire tali incontri, per altro verso, come il completo “fermo” economico, che ha riguardato molti settori in conseguenza delle misure sanitarie in atto, possa, presumibilmente, rendere, per molti genitori debitori del contributo periodico al mantenimento della prole, molto più complesso l’adempimento.

      3. La sospensione degli incontri “in presenza”. Partendo dagli incontri tra genitore non convivente e prole minorenne, come ho appena notato, pare che già la giurisprudenza, non tenendo in gran conto quell’irrituale simulacro di interpretazione autentica rappresentato delle risposte alle “domande frequenti” sul sito del Governo, non solo neghi la legittimità, alla luce della vigente normativa emergenziale, di spostamenti fuori dal comune di residenza, compiuti da genitori non conviventi, per incontrare “in presenza” la prole, ma neghi pure la legittimità stessa degli incontri “in presenza”, che, infatti, già in diversi casi sono stati dal giudice sospesi e sostituiti con video-chiamate o altre modalità di socialità “da remoto”. Questo – va evidenziato – è accaduto in più situazioni, tra loro diverse, che vanno dall’incontro tra minore e genitore non convivente da svolgersi con modalità protette (Trib. Matera, 12.3.2020), non più possibile per la sospensione dell’attività dei servizi territoriali (App. Lecce, 20.3.2020), all’incontro con entrambi i genitori decaduti dalla responsabilità genitoriale, delle figlie ricoverate in comunità (App. Bari, 16.3.2020), al, più consueto, incontro con il padre non convivente, in conseguenza della collocazione prevalente della prole presso la madre (App. Bari, 26.3.2020; Trib. Bari, 26.3.2020; Trib. Napoli, 26.3.2020).

Osservando questi provvedimenti, si rileva come, per lo più, l’argomento posto a motivazione di essi consista nella prevalenza dell’interesse della prole minorenne alla salute, su quello a una, per quanto possibile nella crisi, compiuta attuazione della bigenitorialità. Ciò, anche in considerazione della presumibile breve durata delle limitazioni emergenziali. Questo argomento, in verità, a me non pare del tutto convincente. Si potrebbe osservare, difatti, che, se la salute è salute non solo “fisica”, ma anche “psico-fisica”, pure la bigenitorialità correttamente mantenuta rientra nel diritto alla salute del minore. Si potrebbe osservare, altresì, che l’infezione da COVID-19 ha dato gravi conseguenze in bambini o adolescenti in una percentuale di casi talmente piccola da essere statisticamente pressoché irrilevante, e, quindi, non è la salute del figlio a essere posta gravemente a rischio dagli incontri con il genitore non convivente, quanto, piuttosto, quella dei parenti adulti del ramo genitoriale con cui il figlio convive (nonché quella dello stesso genitore non convivente, e dei parenti suoi).

            Ma, allora, il corretto argomento consisterebbe nell’affermare che il diritto alla salute dei genitori, e dei parenti dei genitori, prevale sul diritto alla bigenitorialità (forse anch’esso diritto alla salute, intesa come “psico-fisica”) del figlio. E questa affermazione a me pare almeno dubbia. Quello che solo in un paio di casi si ravvisa nelle ricordate motivazioni, e che, viceversa, a mio parere è probabilmente l’argomento determinante per intendere come sostanzialmente corrette le decisioni richiamate, consiste in ciò: il diritto del minore alla bigenitorialità deve cedere di fronte, non alla tutela della salute del minore stesso, né di quella dei suoi genitori o dei parenti, bensì alla tutela della salute pubblica. In altre e più semplici parole, è l’interesse generale al contenimento della pandemia, che giustifica il momentaneo e parziale sacrificio del diritto del minore alla bigenitorialità, e, di conseguenza, la sospensione delle frequentazioni con modalità “in presenza”, tra genitore non convivente e figlio minore, nonché gli spostamenti a ciò necessari, e non la tutela della salute fisica del figlio, o dei genitori o dei parenti di lui.

4. Contributo al mantenimento della prole e venir meno del reddito per l’obbligato. Venendo per concludere, agli obblighi di mantenimento gravanti sul genitore non convivente, e, in particolare all’obbligo, ancora oggi di gran lunga prevalente, a corrispondere un assegno mensile per contribuire a far fronte ai bisogni della prole, si può osservare che, per una parte statisticamente non esigua di questi debitori, il possibile azzeramento di ogni guadagno, potrà rendere a dir poco problematico l’adempimento. Certo, solo un ingenuo potrebbe ignorare l’eventualità che molti genitori non conviventi con i figli possano invocare la crisi economica conseguente all’emergenza sanitaria, per cercare di sfuggire pretestuosamente all’adempimento di obblighi sovente assai mal tollerati. Ma, a fronte di genitori che possano tentare di approfittarsi della situazione, sicuramente ve ne saranno altri per i quali la diminuzione, o anche l’azzeramento, del reddito sarà una verità, e vera sarà la, conseguente, estrema difficoltà, se non l’impossibilità, a corrispondere puntualmente l’assegno.

     Di certo, in prospettiva processuale, sappiamo che gli uffici giudiziari, ex articolo 83, decreto legge, 17.3.2020, n. 18, anche in questo periodo di emergenza non si fermano, per quanto attiene, tra l’altro, alle “cause relative ad alimenti o ad obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di  famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità” [ex articolo 83, 3° co., lett. a) decreto legge, 18/2020], il che, par di capire, è da riferirsi – al di là della grossolana approssimazione lessicale con cui si fanno coincidere gli obblighi alimentari con i, ben più ampli, obblighi assistenziali e di mantenimento – anche alle questioni concernenti la contribuzione al mantenimento della prole, sicché, le condizioni economiche improvvisamente peggiorate potranno giustificare, già ora, la trattazione di richieste di revisione dell’assegno.

Purtroppo, peraltro, talmente estesa potrebbe essere la crisi economica provocata dalla pandemia, qualora i provvedimenti emergenziali dovessero proseguire ancora per un tempo medio/lungo, che le richieste di revisione potrebbero divenire talmente copiose da mettere in seria crisi anche un sistema giudiziario che lavori a pieno regime, e, dunque, da non consentire una accettabile risposta da parte di un sistema giudiziario costretto a lavorare in condizioni di emergenza. Oltre a ciò, e tornando alla prospettiva di diritto sostanziale, poi, le estremamente peggiorate condizioni economiche potrebbero, oltre a condurre a richieste di revisione dell’ammontare dell’assegno per l’avvenire, pure incidere sulla qualificazione di già avvenuti mancati adempimenti di esso in termini che vanno nella direzione della impossibilità oggettiva, piuttosto che del mero inadempimento.

Certo, è ben noto come la nostra tradizione escluda che possano estinguersi per impossibilità oggettiva, in generale, le obbligazioni di dare cose di genere, e, in particolare, le obbligazioni pecuniarie. L’attuale situazione complessiva, tuttavia, appare talmente singolare, grave e senza precedenti, che potrebbe imporre un ripensamento anche di quell’insegnamento tradizionale appena richiamato, che si riassume nel noto brocardo [sintetica e antica massima giuridica, concisa e chiara, prevalentemente di tradizione latina] genus numquam perit [Il genere non perisce mai]                                                www.brocardi.it/G/genus-numquam-perit.html

            È lo stesso Decreto Legge, 17.3.2020, n. 18, all’articolo 91, del resto, a stabilire che “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore”. In verità, la rubrica di detto articolo 91 fa riferimento unicamente a “ritardi o inadempimenti contrattuali”, ma, come è noto, la rubrica non ha valore normativo, per cui ben si potrebbe leggere già in questo articolo un argomento su cui fondare la collocazione al di fuori dell’area dell’inadempimento della mancata corresponsione dell’assegno, laddove non sia dovuta a ragioni pretestuose, ma sia resa inevitabile dalla crisi economica generata dalla pandemia e dalle conseguenti misure normative di contenimento.

                                                              Filo diritto   1 aprile 2020

filodiritto.com/genitori-e-figli-nella-coppia-crisi-ai-tempi-del-covid-19?utm_source=newsletter-apr&utm_medium=email&utm_campaign=Newsletter

 

Separazioni consensuali e divorzi congiunti senza udienza nel periodo di emergenza

Separazione giudiziale: procedimento e impugnazioni. Il problema. L’art. 83, comma 3, lett. a) del D.l. n. 18/2020 prevede la possibilità di trattazione delle udienze, sino al 30 giugno 2020, in forma “scritta” mediante scambio di note tra i difensori e successiva decisione del Giudice fuori udienza oppure mediante udienza da remoto, tramite utilizzo delle piattaforme Teams o Skype. Il legislatore non ha però tenuto conto, nella fase emergenziale, di tre aspetti peculiari del diritto delle relazioni familiari:

  1. Le difficoltà di implementazione delle modalità “tecnologiche”;
  2. Il fatto che, anche con le udienze da remoto, si rischierebbe di non mantenere il distanziamento sociale;
  3. La teorica impossibilità per le separazioni consensuali e i divorzi congiunti di procedere con la trattazione scritta, in considerazione della previsione del tentativo di conciliazione presidenziale.

In questo quadro, il rischio è quello di paralizzare la formalizzazione degli accordi in materia familiare, sino al momento in cui le misure di distanziamento sociale non saranno eliminate in toto, con la conseguenza altresì di imporre, nel periodo emergenziale, forme di convivenza coatta tra persone che, oltretutto d’accordo tra di loro, vorrebbero separarsi o porre fine al vincolo matrimoniale.

            La soluzione adottata. Per ovviare al deficit normativo, il Presidente del Tribunale di Vercelli e il locale Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, hanno sottoscritto in data 31 marzo 2020 un protocollo per la gestione delle udienze di separazione consensuale, divorzio congiunto e ricorso congiunto ex art. 337-bis c.c., e per le eventuali modifiche congiunte di precedenti provvedimenti in cui le parti sono assistite da un difensore, che prevede la trattazione scritta con le seguenti modalità e passaggi:

a)       Deposito esclusivamente telematico dei ricorsi;

b)      Fissazione da parte del Giudice di udienza “virtuale”;

c)       Sottoscrizione di una dichiarazione delle parti con cui rinunziano a comparire, confermano integralmente le condizioni di cui al ricorso depositato e ribadiscono la loro volontà di non volersi riconciliare (per le separazioni e i divorzi);

d)      Trasmissione della dichiarazione di cui al punto c) dalle parti ai difensori a mezzo posta ordinaria o via mail (in questo caso la dichiarazione dovrà essere, una volta sottoscritta, scannerizzata);

e)      Trasmissione in via telematica dal difensore al Presidente o al Giudice delegato, della dichiarazione della parte, entro il giorno precedente l’udienza “virtuale”;

f)      Emissione, se sussistenti le altre condizioni di legge, del decreto di omologa (per le separazioni), della sentenza (per i divorzi congiunti) o del decreto collegiale (per le modifiche) previa trasmissione telematica al PM per il parere, ove richiesto.

A fondamento della soluzione adottata il Protocollo ribadisce che:

a) l’art. 708 c.p.c., dopo l’intervento della L. 80/2005, prevede un “mero tentativo di conciliazione…. Sostanzialmente rovesciando l’ottica, nel senso di attribuire la prevalenza della volontà delle parti rispetto al ruolo del presidente ai fini della prosecuzione della vita matrimoniale”;

b) nell’ottica di bilanciare il diritto alla salute e la tutela della famiglia, un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in vigore porta a ritenere che, in presenza di accordo “la comparizione delle parti non sia elemento indefettibile, allorché le parti siano assistite da difensore”.

            La soluzione adottata ha il doppio pregio di aver individuato una soluzione – sorretta da una logica costituzionalmente orientata ineccepibile-  che impedirà la completa paralisi del sistema della giustizia delle relazioni familiari, quanto meno nelle ipotesi di accordo

Alessandro Simeone   il familiarista  31 marzo 2020

http://ilfamiliarista.it/articoli/news/separazioni-consensuali-e-divorzi-congiunti-senza-udienza-nel-periodo-di-emergenza?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_01_Aprile_2020S

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DALLA NAVATA

Domenica delle palme – Anno A – 5 aprile 2020

Isaia                50, 04. Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.

Salmo              21, 20. Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Filippesi          02, 09. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

Matteo            26, 17. Il primo giorno degli Ázzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?».

                      

La Croce è l’innesto del cielo nella terra

Entriamo in un tempo che ci fa pensosi. «Tutti gli uomini vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono felicità e pane, salvezza dalla malattia, dalla morte. Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani… Uomini vanno a Dio nella sua sofferenza, lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane, consunto… I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (Dietrich Bonhoeffer).

