NewsUCIPEM n. 798 – 22 MARZO 2020

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02 ADOZIONI INTERNAZIONALI                Coronavirus: la società. «Sos adozioni, crolla tutto»

03                                                                          Adozione 3.0 richiede un supporto economico a Enti autorizzati

03 AFFIDO CONDIVISO                                 Affidamento congiunto escluso se genitori altamente conflittuali

05                                                                          Il genitore separato non può essere costretto a vedere il figlio

06                                                                          Un “diritto di visita” facoltativo per genitori e figli?

09 ASSEGNO DIVORZILE                               Assegno per la casalinga che ha favorito la carriera del marito

10 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n. 11, 18 marzo 2020

12 CHIESA CATTOLICA                                  Religione e Vangelo

13                                                                          Chiesa più sacramentale o spirituale?

14                                                                          Riformare x fedeltà. P.Francesco, Chiesa e cambiamenti culturali

22 CITAZIONI                                                    Il Dio di Gesù Cristo

27 DALLA NAVATA                                         IV Domenica di quaresima – Anno A – 22 marzo 2020

27                                                                          Siamo tutti come ciechi in cerca della luce

28 DIRITTI                                                          Quale capacità la legge riconosce al concepito?                              

28 DONNE NELLA CHIESA                           Non perdo la speranza

30 FAMIGLIA                                                    COVID-19: far fronte allo stress in casa e in famiglia     

32 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Il papa: sarà un altro dopo guerra

33 GENITORI                                                     Da provare il danno recato dal padre lontano a figlia

34 MATRIMONIO                                           Cassazione: trascrivibile il matrimonio dei testimoni di Geova
35 OMOFILIA                                                    Partner omosessuali. Il patto segreto

36 PASTORALE                                                 Senza presbitero no, senza popolo sì?

37                                                                          «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano senza comprendere»

38 PEDIATRIA                                                   Coronavirus, il decalogo dei pediatri nell’emergenza

38 SINODO DEI VESCOVI                             Sia d’esempio per le nostre democrazie

39 SINODO PANAMAZZONICO                 Un’idea congelata del femminile

42 SOCIOLOGIA                                               La famiglia d’oggi secondo alcuni sociologi

44 TEOLOGIA                                                    Religione cristiana. Facciamo come Dio: umanizziamoci

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Coronavirus: la società. «Sos adozioni, crolla tutto»

Oltre tremila bambini attendono di diventare italiani. Sono i piccoli già adottati dalle famiglie italiane o la cui pratica di adozione avrebbe dovuto definirsi in queste settimane. Poi l’emergenza coronavirus ha bloccato tutto. Paesi che si chiudono, viaggi bloccati, famiglie costrette a rimandare i loro progetti. Una situazione che non solo rischia di allungare a tempo indeterminato l’approdo dei bambini nel nostro Paese, ma anche di mandare in default l’intero sistema delle adozioni. Il mondo del terzo settore, com’è noto, non dispone di riserve economiche per poter resistere a catastrofi come questa. Nel caso degli Enti che si occupano di adozioni, senza le risorse derivanti dai contributi delle coppie non è possibile andare avanti.

            «Se questa crisi proseguirà ancora a lungo, rischiamo di chiudere tutti. Si tratta davvero di una situazione difficilissima», spiega Pietro Ardizzi, portavoce di “Adozioni 3.0”, il cartello che raccoglie 47 enti autorizzati (praticamente tutti). E il nostro “sistema adozioni” non solo svolge un servizio pubblico tanto rilevante quanto delicato, ma rappresenta una ricchezza sociale inestimabile dal punto di vista dell’impegno civile, della testimonianza solidale e della cooperazione internazionale. Una rete che è frutto di anni e anni di intelligente e paziente tessitura. Sarebbe un grave errore non fare nulla per salvaguardarla. «Per questo – dice ancora Ardizzi – abbiamo chiesto al ministro per la famiglia, Elena Bonetti, un sostegno per coprire i costi vivi della nostra attività per i prossimi mesi. In un anno le nostre spese toccano complessivamente i 14 milioni. Chiediamo una garanzia per sei mesi, cioè sette milioni, un intervento che ci permetterebbe di far fronte al pagamento del personale, al sostegno delle attività con le famiglie e alle spese che dobbiamo comunque continuare ad affrontare per le nostre delegazioni nei Paesi esteri». In gioco, oltre naturalmente al destino dei bambini e delle famiglie adottive, c’è quello di circa 200 dipendenti a tempo pieno e di un numero di collaboratori almeno doppio.

«In questa situazione è difficile fare previsioni sui tempi – osserva Marco Griffini, presidente Aibi – ma non potremo resistere a lungo. Bisogna anche considerare che, quando riusciremo a ripartire in Italia, l’effetto del contagio continuerà a farsi sentire negli altri Paesi, dove adesso è in fase iniziale. E poi si tratta di capire quando potranno ripartire i voli. A giugno, a settembre?». Domande a cui nessuno può al momento dare risposte fondate. Come è difficile capire se gli abbinamenti famiglie– bambini già conclusi saranno confermati nel tempo. C’è il rischio che ogni Paese agisca in base a criteri diversi. E che quindi la sorte di alcuni bambini possa essere rimessa in forse con esiti comunque spiacevoli. Mesi, spesso anni, di attesa e di preparazione, oltre che speranze di accoglienza coltivate a lungo nel cuore delle famiglie, che potrebbe andare in fumo in poche settimane.

            «Probabilmente – sottolinea Paola Crestani, presidente Ciai – sarà indispensabile valutare caso per caso. Di fronte ad abbinamenti già conclusi, la situazione dovrebbe comunque essere consolidata. Le famiglie non hanno nulla da temere. Certo, si tratta di capire quando l’emergenza finirà. E quando potremo ripartire. Nel frattempo dobbiamo continuare a camminare. E in questo momento possiamo farlo solo grazie al sostegno delle istituzioni».

Anche perché la crisi determinata dal coronavirus si inserisce in un quadro di emergenza già pesantissima. Dalle 1.394 adozioni del 2018, si è passati alle 969 dello scorso anno. Per il 2020 era già preventivato un ulteriore calo. Ora però c’è chi addirittura ipotizza un dimezzamento. O ancora peggio. Parlare di anno nero per le adozioni è fin troppo facile. Il problema sarà quello di quantificare il “rosso”. E si tratta di un’operazione su cui nessuno al momento vuole fare previsioni azzardate. «Dobbiamo dircelo con chiarezza – ribadisce.

            In tutto questo quadro a tinte fosche – in attesa di un segnale forte da parte del ministro Bonetti – c’è un piccolo spiraglio di luce. La Cai (Commissione adozione internazionale) ha deciso di rinviare i termini per la richiesta dei rimborsi del periodo 2012–2017. Al precedente bando avevano dato risposta solo il 60% degli aventi diritti e il governo ha deciso quindi di dare la possibilità anche ai ritardatari di fare richiesta per ottenere il 50% delle spese sostenute per l’adozione.

Peccato che i termini del bando fossero fissati alla fine di aprile, un periodo quanto mai inopportuno visto quello che sta capitando. Gli Enti hanno fatto notare la difficoltà di raccogliere e presentare i documenti in queste settimane sconvolte e la presidente della Cai, Laura Laera, ha provveduto in pochi giorni a bloccare tutto. Se ne riparlerà quando la crisi coronavirus sarà superata e nessuna famiglia adottiva rischierà così di perdere i contributi.

Luciano Moia             Avvenire         19 marzo 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/sos-adozioni-crolla-tutto

 

Da “Adozione 3.0” la richiesta di un supporto economico agli enti autorizzati.

Sono 43 le famiglie adottive italiane al momento bloccate all’estero per la pandemia globale da Coronavirus.  Lo racconta un articolo su Agensir.it: “L’emergenza coronavirus ha anche un effetto collaterale significativo per le coppie che hanno in queste settimane coronato il loro sogno, spesso dopo una lunga attesa, e incontrato i loro figli nei Paesi d’origine. Una permanenza che varia dalle due settimane, fino al mese e mezzo o anche due mesi dei Paesi latinoamericani, per ottemperare ai diversi iter. Proprio nel continente di più lunga permanenza, l’America Latina, si trova il maggior numero di coppie, 25, partite quando la situazione della diffusione del Covid-19 non era così allarmante. Altre 15 si trovano nell’Europa dell’Est e 3 in Asia. Molte di loro non sanno quando potranno tornare, dato che alcune sono state messe in quarantena, soprattutto in America Latina e particolarmente in Colombia (il Paese con più adozioni internazionali nell’area)”.

            La Commissione adozioni internazionale (Cai) e gli Enti accreditati per l’adozione internazionale da qualche mese riuniti nel coordinamento Adozione 3.0, hanno interessato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

“Ma quello delle coppie bloccate all’estero – prosegue l’articolo – è solo uno dei tanti problemi che l’arrivo del Covid-19 porta a una realtà, quella dell’adozione internazionale, che sconta già una forte crisi (il numero di adozioni nel 2019 è sceso per la prima volta solo quota mille, dieci anni fa erano 4 volte tanto). Se sono bloccate all’estero le coppie che già hanno incontrato i loro figli, sono ancora di più quelle che per chissà quanto tempo non potranno partire. A cascata, tutta l’operatività degli enti rischia di bloccarsi”.

            Motivo per cui la cabina di regia “Adozione 3.0”, che raggruppa 47 Enti autorizzati italiani, ha rivolto un appello al ministro della Famiglia Elena Bonetti, affinché il Governo assicuri un aiuto economico. “Quello delle famiglie all’estero – sostiene Pietro Ardizzi di “Adozione 3.0” – è il problema di questi giorni. Alcune situazioni si sono risolte e le coppie sono rientrate. E c’è grande preoccupazione per quei genitori che già hanno conosciuto i loro figli, in qualche caso direttamente (per esempio in Russia, dove l’iter prevede un primo viaggio di conoscenza, ndr). Ora è tutto rimandato, non si sa a quando. Ma è tutto il sistema a essere bloccato, a cominciare dalla prima fase, quella della formazione, che solo alcuni Enti riescono a fare on-line, per proseguire con il conferimento del mandato. Gli Enti si reggono principalmente grazie alle famiglie che si affidano a loro, ma qui rischia di fermarsi tutto. La cifra che abbiamo calcolato ammonta a 6 milioni e 900mila euro. Stiamo parlando con la ministra, che è arrivata da poco, in buon clima, abbiamo finora avuto la possibilità di essere ascoltati. Stiamo lavorando anche con la Cai, pur essendo un po’ preoccupati per il fatto che l’attuale vicepresidente, Laura Laera, lascerà sicuramente il suo incarico in giugno. Il nostro Coordinamento sta lavorando bene, certo scontiamo 6 o 7 anni di totale ‘distrazione’ della politica da tale questione, al cui interno c’è stato il ‘triennio orribile’ della Cai tra il 2014 e il 2017. Naturalmente, sappiamo che il calo delle adozioni internazionali ha anche altre cause, a cominciare dall’incentivazione dell’adozione nazionale in alcuni Paesi. Ma certo, l’atteggiamento della politica in questi anni è stato penalizzante. In ogni caso, il nostro Paese resta il secondo al mondo per numero di adozioni internazionali, dietro solo agli Usa che hanno una popolazione molto più numerosa”.

AiBinews                                21 marzo 2020

www.aibi.it/ita/coronavirus-43-famiglie-adottive-italiane-bloccate-allestero

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AFFIDO CONDIVISO

Affidamento congiunto escluso se genitori altamente conflittuali

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Ordinanza n. 5604, 28 febbraio 2020

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                L’incapacità di rapportarsi responsabilmente alla genitorialità incide sulle modalità dell’affidamento, dovendosi tutelare il superiore interesse del minore. In via di principio la mera conflittualità tra genitori non coniugati che vivono separati non è di per sé ostativa all’affidamento condiviso dei figli. Ciò a condizione che si mantenga entro i limiti di un tollerabile disagio per la prole e non si traduca invece in forme che possono alterare o porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei figli.

            Ne consegue che è corretto negare l’affido condiviso a quei genitori che si sono rivelati incapaci di elaborare il fallimento del proprio progetto di coppia e sono quindi in costante conflitto reciproco, anche in presenza del figlio, incapaci di dialogare o accordarsi nell’interesse superiore del minore senza ricorrere ad avvocati o all’autorità giudiziaria. Lo ha affermato la Corte di Cassazione Civile 

Il caso. La pronuncia trae origine dal decreto con cui il Tribunale di Roma rigettava la richiesta di affido condiviso di un minore, nato da convivenza more uxorio ed affidato al Comune della capitale con precedente decreto della Corte d’appello. Il Tribunale confermava anche la sospensione della responsabilità genitoriale, già disposta dal Tribunale per i minorenni, determinando il contributo mensile per il mantenimento dovuto dal padre e ponendo le spese straordinarie a carico di entrambi i genitori al 50%.

            Il decreto veniva reclamato sia dal padre, che reiterava la richiesta di affido condiviso o in subordine chiedeva una riduzione dell’importo dell’assegno di mantenimento posto a suo carico, sia dalla madre, che invece invocava la corresponsione di un contributo maggiore. La Corte d’appello di Roma rigettava entrambi i reclami rilevando che l’elevata conflittualità tra i genitori, non attenuatasi nel tempo, escludeva in radice la possibilità di un affido condiviso del minore. Quanto agli aspetti economici la Corte reputava corretta la determinazione dell’assegno di mantenimento stabilita dal Tribunale. Rilevato inoltre il parziale inadempimento del padre nel corrispondere l’assegno, disponeva che il contributo fosse versato direttamente alla madre dal datore di lavoro dell’ex compagno. La pronuncia di merito veniva impugnata dal padre e la vicenda giungeva dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Il ricorso per cassazione: i motivi. Il ricorrente contestava in primis l’importo dell’assegno di mantenimento posto a suo carico. Riteneva in proposito che la Corte d’appello non avesse tenuto conto dell’effettiva situazione reddituale dei genitori, né avesse compiuto indagini sul patrimonio della madre, a suo dire titolare di ingenti proprietà immobiliari e mai attivatasi per rendersi economicamente autonoma. Non solo l’entità dell’assegno, ma anche il versamento diretto del contributo tramite il datore di lavoro rappresentavano quindi misure eccessivamente gravose e altamente penalizzanti la situazione economica del ricorrente.

            Con il secondo motivo di ricorso veniva invece reiterata la richiesta di affidamento congiunto del figlio. Il padre osservava che la Corte d’appello non aveva considerato che il conflitto tra i genitori era nato a seguito della decisione della madre di trasferirsi da Milano (dove viveva con il compagno) a Roma, creando così due ambiti affettivi distinti per il figlio, senza possibilità di un pieno esercizio della bigenitorialità. Precludere l’affido condiviso, osservava il ricorrente, significava demandare alla madre tutte le scelte inerenti la vita del minore, senza che il padre potesse influirvi in alcun modo. Un’esigenza a cui avrebbe potuto ovviare la previsione di affidamento condiviso del bambino, con collocazione presso il genitore ritenuto più idoneo.

La posizione della Cassazione: la misura dell’assegno a carico del genitore non collocatario. La Corte disattende entrambe le doglianze proposte. Quanto al primo motivo di ricorso rileva che nel quantificare il contributo di mantenimento del figlio posto a carico del genitore non collocatario, si impone l’osservanza del principio di proporzionalità. La misura dell’assegno dev’essere quindi stabilita valutando comparativamente i redditi di entrambi i genitori e tenendo in considerazione le esigenze attuali del figlio ed il tenore di vita da lui goduto (così Cass., 01/03/2018, n. 4811; Cass., 10/07/2013, n. 17089). Il Collegio ritiene pertanto che la pronuncia d’appello sia immune da vizi, posto che il giudice aveva confermato la misura dell’assegno stabilita dal Tribunale proprio in base all’esame del reddito di entrambi i genitori e delle esigenze del minore.

            Anche l’ordine di versamento diretto, in favore della madre, posto a carico del datore di lavoro dell’ex convivente è ritenuto insindacabile in sede di legittimità, in quanto adeguatamente motivato.

Affidamento condiviso e genitori altamente conflittuali. Quanto al secondo motivo di ricorso, la Corte premette che la mera conflittualità tra i genitori non coniugati e che vivono separati non preclude, in via di principio, il ricorso al regime preferenziale dell’affidamento condiviso. Ciò purché si mantenga nei limiti di un tollerabile disagio per la prole, non dovendo quindi porre in serio pericolo l’equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei figli, pregiudicandone l’interesse (Cass., 06/03/2019, n. 6535; Cass., 29/03/2012, n. 5108).

            Il Collegio chiarisce quindi che la decisione dei giudici di merito è stata correttamente adottata alla luce del quadro di genitorialità “assolutamente desolante” riscontrato nel caso di specie. Entrambi i genitori si erano infatti rivelati palesemente immaturi ed incapaci di elaborare il fallimento del proprio progetto di coppia e dunque di rapportarsi responsabilmente alla genitorialità. La relazione dei Servizi Sociali del Comune di Roma evidenziava infatti che la totale conflittualità tra i due era ancora esistente, con continui tentativi di delegittimazione reciproca, anche in presenza del figlio, e l’impossibilità di instaurare un seppur minimo dialogo nell’interesse superiore del minore, senza ricorrere ad avvocati o all’autorità giudiziaria. Tali circostanze, unitamente al persistente rifiuto dei due di sottoporsi ad un percorso di mediazione, ma soprattutto in ragione della sofferenza procurata al minore, avevano giustamente indotto la Corte d’appello a confermare l’affidamento del bambino al Comune di Roma, con nomina del Sindaco pro tempore in qualità di tutore provvisorio.

            Al bambino era stato tra l’altro offerto un supporto psicologico di sostegno, nell’attesa che la situazione dei genitori venisse ulteriormente monitorata, al fine di stabilirne l’effettiva adeguatezza a divenire affidatari, al momento esclusa dal giudice di merito.

Il mutamento di residenza del genitore. Il Collegio osserva infine che, in generale, il mutamento di residenza della madre non la priva né del diritto all’affidamento, se esistente, né dell’eventuale qualifica di collocataria del minore. Il giudice dovrà infatti valutare esclusivamente se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro genitore, consapevole dell’inevitabile incidenza negativa che ciò avrà sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario (così Cass., 14/09/2016, n. 18087; Cass., 12/05/2015, n. 9633).

Conclusioni. Muovendo da tali considerazioni e rilevando che il ricorrente non aveva fornito prova dell’esistenza di un’effettiva situazione di disagio del minore a causa del trasferimento della madre, la Corte ha rigettato il ricorso dichiarandolo inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese.

Irene Marconi            Altalex           20 marzo 2020

www.altalex.com/documents/news/2020/03/20/affidamento-congiunto-escluso-se-genitori-altamente-conflittuali

 

Il genitore separato non può essere costretto a vedere il figlio

                        Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 6471, 6 marzo 2020

www.miolegale.it/sentenze/cassazione-civile-i-26-6471-2020

            Il genitore separato non può essere obbligato a vedere il figlio che non vive con lui. Il diritto dovere di visita al minore da parte del genitore non collocatario è incoercibile. Il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario costituisce una condotta infungibile che non è coercibile neppure in via indiretta per le modalità di cui all’art. 614-bis c.p.c. ovvero con il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza. L’esclusione della coercibilità, a favore del figlio, del diritto di visita e del corrispettivo dovere del genitore non affidatario o non collocatario di garantire una sua frequentazione regolare, comporta la impossibilità di applicare l’art. 614-bis c.p.c., inteso quale fonte di un provvedimento di coercizione indiretta nei confronti del genitore che rifiuta di frequentare il proprio figlio.

            Il provvedimento di cui all’art. 614-bis c.p.c. presuppone l’inosservanza di un provvedimento di condanna, ma il diritto (e il dovere) di visita costituisce una esplicazione della relazione fra il genitore e il figlio che può trovare regolamentazione nei suoi tempi e modi, ma che non può mai costituire l’oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile. A questa constatazione deve aggiungersi che l’emanazione di un provvedimento ex art. 614-bis c.p.c. si pone in evidente contrasto con l’interesse del minore il quale viene a subire in tal modo una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione.

            Tantomeno la frequentazione del figlio può essere costretta in via preventiva con un provvedimento emanato ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c., comma 2 c.p.c. Il giudice ha il potere, in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore, ovvero ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, di modificare i provvedimenti in vigore e, anche congiuntamente, di:

  1. Ammonire il genitore inadempiente;
  2. Disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore o
  3. Nei confronti dell’altro genitore;
  4. Condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 Euro a un massimo di 5.000 Euro a favore della Cassa delle ammende.

Tale norma ha il diverso significato di prevedere delle ipotesi di risarcimento a fronte di un danno già integrato dalla condotta di uno dei genitori, e di questa la sanzionabilità diretta, e non una coercizione preventiva e indiretta di un dovere nel caso della sua inosservanza futura. Ovviamente in caso di inadempienza del genitore rispetto alla frequentazione del figlio possono essere modificati i provvedimenti in vigore in tema di affidamento ma anche essere emessi provvedimenti de potestate sino alla decadenza stessa dalla responsabilità genitoriale. La non coercibilità del diritto di visita non vale, infatti, ad escludere che al mancato suo esercizio non conseguano effetti.

All’inerzia del genitore non collocatario può derivare l’eccezionale applicazione dell’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore (art. 316 c.c., comma 1), la decadenza della responsabilità genitoriale e l’adozione di provvedimenti limitativi della responsabilità per condotta pregiudizievole ai figli (artt. 330 e 333 c.c.), la responsabilità penale per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) quando le condotte contestate, con il tradursi in una sostanziale dismissione delle funzioni genitoriali, pongano seriamente in pericolo il pieno ed equilibrato sviluppo della personalità del minore (Cass. pen. sez. 6, 24/10/2013 n. 51488, Rv. 257392 – 01).

                           Gianluca Lanciano Mio legale       14 marzo 2020

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Affidamento condiviso: un “diritto di visita” facoltativo per genitori e figli?

Ineccepibile il ragionamento che conduce la Cassazione (SC nel seguito) a sostenere l’impossibilità di utilizzare l’art. 614-bis c.p.c. per obbligare un genitore non collocatario a frequentare il figlio. Purtroppo, tuttavia, l’intera costruzione si fonda su malfermi e discutibili presupposti giuridici. La SC, infatti, tratta la materia senza fare alcun riferimento ai profondi cambiamenti della normativa avvenuti con la riforma del 2006 e non preoccupandosi di confrontarsi con alcun riferimento che sia diverso da se stessa, senza neppure accorgersi che i precedenti che utilizza sono addirittura anteriori all’introduzione dell’affidamento condiviso. La verifica è quanto mai semplice, perché interi antichi passaggi logici vengono riprodotti pressoché inalterati, curando solo di sostituire nominalisticamente a ” genitore non affidatario” ” genitore non collocatario”.

Ci sarebbe, quindi da chiedersi cosa ha di interessante una pronuncia che si pone nel solco di tantissime altre. E’ presto detto. La Cass. n. 6471/6 marzo 2020 evidenzia e tratta esplicitamente tutto ciò che concettualmente si limitava a serpeggiare tra le righe e che formalmente emergeva solo in atti semiufficiali come la modulistica per le separazioni.

Incompatibilità del “diritto di visita” con l’affidamento condiviso. Accade così che tutto l’armamentario terminologico antecedente alla riforma del 2006 venga testualmente conservato, a partire proprio dal concetto di “diritto di visita”, oggetto dell’ordinanza, che non può trovare ospitalità in un contesto di affidamento condiviso. Non si comprende, infatti, come in quel regime, una volta ammesso che a prendersi cura dei figli sono chiamati pariteticamente entrambi i genitori, entrambi affidatari, si possa sostenere che i figli siano legittimamente da pensare conviventi con uno solo di essi, presso il quale l’altro genitore ha facoltà di andarli a trovare di tanto in tanto, e solo se ne ha voglia. Pertanto, l’incoercibilità del diritto di visita è effettivamente dimostrata con un ragionamento formalmente valido, ma solo se si ammette di trovarsi in un regime di affidamento esclusivo.

            A dimostrazione di ciò, essendo non contestabile la pari investitura dei genitori nei confronti dei figli, se non altro ai sensi dell’articolo 30 della Costituzione, la discrezionalità nel mantenersi in contatto con i figli dovrebbe valere anche per il genitore collocatario; un’affermazione dalla quale conseguirebbe il diritto, in linea di principio, dei genitori di abbandonare la prole. Chi scrive è perfettamente consapevole del fatto che la SC non ha dimenticato che resterebbero sanzionabili, anche penalmente, le conseguenze della mancanza di contatto. Solo che riservare a quegli aspetti l’esercizio o meno del diritto-dovere di contatto (ovvero limitarsi a sanzionare le conseguenze del mancato esercizio) significa rinunciare ad una impostazione coerente con i principi generali – che oltre tutto avrebbe una efficace funzione preventiva – e accontentarsi di punire il manifestarsi di effetti collaterali indesiderati, a danno subito.

            Citazioni modificate della normativa vigente. Allo stesso tempo, appare evidente che l’esercizio di un “diritto di visita” da parte di un genitore definito “convivente” appare inconcepibile, il che rimarca le differenze tra genitori di natura giuridica sostanziale che questo approccio costruisce. E difatti la SC non lo discute e non lo ipotizza neppure. Tuttavia, forse consapevole di porsi su posizioni indifendibili e nel tentativo di prevenire inevitabili e pesanti obiezioni ricorre all’inaccettabile espediente di modificare, nel citarlo, lo stesso testo della norma, forse sperando nella distrazione dei lettori. Il rapporto dei figli con ciascuno dei genitori (loro diritto indisponibile) che l’art. 337-ter comma I c.c. caratterizza come “equilibrato e continuativo” viene dalla Corte di legittimità illegittimamente ribattezzato come “equilibrato e significativo”, equiparando in tal modo il rapporto dei figli con i genitori a quello con gli ascendenti, soggetto in tutt’altra relazione con gli interessati: “l’esercizio in comune della responsabilità genitoriale che è destinato … attraverso l’affido condiviso, a mantenere rapporti equilibrati e significativi con entrambi i genitori (art. 337-ter cod. civ.).” Operazione che ripete più avanti, amputando anche il termine “equilibrato” e nuovamente utilizzando il termine “significativo” (“Al diritto del genitore non convivente di continuare a mantenere rapporti significativi con i figli minori corrisponde…”), così privando la norma di qualsiasi concretezza e oggettività.

            Interpretazioni “soggettive” della legge 54/8 febbraio 2006.

https://www.camera.it/parlam/leggi/06054l.htm

Né si ferma qui. Al comma II dell’art. 337-ter c.c., infatti, il legislatore, dopo che è stato pronunciato l’affidamento a entrambi i genitori, non può fare a meno di incaricare il giudice di definire le occasioni e le modalità di contatto tra i figli e ciascuno di essi (“determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore”), poiché lui solo, in caso di disaccordo, dovrà stabilire quali sono i giorni in cui stanno dalla madre e quelli in cui deve occuparsene il padre nonché, ad es., a chi e quando spetta andarli a prendere o accompagnarli. Tuttavia la SC in 6471/2020 si posiziona diversamente e si sbilancia a sostenere fantasiosamente che il legislatore con quel passaggio ha inteso attribuire al giudice la declinazione del “diritto di visita”; ovvero che di quella prescrizione non è destinatario l’intero gruppo familiare, ma solo il genitore non collocatario: “le parti – o in caso di mancato accordo il giudice – dopo aver determinato il genitore con il quale i minori continueranno a convivere, stabiliscono anche i tempi e le modalità di presenza dei figli presso il genitore non collocatario”. Una procedura che si sposa perfettamente con la prassi dominante, in forza della quale in sostanza il giudice è chiamato a stabilire se il genitore emarginato potrà “vedere e tenere con sé” (come si legge nei prestampati di quasi tutte le cancellerie) i figli il mercoledì e il giovedì pomeriggio o solo il giovedì; oltre al fatidico w-e alternato. Ma al tempo stesso tesi di incredibile audacia, visto che si scontra con la sistematica cancellazione operata dal legislatore di ogni minimale differenza tra i genitori presente nell’antica formulazione, alla quale ci si aspettava che una corte di legittimità dedicasse la necessaria attenzione.

