NewsUCIPEM n. 797 – 15 MARZO 2020

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Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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 “Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento online. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse, d’aggiornamento, di documentazione, di confronto e di stimolo per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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02 ADOZIONI INTERNAZIONALI                Il Coronavirus lascia a terra i genitori adottivi

02 AFFIDO CONDIVISO                                No al pendolarismo dei figli dei genitori separati

03                                                                          I diritti fondamentali non possono stare in quarantena                             

04 ASSEGNO DIVORZILE                               per la casalinga che ha favorito la carriera del marito

05 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI     Cassazione: perseguibile d’ufficio chi non mantiene i figli

06 AICCeF                                                          Sospesa la Giornata di studio a Salerno

07 CENTRO INTER.STUDI FAMIGLIA       Newsletter CISF – n.10, 11 marzo 2020

07 CHIESA CATTOLICA                                  7 anni di Papa Francesco, l’anniversario in mezzo alla pandemia

09                                                                          il mondo diverso dopo il Coronavirus, il Papa sarà un riferimento

10                                                                          Giorni  virus x incontrare Dio non servono Chiese e celebrazioni

11                                                                          La Chiesa di tutti. Newsletter n. 185 del 13 marzo 2020

13 CHIESE EVANGELICHE                            Una terza via fra Lutero e Zwingli?                        

14 CITAZIONI                                                    Cristiani nella società: valore de libertà, eguaglianza, solidarietà

18 CONFER. EPISCOPALE ITALIANA         Il grazie del card. Bassetti a tutti i sacerdoti diocesani e religiosi

19                                                                          Il nuovo concordato sociale della CEI

19 CONIUGI                                                      Diritti del coniuge separato

20                                                                          Quando cessa l’obbligo di fedeltà coniugale?

21 CONSULTORI CATTOLICI                        Sanremo. Servizio telefonico al tempo del coronavirus

21 DALLA NAVATA                                        III Domenica di quaresima – Anno A – 15 marzo 2020

22                                                                          Il Signore mette in tutti una sorgente di bene                                  

22 ENTI TERZO SETTORE                              Bobba: due proposte per dare ossigeno al Terzo settore

23 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        Sette anni di cammino con papa Francesco. Gli auguri di Bassetti

24                                                                          Giobbe in conclave

26                                                                          Sette anni di Francesco: nuovo magistero, positivo e negativo

28 OMOFILIA                                                    Come il sacerdozio diventa nascondiglio soffocante per preti gay

29 PROCREAZIONE                                         Danno da procreazione quando vita diventa fonte di sofferenza

31 SESSUOLOGIA                                            Contro il tabù mestruale

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

   Il Coronavirus lascia a terra i genitori adottivi

Nessuno entra dall’Italia, nessuno esce per l’Italia. Il Coronavirus ha effetti anche sulle adozioni internazionali, con alcuni paesi d’origine dei bambini adottivi che stanno tentando di arginare i contagi e adottano misure restrittive nei confronti di cittadini italiani in partenza o vietando l’uscita verso l’Italia dei loro bambini. La vicepresidente Laera: «Sono certa che le nostre famiglie sapranno essere all’altezza del momento. Le conosco come persone coraggiose, abituate ad affrontare molte difficoltà»

            Sessanta giorni di tempo dal 10 marzo per presentazione istanza di rimborso delle spese adottive sostenute per l’adozione internazionale e concluse negli anni 2012 – 2017. Si riapre così in tempi di emergenza Coronavirus la finestra per “recuperare” le domande di rimborso che le famiglie non erano riuscite a presentare nell’estate 2018, vuoi per il ritardo nell’acquisizione dello SPID, vuoi perché era estate, vuoi per le difficoltà a reperire dagli enti la documentazione necessaria, stante l’importante numero di pratiche coinvolte contemporaneamente. La CAI ha pubblicato ieri sul proprio sito il DPCM che riapre i termini per presentare richiesta di rimborso, con le stesse regole del DPCM del 3 maggio 2018, «al fine di garantire una più ampia partecipazione alla procedura di rimborso da parte degli aventi diritto» e «accertata la disponibilità di fondi sul relativo capitolo di bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Le istanze pervenute sulla base della riapertura dei termini, saranno esaminate e liquidate successivamente alla liquidazione di tutte le richieste di rimborso presentate entro il 16 luglio 2018.

            Il Coronavirus impatta anche sulle adozioni internazionali. Il CIAI in questo periodo sta proponendo alle coppie e alle famiglie colloqui con gli psicologi via skype e prossimamente, se la situazione dovesse permanere critica, pensa di registrare i seminari formativi in programma così che possano essere seguiti da remoto. AiBi domani avvierà in modalità online il percorso informativo “L’incontro con l’Adozione Internazionale”: «Sarà il primo di una serie. Anche coinvolgendo le nostre sedi territoriali faremo in modo che gli incontri formativi e informativi si tengano in modalità ‘distance learning’», spiega il presidente Marco Griffini. Cifa fa sapere che «tutti gli incontri legati all’adozione internazionale avverranno in modalità sicura».

            Ma soprattutto il Covid19 sta impattando sulle adozioni internazionali fermando i viaggi, quelli che fanno nascere le nuove famiglie. Per questo la vicepresidente della CAI, Laura Laera, ha scritto una lettera alle coppie che erano in procinto di partire, dopo una lunga attesa e che ora si vedono costrette a rimandare ancora l’abbraccio con loro figlio.

«Mi rivolgo a tutti coloro che partecipano alla grande avventura dell’adozione internazionale, percorso non facile, spesso irto di difficoltà ma pieno di grandi emozioni e scoperte di dimensioni umane inesplorate e di paesi diversi. Questo è un momento eccezionale che vede non solo l’Italia ma il mondo intero impegnato in una grande battaglia contro un nuovo virus che ha sconvolto le nostre abitudini e le nostre vite in generale», dice nella sua lettera. «Alcuni paesi da cui provengono bambini adottivi stanno tentando di arginare i contagi e per questo adottano a loro volta misure restrittive anche nei confronti di cittadini italiani in partenza ovvero vietando l’uscita verso l’Italia dei loro bambini. È questo un periodo di sospensione che avrà presumibilmente una durata limitata a qualche settimana o pochi mesi. Dipenderà molto da come tutti ci comporteremo di fronte a questa emergenza. Sono certa che le nostre famiglie sapranno essere all’altezza del momento. Le conosco come persone coraggiose, abituate ad affrontare molte difficoltà e spesso anche rischi, partendo per paesi pericolosi in giro per il mondo, dove a volte soggiornano anche per mesi, per poter accogliere bambini bisognosi di affetto e di cure. La Commissione per parte sua cercherà di concordare con le autorità centrali, ove possibile, le modalità più opportune per affrontare questa emergenza nel migliore interesse dei bambini»

Redazione Vita           11 marzo 2020

www.vita.it/it/article/2020/03/11/il-coronavirus-lascia-a-terra-i-genitori-adottivi/154376/

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AFFIDO CONDIVISO

La Cassazione: “No al pendolarismo dei figli dei genitori separati”

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 4258, 19 febbraio 2020

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-4258-del-19-02-2020

No al pendolarismo dei figli di genitori separati: l’interesse preminente, in questi casi, è sempre quello dei minore. Questa la posizione che emerge da una sentenza con cui la Cassazione ha regolato l’affido condiviso di una bambina, evitandole il continuo passaggio dal comune di residenza del padre a quello della madre e fissando in una sola città il luogo in cui vivere per metà settimana con l’uno e poi con l’altro genitore, in due case diverse.

Il caso preso in esame dalla Corte riguarda una famiglia veneta: dopo la “rottura” tra i due genitori, la piccola abitava con il padre, in una casa messa a disposizione dalla mamma, per poi passare con quest’ultima, in una cittadina a quasi 90 chilometri, il fine settimana. Queste, infatti, erano state le disposizioni fissate in primo grado dal Tribunale per i minorenni di Venezia, modificate però in appello, quando, alla luce dell’esame di un perito, si era deciso che la bambina vivesse in modo stabile nella città della mamma, la quale si era impegnata a prendere in affitto una casa nello stesso comune nella quale il papà potesse trascorrere i giorni a lui spettanti. Contro il decreto emesso dai giudici di secondo grado, l’uomo si era rivolto alla Cassazione ritenendo violata la propria “libertà personale”, di “movimento” e di “residenza”, perché la decisione impugnata aveva “subordinato la possibilità di frequentare la figlia imponendogli un domicilio forzato”.

            La Suprema Corte, prima sezione civile ha rigettato il ricorso del papà. Con queste motivazioni: “E’ evidente che, essendo entrambi i genitori residenti in luoghi diversi e desiderosi entrambi di mantenere un regime di piena condivisione dell’affidamento della figlia, che, a sua volta, non può sobbarcarsi, se non altro per le sue esigenze scolastiche, a un pendolarismo fra i due luoghi di residenza dei genitori, la soluzione adottata dalla Corte d’appello viene necessariamente ad operare un bilanciamento fra gli interessi e le esigenze dei due genitori, che tiene conto degli impegni lavorativi della madre e della maggiore disponibilità di tempo del padre, cui viene incontro imponendo la messa a disposizione di una residenza da parte della madre”.

 Dunque, il provvedimento della Corte d’appello veneziana, secondo i giudici di Piazza Cavour, non può considerarsi “restrittivo della libertà personale e di residenza del padre” perché “adottato per rispondere alle esigenze di una piena frequentazione della figlia con entrambi i genitori”. Nell’ipotesi in cui il papà rifiuti tale soluzione, conclude la Corte, “imporrà di fatto la stabile residenza” della bambina “presso la madre, in attesa della eventuale revisione del collocamento, da valutare sempre alla luce del preminente e migliore interesse della minore

La Repubblica            10 marzo 2010

www.repubblica.it/cronaca/2020/03/10/news/la_cassazione_no_al_pendolarismo_dei_figli_dei_genitori_separati_-250868331/?ref=RHPPTP-BL-I250830792-C12-P1-S3.4-T1

 

Genitori separati, “I diritti fondamentali non possono stare in quarantena”

Il problema sollevato, tra gli altri, da un’associazione di avvocati per la famiglia e i minorenni, che coinvolgono anche gli anziani. Le due guide suggerite

Alle coppie, sia separate che conviventi, è richiesto in questo periodo un impegno particolare nel condividere il ruolo genitoriale, anche quando si vive in case diverse. Per aiutarli nella gestione dei rapporti con figli e nonni, gli avvocati di Cammino, Camera nazionale avvocati per la Famiglia e i Minorenni, hanno realizzato due guide e un video.                                                                                 www.cammino.org

E’ un tema importante, che molte famiglie italiane stanno vivendo in queste ore. Una rinnovata responsabilità genitoriale. E’ quel che serve ora. Su questo pone l’attenzione la presidente di Cammino, l’avvocato Maria Giovanna Ruo, in occasione della pubblicazione di due studi in merito alla cura e sostegno di minorenni e anziani in questo periodo di restrizioni a causa dell’emergenza Coronavirus. “I diritti fondamentali non sono in quarantena, ma il tutto deve essere interpretato con equilibrio e buonsenso. La relazione con entrambi i genitori è un diritto fondamentale dei figli minorenni: in questo momento sono soprattutto i genitori stessi che debbono garantirlo cooperando”

            I ragazzi, spesso impegnati in mille attività, ora affrontano forse per la prima volta la noia, non avendo ancora sviluppato a pieno la fantasia come competenza e in un momento in cui dai media provengono notizie angosciose. Oggi i ragazzi sono più fragili del solito, privati dei loro amici, dei loro sport e del loro svago e per questo è fondamentale che i genitori collaborino in modo sereno e attivo anche se non convivono più. “Se debbo andare a fare la spesa, invece che portarmi i bambini a fare la fila, è meglio che vadano con il papà. E che casomai insieme evitiamo troppi spostamenti accorpando giorni e pernotti. “Questo – dice la presidente di Cammini – è il senso del nostro decalogo diretto ai genitori, cui è richiesta una rinnovata disponibilità nei confronti dei figli”.

Covid-19. É l’acronimo di Co (corona); Vi (virus); D (disease, malattia) e 19 (l’anno d identificazione

 

Il decalogo per i minori. Questi i dieci punti individuati dalla Camera nazionale avvocati

DECALOGO PER LA CURA E IL SOSTEGNO DELLE PERSONE MINORI DI ETÀ NEL PERIODO DI VIGENZA DELLE MISURE DI CONTRASTO AL COVID -19

CRC Convention on the Rights of the Child – Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia

www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm

www.unicef.it/Allegati/Convenzione_diritti_infanzia_1.pdf

 

1)      Migliore interesse della persona di età minore (art. 3 CRC);

2)      Diritto alla bi-genitorialità (art.9 e 18 CRC)

3)      Diritto all’ascolto (art. 12 CRC)

4)      Diritto di informazione ed espressione (artt. 12, 13 e 17 CRC)

5)      Diritto alla salute e alla prevenzione (art.24 CRC)

6)      Diritto alle relazioni familiari, amicali e sociali (artt. 8, 15 e 16 CRC),

7)      Diritto all’educazione, all’istruzione e alla vita spirituale (artt. 28 e 29 CRC)

8)      Diritto al gioco e alla continuazione di attività culturali, ricreative e motorie (art.31 CRC)

9)      Diritto a essere protetti dai rischi della rete (artt. 3 e 17 CRC)

10)  Diritto a essere preservati dai conflitti e dalle ripercussioni economiche (art. 19 CRC)

www.canva.com/design/DAD2_3lQXKQ/YvyM06mvlGr8wSvT3_2E4A/view?utm_content=DAD2_3lQXKQ&utm_campaign=designshare&utm_medium=link&utm_source=publishsharelink#2

 

Il decalogo per i nonni. Gli anziani in struttura soffrono di solitudine; le famiglie sono angosciate dalla mancanza di notizie; gli operatori sono decimati e privi di volontari che li aiutino. “Anche se non hanno strumenti multimediali possono guardare i loro familiari e interloquire attraverso smart phone aiutati dagli operatori. Basta anche poco, ma ciò aiuta a tranquillizzare gli uni e gli altri, e tutela il loro fondamentale diritto alla relazione”, commenta la presidente Ruo. Si legge nel documento:

1)      Gli anziani sono una risorsa della società e meritano tutela rafforzata dei loro diritti fondamentali in ragione della loro particolare vulnerabilità, specie in questo periodo;

2)      Gli anziani hanno uno specifico diritto alla tutela rafforzata della loro salute;

3)      Gli anziani hanno diritto a ricevere tutte le informazioni;

4)      Gli anziani hanno diritto a mantenere i rapporti con i congiunti e la propria rete amicale;

5)      Gli anziani hanno diritto a mantenere vive le attività di svago e di culto solitamente svolte;

6)      Gli anziani hanno diritto alla propria disponibilità economica per le necessità quotidiane;

7)      Gli anziani hanno diritto ad una rafforzata assistenza sanitaria;

8)      Gli anziani hanno diritto ad una rafforzata assistenza amministrativa;

9)      Gli anziani portatori di disabilità hanno diritto a particolari attenzioni e tutele;

10)  Gli anziani senza fissa dimora hanno diritto ad una tutela adeguata alla loro specifica condizione.