Quella sofferenza che allora bruciò nella passione di Gesù e oggi brucia nelle croci innumerevoli dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Questa è la settimana della suprema vicinanza, vi entriamo come cercatori d’oro. Anche isolati nelle loro case, i cristiani stanno vicino, sono in empatia vicini alla sofferenza di quanti chiedono vita, salute, pane, conforto; vicini come rabdomanti di dolore e di amore. E dove respirano meglio è la croce. Guardo il Calvario, e vedo un uomo nudo, inchiodato e morente. Un uomo con le braccia spalancate in un abbraccio che non rinnegherà mai.

Un uomo che non chiede niente per sé, non grida da lì in cima: ricordatemi, cercate di capire, difendetemi… Si dimentica, e si preoccupa di chi gli muore a fianco: oggi, con me, sarai nel paradiso. Fondamento della fede cristiana è la cosa più bella del mondo: un atto di amore totale. La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia inchiodare, povero e nudo come un verme nel vento, per morire d’amore. La croce è l’innesto del cielo dentro la terra, il punto dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa.

E scrive il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, l’unico che non inganna. Da qui la commozione, lo stupore, l’innamoramento. Dopo duemila anni sentiamo anche noi come le donne, il centurione, il ladro, che nella Croce sta la suprema attrazione di Dio. So anche di non capire. Ma alla fine mi convince non un ragionamento sottile, ma l’eloquenza del cuore: «Perché la croce/ il sorriso/ la pena inumana?/ Credimi/ è così semplice/ quando si ama» (Jan Twardowski). Tu che hai salvato gli altri, salva te stesso, se sei il Cristo. Lo dicono tutti, capi, soldati, il ladro: fa’ un miracolo, conquistaci, imponiti, scendi dalla croce, e ti crederemo. Qualsiasi uomo, qualsiasi re, potendolo, scenderebbe dalla croce. Lui, no.

Solo un Dio non scende dal legno (Davide Maria Turoldo), il nostro Dio. Perché i suoi figli non ne possono scendere. Io cercatore trovo qui la vicinanza assoluta: di Dio a me, di me a Dio; sulla croce trema quella passione di comunione che ha la forza di far tremare la pietra di ogni nostro sepolcro e di farvi entrare il respiro del mattino.

E’ in questi giorni densi e sospesi che è nato il cristianesimo, scandalo e follia a causa della croce. Qui si concentra, e da qui si propaga tutta la fede dei cristiani.

Dalle Palme a Pasqua, un tempo più profondo, di respiro per l’anima, che cambia ritmo, scandisce i giorni, le ore, i gesti. In questo nostro strano tempo di giorni chiusi e solitari, la liturgia rallenta e, per la prima volta nella storia della Chiesa, si fa assente ai nostri occhi. Ma ugualmente ci accompagna con calma, quasi ora per ora, negli ultimi giorni di Gesù: dall’entrata in Gerusalemme, al tradimento di Pietro, fino alla corsa di Maria nel mattino di Pasqua, quando anche la pietra del sepolcro si veste di angeli e di luce, e tutta la paura vola via.

            Sono i giorni supremi, giorni dove trovare il senso del nostro destino. Il racconto della Passione mi sconvolge per la sua bellezza: un Dio che mi ha lavato i piedi e non gli è bastato, che ha dato il suo corpo da mangiare e non gli è bastato. L’ho visto piangere per me, lo vedo pendere nudo e disonorato e devo distogliere lo sguardo.

“Salvati! Scendi dalla croce, allora crederemo”. Qualsiasi uomo, qualsiasi re, potendolo, lo farebbe. Gesù, no. Solo un Dio speciale, non scende dal legno; solo Lui, il Dio di Gesù, che è differente: è quello che entra nella tragedia, nella morte umana perché là è risucchiato ogni suo figlio.

Perché Cristo è morto in croce? Non è stato Dio il mandante di quell’omicidio. Placare la giustizia col sangue? Non è da Dio. Quante volte ha gridato nei profeti: “Io non bevo il sangue degli agnelli, io non mangio la carne dei tori, amore io voglio e non sacrificio”.

Sale sulla croce per essere con me, e perché io possa essere con lui. L’amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere con l’amato, unito, stretto, incollato a lui, per poi trascinarlo fuori con sé nel mattino di Pasqua, lasciando le bende intrise di stupore.

Qualsiasi altro gesto sarebbe stato una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. Dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco e divampa.

La giustizia di Dio non è dare a ciascuno il suo, ma dare a ciascuno se stesso, la sua vita. Allora Incarnazione e Passione si abbracciano. Gesù entra nella morte come è entrato nella carne, per amore, per essere con noi e come noi. E la attraversa, raccogliendoci dalle lontananze più perdute, e a Pasqua ci prende dentro il vortice del suo risorgere, ci trascina in alto con sé.

La nostra fede poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d’amore.

Bello è chi ama, bellissimo chi ama fino all’estremo.

Incantati, poggiamo saldi su di un atto d’amore perfetto.

Ermes Ronchi, OSM

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-5-aprile-2020-p-ermes-ronchi

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DONNE NELLA (PER) LA CHIESA

La luce della Maddalena sulla Chiesa nascente

«Apostola degli apostoli» è il significativo titolo che i Padri della Chiesa diedero a Maria di Magdala, la donna che per prima vide Gesù risorto e che lui chiama per nome dandole una particolare vocazione. Molte riflessioni e pubblicazioni sono state fatte su questa donna identificata erroneamente con la prostituta di cui parla Luca nel suo Vangelo al capitolo 7 e con Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, della quale si parla nel Vangelo di Giovanni al capitolo 12.

Ora se ne occupa Adriana Valerio in Maria Maddalena. Equivoci, storie, rappresentazioni (Il Mulino, pagine 127). Valerio, già docente di Storia del cristianesimo e delle Chiese, presso l’Università Federico II di Napoli, teologa e studiosa della questione femminile, dirige la collana internazionale e interconfessionale “La Bibbia e le donne”. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo Le ribelli di Dio (Feltrinelli, 2014). Donne e Chiesa (Carocci, 2016), Il potere delle donne nella Chiesa (Laterza, 2017) e per il Mulino, Maria di Nazaret (2017).

In questo libro la teologa analizza «il lungo processo di alterazione e di ridimensionamento su questa donna, per troppo tempo vittima di un travisamento esegetico che la identifica con la prostituta del racconto di Luca e con la sorella di Lazzaro. Lo stesso cardinal Gianfranco Ravasi, in un suo articolo di diversi anni fa, la definì «Una santa calunniata e glorificata». Difatti si è cristallizzata nel pensiero comune lo stereotipo che questa donna era la prostituta redenta da Cristo. La sua è effettivamente una storia di equivoci, che si sono consumati a diversi livelli. «Che ne è oggi della discepola prediletta, della donna autorevole, dell’apostola che ha creduto e seguito Gesù?». Da questo interrogativo, la studiosa Valerio ci conduce con passione e competenza alla conoscenza e riscoperta della vera Maria Maddalena che sia la storia che le arti hanno contribuito a equivocare e manipolare. «Maria Maddalena – scrive Valerio nella premessa – è certamente dopo la madre di Gesù, il personaggio biblico più rappresentato nella letteratura e nell’arte».

Maria Maddalena è senza dubbio, insieme alla Madonna, la figura femminile più conosciuta dei Vangeli, e, soprattutto, è la discepola più importante, citata sempre per prima nella lista degli altri nomi femminili presenti negli elenchi forniti dagli evangelisti che la indicano come colei che, insieme «ad alcune donne» lo ha seguito nella predicazione itinerante. Come ricorda l’evangelista Luca, «Maria, chiamata la Magdalena» è stata «liberata da sette demoni», espressione che indica forse una guarigione, da un male profondo o da una grave condizione di sofferenza, che l’ha spinta a mettersi al seguito di Gesù attraverso nuove modalità relazionali che comportavano condivisione e partecipazione alla vita del gruppo dei discepoli. È lei, insieme ad altre donne che seguono il Maestro di Nazaret, a essere testimone della crocifissione di Gesù della sua sepoltura e, vicina al sepolcro vuoto, prima destinataria e annunciatrice della resurrezione.

Per questo nel vangelo di Giovanni la Maddalena rappresenta il tipo ideale di discepolo che vede, riconosce, testimonia e annuncia. Nell’incontro di fede con il Risorto, diventa «apostola di Cristo», perché da lui inviata ai discepoli, compreso Pietro, per annunciare l’evento pasquale del quale si fa testimone e garante.

Ci troviamo in presenza di un vero e proprio mandato apostolico che le fa guadagnare il titolo di «apostola degli apostoli», presso i Padri della Chiesa. Purtroppo la sua figura subisce un radicale ridimensionamento: Paolo non la menziona tra i testimoni della risurrezione; nelle comunità che si iniziano a strutturare la funzione di apostolo diventa prerogativa maschile, l’esercizio autorevole dell’impegno missionario non viene riconosciuto né alle donne né alla Maddalena, la cui identità prenderà altre caratteristiche più consone ai modelli femminili di subalternità da proporre alle credenti.

Forse proprio a motivo dell’esclusione crescente delle donne dalle funzioni di guida, molte donne trovano accoglienza in quelle comunità che hanno recepito l’importanza della figura della Maddalena come destinataria della rivelazione del Cristo Risorto. Infatti, in un quadro di esperienze divergenti, quanto mai variegate e complesse, a partire dal II secolo si diffonde il movimento gnostico al quale molti gruppi cristiani si collegano desiderosi di percorrere le vie della conoscenza (gnosis) e della sapienza (sophia) e le donne sono le indiscusse protagoniste di queste comunità che hanno conservato una memoria di Maria Maddalena.

La sua figura presente negli scritti gnostici – molti dei quali raccolgono tradizioni risalenti all’epoca dei testi canonici del Nuovo Testamento – emerge come simbolo autorevole di conoscenza, nella misura in cui lei, «discepola» di Gesù, ne rivela la Sapienza nascosta. Lei è in grado di vedere la Luce e di accoglierla, al contrario degli uomini che rimangono nelle tenebre ed è la sua capacità di ascolto e di comprensione che la fa essere leader e autorità spirituale.

La lettura di questa ultima fatica della storica e teologa Adriana Valerio, conduce a una conoscenza più profonda e al superamento di ogni equivoco di Maria Maddalena «a cui si deve ridare volto e voce», è la donna a cui Gesù risorto si rivolge con le parole: “Va’ dai miei fratelli e dì loro…” (Gv 20, 17), è colei che annuncia l’Evangelo».

Fernanda Di Monte    Avvenire         31 marzo 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202003/200331dimonte.pdf

 

Pareggiare i conti con le donne

«Dobbiamo rifarci a quando avevo 16 anni: ero al ginnasio, mio fratello al primo corso dell’università – leggiamo nelle prime pagine di La sonata a Kreutzler di Tolstoj –. Non conoscevo le donne, ma come tutti gli sciagurati ragazzi del nostro ambiente non ero più innocente: già da un anno ero stato indotto al male da altri ragazzi. I sollievi della solitudine mi erano disgustosi. Ed ecco che un compagno di mio fratello, di quelli che si usa chiamare simpatici ragazzi che equivale a dire fieri mascalzoni ci insegnò a bere, a giocare a carte e una sera, dopo una sbornia, ci convinse a seguirlo in una certa casa. Vi andammo. Anche mio fratello, come me, cadde quella notte. E io, ragazzo a 16 anni, insozzai me stesso e contribuii a insozzare una donna senza rendermi conto di quel che facevo, poiché nessuno dei più anziani mi aveva mai spiegato che ciò che facevo era male… In verità lo si potrebbe trovare nei precetti del Vangelo, ma si sa che quelli s’imparano solo per quel tanto che serve a rispondere all’esame del sacerdote, che in pratica servono ancor meno della regola sull’uso dell’ut nelle proposizioni finali… Si trattava di imprese virili e perciò piene di merito… anche i dottori sostengono che un po’ di licenza torna utile alla salute».

È il racconto tormentato di un omicida della moglie, un lungo flash-back di una vicenda che sfocia nel femminicidio. Un gesto che si incardina negli intimi meandri di una relazione matrimoniale, marchiata dall’ossessione dell’uomo per la figura femminile, in una torsione esistenziale dove i toni esasperati dell’invenzione letteraria sono però quelli verosimili di tanti casi reali. E chi conosce la biografia dello scrittore sa che è proprio dalla propria vita che egli ha tratto ispirazione e materia da trasfigurare in romanzo.

Pochi scrittori hanno saputo scandagliare l’animo maschile avviluppato nelle spire dell’attrazione/repulsione per la donna con altrettanta meticolosità da entomologo. Dunque il protagonista, Pozdnysev, racconta al suo interlocutore disorientato la storia completa del suo crimine. Nell’assunzione della colpa, si squaderna progressivamente un quadro ancor più feroce: emerge una colpa originaria, riconducibile a una cultura, religiosa e civile, che inculca (negli uomini soprattutto, ma le donne, seppur dipendenti, ne sarebbero complici) e legittima famelici “eccessi bestiali” nella sfera sessuale. «La passione carnale, in qualsiasi modo si voglia presentarla, è un male», sostiene il protagonista. Ma ciò su cui qui ci concentriamo è però l’intreccio tra fede e virilismo. Nel brano che abbiamo letto c’è una frase assai pungente riguardo al fatto che quei ragazzi – dediti al vizio cioè al consumo del corpo femminile – fossero pur sempre dei cristiani: [I precetti del Vangelo] s’imparano solo per quel tanto che serve a rispondere all’esame del sacerdote, che in pratica servono ancor meno della regola sull’uso dell’ut nelle proposizioni finali». Nel raffinato sarcasmo, la lucida critica è folgorante!