Innovativa definizione della bigenitorialità. Viceversa, una volta schieratasi a favore del modello a genitore prevalente risulta indispensabile alla SC intervenire anche sul concetto stesso di bigenitorialità, dandone una personale definizione coerente con la scelta fatta, evidentemente incompatibile con quella del legislatore del 2006: “… da intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio che sia idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione ed istruzione del secondo (ex multis: Cass. 23/09/2015 n. 18817; Cass. 22/05/2014 n. 11412; Cass.9764/2019).”. Una definizione nella quale salta agli occhi l’inserimento surrettizio del concetto di “stabilità”, da non intendersi come pieno mantenimento dei precedenti legami affettivi e contributo educativo, ma come aziendale tutela di una collocazione materiale fissa presso l’abitazione di un solo genitore. Le espressioni che si riferiscono alla duplice responsabilità genitoriale appaiono, infatti, in forza del contesto generale, come una eterogenea giustapposizione a preventiva autodifesa all’interno di una evidente opzione a favore della monogenitorialità, totalmente mancando di sostanza e costituendo solo un non credibile, astratto e del tutto virtuale riferimento ai valori e ai diritti che l’affidamento condiviso intende concretamente stabilire e tutelare.

Legame diretto con l’affidamento esclusivo. E che questa sia la lettura corretta del pensiero della SC è confermato pienamente dalle successive citazioni (giustamente ex multis), introdotte a sostegno della propria tesi, senza percepire che in realtà testimoniano (ove pertinenti) solo una concezione dell’affidamento filiata direttamente da quello esclusivo, riproducendone fedelmente i cardini; come qui inizialmente osservato. Vediamole in dettaglio. Il rinvio a Cass. 9764/2019 nulla aggiunge alle tesi di Cass. 6471/2020 essendone la redazione della stessa mano, tanto che la pag. 4 di quel provvedimento ripete, copia e incolla, le identiche parole sopra riportate, citazioni incluse. D’altra parte, è difficile comprendere quale contributo possa venire dalla sentenza 11412/2014, visto che l’unico accenno al modello applicativo recita: “Nella concreta fattispecie proprio tenuto conto dell’interesse esclusivo del minore e della consumata violazione (per condotta imputabile alla ricorrente e per la conflittualità in atto tra i genitori) del suo diritto alla bigenitorialità, la Corte territoriale ha affidato il minore stesso al Servizio Sociale di xz”. Nel resto si parla di tutt’altro.

            Resta, ed è indubbiamente interessante, il riferimento a Cass. 18817/2015, ove si legge: “La corte di merito ha dovuto prendere atto della particolare situazione venutasi a creare a seguito della cessazione della convivenza more uxorio, e segnatamente dell’avvenuto trasferimento della residenza della G… in una città diversa da quella in cui viveva … che ha reso necessarie scelte appropriate in ordine all’individuazione dei tempi e delle modalità di permanenza del minore presso ciascun genitore.” Quindi nel caso particolare per la discriminazione tra i genitori, contestata dal ricorrente, ci si giustifica con le difficoltà materiali prodotte dalla distanza. Tuttavia, non cogliendo il vizio logico (si sarebbe dovuto e potuto saltare ogni giustificazione se si fosse creduto davvero nella necessità di un genitore prevalente), per quanto attiene ai criteri generali si ripetono pedissequamente e acriticamente – come già osservato – quelli utilizzati a suo tempo per l’affidamento esclusivo: “… l’individuazione del genitore collocatario deve aver luogo sulla base di un giudizio prognostico circa la capacità dello stesso di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dal fallimento dell’unione, giudizio da formularsi con riferimento ad elementi concreti, emergenti non solo dalle modalità con cui ciascuno dei genitori ha svolto in passato i propri compiti, ma anche con riguardo alla rispettiva capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità ad un assiduo rapporto, nonché alla personalità del genitore, alle sue consuetudini di vita ed all’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore.”

            Da cui emerge che si sta operando una selezione tra i due genitori, alla ricerca del migliore dei due, quello (ogni espressione è al singolare) che provvederà a crescerlo ed educarlo. Dove? Nell’ambiente dove lui vive e dove quindi vivrà il figlio. L’altro scompare. Anzi no, può andare a visitarlo; se vuole. E già con questo, con la distinzione di ruoli e competenze, la bigenitorialità non esiste più.

            Rileva comunque, se ce ne fosse ancora bisogno, mettere accanto a questi concetti quelli utilizzati in Cass. 6312/1999 per l’individuazione del genitore cui attribuire l’affidamento esclusivo dei figli: “… il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio fondamentale – posto per la separazione dal legislatore della riforma del diritto di famiglia nell’art. 155 comma 1 c.c. … dell’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo – nei limiti consentiti da una situazione comunque traumatizzante – i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore, in quel contesto di vita che risulti più adeguato a soddisfare le sue esigenze materiali, morali e psicologiche”. I concetti sono del tutto analoghi, ma nel 1999 il citato legislatore era quello del 1975, per cui l’estensore del provvedimento era perfettamente legittimato dalla normativa di allora a evidenziare la necessità di individuare un genitore più idoneo dell’altro e a dettarne i criteri. Non così chi scrive nel 2020. Ovvero si usano le identiche considerazioni per spiegare due riforme che si pongono agli antipodi, tanto che la seconda è stata definita “rivoluzione copernicana” rispetto alla prima.

            Dovere di frequentazione da includere in diritto cura e assistenza morale. D’altra parte, sviluppate queste considerazioni e negata l’esistenza di un “diritto di visita”, sembrerebbe che il giudicante resti ancor più disarmato di fronte a un genitore che rifiuti la frequentazione del figlio; non a caso nella fattispecie negato il ricorso all’art. 614 bis c.p.c. si invocano velleitari percorsi di recupero, subordinati all’accordo tra i soggetti, che nulla hanno di giuridico. A meno che, si dice, non ricorrano gli estremi per sanzioni penali conseguenti al disinteresse.

            Viceversa una soluzione esiste, dettata da una lettura più attenta e fedele della normativa stessa. Il legislatore, infatti, ha declinato in modo più specifico ed esatto le prescrizioni dell’articolo 30 Cost., sostituendo il ben più ampio concetto di cura al termine mantenimento. E percorrendo questa via il problema neppure si pone. Nel momento in cui ciascuno dei genitori ha l’obbligo di soddisfare determinati bisogni del figlio ciò comporta automaticamente la necessità di incontrarlo. L’assegnazione di compiti di cura, in partenza, ad entrambi i genitori, entrambi investiti di identiche responsabilità anche se articolate in ambiti diversi, permetterebbe di realizzare il contatto nel modo più fisiologico – il medesimo che si realizza all’interno della famiglia non separata – senza introdurre tra di essi discriminazioni non previste dalla legge e senza ricorrere all’invenzione di un concetto come quello del “diritto di visita”, estraneo al contesto dell’affidamento condiviso. È infatti evidente che non si può svolgere alcun compito educativo e/o di cura senza frequentare chi ne è oggetto. Quindi se, nel suo approccio puerocentrico, la legge 54/2006 attribuisce al figlio il diritto indisponibile a un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (e questo lo si legge) non si vede come sostenere che tuttavia il genitore resta libero di vedere il figlio oppure no, a sua discrezione (e infatti non c’è scritto). Esattamente come definire facoltativa la frequentazione si pone in contrasto anche con il diritto dei figli alla “assistenza morale” da parte di ciascuno dei genitori, di più recente introduzione, intrinsecamente collegato alla presenza fisica (si veda la giurisprudenza sul danno esistenziale).

                        D’altra parte, la precisazione dei giorni in cui il figlio è rimesso alla custodia di uno dei genitori viene ad avere l’unico senso di razionalizzarne la gestione, fermo restando che la presenza di quel genitore deve necessariamente esserci. È’ sottintesa. Esattamente come, si potrebbe aggiungere, nel concetto di cura è sottintesa la forma diretta del contributo al mantenimento economico. Riassumendo: non ci si può prendere cura di un figlio, non lo si può educare e confortare, non si può provvedere ai suoi bisogni senza essere presenti nella sua giornata e senza assumere oneri economici.

            Questo è il modello scelto dal legislatore, in forza del quale, se rispettato, sarebbero giuridicamente improponibili soppressioni della frequentazione che fossero desiderate sia dal genitore che dal figlio.

            Figlio la cui disponibilità agli incontri sarebbe viceversa essenziale, nell’approccio della SC qui discusso. Difatti, le non condivisibili considerazioni sul facoltativo “diritto di visita” sono accompagnate dall’altrettanto sorprendente affermazione di ulteriore aleatorietà di rapporto, che viene subordinato anche alla buona o mala voglia dei figli di avere a che fare con quel genitore: “Rimarca, in via speculare, il carattere non obbligato ed incoercibile del dovere di frequentazione del genitore, il diritto del figlio minore di frequentare il genitore quale esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata, per caratteri tanto più obiettivamente inverabili quanto più vicina sia la maggiore età e che, in quanto tali, possono spingersi fino al rifiuto stesso (Cass. 13/08/2019 n. 21341 non massimata, p. 8). Ovviamente non stupisce che la citata ordinanza del 2019 abbia avuto la medesima fonte redazionale della presente.

            Conclusioni. Comunque, nella speranza che almeno la dottrina voglia raccogliere quanto qui segnalato, potrebbe sommessamente suggerirsi una diversa formulazione del principio di diritto oggetto del presente commento. Ovvero: “Il diritto-dovere di frequentazione del figlio minore che spetta a ciascuno dei genitori non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c., ma deve trovare diretta e automatica soddisfazione nei compiti di educazione e cura che ad entrambi compete in regime di affidamento condiviso”.

            Concludendo, rammentando che la Suprema Corte è depositaria di decisioni non reclamabili, per cui gli esposti orientamenti, che si stanno confermando e rafforzando a ritmo crescente nei tempi recenti, non sono modificabili per vie interne alla giurisprudenza, è ancora più doloroso e preoccupante prendere atto della attuale non percorribilità della via legislativa, già tentata innumerevoli volte per gli identici motivi di rammarico qui espressi, essendo il Parlamento necessariamente chiamato ad occuparsi delle note emergenze, adesso e chissà per quanto tempo ancora.

            Marino Maglietta       studio Cataldi             18 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37707-affidamento-condiviso-il-diritto-di-visita-e-facoltativo-per-genitori-e-figli.asp

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio per la casalinga che ha favorito la carriera del marito

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 6519, 9 marzo 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37659_1.pdf

La Cassazione rigetta il ricorso di un marito obbligato in sede d’appello a versare alla moglie l’assegno mensile di 1.600 euro. Come osservato correttamente dal giudice di seconde cure occorre discostarsi dal superato criterio del tenore di vita, come affermato dalla Cassazione n. 11504/2017, senza dimenticare però la funzione perequativa, assistenziale e compensativa dell’assegno di divorzio, il quale non può non considerare l’età del coniuge richiedente, la sua effettiva possibilità di riprendere a lavorare, i sacrifici fatti per la famiglia e il contributo alla formazione del patrimonio famigliare con il lavoro fuori casa e casalingo.

La Corte d’Appello ridetermina l’assegno divorzile in favore della ex moglie in 1.600 euro mensili. Nel prendere questa decisione la Corte mette da parte il superato criterio del tenore di vita, ma evita anche d’incidere in maniera punitiva. Nel caso di specie infatti il coniuge richiedente è rimasto sposato a lungo, ha dedicato molto tempo alla famiglia e al partner e ha incrementato le risorse economiche familiari con il proprio lavoro in casa e fuori. Decisivi ai fini del decidere la durata del matrimonio e la disparità reddituale tra le parti.

            La donna infatti è sicuramente la parte debole del rapporto perché non dispone di risorse proprie da lavoro, non gode di altre disponibilità liquide, oltre a quelle derivanti dalla vendita degli appartamenti paterni divisi a metà con la sorella, vive in affitto ed è comproprietaria di un immobile difficilmente produttivo di reddito. Giusto quindi ridurre l’assegno alla moglie, ma non nella misura indicata dal marito. Stante l’età, la donna difficilmente riuscirà a reperire facilmente un lavoro, andrà incontro a spese future inevitabili e utilizzerà parte dell’assegno per pagare l’affitto.

Il marito ricorre in Cassazione e lamenta con il primo motivo la mancata produzione in giudizio da parte della moglie delle dichiarazioni di successione del padre e della madre. Con il secondo si duole di come la Corte non abbia preso in considerazione il fatto che la ex moglie avrebbe potuto andare a vivere nella casa paterna, risparmiando così la spesa dell’alloggio. Con il terzo lamenta l’omesso esame dell’accordo secondo cui l’onere dell’affitto sarebbe gravato sul marito sino a quando la moglie non avesse acquistato la libera disponibilità gratuita di un immobile e comunque una volta sopravvenuta la morte del padre. Con il quarto contesta la ritenuta non redditività del cespite ereditato dalla ex moglie, stante l’assenza di prove al riguardo. Con il quinto lamenta il giudizio della Corte sulla capacità e possibilità effettiva della donna di produrre reddito, stante la mancata produzione di prove sulle iniziative della stessa per raggiungere l’indipendenza economica. Con il sesto contesta l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia che la figlia ha deciso di vivere con il padre, ragion per cui la misura dell’assegno pare eccessiva perché destinata a una donna sola. Con il settimo e l’ottavo motivo contesta l’entità dell’assegno, perché di molto superiore ai possibili parametri d’indipendenza o autosufficienza economica e per il fatto di aver stabilito tale emolumento tenendo conto dei redditi del marito e del divario reddituale tra i due, mentre la Corte avrebbe dovuto prendere in considerazione solo la condizione del richiedente, allontanandosi così dalle indicazioni dettate dalla sentenza n. 11504/2017.

La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo tutte le prime sei doglianze sollevate inammissibili perché finalizzate a ottenere un giudizio sostitutivo rispetto a quello di merito, che si è concluso con una motivazione congrua e adeguata, che si sottrae quindi alle critiche del ricorrente. Per quanto riguarda il settimo e ottavo motivo del ricorso, in cui il ricorrente lamenta il discostamento dai parametri sanciti dalla sentenza n. 11504/2017, che ha abbandonato il tenore di vita nella determinazione dell’assegno di divorzio, la Cassazione fa presente che la successiva SU n. 18287/2018 è intervenuta per dare una diversa lettura all’assegno di divorzio più coerente con il quadro costituzionale. Da qui l’adozione del parametro perequativo-compensativo che discende dal principio di solidarietà e che deve tenere conto delle condizioni reddituali e patrimoniali di entrambi e del raggiungimento di un livello di reddito adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, senza ignorare le aspettative professionali sacrificate, in considerazione dell’età del richiedente e della durata del matrimonio.

Da qui l’affermazione, relativa all’art. 5 della legge n. 898/1970, del principio secondo cui “il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.”

            Al richiedente si tenderà a riconoscere, in virtù di detto principio, un importo in grado di garantirgli una vita dignitosa e autonoma, che gli riconosca il sacrificio e quanto fatto durante il matrimonio. Proprio da questa logica si è mossa la decisione della Corte d’Appello. Essa ha abbandonato il criterio del tenore di vita, stante l’intolleranza di rendite parassitarie in presenza della giovane età del richiedente e della sua acclarata capacità lavorativa, per abbracciare un indirizzo che evita di punire il coniuge più debole economicamente, che è stato sposato per lungo tempo, che ha dedicato il proprio tempo alla famiglia, aumentandone le risorse economiche comuni con il lavoro dentro e fuori casa. Una valutazione di questo tipo è sicuramente la più aderente alla realtà del caso concreto.

Annamaria Villafrate studio Cataldi 13 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37659-assegno-di-divorzio-per-la-casalinga-che-ha-favorito-la-carriera-del-marito.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 11, 18 marzo 2020

Viva l’Italia! Sulle canzoni gridate dai balconi delle nostre case si è costruita una HIt Parade emozionante, che colloca al primo posto l’Inno di Mameli: e poi Azzurro di Paolo Conte/Celentano, Rino Gaetano con Il cielo è sempre più blu, L’Italiano di Toto Cotugno; Fai rumore di Diodato, Credo negli esseri umani di Marco Mengoni, Napul’è di Pino Daniele, La cura di Franco Battiato, Sogna, ragazzo sogna di Roberto Vecchioni e Meraviglioso di Domenico Modugno (versione Negramaro. E tante altre canzoni popolari, regionali o moderne. Tutte fantastiche, soprattutto perché cantate insieme, a testimoniare “l’Italia che non ha paura” e “l’Italia che resiste” Per questo aggiungo qui la mia personale scelta, con Viva l’Italia di De Gregori. [ascoltala]. (F. Belletti).

www.youtube.com/watch?v=kMx2YGkKUqQ&list=RDkMx2YGkKUqQ&index=1

v  Sostegno alle famiglie per l’emergenza coronavirus. Un breve commento sul Decreto del Consiglio dei ministri del 16 marzo 2020 (Francesco Belletti). “[…] Questa volta, invece, con il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 16 marzo 2020 per fronteggiare l’emergenza coronavirus, per la prima volta i concreti interventi di sostegno alle famiglie sono stati introdotti non più a piè di lista, ma con “pari dignità” rispetto a tutte le altre priorità, alla pari degli interventi per sostenere gli operatori sanitari, per proteggere le imprese, per difendere il lavoro. Il dato è decisamente positivo, e corrisponde, del resto, alla realtà dei fatti: chiudersi tutti in casa ha significato, inevitabilmente, chiedere alle famiglie un impegno unico, e riconoscere la famiglia come luogo protettivo; alle famiglie è chiesto un ruolo pedagogico decisivo per aiutare bambini, ragazzi, giovani e adulti a capire che ‘il bene di tutti viene prima dei desideri di ciascuno’ […].”

www.ilsussidiario.net/news/decreto-cura-italia-e-famiglie-bene-congedi-e-voucher-ma-dopo-lemergenza/1997618

v  ICCFR-Berlino 2020 -66.a Conferenza internazionale. Helping Families through Separation and Divorce: Collaboration, not Confrontation, in Social Plurality (Il sostegno alle famiglie per attraversare separazione e divorzio: collaborazione, non scontro, in una società plurale). L’International Commission on Couple and Family Relations (ICCFR), network internazionale cui il Cisf collabora stabilmente, ha programmato la sua 66.a Conferenza internazionale a BERLINO dal 29-30 ottobre 2020 (la 65.a Conferenza si era svolta a Roma, sul tema migranti, a novembre 2019)

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/documentation

      Obiettivo della Conferenza sarà la comparazione tra i diversi contesti nazionali, alla ricerca di modelli di accompagnamento che consentano di affrontare positivamente il conflitto, verso soluzioni più “concertate”, a tutela del benessere dei coniugi e dei figli eventualmente presenti. La Conferenza si terrà in inglese. 

                                                                                                         https://iccfr.org/berlin-2020

v  Una testimonianza del Cuamm tra Italia ed Africa. Conta lo sguardo sulla realtà. Davanti all’emergenza Coronavirus le testimonianze di eroismo quotidiano sono numerose nel nostro Paese, e per fortuna i vari media ne danno ampiamente conto (pur con qualche grave smarginatura di sensazionalismo o di gratuita conflittualità polemica, di cui si dovrà poi parlare, una volta finita l’emergenza). Anzi, la libera voce di tante persone proprio sui social ha saputo mostrare “l’Italia che resiste”. Preferiamo qui dare voce ad un punto di vista particolare, giocato su un doppio punto focale: il dovere di affrontare l’emergenza qui, nelle nostre case, strade e città, senza dimenticare gli ultimi, lontani da noi ma prossimi nella nostra azione solidale. A me questo testo ha aiutato tanto! (F.Belletti 14 marzo 2920)

    “Carissimi, […] Sono atterrato da poco a Roma di rientro, via Addis Abeba, dal Sud Sudan. […] Ma dove le emozioni mi hanno travolto è stato in uno dei luoghi più lontani e dimenticati del Paese. Nyal, 40.000 persone, nello Stato di Unity. La gente del posto era tutta lì, ad aspettare il nostro arrivo. C’era tutta la comunità raccolta per “celebrare” la nuova sala operatoria annessa al modesto centro sanitario. Non ce n’era mai stata una prima d’ora. Adesso finalmente le mamme possono partorire senza la paura di perdere la vita. […] Rientrando in Italia, con le città deserte e gli ospedali di alcune nostre regioni in enorme sofferenza, ho percepito forte questo stato d’animo. Il “coronavirus” ha infettato il nostro paese e siamo ammalati, costretti al riposo, protetti nelle case, obbligati a fermarci. Negozi chiusi, attività bloccate, uffici e incontri sospesi. I più deboli cedono e l’economia crolla. La vita è un filo di lana, il confine tra una parte e l’altra del mondo è labile, sottile. Trovarsi “di qua” o “di là” è questione di un attimo. L’umanità è una sola […] E poi in Africa, là dove sempre scarseggiano mezzi, assistenza, personale. Ci sono ancora pochi casi accertati di Covid-19, ma sono destinati a crescere e bisogna essere preparati […] Francesco Canova, fondatore del Cuamm nel gennaio del 1946 si trovava, di passaggio, alla stazione di Caserta e spaventato dalle distruzioni che vedeva intorno, chiese al capostazione se tutta l’Italia fosse così. E da quel “piccolo uomo malvestito” si sentì rispondere: “Anche peggio, figlio mio, anche peggio. Ma non te la prendere, vedrai che ci tireremo su presto: parola di Gennarino!”  (don Dante Carraro – Presidente CUAMM) [tutto il testo].

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf1120_allegato1.pdf

Formazione di coppia – anche a distanza

  • In tempi di quarantena, sostegni a distanza per le relazioni in famiglia. In un momento storico paradossale, in cui la prossimità deve esprimersi “tenendo a distanza fisica” tutti gli operatori di sostegno alle relazioni si stanno inventando nuove forme di supporto: colloqui psicologici via skype, filmati, brevi video sui social, ecc. Rilanciamo qui, anche a titolo di esempio, un’esperienza di consulenza di coppia nella forma di “webinar” “Laboratorio per coppie (di Marco Scarmagnani). Anche a dimostrare che, con la giusta creatività, anche le interazioni e le connessioni digitali possono generare “buone relazioni”. “Il laboratorio per coppie online o webinar (web+seminar) è una modalità formativa ed aggregativa che permette di acquisire contenuti stando tranquillamente a casa propria. Permette ad ogni coppia di apprendere, giocare, riflettere in completa intimità senza dover affrontare costi di spostamento o preoccuparsi della gestione dei figli. Il tutto semplicemente con un tablet, un pc o uno smartphone […].”

www.versounacoppiafelice.it/laboratori-per-coppie-online-webinar-check-up-amore

USA. Talking to Children About COVID-19 (Coronavirus): A Parent Resource (Come parlare ai bambini del Covid-19. Uno strumento per i genitori). La NASP (National Association of School Psichologists) ha stilato alcune linee guida per sostenere i genitori su come spiegare la situazione della epidemia Coronavirus ai propri figli, suddividendo le strategie per fasce d’età. “I bambini in età pre-scolare necessitano di indicazioni brevi e semplici che bilancino le informazioni reali sul COVID-19 con delle rassicurazioni. Bisogna far capire loro che a casa sono al sicuro e che gli adulti si stanno occupando del problema, ma è necessario istruirli sulle buone norme quotidiane per evitare il contagio, come lavarsi spesso le mani. Si suggerisce di utilizzare espressioni come “Gli adulti stanno lavorando tanto per tenerti al sicuro”. I bambini delle elementari e delle scuole medie inferiori saranno più curiosi, perciò chiederanno molte informazioni sulla loro effettiva incolumità e sulle conseguenze del COVID-19 sulla loro comunità. Potrebbero avere bisogno di un aiuto per distinguere le informazioni reali da quelle di fantasia che hanno sentito in giro o che loro stessi si sono figurati. Bisogna illustrare gli sforzi che si stanno portando avanti nel contenimento del virus. I ragazzi delle scuole medie superiori sono capaci di discutere le questioni in maniera adulta e approfondita. Bisogna quindi fornire informazioni oneste, accurate e fattuali circa lo stato del COVID-19, così da aiutarli ad avere un senso di controllo sulla situazione”.

www.nasponline.org/resources-and-publications/resources-and-podcasts/school-climate-safety-and-crisis/health-crisis-resources/helping-children-cope-with-changes-resulting-from-covid-19

v  Non è una giustizia minore. Secondo rapporto sugli istituti penali per minori dell’Associazione Antigone. Si tratta degli esiti del monitoraggio dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione negli istituti penali per minori, i cui membri sono autorizzati dal Ministero della giustizia minorile ad entrare nelle 16 carceri minorili italiane. “Il quadro che esce dal rapporto – dichiara la curatrice Susanna Marietti- evidenzia, da un lato la tenuta nei numeri di un sistema penitenziario minorile che non è colpito fortunatamente dal sovraffollamento, dall’altro i rischi di un suo smantellamento come qualcuno invece vorrebbe nel nome di una assurda esigenza di sicurezza. La specificità della condizione minorile va non solo preservata, ma finanche sostenuta ulteriormente, approvando un ordinamento penitenziario per minori a prevalente se non esclusivo orientamento educativo”. [curato da Susanna Marietti, e-book MicroMega].

www.osservatorioantigone.it/new/76-archivio/2627-non-una-giustizia-minore-secondo-rapporto-sugli-istituti-penali-per-minori

v  “Aiutateci ad aiutare!” il terzo settore nell’emergenza sanitaria del coronavirus.  “Aiutateci ad aiutare” è l’appello della portavoce del Terzo settore, “pezzo” di società che svolge un’azione fondamentale di sostegno alle fasce più deboli della popolazione, comprese le famiglie più a rischio, se non già nella condizione di povertà (come abbiamo visto anche in questi giorni attraverso l’opera di volontari e associazioni). L’emergenza sanitaria in corso rischia di compromettere in modo forse irreparabile un patrimonio di solidarietà e di auto-organizzazione della parte migliore della nostra società, e non possiamo permettercelo.

www.forumterzosettore.it/2020/03/11/coronavirus-fiaschi-terso-settore-a-rischio-aiutateci-ad-aiutar

 

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CHIESA CATTOLICA

Religione e Vangelo

Una delle cose che stanno emergendo con chiarezza in quest’enorme sventura che stiamo subendo – a pandemia di coronavirus – è la differenza tra la religione e il vangelo. Perché sono due cose molto diverse. E in alcune questioni di enorme importanza sono esperienze e pratiche contraddittorie. È dovuta venire una disgrazia così spaventosa come il coronavirus, perché molte persone comprendessero la differenza che c’è tra religione e vangelo.

Mi spiego. Una delle cose più ovvie che stiamo vedendo in questi giorni è che le manifestazioni pubbliche della religione (processioni, solenni cerimonie religiose, funzioni sacre nei templi, ecc.), sono un ostacolo e persino un pericolo. Mentre, al contrario (in alcuni casi e fino a pochi giorni fa) nella vita e nella convivenza quotidiana sentiamo la mancanza del fatto che sia più presente il vangelo, che è guarigione di malati, attenzione a quello di cui i più sfortunati di questo mondo hanno bisogno, coloro che sono in pericolo di morte e persino i defunti (mendicanti, anziani, emarginati, moribondi e persino morti).

E, se a tutto ciò si pensa con calma, ci rendiamo conto che sono stati gli «uomini di religione» a non poter tollerare il «vangelo di Gesù». E sono stati i sommi sacerdoti del tempio a condannare a morte Gesù, a costringere Ponzio Pilato a crocifiggerlo, a deridere Gesù nella sua agonia. E non sono stati tranquilli finché non lo hanno visto morto. È un fatto evidente: la «religione» non ha potuto convivere con il «vangelo».