Anna Maria De Luca  La Repubblica marzo 2020

www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2020/03/30/news/genitori_separati_in_quarantena_serve_una_rinnovata_responsabilita_-252704384/?ref=drac-1

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio per la casalinga che ha favorito la carriera del marito

                      Corte di Cassazione, Prima Sezione, civile, sentenza n. 6519, 9 marzo 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37659_1.pdf

Per la Cassazione, la misura dell’assegno di divorzio deve valorizzare età, sacrifici, contributo alla formazione del patrimonio familiare e durata del matrimonio. La Cassazione rigetta il ricorso di un marito obbligato in sede d’appello a versare alla moglie l’assegno mensile di 1.600 euro. Come osservato correttamente dal giudice di seconde cure occorre discostarsi dal superato criterio del tenore di vita, come affermato dalla Cassazione n. 11504/2017, senza dimenticare però la funzione perequativa, assistenziale e compensativa dell’assegno di divorzio, il quale non può non considerare l’età del coniuge richiedente, la sua effettiva possibilità di riprendere a lavorare, i sacrifici fatti per la famiglia e il contributo alla formazione del patrimonio famigliare con il lavoro fuori casa e casalingo.

Assegno di divorzio per l’ex che ha dedicato la vita al partner. La Corte d’Appello ridetermina l’assegno divorzile in favore della ex moglie in 1.600 euro mensili. Nel prendere questa decisione la Corte mette da parte il superato criterio del tenore di vita, ma evita anche d’incidere in maniera punitiva. Nel caso di specie infatti il coniuge richiedente è rimasto sposato a lungo, ha dedicato molto tempo alla famiglia e al partner e ha incrementato le risorse economiche familiari con il proprio lavoro in casa e fuori. Decisivi ai fini del decidere la durata del matrimonio e la disparità reddituale tra le parti.

La donna infatti è sicuramente la parte debole del rapporto perché non dispone di risorse proprie da lavoro, non gode di altre disponibilità liquide, oltre a quelle derivanti dalla vendita degli appartamenti paterni divisi a metà con la sorella, vive in affitto ed è comproprietaria di un immobile difficilmente produttivo di reddito. Giusto quindi ridurre l’assegno alla moglie, ma non nella misura indicata dal marito. Stante l’età, la donna difficilmente riuscirà a reperire facilmente un lavoro, andrà incontro a spese future inevitabili e utilizzerà parte dell’assegno per pagare l’affitto.

Per il marito è esagerato l’assegno divorzile di 1.600 euro. Il marito ricorre in Cassazione e lamenta con il primo motivo la mancata produzione in giudizio da parte della moglie delle dichiarazioni di successione del padre e della madre. Con il secondo si duole di come la Corte non abbia preso in considerazione il fatto che la ex moglie avrebbe potuto andare a vivere nella casa paterna, risparmiando così la spesa dell’alloggio. Con il terzo lamenta l’omesso esame dell’accordo secondo cui l’onere dell’affitto sarebbe gravato sul marito sino a quando la moglie non avesse acquistato la libera disponibilità gratuita di un immobile e comunque una volta sopravvenuta la morte del padre. Con il quarto contesta la ritenuta non redditività del cespite ereditato dalla ex moglie, stante l’assenza di prove al riguardo. Con il quinto lamenta il giudizio della Corte sulla capacità e possibilità effettiva della donna di produrre reddito, stante la mancata produzione di prove sulle iniziative della stessa per raggiungere l’indipendenza economica. Con il sesto contesta l’omesso esame di un fatto decisivo, ossia che la figlia ha deciso di vivere con il padre, ragion per cui la misura dell’assegno pare eccessiva perché destinata a una donna sola. Con il settimo e l’ottavo motivo contesta l’entità dell’assegno, perché di molto superiore ai possibili parametri d’indipendenza o autosufficienza economica e per il fatto di aver stabilito tale emolumento tenendo conto dei redditi del marito e del divario reddituale tra i due, mentre la Corte avrebbe dovuto prendere in considerazione solo la condizione del richiedente, allontanandosi così dalle indicazioni dettate dalla sentenza n. 11504/2017.

Assegno di divorzio: bisogna valorizzare il contributo del coniuge debole. La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo tutte le prime sei doglianze sollevate inammissibili perché finalizzate a ottenere un giudizio sostitutivo rispetto a quello di merito, che si è concluso con una motivazione congrua e adeguata, che si sottrae quindi alle critiche del ricorrente. Per quanto riguarda il settimo e ottavo motivo del ricorso, in cui il ricorrente lamenta il discostamento dai parametri sanciti dalla sentenza n. 11504/2017, che ha abbandonato il tenore di vita nella determinazione dell’assegno di divorzio, la Cassazione fa presente che la successiva SU n. 18287/2018 è intervenuta per dare una diversa lettura all’assegno di divorzio più coerente con il quadro costituzionale.

            Da qui l’adozione del parametro perequativo-compensativo che discende dal principio di solidarietà e che deve tenere conto delle condizioni reddituali e patrimoniali di entrambi e del raggiungimento di un livello di reddito adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, senza ignorare le aspettative professionali sacrificate, in considerazione dell’età del richiedente e della durata del matrimonio.

            Da qui l’affermazione, relativa all’art. 5 della legge n. 898/1970, del principio secondo cui “il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.”

            Al richiedente si tenderà a riconoscere, in virtù di detto principio, un importo in grado di garantirgli una vita dignitosa e autonoma, che gli riconosca il sacrificio e quanto fatto durante il matrimonio. Proprio da questa logica si è mossa la decisione della Corte d’Appello. Essa ha abbandonato il criterio del tenore di vita, stante l’intolleranza di rendite parassitarie in presenza della giovane età del richiedente e della sua acclarata capacità lavorativa, per abbracciare un indirizzo che evita di punire il coniuge più debole economicamente, che è stato sposato per lungo tempo, che ha dedicato il proprio tempo alla famiglia, aumentandone le risorse economiche comuni con il lavoro dentro e fuori casa. Una valutazione di questo tipo è sicuramente la più aderente alla realtà del caso concreto.

Annamaria Villafrate             Studio Cataldi 13 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37659-assegno-di-divorzio-per-la-casalinga-che-ha-favorito-la-carriera-del-marito.asp

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ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI

Cassazione: perseguibile d’ufficio chi non mantiene i figli

Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. n. 7277, 24 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37578_1.pdf

Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare in seguito a separazione o divorzio è perseguibile d’ufficio. La Cassazione, accogliendo il ricorso del P.M, dichiara che il reato di cui all’art. 570 bis c.p., che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o divorzio, è procedibile d’ufficio.

Reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il Tribunale dichiara di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il reato di cui all’art. art. 3 legge n. 54/2006, che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio, confluito ora nell’art. art. 570-bis c.p., in quanto estinto per remissione della querela.

 Il Tribunale infatti lo ha ritenuto perseguibile su querela di parte. All’imputato è stata contestata la mancata corresponsione dell’assegno mensile di Euro 200, da maggio a settembre del 2012, e della somma di Euro 250 da ottobre 2012 fino al mese corrispondente del 2015. Somme dovute per il mantenimento della figlia e per le spese straordinarie nella misura del 50%.

Pubblico Ministero: perseguibilità d’ufficio. Il P.M ricorre in Cassazione perché il giudice ha commesso l’errore di ritenere il reato perseguibile a querela, quando in realtà esso deve ritenersi procedibile di ufficio.

Il fatto che sia procedibile d’ufficio rende irrilevante la remissione della querela ed errata la dichiarazione di estinzione del reato.

Perseguibile d’ufficio il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. La Cassazione, in accoglimento del ricorso del P.M, dispone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per il giudizio alla Corte di appello competente per la rinnovazione del dibattimento.

La Corte dapprima descrive il percorso legislativo che ha condotto all’introduzione dell’art. 570 bis c.p. nel codice penale attraverso l’art. 2 del D.Lgs. n. 21/2018 contenente le “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103”, con decorrenza dal 06/04/2018.

Ribadisce poi come “il delitto di omesso versamento dell’assegno periodico per il mantenimento, l’educazione e l’istruzione dei figli, previsto dell’art. 570-bis cod. pen., è configurabile anche in caso di violazione degli obblighi di natura patrimoniale stabiliti nei confronti di figli minori nati da genitori non legati da vincolo formale di matrimonio anche per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 1 marzo 2018, n. 21, essendovi continuità normativa tra la fattispecie prevista dall’art. 570-bis cod. pen. e quella prevista dall’art. 3 della legge 8 febbraio 2006, n. 54.”

A questo punto la Corte specifica che la delega conferita dalla L. n. 103/2017 ha dato vita a un semplice trasferimento delle figure dal testo della legge al codice penale, senza modifica alcuna degli aspetti di natura sostanziale. La relazione ministeriale ha specificato inoltre che la modifica “non incide sul regime di procedibilità di ufficio.”

Da sottolineare infine che secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità il reato contestato all’imputato è sempre stato considerato come perseguibile d’ufficio, come confermato anche dalla SU n. 23866/2013.

Alla luce di dette considerazioni la Corte conclude che, in assenza di nuove disposizioni di legge sulla procedibilità, il regime di perseguibilità di ufficio previsto il reato contemplato dall’art. 570 -bis c.p. deve essere confermato.

Annamaria Villafrate             Studio Cataldi            08 marzo 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37578-cassazione-perseguibile-d-ufficio-chi-non-mantiene-i-figli.asp

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ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

Sospesa la Giornata di studio a Salerno

A causa delle restrizioni introdotte dai Decreti del Governo contro il contagio da Coronavirus e in attesa di verificare la futura fattibilità delle riunioni di gruppo, l’AICCeF ha deciso di rimandare la Giornata di Studio prevista per il 26 aprile a Salerno.

Stiamo verificando la possibilità di spostarla ad una data prossima, nel rispetto della sicurezza sanitaria di tutti i partecipanti.

Le iscrizioni, pertanto, sono momentaneamente sospese. Ci dispiace per l’inconveniente e Vi ringraziamo per la collaborazione.

www.aiccef.it/it/news/rimandata-la-prossima-giornata-di-studi-a-salerno.html

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 10, 11 marzo 2020

Save the date. Questa settimana il consueto appuntamento con il “save the date” per i convegni e gli incontri in Italia e all’estero viene sospeso (e anche il numero di notizie è “ridotto”), data la progressiva incertezza delle agende dovuta alle doverose misure di contrasto al diffondersi del Coronavirus.

Digital change and its impact on families. 9 Discussion Paper (novembre 2019) (Il cambiamento digitale e il suo impatto sulle famiglie). AGF (Associazione delle organizzazioni familiari tedesche) ha recentemente pubblicato un quaderno in cui presenta alcuni nodi tematici relativi all’impatto della digitalizzazione sulla vita delle famiglie in diverse aree della vita quotidiana. Utilizzando l’approccio del ciclo di vita familiare, vengono trattate le diverse sfide per famiglie con bambini, adolescenti, per i genitori adulti e per gli anziani.

https://www.ag-familie.de/media/docs19/AGF_Discussion_paper_digiitalisation_family_Nov2019.pdf

Onu. Progress of the world’s women 2019–2020. Families in a changing world (Famiglie in un mondo che cambia. Rapporto sulle donne nel mondo 2019-2020). Rapporto molto ricco e documentato, di particolare interesse perché tenta di mettere in connessione la questione femminile/femminista con la dimensione familiare, rappresentata come dimensione essenziale anche rispetto alle dinamiche macro-economiche e alle policies dei governi (e questo nesso non era scontato, dentro la tradizionale agenda femminile/femminista delle Nazioni Unite). Efficace quando segnala che “mercato e stati hanno bisogno di famiglie che offrono forza lavoro, comprano merci, pagano tasse e allevano ì membri produttivi della società… ma trattare le famiglie come un pozzo senza fondo, da cui i settori pubblici e privati possono attingere infinitamente, può avere conseguenze disastrose sulle famiglie e sui singoli membri”.

https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/Progress-of-the-worlds-women-2019-2020-en.pdf

Audizione del CNEL alla camera dei deputati. La contrattazione di 2° livello per contrastare il gap gender. IL 27 febbraio 2020 Il presidente del CNEL Tiziano Treu e la consigliera Paola Vacchina hanno presentato un documento in una audizione presso la XI Commissione Lavoro della Camera dei Deputati sulle “Modifiche al codice delle pari opportunità“. Un modo concreto e non retorico di ricordare l’8 marzo, 26 pagine di riflessioni, dati e un aggiornamento prospetto comparativo delle diverse proposte di legge oggi in discussione

www.cnel.it/Portals/0/CNEL/Presidenza/CNEL_Audizione_gap_genere_27feb2020.pdf?ver=2020-02-27-162121-250

L’anello debole (Fermo) – Quattordicesima edizione del premio internazionale. L’anello debole è un riconoscimento assegnato dalla Comunità di Capodarco ai migliori video e audio cortometraggi, giornalistici o di finzione, a forte contenuto sociale e/o ambientale. Il bando 2020 dà tempo fino al 30 marzo 2020 per la consegna delle opere. Le sezioni del concorso sono tre: audio cortometraggi, video cortometraggi della realtà e video cortometraggi di fiction, che non dovranno superare la durata di 25’. Le opere pervenute verranno inizialmente valutate da una commissione scelta dalla Comunità di Capodarco. Tra le “preselezionate” la giuria di qualità sceglierà i finalisti di ogni categoria in concorso. Questi si contenderanno il premio L’anello debole durante il “Capodarco l’Altro Festival”, ad oggi previsto dal 24 al 27 giugno 2020 nella Comunità di Capodarco di Fermo, nelle Marche.

http://www.premioanellodebole.it/home.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_11_03_2020

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Sette anni di Papa Francesco, l’anniversario in mezzo alla pandemia.

Ma lui continua a lavorare. E a essere vicino alla gente

Tra un forte raffreddore e l’epidemia di Coronavirus che mette in ginocchio gran parte del Pianeta, Jorge Mario Bergoglio non si ferma. Neanche un giorno. Nemmeno per festeggiare i sette anni di pontificato. Circondato da una sorta di «cordone di sicurezza» necessario in mezzo alla pandemia, papa Francesco continua a lavorare. E a essere vicino alla gente, in particolare quella che soffre. Nei giorni del Covid-19, oltre a recitare l’Angelus e a tenere l’udienza generale «ingabbiato» nella Biblioteca del Palazzo apostolico in diretta streaming, ha voluto «sdoganare» le messe a Casa Santa Marta.