Nei secoli e nelle differenti aree geografiche, i profili delle Chiese cristiane sono apparsi assai diversificati. Ma, per lo più (con la esclusione – solo nei periodi recenti – di alcune Chiese evangeliche) essi hanno ricalcato una struttura patriarcale della società, vista e vissuta non in contraddizione con la fede, ma coerente col disegno divino. Questo è il punto decisivo. Le Chiese dei primi secoli, pur originatesi dall’insegnamento di un maestro che aveva adottato nel suo stile di vita uno svuotamento dello status privilegiato di maschio, cedono alle lusinghe degli assetti patriarcali.

Riporto qui solo tre esempi assai significativi: i primi due sono tratti dal canone stesso. Testimoniano che fin dall’inizio lo status di primazia maschile viene riaffermato, in discontinuità con il Maestro.

  1. «L’uomo non deve coprirsi il capo perché è immagine e gloria di Dio, mentre la donna è gloria dell’uomo. Infatti l’uomo non ebbe origine dalla donna, ma la donna dall’uomo, né fu creato l’uomo per la donna ma la donna per l’uomo… Tuttavia, né l’uomo può fare senza la donna, né la donna senza l’uomo, nel Signore; poiché come la donna fu tratta dall’uomo, così l’uomo nasce dalla donna… » (1Cor 11,7-12).
  2. «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia» (1Tim 2,11-15).
  3. Il terzo è tratto da un caposaldo della teologia cristiana, e cattolica innanzi tutto: san Tommaso, che ha costituto per secoli per il magistero romano un fondamento. Riguardo la natura femminile, egli scrisse: «Rispetto alla natura particolare, la femmina è un essere difettoso e manchevole. […] Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un seme prefetto simile a sé di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da disposizione della materia» (San Tommaso, Summa Theologica I,92, I, ad I).

Insieme a tanti altri di cui la teologia femminista ha dato conto, tali brani sono le pietre miliari di un impianto millenario che, sia nella teologia sia nella ecclesiologia, e giù giù sino alla pastorale/catechesi quotidiana, ha sorretto l’economia simbolica della relazione maschio/femmina nella prospettiva cristiana, e conseguentemente della istituzione familiare, uno dei cardini del fortilizio dottrinale della religione cristiana.

Un clero – esclusivamente maschile – formato all’ammaestramento della supremazia maschile (naturaliter secondo la “legge di natura”) perché mai avrebbe dovuto insegnare a quei ragazzi sciagurati che le donne tutte, anche chi è stata catturata dalla prostituzione, sono creature? Esso aveva appreso della tentacolare seduzione femminile, dell’invito al peccato che la donna esercita; era stato sottoposto alle istruzioni ricevute: la donna è un essere votato alla “maledizione” (Eva docet), che può riscattarsi solo prestandosi come contenitore al seme/nome dell’uomo e partorendogli figli (mi limito a ciò, ma la lista sarebbe lunga). Di tali enunciati, obliati nel tempo ma mai sconfessati, quindi sempre appartenenti al corpus formale della dottrina, perché non ci si ricorda? Perché non li assume responsabilmente come propria tradizione, facendoci seriamente i conti?

Ma torniamo a un enunciato precedente: perché l’impianto patriarcale non viene percepito in contraddizione con le fedi? Azzardo le mie ipotesi. Il nucleo centrale che impedisce una visione di Alleanza è la questione del pareggiare i conti con le donne. Cosa voglio dire? In un vero sussulto, illuminato e illuminante, qualche anno fa Sergio Quinzio recriminava, simpaticamente, pressappoco così: «Ma insomma, donne, perché volete il sacerdozio: lasciateci almeno quello! Voi avete già questo rapporto misterioso con un irraggiungibile, inarrivabile; lasciate a noi la gestione del sacro esterno visto che voi avete già la gestione del sacro interno!» (Marinella Perroni, Tradizioni e tenerezza, Intervista a cura di Patrizia Morgante, Mosaico di pace, 2013, aprile, dossier). Una vera perla! Una fecondissima intuizione che avrebbe potuto contribuire a rischiarare il nodo opaco delle dinamiche profonde tra i sessi/generi e il religioso. Con icastica ironia, Quinzio ci consegna una chiave ermeneutica preziosissima che potrebbe portare alla luce ciò che invece rimane destinato ad un’assenza di rappresentazioni. L’innominata angoscia maschile di fronte al ruolo di comprimario giocato nella generatività e un inconfessabile desiderio di rivalsa esercitato proprio nell’universo del religioso.

Secondo l’antropologa e teologa M. C. Jacobelli, la ragione prima dello sbarramento delle donne a tale campo è costituito dalla potenza originaria generatrice femminile, incarnata dal mito della Grande Madre. Nelle culture arcaiche la capacità generativa delle donne era segno di potenza arcana, venerata e temuta. La potenza femminile risultava debordante e generava sospetto, in quanto sfuggente al controllo della mente maschile. Con il progredire della civilizzazione, alle donne doveva essere interdetto l’accesso alle istituzioni: intollerabile era quel “surplus” di potenza nella eventualità che si fossero accomunate le due sfere.

A questo riguardo, la teologa Maria Cristina Bartolomei, ha scritto: «Il vero oggetto del contendere è invece chi insegna e chi guida. Chi è a capo, chi rappresenta il potere, chi ammette o esclude. Questo è il vero ruolo che gli uomini rivendicano per sé, mossi dall’ancestrale angoscia di non averne altrimenti un altro specifico e proprio, garantito, da contrapporre alla stupefacente potenza naturale della donna di generare bambini. Sulla rivendicazione del potere degli uomini da contrapporre alla potenza naturale femminile è precisamente fondato l’ordine patriarcale del mondo, sino a ieri inconcusso e che da soli pochi decenni e nelle società avanzate è stato scardinato. Che la Chiesa ne abbia subito l’influsso è una ovvietà» (Donne presbitere: sono proprio ragioni quelle del no, in Protestantesimo, primo trimestre 1995).

Quanto la salace battuta – o giocosa arringa difensiva – di Sergio Quinzio colga nel segno nel lasciarsi sfuggire il sintomo è palese. Ciò non toglie che la prospettiva sia assolutamente maschile, che trasudi, ahimè, di vittimismo e revanscismo («siamo svantaggiati, per questo siamo autorizzati ad una “(La) difesa della razza” che ci salvaguardi, anche se ai danni di altri/e; ma ci autoilludiamo di perseguire invece quel giusto ordine che proprio noi abbiamo il compito di edificare»). E ciò non toglie che i “rimedi” che gli uomini hanno messo in campo per compensare quello svantaggio abbiano prodotto una superfetazione della loro egemonia e nel contempo una infantilizzazione delle loro anime. L’è peso el tacon del buso (peggio il rattoppo del buco) dice un saggio proverbio padovano!

Paola Cavallari*         “Adista” – Documenti –28 marzo 2020

  • responsabile dell’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne; è socia del

Coordinamento Teologhe Italiane e redattrice di Esodo.                                       www.adista.it/articolo/63131

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Coronavirus, De Palo: “basta decreti-toppa. Subito in decreto l’assegno straordinario per i figli”

        “In questa drammatica emergenza, che secondo il Codacons è già costata quasi 500 euro a famiglia, si continua a ragionare del destino del Paese per categorie del lavoro: dipendenti, atipici, disoccupati, imprenditori. Bisognerebbe piuttosto dare risposte serie alle famiglie, partendo dalla composizione familiare.

            Da essa dipende oggi la povertà in Italia, più che dalla dichiarazione dei redditi. Le misure messe in campo, però, non considerano minimamente questo elemento, né l’eventuale presenza di disabili. Finora, le famiglie hanno fatto sentire educatamente la loro voce, ma ora iniziano a essere stanche di doversi caricare sulle spalle le insufficienze del Paese senza ricevere risposte semplici, universali e concrete alle complicazioni attuali: fare da baby-sitter, da insegnanti di sostegno, da tecnici informatici, occuparsi a distanza di nonni anziani, prendersi cura di parenti fragili, fare la spesa, rimanendo a casa e continuando comunque, per chi può, a lavorare. Quanto potremo reggere?

            Ogni giorno ne leggiamo una nuova: l’ultima si chiama reddito di emergenza. Noè costruiva l’Arca quando ancora c’era il sole. Da noi quando era necessario e semplice, nessun esecutivo ha mai messo le famiglie in condizione di svolgere la loro funzione generativa per la società. Ora paghiamo questo ritardo. Adesso che diluvia, non riusciamo più a vedere il valore insostituibile delle famiglie. Sentiamo dire che servono strumenti nuovi: sì, occorrono strumenti inediti per sostenere le famiglie con i loro figli e non far implodere il Paese.

            Charles De Gaulle, in Francia, fece il quoziente familiare nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale: in quell’atto c’era coraggio e visione. Chiediamo a Conte di concretizzare con il suo Governo l’idea di un assegno straordinario per ogni figlio fino ai 18 anni, indipendente da ISEE e reddito. Una misura molto più utile di tanti decreti-toppa per i buchi dei decreti precedenti”: così il presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, Gigi De Palo.

Comunicato stampa   4 aprile 2020

www.forumfamiglie.org/category/ultima-ora

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Benedetta memoria che rigenera speranza

Dio ha dato alla speranza un fratello potente: la memoria. È una frase di Michelangelo. E grazie a quel “fratello” venerdì 27 marzo 2020 la speranza ha trovato voce nella piazza San Pietro dove il cielo plumbeo si fondeva col pavimento grigio del selciato, originando un blu quasi chimico, distopico, apocalittico. Le braccia del colonnato, splendide simmetrie, superbe forme, private dell’abbraccio delle folle. Come fosse il cielo sopra il Golgota, le braccia tese del crocifisso colmate di abbandono. La verità era tradotta in arte, tradiva un’insostenibile bellezza. Suo malgrado?

Immanuel Kant, l’avesse vista, ne avrebbe fatto un esempio del sublime. La via estetica a Dio. L’unica capace di dare agli umani l’anima delle cose, ben oltre la concretezza logica dei numeri, anche quelli della pandemia che, poco prima in tivù, erano stati elencati. E non per nulla il filosofo di Könisberg citava la tempesta come l’esempio più vivo del sublime, quella che si scatena sul mare e fa tremare il cuore degli umani.

Una memoria che si lega al Vangelo che veniva proclamato a San Pietro, dove gli apostoli si trovano sulla barca in balìa delle onde e, spaventati, svegliano il Figlio di Dio che dorme. Dio si rivela nella tempesta, via del sublime. La terza Critica del padre dell’illuminismo tedesco, si incontra con la tradizione evangelica del primo secolo dopo Cristo su un terreno imprevisto: la tempesta di vuoto, terribile e stupendo, della piazza San Pietro, nel vespro del venerdì della quarta settimana di Quaresima. Tremendum et fascinans, ferita sacra.

Il fuoco nel deserto. Mosè era un pastore e conviveva con la solitudine. Finché, un giorno su un monte di Madian, non si accese una fiamma. Allora Mosè vi salì, vi camminò intorno, vi girò di qua e di là, per ascoltare la voce che usciva dal cespuglio. Essa gli disse di quanto grande fosse il luogo in cui lui si trovava, abbatté le pareti e demolì i confini. Gli parlò di fratelli schiavi, la cui stirpe rischiava lo sterminio; di ebrei malati di lebbra, ghettizzati nei loro paesi, che avevano bisogno di un medico. La voce dal roveto «che bruciava senza consumarsi», costrinse il genero di Ietro a rinunciare al suo privato benessere, per ritrovarsi in mezzo al mondo, doverne prendere su di sé la pena e la cura. Anche Mosè pensava: «di vivere sano in un mondo malato», si era ritagliato un illusorio angoletto di pace.

Ma adesso non gli sarà più possibile continuare a farlo. Benedetta memoria nella Preghiera di venerdì scorso: le prime immagini di Francesco che risale la piazza verso la basilica con passo affannato, che avremmo immaginato appoggiato a un bastone, evocavano il ricordo di Mosè che risaliva il Sinai, vecchio anche lui – aveva ottant’anni, qualche anno meno di Francesco. Il passo insicuro, lo sguardo smarrito, illuminato solo dai bracieri e accompagnato dal cerimoniere – come il fratello Aronne… – la voce commossa su quel sagrato vuoto e, paradossalmente, gremito di un popolo invisibile e immenso. Come quel milione e più di ebrei che stava alle falde del Sinai, separato soltanto da una fascia di nebbia. Mentre Mosè si intratteneva – inquieto e gravato – col fuoco di Dio.