Questo è comprensibile. Perché «religione» e «vangelo» sono mezzi o percorsi per cercare Dio. Ma sono mezzi o percorsi opposti. La «religione» è un insieme di convinzioni, norme e riti per tranquillizzare la coscienza. Il «vangelo» è un «modo di vivere» che mette tutto il suo interesse nel rimediare alla sofferenza di coloro che passano un brutto momento nella vita. E tutto ciò spiega perché la «religione» ha il suo centro nel «sacro», mentre il «vangelo» ha il suo centro nell’«umano».

E questo spiega perché secondo il «vangelo» Dio “si è incarnato”; cioè, Dio si è umanizzato”. Prima di tutto in Gesù di Nazaret. In maniera tale che lo stesso Gesù ha potuto dire all’apostolo Filippo: “Chi ha visto me, sta vedendo il Padre” (Gv 14,9). Ma non solo in Gesù Dio è presente in ogni essere umano. Per questo motivo Dio stesso dirà a ciascuno nel giudizio finale: “Tutto quello che hai fatto a ognuno di questi, l’hai fatto a me” (Mt 25,40).

E la sostanza della questione sta in qualcosa che non ci entra in testa. Nella nostra più profonda intimità portiamo sempre domande che non trovano risposta. Molte volte fuggiamo da noi stessi o cerchiamo di fuggire, cercando soluzioni nel divertimento o nell’egoismo. Soluzioni sostitutive che durano poco. In realtà, restano le domande ed il vuoto. Ci sono anche quelli che cercano una risposta nella religione. Ma i riti religiosi sono azioni che, a causa del rigore dell’osservanza delle norme, finiscono per costituirsi in un fine in sé. Per cui non risolvono il problema e non vanno da nessuna parte. E infine: quando centriamo la nostra vita sull’«ethos», sulla condotta della rettitudine e della bontà, sul progetto di vita che ci umanizza, ci rende persone oneste e buone, allora abbiamo trovato il Vangelo. E con il «progetto di vita», che umanizza le nostre vite, contagiamo felicità e saremo felici, anche sopportando le pandemie che potrebbero invaderci.

Che enorme equivoco è stato commesso nella Chiesa quando con il passar degli anni il Vangelo ha finito per fondersi e confondersi con la Religione!

José Maria Castillo     “Religiòn Digital” 22 marzo 2020

Traduzione di Lorenzo Tommaselli

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Chiesa più sacramentale o spirituale?

L’epidemia ha sollevato nella chiesa cattolica una tensione e dibattito tra sacramentalizzazione e spiritualizzazione della vita di fede e di preghiera, in una fase critica per tutti, come questa che stiamo vivendo. La discussione ci sembra molto importante per i cristiani, e può interessare tutti.

Ammiro la Chiesa, che ha escluso le riunioni liturgiche ed eucaristiche prima della chiusura dei ristoranti. L’edificio chiesa non è necessario alla preghiera: “Né su questo monte né su quello, ma in spirito e verità”, dice Gesù alla Samaritana (Giovanni 4, 20-24). Non è necessario un tempio. Pane e vino condivisi, nell’assemblea eucaristica, sono un grande bene: Gesù ha detto “Fate questo in memoria di me”. Ma se la riunione provoca rischi di contagio agli altri, non ci si raduna, e si comunica col cuore, come sempre si sta in unione con Gesù. È più urgente lavare i piedi al fratello bisognoso (Giovanni 13), cioè oggi curare e prevenire, che celebrare l’eucarestia. Sempre, più urgente dell’eucarestia è offrire riconciliazione al fratello che si sente offeso o trascurato (Matteo 5, 23-24). Santi monaci eremiti vissero di preghiera, senza eucarestia, anche molto tempo. Non occorre uscire da casa: la chiesa non è un luogo, è un modo di stare in unità spirituale e in presenza

di Dio.

La necessità di sospendere le messe, è parsa intollerabile ad una piccola parte di quella minoranza che frequentava le messe domenicali. Ma ha trovato alcune voci significative che hanno sostenuto la necessità della messa e dei sacramenti. Questi hanno chiesto che almeno restino accessibili le chiese, come luogo di preghiera, a presenze personali diradate. Ma ciò aggiunge un motivo di uscita da casa, che in questi giorni è da scoraggiare al massimo. Ci pare una assurdità quella dei preti che celebrano la messa senza popolo presente. Il Papa celebra a S. Marta con la presenza di due o tre preti (se non ho visto male), ma, almeno la domenica, una suora ha fatto la prima lettura. Senza maggiore imprudenza, avrebbe migliore significato la presenza rappresentativa di alcuni laici.

Conosco la scelta dei quaccheri: il culto avviene tutto e soltanto “in spirito e verità”, nella riunione silenziosa (ma non muta: si può parlare brevemente su ciò che ispira, o sulle esperienze di vita) e nella prassi quotidiana; è un culto spirituale senza ministri, anche senza eucarestia: questa c’è stata, ci sarà alla fine – pensano i quaccheri – e consiste nel vivere nella luce data ad ogni persona (Giovanni 1,9). Certo, questa non è una forma religiosa proponibile alle masse, ma è una testimonianza tra le altre, nella “pluralità delle vie”.

Di fatto, il cattolicesimo è tutto sbilanciato sulla sacramentalizzazione, un po’ anche papa Francesco, e quelli che insistono sulla necessità della messa. Ma l’occasione attuale mostra anche un largo riconoscimento (almeno in chi riflette teologicamente) della realtà spirituale che è sottostante e sostanzia la vita sacramentale, ma non ne dipende in modo assoluto: si è con Dio in Cristo nella via cristiana (e ci sono altre vie) anche senza i sacramenti, senza la messa, per giorni e giorni (come in Amazzonia, grazie… alla legge del celibato, che fa mancare ministri ordinati per celebrarla…).

Restiamo a riflettere su questo tema, che è importante, e l’occasione che ce lo impone è drammatica ma salutare.

Enrico Peyretti, 20 marzo 2020

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Riformare per fedeltà. Papa Francesco, la Chiesa e i cambiamenti culturali

Il capitolo 6 degli Atti degli apostoli «presenta un esempio paradigmatico di come i mutamenti socio-culturali esigano dalla comunità cristiana di ripensarsi e ristrutturarsi continuamente nella dottrina e nella prassi, per fedeltà al Vangelo, che le richiede l’attenzione ai bisogni storico-concreti della comunità in cui vive e a cui deve l’annuncio della Parola e la testimonianza d’impegno solidale nel compito di promozione umana, soprattutto dei più poveri e sofferenti». L’ampio commento di don Giovanni Ferretti parte da qui per porre un parallelo tra il testo e gli obiettivi di riforma che il pontificato di Francesco si è dato. Obiettivi che rispondono a una serie di sfide: lo spostamento dallo scontro con alcuni temi della postmodernità all’assunzione della sfida della povertà e in generale d’ogni forma d’esclusione (economico-sociale); la sfida del pluralismo religioso e culturale; quella del potere e del clericalismo; quella della lettura dei segni dei tempi; quella – forse la principale – della misericordia come «forma della testimonianza cristiana».

 

Come avvio ad alcune riflessioni sul grande compito che spetta alla Chiesa di discernere oggi, come sempre, i «segni dei tempi» per annunciare e testimoniare nella concretezza della storia il Vangelo come dono credibile e amabile per l’uomo di ogni tempo, inizierò, come mi è stato suggerito dal titolo affidatomi, dal testo di Atti 6,1-7: «In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”. Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede».

La prima crisi della Chiesa e una geniale soluzione

            Propongo alcune brevi osservazioni sul senso paradigmatico del racconto:

  • La comunità cristiana primitiva è messa in crisi dal mutamento delle sue condizioni storiche: in concreto l’aumento del numero dei discepoli e il coesistere di discepoli di lingua ebraica e di lingua greca (altra l’organizzazione di una piccola comunità, altra quella di una grande comunità; altra la dinamica di un gruppo omogeneo, altra quella di un gruppo eterogeneo culturalmente pluralistico; la questione del pluralismo si è presentata quindi nella Chiesa fin dall’inizio e come sappiamo è ritornata quanto mai attuale con il diffondersi dei fenomeni della secolarizzazione e della globalizzazione.
  •  L’occasione della crisi: nella prassi d’assistenza ai poveri della comunità si finisce per trascurare l’assistenza delle vedove dei discepoli di lingua greca e questi esprimono il loro malcontento nei confronti di quelli di lingua ebraica, che dovevano quindi essere prevalenti nell’organizzazione della comunità; del resto gli apostoli erano tutti di lingua ebraica. Ne nasce un dissenso divisorio, noi e loro, voi detenete il potere e discriminate i nostri poveri. È interessante notare che la divisione sorge sulla questione dei poveri che mette in crisi l’ideale (e la prassi) di piena comunione della primitiva comunità cristiana descritto in At 4,32; e, accanto a quella, sulla questione del potere nella gestione della comunità, in particolare su chi deve presiedere l’assistenza ai poveri.
  • Gli apostoli intervengono e inventano un nuovo elemento strutturale della comunità, senza precedenti nella tradizione evangelica: il ministero dei diaconi accanto a quello degli apostoli, per meglio adempiere, oltre al compito dell’annuncio della Parola – l’evangelizzazione –, anche quello dell’assistenza ai poveri – la promozione umana –.

Da notare che gli apostoli non scelgono direttamente i sette uomini «pieni di fede e di Spirito Santo», ma invitano il gruppo dei discepoli a fare tale scelta, limitandosi a investirli dell’incarico con l’imposizione delle mani; una prassi, quella della scelta dei candidati ai ministeri dalle comunità a cui sono destinati, che permase a lungo nella Chiesa antica e la cui abolizione già Antonio Rosmini criticava ne Le cinque piaghe della Chiesa per i suoi effetti negativi.

            Come pure è interessante sapere che tutti e sette portano nomi greci e uno è addirittura un proselito, cioè un non ebreo. Il che significa che siamo di fronte a una differenziazione creativa non solo di compiti ma anche della stessa comunità, con il gruppo ellenistico che diventa autonomo da quello ebraico, senza per questo rompere la comunione, anzi salvaguardandola: ne potremmo trarre un’indicazione anche per la valutazione dell’esigenza di pluralismo all’interno della Chiesa oggi, che papa Francesco si propone di realizzare superando il centralismo romano. In ogni caso il testo ci presenta un esempio paradigmatico di come i mutamenti socio-culturali esigano dalla comunità cristiana di ripensarsi e ristrutturarsi continuamente nella dottrina e nella prassi, per fedeltà al Vangelo, che le richiede l’attenzione ai bisogni storico-concreti della comunità in cui vive e a cui deve l’annuncio della Parola e la testimonianza d’impegno solidale nel compito di promozione umana, soprattutto dei più poveri e sofferenti. E ritengo che abbia anche la forza provocatoria di richiamare la nostra attenzione su quelle che sono forse, oggi, le sfide prioritarie che la Chiesa ha di fronte.

La sfida viene dai poveri. Papa Francesco profeticamente ha spostato l’individuazione della sfida prioritaria che la Chiesa deve oggi affrontare: dalla sfida dell’Illuminismo alla sfida della povertà. Dalla sfida dell’Illuminismo, con i problemi dei rapporti tra scienza e fede, immanenza e trascendenza, verità o valori assoluti e verità o valori relativi – che pur permangono tutti e con la postmodernità a partire dagli anni Sessanta del Novecento si sono aggravati, in particolare per quanto riguarda la rivendicazione della libertà individuale nell’ambito della vita sessuale, delle relazioni affettive, delle decisioni circa la propria vita personale: contraccezione, divorzio, aborto, convivenze, inizio e fine vita ecc., indici di una vera e propria trasformazione antropologica, o comunque di una profonda mutazione del quadro di valori condivisi in Europa, tanto da portare a una vera e propria scissione tra i valori della cultura cattolica tradizionale e quelli della cultura più diffusa.

            In proposito il teologo Christoph Theobald ha parlato di una «situazione di esculturazione» del cristianesimo in Europa, dato che è ormai fuori della cultura europea più diffusa. Una situazione che sarebbe vano e antievangelico pensare di ribaltare cercando d’imporre per legge i valori della cultura cristiana tradizionale anche se non sono più condivisi dalla cultura dominante – tramite il potere politico e in ambigua collusione con i populisti identitari che ne fanno dei «marcatori culturali» in funzione xenofoba –, invece di cercare di reinterpretarli nella nuova cultura e di testimoniarli come l’ideale di un’umanità compiuta. Si tratta indubbiamente di un grande compito attuale, ma in quell’«ospedale da campo» – come lo chiama papa Francesco – in cui la Chiesa si trova oggi a operare, vi sono delle ferite dell’umanità che sfidano con ancora maggiore urgenza la Chiesa, come, appunto, la questione della povertà. Per sfida della povertà va intesa, in sintonia con papa Francesco, soprattutto la sfida degli effetti di povertà, disuguaglianza, esclusione, conflitti, disumanità crescente ecc., indotti dall’economia capitalistico-finanziaria globale; con la connessa sfida ecologica, per la stretta connessione tra grido dei poveri e grido della terra.

{Povertà da pauca: «chi scarseggia delle cose necessarie per una normale sussistenza». Il concetto è estendibile anche a chi ha difficoltà a realizzare affetti e\o convivenza con altri.}       

La sfida del pluralismo religioso e culturale. In proposito mi limito a osservare come la globalizzazione ha moltiplicato l’interconnessione comunicativa e la mobilità tra i vari paesi – anche tramite trasmigrazioni di massa – coinvolgendoci tutti nella situazione di pluralismo e d’interdipendenza globali, che modificano profondamente il nostro «spazio d’azione» e al tempo stesso fanno emergere l’esigenza di «globalizzare l’umanità» dopo aver globalizzato i capitali, le merci, le notizie e le immagini, reagendo ai vari populismi nazionalistici e sovranisti, sempre più diffusi in Europa e non solo, che tendono a compattare le comunità per contrapposizione ed esclusione: noi/loro, amici/nemici ecc.

            Una reazione che deve aver ben chiara la distinzione tra identità cristiana quale intesa dai populisti: contrappositiva, escludente, soltanto culturale; e l’identità cristiana evangelica o di fede, che è comunicativa, includente, ospitale, secondo il modello della «santità ospitale» di Cristo (come la chiama Theobald).

La sfida del potere. La Chiesa ha perso potere nella società secolarizzata, dato che i vari sistemi sociali si sono resi autonomi dall’egemonia della religione (scienza, politica, economia… e ora sempre più la morale e le relazioni affettive o familiari…). E non dovrebbe cercare di ricuperarlo per altre vie con ambigue collusioni con il potere politico o economico, anche per poter essere libera di denunciare profeticamente i poteri terreni quando tendono a essere egemoni a loro volta (come lo stato, l’economia, la burocrazia, il sistema scienza/tecnologia ecc.), e invece di servire il bene comune servono solo a se stessi, opprimendo i più deboli e indifesi, i senza poteri.

Una denuncia profetica del potere che andrebbe testimoniata anche con la rinuncia al potere all’interno della Chiesa. Ad esempio del clero sui laici, degli uomini sulle donne, dei teologi illuminati sul popolo, della Chiesa romana sulle Chiese locali sparse nel mondo, e poi dei vescovi sui preti, dei parroci sulle comunità parrocchiali, con una cascata autoritaria ben poco evangelica, ricuperando non solo la funzione di servizio dell’autorità nella Chiesa ma anche il suo esercizio in forma «sinodale». Una forma di cui si va oggi molto parlando ma ben poco praticando, se non con gli esempi significativi, ma ancora acerbi e limitati, del Sinodo sulla famiglia e di quello sull’Amazzonia.

I «segni dei tempi». La lettura o interpretazione dei mutamenti socio-culturali, e delle esigenze di ristrutturazione o riforma della Chiesa che sollecitano, non può essere fatta dalla comunità cristiana ponendosi esclusivamente da un punto di vista sociologico o filosofico. Indubbiamente importante e ineludibile, ma non sufficiente. È necessario uno sguardo di fede su tali mutamenti, che sia a un tempo contemplativo e profetico, quale è stato espresso, soprattutto a partire dal Vaticano II, con la categoria di discernimento dei «segni dei tempi». Cosa s’intende con la categoria «teologica» dei «segni dei tempi» e quali criteri abbiamo per discernerli? Mi limito di necessità a poche osservazioni.

Per individuare la categoria teologica dei «segni dei tempi» è necessario rifarci anzitutto al Vangelo, ove se ne parla (cf. Mt 16,3) come dei segni dei tempi messianici: le gemme del fico che preannunciano l’estate del regno di Dio. A ben vedere nel testo evangelico il grande segno dei tempi da scorgere e interpretare è Cristo stesso e la sua vita, annuncio e inizio dei «tempi nuovi» o dell’avvento del regno di Dio.

            Per una prima trasposizione analogica, si può però dire che sono «segni del tempo» tutti quegli eventi storici che in qualche modo, per la loro valenza messianica, prefigurano, anticipano o concorrono allo sviluppo del regno di Dio, compresa una migliore comprensione del Vangelo di Cristo e una migliore fedeltà a esso da parte della comunità dei credenti, la Chiesa. Questa di quel Regno è e dovrebbe essere il segno efficace per eccellenza nella storia. Per cui, nella storia «post Christum», «segno» dei tempi messianici è e dovrebbe essere anzitutto proprio la Chiesa, quale corpo mistico di Cristo presente nella storia.

            Sempre per trasposizione analogica, si può di conseguenza chiamare «segno dei tempi» anche tutto ciò che, nella storia, aiuta, stimola e provoca la Chiesa a svolgere nel modo migliore la sua missione di «segno» dei tempi messianici, sintonizzandosi non solo con l’evento del Gesù storico ma anche con l’azione dello Spirito del Risorto nella storia.

            Ed è su questo ultimo significato analogico che mi pare ci indirizzi il concilio Vaticano II invitando la teologia e tutto il popolo di Dio a prestare particolare attenzione ai «segni dei tempi» in funzione di un rinnovamento della Chiesa – a una sua «conversione» o «autoriforma» – al fine di meglio adempiere la sua missione salvifico-evangelizzatrice nel mondo.

La misericordia come discernimento. Il criterio di discernimento dei segni dei tempi nei due significati analogici indicati, e in particolare nell’ultimo, non può che essere, a ben vedere, la figura (Gestalt) di «Gesù Cristo» stesso, cioè la figura dell’umanità compiuta e felice quale incarnata nella forma o stile della sua persona. Un criterio che si manifesta ed è riconoscibile nella sua «verità» per la corrispondenza a quella forma dell’umanità compiuta che pulsa nel cuore di ogni uomo (creato a immagine e somiglianza di Cristo!).

            Giustamente possiamo quindi dire (parafrasando Franz Rosenzweig) che «il Vangelo e il cuore dicono la stessa cosa», e che di conseguenza, per «dissotterrare» l’umano che dorme nei nostri cuori (come si esprime Etty Hillesum) e cogliere l’autentica verità di Cristo, bisogna fare una lettura incrociata di cuore e Vangelo, leggendo l’uno alla luce dell’altro. In altri termini, entrare nel circolo ermeneutico di Vangelo e umano, con la coscienza che il Vangelo non s’impone all’umano dall’esterno ma vi si rivolge in funzione maieutica, per favorirne l’emergere in consapevolezza e pieno sviluppo; e l’umano non si contrappone al Vangelo come al suo altro alienante ma come la sua immagine riflessa pienamente disvelata.

            Tentando una lettura sintetica del Vangelo (del «cuore del Vangelo», come si esprime papa Francesco), che resta inesauribile, come inesauribile è il cuore dell’uomo, concentrerei nella «misericordia» gli aspetti caratteristici dello stile o modi vivendi forma (Gestalt) di Cristo, facendo così della misericordia il criterio fondamentale per il discernimento o interpretazione sia della parola di Dio, quale ci perviene tramite il Vangelo, sia dello stesso mondo o umanità moderna nei suoi aspetti di «segni dei tempi» che interpellano la Chiesa a ripensarsi e rinnovarsi. E al tempo stesso come la forma principale della testimonianza cristiana nel mondo odierno. Proporrei cioè la misericordia come la categoria o atteggiamento chiave per entrare in modo evangelicamente corretto nel circolo ermeneutico di Vangelo e umano.

Ove per misericordia non intendo un particolare attributo di Dio, accanto ad esempio alla giustizia, o un aspetto parziale dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, ma la qualifica fondamentale di Dio, la sua essenza più intima; se vogliamo la nota caratteristica di quell’agape o amore che egli essenzialmente è e in cui ci vuole coinvolgere per essere in comunione con lui.

            Quale criterio di discernimento dei segni dei tempi, la misericordia non deve essere evidentemente ridotta a un vago sentimento emotivo o a un benevolo piegarsi dal superiore verso l’inferiore, confermandone l’inferiorità. A ben vedere, essa è infatti, evangelicamente, un sentimento che scaturisce e s’intreccia con il riconoscimento della dignità «sacra» o assoluta di ogni persona, che in quanto tale ci appella a un dovere incondizionato nei confronti della sua salvezza, soprattutto nel momento del bisogno o del pericolo, cioè in quanto «misero».

            Emmanuel Lévinas parla efficacemente, in proposito, della «maestà» del volto del povero, appellandosi a Mt 25 ove il Signore dice «l’avete fatto a me», trasferendo così nei bisognosi tutti la sua stessa signoria.

Non sacrifici. Questo nesso tra misericordia e dignità della persona risulta in modo quanto mai evidente – oltre che dal complesso della predicazione e della prassi di vita di Gesù – dal combinato delle due espressioni presenti nelle celebri controversie sul sabato: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13 e 12,7, che citano Os 6,6);14 «Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (presente in tutti e tre i sinottici).

            Con la prima Gesù eleva la misericordia, che rende attenti e competenti a interpretare e soccorrere le concrete esigenze di vita del prossimo (nel caso, la fame dei discepoli, la malattia del paralitico…), a criterio per discernere nel caso concreto la portata oggettiva e non solo soggettiva della Legge di Dio. Egli contrappone così il criterio misericordia al criterio del sacrificio del proprio desiderio di vita, o alla condanna della trasgressione per meccanica applicazione della norma generale, con annessa richiesta di una pena/castigo/sacrificio espiatorio per risarcire la giustizia violata ed essere perdonati, secondo quella mentalità sacrificale diffusa allora e poi purtroppo per molto tempo nello stesso cristianesimo. Non senza aver influenzato gran parte del pensiero moderno che l’ha fatta propria portandola a esiti estremi, come la valutazione della funzione dialettica positiva del negativo di cui parla Jean-Luc Nancy.

            Con la seconda, «il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato», Gesù chiarifica e in qualche modo giustifica la prima affermazione, facendo della persona, cioè della sua salvezza o pienezza di vita, il fine di ogni istituzione o legge, divina, ecclesiastica e umana. Anticipando e certamente anche ispirando il nucleo dell’umanesimo moderno quale venuto a coscienza nella celebre espressione di Immanuel Kant: «La persona è da considerare sempre come un fine, mai unicamente come mezzo».

            È in base a queste coordinate evangeliche che mi pare di poter dire che il criterio della misericordia è il criterio dell’assoluta dignità dell’uomo. L’uomo è infatti il fine di ogni norma etica, il fine stesso dell’etica, come di ogni altra norma giuridica o ecclesiale. Tra criterio della misericordia e criterio della dignità assoluta dell’uomo vi è un nesso circolare, che concretizza quello sopra ricordato tra Vangelo e umano.

Forma della testimonianza cristiana. Per avere una visione più completa della portata della misericordia quale criterio di discernimento sia del Vangelo che della realtà umana, è inoltre necessario vederla accompagnata da tutta la costellazione di atteggiamenti che vi sono associati, da cui emerge come essa possa essere anche la forma tipica della testimonianza cristiana nel mondo d’oggi. Essa infatti:

  • Ha di mira non la condanna ma la salvezza dell’uomo («Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo»: Gv 12,47);
  •  Non sacrifica ma promuove («Misericordia io voglio e non sacrificio»);
  • Non guarda solo al negativo da criticare, ma soprattutto al positivo da valorizzare (pagliuzza e trave), nei singoli e nella società. Superato ormai l’extra Ecclesia nulla salus, sappiamo che non è compito dei cristiani portare Dio o la sua salvezza nel mondo secolare ma metterli in luce, evidenziarli. Secondo l’efficace espressione di Theobald, la Chiesa va intesa come una «rabdomante missionaria», nel senso che «con sensibilità spirituale scova ciò di cui si parla nel Vangelo come già presente nell’altro»;
  • Non si tiene a distanza, ma si coinvolge (buon samaritano);
  • Non rifiuta ma accoglie (i pubblicani, i peccatori…). E certamente l’accoglienza è tra le forme di testimonianza evangelica oggi più comprensibili e necessarie, se pensiamo al grande problema delle migrazioni;
  • non vuole anzitutto insegnare ma ascoltare e imparare dall’altro; anche nel caso della cultura moderna e postmoderna, da cui la Chiesa peraltro ha già tanto imparato: ad esempio dalla coscienza storica e dalla filologia critica per una corretta esegesi biblica, libera da ogni residuo di fondamentalismo, dalle dichiarazioni sui diritti umani e dal sorgere dei regimi democratici, dal rispetto della libertà religiosa, dalla valutazione in positivo dei valori del corpo e dei sentimenti, dell’attenzione alla diversità ecc;
  • sa commisurare – come già osservato – la valutazione delle persone (e della società o cultura) non in riferimento a norme etiche o canoniche generali, astratte dalle situazioni e dalle intenzioni, ma in riferimento a ciò che effettivamente è di vantaggio alla pienezza di vita della persona e della società; come ha fatto Gesù nel caso del sabato e come ripetutamente richiamato da papa Francesco, in particolare nell’Amoris lætitia, tanto criticata; come lo fu del resto già Gesù stesso dai farisei e dai maestri e custodi della Legge di allora.

E vorrei ricordare, a proposito della portata oggettiva del criterio della misericordia, il caso emblematico dell’apostolo Paolo nei confronti del coniuge che si converte alla fede cristiana e ha problemi con il partner che non si converte: il caso del cosiddetto «privilegio paolino». In verità, più che un «privilegio» accordato dall’autorità dell’Apostolo, esso non è altro che l’interpretazione con misericordia della portata della legge sull’indissolubilità del matrimonio, che «risale alla creazione» (come ricordato nientemeno da Gesù stesso).

            Per cui mi pare non fondato teologicamente il dire che non vi sono casi oggettivi in cui la legge dell’indissolubilità del matrimonio può avere eccezioni in vista della pienezza di vita delle persone, o dire che tale legge vale in modo assoluto solo per il matrimonio tra cristiani rato e consumato (a proposito appunto del cosiddetto «privilegio petrino» di dispensare dal matrimonio rato e non consumato, se non si tenesse presente il criterio della misericordia si tratterebbe di una palese violazione della lettera delle parole di Cristo).

Un modello teologico-ermeneutico. Perché la misericordia possa effettivamente essere il criterio di discernimento della parola di Dio e dei segni dei tempi del suo Regno, come pure la forma della testimonianza cristiana che ci è oggi richiesta, ritengo che vada portato avanti quell’ampio lavoro teologico di ripensamento della dottrina e della prassi cristiana che ormai da tempo è in atto, che il Vaticano II ha fatto proprio e rilanciato per tutta la Chiesa, e che oggi va ripreso con coraggio, come ci invita a fare papa Francesco nel nuovo contesto storico in cui viviamo. In particolare ricorderei i seguenti tre punti.

             Superare il modello fondamentalistico-sacrale della Scrittura e anche dei dogmi della Chiesa, passando al modello teologico-ermeneutico, che è attento a discernere la verità, che in essi ci è comunicata e ci interpella, dai condizionamenti storici delle formulazioni letterali che vi si trovano, al fine di darne una formulazione nuova, tramite il linguaggio (con connessa visione del mondo e coscienza etica che porta con sé) che ci appartiene come uomini della cultura attuale.