Le omelia di papa Francesco sono un simbolo del pontificato: sono state determinanti nel creare e alimentare la simpatia, l’empatia e l’attenzione planetaria per il Pontefice argentino. Con la loro semplicità, immediatezza e schiettezza, raggiungono il vissuto quotidiano, e anche il cuore, delle persone. Credenti e non, vicine e lontane. Ai potenti ricorda le loro responsabilità. Ai deboli esprime particolare affetto, solidarietà e forza. Le parole del Pontefice nella Domus Sanctæ Marthæ toccano le corde fondamentali e fondanti dell’animo umano: sentimenti, emozioni, paure, fragilità, nervi scoperti. La gioia come il mistero della sofferenza. Il senso della vita. Le predicazioni di papa Francesco incoraggiano, ammoniscono, rimproverano. Soprattutto incoraggiano. Accompagnano nel cammino della dell’esistenza. Ecco che Francesco, in questi giorni sospesi tra incubi e preoccupazioni che accomunano tutti, vuole essere vicino, oltre che con la preghiera e con l’affidamento alla Madonna, anche con la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia nella Messa a Casa Santa Marta eccezionalmente trasmessa in diretta ogni mattina e diffusa in tutto il mondo grazie allo streaming. Così, le sue parole sono immediatamente e direttamente a disposizione. Per tutti: coloro che già ogni mattina attendevano la sintesi dell’omelia diffusa dai media vaticani; come anche per le persone che in questi giorni surreali hanno bisogno di conforto, di sostegno spirituale, di aggrapparsi alla fede che il Successore di San Pietro custodisce e trasmette, con gioia e speranza. Con quel suo calore umano da «parroco dell’umanità».

            Obbediente alla volontà di Dio, come ha sottolineato in un’intervista a L’Osservatore Romano il cardinale Luis Antonio Tagle, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Tra i vari ricordi «del 13 marzo 2013 – racconta il porporato filippino – ne vorrei raccontare due». Innanzitutto, quando Bergoglio «ha ottenuto il numero di voti richiesti per essere eletto Papa, tra i cardinali sono scoppiati gioia, applausi e lodi a Dio, che ancora una volta ci assicurava che non avrebbe abbandonato la sua Chiesa». Ma quando Tagle guarda Bergoglio, vede che «stava seduto con la testa china. La mia esuberanza all’improvviso si è trasformata in pathos – rammenta – Nella postura china del nuovo Papa percepivo il peso dell’obbedienza, l’inchinarsi alla misteriosa volontà di Dio». Tagle percepiva in quegli attimi eterni «anche il bisogno di inchinarsi in preghiera, un atto di fiducia in Dio, che è il vero Pastore della Chiesa». Poi, quando «ci siamo uniti a Papa Francesco per salutare la folla riunita in piazza San Pietro, mi sono reso conto che ogni nuovo Pontefice è un dono che Dio “svelerà” lentamente nel corso degli anni del suo ministero papale, una promessa che Dio adempirà dinanzi al suo popolo».

            Tagle, a parte «la ricchezza dell’insegnamento e di gesti che abbiamo ricevuto da Papa Francesco in questi ultimi sette anni», si rallegra «per le lezioni che mi ha impartito il suo esempio, specialmente come pastore a Manila: prestare attenzione alle singole persone in mezzo a grandi folle, mantenere il contatto personale in mezzo a una grande organizzazione, o “burocrazia” ecclesiastica, accettare i propri limiti e la necessità di avere collaboratori in mezzo ad attese “sovrumane”, sapere che sei un servitore e non il Salvatore». L’ex Arcivescovo di Manila è impressionato dal «fatto che ha portato al papato la persona semplice, di humor e coscienziosa che ho sempre conosciuto. Praticamente in tutti gli incontri che ho con lui, la prima domanda che mi pone non riguarda le questioni del giorno, ma è: “come stanno i suoi genitori?”». Anche se in molti «giustamente lo considerano uno dei motori e forgiatori più influenti della storia e dell’umanità contemporanea, io vedo in lui e nelle nostre conversazioni una semplice “parabola” della vicinanza e compassione di Dio. Essendo una tale “parabola”, Papa Francesco può muovere e modellare la storia».

            Il cardinale Gianfranco Ravasi non l’aveva «mai incontrato prima di quei giorni. Ne avevo sentito parlare occasionalmente e conoscevo il suo profilo vagamente. Fu soltanto in quel piovoso pomeriggio di mercoledì 13 marzo 2013 che ci trovammo casualmente insieme da soli». Così il Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura rievoca sulle pagine dell’Osservatore Romano il primo incontro con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, prima dell’elezione al Soglio Petrino. Il futuro Papa Francesco «stava attraversando la sontuosa Sala Ducale con la sua scenografia barocca: fu lì che ci incrociammo e ci fermammo a parlare, procedendo e passeggiando poi nella successiva imponente Sala Regia». Da lì «saremmo entrati nella Cappella Sistina, ove insieme agli altri cardinali elettori partecipavamo al Conclave». Ravasi racconta che fu Bergoglio «a rievocare il filo personale che ci univa e che era per me ignoto. L’incontro implicito – prosegue – era avvenuto proprio a Buenos Aires attraverso le mie pubblicazioni, due in particolare, un “duplice commento” al lezionario domenicale e soprattutto il vasto commentario che nel 1979 avevo elaborato su uno dei libri più sconvolgenti e misteriosi della Bibbia, quello di Giobbe». Quasi mille pagine, dedicate alle 8.343 parole ebraiche di quel poema, «al suo linguaggio rovente e soprattutto al suo enigmatico significato ultimo, non riducibile certo alla “pazienza” tradizionalmente assegnata al protagonista, né al puro e semplice scandalo della sofferenza». Questa divagazione su uno dei testi più celebri dell’Antico Testamento, «anche a livello culturale oltre che popolare (Giobbe, come san Rocco, fu il protettore di malati infetti e, quindi, si potrebbe affacciare anche nei giorni attuali del coronavirus), fa già intuire l’interesse e la sintonia tematica dell’allora arcivescovo argentino». Il Gesuita argentino aveva tenuto un intero corso su quest’opera «così alta, drammatica e teologica, capace di dare voce al respiro di dolore che sale incessantemente dalla terra al cielo e pronta persino a denunciare processualmente Dio». Nel suo percorso in quelle pagine così roventi «Bergoglio riconosceva di aver avuto come compagno di viaggio proprio il mio commento e, quindi, indirettamente anche me, senza che ci fosse stato un incontro esplicito».

            Riguardo al «settenario di anni del suo pontificato la mia è una piccola e marginale attestazione. Col nostro dialogo, Giobbe – conclude – in quelle ore decisive nella storia della Chiesa, era anche lui idealmente entrato in Conclave». Ne è poi uscito «con la voce – più pacata e con tonalità minore, ma con altrettanta carica interiore – di Papa Francesco. Egli è consapevole – come scriveva (nella folla degli autori che nei secoli hanno ricreato questa figura biblica) il poeta francese Lamartine – che “quella di Giobbe non è la voce di un uomo ma è la voce di un tempo, è il primo e ultimo vagito dell’anima, anzi, di ogni anima”».

Domenico Agasso Jr   vatican insider 13 marzo 2020

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2020/03/13/news/sette-anni-di-papa-francesco-l-anniversario-in-mezzo-alla-pandemia-ma-lui-continua-a-lavorare-e-a-essere-vicino-alla-gente-1.38585544

 

Giovagnoli: il mondo diverso dopo il Coronavirus, il Papa sarà un riferimento

“Francesco interprete di questo tempo globalizzato”, “il Papa dell’immediatezza e dell’incontro”, il Pontefice della riforma della Chiesa e della più importante riforma del cuore. Nel giorno del 7.mo anniversario dell’elezione di Papa Francesco al Soglio di Pietro, nella nostra intervista lo storico Agostino Giovagnoli rimarca il cammino della Chiesa col suo Pastore e rilegge il ruolo che, anche nel nostro immediato futuro, dopo l’epidemia che stiamo attraversando, Francesco può avere per il mondo, in risposta ai grandi interrogativi sul senso della vita:               Ascolta l’intervista

https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/03/12/19/135522800_F135522800.mp3

R.- Certamente questo anniversario dell’inizio del pontificato di Papa Francesco cade in un momento particolare, che però è anche significativo proprio alla luce del fatto che questo Papa è un Papa del mondo globalizzato, un Papa che parla, che sa parlare e sa farsi ascoltare dai poveri anzitutto, ma anche da tanta gente comune in tutto il mondo. Questo momento è un momento in cui si sta espandendo una epidemia a livello globale che colpisce tanti, senza fare distinzioni e credo che Francesco sia, come dire, il Papa di questo momento. Colui cioè che sa parlare a tanti quando nel mondo ormai sono cadute tante barriere, perché questo è quello che ci insegna lo sviluppo di questa epidemia. Anche non volendo naturalmente, ci troviamo tutti molto condizionati da quello che avviene altrove e Papa Francesco è davvero l’interprete di questo tempo globalizzato.

Un piccolo esempio può essere il fatto di farci entrare in queste mattine nella sua cappella seguire la Messa?

            R. – Papa Francesco ha fatto cadere molte barriere, simboliche anzitutto, ma anche reali, con una capacità di incontro di immediatezza, di comunicazione, davvero straordinaria. E anche in questi giorni la possibilità di entrare nella Messa che lui celebra tutte le mattine da Santa Marta sin dall’inizio al Pontificato, e che sinora era stata accessibile solo piccoli gruppi, a questo punto diventa, in qualche modo, universale, e anche questo certamente è un fatto molto significativo.

I media e anche tanti fedeli quando parlano del Papa si concentrano molto sul percorso di riforma che sta portando avanti a proposito della Curia Romana. Ma il Papa mi sembra voglia riformare la Chiesa, la Chiesa stessa, riportarla alle sue origini, a una vita più autentica…

            R. – Sì, direi che la riforma vera che il Papa ha già realizzato con successo è la riforma che la sua persona ci comunica, il suo stile, più che una riforma di tipo strutturale delle istituzioni curiali, degli uffici, delle organizzazioni della Chiesa. Per lui la riforma più importante è quella personale, quella del cuore, quella evangelica e lui la vive in modo molto evidente, molto trasparente. Questo è un messaggio fortissimo, è il messaggio più importante del suo Pontificato, che lo rende anche una figura così popolare, non solo dentro la Chiesa ma anche fuori dalla Chiesa, più popolare della Chiesa stessa per certi aspetti.

Papa Francesco in questi anni ha utilizzato il Sinodo dei Vescovi come uno strumento che ha contribuito a delineare parti del suo magistero. Nel 2022 ci sarà la prossima assise sulla sinodalità. Cosa può significare questo per la Chiesa, per il futuro?

            R. – Io credo che per Papa Francesco la sinodalità sia più importante dei Sinodi. I Sinodi sono anch’essi istituzioni e strutture di cui la Chiesa cattolica ha cominciato ad avvalersi, a livello universale, dopo il Concilio Vaticano II. Papa Francesco li ha usati in modo molto più intenso di quello dei suoi predecessori, ne ha fatto momenti di passaggio fondamentali per alcune decisioni assolutamente centrali del suo Pontificato. E però, anche su questo terreno, io non ritengo che Papa Francesco creda all’importanza delle strutture prima di tutto. Ciò in cui crede invece, è lo stile, appunto, lo stile della sinodalità, che è il suo modo diretto di ascoltare, ma anche di rispondere, di prendere decisioni che a volte possono non piacere ma rientrano in questo stile estremamente “sinodale” in cui c’è una forte circolarità – sicuramente maggiore rispetto al passato – tra vertice e base, tra il Papa, i vescovi e i fedeli. La sinodalità è uno stile già fortemente presente e che, attraverso il suo esempio, si è comunicato. Per esempio la Chiesa italiana è certamente oggi una Chiesa molto più sinodale di quanto non lo fosse alcuni anni fa. E certamente è un risultato importante di questo Pontificato. Quindi, dedicando alla sinodalità un Sinodo, credo che Francesco voglia rimandare ancora una volta all’importanza del vissuto, di un vissuto sinodale come passaggio chiave per il futuro della Chiesa cattolica.

C’è qualcosa che lei si augura per il nuovo anno di pontificato?

R. – Mi aspetto che Papa Francesco sia una persona importante per il mondo intero. Lo e’ già stato in questi anni, come un leader accettato e riconosciuto che ha potuto compiere gesti straordinari, pensiamo all’incontro con il Patriarca ortodosso di Mosca, pensiamo alla mediazione realizzata tra Stati Uniti e Cuba o alla Cina, in cui si sono spalancate porte chiuse da 70 anni. Ma il futuro chiederà molto a Papa Francesco, perché il mondo dopo il Coronavirus sarà diverso: più povero, con forti tensioni e forti novità, non tutte positive, ma questo mondo avrà grandi domande di giustizia e di uguaglianza e Papa Francesco avrà sicuramente un ruolo importate nell’aiutare il mondo a riprendersi dopo questo passaggio tanto doloroso.

Adriana Masotti – Città del Vaticano             13 marzo 2020

www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-03/anniversario-papa-francesco-giovagnoli.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=NewsletterVN-IT

Nei giorni del virus per incontrare Dio non servono Chiese e celebrazioni

     L’emergenza causata dal micidiale virus, che dilaga e infetta ovunque e chiunque nel mondo intero, genera una situazione talmente nuova che neanche in caso di terremoti, o conflitti era stata mai vissuta. In guerra ci si può salvare fuggendo, scendendo nei rifugi, ma con il virus questo non è possibile, non esistono vie di fuga, e l’unica difesa è di impedirgli di diffondersi, attraverso la restrizione dei normali comportamenti, evitando il più possibile ogni contatto tra gli individui.

     Se durante la guerra le persone trovavano conforto andando a pregare in chiesa, ora con il virus non si può; le chiese restano chiuse perché altrimenti diventano luoghi privilegiati di contagio. La fede non sostituisce le normali misure d’igiene, ma le presume. È bene pregare il Signore che ci aiuti a superare il momento, ma non per questo si è legittimati a mettersi in situazioni di pericolo (“Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”, Mt 4,4; Dt 6,16).

     La chiusura delle chiese causa disorientamento tra i fedeli, posti di fronte a una situazione che non ha precedenti. Costoro si sentono smarriti, disorientati, manca un punto importante di riferimento, perché con tale chiusura non c’è neanche la possibilità di partecipare alla celebrazione eucaristica. Ma i vangeli e la tradizione insegnano che non è solo la chiesa il luogo per incontrare Dio, e non è solo la celebrazione eucaristica quel che può nutrire il credente. Nell’eucaristia, Gesù, il Figlio di Dio, si fa pane, affinché quanti lo mangiano e assimilano, siano poi capaci anch’essi di farsi pane, nutrimento, fattore di vita per gli altri, e avere così la sua stessa condizione divina. Questo pane va mangiato, come espressamente chiesto da Gesù “prendete mangiate” (Mt 26,26), il suo è un invito dinamico (“Fate questo…”, Lc 22,19), non statico.