Parole dal Silenzio. Fiammate di Parole che risuonano dal passo del Vangelo e manifestano il terrore dei vivi dinanzi alla morte. Dalla paura al grido, alla preghiera: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». E anche un’implicita, malcelata querela: «Signore, dormi?».

Un altro gesto di fraterna memoria arriva dalle Scritture antiche. Dal profeta Elia che rifece il cammino di Mosè e salì anch’egli sull’Oreb, nella speranza di “origliare” ancora qualcosa dal monte di Dio. «Sono rimasto solo» egli disse. Si alzò il vento, fu la tempesta, scosse il terremoto, ma Dio non era né nel vento né nel terremoto e neppure nel fuoco… ma nel «sussurro di un silenzio assoluto». «Rabbrividente» traduceva padre Turoldo. Lo stesso che abbiamo sentito nell’aria, nel lieve strofinìo della pioggia, nell’eco meticcio di campane e di sirene, davanti al Santissimo esposto in un’infinita basilica deserta, in quella sera di Roma e del mondo. Francesco sull’Oreb, la Chiesa sull’Oreb, insieme a lui. Con l’anima tesa al sospiro dei passi di Dio.

Nuda e scoperta- Vuota di tutto ciò che gli umani possano fabbricare per credere di avere Dio dalla loro parte, spoglia di idolatrie e ideologie o altro dispositivo di propaganda, la Chiesa rimane la gola di un grido, fortissimo e puro, quello dei discepoli che invocano: «Signore salvaci!».

La vera confessione di fede, la recita del Credo. Mai liturgia d’Amore e conversione fu più autentica. Denuncia le scelte sciagurate, ha la sapienza di riconoscere limiti e follie, così da giungere ad ammettere che «nessuno può salvarsi da solo». Stupenda castità, dove la fede si fa mite diacona di vita e la Chiesa di Roma è «nuda e scoperta» proprio come San Pietro nella sera di venerdì 27 marzo, come il profeta Ezechiele descrive la Gerusalemme vergine sposa di Dio.

Condizione di grazia perché l’Amato, l’Amico, l’Alleato vi getti ancora il suo mantello a proteggerla. Perché, appunto, «nessuno si salverà da solo».

In tutta la terra. Un messaggio prezioso, potente, vitale che ha parlato al cuore e alla mente di tanti: cristiani, credenti e non credenti. Vicini e lontani. Economisti, storici, biologi, scienziati e politici. E, come è accaduto con Kant, altri incroci, altre sorprendenti consonanze riecheggiano dai giornali e dal web. «Se scegliamo la solidarietà globale, sarà una vittoria non solo contro il coronavirus, ma contro tutte le future epidemie e crisi che potrebbero assalire l’umanità nel Ventunesimo secolo», ha scritto il grande storico israeliano, Yubal Noah Harari.

Il vuoto della Piazza è pronto a un nuovo abbraccio dove i muri che sino a ieri dividevano l’umanità saranno forse abbattuti. Un brivido di speranza che attraversa la terra.

Rosanna Virgili                      “Avvenire”  01 aprile 2020

www.avvenire.it/opinioni/pagine/benedetta-memoria-che-rigenera-speranza

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

LITURGIA

A proposito di un infortunio episcopale “de eucharistia”

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_it.html

Di fronte al testo apparso il 31 marzo 2020 sul sito della Conferenza Episcopale Umbra (CEU), intitolato “Alla pandemia del Coronavirus sostituiamo la pandemia della preghiera e della tenerezza” (già il titolo suona un po’ troppo retorico…) mi sono chiesto: che cosa avrebbe detto Silvano Maggiani osm liturgista (18 gennaio 2020), con la sua saggezza, di fronte a un testo tanto disastroso?  (

www.chiesainumbria.it/vescovi-umbri-alla-pandemia-del-coronavirus-sostituiamo-la-pandemia-della-preghiera-e-della-tenerezza

Sono convinto che avrebbe sorriso e poi avrebbe iniziato a smontare, punto per punto, la paginetta che campeggia sotto la immagine dei vescovi radunati in assemblea. Ecco più o meno quello che sarebbe stato il suo discorso al Monsignore che ha steso il documento. I contenuti sono i suoi, anche se lo stile, inevitabilmente, è il mio.

Senza tenerezza e senza teologia- Caro Mons. XXX, ——— Nel testo della CEU avete infilato almeno tre grandi svarioni teologici, di una gravità e insieme di una ingenuità davvero sconsolante. Chi ha scritto il testo sembra che abbia sommariamente dato una sbirciata al catechismo, leggendo una riga e saltandone tre, e poi abbia maturato le convinzioni stravolte che prendono forma in questo discorso. Ti propongo di prendere in ordine le tre frasi più gravi. Vedrai quanto è facile smontarle secondo la teologia più classica:

a) 1. La riforma del Concilio Vaticano II auspica che «i fedeli prendano parte alla celebrazione consapevolmente, attivamente e fruttuosamente» (Sacrosanctum Concilium 11), e raccomanda ai battezzati la comunione al sacrificio eucaristico – alle condizioni richieste – come partecipazione più perfetta al sacrificio stesso (cf SC 55). Le indicazioni conciliari non significano tuttavia che la validità della celebrazione eucaristica dipenda o sia condizionata dalla presenza del popolo. La “materia” imprescindibile della Messa sono il pane e il vino, così come la “forma” è data dall’atto celebrativo presieduto dal sacerdote. Quando un presbitero celebra l’Eucaristia «con l’intenzione di fare ciò che vuole fare la Chiesa», quella Messa attualizza oggettivamente il mistero pasquale di Cristo. È dottrina di fede infatti che nella memoria eucaristica «è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offerse una volta in modo cruento sull’altare della croce… Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi» (Denzinger-Schönmetzer 1743). Oltretutto, se la “materia” fosse l’assemblea si dovrebbe pensare paradossalmente ad una sua trasformazione o addirittura ad una sua “transustanziazione”, concetto del tutto estraneo alla tradizione cattolica e alla teologia dell’Eucaristia.”

            Qui non si legge il Concilio, ma si proietta sul Vaticano II una versione ridotta e distorta della teologia scolastica. Si usano i concetti di materia e forma come nessuno scolastico ha mai fatto. Si cita il Concilio di Trento su un tema (il sacrificio) che non c’entra con l’argomento (partecipazione del popolo) e si finisce mostrando di ignorare gravemente ciò che tutta intera la tradizione ha sempre detto: ossia che l’effetto di grazia del sacramento è proprio la “comunione ecclesiale”. Il ridicolo riferimento alla transustanziazione, che non coglie nemmeno lontanamente che da Agostino, a Trento al Vaticano II, con linguaggi diversi, il vero “fine” della eucaristia non sta nell’effetto “intermedio” (presenza sotto le specie) ma nel dono di grazia della “comunione ecclesiale”. Agostino, Innocenzo III, Vaticano II, ma prima di tutte le Preghiere Eucaristiche di tutti i tempi, con linguaggi diversi, dicono anzitutto questo. Come fa un Vescovo, una Conferenza episcopale, a negarlo? Solo per giustificare le “celebrazioni senza popolo in condizione di pandemia”? Sarebbe questa la tenerezza?

b) Veniamo al secondo brano: “2. L’assemblea partecipa alla celebrazione ma non è la protagonista costitutiva dell’atto sacramentale, come lo è invece il ministro ordinato, presbitero o vescovo. Egli stesso d’altronde non è ministro di se stesso, ma solo di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa. La presidenza eucaristica infatti, come ha sempre insegnato il Magistero, è un agire “nella persona stessa di Cristo” (in persona Christi), tanto è vero che il ministro in quel momento non si esprime in terza persona, bensì in prima: «Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue». È chiaro che da un punto di vista pastorale la presenza del popolo è quanto mai auspicabile, così come è raccomandato «che i fedeli non assistano come estrani o muti spettatori e vi partecipino anzi consapevolmente, piamente e attivamente» (SC 48). Teologicamente, tuttavia, l’attuazione oggettiva della pasqua di Cristo nell’azione eucaristica della Chiesa non dipende dalla loro presenza. Una cosa è la validità oggettiva, altra la fecondità o la fruttuosità soggettiva. Il celebrante e l’assemblea dei fedeli svolgono un ruolo di rappresentanza visibile, ma il ministro originario dell’azione eucaristica è lo stesso Signore Gesù, eternamente glorificato presso il Padre, Lui che «possiede un sacerdozio che non tramonta» (Eb 7, 24; cf 7, 25-26; 8, 1-2; 9, 12. 24). Lo stesso vale per la presenza eucaristica di Cristo nei segni sacramentali del pane e del vino.”

            I concetti che si impiegano in questo secondo paragrafo sono tutti presi, pari pari, da Mediator Dei (Pio XII 20 novembre 1947). Oh, se Pius Parsch leggerà da lassù queste righe! Lui, che già nel 1947, con forza di profeta, aveva apertamente criticato il testo di Pio XII, perché aveva il concetto “vecchio” di partecipazione. Con queste categorie si resta alla divisione tra clero e popolo nell’atto di culto: oh, se Rosmini leggerà queste poche righe, quanto se ne addolorerà. Sono passati quasi 200 anni e i Vescovi non hanno ancora capito! Questa divisione tra “validità oggettiva” e “fruttuosità” è la degenerazione di categorie classiche, che oggi funziona come sordità alla logica del Vaticano II, che vuole tutti partecipare “per ritus et preces”. Una teologia che pensa l’attuazione del mistero “incondizionata” rispetto alla presenza del popolo non merita di essere chiamata teologia. Ed è una teologia che non riesce a giustificare la Riforma Liturgica, perché la grande riforma ha avuto nel superamento di queste ideucce clericali la sua vera ragion d’essere. Per favore, non si usi l’avverbio “teologicamente”, non si usi la locuzione “come ha sempre insegnato il Magistero” per coprire le proprie lacune. Il magistero ha insegnato, ma tu, Monsignore, non hai studiato e prendi fischi per fiaschi. Prima studia uno briciolo di buona teologia, e poi parla come cristiano. Se poi vuoi parlare con autorità, ma mostri di non conoscere la tradizione, la penitenza dovrà essere lunga, e dura. E non te la dovrai cavare con una “indulgenza plenaria”.

c) Ed ecco il terzo gioiello: “La presenza del popolo di Dio non è accessoria e il sacerdozio battesimale è inseparabilmente unito a quello ministeriale (cf LG 10). La Messa però non dipende dal sacerdozio battesimale. I fedeli «compiono la propria parte nell’azione liturgica» (LG 11), ma non sono loro che attuano e rendono presente il gesto di Cristo che si offre al Padre ogni volta che, obbedendo al suo comando, il ministro – a nome della Chiesa e in persona Christi – fa memoria della sua pasqua. (A questo proposito, è quanto mai urgente una appropriata catechesi che educhi la comunità alla piena partecipazione all’azione eucaristica; sarà anzi indispensabile operare in questa linea appena si possa tornare alla normalità).”  Qui la logica è messa in discussione. Se la presenza del popolo “non è accessoria”, ma la messa “non dipende” dal sacerdozio battesimale, si crea un dissidio insuperabile, che nel linguaggio senza rigore dell’estensore non crea problemi. Ragioniamo: le macchine hanno accessori. Ad esempio gli alzacristalli elettrici. Ma la macchina, come tale, non dipende dall’accessorio. Tutto bene. Ma se diciamo che il freno non è un accessorio, come possiamo dire che la macchina non dipende dal freno? Lo vedi, Monsignore, che il tuo linguaggio retorico e vuoto diventa imbarazzante? Lo vedi che non hai detto niente di solido. O, meglio, hai detto solo che, nonostante il Concilio Vaticano II, tu vuoi ridurre il popolo ad un accessorio e pretendi di farlo dire all’intera tradizione, senza sapere quello che dice! Allora potremmo dire così, per farti capire. La macchina può avere accessori. Chi la guida è Cristo, il volante è colui che la presiede, ma senza acceleratore, senza freno e senza frizione, la macchina non si dà, non va, non c’è.

La ciliegina sulla torta però è questa: in una parentesi finale tu ti stracci le vesti per inventare una catechesi a tappeto, con cui educare la comunità alla partecipazione. Questa poi è la più grossa! Con quello che hai scritto, tu vorresti “educare”? Stai fermo. Non fare niente. Prima fatti educare tu dalla tradizione, impara che cosa è davvero partecipare, mettiti nella posizione di chi apprende. E’ proprio il colmo, ma è sempre così. Proprio tu, che dimostri di non sapere l’ABC della tradizione eucaristica, che dimostri di non capire la importanza della partecipazione, ti metti a pontificare sulla necessaria educazione del popolo: sai solo mescolare paternalismo clericale e clericalismo paternalistico. Credi di vedere e sei cieco.