            Mi ha colpito, nell’Evangelii gaudium, la consapevolezza che papa Francesco mostra dell’importanza di questa svolta ermeneutica nella missione evangelizzatrice della Chiesa, certamente sulla scia del Vaticano II, ma direi con più chiarezza e precisione. Così, ad esempio, parlando del rinnovamento del linguaggio che si richiede in relazione ai mutamenti culturali, egli dice che ciò è necessario per esprimere più fedelmente la sostanza del Vangelo e non rischiare di comunicare, anche con formule ortodosse, «un falso dio o un ideale umano non veramente cristiano».

            Un’espressione, quest’ultima, indubbiamente molto forte, che non ricordo sia mai stata usata dal magistero: una formula «ortodossa» (biblica, dogmatica o tradizionalmente in uso; e direi anche – in relazione a Evangelii gaudium, n. 39, ove si mette in guardia dal rischio che l’edificio morale della Chiesa diventi «un castello di carte» [EV 29/2145] – un’etica nelle sue formulazioni tradizionali, sia pur consolidate) può comunicare, in un nuovo contesto culturale, qualcosa di evangelicamente «falso» riguardo a Dio e all’uomo.

            La maggior parte delle incomprensioni e delle avversioni che nei riguardi di papa Francesco ne denunciano il pervertimento della dottrina e della morale cattolica, sono a mio avviso dovute proprio a questa carenza di coscienza teologico-ermeneutica, che impedisce la corretta applicazione del criterio misericordia; quando addirittura lo dimentica o non ne coglie la portata (oltre, ovviamente, il suo aver indicato nella problematica della povertà, con le sue cause strutturali, la principale sfida che oggi la Chiesa deve affrontare).

Un Dio evangelico. Ripensare, purificandola, la concezione «arcaico-sacrale» di Dio; cosa che il modello ermeneutico rende possibile e la nuova coscienza etica della modernità rende necessario, pena il comunicare e testimoniare un’idea di Dio non evangelica oltre che né credibile né amabile. Si tratta, in sintesi, di disambiguare – riscoprendo il cuore del messaggio e dello stile di Cristo sollecitati dalla miglior coscienza morale moderna – l’ambigua commistione di «mysterium fascinans» e di «mysterium tremendum» che caratterizza il sacro arcaico (come descritto da Rudolf Otto nella sua celebre opera Il sacro, del 1917, rivista nel 1936). Commistione ampiamente presente nell’Antico Testamento, di cui permangono tracce nel Nuovo Testamento, che ha pervaso tutta la storia del cristianesimo fino ai tempi recenti e che è ancora molto presente in credenti e non credenti in riferimento al cristianesimo. Si tratta della concezione di Dio a due facce, quella benevola e quella minacciosa, quella con cui promette premi a chi osserva le sue leggi e quella con cui minaccia castighi a chi le infrange e non si pente espiando il delitto con la giusta pena. Un Dio capace quindi di misericordia ma anche d’estrema violenza nelle sue punizioni.

            La disambiguazione consiste nel «lieto annuncio» che il Dio di Gesù Cristo ha un’unica faccia, quella dell’incondizionato amore, misericordia, benevolenza per l’uomo. Un lieto annuncio che rompe ogni connessione di Dio con la violenza e anche con quella mentalità sacrificale secondo cui la sofferenza umana può avere in se stessa un valore religioso positivo, inviata da Dio come pena o castigo che ristabilisce la giustizia, come prova educativa o riabilitativa, e anche come sacrificio gradito a Dio con cui farci dei meriti.

            La liberazione dalla sottomissione al «sacro» così inteso è certamente fra le intenzioni di fondo dell’etica moderna, consapevole della maggiore età cui l’uomo è giunto con la coscienza della propria dignità di soggetto morale libero, che non può tollerare di essere indirizzato con promesse di premi e minacce di castighi al posto di convinzioni personali. Ma è anche via per riscoprire quello che papa Francesco chiama «il cuore del Vangelo».

Rivelazione e morale. Ripensare il rapporto tra rivelazione biblica e morale. Per un verso alla luce della nuova coscienza ermeneutica che evidenzia quanto le norme etiche concrete presenti nella Bibbia (sia Antico sia Nuovo Testamento) siano debitrici della cultura del tempo. Per altro verso cercando di discernere il senso positivo della rivendicazione moderna dell’autonomia razionale della morale (sulla scorta del pensiero di I. Kant). Certamente la rivelazione biblica ha progressivamente sollecitato a prendere coscienza del piano divino sull’uomo, culminante nella conformazione al modello d’uomo perfetto impersonato da Gesù Cristo. Ma tale modello – come in generale i principi etici presenti nella Bibbia – non è qualcosa di estrinseco, imposto arbitrariamente all’uomo da un potere esterno. Esso è infatti «iscritto» nel cuore (cf. La nuova alleanza di Geremia 31-33: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore»).

Se bene intesi, tali principi corrispondono quindi all’intimo desiderio di pienezza di vita dell’uomo (come afferma papa Francesco: «Il Vangelo risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per quello che il Vangelo ci propone: l’amicizia con Gesù e l’amore fraterno»). La funzione rivelativa della Bibbia in campo etico non è quindi di tipo impositivo, ma maieutico. I principi etici generali che essa enuncia possono infatti essere colti da tutti, apprezzati da tutti, avvertiti da tutti nella loro portata incondizionata o assoluta. Non così le norme storico-concrete di carattere etico e giuridico, e tanto più gli usi e costumi tramandati per tradizione, che sono condizionati dal contesto storico-culturale e quindi mutevoli e plurali.

            Già nella sacra Scrittura si può riscontrare tale diversità di livello tra il piano dei principi generali, assoluti, e quello delle norme storiche concrete, relative, anche se tale diversità non vi è espressamente teorizzata. Si pensi, ad esempio, a un imperativo come quello di Es 22,20 e 23,9.12: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto», che si situa chiaramente a livello di principio di fondo, e a cui fanno riferimento i profeti per denunciare con vigore le ingiustizie sociali dilaganti. Indubbiamente si tratta di un imperativo ideale più fondamentale e «assoluto» che non le norme concrete che si trovano nel Levitico riguardanti questioni come il mantenimento e l’affrancamento degli schiavi, la riparazione di lesioni fisiche operate da uomini o da animali, l’indennizzo in caso di furto, le condizioni per il divorzio, i rapporti con i genitori ecc. Norme legate alla situazione storico-culturale del tempo, che saranno variate o lasciate cadere in seguito, soprattutto con il Nuovo Testamento.

            Si può quindi teologicamente sostenere che la rivelazione biblica non riguarda direttamente il contenuto concreto delle norme morali – e tanto meno quello delle norme giuridiche o degli usi e costumi –, anche se può dare alla vita morale dei contributi rilevanti, sia per la sua funzione maieutica riguardo alla visione della dignità dell’uomo e della sua pienezza di vita, sia contribuendo a fondare nell’assoluto di Dio il carattere vincolante della legge morale, sia pur scoperta autonomamente dalla ragione.

            Si tratta di un contributo che i cristiani hanno il compito di offrire e testimoniare al mondo moderno, invece d’insistere ad accusare la morale cosiddetta laica o autonoma d’essere priva di fondamento e quindi senza senso o consistenza, dato che il carattere vincolante assoluto della legge morale non può derivare esclusivamente da noi, dalla nostra realtà finita o dalla nostra libera scelta. Un argomento che è certamente vero ma non può servire a squalificare la dignità morale dei nostri fratelli non credenti, spesso sinceramente impegnati nel campo della giustizia e della solidarietà non meno dei credenti e talora anche più di tanti credenti.

            Come già accennato, papa Francesco dice che Dio vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia; e aggiunge: «Questa presenza non deve essere fabbricata, ma svelata».

Ripensare il trascendente. A questo punto si aprirebbe il vasto campo del discernimento concreto dei segni dei tempi presenti nella nostra cultura, per individuare le provocazioni che ne derivano per la nostra vita di fede e di testimonianza. Mi limiterò a pochi accenni in riferimento a quelli che mi pare siano i «segni dei tempi» più vistosi nel nostro panorama europeo: la secolarizzazione; la postmodernità; la globalizzazione; le reazioni identitarie, nazionalistiche e populistiche che la globalizzazione sta innescando.

            Del complesso fenomeno della secolarizzazione il cristiano non può evidentemente valutare positivamente e far proprio l’umanesimo esclusivo di ogni trascendenza che spesso l’accompagna. Ma può e deve ripensare seriamente la natura della trascendenza divina, perché non sia alienante dell’umano, e valutare positivamente, oltre che accettare, il differenziarsi e rendersi autonomi dalla religione dei vari sistemi sociali, che ha portato alla fine, o meglio all’esodo liberatorio, dal regime di cristianità, con le sue collusioni tra fede e potere.

            Il Vaticano II lo ha fatto a suo tempo per la scienza, la politica, l’economia; oggi ci tocca il compito di farlo per il sistema morale e quello familiare o delle relazioni affettive di coppia, non senza forti resistenze all’interno della Chiesa. In proposito mi pare che alla comunità cristiana sia comunque richiesta la testimonianza dell’effettiva rinuncia a ogni forma di potere sulla società o di collusione con il potere politico ed economico. Nello spazio pubblico la parola della Chiesa non può essere di tipo autoritativo e impositivo, ma deve presentarsi come l’offerta/dono gratuito del Vangelo alla libertà della persona; come la condivisione di un’esperienza vivificante, accompagnata dall’impegno disinteressato per la promozione dell’uomo in tutte le sue dimensioni; in sincero dialogo con quanti l’hanno a cuore, anche se da diversi punti di vista e con diverse visioni antropologiche.

            Senza dimenticare che la rinuncia al potere nella società andrebbe testimoniata anche con la rinuncia al potere all’interno della Chiesa: ad esempio del clero sui laici, degli uomini sulle donne, dei teologi illuminati sul popolo. Una questione indubbiamente quanto mai aperta nella nostra Chiesa e di grande rilevanza testimoniale. Ne va infatti anche in questo caso dell’idea di Dio che annunciamo e testimoniamo, spesso rifiutata proprio perché annunciata e testimoniata in forma poco credibile e amabile – «falsa», la direbbe papa Francesco.

Provocati dalla postmodernità. Del complesso fenomeno della postmodernità, quale esplosa con gli anni Sessanta, e indipendentemente dal nome che le si voglia dare, non possiamo certamente accettare acriticamente la completa frammentazione del senso sfociante nel relativismo, ma possiamo coglierne la provocazione al rispetto e alla valorizzazione della pluralità e dell’alterità, quali espressioni dell’inesauribile amore universale di Dio.

            Non possiamo valutare positivamente l’ipertrofia della soggettività impulsivo-vitale o affettivo-sentimentale sfociante in forme di individualismo emotivo e per natura sua libertario, dimentico che la libertà umana non è infinita ma originariamente investita dal bene in quanto responsabile nei confronti dell’altro, come ben messo in luce da Lévinas.

Ma possiamo coglierne la provocazione a una maggiore valorizzazione della vita affettivo-sentimentale come dimensione umana fondamentale, superando la visione ascetico-sacrificale che ha caratterizzato il cristianesimo storico e riscoprendo la visione biblica di Dio «amante della vita» (Sap 11,26).

            Non possiamo certamente apprezzarne l’individualismo narcisistico ed egoistico, ma dobbiamo accettarne la provocazione a un assoluto rispetto della libertà individuale in campo etico e religioso, coscienti che non ci può essere né un atto morale né un atto religioso o di fede senza la libertà. La cosiddetta individualizzazione del soggetto moderno – da tenere ben distinta dall’individualismo – non è contraria al Vangelo, anzi si può dire che trova in esso la sua stessa nascita in Occidente.

            Gesù ha infatti invitato alla scelta di fede le singole persone, anche a costo di rompere con la religione della famiglia, del clan, della nazione. Il riconoscimento della libertà religiosa cui si è giunti con il Vaticano II anche da parte della Chiesa cattolica è stata il frutto della riscoperta di tale radicamento evangelico, provocati delle rivendicazioni del pensiero moderno, indubbiamente acuitesi con l’avvento del postmoderno.

Le globalizzazioni e i rischi. Del complesso fenomeno della globalizzazione nel suo senso specifico non possiamo certamente accettare l’egemonia dell’economia, nell’odierna versione del capitalismo finanziario, con i suoi esiti di crescente disuguaglianza, di esclusione dei più deboli, di molteplici forme di povertà, e con i suoi peculiari presupposti antropologici, quale l’individualismo competitivo e il paradigma tecnocratico dell’homo faber. In proposito, la denuncia profetica di papa Francesco nei riguardi di questa struttura perversa, con i celebri quattro «no» dell’Evangelii gaudium, rimane un punto di riferimento esemplare per la Chiesa a tutti i livelli, da riprendere e far risuonare nelle situazioni concrete. Egli infatti dice no a un’economia dell’esclusione; a una nuova idolatria del denaro; a un denaro che governa invece di servire; all’iniquità che genera violenza.

            Denuncia valida se accompagnata dalla testimonianza di una Chiesa povera e per i poveri (prospettiva che non prevalse al Vaticano II, e che ora Francesco rilancia) con particolare attenzione per gli ultimi e gli esclusi, fra cui i migranti disperati. Ricordando che per la comunità cristiana i poveri non sono solo una categoria sociologica, sia pure importante e da studiare con accuratezza, ma una vera e propria categoria teologica, in quanto voce di Dio che ci interpella con l’assoluta maestà del Signore, che vuole avere in noi gli strumenti vivi del suo amore provvidente, e anche salvarci tramite il loro vivente appello a convertirci dalle nostre chiusure egoistiche. Alcuni teologi della liberazione, come Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino, ne hanno addirittura parlato come del «popolo crocifisso», che ci salva con la sua sofferenza.

            Come sopra accennato in riferimento alla novità del pontificato di papa Francesco, la sfida della povertà va effettivamente riconosciuta come la sfida principale che la Chiesa ha di fronte, anche nel nostro Occidente; essa ci impegna a ripensare la valenza salvifica del Vangelo, il senso del Vangelo per l’umanità attuale e la prassi concreta della nostra testimonianza di fede.

            Della globalizzazione nel suo senso più generale dobbiamo valutare positivamente le possibilità di comunicazione globale, sia pure con tutti i rischi che presentano le nuove forme di social media digitali; esse ci aprono infatti la prospettiva di un’effettiva ecumene umana di cui la dimensione cattolica del cristianesimo deve essere «segno e strumento». Una visione di Chiesa in funzione della comunione universale dei diversi popoli del mondo che ci chiama a lavorare anche come resistenza e alternativa alle attuali tendenze di reazione alla globalizzazione.

Umanità plurale. In riferimento a questi recenti fenomeni di reazioni identitarie, sovraniste e populiste alla globalizzazione nel senso stretto sopra indicato, va anzitutto rilevato che essi non ce ne fanno uscire in quanto ne condividono gli stessi presupposti individualistici e competitivi. Anzi, ne aggravano gli esiti negativi con i loro ritorni nostalgici a forme di tribalismo e di sovranismo nazionalistico, riproponendo caratteri d’identità e di comunità per esclusione, sul modello della separazione amico / nemico, noi / gli altri.

            Questa situazione altamente critica costituisce oggi – come osserva pertinentemente Zygmunt Bauman nell’opera citata – una grande sfida all’umanità: quella di costruire un’umanità integrata a livello globale senza passare attraverso il modello della separazione. In pratica la sfida di veramente «globalizzare l’umanità» dopo aver globalizzato i capitali, le merci, le immagini e le informazioni.

            Quali segni dei nostri tempi, tali fenomeni di reazione costituiscono indubbiamente anche una grande sfida ai cristiani, per la loro costitutiva solidarietà con l’umanità e la loro responsabilità di servire la promozione integrale e globale dell’uomo. Essi provocano i cristiani a riscoprire in sé e a testimoniare nella società e per la società quelle motivazioni spirituali fondamentali che sono di salutare antidoto a tali derive disumanizzanti e al tempo stesso di efficace contributo verso l’utopia di un’umanità integrata e riconciliata, che rispetti la pluralità e diversità delle culture dei popoli, senza omogeneizzarle o appiattirle su di un unico modello, ma mettendole in relazione reciproca arricchente.

            A tal fine, come indicato da papa Francesco, è indispensabile una «cultura del dialogo e dell’incontro», tra le cui condizioni vi sono il rispetto reciproco, il mutuo riconoscimento della uguaglianza di status unita a una giusta distribuzione dei beni e il passaggio a una «economia sociale». A cui aggiungerei, come già sopra accennato, la necessità di ripensare l’identità cristiana, non in senso sostanzialistico, esclusivo e contrappositivo, ma in senso comunicativo e ospitale, che ne evidenzi il carattere relazionale e comunionale, sul modello della «santità ospitale» di Cristo.

            Il compito è arduo e faticoso, ma siamo di fronte a un aut aut: «Scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune», come si esprime Bauman. Un monito dal sapore profetico che i cristiani in prima fila dovrebbero avvertire come urgente invito alla conversione nel segno di una profonda ristrutturazione della propria fede e della propria prassi di vita, individuale e comunitaria, per essere veramente, come loro richiesto per vocazione, segno e strumento di salvezza per l’umanità attuale.

Giovanni Ferretti, presbitero della Chiesa di Torino, è docente emerito di Filosofia dell’Università di Macerata, di cui è stato per sei anni rettore (1985-1991).

 

 

Relazione «Discernere e testimoniare. “In quei giorni sorse un malcontento…” (At 6,1)» tenuto al III Convegno nazionale della Rete dei viandanti, Bologna, il26 ottobre 2019.

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CITAZIONI

Il Dio di Gesù Cristo

E’ falso sino all’assurdo vedere in una «credenza» il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano… Ancora oggi una tale vita è possibile, per certi uomini è persino necessaria: l’autentico, originario cristianesimo sarà possibile in tutti i tempi… Non una credenza, bensì un fare, soprattutto un non-fare-molte-cose, un diverso essere.                                  (F. Nietzsche, L’anticristo, Adelphi, Milano 1977, p. 50)

Queste parole di Friedrich Nietzsche, un pensatore non certo tenero nei confronti del cristianesimo, costituiscono un buon punto di partenza per interrogarsi su cosa è essenziale alla fede cristiana, ovvero sulla singolarità del cristianesimo. Ai nostri giorni siamo costantemente raggiunti dal messaggio che il cristianesimo è un monoteismo, accanto all’ebraismo e all’islam. Se questa è una verità, tuttavia è importante per noi cristiani comprendere l’irriducibile differenza della nostra fede rispetto a quella dei credenti ebrei e, di conseguenza, a quella dei credenti dell’islam.

Ora, è già pericoloso ridurre il cristianesimo è una religione, perché il cristianesimo è una fede che si differenzia fondamentalmente da tutte le religioni, secondo la felice formula coniata dal filosofo francese Marcel Gauchet (*1946), che vede in esso «la religione dell’uscita dalla religione». Insomma, se il cristianesimo si riveste degli elementi caratteristici di ogni religione – una professione di fede, un culto liturgico, alcune indicazioni etiche… –, tuttavia resta vero che attraverso la sua fede giudica ogni espressione religiosa e, dunque, non può essere ridotto a religione. In tal modo è anche in grado di denunciare gli ostacoli frapposti dalla religione a quella ricerca di Dio che, nel cristianesimo, dovrebbe sempre coincidere con un’istanza di libertà per l’uomo.

Ma c’è di più. Il cristianesimo ha una singolarità anche rispetto ai due monoteismi, l’ebraismo e l’islam, per cui non è possibile ridurre il cristianesimo a un monoteismo. E questo lo dice chi appartiene a una generazione che ha avuto la grazia di riscoprire l’ebraismo e di poter affermare, dopo un silenzio di venti secoli, l’ebraicità di Gesù. Oggi noi cristiani siamo consapevoli di essere «fratelli gemelli» degli ebrei, in quanto figli dell’Antico Testamento al pari di loro: sia l’ebraismo rabbinico – erede della corrente farisaica – sia il cristianesimo hanno infatti elementi di continuità e di novità rispetto all’Antico Testamento, loro comune matrice. Siamo cioè figli di due interpretazioni ugualmente possibili ma fondamentalmente diverse delle Scritture di Israele: una focalizzatasi sulla Torah, l’altra su Gesù Cristo, riconosciuto dai suoi primi discepoli quale Messia che ha adempiuto le promesse fatte ai padri.

Vi sono dunque elementi che ci uniscono all’ebraismo, così come elementi di rottura e di differenza, causati dall’«evento Gesù Cristo»: Gesù è colui che, da ebreo fedele al Dio dei padri, ci lega definitivamente agli ebrei e, nello stesso tempo, ci divide e separa dall’ebraismo, nella misura in cui confessiamo che egli ci ha definitivamente raccontato Dio! Se pertanto il cristianesimo è un monoteismo lo è in maniera molto particolare: è un monoteismo nel quale Dio si è fatto uomo, e nel quale un uomo concreto e reale, Gesù di Nazaret, ci ha narrato compiutamente il volto di Dio.

Per favorire la comprensione del mio percorso, probabilmente abbastanza arduo e per molti aspetti «nuovo», cercherò di articolarlo in alcuni punti ben precisi:

1. Gesù ci ha raccontato Dio. Alla fine del prologo del quarto vangelo si legge un’affermazione che costituisce una vera e propria sintesi della fede cristiana: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito … ce lo ha raccontato (exeghésato)» (Gv 1,18). Exeghésato: verbo che può essere tradotto con «raccontare», «fare l’esegesi», «narrare», «spiegare», «rivelare»; parola che racchiude in sé tutto il cristianesimo.

Giovanni afferma innanzitutto una verità semplicissima, che appartiene all’esperienza comune di ogni essere umano: «Dio nessuno l’ha mai visto», oppure, come dirà lo stesso autore nella sua Prima lettera, «Dio nessuno l’ha mai contemplato (tethéatai)» (1Gv 4,12). Finché noi uomini siamo in vita Dio resta invisibile, inaccessibile (cf. 1Tm 6,16), poiché «chi vede Dio muore» (cf. Es 33,20), come recita l’adagio biblico. Da sempre «gli uomini hanno cercato Dio, come a tentoni, se mai potessero giungere a trovarlo» (At 17,27): nel cuore dell’uomo vi è un’incessante ricerca di Dio, un quærere Deum condotto in culture e tempi diversi, approdato a risultati multiformi. Anzi, Dio è stato cercato anche in cammini che non è corretto definire religioni, ma che occorrerebbe chiamare «spiritualità»: mi riferisco al buddhismo, al confucianesimo, «vie» indifferenti all’esistenza di Dio. Già qui emerge un problema di non poco conto: bisogna fare molta attenzione ogni volta che si pronuncia la parola «Dio», perché è connaturale all’uomo un’ansia che lo spinge a ricercare qualcosa che nelle religioni è definito Dio, mentre all’interno di altre vie spirituali è tensione verso una liberazione, verso una meta capace di dare un senso alla vita

Ebbene, l’uomo cercava Dio a tentoni, ma non poteva conoscerlo pienamente, restava nell’ignoranza (cf. At 17,30); proprio per questo Dio ha alzato il velo su di sé, ha scelto di rivelarsi agli uomini da Abramo (cf. Gen 12) in poi, ponendosi in alleanza con Israele, il popolo disceso da quest’uomo, e impegnandosi con esso mediante delle promesse. E così «Dio ha parlato per mezzo dei profeti», da Abramo fino a Giovanni il Battista; infine lo ha fatto attraverso Gesù, che non solo è stato «profeta potente in azioni e in parole» (Lc 24,19), non solo è stato riconosciuto quale Cristo, Messia, ma si è rivelato l’ultima e definitiva Parola di Dio agli uomini, il compimento di «tutte le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» (cf. Lc 1,55): è Gesù che ci ha raccontato e spiegato compiutamente Dio. In altri termini, dal momento in cui Dio si è umanizzato in Gesù, quest’uomo ha aperto un sentiero unico per andare a Dio, al punto che egli stesso ha potuto affermare nel quarto vangelo: «Nessuno può andare al Padre se non attraverso di me» (Gv 14,6).

Con Gesù si è operato di fatto un mutamento, sul quale non si riflette a sufficienza: prima di lui occorreva credere in Dio, nel «Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» (Es 3,6; Mc 12,27), e questa fede poteva anche condurre a credere al Messia, fino a riconoscerlo in un uomo venuto sulla terra; dal giorno della glorificazione di Gesù, della sua morte e resurrezione, tale cammino non è più primario. Da quel giorno occorre innanzitutto credere in Gesù, conoscerlo, amarlo e seguirlo: ed è in questo cammino che può rivelarsi anche Dio, un Dio ben diverso da come gli uomini lo avevano cercato e immaginato. La fede in Dio non è dunque condizione di accesso al Vangelo – questo almeno per i gojim, per le genti, mentre resta un preliminare necessario per gli ebrei –, ma è conoscendo l’esistenza umana di Gesù che noi possiamo essere condotti al Dio vivente e vero. Si tratta di un capovolgimento importantissimo, che in questi due millenni di cristianesimo non abbiamo ancora realmente assunto: basti pensare al fatto che, all’interno della nostra catechesi, si continua a incominciare il discorso da Dio per giungere a Gesù solo in un secondo momento. È invece necessario percorrere esattamente l’itinerario opposto! Possiamo trovare sintetizzato questo cammino nella testimonianza fornita dal centurione romano che, sotto la croce, «vedendo Gesù morire in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). È un pagano che, vedendo tutta la vita di Gesù sintetizzata nell’atto della sua morte, ha avuto la rivelazione del Dio vivente professato da Israele e cercato dalle genti…

Dio: parola decisiva e tuttavia parola che ha ricoperto significati molto diversi, che si è prestata e si presta a utilizzazioni religiose, sociali, politiche e morali disparate. Sì, per noi cristiani Dio è una parola insufficiente! Scriveva significativamente già Giustino, un padre della chiesa del II secolo: «La parola “Dio” non è un nome, ma un’approssimazione naturale all’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile» (II Apologia 6). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo; Dio è affermato dai credenti, è negato dagli a-tei – etimologicamente i «senza Dio».  Ebbene, ciò che è decisivo per la fede cristiana non sta in Dio quale premessa, ma si rivela quale meta di un percorso compiuto dietro a Gesù Cristo e con lui, «l’iniziatore della nostra fede» (tês písteos archegós: Eb 12,2).

E qui va detto che occorrerebbe prendere maggiormente sul serio il fenomeno dell’ateismo, per chiederci: quando un uomo nega Dio, che cosa realmente nega di Dio? Quale Dio nega? O meglio, quali immagini di Dio, forgiate da noi credenti e dalle chiese, un ateo contrasta? In questo senso, paradossalmente, la parola Dio è pericolosa: si pensi solo alle guerre che si sono fatte e si fanno in nome di Dio… Senza dimenticare che gli uomini, soprattutto gli uomini «religiosi», sono sempre pronti a plasmarsi un vitello d’oro (cf. Es 32,1-6), un Dio manufatto secondo i loro bisogni e desideri… No, noi cristiani andiamo a Dio attraverso Gesù, «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15): narrando Dio con la sua vita, Gesù ha giudicato tutte le immagini e i volti di Dio che gli uomini si fabbricano con le proprie mani: ormai ciò che di Dio può essere conosciuto e predicato è ciò che è stato vissuto e predicato da Gesù.

2. Gesù, uomo come noi. Se è vero che per la fede dei cristiani è decisivo aderire a Gesù, anche in questo caso bisogna però intendersi sulle parole: quando si dice «Gesù», ci si riferisce a un uomo, un vero uomo, debole, fragile e mortale come lo siamo noi; un uomo di carne (sárx: Gv 1,14), che è nato, vissuto e morto come ogni figlio di Adamo. Gesù è stato un uomo, una realtà che si poteva ascoltare, vedere, toccare (cf. 1Gv 1,1), un uomo con parole e gesti pienamente umani. Come la fede di Israele in Dio è stata generata da eventi nella storia, primo tra tutti l’esodo dall’Egitto, così anche la fede dei cristiani nasce dalla vita umana di Gesù: Dio ha infatti operato nella storia di un popolo e infine, compiutamente, nella vita di un uomo. È quanto espresso dal prologo della Lettera agli Ebrei: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, negli ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).