    Pertanto nel corso della cena eucaristica i primi credenti continuarono a fare quel che il Signore

Aveva fatto, mangiando insieme questo pane e diventando gli uni nutrimento per l’altro, consentendo così la fusione intima della presenza di Dio nei suoi figli. Poi il pane consacrato veniva portato agli ammalati che non avevano potuto partecipare alla cena (nell’agiografia cristiana divenne molto popolare san Tarcisio, il giovanetto morto martire perché portava il pane eucaristico ai prigionieri). Questo pane consacrato per malati e prigionieri era conservato nella sacrestia (che da questo uso prende il suo nome), dove i suddiaconi l’andavano a prelevare per recarlo a chi ne aveva bisogno.

    Poi gradualmente, dalla sacrestia, il pane eucaristico si spostò in chiesa, dove per evitare abusi, il IV Concilio Lateranense (1215) prescrisse di custodirlo sotto chiave, consolidando la pratica dei “tabernacoli” (dimore) murari; tuttavia nelle basiliche più antiche al tabernacolo era riservato solo uno degli altari laterali e non il principale, come invece avvenne nei secoli successivi, fino a diventare la parte più importante e sacra della chiesa. Nacquero allora devozioni popolari quali l’adorazione eucaristica e la “visita al Santissimo”, appuntamento raccomandato per i laici, ma imposto nei seminari, dove i futuri preti erano obbligati ad andare quotidianamente a fare compagnia al “Divin prigioniero”, quel Gesù che “per amore dell’uomo ingrato, si è fatto prigioniero nel Divin Sacramento”, come recitava una devota preghiera. Fu pertanto a causa dell’eucaristia conservata nel tabernacolo, che la chiesa venne erroneamente considerata la “casa di Dio”. Ma la chiesa, non è la “casa di Dio”, un luogo sacro, bensì il locale del popolo di Dio, che lì si raduna per le celebrazioni, come insegna la più antica tradizione della Chiesa: “Non è il luogo che santifica l’uomo, ma l’uomo il luogo” (Costituzioni apostoliche, VIII, 34,8), e papa Sisto (V sec), dedicò la Basilica di Santa Maria Maggiore al popolo di Dio, come si può leggere nel mosaico dell’arco trionfale dell’abside “Xystus episcopus plebi Dei” (Sisto vescovo al popolo di Dio).

     Gesù ha liberato l’uomo da ogni spazio sacro, non esiste casa di Dio che non sia l’uomo, per questo ha auspicato la scomparsa di ogni santuario (“Viene l’ora in cui né su questo monte è a

Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”, Gv

4,21.23), e l’autore dell’Apocalisse, nel descrivere la nuova realtà inaugurata da Gesù proclama:

“Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22). Il luogo dell’incontro con Dio è Gesù Cristo e con lui ogni uomo che lo accoglie: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). L’uomo è l’unico vero santuario dal quale si manifesta e irradia l’amore del Padre per le sue creature. È questa la fede del credente. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3,16) scrive Paolo, talmente convinto di questa realtà da affermare “Cristo vive in me” (Gal 2,20).

     Per questo la presenza del Cristo non si limita alla chiesa, al santissimo sacramento. L’incontro con Dio non è condizionato da luoghi o celebrazioni, ma è reale e autentico ogni qualvolta il suo amore viene comunicato e arricchisce la vita degli altri. Sta all’uomo rendersi conto, nella sua vita, di quella presenza divina che continuamente guida, accompagna e segue la sua esistenza, come esclama lo stupefatto GiacobbeCerto, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo” (Gen 28,16).

Alberto Maggi        Il Libraio     14 marzo 2020

www.illibraio.it/virus-chiese-chiuse-1328206

 

La Chiesa di tutti        Prima Pagina       Newsletter n. 185 del 13 marzo 2020

     Care Amiche ed Amici, mentre la crisi provocata dal Virus Nemico raggiunge il suo acme, una novità straordinaria attraversa il pontificato di papa Francesco e ancora di più lo consegna al futuro: una rilettura della Bibbia offerta alla Chiesa (e non solo) dalla Pontificia Commissione Biblica sotto il titolo misterioso e cruciale: “Che cosa è l’uomo?”. Si tratta di un documento appena pubblicato, che si concreta in un percorso e non in una sistemazione dogmatica, che scopre la realtà dell’uomo nel suo “divenire” e non nella fissità di un’istantanea, che si presenta come un’inchiesta di antropologia biblica ma in realtà è una rilettura teologica, un “Chi è” di Dio, anche in forza di una nuova percezione della somiglianza dell’uomo, suo figlio, con Lui.

     È un documento che lo stesso Sandro Magister (ciò che è una festa per noi) promuove come “il più bel documento di questo pontificato”, essendo stato sollecitato da papa Francesco e posto a tema di tutte le sessioni plenarie dell’Istituto biblico fin dall’inizio di questo pontificato.
Ne risulta una visione affascinante dell’antropologia cristiana, e dell’antropologia tout-court, che cattive letture della Bibbia, spesso indirette, mediate dalle culture mondane o appiattite sui miti, hanno offuscato e traviato, fino alla catastrofe della pretesa legittimazione biblica dell’inferiorità della donna, ricavata dall’uomo, scioccamente sedotta dal tentatore e portatrice del peccato nel mondo: mitica origine di quella cultura patriarcale che, giunta fino a noi, sta portando all’apostasia delle donne dalla Chiesa.

     Per singolare coincidenza in questi giorni è uscito da Gabrielli un libro intitolato “Non sono la costola di nessuno” in cui non solo femministe e teologhe, ma anche altre donne e uomini confutano le nefaste interpretazioni e conseguenze che si sono tratte dal racconto della Genesi sulla creazione e il peccato di Eva; ed è proprio questo testo fondatore che il documento della Commissione Biblica fa oggetto della sua indagine per rintracciarne poi innumerevoli rivoli e sviluppi in tutte le pagine della Scrittura; e ciò perché il mistero dell’uomo ha la sua radice e il suo adempimento finale nell’evento dell’origine, evocato dai primi capitoli della Genesi. E proprio qui ci sono le sorprese. Anzitutto viene revocata la supposta antitesi tra immagine e somiglianza presente in molte teologie per le quali ogni uomo sarebbe a immagine di Dio, ma quanto ad assomigliargli è tutt’altra cosa. Ebbene la vera traduzione di quell’espressione capitale che si trova nelle prime pagine della Bibbia non è “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza”, ciò che potrebbe portare a una giustapposizione, ma, letteralmente, “lo creò a immagine secondo la sua somiglianza”; e infatti in altri passi della Genesi una volta si usa “immagine” un’altra si usa “somiglianza”, come termini equivalenti, che fanno dell’essere umano la “figura” di Dio, il suo interlocutore speculare. Secondo una traduzione dinamica suggerita dal documento si potrebbe dire che fu fatto l’uomo “a immagine somigliante” di Lui.

     E poi c’è la questione della costola del maschio, da cui sarebbe stata tratta la donna. In realtà non c’è il maschio e non c’è la costola. Il termine ebraico sēlac, tradotto in greco e poi in latino come “costola”, in tutta la Scrittura non designa mai una specifica parte del corpo ma semplicemente un lato o un fianco di qualche oggetto, come si dice ad esempio “la costola di un libro”, e dunque suggerisce piuttosto che uomo e donna, nella loro natura costitutiva sono fianco a fianco, l’uno al lato dell’altro, come reciproco aiuto e alleato. Sono simili e diversi, e la loro differenza è pegno del reciproco riconoscimento ed è appello a diventare una sola carne, principio da cui è normato qui non già l’istituto del matrimonio, quanto l’unità indissolubile dei due universi umani, il maschile e il femminile. Infatti, con la venuta di Eva “non è la solitudine del maschio, ma quella dell’essere umano ad essere soccorsa, mediante la creazione di uomo e donna”.

     E quanto al maschio, non c’è quella precedenza del maschio sulla femmina da cui tutta una cultura a impronta maschile ha fatto derivare l’ordine gerarchico della subalternità della donna nella famiglia e nella società. L’apostolo Paolo – riconosce il documento della Pontificia Commissione – va in questa linea, quando dice nella prima lettera ai Corinti “come la donna (venne) dall’uomo, così l’uomo (viene) per mezzo della donna” o quando nella prima lettera a Timoteo – così sofferta dalle donne – dice che “prima fu formato Adamo e poi Eva (e non Adamo ma Eva fu sedotta)”.  La Commissione Biblica dice che questa prospettiva sociologica (legata cioè alla cultura del tempo) “non è oggi universalmente accettata, anche perché il testo biblico postula una diversa lettura, esegeticamente più rigorosa”. E infatti, fino all’apparizione della donna, l’Adam di cui parla la Genesi non è mai il maschio, ma l’essere umano a prescindere da qualsiasi connotazione sessuale, nel quale sono compresi in potenza sia la donna che l’uomo: un mistero, certo, tanto che perché si risolva l’Adam deve passare attraverso il sonno, il “non conosciuto”, nel quale si attua il meraviglioso prodigio di Dio che da un solo essere ne forma due;  ed è a questo che allude  papa Francesco quando dice poeticamente che l’essere umano perché ci sia la donna, se la deve prima sognare.

      E quanto alla tentazione di Eva, non è che il tentatore ha approfittato del soggetto più debole e irriflessivo; perché anzi, dicono i biblisti del papa, la figura femminile è nella Bibbia  l’immagine privilegiata della sapienza, sicché, in questa prospettiva, “il confronto non avviene tra un essere molto astuto e una sciocca, ma al contrario tra due manifestazioni di sapienza e la ‘tentazione’ si innesta proprio nella qualità alta dell’essere umano che nel suo desiderio di conoscere rischia di peccare di orgoglio”.

     Molte altre cose ci sono in questo testo che aprono il cuore e le menti; come nell’evocazione della nudità senza vergogna, a prova che l’amore sponsale è puro, nella misura in cui nella carne esprime l’amore secondo il disegno di Dio; o come nell’enunciazione di un principio ermeneutico di carattere generale, per il quale anche di fronte a norme o a comandi espressi in modo apodittico, come ad esempio quello relativo all’indissolubilità del matrimonio, occorre discernerne la giusta applicazione, sicché ad esempio non è infrangere questo comandamento il separarsi da chi minacci la pace  o la vita dei familiari, il constatare  che “il rapporto sponsale non è più espressione di amore”.

      E molto importante è anche la tematizzazione del passaggio dall’immagine indiscriminata del Dio giudice, criticata nello stesso testo biblico, a quella del padre che anela a passare dall’accusa al perdono; tutto il Nuovo Testamento attesta l’avverarsi di questo evento finale della controversia con Dio, quale compimento “di ciò che era stato annunziato come senso della storia”, esteso “a tutte le genti, radunate sotto il medesimo sigillo della misericordia, in una nuova e perenne alleanza”.

     Sono, queste, notizie da prima pagina, ma nessuno ci ha fatto uno scoop. E lo stesso documento non è on line, è pubblicato in un libro di 336 pagine della Libreria Editrice Vaticana, con caratteri piccoli, con inchiostro grigio e sbiadito,  e in un numero ristretto di copie, come se esso dovesse essere letto solo da occhi giovani e in circoli ristretti di accademici e docenti; perciò chiediamo pressantemente al prefetto del dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, di mettere in rete questo documento, di diffonderlo attraverso gli altri media, ecclesiastici e laici, favorendone la recezione nel popolo cristiano.

 Così, quando usciremo dal tormento del Virus, ci troveremo più ricchi.

      Raniero La Valle   La chiesa di tutti     Newsletter n. 185 del 13 marzo 2020

                     www.chiesadituttichiesadeipoveri.it

http://ranierolavalle.blogspot.com/2020/03/prima-pagina.html

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CHIESE EVANGELICHE

Una terza via fra Lutero e Zwingli?

     Un battista si intrufola nella discussione sullo status confessionis aperto nell’ambito delle chiese valdesi e metodiste e lo fa proponendo una terza via. Mi chiedo: vi è una diversa opzione tra Lutero e Zwingli, il primo ben rappresentato dal prof. Sergio Rostagno (n. 9, p. 6) e il secondo dall’ala interventista così ben presente nell’ambito riformato? Vi è un’altra possibilità in campo? Sì, e cerco di darne una rappresentazione, non perché bisogna sceglierne una contro le altre, ma perché emergano i campi di forze e le energie disponibili e chissà che una sintesi non sia un andare oltre le nostre stesse posizioni.

  1. Prima posizione, Lutero, ben chiara. Sarà forse la sua chiarezza anche la sua debolezza? Dopotutto, le teorie, quanto più chiare sono, tanto più hanno difficoltà a misurarsi con la pratica quotidiana. Tutta la modernità si è fondata sul principio che affermava la separazione tra la società giusta e la vita buona, tra responsabilità e convinzione, tra diritto e morale. I grandi pensatori del secolo scorso hanno difeso con forza quest’architettura, penso a Rawls e ad Habermas sopra tutti. Ma poi le nostre società hanno iniziato a dimostrare delle incrinature nelle capacità motivazionali e di legittimazione delle norme, oltre che nel grande problema di riconoscere un diritto a chi non è in grado di rivendicare un diritto. Habermas stesso ha dovuto interrogarsi in che modo le religioni siano delle risorse di senso per la vita pubblica. Forse lo schema moderno di luterana memoria che separava la fede dalla carità ha raggiunto il suo limite ed è necessario superarlo, con l’umile atteggiamento di chi sa che qualcosa si supera solo portandosela con sé?
  2. Seconda posizione, Zwingli, altrettanto chiara. Ma qui la chiarezza più che suscitare un dubbio pratico, suscita delle preoccupazioni. Vi è nel pensiero riformato, come un tarlo, il pericolo di confondere nuovamente cittadinanza e appartenenza alla chiesa. Quel che in Lutero era ben separato, nel pensiero riformato rischia di essere nuovamente confuso. Si torna a battagliare a Kappel, anche con le sole buone intenzioni di difendere il pianeta? Non vi è alcun dubbio che più di tutti nella storia del Cristianesimo siano stati prima gli anabattisti e poi i battisti a reclamare una separazione tra la comunità civile e la comunità religiosa, tra la coscienza e la spada. Anticipatori di modernità, molto più di Lutero stesso. E nello stesso tempo tanto attivi nella società almeno quanto i riformati in quell’impeto rivoluzionario che si manifestò più volte in Europa nel XVI secolo e che poi esploderà in Inghilterra e in America nei secoli successivi. I battisti portano in sé le contraddizioni sia dei luterani che dei riformati. Ma forse anche per tale motivo hanno in sé gli anticorpi.

      Quale dunque la proposta? Eccola in tre articolazioni.