            Dovevo essere sincero. Questa non è tenerezza, è solo durezza e rigidità. Così non si può andare avanti. Sentir dire da vescovi queste bestialità sulla eucaristia è intollerabile. L’affare è serio.

Andrea Grillo blog: Come se non       1 aprile 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/che-cosa-avrebbe-detto-padre-silvano-a-proposito-di-un-infortunio-episcopale-de-eucharistia/

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

OMOFILIA

La Cassazione: non ci sono due “madri”

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza 7668, 3 aprile 2020

www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/7668_04_2020_no-index.pdf

Solo una persona per la legge italiana «ha il diritto di essere menzionata come madre nell’atto di nascita, in virtù di un rapporto di filiazione che presuppone il legame biologico e/o genetico con il nato». L’ha stabilito la Cassazione che ha respinto il ricorso di una coppia di donne omosessuali, unite civilmente. La partner della madre biologica, il cui figlio è nato in Italia ma è stato concepito all’estero con la fecondazione eterologa, aveva chiesto all’Ufficiale di Stato civile di essere riconosciuta anche lei come genitore. La richiesta era stata inizialmente respinta dal Comune di Treviso.

            E poi confermata dal Tribunale di Venezia. Ieri la Cassazione ha spiegato che per la nostra giurisdizione, non ci sono possono essere “due mamme”. Secondo i giudici – presidente Giancola, estensore Lamorgese – il ricorso va rigettato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che, nel giudicare non incostituzionale il divieto di accesso alla fecondazione assistita per coppie dello stesso sesso, ha sostenuto che alla radice del divieto si colloca «il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre », escludendo che la procreazione medicalmente assistita possa rappresentare «una modalità di realizzazione del desiderio di genitorialità alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati».

            Questa norma, aggiungono i supremi giudici, «è attualmente vigente all’interno dell’ordinamento italiano e, dunque, applicabile agli atti di nascita formati o da formare in Italia, a prescindere dal luogo dove sia avvenuta la pratica fecondativa». Deluse le due donne, difese dall’avvocato Alessandro Schuster, da tempo impegnato per la tutela delle coppie “arcobaleno”, che ora annunciano il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. «Lo Stato pensa davvero che nostra figlia sia meglio tutelata con un solo genitore invece di due? La Corte di Strasburgo ha già detto che un bambino cresce bene anche con due madri, come accertato dalla scienza medica e condiviso in molti Paesi». Valutazione in realtà tutt’altro che condivisa dalle ricerche più obiettive ed comunque meritevole di essere ancora approfondita.

            Dal punto di vista giuridico il punto sottolineato era già stato chiarito la scorsa settimana dalla Corte d’appello di Bologna, che si era pronunciata con un orientamento analogo alla Cassazione, sempre a proposito della richiesta di una coppia in cui la partner della madre biologica esigeva a sua volta la qualifica di madre dall’Ufficiale di Stato civile. I giudici bolognesi avevano spiegato che, secondo l’interpretazione ormai abituale dell’articolo 44 della legge 184/1983 – adozione in casi speciali – se non è possibile una “doppia maternità anagrafica”, è ormai consentita la strada della cosiddetta stepchild adoption, cioè l’adozione del partner del convivente. Interpretazione estensiva di una situazione che la legge sull’adozione non aveva certamente contemplato e che richiederebbe un intervento legislativo finalizzato a regolare una volte per tutte la questione spinosa della genitorialità omosessuale.

            Non possono essere solo i giudici – una volta accusati di ricorrere a sentenze creativa e un’altra lodati per ragioni opposte – ad intervenire in questa materia umanamente delicata e antropologicamente complessa, con interpretazioni troppo spesso dissonanti

Luciano Moia Avvenire                     4 aprile 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/la-cassazione-non-ci-sono-due-madri

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

SINODO PANAMAZZONICO

Il riformismo di Francesco guarda lontano. A proposito di Querida Amazonia

L’esortazione post-sinodale Querida Amazonia (12 febbraio 2020) di papa Francesco rappresenta un grande contributo magisteriale, di notevole importanza storica, per la limpida e non ovvia scelta indigenista, per il serio approfondimento sull’inculturazione, per le impegnative riflessioni ambientaliste con la denuncia di correlative ingiustizie e disuguaglianze sociali. Probabilmente siamo di fronte ad un «momento cruciale» del pontificato e della sua ansia per un profondo cambiamento-

Su un piano più particolare, strettamente pastorale ma di portata universale (l’ammissione al sacerdozio ministeriale di viri probati, anche se coniugati), l’esortazione ha suscitato molti commenti: possiamo dire che mediaticamente l’attenzione e le reazioni sono state concentrate su questo solo problema, tanto da amareggiare il papa.

Ma a questo punto l’ampiezza dei commenti su tale questione (e perfino la stessa conseguente frustrazione del papa) richiede un’analisi non superficiale. Possiamo, grosso modo, distinguere quattro tipologie di reazioni.

  1. I tradizionalisti, i più chiusi conservatori,
  2. Gli oppositori o nemici di papa Francesco hanno cantato vittoria, ascrivendosi il merito di aver scongiurato la svolta, anzi la catastrofe (cioè l’eccezione al celibato ecclesiastico), costretto Francesco alla capitolazione, fermato per sempre il suo riformismo.
  3. Le frange più “progressiste”, con disappunto, hanno parlato di un documento contraddittorio, deludente ed «escludente», condividendo anch’esse l’idea di uno stop alla riforma della Chiesa promossa da Bergoglio e imputando alla scomposta opposizione tradizionalista tale blocco del processo riformatore. Un certo numero di attenti e seri osservatori enfatizzando giustamente il largo respiro del documento pontificio, ha invece invitato ad evitare precipitosi giudizi, sottolineando come Bergoglio parli positivamente e con simpatia del documento finale del Sinodo e come, «ampliando orizzonti al di là dei conflitti», continui nella sua linea riformista di aprire processi (che richiedono tempo) piuttosto che di occupare spazi (nell’immediato della vita ecclesiale).
  4.  Infine commentatori “laici” hanno letto la decisione del papa nel segno prevalente di una sua chiusura, più o meno definitiva, che segna una svolta storica nel pontificato.

Ciascuno di questi quattro gruppi ha, al suo interno, posizioni più estremiste e altre più moderate: per esempio nel primo gruppo, che spesso indulge ai toni forti, polemici e apocalittici (e non manca chi attacca gli altri «conservatori» per aver accolto stupidamente Querida Amazonia come una vittoria), si segnala la riflessione “pacificatrice” del card. Gerhard Müller (che è stata apprezzata dal papa). Ma colpisce soprattutto il taglio drasticamente negativo, quasi liquidatorio o drammatico, di vari commentatori “laici”, che non si sentono parte in causa e che ambiscono ad una visione distaccata e oggettiva, “dall’esterno”.

Bastino tre esempi.

Per Francesco Peloso resta «ben saldo il magistero sociale ed ecologico, la visione di una globalizzazione alternativa, dal volto umano, rispetto a forme di economia predatoria e distruttiva, come stella polare dell’evangelizzazione, ma cade per ora il progetto di poggiare questo ambizioso impianto su un percorso di autoriforma profonda dell’istituzione. […] Il cammino di riforma portato avanti da Francesco ha subito dunque una netta battuta d’arresto che per altro va a colpire in modo specifico proprio la Chiesa latinoamericana, cioè la regione in cui il vescovo di Roma giocava in casa. L’ala tradizionalista registra da parte sua un primo significativo successo: l’operazione kamikaze del libro a difesa del celibato messa in campo dal cardinale Robert Sarahinsieme a Ratzinger e con l’aiuto del segretario del papa emerito, monsignor Georg Gaenswein, ha avuto un certo successo anche se probabilmente è stata accompagnata da un dissenso crescente di ambienti conservatori che ha avuto il suo peso.

Il papa, da parte sua, ha compiuto un passo indietro di metodo di non poco conto: disattendere le deliberazioni del sinodo va, di fatto, contro quell’apertura alla sinodalità, cioè a una Chiesa capace di decidere e scegliere collegialmente, in sostanza in modo più democratico, che pure il pontefice aveva promosso e messo anzi al centro del proprio progetto.

[…] Paradossalmente questo è avvenuto con il sinodo dell’Amazzonia che resta – ad oggi – il momento più alto del pontificato e anche l’evento capace di suscitare la più forte crisi interna».

Per Marco Politi «Giunto al momento di prendere la decisione, papa Francesco ha frenato bruscamente, consapevole che l’opposizione a una svolta era ramificata e forte e tanto più potente quanto sotterranea. […] Confessava l’anno scorso il generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa, che “all’interno della Chiesa si svolge una lotta” e che agiscono forze tese a influenzare il prossimo conclave e la scelta del successore di Francesco. Lo stop imposto ad aperture sull’ordinazione di uomini sposati e sul diaconato femminile fa parte di questa guerra civile sotterranea, che agita il cattolicesimo. Papa Francesco ha percepito di non avere nell’episcopato e tra i cardinali di tutto il mondo alleati sufficienti per imporre una svolta. Perché i papi sono onnipotenti quando sono conservatori, quando sono riformisti devono tener conto dei rapporti di forza interni alla Chiesa.

[…] E tuttavia il colpo per la mancata svolta sui preti sposati resta forte. Perché il problema delle parrocchie prive di sacerdoti è ormai drammatico ovunque. Un parroco, incaricato di seguire cinque-sei-dieci parrocchie (come accade anche in Italia) non è più una guida comunitaria, ma rischia di diventare un funzionario che corre da un centro all’altro».

Con maggiore durezza, asciutta e fredda, Marco Marzano ha aggiunto: «La rivoluzione di Bergoglio è finita. Anzi, non è mai iniziata. Con il respingimento inequivocabile della domanda dei padri sinodali dell’Amazzonia di poter ordinare sacerdoti dei diaconi sposati, Francesco ha seppellito ogni eventualità di riforma del celibato e chiarito una volta per tutte la natura del suo pontificato. In assoluta continuità con i papati precedenti di Giovanni Paolo e Benedetto e in piena sintonia con i cardinali Sarah e Ruini, il papa ha confermato l’esclusione del diaconato femminile e l’assoluta impossibilità di accedere al sacerdozio per i maschi sposati anche in una regione dove le distanze geografiche e la mancanza di preti determinano l’impossibilità di celebrare con regolarità la messa domenicale. L’esortazione di Bergoglio ha anche definitivamente mandato in soffitta ogni ipotesi di riforma del centralismo assoluto che caratterizza il cattolicesimo, chiudendo ogni spiraglio all’autonomia delle chiese locali. […]. Sul piano strategico, anche se ha sorpreso molti, la decisione di Bergoglio non è certo un fulmine a ciel sereno. L’energia riformatrice del papato, ammesso che mai vi sia stata, si è spenta da anni. Cambiare la Chiesa Cattolica è un’impresa molto complicata e forse impossibile. Le contraddizioni e le divisioni interne sono talmente numerose, i rischi che dal mutamento di un equilibrio derivino conseguenze imprevedibili e sgradite è talmente elevato che l’immobilismo radicale praticato da Bergoglio appare certamente come una strategia comprensibile e sensata. Meglio morire lentamente per effetto di una malattia progressiva ma lenta, che rischiare di rimanerci all’istante in conseguenza di qualche riforma avventata»

Questi severi giudizi “dall’esterno” vanno presi sul serio e hanno diritto ad una risposta di riflessione non superficiale “dall’interno”. Mi pare che le considerazioni che si possono svolgere si collochino su due diversi piani: da una parte l’interpretazione in sé dell’atto specifico del papa e dall’altra la questione di visione generale a cui tale atto rimanda.

Vediamo, dunque, la questione prossima. Com’è noto il documento finale del Sinodo speciale per la regione Panamazzonica (Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale), varato in Vaticano il 26 ottobre 2019, conteneva (per limitarsi al “punto cruciale” che qui maggiormente interessa) la seguente affermazione (accettata con 128 voti favorevoli e 41 contrari: ottenendo cioè il quorum qualificato richiesto per l’approvazione): «111. Molte delle comunità ecclesiali del territorio amazzonico hanno enormi difficoltà di accesso all’Eucaristia. A volte trascorrono non solo mesi, ma addirittura diversi anni prima che un sacerdote possa tornare in una comunità per celebrare l’Eucaristia, offrire il sacramento della Riconciliazione o celebrare l’Unzione degli Infermi per i malati della comunità. Apprezziamo il celibato come dono di Dio (cfr. Sacerdotalis Cælibatus, nella misura in cui questo dono permette al discepolo missionario, ordinato al presbiterato, di dedicarsi pienamente al servizio del Santo Popolo di Dio. Esso stimola la carità pastorale e preghiamo che ci siano molte vocazioni che vivono il sacerdozio celibatario. Sappiamo che questa disciplina “non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio” (PO 16), sebbene vi sia per molte ragioni un rapporto di convenienza con esso. Nella sua enciclica sul celibato sacerdotale, san Paolo VI ha mantenuto questa legge, esponendo le motivazioni teologiche, spirituali e pastorali che la motivano. Nel 1992, l’esortazione postsinodale di san Giovanni Paolo II sulla formazione sacerdotale ha confermato questa tradizione nella Chiesa latina (PDV 29). Considerando che la legittima diversità non nuoce alla comunione e all’unità della Chiesa, ma la manifesta e ne è al servizio (cfr. LG 13; OE 6), come testimonia la pluralità dei riti e delle discipline esistenti, proponiamo che, nel quadro di Lumen gentium 26, l’autorità competente stabilisca criteri e disposizioni per ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica. A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento».