Se dunque c’è un Dio, per noi cristiani è il Dio che deve essere conosciuto e «visto» nell’esistenza umana di Gesù di Nazaret (cf. Gv 14,9). Per questo motivo il cristianesimo esige che Gesù sia conosciuto attraverso la sua vita narrata e testimoniata nei vangeli da parte chi è stato coinvolto nella sua vicenda, i discepoli, divenuti «servi della Parola» (Lc 1,2); solo attraverso questa conoscenza potremo anche credere in lui fino ad amarlo, fino a confessarlo «Signore», «Figlio di Dio», «Salvatore», e così giungere alla fede in Dio, alla conoscenza del Dio vivente e vero. Ecco perché ritengo sia un grave rischio per i cristiani quello di «deificare» Gesù prima di conoscerne la concreta esistenza umana. Se infatti non si conosce l’umanità di Gesù, si finisce per credere in lui come a una realtà da noi immaginata e costruita. Non è sufficiente riempirsi la bocca di slogan, pur nobili, come quello preso a prestito da Vladimir Soloviev (*1853 1900): «Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù Cristo»; l’importante è rendersi conto di cosa si cela dietro frasi come questa, ossia di quale Gesù Cristo si sta parlando.

Ora, nell’antichità molti uomini sono stati «deificati»: imperatori, eroi, figure carismatiche. Gesù invece non si è mai definito Dio, e la chiesa indivisa ha impiegato ben tre secoli per giungere a tale articolo di fede, nel Concilio di Nicea (325): «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Gesù preferiva chiamarsi «Figlio dell’uomo», titolo enigmatico, ma capace di arginare possibili derive deiste; egli non voleva neppure essere confessato Messia, per evitare di essere identificato con un liberatore politico. Occorre dunque grande attenzione da parte nostra a non «deificare» Gesù troppo velocemente: ciò avviene quando l’accento è posto sulla sua nascita verginale, sui miracoli da lui compiuti, sullo straordinario nella sua vita. No, è assolutamente necessario guardare alla sua esistenza umana quotidiana, leggervi l’espressione compiuta di Dio, e, di conseguenza, cogliere anche gli elementi «straordinari» della sua vicenda come segni, segnali – semeîa secondo il quarto vangelo (cf. Gv 2,11.18.23; 3,2; ecc.) – capaci di orientare la nostra fede.

Qui sta la singolarità del cristianesimo: Dio si è rivelato in Gesù si è fatto conoscere nella sua umanità; Dio si è fatto uomo e l’incarnazione è l’umanizzazione di Dio. Di conseguenza – ripeto – si deve partire dall’umanità di Gesù e alla luce di essa comprendere Dio. Per questo il grande attentato al cristianesimo è sempre venuto dalla negazione della vera e piena umanità di Gesù Già alla fine del I secolo d.C., proprio perché a causa dell’ideologia religiosa dominante era difficile accettare che Dio avesse preso una forma umana fino alla sofferenza e alla morte, questo rischio si manifestò sotto la forma delle correnti gnostiche e docetiche, le quali davano di Gesù un’interpretazione tesa a negare la sua piena umanità. È significativo che Ignazio di Antiochia, all’inizio del II secolo, si veda costretto a denunciare queste derive e a insistere con forza sulla dimensione umana, storica di Gesù Egli scrive: «Chiudete le orecchie di fronte ai discorsi di quelli che non parlano di Gesù Cristo come discendente della stirpe di David e figlio di Maria; come colui che è veramente nato, ha mangiato e ha bevuto; che ha veramente sofferto la passione sotto Ponzio Pilato; che è stato veramente crocifisso ed è morto, di fronte al cielo, alla terra e agli inferi; che è veramente risorto dai morti.»(Ai Tralliani 9,1-2)

            Nel II secolo tocca poi a Marcione, Basilide e ai loro seguaci «dissolvere Gesù» (cf. 1Gv 4,3), svuotare cioè la realtà della sua incarnazione, fino a negarne la morte (cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie I,24,4); ed è altamente significativo che per il Corano Gesù è stato sostituito all’ultimo momento da un altro uomo perché non era possibile per il Messia la morte di croce (cf. Sura IV,157). Insomma, è arduo credere che Dio, il tre volte Santo (cf. Is 6,3), l’Altro dall’umanità per eccellenza, il Trascendente sia diventato uomo; è difficile credere che Dio abbia il volto di un uomo: eppure è questo il proprium del cristianesimo! Era ed è più facile scorgere in Gesù una sorta di apparizione angelica, un messaggero venuto sulla terra e ritornato al cielo, ma privo di una vera vita umana. E numerosi sono gli odierni sostenitori di analoghe posizioni docetiche, spesso espresse in modo ben più grossolano… In breve: è più facile un atteggiamento di deismo rispetto all’autentica fede cristiana. È forse un caso che il grande Blaise Pascal (*1623 †1662), trattando della fede, consideri «il deismo tanto lontano da essa quanto l’ateismo, che le è affatto contrario» (Pensieri, 556 [Brunschvicg])?

In Gesù l’umanità è sempre trasparente: il divino è velato, ma nello spessore della sua umanità Dio è raccontato. Nell’uomo Gesù – come dirà Paolo due decenni dopo la sua morte – la condizione di Dio ha subito una kénosis, uno svuotamento: colui che era in forma di Dio si è spogliato della sua uguaglianza con Dio (cf. Fil 2,6-7), e questo è avvenuto in modo che nella vita di Gesù non si vedesse altro che la sua umanità, un’umanità nella condizione di servo «fino alla morte, anzi alla morte di croce» (Fil 2,8)! La sua condizione di Dio è stata per così dire «messa tra parentesi», e Gesù è stato uomo, uomo come noi, depotenziato del divino e soggetto dunque alla nostra limitata condizione mortale. Sì, Gesù ha vissuto la sua esistenza terrena quale uomo povero e fragile, esattamente come gli uomini con cui entrava in relazione; il Figlio è entrato nella storia come uomo, pienamente uomo: un uomo capace di fare della sua vita un capolavoro d’amore.

            3. La resurrezione di Gesù, vittoria dell’amore sulla morte. Come ultima tappa del nostro percorso occorre riflettere su quello che è sempre stato percepito come il proprium per eccellenza del cristianesimo: la resurrezione dai morti, possibilità inaudita aperta per tutti gli uomini dall’evento pasquale, dalla resurrezione di Gesù, «il primogenito di molti fratelli» (Rm 8,29). Anche in questo caso è opportuno porsi con franchezza una domanda: perché Gesù è risorto da morte? Sarebbe troppo sbrigativo affermare che egli è risorto perché era Figlio di Dio. Questa risposta non basta, è frutto dello stesso errore da cui siamo partiti: cominciare dalla fede in Dio, e poi solo in un secondo momento credere in Gesù. D’altra parte, non è neppure sufficiente leggere la resurrezione come il miracolo dei miracoli: tale interpretazione contiene certamente una verità, perché la resurrezione è l’inaudito per noi uomini, è ciò che contraddice la certezza universale secondo cui la morte è l’ultima parola sulla vita umana; ma è ancora una spiegazione insufficiente.

Partendo proprio dalla realtà della morte vorrei qui abbozzare una meditazione che consenta di comprendere in che senso la resurrezione di Gesù è l’evento determinante della fede cristiana. Nell’Antico Testamento la morte è il segno per eccellenza della fragilità umana. Ogni uomo porta dentro di sé «il senso dell’eterno» (‘olam: Qo 3,11), l’ansia di eternità, e tuttavia è costretto a constatare l’inesorabile presenza della morte come ciò che contrasta fortemente la sua vita. Con uno sguardo naturalistico, si può anche ammettere che la finitezza umana sia in qualche modo una necessità biologica, come lo è per ogni creatura; ma tale giustificazione non spegne dentro di noi il sentimento che la morte, proprio perché non permette che qualcosa di noi rimanga per sempre, minaccia fortemente il senso della nostra vita: la morte è la somma ingiustizia! Noi troviamo senso nella misura in cui sappiamo vivere dei gesti che restano nel tempo: ma se tutto finisce con la morte, che senso ha la nostra esistenza?

È qui che entra in gioco la riflessione che ogni uomo e ogni donna fanno sotto il cielo, da sempre e in tutte le culture: vivere è amare. Tutti gli esseri umani percepiscono che la realtà indegna della morte per eccellenza è l’amore; quando infatti giungiamo a dire a qualcuno: «Ti amo», ciò equivale ad affermare: «Io voglio che tu viva per sempre». Può sembrare banale ripeterlo e tuttavia resta vero: la nostra vita trova senso solo nell’esperienza dell’amare e dell’essere amati, e tutti siamo alla ricerca di un amore con i tratti di eternità. Ora, la grazia di un libro come il Cantico dei cantici posto al cuore della Bibbia consiste proprio nel fatto che in esso si parla di amore dall’inizio alla fine, dell’amore umano tra un ragazzo e una ragazza che diventa cifra di ogni amore. A conclusione del Cantico si legge un’affermazione straordinaria. L’amata dice all’amato:

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come l’inferno è lo slancio amoroso.

Le sue vampe sono fiamme di fuoco,

una fiamma del Signore (Ct 8,6-7).

Qui si raggiunge una consapevolezza presente in numerose culture, che sempre hanno percepito un legame tra amore e morte (si pensi solo al celebre binomio greco eros–thanatos). La Scrittura, dal canto suo, ci illustra che amore e morte sono i due nemici per eccellenza: non la vita e la morte, ma l’amore e la morte! E la morte, che tutto divora, che vince anche la vita, trova nell’amore un nemico capace di resisterle, fino a sconfiggerla. Insomma, se è vero che l’Antico Testamento non ha pagine chiare e nette sulla resurrezione dai morti, al suo cuore sta però la consapevolezza che l’amore può combattere la morte.

Tenendo presente questo orizzonte, possiamo ora ritornare alla nostra domanda: perché Gesù è risorto da morte? Una lettura intelligente dei vangeli e poi di tutto il Nuovo Testamento ci porta a concludere che egli è risorto perché la sua vita è stata agápe, è stata amore vissuto per gli uomini e per Dio fino all’estremo: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (eis télos)» (Gv 13,1). Gesù è stato risuscitato da Dio in risposta alla vita che aveva vissuto, al suo modo di vivere nell’amore fino all’estremo: potremmo dire che è stato il suo amore più forte della morte a causare la decisione del Padre di richiamarlo dalla morte alla vita piena. In altre parole, se Gesù è stato l’amore, come poteva essere contenuto nella tomba? È questa la domanda che si cela dietro le parole pronunciate da Pietro nel giorno di Pentecoste: «Dio ha risuscitato Gesù sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24).  Com’era possibile che l’amore restasse preda degli inferi? Davvero la resurrezione di Gesù è il sigillo che Dio ha posto sulla sua vita: resuscitandolo dai morti Dio ha dichiarato che Gesù era veramente il suo racconto e ha manifestato che nell’amore vissuto da quell’uomo era stato detto tutto ciò che è essenziale per conoscere lui.

È in quest’ottica che possiamo comprendere anche il cammino storico compiuto dai discepoli per giungere alla fede in Gesù risorto e Signore. Cosa è successo nell’alba pasquale, nell’alba di quel «primo giorno dopo il sabato» (Mc 16,2)? Alcune donne e alcuni uomini discepoli di Gesù si sono recati al sepolcro e l’hanno trovato vuoto: mentre erano ancora turbati da questa inaudita novità hanno avuto un incontro nella fede con il Risorto, presso la tomba, sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, ai bordi del lago di Tiberiade.

Ed è significativo che Gesù non sia apparso loro sfolgorante di luce, ma si sia presentato con tratti umanissimi: un giardiniere, un viandante, un pescatore. Di più, egli si è manifestato nella forma con cui lungo la sua esistenza aveva narrato la possibilità dell’amore. Per questo Maria di Magdala, sentendosi chiamata per nome con amore, risponde subito: «Rabbunì, mio maestro!» (Gv 20,16); i discepoli di Emmaus riconoscono Gesù nello spezzare del pane (cf. Lc 24,30-31.35), cioè nel segno riassuntivo di una vita offerta per tutti; è il discepolo amato che lo riconosce presente sulla riva del lago di Tiberiade e grida a Pietro: «È il Signore!» (Gv 21,7). Insomma, la vita di Gesù è stata riconosciuta come un amore trasparente, pieno e quelli che lo avevano visto vivere e morire in quel modo hanno dovuto credere alla forza dell’amore più forte della morte, fino a confessare che con la sua vita egli aveva davvero raccontato che «Dio è amore» (ho theòs agápe estìn: 1Gv 4,8.16).

Illuminati da questa consapevolezza, i discepoli hanno poi compiuto un cammino a ritroso, che li ha condotti a ricordare, raccontare e infine mettere per iscritto nei vangeli la vita di Gesù sulle strade della Galilea e della Giudea. Essi hanno compreso che Gesù aveva narrato l’amore di Dio con le sue parole, con la sua maniera di stare in mezzo agli altri, di incontrare i malati e gli emarginati, di perdonare la donna adultera (cf. Gv 8,1-11), di accettare il gesto d’amore della peccatrice (cf. Lc 7,36-50), di chiamare Giuda «amico» (Mt 26,50), proprio mentre per colpa sua veniva arrestato… E dopo aver raccontato tale amore per tutta la vita – fino a dire, sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34) –, avrebbe potuto restare preda della morte? Con la sua vita e la sua morte Gesù ha mostrato di avere una ragione per cui morire e, quindi, una ragione per cui vivere: l’amore dei fratelli, vissuto quotidianamente e con semplicità, gratuitamente e liberamente, quell’amore che non può morire!

Eccoci così tornati a noi, noi discepoli di Gesù ma anche noi uomini tutti: l’unico prezzo che il cristianesimo ci richiede per essere vissuto e compreso in profondità è quello dell’amore. Siamo cioè chiamati a immergerci nell’amore di Dio, quell’amore di cui canone, regola, forma è l’amore di Cristo, che ha speso giorno dopo la giorno la vita per i fratelli (cf. Gv 15,13): allora la nostra vita potrà avere un senso, una direzione, un sapore… Ecco perché quando siamo incapaci di sperare nella resurrezione, è perché in verità non crediamo che l’amore possa avere l’ultima parola: credere e sperare la resurrezione è una questione d’amore, perché solo l’amore ha provocato la resurrezione di Gesù. Forte come la morte è solo l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù Cristo: è questo che noi cristiani dovremmo annunciare, con umiltà e discrezione, a tutti gli uomini. Affermare semplicemente che «Gesù è risorto» è un bella notizia, ma troppo breve per essere davvero Vangelo per tutti gli uomini. Forse invece anche i non credenti sono interessati a percorrere un cammino nel quale si parta dal presupposto che l’amore è in grado di combattere la morte, fino a vincerla: ecco il senso profondo della resurrezione di Cristo, ecco come questo evento può parlare a tutti gli uomini, nostri fratelli.

Conclusione. L’apostolo Giovanni che nel prologo del vangelo ha scritto: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato» (Gv 1,18), è lo stesso che nella sua Prima lettera ha affermato: Dio nessuno l’ha mai contemplato, ma se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noi e in noi il suo amore è giunto a pienezza … Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui (1Gv 4,12.16).

            L’amore che Gesù ha vissuto deve essere vissuto anche da noi cristiani: solo così anche noi potremo conoscere Dio – questo significa che egli rimane in noi – e narrarlo nelle nostre vite. Dove infatti vi è un’esperienza di amore autentico, là è presente l’amore di Dio in noi, e la nostra vita umana partecipa delle energie d’amore di Dio, capaci di vincere la morte. Di nuovo, si pensi alla portata di tale affermazione anche per i non cristiani: già di qui, già prima della morte «chi ama è passato dalla morte alla vita» (cf. 1Gv 3,14). Certo, vinceremo definitivamente la morte nel Regno (cf. Ap 21,4), grazie alle energie di vita donateci dal Risorto; ma è possibile predisporre tutto per tale evento, vivendo quell’amore che già oggi ci fa partecipare alla vittoria dell’amore sulla morte.

La specificità del cristianesimo consiste nell’annuncio che l’amore vince la morte, buona notizia che siamo chiamati a decodificare e a tradurre qui e ora, nella storia e nella compagnia degli uomini… Insomma, quando lo stesso Giovanni, nella sua meditazione per ondate successive sull’amore, rivela: Amatissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7-8), egli espone l’essenziale del cristianesimo. Il Dio cristiano è amore perché è stato narrato da Gesù, colui che ha vissuto l’amore più forte della morte: ecco perché Gesù è risorto, e noi, trascinati dietro a lui nella sua vita umana, possiamo fare un cammino di ritorno al Padre, un cammino che si apre sulla vita eterna.

Milano, Basilica di S. Ambrogio, 8 aprile 2011

www.monasterodibose.it/fondatore/conferenze-e-omelie/omelie-e-lectio/864-lectio-divina/8699-dire-il-dio-di-gesu-cristo

Citato da          Blog di Francesco Macri        20 marzo 2020

https://francescomacri.wordpress.com/2020/03/20/il-dio-di-gesu-cristo

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DALLA NAVATA

IV Domenica di quaresima – Lætare – Anno A – 22 marzo 2020

1Samuele               16, 07. Il Signore replicò a Samuele: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.

Salmo                      22, 03. Rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.

Efesini                   05, 10. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore.

Giovanni           09, 31. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.

           

Siamo tutti come ciechi in cerca della luce

Il protagonista del racconto è l’ultimo della città, un mendicante cieco dalla nascita, che non ha mai visto il sole né il viso di sua madre. Così povero che non ha nulla, possiede solo se stesso. E Gesù si ferma per lui, senza che gli abbia chiesto nulla. Fa un po’ di fango con polvere e saliva, come creta di una minima creazione nuova, e lo stende su quelle palpebre che coprono il buio.

In questo racconto di polvere, saliva, luce, dita, Gesù è Dio che si contamina con l’uomo, ed è anche l’uomo che si contagia di cielo; abbiamo uno sguardo meticcio, con una parte terrena e una parte celeste.

Ogni bambino che nasce “viene alla luce” (partorire è un “dare alla luce”), ognuno è una mescolanza di terra e di cielo, di polvere e di luce divina. «Noi tutti nasciamo a metà e tutta la vita ci serve per nascere del tutto» (Maria Zambrano).

La nostra vita è un albeggiare continuo. Dio albeggia in noi. Gesù è il custode delle nostre albe, il custode della pienezza della vita e seguirlo è rinascere; aver fede è acquisire «una visione nuova delle cose» (Giovanni Vannucci).

Il cieco è dato alla luce, nasce di nuovo con i suoi occhi nuovi, raccontati dal filo rosso di una domanda ripetuta sette volte: come ti si sono aperti gli occhi? Tutti vogliono sapere “come”, impadronirsi del segreto di occhi invasi dalla luce, tutti con occhi non nati ancora. La domanda incalzante (come si aprono gli occhi?) indica un desiderio di più luce che abita tutti; desiderio vitale, ma che non matura, un germoglio subito soffocato dalla polvere sterile della ideologia dell’istituzione.

            L’uomo nato cieco passa da miracolato a imputato. Ai farisei non interessa la persona, ma il caso da manuale; non interessa la vita ritornata a splendere in quegli occhi, ma la “sana” dottrina. E avviano un processo per eresia, perché è stato guarito di sabato e di sabato non si può, è peccato… Ma che religione è questa che non guarda al bene dell’uomo, ma solo a se stessa e alle sue regole? Per difendere la dottrina negano l’evidenza, per difendere la legge negano la vita.

            Sanno tutto delle regole morali e sono analfabeti dell’uomo. Anziché godere della luce, preferirebbero che tornasse cieco, così avrebbero ragione loro e non Gesù. Dicono: Dio vuole che di sabato i ciechi restino ciechi! Niente miracoli il sabato! Gloria di Dio sono i precetti osservati. Mettono Dio contro l’uomo, ed è il peggio che possa capitare alla nostra fede. E invece no, gloria di Dio è un mendicante che si alza, un uomo che torna a vita piena, «un uomo finalmente promosso a uomo» (Primo. Mazzolari). E il suo sguardo luminoso, che passa e illumina, dà gioia a Dio più di tutti i comandamenti osservati!

p. Ermes Ronchi, OSM

www.novena.it/omelie_ermes_ronchi/440.htm

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DIRITTI

Quale capacità la legge riconosce al concepito?

L’art. 1, comma 1, del codice civile è chiaro sulla capacità riconosciuta al concepito, tuttavia rileva il riconoscimento di una serie di diritti:

La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita [22 Cost.].

I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita.

Al concepito la legge riconosce una parziale “soggettività giuridica”? Per l’ordinamento italiano, il concepito (ovvero colui che è stato procreato ma si trova ancora nel ventre materno), non è considerato soggetto giuridico.

La capacità giuridica. L’art. 1, comma 1, del codice civile è chiaro sul punto, quando afferma che “la capacità giuridica” (ossia l’idoneità ad essere titolari di diritti e doveri giuridici) “si acquista al momento della nascita”. È solo in tale momento, con la separazione del feto dall’alveo materno (Cass. n. 2023/1993) che la persona fisica acquisisce l’idoneità ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici e la conserva fino alla morte.

Concepito: diritti in standby. Tuttavia, è la stessa disposizione, al secondo comma, che riconosce al nascituro concepito la titolarità di una serie di diritti specificamente individuati, subordinandoli all’evento della nascita, tra cui rilevano in particolare l’art. 462, comma 1, c.c., che annovera il “concepito” tra i soggetti capaciti di succedere, specificando al successivo comma che “deve presumersi concepito al tempo dell’apertura della successione colui la cui nascita avvenga entro 300 giorni dalla morte del de cuius“, nonché l’art. 784 c.c. che riconosce al concepito la capacità di ricevere per donazione.

Si tratta, dunque, di diritti in “standby” condizionati all’evento nascita (la nascita non è un termine ma una condicio sine qua non, che non è detto che si verifichi) che conferiscono, secondo parte della dottrina, una sorta di capacità giuridica “provvisoria” o ad “acquisto progressivo” al concepito, inteso quale portatore di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento (cfr., in dottrina, a favore Bianca; contra Gazzoni).

Concepito: soggetto di diritto. Anche per la recente giurisprudenza, il concepito, pur non avendo capacità giuridica ex lege, è comunque un soggetto di diritto, in quanto titolare di molteplici interessi personali che vengono riconosciuti sia dall’ordinamento nazionale che sovranazionale, quali: il diritto alla vita e alla salute, all’onore e all’identità personale, ad una nascita sana; diritti, rispetto ai quali, l’evento nascita è condizione imprescindibile allo scopo della loro azionabilità in giudizio a fini risarcitori (cfr., ex multis, Cass. n. 9700/2011).                             www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=6263&id=6263#.XooIQXJS-r8

In ogni caso, la condizione giuridica del concepito rimane una questione aperta e molto dibattutanell’ordinamento italiano, anche in relazione alle leggi in materia di aborto e fecondazione assistita.

Domande e risposte                  studio Cataldi 10 marzo 2020

               www.studiocataldi.it/articoli/17195-quale-capacita-la-legge-riconosce-al-concepito.asp

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DONNE NELLA CHIESA

Non perdo la speranza

La questione femminile nella Chiesa dal punto di vista della biblista francese Anne-Marie Pelletier, docente di Sacra Scrittura ed Ermeneutica biblica.

Lei parla di «misoginia incistata», di «violenza larvata», d’«ingiustizia». È arrabbiata nel vedere lo spazio concesso alle donne nella Chiesa cattolica?

            «No, ma sono stanca. Ho dato credito per molto tempo al magistero di essersi infine resosi conto nel bel mezzo del XX secolo che le donne esistevano! S’iniziava a sentire una parola di stima mai udita prima. Il messaggio alle donne di Paolo VI alla fine del Concilio è un discorso vibrante e sincero di cui mi sono molto rallegrata. Il dramma è che nonostante questo discorso le prassi sono cambiate ben poco. Di qui la necessità di fare il punto, identificare i malintesi, diagnosticare il male».

Perché lei propone una visione femminile piuttosto che femminista?

«Abbiamo un debito nei confronti dei femminismi che troppo spesso nella Chiesa trattiamo come uno spauracchio. Tuttavia mi ritrovo maggiormente in una visione “femminile”, termine che è più irenico ma senza ingenuità. Preferisco le strade che non passano attraverso la guerra dei sessi. Dobbiamo rimettere mano alla relazione tra uomini e donne. Per questo, ad esempio, apprezzo molto che una lettura femminile dei testi sia praticata anche da uomini sensibili alle preoccupazioni promosse dalle donne. È sotto questo sguardo incrociato che l’intelligenza del testo cresce veramente».

            In che cosa la questione delle donne riguarda la vita di tutta la Chiesa?

«La vita delle società prova che quando i diritti delle donne sono rispettati e i loro talenti promossi è tutta la collettività che si trasforma e ne è vivificata. Così avviene anche nella Chiesa cattolica. Così oggi porre la questione del sacerdozio ministeriale è ricondurre l’insieme della Chiesa al proprio centro di gravità. Ci si è accontentati di ripetere che il sacerdozio era riservato agli uomini senza domandarsi che cosa questa situazione implicava per le donne. Ma delle due l’una. Se il presbiterato è come l’aggettivo superlativo dell’identità cristiana, questo implica che le donne sono chiamate a una sotto-vocazione. Al contrario, occorre ammettere che è il battesimo che costituisce la pienezza di questa identità. Logicamente ne consegue che il presbiterato è a servizio della vocazione battesimale condivisa da tutti. In questo senso, un prete è ordinato per me! Questo rovescia un po’ la prospettiva in un’istituzione in cui l’egemonia del potere maschile appare brutalmente in tutta la sua evidenza con la rivelazione degli scandali che sappiamo».

E il sacerdozio femminile?

«Pensarlo come una soluzione, a mio avviso, rientra in un atteggiamento di tipo clericale. Significherebbe ratificare l’idea di un sacerdozio ministeriale come una promozione, come il passaggio a una classe superiore. E non lo è! Oggi le donne sono al centro della vita delle comunità. Bisogna prenderne atto, avere il coraggio di enumerare tutti i ministeri che ricoprono e dargli un riconoscimento istituzionale. Bisogna che la loro parola circoli, anche nei seminari, dove ci si prepara normalmente a mettersi a servizio di comunità composte da uomini e donne. Perché non proporre un corso di ecclesiologia a due voci, mettendo assieme un prete e un laico o una laica? Quanto all’ordinazione diaconale, auguriamoci che il passato non sia semplicemente norma del presente. Fedeltà alla tradizione è anche innovare, a partire da una stessa confessione di fede».

              Perché le donne per molto tempo si sono dedicate meno agli studi di teologia?

            «Oggi vi si dedicano sempre di più. Ed è una novità poiché la teologia è stata sinora una cosa per uomini. Ciò detto, è vero che le donne sono meno portate degli uomini per le grandi sintesi teologiche che cercano di dire Dio in maniera priva di dubbi. Difendono più volentieri un Dio che eccede le nostre parole. Una conoscenza in chiaroscuro le convince di più. Per fare un esempio contemporaneo, la poetessa Marie Noël esprime bene questo atteggiamento. Questo significa che l’accesso delle donne al lavoro teologico dovrebbe trasformarne un po’ la pratica».

            La questione femminile si collega a quella laicale.

«Sì, ne fa parte. Le donne sono sia laiche che… donne. Doppio handicap! Tanto più che dovremmo urgentemente approfondire una teologia del laicato che non si limiti a pensare ai laici come coloro ai quali competa solo l’ambito temporale. Bisogna mettersi al lavoro. E cominciare a insegnare meglio la pienezza della vita battesimale. Papa Francesco ha questa preoccupazione ecclesiologica. Ad esempio, ricordava recentemente in Gaudete et exultate che la santità è per tutti, è vocazione universale. Sembra che questo non sia tanto predicato e neanche ascoltato nelle nostre comunità».