  1. La prima di natura teologica: bisogna affermare che l’assoluto dono della grazia comporti           l’altrettanto assoluto obbligo dell’obbedienza, c’è una legge nella grazia!
  2. La seconda di natura filosofica: bisogna porre l’etica come filosofia prima, così come Dio agisce per primo, per primo agisce l’umano e poi riflette e quindi la fede è amore!
  3. La terza è di natura politica: nell’ottica delle posizioni espresse da Jean-Marc Ferry si può ripensare lo spazio pubblico come un luogo in cui le religioni partecipano attivamente assecondando le regole delle buone argomentazioni. Vi sono luoghi di congiunzione tra il comandamento kantiano del rispetto dei diritti e il comandamento cristiano dell’amore.

      Naturalmente qui si può fare solo un cenno.

Raffaele Volpe Riforma 13 marzo 2020

settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi

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CITAZIONI

Cristiani nella società: il valore della libertà, eguaglianza, solidarietà

     Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 26 agosto 1789, art. 1) Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, 10 dicembre 1948, art. 1)

     Tutti gli uomini, dotati di un’anima razionale e creati ad immagine di Dio, hanno la stessa natura e la medesima origine; tutti, redenti da Cristo, godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino: è necessario perciò riconoscere ognor più la fondamentale uguaglianza fra tutti (Gaudium et spes, 29, 7 dicembre 1965)

    È indubbio che il cristianesimo, fin dal suo sorgere, abbia introdotto una radicale originalità nei rapporti tra religione e società, tra appartenenza religiosa e appartenenza alla polis. Quando Gesù ha insegnato che occorre «rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12, 17 e par.), è stata affermata una distinzione tra potere politico ed evento cristiano capace di scuotere in profondità i rapporti sociali e la vita della collettività. E a questo proposito si deve confessare che i cristiani stessi non sempre hanno saputo trarre le dovute conseguenze da questa parola di Gesù: il loro rapporto con la società ha trovato soluzioni molto diverse nella storia, diventando, di volta in volta, occasione di incontro, di confronto, talora addirittura di scontro tra Chiesa e società civile.

     Se ripercorriamo brevemente la storia del cristianesimo, troviamo alle origini un atteggiamento dei cristiani che poteva apparire di astensione, di fuga rispetto alla polis. Nei primi tre secoli i cristiani riconoscono la legittimità dell’impero romano – Tertulliano, per esempio, assicura che i cristiani pregano incessantemente perché nella società regnino pace, giustizia e ordine sociale, e pregano dunque anche per le autorità politiche – ma la loro lotta anti-idolatrica provoca diffidenza nei loro confronti. Sovente essi si rifiutano di fare parte dell’esercito imperiale, si astengono dal partecipare all’amministrazione civile, si mostrano critici verso i costumi e le consuetudini sociali della polis: ciò spiega le persecuzioni che si abbattono su di loro a fasi alterne durante i primi secoli della nostra era.

      Secondo la testimonianza di Origene (240 ca.), Celso accusa i cristiani in questi termini: Celso ci esorta a partecipare al governo della patria, quando ciò sia necessario, e a fare questo per la salvezza delle leggi e della pietas. Ma noi, in qualunque città abitiamo, conosciamo una specie diversa di patria, fondata sulla parola di Dio […]. Non è per sfuggire ai doveri civili di questa esistenza che noi cristiani ci asteniamo da certe responsabilità, ma per dedicarci a un servizio più santo.

    Un bellissimo testo della stessa epoca, la Lettera a Diogneto, parla dei cristiani come «anima nel mondo», legge tutta la loro solidarietà con la compagnia degli uomini, mostra una visione positiva della società e una simpatia con la storia degli uomini, pur non chiedendo ai cristiani di partecipare direttamente alla costruzione della città terrena. Basti citare un passo assai noto di questo piccolo capolavoro: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di vita […]. Ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati. Mettono in comune la mensa ma non il letto.»

     In questo brano appare molto chiara la differenza dei cristiani, che risulta dal loro essere una minoranza all’interno di una società pagana; una minoranza che sa vivere con simpatia tra i non cristiani e che, nel contempo, è consapevole di poter offrire un contributo specifico su un tema per lo più sconosciuto al mondo circostante: il tema della concreta condivisione dei beni, strumento per trascendere le differenze e le disuguaglianze sociali.

     Ma all’inizio del IV secolo la Chiesa, con il battesimo dell’imperatore Costantino, dà origine alla cristianità, in cui potere politico e religioso non saranno quasi mai identificati, ma ove il potere – l’universalis potestas – è pensato, proclamato e percepito come cristiano: è il lungo periodo del compromesso tra Chiesa e potere politico in occidente e, specularmente, del monolitismo teocratico in oriente. E così la Chiesa, da perseguitata, finisce per trovarsi nella posizione di chi convive con il grande potere imperiale diventato cristiano, traendone anche benefici. Mi piace ricordare la reazione a questa nuova situazione da parte di Ilario, vescovo di Poitiers, che nel 360 scrive: «Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga […]. Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni, dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci dà la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro.»

     Dal V all’XI secolo, poi, la Chiesa si trova investita di funzioni di supplenza, a causa della caduta dell’impero romano d’occidente e dell’«emergenza barbarica», fino ad assumere un potere che si manifesterà sempre più come temporale: essa commette così il peccato di non dare più a Cesare quello che è di Cesare, ma di pretendere per l’autorità religiosa anche la funzione politica.

    Ma la storia avanza e questa compromissione conosce significative contraddizioni. A partire dal XVI secolo, in particolare, inizia un percorso di autonomia delle sfere umane rispetto a quelle di competenza della religione e a qualsiasi riferimento al trascendente. Mentre la cristianità, ossia quell’identità tra società e Chiesa nata con la pax constantiniana, va in frantumi, la scienza rivendica un’autonomia della ragione scientifica rispetto alla verità della religione; la politica rivendica la sua alterità, soprattutto dopo le sanguinose guerre di religione, ed elabora un diritto fondato su base razionale, non più religiosa; anche la morale, seppur più lentamente, cerca una sua fondazione autonoma rispetto a qualsiasi riferimento trascendente. È l’epoca della modernità, in cui la laicità appare come il frutto del processo di secolarizzazione, cioè del progressivo allontanamento dall’influsso della religione cristiana sulla vita della società.

    Questo processo è stato vissuto, soprattutto nei Paesi cattolici, mediante una forte contrapposizione tra le idee propugnate dall’Illuminismo, diffuse anche dalla rivoluzione francese, e la tradizione cattolica, con esiti molto diversi da nazione a nazione. In Francia la laicità si è posta in termini non solo di separazione tra Stato e Chiesa, ma anche di esclusione dallo spazio politico di ogni riferimento religioso, con la conseguenza di relegare l’appartenenza religiosa e la sua espressione nella sfera privata. In altri Paesi, come l’Italia e la Spagna, il rapporto tra Stato e Chiesa è stato segnato da vicende alterne, in cui il cattolicesimo ha cercato di ergersi a religione di Stato, accarezzando ancora l’ipotesi di uno Stato confessionale. Per restare all’Italia, con la caduta del potere temporale della Chiesa e la fine dello Stato pontificio, i cattolici sono stati indotti ad astenersi dal partecipare alle istituzioni di uno Stato che aveva negato alla Chiesa il suo secolare potere politico.

     Negli stessi anni, però, si è aperta una nuova fase in cui è maturata poco per volta una necessaria distinzione degli ambiti: da parte della Chiesa è apparsa possibile la rinuncia alla propria egemonia normativa, da parte dello Stato la rinuncia a porsi in posizioni di scontro rispetto alla Chiesa. È stata una stagione in cui i cristiani hanno dovuto inventare modi di partecipazione alla vita della polis, mentre la Chiesa ha formulato la «dottrina sociale» per dare un’ispirazione conforme alla fede a questa inedita forma di partecipazione dei cristiani alla storia e al mondo. Insomma, è maturata una giusta separazione tra Stato e Chiesa, ma anche una presenza dei cristiani nella politica, nella vita sociale, nella lotta per la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, la libertà. E così, nell’ora del Concilio Vaticano II e negli anni immediatamente successivi, i cristiani hanno formulato un giudizio ampiamente positivo su questo processo di secolarizzazione e di scoperta della laicità dello Stato, come testimonia, per es., l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi. Ed è stato lo stesso Paolo VI a leggere nella fine del potere temporale della Chiesa un evento provvidenziale, in quanto ha reso la Chiesa stessa più evangelica e ha abilitato i cristiani alla costruzione della polis insieme agli altri uomini.

     A mio avviso, si è trattato di una stagione di cui oggi non siamo purtroppo ancora in grado di fare una lettura intelligente; ma un giorno sarà possibile con fierezza divenire consapevoli dell’apporto che i cristiani, e i cattolici in particolare, hanno dato all’idea e alla costruzione dell’Europa, allo sviluppo della democrazia nel nostro Paese, all’emergere di valori legati alla difesa e alla promozione della persona umana.

      I cittadini e l’uguaglianza. In questa storia della presenza dei cristiani nella società, quale apporto essi hanno fornito riguardo al valore dell’uguaglianza?

    È indubbio che i cristiani abbiano sempre confessato l’uguale dignità dell’uomo e della donna, così come di ogni essere umano, a qualunque etnia, lingua o popolo appartenga. E questo perché le Sante Scritture affermano, fin dalla prima pagina del libro della Genesi: «Dio creò il terrestre a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). E quando il cristianesimo si è inculturato nel mondo greco-romano ha anche ereditato il diritto di uguaglianza forgiato da quella cultura, l’isonómia [eguaglianza di fronte alla legge,], principio che informava di sé la vita della polis. Di più, in nome della fede cristiana Paolo è giunto a dichiarare che, dopo l’evento Gesù Cristo, tutti gli esseri umani sono «originalmente» uguali: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Ecco perché le differenze di etnia, di classe e di sesso nello spazio ecclesiale sono superate per mezzo della caritas, quell’amore unilaterale che non esige neppure di essere corrisposto. In tal modo il cristianesimo ha favorito quel processo per cui il principio dell’uguaglianza è giunto a riguardare davvero tutti gli appartenenti alla polis, non solo i civites ma anche i barbari; va riconosciuto che, soprattutto nell’ora della pressione da parte dei barbari ai confini della civitas romana, i cristiani hanno saputo dare un grande contributo, riconoscendo l’uguaglianza dei diritti a tutti quelli che entravano a far parte di quello spazio civile.

    D’altra parte, occorre purtroppo ammettere che ben presto, già a partire dalla fine del IV secolo, il cristianesimo è stato foriero di disuguaglianza: infatti coloro che restavano fedeli alla religio dei padri, al paganesimo, venivano privati dell’uguaglianza con i civites, ormai identificati esclusivamente con cristiani appartenenti alla grande Chiesa… Insomma, se nel 313 il cristianesimo era divenuta religio licita, religione lecita al pari dei culti pagani, nel 392 l’imperatore Teodosio I, influenzato anche da Ambrogio, emise a Milano un editto che stabiliva la messa al bando di qualunque sacrificio pagano pubblico o privato, e vietava per la prima volta l’accesso ai santuari e ai templi e l’adorazione di statue. In quel testo si afferma, tra l’altro, che chi praticava la religione dei romani doveva essere accusato di lesa maestà: era reus majestatis, reus violatæ religionis.

    Durante il «regime di cristianità», di fatto, i cristiani accettarono di convivere con le disuguaglianze che segnavano la società: disuguaglianza uomo-donna, disuguaglianze economiche, disuguaglianze giuridiche; essi accettarono persino la disuguaglianza religiosa, la cui conseguenza più nefasta fu quella di rendere vittime gli ebrei, gli eretici, i pagani, quanti cioè erano extra ecclesiam. L’annuncio del Vangelo continuava ad affermare l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma in realtà si accettava e si instaurava la disuguaglianza in nome di una sua interpretazione restrittiva, che non riconosceva uguali diritti e uguale dignità a chi non apparteneva alla societas cristiana… E qui occorre ricordare che lungo tutto il Medioevo solo gli ideali monastici hanno permesso di tenere viva l’esigenza dell’uguaglianza tra barbari e latini, tra nobili e appartenenti alle classi sociali più basse, tra ricchi e poveri. Nella vita cristiana secolare, invece, il magistero restava chiuso nello schema dell’«uguaglianza proporzionale», che riconosceva a ciascuno solo ciò che gli era dovuto in base al suo rango, in base all’ordo e alla potestas accordatigli dal consesso civile.

     Alle nuove esigenze spirituali di uguaglianza, emerse anche grazie alle istanze sollevate dalla Riforma, la Chiesa cattolica reagirà in modo sordo e negativo, fino a esprimere un magistero difensivo e apologetico, che condannerà la «modernità», soprattutto in seguito all’emergere di dottrine riguardanti proprio la libertà e l’uguaglianza: basterebbe ricordare come in quei secoli il cristianesimo si sia macchiato della pratica della schiavitù, giustificandola anche a livello giuridico. Tra il XVIII e il XIX secolo si consumerà dunque un grave scontro tra le Chiesa e il pensiero liberale e illuministico: come dimenticare in proposito la condanna ecclesiastica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, enunciata a Parigi dall’Assemblea Nazionale nel 1789? Sì, va detto con chiarezza: se in quei secoli c’è stata affermazione del diritto di uguaglianza, questo è avvenuto fuori dello spazio cattolico, e con una dura opposizione della Chiesa, che ha conosciuto il suo apice nel magistero di Pio IX, sintetizzato nel Sillabo del 1864.

     Il rapporto tra Chiesa e società civile oggi. Quale rapporto si può cogliere tra Chiesa e società civile in quest’ora della «globalizzazione», nell’ora della percezione sempre più diffusa del mondo come «villaggio globale»? Come si collocano oggi i cristiani nella società?

     Possiamo dire con sicurezza che l’autonomia tra Chiesa e Stato è un dato accettato ormai da tutti, almeno in occidente; la definizione della laicità dello Stato richiede però una continua revisione, per i mutamenti e le dinamiche accelerate nella società odierna. Di fatto la laicità va costantemente ridefinita, proprio tenendo conto di alcuni nuovi elementi socio-culturali.

     Innanzitutto occorre tener presente che siamo in una nuova fase della secolarizzazione, in cui si registra l’emergenza del soggetto, dell’individuo, che si percepisce come autoreferenziale, unicamente teso a realizzare il proprio desiderio e incentrato sul proprio interesse: i desideri di questo soggetto tendono ad essere sentiti come «diritti» dell’individuo. Zygmunt Bauman descrive giustamente la nostra società come società di «turisti consumatori», in cui vige il primato del «fare esperienze», del perseguire il proprio desiderio in modo narcisistico. È una società senza un orizzonte comune, senza la preoccupazione della solidarietà e della percezione dell’altro in vista di un bene comunitario: individualismo indifferente ed edonismo egoista tendono a richiedere da parte dello Stato il riconoscimento di pretesi «diritti» che pongono la politica in congiunture finora inedite.