Il testo dunque, da una parte, rimanda alle decisioni della «autorità competente» per una disposizione che riguardi le «zone più remote della regione amazzonica», dall’altra accenna pure alla possibilità «di un approccio universale all’argomento». Approvato questo documento finale e in attesa dell’Esortazione apostolica del papa, si è scatenato un “fuoco conservatore” che affermava, ribadiva e difendeva la motivazione teologica del celibato ecclesiastico (intesa come conseguente e univoca affermazione dell’impossibilità “teologica” di un’attenuazione del celibato stesso) nel clero latino: il sacerdozio ministeriale veniva presentato – in modo nuovo – come figura, in via esclusiva e prioritaria e non solo complementare, di Cristo Sposo della Chiesa Sposa (che è cosa diversa da un’ecclesiologia nuziale, come si vedrà più avanti). Il prete sposa la sua chiesa e solo essa: non può avere altre “mogli”. Il celibato è obbligatoriamente, “ontologicamente” e intrinsecamente richiesto dall’esercizio del sacerdozio ministeriale (cioè, se non dalla natura di tale sacerdozio, dalla natura del suo esercizio). Questa posizione nuova, bisognosa di molti approfondimenti, aveva ed ha due gravi limiti: forniva sì una “comprensione teologica” della disciplina del celibato ma non forniva una “comprensione teologica” delle tante eccezioni a tale disciplina (che ci sono state e ci sono nella Chiesa latina: si pensi solo all’ammissione nella Chiesa cattolica di presbiteri anglicani senza imporre loro il celibato, attuata

da papa Ratzinger con la Costituzione apostolica Anglicanorum cɶtum, VI, § 1 e 2; e prima ancora all’accoglienza di preti episcopaliani da parte di Giovanni Paolo II), anzi concludeva logicamente all’impossibilità di ammettere tali eccezioni; in secondo luogo, rappresentava un vulnus grave sul piano ecumenico verso le Chiese ortodosse e sul piano interno verso le Chiese orientali cattoliche (ma anche, come si è detto, verso gli ex-episcopaliani e gli ex-anglicani divenuti cattolici), screditando “teologicamente” il loro sacerdozio ministeriale uxorato (considerato di rango inferiore). L’esatto opposto di quella valorizzazione che chiede papa Francesco, per esempio nell’ambito della pastorale familiare: «si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati» (Amoris Lætitia, n.202).

Ed è da osservare che è un vero peccato di omissione non aver ascoltato (in questo dibattito, nel Sinodo e fuori) la voce dei presbiteri cattolici di rito greco.

Potremmo schematizzare – semplificando un po’ brutalmente – dicendo che il documento del Sinodo chiedeva al papa: afferma la possibilità del sacerdozio ministeriale uxorato (approvando espressamente il n. 111) e avviane una subitanea attuazione. I conservatori, all’opposto (e minacciando scismi), chiedevano: nega la possibilità del sacerdozio ministeriale uxorato (cioè smentisci e condanna il n. 111) e nega, di conseguenza, la sua attuazione sempre e dovunque.

Cosa ha risposto il papa? Non ha smentito il n. 111 (e non lo ha dichiarato erroneo) ma non lo ha neppure approvato espressamente e non ne ha avviato la subitanea attuazione. Una decisione che si direbbe, con una battuta, “gesuitica”, ma che appare in realtà saggia e ponderata. In questo modo il papa ha disinnescato il clima di rissa e il parossismo con il coltello tra i denti di tanti tradizionalisti, ha rasserenato gli animi, non ha fornito pretesti a chi lo avrebbe accusato di mosse precipitose e avventate, ha neutralizzato le strumentalizzazioni dell’anziano “papa emerito”: e tuttavia ha comunque preso una chiara posizione di principio (dottrinale e magisteriale). Infatti non smentendo il n. 111 (e la tradizionale visione del celibato ecclesiastico che esso richiama: che è poi quella del Concilio Vaticano II: Presbyterorum Ordinis, n. 16), come sarebbe stato suo dovere se fosse stato erroneo, il papa ha implicitamente ma conseguentemente smentito la visione opposta, alternativa e nuova, del “celibato ontologico” o come lo si voglia definire, mentre non ha smentito quelle posizioni che considerano oggi pastoralmente inopportuna l’ordinazione presbiterale dei viri probati, posizioni conservatrici ma che rimangono, comunque, nella linea del Vaticano II.

Più precisamente in Querida Amazonia Francesco afferma in modo molto chiaro e fin dall’inizio (nn. 2-4):      «2. Ho ascoltato gli interventi durante il Sinodo e ho letto con interesse i contributi dei circoli minori. Con questa Esortazione desidero esprimere le risonanze che ha provocato in me questo percorso di dialogo e discernimento. Non svilupperò qui tutte le questioni abbondantemente esposte nel Documento conclusivo. Non intendo né sostituirlo né ripeterlo. Desidero solo offrire un breve quadro di riflessione che incarni nella realtà amazzonica una sintesi di alcune grandi preoccupazioni che ho già manifestato nei miei documenti precedenti, affinché possa aiutare e orientare verso un’armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell’intero cammino sinodale.

3. Nello stesso tempo voglio presentare ufficialmente quel Documento, che ci offre le conclusioni del Sinodo e a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica

dell’Amazzonia, perché ci vivono, ci soffrono e la amano con passione. Ho preferito non citare tale

Documento in questa Esortazione, perché invito a leggerlo integralmente.

4. Dio voglia che tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro, che i pastori, i consacrati, le consacrate e i fedeli laici dell’Amazzonia si impegnino nella sua applicazione e che possa ispirare in qualche modo tutte le persone di buona volontà»

Cosa significano queste affermazioni? Per capirne, in tutte le sue importanti sfumature (e perciò in tutte le conseguenze possibili), il significato dobbiamo considerare cosa dice la Costituzione Apostolica Episcopalis Communio sul Sinodo dei Vescovi (del 15 settembre 2018). All’art. 18, § 1, si afferma: «Ricevuta l’approvazione dei Membri, il Documento finale dell’Assemblea è offerto al Romano Pontefice, che decide della sua pubblicazione. Se approvato espressamente dal Romano Pontefice, il Documento finale partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro».

Il Papa ha «approvato espressamente» il Documento del Sinodo? Certo no: ci sarebbe voluta una formula solenne ed esplicita. Dunque il Documento del Sinodo non ha il carattere di magistero ordinario pontificio. Se lo avesse approvato espressamente, il papa avrebbe così avviato l’attuazione del sacerdozio ministeriale uxorato (per l’Amazzonia, ma anche, volendo, per la Chiesa universale).

Come ha ben chiarito il card. Michael Czerny (S.I., Sotto-Segretario della Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Segretario Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica) nella conferenza stampa di presentazione di Querida Amazonia:

«Querida Amazonia è una Esortazione Post-Sinodale. È un documento del magistero. Appartiene all’autentico Magistero del Successore di Pietro. Partecipa al suo Magistero ordinario. Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale è il documento conclusivo dell’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per le Regione Panamazzonica. Come ogni documento sinodale, è costituito da proposte che i Padri Sinodali hanno votato per l’approvazione ed hanno affidato al Santo Padre. A sua volta il Papa autorizza la sua pubblicazione con i voti espressi. […] Così abbiamo due documenti di diverso tenore. Il Documento Conclusivo è il risultato del cammino sinodale, mentre l’Esortazione Querida Amazonia contiene le riflessioni del Santo Padre sul cammino sinodale e il documento conclusivo. Il primo contiene le proposte presentate e votate dai Padri Sinodali ha il peso di un documento sinodale conclusivo. Il secondo che riflette l’intero cammino e il suo documento conclusivo, ha l’autorità del magistero ordinario del Successore di Pietro».

 https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/

2020/02/12/0094/00193.html

 

            Il Documento sinodale, dunque, non ha valore di magistero ordinario pontificio, ma non perde il valore di magistero ordinario sinodale, cioè di una alta forma di collegialità episcopale (potremmo dire, dunque, almeno del rango dei documenti delle Conferenze Episcopali nazionali). Inoltre, come si evince dai nn. 2-4 della Querida Amazonia sopra citati, il papa non smentisce nessun punto del Documento, non dichiara erroneo o inopportuno il n. 111. Possiamo anzi dire che le conclusioni del Sinodo, se certo non sono «approvate espressamente» da papa Francesco, tuttavia sono da lui recepite: egli infatti auspica «un’armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell’intero cammino sinodale», «invita a leggere integralmente» il Documento conclusivo affinché «tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare da questo lavoro» e infine esorta tutti i cattolici dell’Amazzonia affinché «si impegnino nella sua applicazione».

Come, ancora una volta, ha chiarito il card. Czerny: «All’inizio di Querida Amazonia il Papa scrive: “[…] voglio presentare ufficialmente quel Documento che ci offre le conclusioni del Sinodo” (QA § 3) e incoraggia a leggerlo per intero. Così, a parte l’autorità magisteriale formale, la presentazione ufficiale e l’incoraggiamento conferiscono al documento conclusivo una certa autorità morale. Ignorarla sarebbe una mancanza di obbedienza alla legittima autorità del Santo Padre, mentre trovare difficili alcuni punti non sarebbe considerata una mancanza di fede».

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/02/12/0094/00193.html

Inoltre in risposta ad una precisa domanda di Sandro Magister – nella ricordata conferenza stampa – Czerny ha confermato che le proposte del documento finale (inclusa dunque l’ordinazione dei viri probati) «remain on the table» [rimangono sul tavolo, in discussione].

E ora cosa succede? Per saperlo dobbiamo ancora rifarci alla Costituzione Episcopalis Communio (art. 19, §§ 1 e 2): «I Vescovi diocesani o eparchiali curano l’accoglienza e l’attuazione delle conclusioni dell’Assemblea del Sinodo, recepite dal Romano Pontefice, con l’aiuto degli organismi di partecipazione previsti dal diritto. I Sinodi dei Vescovi delle Chiese patriarcali e arcivescovili maggiori, i Consigli dei Gerarchi e delle Assemblee dei Gerarchi delle Chiese sui iuris e le Conferenze Episcopali coordinano l’attuazione delle suddette conclusioni nel loro territorio e a tal fine possono predisporre iniziative comuni».

La prospettiva della ricezione e dell’attuazione delle deliberazioni sinodali è, ancora una volta, chiarita da Czerny: «Essendo un Sinodo “speciale” che si è concentrato su di una regione del mondo, il processo sinodale, il documento conclusivo e l’Esortazione Post-Sinodale Querida Amazonia richiederanno comprensione creativa e comprensiva per le lezioni ivi contenute da applicare oltre l’Amazzonia. Esse toccano tutta la Chiesa e tutto il mondo, anche se non in modo non [sic] uniforme. Il Papa auspica che l’Esortazione Querida Amazonia “possa aiutare e orientare verso un’armoniosa, creativa e fruttuosa ricezione dell’intero cammino sinodale”. […] Il Papa prega affinché “tutta la Chiesa si lasci arricchire e interpellare” dal lavoro dell’Assemblea Sinodale, che tutti in Amazzonia “si impegnino nella sua applicazione” e che “possa ispirare in qualche modo tutte le persone di buona volontà” (§ 4). In conclusione, Papa Francesco esorta “tutti a procedere su vie concrete che permettano di trasformare la realtà dell’Amazzonia e di liberarla dai mali che la affliggono” (§ 111)».