             Che cosa pensa del posto riservato alla figura della vergine Maria?

«Rispetto la devozione mariana, anche se non è la mia forma spontanea di preghiera. Ma sono sconfortata nel vedere quanto la figura di Maria sia stata reinterpretata, sovraccaricata ben oltre la sua identità scritturale. La vergine Maria è innanzi tutto la madre di Gesù, figlia d’Israele e donna tra altre donne. È esemplare di ciò che è vissuto da tante altre donne. È colei che rimane fedele nel corso dei trent’anni di vita nascosta e fino alla Croce. È bene rispettare la sobrietà del Vangelo».

            Il Vangelo racconta che le donne non sono state chiamate da Gesù.

            Sì, ma quando si sono presentate a lui, le ha accolte e lo hanno seguito fino alla Passione. È vero che non fanno parte del gruppo dei dodici apostoli, ma sono state destinatarie apertamente della sua Parola. E sono loro che ricevono il primo annuncio della risurrezione e sono incaricate di questo annuncio. Per secoli, ci si è dimenticati che Maria Maddalena era “apostola degli apostoli”. A questo si è sostituita un’immagine inventata da cui solo oggi cominciamo ad allontanarci. Anche altre donne escono dall’ombra in cui una lettura maschile le aveva relegate, come la vedova del tempio (cf. Mc 12,41-44), o la donna che ha versato il balsamo sul capo di Gesù prima della Passione (cf. Mt 26,6s)».

Papa Francesco può far evolvere la Chiesa in questo ambito?

«È molto attento alla questione delle donne. Ma esistono anche venti contrari! Ci sono degli avanti e indietro. Lo prova il recente Sinodo sull’Amazzonia: le religiose invitate hanno potuto parlare e far conoscere la condizione delle donne. Ma al momento delle votazioni, si sono trovate tagliate fuori. Questo fa davvero arrabbiare. Sperando che il problema sia risolto la prossima volta».

È ottimista?

«Voglio rimanere fiduciosa, nonostante tutto. Attraverso varie contraddizioni e passi indietro, mi sembra che sia stato avviato un movimento inesorabile. Ma bisogna rimanere sul pezzo. È in discussione la credibilità della Chiesa. Dobbiamo fare ancora molti progressi per far uscire le donne dal ruolo di manodopera. Non è scontato che si riconosca loro una parola autorevole, né da parte di molti preti, né da parte di alcuni laici. Ma mi dico che, trent’anni fa, non mi sarebbe stato chiesto di redigere il testo della Via crucis del Colosseo usato come preghiera dal papa il Venerdì santo (nel 2017). Posso dire la stessa cosa per le giornate di ritiro che tengo in comunità religiose, maschili o femminili. Non ignoriamo i progressi. In un mondo impantanato nel pessimismo, i cristiani devono resistere e sperare. È la fede che ci chiama a resistere fiduciosi».

Philippe Clanché         Témoignage chrétien   20 febbraio 2020

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FAMIGLIA

COVID-19: far fronte allo stress in casa e in famiglia

In un’emergenza come quella che stiamo vivendo in seguito alla pandemia di COVID-19, la paura della situazione nuova, inattesa e potenzialmente dannosa per la salute nostra e per quella dei nostri famigliari e la necessità di una condizione di isolamento sociale comportano una inevitabile sensazione di perdita di controllo, innescando reazioni di stress. D’altra parte ottenere informazioni chiare e seguire le raccomandazioni può aiutare a recuperare il controllo sulle circostanze della nostra vita, aumentando la nostra capacità di reagire positivamente, e riducendo l’ansia e l’angoscia che si accompagnano all’incertezza di una situazione in continua evoluzione.

Il 6 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha divulgato alcuni consigli da seguire per gestire lo stress associato alla emergenza sanitaria globale del COVID-19 che ha sintetizzato in due infografiche. A partire da quei documenti ecco un approfondimento sui comportamenti consigliati per gestire lo stress e mitigare l’ansia, rivolto alle persone confinate in casa e in particolare ai genitori di bambini da zero a tre anni.

Che cosa possiamo fare per evitare che la paura si trasformi in angoscia?

Di fronte al pericolo la paura è nostra amica: nel corso della propria storia, senza la paura la specie umana probabilmente si sarebbe estinta, sopraffatta dal pericolo. Ma se la paura diventa eccessiva ci rende vulnerabili. Seguire i consigli che ci vengono dati è un modo per riconoscere il ruolo della paura, senza farsi sopraffare. Tristezza, angoscia, perfino panico, sono risposte emotive comprensibili, ma che scaturiscono da valutazioni poco realistiche. I pensieri catastrofici spesso ci assalgono quando siamo più vulnerabili, come nei momenti di inattività o durante la notte. Possiamo considerarli una sorta di “bugie” prodotte dal nostro cervello, di fronte alle quali non sempre la nostra ragione riesce ad avere la meglio. Quando una minaccia è visibile, d’istinto siamo portati a scappare, e più ci allontaniamo più la paura diminuisce. In questo caso la minaccia è invisibile e dunque fuggire è impossibile: non sapremmo in quale direzione andare. Non ci rimane che allontanare il più possibile la minaccia da noi. In che modo? Mettendo in atto quei comportamenti virtuosi che sentiamo ripetere ogni giorno: stare il più possibile in casa, mantenere una distanza di sicurezza dagli altri, lavarsi spesso le mani senza temere di esagerare, limitare i contatti fisici anche tra familiari. Più mettiamo in atto comportamenti di questo tipo, più ci sentiamo protetti, rassicurati, meno ansiosi.

Noi siamo quello che pensiamo. Le nostre reazioni emotive, e quindi il nostro stato di benessere o malessere, dipendono anche dalla nostra percezione e immaginazione. È facile capire quindi che, per stare bene, dobbiamo dirottare il pensiero su cose che ci diano piacere, distrarre la mente impegnandoci in attività concrete che ci appassionano: leggere, parlare, cucinare, curare le piante, occuparci degli animali domestici, videochiamare parenti e amici.

Attenzione all’autosuggestione. Quando si è in uno stato di allerta e magari anche in una condizione di deprivazione sensoriale per noia o mancanza di idee, potremmo essere più soggetti a ingigantire le normali sensazioni e a metter in atto reazioni sproporzionate e inopportune. La difficoltà è capire se stiamo esagerando. Proviamo allora a chiederci che cosa penseremmo se quella sensazione o quel comportamento venisse espresso da un nostro famigliare (moglie, marito, figlio). Di solito questo re-indirizzamento ci pone in una posizione di maggiore obiettività e maggiore razionalità. In questa posizione, potremo immaginare quale nostro intervento sarebbe efficace nel rassicurare la persona cara. E questo potrebbe aiutarci a trovare una strada per auto-rassicurarci e abbassare i livelli di ansia.

            Devo stare in casa, come faccio a far passare il tempo?

Riflettiamo che oggi dobbiamo restare in casa, ma avendo comunque il mondo di fuori a portata di mano, con la possibilità di parlare con chi vogliamo, di leggere ciò che ci interessa, di guardare ciò che ci piace, persino andare per negozi virtuali a fare shopping. Insomma, tutte le numerose opzioni messe a disposizione dalla nostra tecnologia. Ma ci sono anche altre possibilità: riscoprire il piacere del clima familiare, reimpostare la routine quotidiana su ritmi più lenti e piacevoli, condividere attività, rispolverare giochi di quando eravamo più poveri di tecnologia.

Per chi ha la fortuna di possedere un giardino o un terrazzo con piante, fare giardinaggio o ridisegnare lo spazio ha un forte potere rilassante. Può bastare anche il davanzale di una finestra per rilassarsi coltivando piante aromatiche da usare in cucina. Anche avere animali domestici a cui dedicarsi, può essere d’aiuto: la relazione con un animale è spesso appagante tanto quanto la relazione con altri esseri umani. Infine, continuare a svolgere attività motoria anche in casa è importante per mantenere la salute, sia fisica, sia mentale.

            Suggerimenti per mamma e papà con neonati e bimbi piccoli. “Se hai cura del tuo benessere psico-fisico, hai contemporaneamente cura del tuo bambino”. In questo periodo di isolamento forzato, anche alle mamme e ai papà che hanno neonati e bambini molto piccoli è stato chiesto di cambiare il proprio stile di vita e di restare a casa insieme ai più piccoli. È un tempo che viene regalato, del quale si può approfittare per godere della presenza dei nostri cari e scoprirli in una quotidianità inusuale.

            Può accadere anche che questo periodo riveli la nostra vulnerabilità e tante paure e ansie che sono tipiche di una neo mamma o neo papà emergano in modo esagerato e incontrollato. Potrebbe capitare di sentirsi tristi, stressati o confusi o potrebbe capitare di avere paura di non riuscire a proteggere i propri piccoli. Ecco allora qualche suggerimento per le mamme e i papà con un neonato:

  • Mettiamo il bambino sulla pancia e ascoltiamo una bella musica rilassante e mentre coccoliamo il nostro bimbo cerchiamo di respirare lentamente: ci rilasseremo entrambi
  • Cerchiamo di fare lunghe docce rilassanti ed esercizi di respirazione, soprattutto la sera prima di andare a dormire
  • Prendiamoci cinque minuti, chiudiamo gli occhi e concediamoci una vacanza mentale dove vogliamo
  • Se possibile trascorriamo qualche momento all’aria aperta con il bimbo
  • Prolunghiamo il momento del cambio pannolino con un piacevole massaggio al nostro bambino
  • Non abbiamo paura di non trovare attività stimolanti per i nostri figli: la relazione con noi è ciò che li appaga di più
  • Cerchiamo di prenderci piccoli spazi per noi quando il bambino dorme: leggiamo un buon libro, occupiamoci di noi, cerchiamo di dormire a nostra volta o anche solo di riposare
  • Abbiamo cura del nostro aspetto: vestiamoci bene, dedichiamo del tempo al trucco
  • Ascoltiamo buona musica
  • Balliamo con in braccio il nostro bimbo
  • Cerchiamo di seguire una corretta alimentazione, con cibi naturali e freschi
  • Non trascuriamo le nostre esigenze: nostro figlio è importante, ma prima ci siamo noi. Se non stiamo bene, il piccolo potrebbe soffrirne e noi sentirci peggio
  • Utilizziamo registrazioni con i suoni della natura, da ascoltare mentre facciamo addormentare il bambino
  • Non sentiamoci colpevoli dei sentimenti di inadeguatezza che potremmo provare, i pensieri negativi si possono cambiare e non ci impediranno di essere una brava madre o un bravo papà
  • Lasciamo al nostro partner momenti esclusivi col bimbo
  • Se abbiamo delle preoccupazioni cerchiamo di limitarle a un solo momento nell’arco della giornata: quindici minuti quando il bimbo dorme. Può aiutare prenderne nota per iscritto.
  • Ricordiamoci che questa situazione d’emergenza è passeggera
  • Manteniamo un pensiero basato sulla realtà
  • Non prendiamo qualsiasi sintomo fisico come un segnale di una malattia più grave
  • Asserviamo i nostri bimbi per scoprire quali progressi stanno facendo.

Ed ecco qualche suggerimento per mamme e papà con un bimbo di 1-3 anni:

  • Cerchiamo di dare una struttura regolare alla giornata
  • Se il bimbo gattona o ha iniziato a camminare favoriamo queste attività estremamente gratificanti per lui
  • Se possibile, passiamo del tempo insieme all’aria aperta
  • Alterniamo attività movimentate (come lotta con i cuscini, ginnastica per terra, ballare insieme) ad attività più rilassanti (un disegno, le costruzioni, la lettura di fiabe), a momenti in cui non offriamo alcuna stimolazione ma incoraggiamo la sua autonomia
  • Facciamo insieme biscotti e torte o un lavoretto: lasciamo che ci aiuti in semplici attività
  • Osserviamo il nostro piccolo, cercando di capire quale attività predilige
  • Parliamogli tanto, insegnandogli nuove parole
  • Coinvolgiamo il nostro partner in attività col bimbo
  • Facciamo chiamate e videochiamate con parenti e amici.

Se ci sentiamo comunque tristi e scoraggiati e pensiamo di avere bisogno di aiuto, non esitiamo a chiederlo, rivolgendoci al medico curante e al pediatra.

    Scarica le infografiche:

        “Far fronte allo stress durante l’epidemia di COVID-19 e Aiuta i bambini a far fronte allo stress durante l’epidemia COVID-19”

www.iss.it/documents/20126/0/stress+raccomandazioni+OMS+in+italiano.pdf/9b697cea-8325-a777-a7a1-30a84eb20011?t=1583515083392

    Consulta il focus tematicoStili di vita sani anche nell’emergenza”, dedicato all’attività fisica.

www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-stili-vita

Epicentro        Istituto Superiore di sanità     marzo 2020

www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-gestione-stress-ambito-domestico

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Il papa: sarà un altro dopo guerra

«Qui si piange e si soffre. Tutti. Da questa situazione potremo uscire solo insieme, come umanità intera». Perciò bisogna «guardare l’altro con spirito di solidarietà» e comportarsi di conseguenza. Papa Francesco segue con apprensione l’evoluzione dell’emergenza coronavirus. Ma al telefono, lunedì 16 marzo 2020, vuole infondere anche speranza nella «luce» che arriverà e illuminerà l’oscurità «entrata in tutte le case», sotto forma di dolore e preoccupazioni. Dopo questo tempo sospeso sarà «un po’ come un dopoguerra», avverte il Pontefice. Bisognerà ricostruire.

Su quattro pilastri portanti:

  1. «Le radici», rappresentate innanzitutto dai nonni, dagli anziani;
  2. «La memoria» di questi giorni così surreali;
  3. «La fratellanza» tra gli esseri umani;
  4. «La speranza, che mai delude».

Santità, si avvicina una Pasqua «a porte chiuse» con Celebrazioni solo via web, tv e radio: per molti fedeli sarà una sofferenza nella sofferenza. Come va vissuta questa Pasqua in mezzo alla pandemia?

«Con penitenza, compassione e speranza. E umiltà, perché tante volte ci dimentichiamo che nella vita ci sono le “zone oscure”, i momenti bui. Pensiamo che possano capitare solo a qualcun altro. Invece questo tempo è oscuro per tutti, nessuno escluso. È segnato da dolore e ombre, che ci sono entrate in casa. È una situazione diversa da quelle che abbiamo vissuto. Anche perché nessuno può permettersi di stare tranquillo, ognuno condivide questi giorni difficili».

Lei all’Angelus ha detto che la Quaresima può aiutare a trovare un senso a tutto quello che sta accadendo: come?

«Il tempo di preparazione alla Pasqua, con la preghiera e il digiuno, ci allena a guardare con solidarietà gli altri, soprattutto coloro che soffrono. In attesa del bagliore di quella luce che illuminerà di nuovo tutto e tutti».

È particolarmente importante pregare in questo periodo?

«Mi vengono in mente gli Apostoli nella tempesta che invocano Gesù: “Maestro, stiamo affogando”. La preghiera ci fa capire la nostra vulnerabilità. È il grido dei poveri, di quelli che stanno affondando, che si sentono nel pericolo, soli. E in una situazione difficile, disperata, è importante sapere che c’è il Signore a cui aggrapparsi».

Dio come può aiutarci?

«Ci sostiene in tanti modi. Ci trasmette fortezza e vicinanza, come ha fatto con i discepoli che nella tempesta chiedevano aiuto. O quando ha dato la sua mano a Pietro che stava affogando».

I non credenti dove possono trovare conforto e incoraggiamento?

«Non voglio distinguere tra credenti e non credenti. Siamo tutti umani e come uomini siamo tutti sulla stessa barca. E nessuna cosa umana deve essere aliena per un cristiano. Qui si piange perché si soffre. Tutti. Ci sono in comune l’umanità e la sofferenza. Ci aiutano la sinergia, la collaborazione reciproca, il senso di responsabilità e lo spirito di sacrificio che si genera in tanti posti. Non dobbiamo fare differenza tra credenti e non credenti, andiamo alla radice: l’umanità. Davanti a Dio tutti siamo dei figli».

Tra i drammi del Covid-19 ci sono le vicende di chi muore in isolamento, senza l’affetto dei parenti che non possono avvicinarsi per non essere contagiati. Sono scene strazianti che stanno capitando quotidianamente negli ospedali, a Bergamo, a Brescia, a Cremona. Alcuni, poco prima di morire, mandano il loro addio alla moglie, al marito, ai figli, tramite gli infermieri. Quali pensieri Le vengono in mente e nel cuore?

«In questi giorni mi hanno raccontato una storia che mi ha colpito e addolorato, anche perché rappresenta ciò che sta accadendo negli ospedali. Un’anziana ha capito che stava morendo e voleva congedarsi dai suoi cari: l’infermiera ha preso il telefonino e ha videochiamato la nipote, così l’anziana ha visto il viso della nipote e ha potuto andarsene con questa consolazione. È il bisogno ultimo di avere una mano che ti prenda la mano. Di un gesto di compagnia finale. E tante infermiere e infermieri accompagnano questo desiderio estremo con l’orecchio, ascoltando il dolore della solitudine, prendendo per mano. Il dolore di chi se n’è andato senza congedo diventa ferita nel cuore di chi resta. Ringrazio tutti questi infermieri e infermiere, medici e volontari che, nonostante la stanchezza straordinaria, si chinano con pazienza e bontà di cuore per sopperire all’assenza obbligata dei familiari».

Il «Suo» Piemonte è una delle regioni più flagellate dal virus. Recentemente a causa del raffreddore Lei non è potuto tornarci: che cosa vorrebbe dire ai piemontesi?

«”La Consolà” (“La Consolata”; qui il Papa parla in piemontese, ndr). “O’ Protetris dla nòstra antica rassa, cudissne Ti, fin che la mòrt an pija: come l’aqua d’un fium la vita a passa, ma ti, Madòna, it reste” (“O Protettrice della nostra antica razza, custodiscimi tu, fino a che la morte mi prenda: come l’acqua di un fiume la vita passa, ma tu, Madonna, tu resti”). La poesia-preghiera di Nino Costa alla Madonna Consolata. Più che mai è questo no? “Come l’acqua di un fiume la vita passa, ma tu, Madonna, tu resti”. Ai piemontesi dico di pregare la Consolata, con fede e fiducia».

Questa emergenza planetaria è caratterizzata anche da una rete di solidarietà, composta da migliaia di persone che stanno facendo sacrifici per il bene degli altri. Quando tutto sarà finito, potrà essere servita a qualcosa per il futuro?

«A ricordare una volta per tutte agli uomini che l’umanità è un’unica comunità. E quanto è importante, decisiva la fraternità universale. Dobbiamo pensare che sarà un po’ un dopoguerra. Non ci sarà più “l’altro”, ma saremo “noi”. Perché da questa situazione potremo uscire solo tutti insieme».

Da che cosa bisognerà ripartire come esseri umani?

«Dovremo guardare ancora di più alle radici: i nonni, gli anziani. Costruire una vera fratellanza tra noi. Fare memoria di questa difficile esperienza vissuta tutti insieme. E andare avanti con speranza, che mai delude. Queste saranno le parole chiave per ricominciare: radici, memoria, fratellanza e speranza».

Domenico Agasso Jr   “La Stampa” 20 marzo 2020

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/03/20/news/coronavirus-papa-francesco-non-abbiate-paura-1.38613733

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                                                                                            GENITORI

Da provare il danno recato dal padre lontano alla figlia trascurata

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 6518, 9 marzo 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37662_1.pdf

La Cassazione precisa che i comportamenti endo-familiari che ledono la dignità di uno dei suoi componenti ricevono tutela anche dalla disciplina dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c. il quale però richiede la prova del danno e del nesso causale per ottenere il risarcimento conseguente. Deve quindi respingersi il ricorso della madre di una minore, che chiede i danni che il padre lontano ha arrecato alla figlia, per averla trascurata.

Danni subiti dalla figlia per essere stata trascurata dal padre. In primo grado un padre viene condannato a risarcire il danno non patrimoniale sofferto dalla figlia, per violazione dei doveri genitoriali. L’uomo ricorre in Appello e la Corte accoglie il gravame ritenendo non provati i danni arrecati dal padre alla figlia.

Spetta al padre dimostrare di aver adempiuto agli obblighi genitoriali? La madre insoddisfatta ricorre in Cassazione lamentando la violazione di diverse disposizioni della Costituzione, della Carta di Nizza, della Convenzione sui diritti del fanciullo e l’omesso esame di fatti decisivi. Lamenta inoltre come la Corte non abbia ritenuto provati i danni arrecati dal padre alla figlia, stando semmai a quest’ultimo provare di avere adempiuto ai propri obblighi genitoriali, visto che il giudice del gravame, per giustificare la condotta dell’uomo ha affermato che non è pacifico che l’uomo lavori a Losanna, lavorando lo stesso a Mesocco, nella Svizzera Italiana.

Errato anche l’assunto secondo cui la versione attorea è stata confortata solo da testi de relato. Quanto da loro appreso non è stato riferito dall’attrice, ma dalla madre della stessa, senza considerare che le dichiarazioni di alcuni testi sono state rese per diretta conoscenza della situazione.

Nessun risarcimento senza prova del danno recato alla figlia. La Cassazione con la sentenza dichiara inammissibili le doglianze sollevate dalla ricorrente perché tese a un riesame del giudizio probatorio a essa sfavorevole. Precisa poi che, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale che ha coinvolto il diritto di famiglia è innegabile che “il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile” la cui lesione da parte di un altro membro familiare costituisce il presupposto anche della tutela approntata dalla responsabilità civile aquiliana. Questo però comporta l’applicazione del relativo onere probatorio richiesto dall’art. 2043 c.c. Chi agisce per fini risarcitori deve infatti provare il danno e il nesso di causa conseguente alla condotta illecita del danneggiante. A queste semplici regole si è attenuto il giudice di seconde cure, in quanto, una volta esaminate le prove, secondo il suo prudente apprezzamento, ha escluso la ricorrenza di una condotta produttiva di un obbligo risarcitorio, tanto più che la madre non ha provato un comportamento del padre produttivo di danno nei confronti della figlia. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso

Annamaria Villafrate                                   Studio Cataldi  16 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37662-da-provare-il-danno-recato-dal-padre-lontano-alla-figlia-trascurata.asp

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MATRIMONIO

Cassazione: trascrivibile il matrimonio dei testimoni di Geova

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 6511, 9 marzo 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37658_1.pdf

La Cassazione con ordinanza dispone l’annullamento con rinvio della sentenza d’appello che ha negato la trascrizione nei registri dello stato civile del matrimonio celebrato in base al rito cristiano dei Testimoni di Geova. La fattispecie in esame infatti rientra nell’ipotesi di matrimonio celebrato da un ministro del culto appartenente all’associazione “Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania“, sottoposta, in virtù del Trattato di amicizia del 2 febbraio 1948 e reso esecutivo in Italia con legge 385/1949, alla legge n. 1159/1929 e al regio decreto n. 289/1930, che prevedono il riconoscimento per presa d’atto del Ministro dell’Interno.

Trascrivibile il matrimonio celebrato da due testimoni di Geova?

La Corte d’Appello rigetta il reclamo proposto ai sensi dell’art. 739 c.p.c contro il decreto con cui il Tribunale, pronunciandosi sul ricorso promosso ai sensi degli artt. 95 e 96 D.P.R n. 396/2000, ha disatteso la domanda finalizzata a ottenere la dichiarazione di legittimità del matrimonio contratto il 23 luglio 1980 secondo il rito dei “Testimoni di Geova” con ordine all’ufficiale di stato civile di effettuare la trascrizione dell’atto nei registri o di emettere un decreto sostitutivo. Il giudice del gravame, conformemente alla decisione di primo grado, ritiene non trascrivibile il matrimonio celebrato con rito cristiano dei Testimoni di Geova perché privo di effetti per l’ordinamento italiano. L’intesta tra la Repubblica e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova del 4 aprile 2007 non è efficace nel territorio italiano perché non ancora approvata con legge.

Il ricorso in Cassazione. I soccombenti in primo e secondo grado ricorrono in Cassazione sollevando i seguenti motivi di ricorso. Con il primo rilevano l’erroneità della decisione della Corte d’Appello nel ritenere non trascrivibile il matrimonio celebrato da un ministero di culto della Confessione religiosa dei Testimoni di Geova, a causa dell’assenza di un’intesa tra la Congregazione cristiana e lo Stato Italiano. Il matrimonio infatti è stato celebrato legittimamente perché culto ammesso ai sensi della legge n. 1159/1929 e del relativo decreto di attuazione R.D n. 289/1939. Sussistono quindi tutte le condizioni necessarie e richieste per procedere alla trascrizione dello stesso.

Con il secondo deducono violazione della Costituzione e della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo perché la Corte ha permesso l’ingerenza delle autorità statali nella vita familiare e privata di una coppia, in contrasto con il diritto fondamentale a contrarre un matrimonio valido agli effetti civili. Motivare il rigetto della non trascrivibilità per mancanza di un’intesa rappresenta quindi una discriminazione fondata sulla religione.

Matrimonio testimoni di Geova trascrivibile ex lege sui culti ammessi. La Cassazione con l’ordinanza accoglie il primo motivo del ricorso, dichiarando assorbito il secondo. Per questo annulla il decreto e rinvia alla Corte di Appello in diversa composizione, affinché applichi alla decisione i principi illustrati nella sentenza. In materia dei trascrizione di matrimoni celebrati secondo riti diversi da quello cattolico la Corte precisa che, in assenza d’intese, essi sono produttivi di effetti in presenza dei seguenti presupposti:

  • Il Ministero dell’Interno deve aver approvato con decreto la nomina del ministro di culto celebrante;
  • L’ufficiale dello stato civile deve aver rilasciato l’autorizzazione scritta alla celebrazione delle nozze.

Nel caso di specie il matrimonio è stato celebrato nel 1980. Il Ministro di culto apparteneva all’associazione “Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania”, culto ammesso nello Stato italiano in virtù del Trattato di amicizia con gli Stati Uniti del 1948, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge n. 385/1949 e persona giudica che godeva dei diritti previsti per gli Enti morali riconosciuti. Tale Ente non aveva richiesto la stipula di intese con l’Italia, ma tale iniziativa era stata intrapresa dalla Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, il cui procedimento, ancora aperto, non aveva approvato la bozza del 4 aprile 2007. A colmare questo vuoto ci ha pensato però la legge n. 1159/1929, che ha cessato di avere applicazione solo nei confronti delle confessioni che nel frattempo raggiungevano delle intese con lo Stato italiano. La fattispecie di cui è causa pertanto risulta disciplinata dagli artt. 3, 7 e ss. della legge n. 1159/1929. Spetta quindi alla Corte territoriale accertare, in base a questa normativa, la trascrivibilità del matrimonio dopo aver verificato:

  • Il rilascio da parte dell’Ufficiale dello stato civile della certificazione che attesta l’assenza di impedimenti alla celebrazione;
  • Il riconoscimento da parte del Ministro dell’Interno del Ministro di culto celebrante;
  • L’approvazione del provvedimento di nomina del Ministro nei termini previsti dall’art. 3, ai sensi del successivo art. 8 della legge 1159/1929.

Annamaria Villafrate                       Studio Cataldi  13 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37658-cassazione-trascrivibile-il-matrimonio-dei-testimoni-di-geova.asp
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OMOFILIA

Partner omosessuali. Il patto segreto

È un “patto segreto” che caratterizza la relazione di coppia fra partner omosessuali, una capacità di comprensione e accoglimento di bisogni e desideri reciproci, che risulta efficace e funzionale per 9 coppie su 10. Un patto descritto dalla ricerca nata all’interno dell’Università Cattolica in un progetto condiviso tra pedagogisti (prof. Livia Cadei) e psicologi (prof. Giancarlo Tamanza e Marialuisa Gennari) che collaborano con il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia, col fine di indagare il processo di costruzione e consolidamento del rapporto di coppia omosessuale nel contesto sociale odierno, descrivendone le dinamiche, i rischi e le risorse.