      Un novum molto appariscente è poi la sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla fede; in Italia tale condizione è però difficile da misurare, perché il 90% dei cittadini si dichiara cattolico, ma solo il 25% ha una prassi almeno domenicale di partecipazione alla vita cristiana.

     Questa condizione di minoranza è inoltre accentuata dal pluralismo delle religioni e delle culture ormai vistosamente presenti nella nostra società, un fenomeno che caratterizza in modo crescente la popolazione delle nostre città. Tale situazione di pluralismo di fedi, di visioni del mondo e, soprattutto, di etiche diverse, investe i vari livelli del rapporto tra fede e ragione, compreso il concetto di uguaglianza, causando reazioni di paura, sospetto, scontro.

    In altre parole, come custodire e approfondire l’identità cristiana senza cadere in atteggiamenti di chiusura preconcetta e di rifiuto, di intolleranza e di rigetto? E come vivere questa volontà di incontro, questa possibilità di dialogo, senza cadere nella tentazione secondo cui «una religione vale l’altra», abdicando così anche alla propria storia e tradizione? Il problema non riguarda solo l’identità della fede cristiana, ma anche quella culturale di un popolo: in entrambi questi ambiti si assiste al fiorire di atteggiamenti ispirati da paura, da difesa di una identità definita una volta per sempre, quasi che ogni identità personale e culturale non si costruisse attraverso l’incontro e il confronto con gli altri!

    Infine, un altro aspetto che costituisce come il quadro di fondo della situazione attuale è l’enorme capacità tecnologica causata dai progressi della scienza. Le conquiste scientifiche hanno portato l’uomo a un potere impensato e dai limiti sconosciuti: si è giunti fino alla possibilità di creare con mezzi tecnologici l’uomo stesso e, specularmente, a quella di distruggere l’umanità e la vita sulla terra. Si pensi, per es., alle potenzialità che la scienza oggi possiede in ordine alla determinazione del nascere e del morire di ogni uomo… Anche questa situazione richiede una ridefinizione della laicità dello Stato, il quale è chiamato a legiferare sovente su materie che dividono e contrappongono le etiche e le fedi presenti nella società.

     Nel febbraio del 2005 Giovanni Paolo II, in occasione dell’anniversario della legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato promulgata in Francia nel 1905, scriveva ai vescovi francesi:

«Il principio di laicità, se ben compreso, appartiene alla dottrina sociale della Chiesa. Esso ricorda la necessità di una giusta separazione dei poteri […]. La non confessionalità dello Stato permette a tutte le componenti della società di lavorare insieme al servizio di tutti e della comunità nazionale […]. La laicità, lungi dall’essere un luogo di scontro, è realmente l’ambito per un dialogo costruttivo, nello spirito dei valori di libertà, di uguaglianza e di fraternità

     Nonostante queste affermazioni così chiare e decisive, noi assistiamo in realtà sempre di più ad atteggiamenti che finiscono per causare scontro e polemica tra Stato e Chiesa, tra cristiani e non cristiani, tra i laici non cristiani e alcune porzioni di Chiesa, proprio su come siano da intendere la laicità e l’uguaglianza dei diritti di quanti appartengono alla polis. Negli ultimi anni è in atto anche una ripresa dell’anticlericalismo, atteggiamento che è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano.

     Conclusione. La “differenza cristiana”. Alla Chiesa è chiesto di stare nel mondo, nel pieno degli impegni e delle problematiche, con umiltà e intelligenza, senza pregiudizi né atteggiamenti ideologici, e senza logiche di inimicizia. Di certo, nell’opera di edificazione della polis che li accomuna agli altri uomini, i cristiani non hanno certezze o ricette: il Vangelo non fornisce formule magiche in base alle quali indicare la via che conduce infallibilmente alla realizzazione degli obiettivi di una polis. L’obbedienza creativa al Vangelo abilita invece il cristiano a immergersi nella storia, nella compagnia degli uomini, portando sempre un messaggio profetico, un messaggio per l’uomo.

     Tale atteggiamento dovrebbe manifestarsi anche a proposito del tema dell’uguaglianza: non si dimentichi che nelle comunità cristiane delle origini vi è stata l’abilità di tradurre il messaggio dell’agape, dell’amore, in concreti atteggiamenti di uguaglianza. Basterebbe leggere i cosiddetti «sommari» degli Atti degli apostoli (cfr. At 2, 42-45; 4, 32-35; 5, 12-16), per comprendere come l’uguaglianza non fosse affermata solo in termini di dignità umana, ma anche a livello materiale: «Tutto era tra loro comune e a ciascuno era dato secondo il suo bisogno» (cfr. At 4, 32.35). Nessun egualitarismo, certo, ma una dinamica feconda in cui l’uguaglianza contrassegna la comunità cristiana e appare come una realizzazione visibile della forma della koinonia richiesta dal Vangelo.

     Ebbene, in una società come la nostra, caratterizzata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, i cristiani sono chiamati a vivere una differenza proprio nella qualità delle relazioni, divenendo quella comunità alternativa che esprima, a favore di tutti gli uomini, la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco. In questo consiste a mio avviso la «differenza cristiana», una differenza che chiede oggi alla Chiesa di saper dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal Vangelo: nella costruzione di una vera communitas il cristianesimo mostra la propria eloquenza e il proprio vigore, e dà un contributo peculiare alla società civile in cerca di progetti e idee per l’edificazione di una città veramente a misura d’uomo. Né si può dimenticare che proprio con la capacità di originare forme di vita comunitaria, inventando strutture di governo ispirate a corresponsabilità, rapporti di autorità vissuti come servizio, il cristianesimo mostra la sua vitalità storica e svolge un’importante diaconia per la società civile.

      Questa «differenza cristiana», infine, deve esprimersi soprattutto nell’attenzione ai poveri, agli ultimi: Gesù ha infatti detto con chiarezza che saranno proprio i poveri il metro del giudizio finale (cfr. Mt 25, 31-46). Di più, per noi cristiani i poveri sono certamente il sacramento di Cristo (cfr. 2Cor 8, 9), ma sono anche «il sacramento del peccato del mondo»9, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra fedeltà al Signore e il nostro vivere nel mondo quale corpo di Cristo.

     Sì, a mio avviso è decisivo che i cristiani oggi si esercitino più che mai, insieme agli altri uomini, nel cercare vie in cui l’uguaglianza dei diritti e della dignità delle persone, l’uguaglianza economica, l’uguaglianza di tutti i cittadini, a qualunque fede o etica appartengano, possa trovare realizzazione nella polis: su questo si gioca ancora una volta la loro fedeltà al Vangelo.

Enzo Bianchi      La rivista Il Mulino 2007, ripreso 24 dicembre 2019

www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4980

 

 

 

 

 

CONIUGI

Diritti del coniuge separato

La legge sul divorzio prevede che, prima di arrivare al definitivo scioglimento del matrimonio, è necessario passare per un gradino intermedio: la separazione. Dopo di ché bisogna aspettare sei mesi (se si è proceduto con separazione consensuale) o un anno (se si è proceduto con separazione giudiziale) per avviare il divorzio vero e proprio. In questo periodo si vive in una sorta di limbo in cui non si è più sposati, ma nello stesso tempo neanche si può dire di aver tagliato tutti i legami con l’ex. Dunque è normale chiedersi: quali sono i diritti del coniuge separato?

Il coniuge separato può vivere da solo? Una delle principali caratteristiche della sentenza di separazione è costituita dall’autorizzazione a vivere separati e quindi a interrompere l’obbligo di convivenza. In teoria i coniugi potrebbero allontanarsi l’uno dall’altro già dal momento del deposito del ricorso di separazione. Un comportamento del genere non potrebbe essere considerato come “abbandono del tetto coniugale”, in quanto giustificato proprio dalla volontà di separarsi. Ciò non toglie però che il coniuge più benestante dovrà garantire all’ex i mezzi di sostentamento (ossia i soldi) se questi non è in grado di procurarseli. Tanto più se ci sono figli minori. Quindi il primo diritto del coniuge separato è quello di andare a vivere da solo.

            Il coniuge separato però non ha alcun diritto sulla casa coniugale se non è il giudice ad accordargli tale prerogativa. E, come noto, la casa può essere assegnata solo in presenza di figli minori o maggiorenni non ancora autosufficienti, in favore del genitore presso cui questi vanno a vivere.

Il coniuge separato ha diritto a iniziare una nuova relazione? Con la separazione cessa anche il dovere di fedeltà. Quindi ciascun coniuge può iniziare una nuova relazione con un’altra persona. Attenzione però: se questa relazione dovesse essere stabile e fondata sulla convivenza non sarà più possibile chiedere l’assegno di mantenimento, neanche se il coniuge in questione è disoccupato e privo di reddito.

Il coniuge separato ha diritto al mantenimento? Il coniuge separato ha diritto all’assegno di mantenimento solo se il suo reddito è inferiore a quello dell’ex e le sue condizioni economiche non gli consentono di procurarsi di che vivere. Chi invece è giovane e ha una formazione viene sempre più spesso penalizzato nelle aule di tribunale. Oggi infatti la giurisprudenza richiede a ogni coniuge un minimo di “intraprendenza” per trovare una nuova occupazione.

Attenzione però: il mantenimento non spetta al coniuge che ha violato le regole del matrimonio e che, così facendo, ha decretato la fine dell’unione. Il giudice cioè pronuncia il cosiddetto addebito nei confronti di chi ha tradito, si è allontanato dalla casa coniugale, si è macchiato di atti di violenza fisica o psicologica, ecc. Il solo fatto di ammettere di non essere più innamorato non è considerato una colpa e non comporta l’addebito.

            Per ottenere il mantenimento si può chiaramente trovare un accordo in sede di separazione consensuale o attendere che sia il giudice a pronunciarlo nel corso della prima udienza e in attesa della sentenza definitiva.

            Con il divorzio è molto più difficile, oggi, ottenere l’assegno di mantenimento

Il coniuge separato ha diritto all’eredità? Quando una coppia si separa, non cessano i diritti ereditari. Per cui, se un coniuge muore dopo la separazione, l’ex ha diritto di successione insieme ai figli. Questo diritto non spetta solo nel caso in cui il coniuge superstite abbia subito l’addebito cioè sia stato dichiarato responsabile per la fine del matrimonio. Dal divorzio invece cessano definitivamente tutti i diritti ereditari.

Il coniuge separato ha diritto alla pensione di reversibilità? Con la sentenza di separazione, il coniuge separato può pretendere dall’Inps la pensione di reversibilità dell’ex. La si può rivendicare anche nell’ipotesi in cui il coniuge superstite rinunci all’eredità dell’altro (magari in presenza di una situazione debitoria particolarmente elevata). Di recente la Cassazione ha detto che la pensione di reversibilità spetta anche al coniuge separato con addebito [Cass. sent. n. 2606/2018].

Anche con il divorzio si ha diritto alla pensione di reversibilità dell’ex coniuge ma solo per una quota. Questa quota viene ad esempio divisa con l’eventuale seconda moglie. La stessa viene determinata sulla base di una serie di parametri come, ad esempio, la durata del matrimonio, la sussistenza di un assegno di mantenimento, le condizioni economiche.

Il coniuge separato ha diritto al Tfr? Le cose vanno diversamente per quanto attiene al Tfr, il trattamento di fine rapporto che viene erogato alla cessazione del rapporto di lavoro. Al coniuge separato non spetta il Tfr dell’ex. Invece, dopo il divorzio, spetta una quota del Tfr (di norma il 40%) solo se il coniuge:

  1. È titolare dell’assegno di mantenimento e sempre che detto mantenimento non sia stato pagato con un unico assegno (cosiddetta «una tantum»);
  2. Non si è risposato;

 La giurisprudenza ha infatti precisato che il diritto alla quota del Tfr dell’altro coniuge sorge solo quando l’indennità sia maturata al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio, ma non anche quando sia maturata precedentemente ad essa [Cass. sent. n. 1348 del 31.01.2012].

            Pertanto, se il coniuge separato cessa di lavorare dopo la pronuncia di separazione ma prima dell’instaurazione del giudizio di divorzio, egli di fatto può disporre liberamente delle somme ricevute a titolo di indennità di fine rapporto e l’altro coniuge non può pretendere alcunché, anche se titolare di assegno di mantenimento.

Diritti a frequentare i figli. Anche il coniuge separato ha diritto a mantenere solidi rapporti con entrambi i figli. Il fatto che il giudice non abbia ancora decretato il calendario delle visite non vuol dire nulla: l’ex infatti, presso cui i figli vivono, non può impedire il diritto di frequentazione dell’altro genitore, diritto che spetta naturalmente, a prescindere dalla pronuncia del tribunale. Il giudice può solo regolamentare tale diritto. Se uno dei due genitori si frappone al diritto di visita o mette i figli contro l’altro genitore può perdere l’affidamento condiviso.

Diritto all’affidamento condiviso dei figli. Ogni genitore ha diritto a partecipare alle scelte più importanti della vita dei figli. Questo diritto si manifesta con il cosiddetto «affidamento condiviso». Solo in casi di particolare gravità, pericolosità e indegnità del genitore può essere disposto l’affidamento esclusivo in favore di un solo genitore.

Redazione La legge per tutti              4 marzo 2020

www.laleggepertutti.it/373569_diritti-del-coniuge-separato

 

Quando cessa l’obbligo di fedeltà coniugale?

Quando marito e moglie decidono di separarsi devono farlo con una delle tre procedure previste dalla legge: in tribunale, in Comune oppure con un contratto firmato dinanzi ai rispettivi avvocati (cosiddetta “negoziazione assistita”). Da quel momento scattano una serie di conseguenze come, ad esempio, la cessazione dell’obbligo di convivenza e di fedeltà.

            Ciò nonostante è possibile avere una relazione con un’altra persona ancor prima di questa fase. Succede ad esempio quando la coppia è già in crisi conclamata.

Cosa comporta la violazione dell’obbligo di fedeltà? Prima di spiegare quando cessa l’obbligo di fedeltà coniugale chiariamo quali sono le conseguenze di un tradimento commesso durante il matrimonio.

L’infedeltà è un illecito sanzionato solo dalle norme del diritto di famiglia. Non costituisce quindi né un reato, né una violazione di tipo amministrativo. Le uniche sanzioni sono:

  1. La perdita del diritto al mantenimento;
  2. La perdita dei diritti successori in caso di morte dell’ex dopo la separazione.

Chi viene scoperto a tradire il coniuge e proprio per ciò si separa viene dichiarato responsabile dal giudice che pronuncia il cosiddetto addebito: pertanto non può ottenere gli alimenti neanche se povero, disoccupato e privo di reddito. Nessuna ripercussione ha invece l’infedeltà in tema di affidamento dei figli (che resta congiunto) e sul diritto di visita agli stessi.