L’impegno allora passa alle Chiese locali: alle singole diocesi amazzoniche e alle conferenze episcopali: sono loro adesso «l’autorità competente», certo in stretto rapporto con Roma, anche secondo quella prospettiva di decentramento auspicata e indicata da papa Francesco nella Evangelii Gaudium (nn. 16 e 32). Insomma l’esortazione apostolica non ha “chiuso” nulla, ma rappresenta una pietra miliare in un cammino sinodale e post-sinodale – non a passo veloce, ma neppure coi piedi di piombo – diciamo a passi sicuri e comunque non di breve portata, bensì ancora lungo: come ha riassunto Czerny: «Credo che il modo migliore per comprendere il Sinodo è vedere tutto nell’ottica di un processo, un viaggio. Si parla per questo di Sinodo […]. Siamo arrivati ad un punto importante ma ci sono ancora tanti chilometri da percorrere. Le domande sono in evoluzione, continueranno ad essere oggetto di dibattito e discernimento e arriveremo a decisioni fatte a livello di Diocesi e Conferenze episcopali. Se si guarda ad una chiusura, mi spiace, ma non è così»

A me pare, insomma, che siano tali realtà ecclesiali locali ad avere ora – in forza dell’intero cammino sinodale e dell’esortazione post-sinodale – non solo la possibilità, ma direi l’obbligo morale di dare «una risposta specifica e coraggiosa» (Querida Amazonia, n. 85)31, cioè di realizzare un’opera di attento discernimento pastorale per valutare se ci sono localmente le condizioni per chiedere a Roma di poter «ordinare sacerdoti uomini idonei e riconosciuti dalla comunità, i quali, pur avendo una famiglia legittimamente costituita e stabile, abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». E credo che possano avanzare una richiesta forse di tipo “collettivo”, ma sicuramente di tipo individuale. In questo secondo caso, del resto, si tratterebbe di realizzare ancora quanto si è già avuto – e non secoli fa, ma recentemente – nel clero latino: penso al caso di Jan Kofron, nella Repubblica Ceca, che – con dispensa papale del maggio 2008, cioè di papa Ratzinger – è stato ordinato, pur essendo sposato, presbitero cattolico di rito latino (e non di rito greco).

Tuttavia il discernimento, che potrebbe portare a tali richieste, dovrebbe essere approfondito e articolato. E qui passiamo alla visione generale nella quale tale questione acquista un suo significato ecclesiale profondo. Il grande scenario storico, che sbrigativamente viene chiamato di “secolarizzazione” (concetto che, per comodità, converrà anche qui usare) e che costituisce un profondo e vasto cambiamento d’epoca, è il presupposto generale, che non possiamo tuttavia qui ricostruire neppure nelle sue travature portanti essenziali. Diciamo solo che non è più così assurdo prevedere un generalizzato crollo della Chiesa cattolica o forse perfino del Cristianesimo nel mondo occidentale, fino a giungere ad una sua irrilevanza di massa. In tale contesto – e sempre per esprimerci in modo necessariamente sintetico – sono emerse tre possibili “grandi visioni”, che propongono una diversa intelligenza del tempo presente e, di conseguenza, indicano alla Chiesa cattolica prospettive pastorali diverse:

  1. La visione pre-conciliare;
  2. La visione conciliare;
  3. La visione post-conciliare.

a)       La visione pre-conciliare, attestata sulle forme dell’Ottocento cattolico (nella sua linea intransigente della Mirari vos e del Sillabo; non nella sua linea conciliatorista, di Rosmini, Manzoni e Newman, che poi ha portato al Vaticano II), è rigidamente controriformistica cioè anti-Riforma: contro la Riforma protestante, contro la riforma cattolica del Concilio Vaticano II, contro il riformismo di Paolo VI ieri e di papa Francesco oggi. Legge la “secolarizzazione” come esito, ormai dilagante, del laicismo illuminista-massonico-liberale, al quale contrapporre il clericalismo: cioè l’ecclesiologia militante-militare – violentemente aggressiva – di una Chiesa come esercito schierato in battaglia (Acies ordinata: secondo l’espressione biblica, ripresa da don Bosco nella sua preghiera a Maria), come mostra il movimento denominato appunto Acies ordinata: «Oggi Acies ordinata è il simbolo di tutti coloro che nella Chiesa combattono le forze del caos in maniera ordinata, stando in piedi con il rosario in mano e lo sguardo rivolto al nemico, come esorta sant’Ambrogio: “Il soldato sta in assetto di guerra, non sta seduto; il soldato in armi non sta reclinato, ma sta in piedi ben eretto. Per questo è detto ai soldati di Cristo: ‘Ecco ora, benedite il Signore, voi tutti servi del Signore, che state in piedi nella casa del Signore’” (Commento a dodici Salmi, Città Nuova, Roma 1980, Salmo I, n. 27, p. 69)»34: una Chiesa clero-centrica, ovviamente maschilista, autocraticamente guidata, a tutti i livelli, da un clero gerarchico: un clericalismo “piramidale” (cioè appunto gerarchico) e perciò Papista, ma contro il papa attuale (secondo la contraddizione tipica di tutti i tradizionalisti contemporanei.  Richiamando il contemptus mundi [disprezzo del mondo] e la fondazione di comunità cenacolari ristrette e claustrali da parte di S. Benedetto, questa visione prospetta un’opzione-Benedetto, che forse meglio si dovrebbe definire opzione-Noè: costruzione di un’arca, impeciata di dentro e di fuori, in cui chiudersi per sfuggire al diluvio montante del peccato. Si tratta in realtà della ricorrente tendenza “montanista” di chi si sente perfetto: prospettiva apocalittico-millenaristica, rigorista (nessun perdono per i peccata graviora), sessuofobica, che si pone al di sopra della Sede Apostolica e la giudica con polemica astiosa. In altri termini questa visione pre-conciliare, con la conseguente prospettiva “pastorale” noetico-montanista, porterebbe alla riduzione e autoghettizzazione della Chiesa cattolica in ristretti e semiclandestini gruppuscoli settari, fondamentalisti e in guerra con tutti, ciechi verso i segni dei tempi e sordi ad ogni dialogo, ma proprio per questo tenaci nella loro chiusura autoreferenziale e vittimistica.

b)      La seconda visione, la visione conciliare, si rifà al Concilio Vaticano II, con la sua prospettiva di Ecclesia semper reformanda e con la sua apertura ecumenica e inter-religiosa. Si tratta del pieno compimento di quella riforma cattolica, avviata nel XV e XVI secolo e poi dallo stesso Tridentino (così da far parlare di «paradigma tridentino»), cioè di una riforma della Chiesa dall’interno e guidata dai suoi Pastori (una prospettiva, peraltro, che ha strutturato la scuola italiana di spiritualità: da Rosmini a Montini). La Chiesa è concepita come Corpo mistico di Cristo, nella complementarietà di sacerdozio comune di tutti i battezzati (preti e laici) e di sacerdozio ministeriale (dei soli presbiteri): si mira perciò ad una sinergia fraterna clero-laicato sul piano interno (valorizzando l’apostolato dei laici e delle laiche e ripristinando il diaconato permanente anche uxorato) e ad un impegno autonomo e in prima persona del laicato stesso per la consecratio mundi sul piano esterno, in una prospettiva prevalentemente incarnazionista e di inculturazione. Rimanendo ancora all’interno del paradigma tridentino, che portava a compimento, la visione conciliare non ne smantellava l’immagine del prete (formato “castalmente” come corpo separato) ma cercava di spostare l’equilibrio ecclesiale sul laicato per superare il “potere monarchico” clericale. Ciò richiedeva, però, uno sforzo di formazione di un laicato “adulto” e “maturo”, in grado di assumersi autonomamente le proprie responsabilità battesimali, nella Chiesa e nel mondo. Il primitivo ottimismo verso l’umanesimo laico moderno – che forse aveva alimentato superficiali attese di una nuova cristianità in senso maritainiano – è tuttavia entrato in crisi davanti al perdurante ed anzi avanzante secolarismo. L’ultimo Paolo VI, dopo una fase di non facile ripensamento, aveva avviato una risposta in termini di neoriformismo audace, come evangelizzazione e promozione umana (liberazione in Cristo, prospettiva delle comunità ecclesiali di base), con l’Evangelii Nuntiandi.

Ecco allora progressivamente emergere la visione post-conciliare che, sviluppando in modo creativo l’eredità del Concilio Vaticano II, propone non solo una riforma cattolica, ma una riforma evangelica: una Chiesa povera, che annuncia e vive la liberazione in Cristo, una Chiesa che supera non solo il binomio (pre-conciliare) clericalismo-laicismo ma anche quello (conciliare) clero-laicato, per affermare, al di fuori di ogni schema binario, una chiesa-comunità tutta ministeriale, dunque con apertura a nuovi ministeri anche femminili, con la possibile ordinazione di viri probati coniugati, con un “potere sinodale diffuso”. La Chiesa è concepita come la Sposa di Cristo, che sta dunque innanzi tutto davanti al suo Sposo e cura le proprie macchie e le proprie rughe per essere (evangelicamente) bella per il suo Sposo, in una prospettiva escatologista. Certo le nozze di Cristo Sposo con la Chiesa Sposa portano all’unione nuziale in un solo Corpo mistico, perciò l’incarnazionismo non è rifiutato, ma non è posto trionfalisticamente in primo piano: è una conseguenza di una seria autoriforma evangelica escatologico-nuziale. E questa ecclesiologia nuziale dovrebbe portare al centro della comunità ecclesiale non più il sacramento dell’ordine ma il sacramento del matrimonio.

Tuttavia il (positivo) crollo del comunismo e il conseguente (negativo) trionfo della globalizzazione neoliberale, intrinsecamente nichilista, hanno spaventato. La spia principale del “rischio secolare” èstata vista nella drastica diminuzione delle vocazioni presbiterali. Nella seconda e ultima fase del pontificato di Giovanni Paolo II e nel pontificato di Benedetto XVI (che pure, per altro verso, ha aperto un’importante linea kerygmatica di risposta al nichilismo) si è allora pensato di ridare prestigio, potere ecclesiale e un ruolo leader al clero (immaginando, così, di attirare nuove leve): in qualche modo si è cercato di recuperare la visione pre-conciliare all’interno della visione conciliare e in subordine ad essa, con un “clericalismo dal volto umano”. Questo clericalismo di ritorno se non ha prodotto apprezzabili risultati in termini di reclutamento presbiterale (sia quantitativamente sia, soprattutto, qualitativamente) ha invece provocato uno sbilanciamento grave e una non-reciprocità nel rapporto clero-laicato, un neo-centralismo dirigista, un’infantilizzazione del Popolo di Dio

(ridotto a popolo bambino), insomma una desertificazione ampia del laicato formato: dalla fine degli anni ’80 del Novecento, per circa trent’anni (si pensi, in Italia, alla fase ruiniana), è stato mobilitato a comando un laicato-bambino in grandi manifestazioni di massa, ma non lo si è formato, quasi irridendo alla stessa espressione di “laicato maturo” e guardando con sospetto l’idea di una Chiesa tutta ministeriale (per non parlare delle comunità ecclesiali di base e di una pastorale di liberazione). E così i potenti processi di secolarizzazione non hanno trovato risposte pastorali adeguate ed hanno dilagato, con una gravissima rottura della trasmissione inter-generazionale della fede. E, complessivamente, con un gigantesco fallimento pastorale: del quale le “dimissioni pontificie” di Ratzinger hanno rappresentato una plastica e quasi tragica icona.

Qui è venuto papa Francesco, che ha immediatamente ripreso sia la montiniana Evangelii Nuntiandi sia l’anti-nichilismo kerygmatico di Benedetto XVI, per avviare con l’esortazione Evangelii Gaudiumun cammino di conversione pastorale e di rilancio missionario verso la Chiesa povera e per i poveri. Potremmo dunque dire che la visione di Bergoglio sia quella post-conciliare. Ma la sapienza pastorale e la felice opportunità di Querida Amazonia, che giunge in un punto maturo del pontificato, stanno proprio qui. Bergoglio si è – acutamente e giustamente – reso conto che, dopo quasi trent’anni di desertificazione del laicato e di repressione dell’idea di Chiesa tutta ministeriale, un “salto” alla riforma evangelica e all’ecclesiologia nuziale post-conciliare avrebbe, paradossalmente, potuto produrre un corto-circuito comunitario, con un esito di neoclericalizzazione e una magra efficacia riformistica. Ecco allora l’importante indicazione che, con Querida Amazonia, il papa rivolge non solo all’America latina ma alla Chiesa cattolica universale: le scelte, certo ineludibili, della visione post-conciliare vanno accuratamente preparate con un rinvigorimento, uno sviluppo, un vero radicamento della riforma cattolica conciliare: se si apre all’ordinazione presbiterale dei diaconi permanenti uxorati (secondo la visione post-conciliare), ma tali diaconi sono pochissimi (per il mancato sviluppo della visione conciliare), che cosa si ottiene?

Ecco allora tutte le sue opportune e felici indicazioni: maturazione kerygmatica della vita cristiana e formazione cristiana (nn. 64-65); amore fraterno (n. 65); dialogo e inculturazione pluriforme (nn.66-84) e con un timbro fortemente sociale (n. 75) integrata con la dimensione spirituale (n. 76); inculturazione della ministerialità (nn. 85-88); «i laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro» (n. 89); maggior numero di diaconi permanenti (n. 92); responsabilità più importanti per le religiose e i laici (n. 92); «vari servizi laicali, che presuppongono un processo di maturazione – biblica, dottrinale, spirituale e pratica – e vari percorsi di formazione permanente» (n. 93); «presenza stabile di responsabili laici maturi e dotati di autorità» (n. 94); protagonismo dei laici (n. 94) «Ciò richiede nella Chiesa una capacità di aprire strade all’audacia dello Spirito, di avere fiducia e concretamente di permettere lo sviluppo di una cultura ecclesiale propria, marcatamente laicale» (n. 94); comunità di base (n. 96); «stimolare il sorgere di altri servizi e carismi femminili» (n. 102); effettiva e reale incidenza delle donne nella guida delle comunità (n. 103).