Al contrario, sul versante del “patto dichiarato”, cioè dell’impegno e dell’investimento sul tempo futuro, la maggioranza (60%) delle coppie stabili coinvolte (27 di cui 20 gay e 7 lesbiche), esprime un legame fragile, poco solido o formale e quindi solo esteriore e di facciata, che rivela la mancanza di impegno e tenacia nel voler mantenere e consolidare il legame, a fronte del restante 40% che manifesta un investimento progettuale rilevante nel rilanciare il legame nel tempo.

            Dalla ricerca, condotta con una prospettiva longitudinale che prevede tre rilevazioni a distanza di due anni dalla scelta di convivenza o matrimonio, emerge inoltre che le coppie mostrano elementi di equilibrio e positività relativamente ai livelli individuali di impulsività, narcisismo, assertività e preoccupazione sociale, con l’unica eccezione di uno stress  particolarmente accentuato in situazioni sociali (59%), e della fatica sperimentata nel far fronte alle sfide quotidiane del contesto sociale.

            I valori che guidano le persone intervistate fanno riferimento al benessere personale (spinta a migliorarsi, serenità) e al dovere (obbedienza, responsabilità); tra i disvalori spiccano invece quelli appartenenti all’area del potere e dell’agiatezza economica. Emerge inoltre una rappresentazione di rilevante capacità e competenza attribuita alla propria relazione (59% delle coppie), mentre riguardo alle qualità che caratterizzano la relazione di coppia emerge una bassa preoccupazione per la relazione (68%), un’importante fiducia nella stessa (73%), anche se la relazione di coppia viene valutata di secondaria importanza rispetto ad altri aspetti della vita (36,4%). Infine il punteggio combinato dei partner riguardo ai modi di fare legame (attaccamento) rivela che solo il 9% delle coppie esprime un legame problematico (distaccato/distaccato; preoccupato/timoroso).

            Gli esiti della ricerca rivelano come la relazione di coppia omosessuale rappresenti un mondo complesso e variamente sfaccettato, che richiede indubbiamente uno studio campionario più esteso ed omogeneo (differenziando, tra le altre cose, coppie gay e lesbiche) e sottolineano come studi di questo tipo debbano evitare letture stereotipiche e ideologiche e richiedano un impegno di complessificazione approfondito e rigoroso.

            Renata Maderna        UCSC             marzo 2020

https://centridiateneo.unicatt.it/famiglia-partner-omosessuali-il-patto-segreto

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PASTORALE

Senza presbitero no, senza popolo sì?

Eucaristie “a porte chiuse” per evitare il contagio: risonanze a bassa voce su una scelta di emergenza che forse svela ciò che veramente pensiamo della liturgia e dell’essere Chiesa che celebra. Finito il periodo di isolamento bisognerà riparlarne.

Per la prima volta la Chiesa deve fronteggiare una pandemia gestita con criteri scientifici, che consigliano l’isolamento delle persone. La situazione è difficile, a tratti inquietante, e merita tutto il nostro rispetto e la nostra attenzione a cominciare dalla vicinanza (come possibile) a chi soffre ed è più solo. Non è stato per niente facile decidere che cosa fare a livello ecclesiale. La decisione di sospendere ogni attività e la celebrazione eucaristica, per seguire le indicazioni degli esperti che raccomandano l’isolamento per fermare il contagio e salvare la vita di tanti, è stata tanto faticosa quanto meritoria. D’altra parte la modalità in cui essa è stata realizzata merita qualche riflessione, perché ci aiuta a fare luce su che cosa pensiamo sia la celebrazione eucaristica e la Chiesa stessa.

            Partiamo con l’osservazione che in realtà le celebrazioni non sono state sospese, ma per lo più continuano “a porte chiuse” o “senza popolo”. Questa scelta si basa sull’idea che la Chiesa non possa fare a meno di celebrare, ma di fatto dichiara con estrema scioltezza che per celebrare non è necessario riunire il popolo, se questo non fosse possibile per gravi problemi. I ministri si radunano fra loro (o con qualche fedele per evitare, meritoriamente, di celebrare da solo) e gli istituti religiosi maschili chiudono la porta realizzando una celebrazione privata. Nessuno lo farebbe se non fosse costretto, d’accordo, ma il punto è che pensiamo che, seppure in situazione di emergenza, si possa fare. Ed è proprio questo che dovrebbe farci riflettere: forse in situazione di emergenza tiriamo fuori quello che siamo davvero ed è giusto provare a vederlo.

Prima del pane e del vino, l’assemblea. Dovremmo sapere bene che, quando celebriamo l’eucaristia, anzitutto raduniamo il popolo. Si costituisce un’assemblea, non predeterminata o selezionata, ma convocata dallo Spirito: questa è la prima materia per poter poi celebrare. Il popolo convocato serve prima del pane e del vino e senza di esso non si dà eucaristia. Il ministro che di volta in volta presiede un’assemblea rende possibile con il proprio ministero (imposizione delle mani e preghiera) il gesto che l’assemblea deve compiere (prendete e mangiate) per essere un corpo solo (il corpo di Cristo reso presente proprio dall’«essere uno» di questi che mangiano l’unico pane). Va da sé che, se questa è l’eucaristia, non è possibile che essa venga celebrata se non si può radunare il popolo.

Che cosa facciamo allora in questo momento quando celebriamo “senza popolo”? Probabilmente riattingiamo al modello tridentino secondo il quale il ministro (col popolo o senza è secondario, come il pubblico per le partite di calcio) offre il sacrificio a Dio per tutti. Non siamo più di fronte all’atto del popolo [λειτουργία, letteralmente “azione per il popolo“] (questo il significato della parola “liturgia”), ma ad un rito del solo presbitero cui si possono associare altri fedeli presenti o (sic!) via web.

            La prassi che abbiamo scelto in questa emergenza mette seriamente in discussione la riforma liturgica dell’ultimo concilio e, con essa, il modello di Chiesa che la sostiene. Il messaggio che passa è che sono i ministri che possono pensare a tutto quello che serve, il popolo deve seguire, come i tifosi la propria squadra o come i followers il loro autore di tweet. So che le intenzioni non sono queste, ma quelle di sostenere tutti con la preghiera. D’altra parte la preghiera può essere fatta a prescindere dal gesto eucaristico (pensiamo davvero che la preghiera di chi rimane senza celebrazione valga di meno di quella di chi riesce a celebrare?) che ha invece una sua precisa natura, per la quale è essenziale radunare il popolo perché possa essere reso un corpo solo dal dono che Cristo fa di sé.

Ritorno alla «societas inequalis». Se dichiariamo il popolo accessorio per la liturgia, torniamo alla societas inequalis centrata sulla prassi sacramentale: niente sacerdozio battesimale, niente sinodalità, niente centralità dell’evangelizzazione. E, infatti, ci siamo preoccupati (fatte le dovute eccezioni) di mandare messe in streaming, non di insegnare a pregare in famiglia né di intensificare la predicazione con i canali (qui sì che le tecnologie digitali vengono in aiuto) adeguati ad un processo comunicativo come quello che la predicazione realizza e che – in questo caso si può ammettere perché l’atto non ne è snaturato – può fare a meno della presenza fisica in situazione di emergenza.

            Le scelte fatte, invece, che prevedono celebrazioni “senza popolo”, non solo contraddicono l’atto liturgico eucaristico, ma dividono la stessa comunità ecclesiale: abbiamo da una parte ministri, che trovano gruppi di religiosi/religiose o qualche laico scelto con cui celebrare, e tutti gli altri tenuti fuori. In qualche modo si ripete – pur non essendo questo nelle intenzioni di nessuno – quanto Paolo denunciava nella prima lettera ai Corinzi (11,17-34) riguardo le celebrazioni che invece di realizzare il gesto di Cristo (mangiare insieme l’unico pane per essere un solo corpo) realizzavano divisioni (uno prende il proprio pasto e l’altro ha fame). Accade lo stesso oggi: alcuni celebrano e altri no, e in questo modo rendiamo la celebrazione non il luogo dell’unico corpo, ma quello della divisione.

Forse era meglio digiunare tutti. Forse digiunare tutti – ma ripeto, la situazione era del tutto nuova e difficilissima, per cui trovare la via era davvero impervio – avrebbe realizzato in modo più pieno il gesto di Gesù che ha dato sé stesso perché i suoi fossero un corpo solo e, così, vivessero in mezzo agli altri dando sé stessi come lui, come una memoria perpetua e vivente del gesto di lui.

In paesi di altri continenti spesso il popolo deve rinunciare a celebrare perché non ha chi può presiedere e quindi rendere possibile il gesto di tutti; noi forse avremmo potuto rinunciare a celebrare perché non possiamo radunare il popolo che è il protagonista del gesto eucaristico. Non è successo perché magari non abbiamo ancora maturato una tale coscienza e pensiamo che in fondo sia il presbitero il protagonista della celebrazione eucaristica, quindi di lui non si può fare a meno (vedi appunto i paesi in cui sono costretti a celebrare raramente per carenza di ministri) ma del popolo sì. Pensano questo non solo tanti ministri, ma anche gran parte del popolo che preferisce sapere che qualcuno “dice messa” alla quale ci si può unire “spiritualmente”, piuttosto che sapere di essere così indispensabile da non potersi dare celebrazione senza la possibilità di radunare il popolo stesso.

            Adesso non è il momento, dobbiamo guardare all’emergenza in corso e fare il bene alla nostra portata; ma poi, una volta passata la tempesta, bisognerà confrontarsi su ciò che abbiamo vissuto e scelto, per porre gesti coerenti col significato che hanno e per crescere nell’unità, che sola può rendere presente il Risorto.

Simona Segoloni Ruta,           Il Regno delle donne   19 marzo 2020

www.ilregno.it/regno-delle-donne/blog/senza-presbitero-no-senza-popolo-si-simona-segoloni-ruta?utm_source=newsletter-mensile&utm_medium=email&utm_campaign=202006

 

«Anche il profeta e il sacerdote si aggirano senza comprendere». Il pianto di Geremia

Depositata nella memoria per averla tante volte pregata nella liturgia delle ore, si è improvvisamente materializzata un’espressione di Geremia dentro il mio disorientamento di questi giorni, che è di tutti: «Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per la regione senza comprendere» (Ger 14,18).

            Per la verità la frase era quella della versione liturgica «si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare», ma poi l’ho modificata perché ancora più calzante nella sua nuova versione testuale. Il sacerdote e il profeta che vagano (magari non fisicamente, ma certo con la mente e con il cuore) e non riescono a tenere insieme (a «com-prendere») il senso di quanto un intero popolo sta vivendo.

            Qualcosa sfugge dagli schemi. Non solo una situazione di smarrimento. Ma anche un ammonimento a non presumere precipitosamente di comprendere. Singolare situazione la mia di assommare (almeno secondo il mio ruolo pubblico) entrambe le figure. E analoga incomprensione.

Prima patire. Il sacerdote non comprende: l’uomo che abitualmente guida la preghiera della gente (e prova a farlo in questo tempo di caligine) si trova a corto di parole e di gesti, non perché non può celebrare pubblicamente il culto, ma perché sistematicamente nella sua mente, prima che possano affiorare sulle labbra, scarta le vacue espressioni consolatorie del mestierante, che non convincono lui stesso.

            Il profeta non comprende. L’uomo che fino a poche settimane fa ha esercitato un ruolo pubblico di insegnamento si trova come in imbarazzo davanti ai suoi ascoltatori «in remoto». L’uomo che ha cercato con la massima lucidità possibile di discernere tra le ragioni, si trova sopraffatto dalla forza della passione, di ciò che lo colpisce e infetta il suo stesso raziocinio o forse lo feconda. L’uomo che aveva discettato sulle teorie della giustizia e del bene comune, talvolta come casi studio da manuale, scopre ora che non sono ora una mera ipotesi di scuola, ma l’evento drammatico che impone ancora di agire, e prima ancora di ritornare a sentire e a patire. Poi ho provato a leggere integralmente al capitolo 14 di Geremia. Descrive le reazioni del popolo, dei sacerdoti, dei profeti e dell’autore in una situazione emergenziale di siccità. Ho provato a sforzarmi di capire. Nella circostanza descritta, a Geremia non resta che il pianto impotente, ma carico di compassione e pietà.

            A differenza degli altri profeti, che rassicurano falsamente la gente creandosi un alibi per la loro incapacità di comprendere (cfr. 14, 13), Geremia nel suo lamento non giustifica Dio di fronte a un popolo di peccatori, né spiega il dramma vissuto dal popolo con argomentazioni elaborate per discriminare giusti e ingiusti, ragioni o torti. Semplicemente, e come atto decisivo, con la sua persona assorbe il dolore, il dramma e lo sconcerto del suo popolo e lo presenta a Dio. Quasi lo forza quel Dio, che aveva fatto forza nella sua vita strappandolo a se stesso e consegnandolo alla sua vocazione, a non essere una presenza nascosta e fugace. Come un viandante che pernotta casualmente nella città, ma non solidarizza né si preoccupa di conoscere i problemi del popolo. Ancor più, Geremia stimola Dio a non cedere alla tentazione di sentirsi come un guerriero che già ha perso la guerra prima di scendere in campo (cf. 14, 8).

            Geremia non si attribuisce qui altro ruolo, per la sua vocazione di profeta, che di essere lo schermo dello spettacolo tragico che ha davanti a sé (cf. 14,1-6. 17-18). Non lo commenta, né cerca ipotesi esplicative. Sospende per un attimo la logica della causa e degli effetti, del soppesare fine e mezzi. Due stratagemmi, in quel frangente, troppo pericolosi. Lo spietato deduttivismo di chi già conosceva e prevedeva; il calcolo utilitaristico e consequenzialista delle perdite inevitabili e del restante margine dei guadagni. Due pur nobilissime argomentazioni (morali) in altri tempi. Ma non in quello della catastrofe. Il silenzio assorbe il dolore e lo trasmette al Dio che già aveva forzato in giovinezza la sua inerzia, chiamandolo a essere profeta. La consolazione non sta senza la pietà che assorbe il dolore. È la distillazione di quel dolore.

Se saprai distinguere. Fulminante anche la risposta divina a Geremia, che pure non si era posto la domanda: che cosa stai imparando da questo dramma? Quella domanda che troppe volte abbiamo sentito da più parti rivolta agli esperti, talvolta (ma non troppo) anche ai teologi e ai pastori. E con pronte e precipitose risposte. La risposta avviene dentro la sua lamentazione intrisa delle ragioni della pietà e con pietà, per una volta, nei confronti della sua stessa ragione. Il profeta potrà essere ancora profeta, pur senza comprendere fino in fondo. Ma non senza aver imparato a distinguere tra l’essenziale, il metallo prezioso che fa risaltare l’umanità più bella, e le scorie, che la rivestono e talvolta la nascondono deturpandola. Solo così potrà continuare a essere interprete della parola di Dio: «Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile, sarai come la mia bocca» (Ger 15,19)

Pier Davide Guenzi, *            moralia  Il regno        20 marzo 2020

  • presidente dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale), insegna Teologia morale ed Etica sociale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale

www.ilregno.it/moralia/blog/anche-il-profeta-e-il-sacerdote-si-aggirano-senza-comprendere-il-pianto-di-geremia-pier-davide-guenzi

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PEDIATRIA

Coronavirus, il decalogo dei pediatri nell’emergenza

Con l’avvento di aprile e le nuove indicazioni fornite ieri dal ministero dell’Interno per la popolazione dei più ‘piccoli’, per famiglie, genitori ed esperti, sbarca online il decalogo con i consigli della Società italiana di Pediatra (Sip), fornito dal presidente Alberto Villani: decalogo

  1. Organizzare la giornata secondo un preciso schema (dal risveglio fino all’ora di dormire), nel rispetto di quelli che erano gli orari pre-coronavirus (vedi schema proposto).
  2. Evitare di tenere sempre accesa la televisione e/o la radio, ma selezionare, ogni giorno, cosa vedere (importante evitare che si tratti sempre di coronavirus).
  3. Se si dispone di spazi all’aperto (terrazze, giardini, cortili) programmare 1 ora al giorno di attività libera, ma nel rigoroso rispetto del distanziamento sociale (non necessario tra conviventi non a rischio).
  4. Coinvolgere i bambini, in rapporto all’età, nelle attività domestiche (riordinare).
  5. Coltivare o iniziare un hobby (collezionare qualcosa, musica, arte, ecc.).
  6. Insegnare a cucinare, in rapporto all’età, e a mangiare (cosa, quanto, come).
  7. Farsi aiutare a sistemare la spesa, spiegando cosa si è acquistato, come e dove va riposto.
  8. Coltivare l’igiene personale in autonomia (dal lavaggio della mani, al lavaggio dei denti, alla doccia e/o bagno) e l’igiene degli ambienti (cambiare l’aria almeno 2 volte al giorno).
  9. Insegnare a fare attività motoria in casa, almeno 1 ora al giorno e, se possibile, a finestra aperta.
  10. Raccontiamoci (ogni componente del nucleo familiare racconta qualcosa a turno).

SCHEMA GIORNATA (…)

www.dire.it/01-04-2020/441749-ora-daria-e-non-solo-il-decalogo-dei-pediatri-nellemergenza-coronavirus

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SINODO DEI VESCOVI

Sinodo dei vescovi: sia d’esempio per le nostre democrazie

Un aspetto non potrà essere trascurato, specie pensando alla Chiesa che abita il mondo occidentale. La cultura partecipativa del recente passato ha spesso lasciato il posto ad una cultura contrassegnata da un forte individualismo e dalla ricerca di leader da mitizzare, in tutti i settori. Ciò può coinvolgere anche le donne e gli uomini di Chiesa. Occorre riconoscerlo: per i giovani, ad esempio, non è certo quello di una maggiore partecipazione il bisogno più sentito. Tuttavia proprio per questo, in un tale contesto culturale potrebbe rappresentare un segno fortemente profetico quello offerto da una Chiesa che si struttura e vive sinodalmente. Un segno così importante da essere di sostegno alle nostre democrazie occidentali, così osannate ma anche così pericolosamente ammalate

“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. È questo il tema del prossimo Sinodo dei vescovi. Si tratta di una tematica che è stata rimessa al centro della riflessione teologica e della vita delle Chiese anche a motivo del richiamo che il Papa vi ha fatto più volte: sebbene l’importanza della sinodalità – occorre ammetterlo – venga ancora troppo spesso confinata agli eventi sinodali, come lo stesso Sinodo dei vescovi o la celebrazione dei Sinodi diocesani.

In realtà se tali eventi sono espressione della sinodalità della Chiesa, quest’ultima non si esaurisce in essi. Come ebbe a dire lo stesso Francesco, in un discorso ormai diventato celebre e tenuto in occasione del 50° anniversario del Sinodo dei vescovi, la sinodalità è “dimensione costitutiva della Chiesa”, in quanto secondo l’espressione di Giovanni Crisostomo, Chiesa e sinodo sono sinonimi; “perché – dice sempre Francesco – la Chiesa non è altro che il ‘camminare insieme’ del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore […]”. Il fondamento di ciò è poi da rintracciarsi nel fatto che la Chiesa sia il popolo di Dio; che tutti i cristiani sono unti dallo Spirito ed esiste perciò un sensus fidei; e che all’interno della Chiesa nessuno può essere collocato al di sopra degli altri. Chi assume al suo interno il ministero è posto piuttosto al servizio altrui.

Ciò detto, rimane ancora molto da riflettere e da cambiare, se si vuole che la sinodalità porti i suoi frutti: sul piano della partecipazione di tutti alla vita della Chiesa e su quello della sua missione nel mondo, come richiamano due dei termini presenti nel tema enunciato. Vale dunque la pena che nel prossimo Sinodo dei vescovi ci si concentri ancora su tale tema.

Tra i diversi aspetti che potranno essere trattati se ne possono menzionare alcuni.

  • È anzitutto opportuno continuare a scavare sul perché profondo del fatto che il camminare insieme dei cristiani sia così decisivo per la vita della Chiesa. Non si tratta infatti di un mero dato organizzativo: si tratta di riconoscere piuttosto che ciò deriva dal fatto che ogni cristiano è abitato dallo Spirito di Cristo e non si può pertanto ascoltare come lo Spirito ci parli se non mettendoci in uno stato di ascolto reciproco.
  • Ma potrebbe essere almeno altrettanto importante ribadire che la sinodalità comincia nelle Chiese locali e offrire degli elementi di riforma perché ciò diventi reale: pensando in particolare alle parrocchie; e agli organismi di partecipazione parrocchiali e diocesani, che in questi decenni hanno spesso perso il loro senso, anche a motivo di una gestione non propriamente sinodale.
  • Non meno importante è cogliere come una vita più sinodale delle comunità cristiane sia decisiva per una Chiesa che voglia essere missionaria anche oggi. In società sempre più complesse, infatti, solo se si può contare sull’apporto di tutti i cristiani e sulla molteplicità dei loro carismi si potranno rintracciare insieme i sentieri percorribili per trasmettere, senza superficialità, il Vangelo ai nostri contemporanei ed essere per loro dei testimoni della speranza che ci anima.
  • Un aspetto infine non potrà essere trascurato, specie pensando alla Chiesa che abita il mondo occidentale. La cultura partecipativa del recente passato ha spesso lasciato il posto ad una cultura contrassegnata da un forte individualismo e dalla ricerca di leader da mitizzare, in tutti i settori. Ciò può coinvolgere anche le donne e gli uomini di Chiesa. Occorre riconoscerlo: per i giovani, ad esempio, non è certo quello di una maggiore partecipazione il bisogno più sentito. Tuttavia proprio per questo, in un tale contesto culturale potrebbe rappresentare un segno fortemente profetico quello offerto da una Chiesa che si struttura e vive sinodalmente. Un segno così importante da essere di sostegno alle nostre democrazie occidentali, così osannate ma anche così pericolosamente ammalate.

Roberto Repole          AgenziaSIR    19 marzo 2010

www.agensir.it/chiesa/2020/03/19/sinodo-dei-vescovi-sia-desempio-per-le-nostre-democrazie

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SINODO PANAMAZZONICO

Un’idea congelata del femminile

L’Esortazione apostolica post-sinodale di papa Francesco Querida Amazonia ha suscitato costernazione nei mezzi di comunicazione cattolici, compresi quelli sociali. I conservatori stanno gongolando perché i liberali hanno avuto la loro punizione: il papa non menziona i preti sposati né le diacone. I liberali si mangiano le mani per l’occasione persa di introdurre alcune riforme attese da tempo. E, nelle mie reti di donne cattoliche, molte sono arrabbiate e addolorate. È stata per loro la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non possono più restare in una Chiesa così ostinatamente decisa a mantenerle al loro posto. Si sentono escluse persino dal dialogo, quasi invisibili.

 

Perché questa visione appassionata e poetica di un mondo libero dal dominio delle imprese e in armonia con la natura, ispirata alle culture e ai valori dei popoli indigeni dell’Amazzonia ha provocato reazioni così contrastanti? Vorrei riflettere sul perché alcune donne provino tanto sconforto, ma lasciatemi fare prima alcune osservazioni generali.

            Esistono due temi ricorrenti nella teologia di Francesco.

  1. Il primo è che nessun cambiamento può avvenire senza un dialogo onesto, mirato a raggiungere l’unità non attraverso l’eliminazione della differenza, ma tramite una “diversità riconciliata”. Tale modo di affrontare le incomprensioni e le dispute all’interno della Chiesa ha caratterizzato il papato fin dal suo inizio. È la chiave per capire il suo pensiero e il suo stile di leadership. In Querida Amazonia, così come in Amoris lætitia, egli ha ascoltato le appassionate convinzioni di vescovi, teologi e laici di entrambi i lati e ha resistito alle loro richieste di imporre prematuramente una linea che lascerebbe una delle parti con la sensazione di aver vinto e l’altra con l’amarezza della sconfitta. Invece di sposare una posizione o l’altra in relazione alle questioni dell’ordinazione degli uomini sposati e delle diacone, egli chiede a tutti di studiare con attenzione il documento finale del Sinodo, affidando ai vescovi l’autorità per affrontare le sfide e trovare soluzioni appropriate ai rispettivi contesti e culture. Francesco non attribuisce una vittoria chiara a nessuno dei due lati e, in tal modo, provoca una permanente frustrazione. Ma questa è la sinodalità in azione, un tema-chiave del Concilio Vaticano II che solo ora stiamo vedendo in corso di realizzazione. Il dialogo, a volte difficile e doloroso, continua; la porta per l’ordinazione di uomini sposati non è stata chiusa. Quella delle diacone può essere una questione diversa, ma su questo tornerò dopo.
  2. L’altro tema ricorrente nel pensiero di Francesco è che la crisi ecologica esige una trasformazione antropologica. Se vogliamo cambiare il nostro modo di stare nel mondo dobbiamo cambiare il nostro modo di parlare del mondo. L’ambientalista Mary Colwell, riferendosi al linguaggio dell’amore e della meraviglia nella Laudato si’, implora: «Per favore, per favore, mondo ambientale, utilizza solo le parole delle poesie perché davvero l’amore per la Terra ha a che vedere totalmente con l’amore». La scienza ha un contributo vitale da offrire, ma essa non può risvegliare il desiderio e la meraviglia che riposano nell’anima umana e che ispirano la nostra capacità di trasformazione creativa. Questo è l’insegnamento cattolico tradizionale, ma, come osserva Francesco, esso è stato represso dal «paradigma tecnocratico» della tarda modernità, con le sue astrazioni razionalizzanti, il suo «antropocentrismo eccessivo», il suo sfruttamento della natura e i suoi crudeli regimi economici. Se, come afferma Heidegger, abitiamo la casa del linguaggio, Francesco riconosce che dobbiamo prenderci cura della «nostra casa comune» ricostruendo la nostra casa linguistica intorno a espressioni poetiche e incarnate di desiderio, bellezza, amore e riverenza. In nessuna parte risulta tanto evidente questa rivendicazione eloquente e lirica della poesia della fede quanto in Querida Amazonia. Tutti gli scritti di Francesco sono imbevuti di un profondo senso del mistero di Dio che sussurra parole di amore attraverso tutta la diversità del mondo naturale e il gioioso imperativo del kèrigma, la predicazione della buona novella di Gesù Cristo. Francesco ci ricorda che la Chiesa non è solo un’altra ong, ma è chiamata a incarnare Cristo in tutte le culture del mondo e, nel farlo, deve lasciarsi modellare da queste culture nelle loro forme sacramentali e devozionali di espressione.

Mi piacerebbe potermi fermare qui. Mi piacerebbe poter dire che tutti coloro che si preoccupano del futuro del nostro pianeta e della sofferenza e dello sfruttamento dei suoi popoli più poveri devono leggere questo meraviglioso documento e permettere che esso parli al più profondo del loro essere e li risvegli dinanzi tanto alla crisi quanto alla promessa dei nostri tempi. Ma lasciatemi spiegare brevemente, a partire dalla mia stessa prospettiva teologica e “materno-femminile”, quali sono alcuni dei problemi di Querida Amazonia.

            La parte sulle donne è intitolata “La forza e il dono delle donne”, in cui Francesco circoscrive ai vescovi l’autorità di inculturare il Vangelo. L’enorme contributo delle donne alla Chiesa in Amazzonia deve essere riconosciuto ufficialmente, ma a condizione che i loro «servizi ecclesiali (…) non richiedano l’Ordine sacro». È un “no” alle diacone? Francesco continua: i ruoli delle donne devono essere adeguati allo «stile proprio della loro impronta femminile», che risulterebbe ridotta se le donne fossero clericalizzate. Il potere delle donne, dice, è rivolto a mantenere le comunità unite e a provvedere ad esse, ma, apparentemente, non nel ruolo del prete. Tuttavia Francesco chiede anche un sacerdozio inclusivo e accogliente, in una Chiesa materna che mostri la misericordia di Dio nella pastorale e in una ecclesiologia inculturata che riveli il «caldo amore materno» di Maria. Se, come insiste ripetutamente, il clericalismo è il flagello di un sacerdozio disfunzionale, quale miglior maniera di affrontarlo che ordinando donne?