Eccezionalmente la giurisprudenza ha ammesso la possibilità di esigere un risarcimento dal coniuge infedele solo quando la sua condotta si sia risolta in un danno all’immagine del soggetto tradito: si pensi a una relazione adulterina consumata alla luce del giorno, con conseguente pregiudizio della reputazione dell’ex.

            Non sono però dovuti risarcimenti per la sofferenza interiore patita dal coniuge tradito.

Quando cessa l’obbligo di fedeltà coniugale? Nel caso di separazione consensuale, l’obbligo di fedeltà cessa dal momento in cui i coniugi firmano l’atto di separazione dinanzi ai giudici, al sindaco o ai rispettivi avvocati (a seconda della procedura prescelta).

            Nel caso invece di separazione giudiziale, fatta cioè con una regolare causa, l’obbligo di fedeltà cessa dopo la prima udienza, quando il presidente del tribunale, tentata la conciliazione, emette i provvedimenti provvisori e autorizza le parti a vivere separatamente.

Dunque, possiamo dire che la fedeltà cessa nel momento in cui viene ufficializzata la separazione. Prima invece di questo momento, l’infedeltà può essere causa di addebito.

Si può tradire prima della separazione senza conseguenze? Ciò nonostante la giurisprudenza della Cassazione ha spiegato che l’infedeltà non comporta l’addebito, anche prima della separazione, se viene accertato che essa non è stata l’effettiva causa della separazione della coppia. Se viene provato che marito e moglie avevano già intenzione di separarsi, o che la loro relazione era comunque profondamente in crisi tant’è che non avevano più alcun rapporto, l’infedeltà non implica conseguenze legali. Ciò vale, a maggior ragione, se le parti hanno già depositato il ricorso di separazione e sono in attesa che il giudice fissi l’udienza.

            L’unica differenza di una “relazione parallela” consumata dopo la separazione (e che pertanto non potrebbe neanche definirsi tradimento) e una invece verificatasi prima sta nel fatto che, in quest’ultimo caso, spetta al coniuge infedele dimostrare che la crisi della coppia era già in atto.

            In buona sostanza, si può tradire prima della separazione solo a patto di poter dimostrare, in un successivo giudizio, che il matrimonio era già definitivamente rotto per altri motivi. Motivi che potrebbero ad esempio essere un precedente tradimento dell’altro coniuge, o l’abbandono da parte di questi della casa coniugale, o l’essere stati vittima di violenze verbali o psicologiche, o infine il semplice fatto di non andare più d’accordo e di aver interrotto anche i rapporti sessuali.

            Ecco alcuni esempi in cui l’infedeltà non è causa di addebito.

  • Marco e Maria depositano l’atto di separazione. In attesa dell’udienza, Maria si vede con un nuovo ragazzo con cui consuma un rapporto sessuale.
  • Marco e Maria sono sposati ma un bel giorno Marco lascia Maria da sola e non si fa più vivo. Maria inizia a convivere con un’altra persona e nel frattempo avvia la causa di separazione.
  • Maria ha un atteggiamento sclerotico a casa, si sottrae sempre alle richieste di atti sessuali e litiga sempre con il marito Marco. Quest’ultimo, di recente, ha iniziato a dormire sul divano. I vicini sentono sempre le liti tra i coniugi. Marco, un giorno, manifesta a Maria la volontà di separarsi. Qualche settimana dopo inizia una relazione con un’altra donna.
  • Marco picchia Maria, la umilia e le fa mancare i mezzi di che vivere. Maria è esausta e trova conforto tra le braccia di un altro uomo.

Ecco invece alcuni esempi in cui l’infedeltà è causa di addebito, ossia costituisce una colpa che causa la perdita del diritto al mantenimento e dei diritti di eredità.

  • Giovanna scopre Mario che la tradisce. Ciò nonostante lo perdona. I due hanno anche un figlio. Qualche tempo dopo Mario scopre Giovanna che lo tradisce. Giovanna subisce l’addebito non potendo imputare la fine del matrimonio al pregresso comportamento del marito, ormai perdonato.
  • Luca scopre la moglie Ludovica intrattenere una chat segreta con una persona su internet. I messaggi sono inequivoci e lasciano intravedere un coinvolgimento passionale. Ludovica sostiene di non aver mai visto Luca anche se gli ha confessato di essersene invaghita. Ludovica è comunque responsabile di infedeltà.

Redazione La legge per tutti              4 marzo 2020

www.laleggepertutti.it/373587_quando-cessa-lobbligo-di-fedelta-coniugale

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DALLA NAVATA

III Domenica di quaresima – Anno A – 15 marzo 2020

Esodo              17, 07.  Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»

Salmo                   94, 08. «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

Romani                05, 08. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

Giovanni             04, 13. Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”.

 

Il Signore mette in tutti una sorgente di bene

Gesù e una donna straniera, occhi negli occhi. Non una cattedra, non un pulpito, ma il muretto di un pozzo, per uno sguardo ad altezza di cuore. Con le donne Gesù va diritto all’essenziale: “Vai a chiamare colui che ami”. Conosce il loro linguaggio, quello dei sentimenti, della generosità, del desiderio, della ricerca di ragioni forti per vivere. Hai avuto cinque mariti. Gesù non istruisce processi, non giudica e non assolve, va al centro. Non cerca nella donna indizi di colpa, cerca indizi di bene; e li mette in luce: hai detto bene, questo è vero.

Chissà, forse quella donna ha molto sofferto, forse abbandonata, umiliata cinque volte con l’atto del ripudio. Forse ha il cuore ferito. Forse indurito, forse malato. Ma lo sguardo di Gesù si posa non sugli errori della donna, ma sulla sete d’amare e di essere amata. Non le chiede di mettersi in regola prima di affidarle l’acqua viva; non pretende di decidere per lei, al posto suo, il suo futuro. È il Messia di suprema delicatezza, di suprema umanità, il volto bellissimo di Dio.

Ermes Ronchi, OSM

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-15-marzo-2020-p-ermes-ronchi

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ENTI TERZO SETTORE

    Bobba: due proposte per dare ossigeno al Terzo settore

L’intervento dell’ex sottosegretario al Welfare

La ministra Nunzia Catalfo ha annunciato che nel decreto del Governo per sostenere famiglie e imprese saranno ricompresi tra i destinatari di interventi di Cassa integrazione anche le persone che operano alle dipendenze di Enti del Terzo settore. E’ una misura importante ed urgente per evitare che i danni di questa drammatica crisi si scarichino proprio su quelle organizzazioni e su quelle persone che rappresentano un presidio di solidarietà e un motore di inclusione sociale. Garantire le attività di interesse generale degli Enti non profit diventa uno degli obiettivi primari per consentire di proseguire senza soluzione di continuità il sostegno alle fasce più fragili della popolazione, le prime che si ritroveranno a subire le conseguenze economiche dell’emergenza. Per fare questo occorre rapidamente trovare fondi per mantenere il livello di operatività dell’intero comparto sociale.

            Per molti enti stanno venendo meno i mezzi finanziari di sostegno per le attività principali e, quelle secondarie che finora hanno garantito entrate utili, sono al momento ferme. In attesa di capire quando e in che misura si riattiveranno i canali finanziari derivanti dalle erogazioni dei privati, occorre avviare una riflessione su quali risorse pubbliche è possibile sbloccare nel breve tempo. Insieme alle altre misure annunciate, è possibile partire nel frattempo da alcune opportunità legate alla possibilità di sbloccare alcune risorse già esistenti che richiederebbero in primo luogo lo snellimento di procedure amministrative e anche qualche piccolo intervento normativo.

  1. In primo luogo ci riferiamo al 5 per 1000. Non e’ noto a tutti che, dalla sua istituzione (2006) ad oggi, ogni anno alcune centinaia di soggetti iscritti alla Agenzia delle Entrate nel Registro del 5‰ – pur ritrovandosi assegnata una quota del Fondo in ragione delle opzioni effettuate dai contribuenti -, si “dimenticano” di inviare al Ministero del Lavoro i dati necessari per vedersi erogata la somma spettante. Può sembrare paradossale, ma è così! Ai sensi della legislazione in vigore, il diritto a riscuotere il credito è esercitabile fino a 10 anni. Ora con una piccola modifica legislativa, da inserire in uno dei decreti relativi al Coronavirus, si potrebbe pensare ad una modalità per rendere disponibili quelle somme. La riduzione dei termini di prescrizione, sicuramente efficace, potrebbe forse presentare profili di incostituzionalità. In alternativa, si potrebbe prevedere una rivisitazione della procedura di erogazione delle somme derivanti dal 5‰ allo scopo di attribuire a tutti gli Enti che non hanno riscosso il credito, il diritto di procedere alla comunicazione dei dati entro un congruo termine. In caso contrario le somme si renderebbero disponibili con la possibilità, dunque, di recuperare svariate decine di milioni da riassegnare al Fondo del 5‰ dell’anno corrente; fondo che, come è noto, sostiene le attività di più di 50.000 realtà associative e di volontariato. Potrebbe essere questa anche l’occasione per accelerare l’iter di approvazione del DPCM destinato ad attuare le modifiche apportate alla disciplina del 5‰ dalla riforma del terzo settore. Il Decreto avrebbe in questa fase un valore aggiunto non indifferente, giacché potrebbe tagliare i tempi, – circa due anni – di assegnazione delle risorse agli enti. Infatti nella bozza di Dpcm era stata inserita una norma che consentiva all’Agenzia delle entrate di assegnare le somme spettanti agli enti beneficiari sulla base delle dichiarazioni dei redditi senza attendere la scadenza dei termini delle dichiarazioni integrative, come avviene purtroppo oggi.
  2. Seconda proposta. Nel luglio del 2015, nell’ambito dei provvedimenti connessi alla riforma del Terzo settore, Il Mise emanò un decreto ministeriale attraverso il quale si destinava una quota del Fondo rotativo per le imprese (FRI) anche alle imprese sociali in modo da consentire alle stesse di accedere ai finanziamenti di credito agevolato. Il Fondo istituito ha una capienza di 200 milioni di euro per interventi di credito agevolato e di 23 milioni di euro a fondo perduto. Si trattava di una misura inedita, in quanto fino ad allora le imprese sociali non potevano accedere alle misure previste invece per la generalità delle imprese. E’ un intervento alquanto incentivante poiché consente di ottenere credito ad un tasso dello 0,5% restituibile in 15 anni per importi da 200.000 euro a 10 milioni. Tale misura, partita effettivamente nel novembre del 2017, procede con una lentezza inaccettabile; a dicembre 2019 erano stati utilizzati 13.625.000 euro per credito agevolato e 370.000 per contributi non rimborsabili. Ovvero meno del 7% del fondo per il credito e circa l’1.6% della quota a fondo perduto. Quando usciremo da questa crisi, tali risorse non utilizzate potrebbero rappresentare un volano importante per nuovi investimenti sia per le imprese sociali già esistenti che per la fase di avvio delle imprese sociali nate a seguito della riforma con il D. lgs 112. Basterebbe incardinare la procedura di concessione del credito su due soli soggetti: la banca, che presenta l’istanza per conto dell’impresa sociale e che deve valutare il merito di credito; e Invitalia, presso cui è stato allocato tale Fondo pensato proprio per rafforzare le imprese sociali. Le risorse residue, pari complessivamente a circa 200 milioni, fungerebbero così da stimolo e sostegno per coloro che vorranno promuovere innovazione sociale.

 In conclusione: ricuperare le risorse “dimenticate” del 5‰ e sbloccare quelle “congelate” da un eccesso di burocrazia potrebbe costituire un primo passo importante da cui partire.

Luigi Bobba                15 marzo 2020

www.vita.it/it/article/2020/03/15/bobba-due-proposte-per-dare-ossigeno-al-terzo-settore/154463

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Sette anni di cammino con papa Francesco. Gli auguri di Bassetti

 

 

La lettera che il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti ha inviato al Papa in occasione del 7° anniversario della sua elezione al soglio di Pietro.

            Beatissimo Padre, buon anniversario! Conserviamo tra i ricordi più cari quella sera del 13 marzo di sette anni fa: il tempo era incerto, piovigginava a Roma, ma già dal mattino si percepiva nell’aria che sarebbe stata una giornata che sarebbe rimasta nel cuore per sempre. Molte persone da più parti raggiungevano piazza San Pietro con la curiosità di scoprire in diretta il colore della “fumata”.

Santità, vogliamo pensare che quegli occhi rivolti verso l’alto non fossero solo di curiosità ma anche di attesa: il popolo attendeva il Papa dall’alto e non da lontano. Guardavano in alto per scoprire la volontà di Dio, per mettere i propri occhi nel cuore di Dio e per incrociare gli occhi del Papa, anche se a distanza. In questo giorno in cui Lei ricorda il Suo anniversario ci permetta ancora di rendere grazie al Signore per i suoi innumerevoli doni.

Santità, Le vogliamo dire grazie. Per le parole, per il tono delle Sue parole, per il continuo cercare di spingersi verso il cuore dell’umanità ferita e redenta. Grazie per l’attenzione che costantemente rivolge alle persone che fanno fatica: molti ci dicono che la Sua presenza e le Sue parole sono luoghi in cui riprendere le forze per affrontare ogni giornata. Grazie perché ci ricorda che siamo doni di Dio per la vita di tutti i fratelli e le sorelle che incontriamo. Grazie per il Suo instancabile lavoro, per la freschezza delle Sue azioni, per il Suo spingersi sempre oltre quando c’è bisogno di annunciare una bellezza.

Grazie per la Sua attenzione a questo tempo complicato, fatto di emergenze e di situazioni drammatiche. Ci permetta, Santità, di affidare al Suo cuore di Padre il cammino, l’impegno e la fatica del popolo italiano. Padre Santo, preghiamo per Lei, il Signore La conservi in buona salute. Le chiediamo umilmente di pregare per la Chiesa che è in Italia, per tutti coloro che in questo momento stanno soffrendo, perché il Signore conceda a tutti la forza necessaria per ripartire.

Cardinale Gualtiero Bassetti

 

Cammino è la parola che può aiutare a comprendere questo intenso anno – il settimo – del pontificato di papa Francesco. Termine non nuovo. L’aveva impiegato nel presentarsi di fronte ai fedeli, dalla Loggia della Basilica di San Pietro: “E ora, cominciamo questo cammino: Vescovo e popolo”. Da allora lo ha ripetuto molte volte. E innumerevoli scatti ritraggono Bergoglio “in cammino”, verso e fra i fedeli. Un’immagine, in particolare, rimane indelebile. Al centro c’è il successore di Pietro, visibilmente commosso. Intorno, donne e uomini in abiti differenti, laici e religiosi, molti con il volto dipinto e perfino copricapo piumati, lo accompagnano in processione verso l’Aula Paolo VI, mescolati a vescovi e cardinali. Poco dopo, quel 7 ottobre 2019, Francesco avrebbe inaugurato i lavori del Sinodo speciale sull’Amazzonia.