Come nell’ultima parte del pontificato di Giovanni Paolo II e in quello di Benedetto XVI si è tentato di riportare la visione pre-conciliare in quella conciliare (causando una “dissonanza cognitiva” di notevoli dimensioni, rallentando la riforma conciliare e anzi tornando indietro), con un disegno sbagliato e fallimentare, così oggi Francesco, per superare gli effetti di quel blocco, vuole riportare la visione conciliare all’interno di quella post-conciliare, come sua preparazione remota, come pegno di solidità costruttiva e caparra di efficacia finale.

Come ha affermato uno dei più autorevoli partecipanti al Sinodo, mons. Emmanuel Lafont, vescovo di Cayenna (Guyana): «declericalizzare la Chiesa, separare potere e ministero! Il Sinodo e il papa desiderano nuovi ministeri, ma in una Chiesa differente, che non cerca di clericalizzare i laici. Una riflessione sulla declericalizzazione permetterà di evitare un autoritarismo così contrario ad una Chiesa sinodale in cui tutti, clero e laici, “camminano insieme”. […] Se non si cambia questo prima di tutto, ci si limiterà ad inserire uomini e donne in un sistema ecclesiale che non permette di essere sinodale».

Il riformismo di Francesco, dunque, che guarda lontano, è realisticamente oggi il solo e autentico riformismo possibile: non perché ci siano veri rischi di scismi o perché abbiano larga udienza i veti ricattatori esercitati da effimere e rancorose minoranze pre-conciliari, ma perché il gigantesco fallimento pastorale che abbiamo alle spalle, il radicato clericalismo di ritorno e la quasi trentennale negligenza formativa in senso conciliare sono realmente ancora forti – dopo appena sette anni di pontificato bergogliano – e danno la misura della presente incerta o scarsa solidità delle premesse all’opera riformatrice post-conciliare, pure urgente.

Qui è il nodo storico che abbiamo davanti: il massimo di riformismo possibile sembrerebbe molto al di sotto del minimo di riformismo che sarebbe necessario (per recuperare il ritardo di 200 anni di cui parlava il card. Martini e che papa Francesco ha recentemente rievocato nel suo ultimo discorso alla Curia).

Francesco ne è ben consapevole. Tuttavia adesso la parola passa – per un autentico processo sinodale – alle Chiese locali: innanzi tutto – ed è ovvio – a quelle dell’America latina, ma poi anche dell’Europa. Per i motivi che si sono rapidamente accennati, queste Chiese, in sette anni, sono state molto lente a recepire la visione post-conciliare di Francesco, quasi semiparalizzate, anchilosate e intorpidite da un lungo immobilismo rattrappito su se stesso.

Solo lo Spirito Santo può far fiorire il deserto e può far sì che le ossa rivivano: speriamo che i battezzati del XXI secolo non oppongano resistenze allo Spirito.

Fulvio De Giorgi         “Humanitas”, 75        2020, n.1-2 (40 note)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202003/200331degiorgi.pdf

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

TEOLOGIA

Lo “stato di eccezione” e Summorum Pontificum: liturgia, autorità episcopale e dispositivo di blocco

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola.» (W. Benjamin)

            Vorrei chiarire, in una forma più ampia di quanto non potesse essere fatto nell’ambito di una “lettera aperta”, la correlazione tra lo “stato di eccezione” – inteso come condizione politica generata dalla grave pandemia – e la vicenda del Motu Proprio di Benedetto XVISummorum Pontificum”, che dal 7 luglio 2007 ha alterato profondamente non solo la vita liturgica ecclesiale, ma la struttura istituzionale della Chiesa cattolica. Per svolgere la mia argomentazione inizio da due brevi premesse.

www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html

1. Alcune premesse: stato di eccezione e dispositivo di blocco. Quando utilizzo la categoria di “stato di eccezione” – che come è noto è stata introdotta da Carl Schmitt per spiegare la sovranità dello Stato – voglio riferirmi alla possibilità con cui, in determinate circostanze ritenute eccezionali, è possibile modificare le regole di base della società – o della Chiesa – per affrontare una emergenza. La esperienza che, sull’esempio della Cina, in Italia viviamo ormai da più di un mese, e che si sta estendendo al resto dell’Europa e del mondo, con la “sospensione” di una serie di “diritti fondamentali” – alla deambulazione, al lavoro, al contatto, persino alla stretta di mano… – danno a pensare e sollecitano una accurata indagine sui doveri dello Stato di tutelare la salute dei cittadini e sui limiti di questi poteri di “contenimento”. Ma il fatto stesso di vivere sul piano civile uno “stato di eccezione” permette di guardare con occhi più limpidi anche alla vita ecclesiale “sub specie exceptionis”.

            La seconda premessa è che questo sguardo nuovo, che matura per una esperienza diretta sul piano civile, si innesta su una tradizione ecclesiale di cui già avevo notato una tendenza, manifestata nel ultimi 40 anni, che ho definito “dispositivo di blocco”. Di tratta di un raffinato modo di interpretare la autorità come “mancanza di autorità”. Se la Chiesa, ad un certo momento della storia, ritiene che tutta la sua autorità stia nel passato, negando “ora” a se stessa ogni autorità, mette in campo un dispositivo che, bloccando ogni esercizio nuovo di autorità, rende “perenni” le decisioni assunte nel passato. Perciò, si potrebbe dire, il “dispositivo di blocco” funziona come uno “stato di eccezione” che non finisce mai. La pretesa del dispositivo di blocco è precisamente questa: bloccare per sempre l’esercizio della autorità, con cui la Chiesa potrebbe “tradurre la tradizione”, mentre decide di spogliarsene e di restare così come è.

2. Il dispositivo di blocco e Summorum Pontificum. L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo di blocco” – che era iniziato negli anni 70 – si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum” (=SP), mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni.

Anche in questo caso, come era accaduto altre volte nei decenni precedenti, il Magistero “opera una autolimitazione”, poiché si ritiene che non abbia la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Questo è il principio indimostrato che regge sistematicamente il provvedimento. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun vero potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o di conversione. Un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: ossia alla perdita di controllo sulla liturgia dei Vescovi diocesani, all’ accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei –, al diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e ahimè in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria” della identità cattolica. Il dispositivo di blocco non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanæ curiæ”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili già all’inizio.

3. Summorum Pontificum come stato di eccezione alla piena autorità episcopale. Da quanto detto fin qui emerge, in modo assai significativo, che l’impatto di SP sulla vita della chiesa ha una logica che supera la questione liturgica in senso stretto. E’ vero, il disegno di “riconciliazione”, per realizzare il quale papa Benedetto ha costruito la ardita macchina istituzionale di SP, era l’orizzonte che intendeva giustificare una “rottura”. La rottura è lo scavalcamento della autorità episcopale territoriale in materia di liturgia. Mediante SP, infatti, tutte le questioni riguardanti i sacramenti, che attengono all’ “uso del rito in forma straordinaria” vengono sottratte alla competenza episcopale e spostate sotto la competenza della Commissione Ecclesia Dei. Questo è “stato di eccezione”, di sospensione della logica normale e normativa. Se ogni Vescovo non controlla più totalmente il territorio della propria diocesi in materia di liturgia e di sacramenti, questo introduce anche un “dispositivo di blocco” sulla autorità con cui il Vescovo può far progredire la riforma liturgica. Di fatto, in questo modo al Vescovo è sottratto il pieno controllo e l’indirizzo della diocesi sul piano liturgico e sacramentale. Per questo lo stato di eccezione, che può essere giustificato e giustificabile in casi determinati, è necessariamente limitato nel tempo. Deve finire. Un “rito in forma straordinaria” non può accompagnare “per sempre” il rito in forma ordinaria. Il “contenimento” dell’autorità episcopale è necessariamente “ad tempus”.

4. Summorum Pontificum come “criterio” di designazione episcopale e di formazione. Ma non basta. C’è un secondo aspetto, che non riguarda il lato normativo, ma il lato “fattuale” degli sviluppi successivi al 2007, che deve essere considerato con preoccupazione. A partire dai mesi successivi al luglio del 2007, il riferimento a SP non è stato solo quello per gestire dal centro le domande di “rito antico”, ma ha profondamente alterato la normale amministrazione della Chiesa. Da un lato, infatti, si è fatto del riferimento a SP non soltanto il compito di obbedienza dei Vescovi esistenti, ma anche il criterio di scelta del Vescovi futuri. Nelle “inchieste” con cui la Congregazione dei Vescovi valutava i candidati all’episcopato, era comparsa la voce sull’atteggiamento benevolo, ovvero critico, verso SP. Se, come prete, avevi detto qualcosa contro SP e se in certi casi non eri stato disponibile a celebrare secondo SP, non potevi aspirare all’episcopato. In questo caso la limitazione della autorità episcopale diventava “nativa”, potremmo dire “vocazionale”: per vocazione dovevi mostrarti disponibile a non insistere troppo sulla tua autorità in materia di Riforma liturgica! Ma non basta ancora. In alcune regioni ecclesiastiche si crearono anche le condizioni perché alcuni di questi Vescovi, inclini a privarsi della autorità in campo liturgico, ritenessero di allestire seminari in cui anche i candidati al ministero venissero formati, contemporaneamente, a due riti che si contraddicono. Lo “stato di eccezione” mirava a perpetuarsi nei secoli dei secoli, funzionando perfettamente come dispositivo di blocco per ogni riforma liturgica possibile. Il “vulnus” alla autorità episcopale pretendeva di trasformarsi in evidenza ordinaria per seminaristi, iniziati ab ovo anche alla liturgia “retro”.

5. Dal 2013 il sistema dello “stato di eccezione” implode. Lo stato di eccezione determinato da SP è entrato in crisi con l’inizio del pontificato di Francesco. Anche in questo caso la liturgia non è il livello primario di discussione. Ciò che cambia è il fatto che con papa Francesco “si sblocca il dispositivo di blocco”. Fin dall’inizio Francesco dice: la Chiesa ha l’autorità per cambiare, per uscire, per rileggere, per tradurre. E comincia a farlo. Era inevitabile che questo portasse, dopo alcuni anni, alla “soppressione” della Commissione “Ecclesia Dei”, che aveva tratto i propri poteri da un lato dai singoli vescovi, e dall’altro dalla Congregazione competente in materia di “culto e sacramenti”. Ma se si sopprime la Commissione, ma non si abroga SP, cambia solo il “luogo” delle decisioni, ma non si esce dal regime di eccezione. Così ora, in modo ancora più clamoroso di prima, lo stato di eccezione è palese per il fatto che sia la Congregazione per la dottrina della fede a deliberare in materia liturgica. Questo è un altro “monstrum” indirettamente generato da SP. Oggi, tuttavia, non ci sono più ragioni né per lo stato di eccezione né per il dispositivo di blocco. Il cammino della Riforma Liturgica esige, allo stesso tempo, la restituzione della pienezza dei poteri ai Vescovi locali, e il servizio della Congregazione per il culto divino al cammino di attuazione e recezione dei nuovi riti scaturiti dalla Riforma liturgica. Il “rito straordinario”, come fenomeno di ambizioni universali, è stato il segno e l’esperimento di un tempo limitato, che non ha dato buoni frutti. Domani potranno essere i vescovi diocesani a ritenere, in casi estremi, di concedere a gruppi limitati, di utilizzare il rito romano in forme precedenti a quella vigente. Ma se non ci vergogniamo della parola liturgica del Concilio Vaticano II, dobbiamo superare lo stato di eccezione che SP ha determinato nella esperienza ecclesiale e nella vita di troppe comunità. Il sistema, che SP ha determinato, se da eccezione pretende di diventare regola, genera crescenti divisioni e ostilità. Lo stato di emergenza, infatti, non può essere regola duratura né di vita civile, né di vita ecclesiale.

Andrea Grillo             blog: Come se  3 aprile 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/lo-stato-di-eccezione-e-summorum-pontificum-liturgia-autorita-episcopale-e-dispositivo-di-blocco

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

 

Ricevi questa comunicazione in quanto sei presente nella mailing list di newsUCIPEM.

Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. I suoi dati non saranno diffusi a terzi e saranno trattati in modo da garantire sicurezza e riservatezza.

Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus

Corso Diaz, 49 – 47100 Forlì               ucipemnazionale@gmail.com

Il responsabile è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea.  newsucipem@gmail.com

 

Condividi, se ti va!