Il problema però è più profondo. Francesco usa la teologia nuziale per descrivere la relazione tra il prete uomo e la Chiesa sposa. Il volto di Cristo, afferma, si rivela attraverso «due volti umani»: Gesù Cristo come uomo e Maria come donna. All’inizio, egli identifica le due uniche funzioni che un prete non può delegare: presiedere l’Eucaristia e ascoltare le confessioni. Il potere del prete, dice Francesco, non è gerarchico, ma deriva del fatto che «lui solo può dire: “Questo è il mio corpo”».

            Ogni volta che leggo queste parole rimango più sconcertata. Come Francesco riconosce, Cristo è “divino” e Maria è «una creatura». Dire che le donne sono l’immagine di Maria e gli uomini l’immagine di Cristo e indicare che una donna non può dire «Questo è il mio corpo» significa escludere la carne femminile dal corpo di Cristo. Non può essere questo che intende Francesco. Come nel caso dei suoi due predecessori, quando viene chiamato a spiegare perché le donne non possono essere preti, la teologia di Francesco si perde in contraddizioni e incoerenze.

            Oltre a ciò, i ruoli di genere e i nostri concetti di maschilità e femminilità sono tanto culturalmente diversi quanto qualunque altro aspetto del linguaggio e della socializzazione. I valori che Francesco proietta sulle donne come fissi e atemporali appartengono a un’era particolare della cultura occidentale. Questi ideali di femminilità materna non sono divinamente ordinati e riflettono le meditazioni romantiche di Hans Urs von Balthasar e di papa Giovanni Paolo II, non la tradizione cattolica come un tutto, che accoglie una vasta gamma di ruoli e di relazioni di genere.

            Anche i concetti di genere devono aprirsi all’inculturazione, e i modelli culturali oppressivi devono essere sfidati dall’affermazione nelle donne della dignità, dell’uguaglianza e della libertà che Cristo offre a tutti coloro che sono creati a immagine di Dio e incorporati attraverso il battesimo al Suo corpo, al di là di tutte le divisioni di genere, razza e classe (cfr. Galati 3,26).

Il concetto di “donna” di Francesco è impantanato in una fantasia sentimentale. Mentre, nel mondo reale, i ruoli e le identità di genere sono agili e malleabili, egli immagina la “donna” come un archetipo congelato nel tempo, con la funzione di “addolcire” la cultura maschile con la tenerezza e la ricettività femminili. Tale associazione implicita dell’uomo con la divinità e della donna con la creaturalità non è solo teologicamente infelice, ma presenta anche implicazioni ecologiche profonde.

Al di là di tutte le sue virtù, la visione di Francesco è impoverita dalla sua mancanza di coinvolgimento con il lavoro delle eco-femministe. Quasi tutto ciò che dice in Laudato si’ e in Querida Amazonia può essere trovato nel lavoro di studiose femministe negli ultimi 30 anni, a cominciare, soprattutto, dalla sua critica all’antropocentrismo moderno, il quale può essere descritto più correttamente come “androcentrismo”. Se almeno Francesco potesse superare il pregiudizio profondamente radicato che impedisce alla classe clericale di vedere le donne come colleghe di pari livello nel compito della riflessione teologica, dello sviluppo dottrinale e della leadership della Chiesa, il suo appassionato appello alla cura e al rispetto della “Madre Terra” avrebbe molta più credibilità.

            Potrebbe imparare, per esempio, dal libro Empress and Handmaid di Sarah Jane Boss, pubblicato nel 2000, che presenta i modi con cui gli atteggiamenti occidentali in relazione alla natura si riflettono nelle rappresentazioni della Vergine Maria. Boss mostra come, dall’invenzione dell’aratro all’avvento della cultura di dominazione, la storia resti registrata nell’immagine della Vergine, che gradualmente ha perso l’impressionante potenza materna delle sculture romaniche medievali per diventare la giovane vergine dal volto dolce della devozione cattolica moderna.

Come Maria, Madre Natura è passata da una figura dominante di autorità sulla vita umana a quella di una vittima docile e – nella teologia di Francesco – vulnerabile e sofferente, bisognosa della protezione e della cura degli uomini. Tuttavia, così come le donne, la Madre Natura è un potere da prendere in considerazione, che non si sottomette di buon grado allo sfruttamento e all’abuso senza trovare modi di reazione per preservarsi.

            Tutte le Ong e le istituzioni preoccupate per lo sviluppo sostenibile riconoscono ora che le donne sono partner essenziali nel progetto di conversione ecologica, non come aiutanti subordinate, ma come leader di spessore, coraggiose e determinate, di comunità che soffrono i peggiori effetti dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento economico.

Francesco affronta un’ostilità crudele da parte di coloro che si oppongono alle sue riforme. Le donne potrebbero essere le sue sostenitrici ed alleate più leali. Dovrebbe includerci nel dialogo prima che sia troppo tardi per tutti noi, e anche per la Madre Terra.

Tina Beattie, docente di Studi cattolici all’University of Roehampton a Londra,

Adista Documenti n. 11          21 marzo 2020

            www.adista.it/articolo/63090

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SOCIOLOGIA

La famiglia d’oggi secondo alcuni sociologi

La famiglia è sempre stata oggetto di studio delle scienze sociali tra cui, accanto al diritto, la sociologia.

Uno dei più attenti e attivi studiosi della famiglia è il sociologo Pierpaolo Donati che si è sempre interrogato sull’identità della famiglia parlando del suo “genoma sociale”, da cui si ricava che al di là di ogni mutamento o crisi la famiglia è caratterizzata da procreazione e procreatività da non intendersi solo nel senso fisico. È questo uno dei possibili significati dell’aggettivo “naturale” che compare nell’articolo 29 della Costituzione e nelle fonti internazionali. Nell’articolo 29 si leggono tra le righe pure gli altri elementi costitutivi della famiglia: un fondamento, la coesistenza di due persone uguali, per il diritto, ma foriere di differenze umane e da ciò consegue l’impegno per l’unità e la stabilità.

Donati si occupa della famiglia digitale o digitalizzata: “[…] Nei paesi tecnologicamente più avanzati, le indagini empiriche stanno sempre più mettendo in luce il fatto che la sfera delle informazioni (info-sfera) cambia radicalmente i modi in cui le persone percepiscono la realtà, elaborano fantasie, pensano e agiscono nelle loro relazioni sociali. Questa mutazione si accompagna al fatto che, mentre la modernità è antropo-centrica, ossia considera la persona come centro della scena quotidiana e considera le tecnologie essenzialmente come strumenti al suo servizio, con l’avvento delle ICT [Information and Communications Technology [tecnologie dell’informazione e della comunicazione], l’info-sfera si rivela antropo-eccentrica, ossia de-centra le persone nel senso che le tecnologie assumono una sempre maggiore autonomia e non sono più strumenti padroneggiabili dalle persone, ma in qualche modo le guidano e le usano. Dobbiamo verificare se, in che modo e misura questo avviene nelle famiglie. […] l’Italia si muove ancora abbastanza lentamente verso questo nuovo mondo. Siamo solo agli inizi di una nuova epoca storica, che non ha ancora un nome preciso, perché non possiamo definirla, anzi non sembra definibile in sé, proprio perché è strutturalmente e culturalmente aperta a tanti possibili esiti.

            Le statistiche dell’Istat confermano che in Italia vi è una crescente diffusione e utilizzazione delle ICT, ma la consapevolezza a riguardo di ciò che esse implicano, vuoi nell’accesso vuoi nelle conseguenze, è molto deficitaria”. Si è passati da una visione “familo-centrica” a una “familo-eccentrica” sotto vari punti di vista e in questo, purtroppo, i mezzi tecnologici hanno dato un contributo non sempre positivo, a cominciare dalla televisione quando era diventata il nuovo “focolare domestico”. Con la differenza che, in passato, lo sguardo dei membri della famiglia era rivolto verso la stessa direzione e ogni tanto si commentava, ora, invece, lo sguardo di ognuno è preso dal piccolo schermo dei vari dispositivi elettronici e non ci si scambia neanche una parola. Infatti, il sociologo bolognese aggiunge: “[…] Nella famiglia di oggi, il calore delle relazioni corporee, faccia-a-faccia, si mescola sempre più con le comunicazioni che avvengono con lo smartphone o attraverso Internet. I nuovi media sono certamente molto utili per le famiglie transnazionali e per i contatti fra chi va a risiedere lontano o emigra e chi è rimasto nei contesti di partenza. Un po’ diverso è il caso delle persone e delle famiglie stanziali che li usano nella loro vita ordinaria. In questo caso, le ICT assumono spesso il significato di un consumo, ossia di un sostituto di relazioni interpersonali, in atto o potenziali, e quale additivo di informazioni che altrimenti non ci sarebbero. In breve, occorre riflettere sulle diverse funzioni delle ICT, dato che possono essere strumenti che hanno il compito di tenere semplicemente collegate le persone oppure invece strumenti che modificano le relazioni umane e le identità familiari. Le due funzioni, e i loro flussi, interagiscono e si mescolano fra loro”.

I mezzi digitali devono essere un supporto e non un surrogato della relazione, un oggetto e non soggetto della comunicazione e, affinché l’uso non diventi un abuso (fino alla dipendenza), valgono ancor di più i doveri dei genitori verso i figli secondo gli articoli 147 e 315 bis del codice civile, in particolare l’assistenza morale.

            Secondo Donati “[…] potrebbe venire un giorno in cui le identità familiari (a partire da quelle di padre, madre, figlio) potrebbero diventare più importanti delle identità nazionali, di appartenenza ad uno Stato-nazione, e quindi potrebbero attraversare i confini della cittadinanza statuale. Quel giorno, forse, una nuova alleanza fra le famiglie, attraverso generazioni “cosmopolitiche” (non nel senso astratto della modernità, ma della universalità contenuta in ogni appartenenza), potrebbe dare ai cittadini di tutto il mondo le capacità e la forza di creare azioni collettive in cui la famiglia, lungi dall’essere considerata un residuo culturale del passato, diventa il motivo e l’emblema di una società mondiale più solidaristica”.

            La famiglia è storia, patrimonio, risorsa dell’umanità. È la base dell’eco-sostenibilità, come si può ricavare da molti asserzioni dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015), tra cui: “Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile”. E la prima società pacifica, “che fa la pace”, è (o dovrebbe essere così) e rimane la famiglia.

            Il sociologo Francesco Belletti, in linea con Donati, afferma: “[…] emergono profonde differenziazioni tra le famiglie italiane, e una complessiva tendenza a mescolare i contatti diretti, faccia-a-faccia, lo stare insieme, con relazioni e connessioni allacciate tramite i vari media e strumenti digitali, in quello che potremmo definire un processo di “ibridazione delle relazioni familiari”. Sembra quindi superata la dualistica contrapposizione tra “mondo reale” e “virtuale”, e occorre invece comprendere quella che è una vera e propria nuova “realtà delle relazioni familiari”, ormai inestricabilmente mescolate di relazioni corporee, fisicamente tangibili in precise dimensioni di spazi e di tempi condivisi, e di connessioni e relazioni digitali”. Per salvare le relazioni familiari bisogna riconoscere lo stato di “ibridazione” purché e perché non si arrivi a quello di “ibernazione”; si rischia di passare dall’evolutiva e omeostatica “ristrutturazione” dell’assetto familiare alla totale e devastante “destrutturazione”.

            I mezzi digitali possono essere anche utili per favorire le comunicazioni tra i genitori e figli nei casi di separazione/divorzio o residenze in Paesi diversi. L’uso dei mezzi digitali riguarda anche la sfera dell’ascolto (articolo 12 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) e quella dell’espressione (articolo 13 Convenzione): sono i genitori stessi che per mettere a tacere i figli sin da piccoli o per far provare loro nuove emozioni, li mettono sin dai primi mesi di vita davanti allo schermo di smartphone o di tablet. I genitori devono prestare molta attenzione a ciò perché possono essere compromesse la sfera giuridica e quella relazionale dei figli.

            Allora Belletti suggerisce: “Il valore della dieta: per molti stili di vita, e anche per l’esposizione al mondo digitale, “un po’ di dieta fa sicuramente bene”. Avere spazi e tempi in cui si dice con forza “adesso no!” consente infatti di capire meglio il valore e la potenza di questi strumenti. Spegnere i cellulari quando si pranza o si cena insieme (o almeno non rispondere subito agli sms) è un piccolo sacrificio, che si può chiedere anche con decisione, perché consente di far capire che “si può vivere anche senza essere connessi al web”. Ma ovviamente questo tempo “non connesso” va riempito di comunicazione, di contenuti, di relazioni, di affetti. Deve essere più bello del videogioco.

            E, soprattutto, se lo si chiede ai propri figli, devono essere i genitori per primi a lasciare il cellulare spento, con rigore e coerenza: perché l’educazione in famiglia è più una questione di occhi che una questione di orecchie: i figli imparano molto di più da come vivono i genitori, da quello che fanno (e che i figli vedono), che non dalle parole (troppo spesso “prediche”) che vengono dette. E magari anche una giornata o un week end intero senza connessioni digitali potrebbe aiutare a riscoprire la bellezza dei contatti faccia-a-faccia o il valore di una gita in montagna, senza ricevere notifiche e senza obbligo di foto da postare”.

                Nella vita familiare bisogna preventivare e organizzare un periodo di “dieta” (letteralmente “regola di vivere confacente alla salute”) per ritrovarsi e riprovare in base a quell’indirizzo della vita familiare secondo l’articolo 144 cod. civ. e per consentire crescita e benessere di tutti i suoi membri e in particolare dei fanciulli (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

Belletti auspica: “[…] le famiglie – e soprattutto i giovani che vogliono fare famiglia – hanno bisogno di una società in cui fare famiglia e avere figli siano dei valori forti, saldamente ed esplicitamente sostenuti, con interventi di lungo periodo e con modifiche strutturali e organiche degli interventi pubblici. […] Forse bisognerà ripensare al modo in cui tutta la politica tutta guarda alle famiglie, ai loro progetti, ai loro bisogni e ai loro sogni, e anche al modo in cui la famiglia guarda alla politica: facendosi sentire di più, facendosi vedere di più, dando ancora più voce pubblica ai propri bisogni. Solo così la famiglia entrerà nell’agenda del Paese”.

            Etimologicamente “politica” è “l’arte del governare”, mentre “famiglia” è “complesso dei famuli”, cioè dei servitori, dei domestici e anche dei figli, quindi riguarda pure l’amministrare. Politica e famiglia non possono e non devono ignorarsi. Molte le indicazioni nei vari testi normativi, dalla Costituzione – il cui incipit dell’articolo 33 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia” è già eloquente – alla Carta di Nizza (2000), che all’articolo 33 recita: “È garantita la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”.

            Belletti soggiunge che “[…] per modificare la natalità in Italia non basteranno politiche pubbliche e sostegni economici, anche se consistenti. Servirebbe soprattutto un deciso mutamento culturale, che riscopra l’importanza e la bellezza della vita e dei bambini, restituendo speranza e progetto ai giovani. E questo si può e si deve ricostruire nella trama educativa delle relazioni di ogni giorno, nell’atteggiamento degli imprenditori verso le madri in azienda, nell’offerta di servizi per l’infanzia, nei messaggi della pubblicità, nelle parole sui social network.”. La natalità in Italia va promossa e garantita, anche in ossequio ai dettami costituzionali, quali lo svolgimento della personalità (articolo 2 Cost.) e la rimozione degli ostacoli (articolo 3 Cost.).

            Francesco Belletti ha ribadito altresì la “dimensione pubblica, socialmente rilevante della famiglia”, come si leggeva già in Cicerone che definiva la famiglia “principium urbis et quasi seminarium rei publicæ”, cioè luogo generativo della vita pubblica e laboratorio di relazioni sociali, e dalla “trilogia” costituzionale, gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione italiana.  Non è connaturale, pertanto, quando una famiglia si chiude all’altro e agli altri per stare bene in se stessa e pur di stare bene con se stessa, come avviene spesso nel rapporto con le famiglie di origine (in particolare quella del padre), con la scuola, con altre famiglie.

                La famiglia torni a essere generativa e generosa, fucina e fulcro di relazioni ed emozioni!

Margherita Marzario Filo diritto      13 marzo 2020

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TEOLOGIA

Religione cristiana. Facciamo come Dio: umanizziamoci

Nell’umile e marginale ebreo che è stato Gesù di Nazareth, vissuto nella Palestina del primo secolo, Dio si è umanizzato e ha offerto così la possibilità all’essere umano di divinizzarsi, umanizzando la propria umanità. Il cristianesimo, per essere eloquente e trovare forza rinnovata, deve saper orientare l’umano e sapersi riscoprire come arte di vivere, nella sua capacità di ispirare e suscitare vita, divinizzata in quanto pienamente umanizzata, alla maniera di Gesù di Nazareth, Colui che ci ha fatto conoscere e ci ha narrato Dio.

Sono due concetti che esprimono efficacemente il contenuto del denso e impegnativo libro del teologo spagnolo José Maria Castillo, edito in Spagna nel 2010 e ora pubblicato in italiano dalle Edizioni Dehoniane di Bologna con il titolo L’umanizzazione di Dio – Saggio di cristologia.

Docente emerito di teologia fondamentale nella Facoltà di teologia di Granada (Spagna), professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, alla Pontificia Università Comillas di Madrid e all’Università Centroamericana (UCA) di El Salvador, José Maria Castillo è uno dei maggiori teologi europei.

Allontanato dall’insegnamento nel 1988 da Joseph Ratzinger, è stato di fatto riabilitato da papa Francesco nel 2018.

L’autore si pone in ascolto della profonda crisi religiosa che sta attraversando il nostro tempo, ed esprime «con fermezza e altrettanta umiltà» proposte che ritiene, da un lato, compatibili con la fede cristiana (p. 16), dall’altro, in grado di contribuire a far luce sul problema più difficile che la Chiesa deve affrontare e risolvere: dire in modo intelligibile e accogliibile dagli uomini e dalle donne della postmodernità la definizione del Concilio di Calcedonia su Gesù «perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità».

Noi cristiani, infatti, confessiamo come dogma di fede che Gesù di Nazaret è al tempo stesso e per essenza vero Dio e vero Uomo e crediamo che in lui si uniscono, senza mischiarsi e senza confondersi, e anche senza dividersi o separarsi, il divino e l’umano. Questa affermazione, non facilmente comprensibile e ancor meno tranquillamente accettabile, ha provocato, nel corso della storia della Chiesa, tensioni, dubbi, conflitti.

Castillo ritiene che la maggiore difficoltà, ieri come oggi, stia nell’accettazione non della divinità di Cristo, ma dell’umanità di quell’umile e scandaloso galileo che ha concluso i suoi giorni sulla croce come un delinquente. Con il rischio sempre incombente di accettare, senza forse rendersene conto, una specie di monofisismo larvato che «dà più importanza al celeste che al terreno, apprezza di più lo spirito che la carne, considera più importante amare Dio che amare gli esseri umani, sente più rispetto per il sacro che per il profano, lotta con più ardore per presunti diritti divini che per quelli umani» (p. 9).

Nulla di più sconosciuto di Dio. La riflessione di Castillo parte da un dato di fatto: Dio non può mai essere circoscritto entro confini concettuali o esperienziali. Nessuna idea o immagine umana lo possono contenere. Ci si deve guardare dal mettere le mani su Dio perché, per definizione, Dio è il Trascendente. Dio è oltre tutto quanto noi esseri umani possiamo raggiungere e, meno ancora, comprendere con la nostra limitata capacità. Non c’è nulla di più sconosciuto di Dio, per quanto si sia scritto o si sia disquisito sul significato e sul contenuto di questa parola (p. 53).

Quando parliamo di Dio, non ne parliamo in termini di «Dio in sé», ma solo in termini di rappresentazioni umane di Dio. E molte persone che oggi affermano di rifiutare Dio in realtà sembrano piuttosto respingerne rappresentazioni sbagliate e obiettivamente non ricevibili da parte degli uomini e delle donne della società secolarizzata occidentale in cui siamo chiamati a vivere. Ma anche chiedersi se Gesù è Dio o affermare che Gesù è Dio presuppone che si conosca chi è Dio. Che Gesù sia Dio o che Gesù sia di condizione divina è un’affermazione problematica, perché quello che si vuol affermare ci è sconosciuto.

Il cristianesimo, però, osa fare due affermazioni paradossali.

  1. Primo: è attraverso l’uomo Gesù di Nazaret che Dio diventa visibile.
  2. Secondo: l’unica trascendenza di Dio che il cristiano è chiamato a testimoniare è quella che traspare nell’immanenza dell’umanità storica di Gesù.

Gesù, il mezzo e la chiave di accesso a Dio. Che nessuno abbia mai visto Dio e che sia stato Gesù di Nazaret a rivelarcene il volto ce lo attesta il prologo del vangelo di Giovanni: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). La missione di essere il rivelatore di Dio è stata assolta da Gesù non solo nella sua vita mortale, ma, come ci attesta Gv 17,26 («Ho fatto loro conoscere il tuo nome, e glielo farò conoscere ancora»), continua ad essere assolta qui e ora. Questo stesso messaggio si ripete con più forza e chiarezza in ciò che Gesù dice all’apostolo Filippo, quando egli chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Davanti a questa richiesta la risposta di Gesù è tanto emblematica quanto sorprendente: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre!» (Gv 14,9). Commenta Josè Maria Castillo: «La sorprendente innovazione introdotta da Gesù nel poter conoscere Dio sta nel fatto che il Trascendente e l’Invisibile sono diventati immanente e visibile in quell’uomo che è stato Gesù» (p. 150).

Quello che i cristiani possono sapere su Dio, dunque, lo sanno a partire da quello che ha loro rivelato Gesù, con la sua vita, le sue azioni e le sue parole. Il cristianesimo ha il suo vero senso solo quando lo si interpreta a partire dall’umanità storica Gesù. Scrive Castillo: «Incontrare Dio in Gesù di Nazaret significa incontrare Dio (e la salvezza che Dio ci concede) nella storia, nella vita e nelle azioni di quell’ebreo che è stato Gesù il Nazareno» (p. 161), la cui esistenza nella Palestina del primo secolo può essere affermata con certezza grazie ai dati abbondanti e sicuri che possediamo e che si riferiscono a quello che ha fatto e insegnato (p. 30).

Il Dio che Gesù ci fa conoscere è il migliore dei padri che noi possiamo conoscere: un Padre che si caratterizza non per il potere, il dominio o la tirannia, ma per la bontà, l’accoglienza incondizionata, la tolleranza, il rispetto e l’amore; un Padre che non chiede sottomissione, ma rassomiglianza a lui nella libertà (p. 93). «Con questo Gesù ha voluto dirci che, a partire dall’esperienza umana di un padre amabile, che dà affetto e sicurezza, a partire da quest’esperienza così umana possiamo cominciare a conoscere quello che è Dio e come è Dio» (p. 103).

Gesù, l’umanizzazione di Dio. Ma il cristianesimo fa una seconda affermazione paradossale. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14: o logos sarx egheneto cai eschenosen en umin). Con una fedele traduzione del testo greco del prologo di Giovanni, la teologia parla comunemente di «incarnazione di Dio», e piuttosto raramente di «umanizzazione di Dio».

Secondo Castillo, «il mistero dell’incarnazione si può comprendere correttamente se lo si intende come il mistero dell’umanizzazione di Dio» (p. 167). La formula del prologo di Giovanni afferma che Dio si fa conoscere a noi e ci incontra nella «carne» di Gesù di Nazaret, cioè nella sua umanità. Quando si parla del mistero dell’incarnazione, non si tratta di dire che l’uomo è divinizzato, ma che Dio ha rinunciato alla sua condizione divina per identificarsi con l’umanità. «Dire che Dio si è incarnato equivale a dire che si è umanizzato» (p. 225).

Ma vi è di più. «L’umano di Gesù non è stato l’umano di un imperatore, di un grande di questo mondo o di un potente della terra. L’umano di Gesù è stato l’umano di una povera e umile creatura nata nella miseria di una stalla, vissuta come escluso che non aveva nemmeno un posto dove poggiare il capo e, soprattutto, morta come un uomo indesiderabile giustiziato dai poteri religiosi e politici, come se fosse uno schiavo e uno straniero» (p. 326). Secondo la lettera ai Filippesi, infatti, Gesù Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, si spogliò del suo rango fino a morire in croce, diventò simile all’essere umano, assunse la forma di servo/schiavo, decise di stare sul gradino più basso della scala sociale umana (Fil 2,5-11).

Una fede che umanizza la vita. Come conseguenza dell’umanizzazione di Dio realizzata in Gesù, va affermato che al Dio di Gesù ci si avvicina non divinizzandoci ma, al contrario, umanizzandoci. Detto diversamente: umanizzandoci alla maniera di Gesù ci si avvicina a Dio e, quindi, ci divinizziamo. «In questo – afferma Castillo – consiste la cosa più nuova, più sorprendente e perfino più rivoluzionaria che si può dire sul Dio di Gesù e anche, ovviamente, sull’essere umano» (p. 87). Il divino si rivela a noi nella misura in cui rispettiamo l’umano, potenziamo l’umano e ci umanizziamo sempre di più, sanando la grande disumanità che dilaga nel mondo (p. 155), cioè ogni inclinazione e ogni condotta che, per azione o omissione, finisce con il danneggiare o far soffrire qualcuno (p. 165).

Oggi la fede, per essere eloquente, deve saper orientare l’umano e deve essere innestata su di esso. Il cristianesimo deve sapersi riscoprire come arte di vivere, alla sequela di Gesù che, come si legge negli Atti degli Apostoli, passò in mezzo a noi facendo del bene e alleviando le sofferenze di quanti erano tormentati dalle forze del male (At 10,38).

Le potenzialità umanizzatrici della fede cristiana risiedono nel bene che fa, nella sofferenza che allevia, nella felicità che garantisce agli uomini e alle donne e nella speranza che infonde in chi la professa, affinché tutti si possa trovare «sempre il senso della vita che offre incoraggiamento e forze per andare avanti nel compito che a ciascuno tocca in questo mondo» (p. 332). Dal racconto che il vangelo di Matteo fa circa il giudizio definitivo di Dio sulla storia dell’umanità (Mt 25,31-36) emerge che Dio si identifica non solo con ogni essere umano, ma con tutto ciò che è sofferenza, spoliazione e umiliazione dell’umano. Nell’ora della suprema verità la sola cosa che sarà tenuta in considerazione «non sarà quello che ciascuno ha fatto o non ha fatto con Dio, bensì quello che ha fatto o non ha fatto con gli esseri umani con i quali ha vissuto» (p. 156).

Ulteriore conseguenza del discorso di Castillo è la necessità di umanizzare la Chiesa. Se Dio si è umanizzato in Gesù per portare la salvezza a questo mondo, altrettanto dovrebbe fare la Chiesa per essere testimone credibile di questo Dio, spogliandosi dei suoi privilegi e di ogni pratica che si traduca in disuguaglianze fra cristiani. «Ad esempio, la classica disuguaglianza di diritti fra uomini e donne nella Chiesa» (p. 289). «Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo». «Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo), in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma l’uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo».

Lo scriveva dal carcere di Tegel Dietrich Bonhoeffer in una lettera del 18 luglio 1944 indirizzata all’amico Eberhard Bethge.

È il succo – mi sembra – del prezioso e istruttivo «saggio di cristologia» di Josè Maria Castillo, L’umanizzazione di Dio.

Andrea Lebra             Settimana news                                  14 marzo 2020

www.settimananews.it/teologia/umanizzazione-dio

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