Sinodo, camminare insieme. La «dimensione costitutiva della Chiesa», aveva detto Francesco nel commemorare i 50 anni di istituzione dell’Assemblea sinodale da parte di Paolo VI il 17 ottobre 2015. Concetto ripreso nella Costituzione apostolica Episcopalis communio del 2018. E vissuto nei Sinodi sulla famiglia e sui giovani. In questa cornice si inserisce l’Assemblea amazzonica nella quale, a sua volta, la sinodalità si è espressa in tutta la sua forza dirompente.

Essa – per citare Alphonse Borras – esprime la condizione di soggetto che spetta a tutta la Chiesa e a tutti nella Chiesa. Con la scelta di concentrare l’attenzione della Chiesa universale su una regione remota, apparentemente lontana, geograficamente e culturalmente, quel “tutti”, troppo spesso dato per scontato, s’è fatto realtà concreta.

            L’irruzione della periferia al centro – secondo l’espressione del segretario della Rete ecclesiale pan amazzonica, Mauricio López – non è stata facile né indolore, come le polemiche, più o meno pretestuose e scomposte, hanno dimostrato. Con questa decisione, il Papa – come afferma Alessandro Gisotti sulla rivista Palabra – ci ha obbligato ad abbandonare pregiudizi e analisi sempliciste.

            L’Amazzonia è, al contempo, luogo fisico e luogo teologico. Una regione laboratorio delle grandi sfide con cui l’umanità e il pianeta sono chiamati a confrontarsi, in termini di modello economico, capacità di gestione politica, relazioni sociali e culturali. Metafora e sacramento, cuore e polmone del mondo, l’Amazzonia è una parte vitale della totalità. Nonché fonte di ispirazione. In questo senso, scrive Francesco in Querida Amazonia è “anche nostra”. Come nostro è il grido degli indigeni, risuonato in tutto il processo sinodale. Sia nella parte di consultazione sia durante i lavori, attraverso le testimonianze dei sedici rappresentanti nativi presenti in Aula.

            Nelle loro voci, i padri sinodali hanno udito il pianto degli ultimi fra gli ultimi e quello della casa comune, ferita dalla medesima «economia che uccide», nel senso letterale del termine. In quelle lacrime fin troppo reali – che spesso hanno inumidito gli occhi dei partecipanti – la Chiesa si è messa in ascolto dello Spirito che vuole la vita, dell’Amazzonia e dell’umanità, indissolubilmente legate. Dal porgere l’orecchio e il cuore sono nati il “Documento finale” e, poi, “i quattro sogni” di Francesco, espressi in Querida Amazonia. Non compartimenti stagni, ma un processo dinamico, in cui il primato del vescovo di Roma si manifesta come ministero di accompagnamento e di discernimento. Il Sinodo amazzonico è certo figlio della Laudato si’: in quest’ultimo, però, si intrecciano l’anelito missionario di Evangelii gaudium e la riflessione sulla sinodalità di Episcopalis communio.

            Non a caso, come in parte anticipato in chiusura dei lavori, “Per una Chiesa sinodale” è il tema di riflessione scelto dal Papa per l’Assemblea del 2022. Il Sinodo amazzonico ha preparato il terreno. Divenendo uno snodo cruciale nel percorso di conversione permanente della Chiesa per essere fedele al Vangelo. Come scrive padre Víctor Codina su “La Civiltà Cattolica”: «Ai quattro famosi fiumi di Piazza Navona ideati da Lorenzo Bernini – il Nilo, il Gange, il Danubio e il Rio de la Plata – si aggiunge idealmente un quinto fiume: il Rio delle Amazzoni, luogo teologico per il respiro della Chiesa»

Lucia Capuzzi             Avvenire 13 marzo 2020

                                 www.avvenire.it/papa/pagine/sette-anni-di-pontificato-papa-francesco          

 

Giobbe in conclave

Non l’avevo mai incontrato prima di quei giorni. Ne avevo sentito parlare occasionalmente e conoscevo il suo profilo vagamente. Fu soltanto in quel piovoso pomeriggio di mercoledì 13 marzo 2013 che ci trovammo casualmente insieme da soli. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio stava attraversando la sontuosa Sala Ducale con la sua scenografia barocca: fu lì che ci incrociammo e ci fermammo a parlare, procedendo e passeggiando poi nella successiva imponente Sala Regia coi suoi affreschi vasariani non propriamente “ecumenici” (la «Strage degli ugonotti», la «Vittoria di Lepanto», la «Scomunica di Federico II»). Da lì saremmo entrati nella Cappella Sistina, ove insieme agli altri cardinali elettori partecipavamo al Conclave.

Fu lui stesso a rievocare il filo personale che ci univa e che era per me ignoto. L’incontro implicito era avvenuto proprio a Buenos Aires attraverso le mie pubblicazioni, due in particolare, un «duplice commento» al lezionario domenicale e soprattutto il vasto commentario che nel 1979 avevo elaborato su uno dei libri più sconvolgenti e misteriosi della Bibbia, quello di Giobbe. Erano quasi mille pagine, dedicate alle 8.343 parole ebraiche di quel poema, al suo linguaggio rovente e soprattutto al suo enigmatico significato ultimo, non riducibile certo alla «pazienza» tradizionalmente assegnata al protagonista, né al puro e semplice scandalo della sofferenza.

In quell’opera l’interlocutore e attore principale, anche se assente se non nell’irruzione finale, è infatti il Dio indecifrabile, simile più a un trionfatore crudele che a un padre. Un libro per certi versi inafferrabile, come aveva confessato il suo grande traduttore e interprete latino san Girolamo che non esitava a compararlo a «un’anguilla o a una piccola murena: più la stringi, più ti sfugge di mano». Un libro squisitamente teologico, destinato a demolire le false immagini di Dio contrabbandate dagli amici teologi di Giobbe coi loro freddi teoremi speculativi. Questa divagazione su uno dei testi più celebri dell’Antico Testamento — anche a livello culturale oltre che popolare (Giobbe, come san Rocco, fu il protettore di malati infetti e, quindi, si potrebbe affacciare anche nei giorni attuali del coronavirus) — fa già intuire l’interesse e la sintonia tematica dell’allora

Arcivescovo argentino.

Egli aveva, infatti, tenuto un intero corso su quest’opera così alta, drammatica e teologica, capace di dare voce al respiro di dolore che sale incessantemente dalla terra al cielo e pronta persino a denunciare processualmente Dio: «Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Il protocollo scritto dal mio Avversario me lo assumerei sulle spalle, lo cingerei come un diadema e mi presenterei davanti a lui come un principe» (31,35-37). Nel suo percorso in quelle pagine così roventi Bergoglio riconosceva di aver avuto come compagno di viaggio proprio il mio commento e, quindi, indirettamente anche me, senza che ci fosse stato un incontro esplicito.

Alle 16.30 di quel pomeriggio entrambi entravamo nella Sistina e poche ore dopo quel dialogo, l’arcivescovo di Buenos Aires sarebbe divenuto Papa Francesco. Negli anni successivi, quando il nostro rapporto era divenuto più personale e costante, ho cercato nei molteplici interventi del suo magistero papale la presenza di una figura così provocatoria. Certo, si possono individuare i rimandi diretti, anche su squarci minori dell’incessante preghiera-protesta del sofferente biblico, come accade nell’Amoris lætitia (n. 20), ove affiora «l’amara confessione di Giobbe» che sperimenta «le molteplici difficoltà familiari che solcano» la sua vita: «I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (19,13.17).

Altre volte è il grido lacerante di Giobbe, proposto nel Lezionario liturgico, un urlo insonne cristallizzato in parole simili a pietre, segnate persino da un’automaledizione: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un maschio» (3,3). Papa Francesco per due volte, nelle sue omelie del 30 settembre 2014 (per puro caso celebravo anch’io con lui quel giorno nella cappella di Santa Marta) e del 27 settembre 2016, ha sostato su questo grido che apre il poema biblico vero e proprio. E giustamente, nonostante i toni a prima vista disperati, egli lo considerava come «una preghiera speciale», nonostante abbia i colori di una maledizione, simile a quella che emetterà un ideale fratello di Giobbe, il profeta Geremia nel rovente c. 20 delle sue «Confessioni».

Per il Papa «pregare è diventare verità davanti a Dio perché la vera preghiera viene dal cuore, dal momento in cui uno vive». È «la preghiera del tempo del buio… vissuta da tanta gente che è nella situazioni di Giobbe» che si confronta con «grandi tragedie e si domanda: Ma, Signore, io ho creduto in te. Perché credere in te è una maledizione?». È una «preghiera senza speranza», lanciata verso un cielo muto e indifferente. Seguendo un’antica tradizione spirituale, Francesco accosta a Giobbe «Gesù stesso che ha percorso questa strada; dalla sera al monte degli Ulivi fino all’ultima parola dalla croce: Padre, perché mi hai abbandonato?». E continua: «Non sono bestemmie ma sfoghi», che nel libro anticotestamentario raggiungono vette di violenza espressiva estrema, incarnano «uno stato d’anima oscuro, senza speranza, diffidente, senza voglia di vivere, senza vedere la fine del tunnel, con tante agitazioni nel cuore e nelle idee». Paradossalmente Lutero, proprio commentando Giobbe, affermava che «Dio gradisce di più le bestemmie dell’uomo disperato che non le lodi compassate del benpensante la domenica mattina nel culto».

Papa Francesco continua affermando che questo «pregare con autenticità» spazza via la retorica consolatoria degli amici teologi, avvocati difensori d’ufficio di un Dio che alla fine preferisce ai loro asserti l’urlo di Giobbe. Anzi, riduce a «stupidaggini» i loro interventi e ammonisce che «quando una persona soffre ed è nella desolazione spirituale, si deve parlare il meno possibile, aiutando invece con il silenzio, la vicinanza, le carezze». Ma a questo punto la sintonia dei temi giobbici con l’insegnamento e la stessa sensibilità personale di Papa Francesco dovrebbe essere rintracciata anche nell’immenso delta ramificato dei suoi messaggi. In essi, infatti, domina una sorta di filigrana costante: è l’empatia incessante con l’anelito di dolore, di miseria, di amarezza che pervade l’umanità e di cui egli si fa interprete, anche nell’apparente silenzio di Dio.

Eschilo, il grande poeta greco, nella sua tragedia I Persiani, era convinto che nessuna divinità porga orecchio alla voce lancinante del sofferente. Giobbe, alla fine, riceverà invece una risposta, mentre il cristianesimo andrà oltre e vedrà in Cristo il Figlio di un Dio che scende sulla terra e si pone spalla a spalla coi tanti disperati della terra, assumendo in pienezza quella particolare «carta d’identità» dell’umanità che è il dolore e la morte. Di fronte all’Olimpo e al Fato greco “apatici”, il Dio cristiano è “patetico” e di questo «pathos» divino, che è condivisione misteriosa e misericordiosa, Papa Francesco ne è testimone appassionato, come sanno le folle che da sette anni accorrono ad ascoltare la sua parola o che meditano i suoi testi.

Riguardo al settenario di anni del suo pontificato la mia è una piccola e marginale attestazione. Col nostro dialogo, Giobbe, in quelle ore decisive nella storia della Chiesa, era anche lui idealmente entrato in Conclave. Ne è poi uscito con la voce — più pacata e con tonalità minore, ma con altrettanta carica interiore — di Papa Francesco. Egli è consapevole — come scriveva (nella folla degli autori che nei secoli hanno ricreato questa figura biblica) il poeta francese Lamartine — che «quella di Giobbe non è la voce di un uomo ma è la voce di un tempo, è il primo e ultimo vagito dell’anima, anzi, di ogni anima».

A suggello di questa minuscola memoria personale su Papa Francesco, è per me naturale rievocare un autore a lui caro, anche perché ebbe l’occasione di averlo ospite per una settimana a Santa Fe nel 1965 in una scuola superiore dei Gesuiti ove Bergoglio insegnava. Si tratta di Jorge Luis Borges che confessava: «Di tutti i libri della Bibbia quelli che mi hanno appassionato di più sono il libro di Giobbe, l’Ecclesiaste e, evidentemente, i Vangeli». Anzi, a Giobbe egli aveva testimoniato questa sua predilezione sia dedicandogli una conferenza, pubblicata nel 1967 all’«Instituto de Intercambio Cultural Argentino-Israelí», sia approntando una prefazione alla Exposición del Libro de Job di Fray Luis de León (1527-1591), un autore mistico, considerato un classico spagnolo del «Siglo de Oro» di quella letteratura.

Borges era conquistato dallo sfolgorare delle immagini “barocche” con cui la tragedia giobbica è espressa, dal proteiforme procedere del libro e dalla «tenebra luminosa» (un ossimoro presente proprio in Giobbe 10,22) di quest’opera così terrestre-immanente e così divino-trascendente. Ma forse per Papa Francesco è il commento “cristologico” di Georges Bernanos nel Diario di un curato di campagna a esprimere in profondità i suoi stessi sentimenti: «Il buon Dio non ha scritto che dobbiamo essere il miele della terra, ma il sale. Ora il nostro povero mondo somiglia al vecchio padre Giobbe, pieno di piaghe e di ulcere, sul suo letamaio. Il sale, sulla carne viva, brucia. Ma le impedisce anche di putrefarsi».

Gianfranco Ravasi     “L’Osservatore Romano”     12 marzo 2020

http://www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/03/giobbe-in-conclave-ravasi-or.pdf

 

Sette anni di Francesco: nuovo magistero, positivo e negativo

Alle 20,11 di domani saranno passati 7 anni da quella benedetta sera del 13 marzo, dall’evento inatteso che non potremo mai dimenticare. Un bilancio del pontificato di Francesco, per quello che abbiamo visto fino a qui, ci impegna in un giudizio che deve tentare di andare al cuore dell’evento. Dopo aver letto il più bel libro che sia stato scritto finora – Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco. Poliedro emergente e piramide rovesciata, EDB, 2017 – ho trovato, sul SettimanaNews, la bella introduzione che Marcello Neri ha premesso ad un volume miscellaneo, in uscita per l’occasione, che si intitola “Profezia di Francesco. Traiettorie di un pontificato”, per EDB. In questo testo introduttivo breve, ma denso, Neri dice una cosa di grande importanza, e dalla quale vorrei prendere l’avvio per qualche ulteriore considerazione.

Marcello Neri è professore incaricato di Teologia cattolica presso l’Università di Flensburg (Germania) e docente invitato presso il Centro per le Scienze religiose di Trento

            Marcello Neri concentra la sua attenzione su ciò che di specifico possiamo identificare in questi 7 anni di pontificato. E lo esprime così: “il punto di rottura rispetto ai suoi due predecessori non sta tanto, o non solamente, nella visione della Chiesa ma, in primo luogo, nella consapevolezza storica della fine di alcuni processi secolari e dell’avviamento di altri che stanno portando a trasformazioni profonde della socialità umana e dell’antropologia moderna”.

Questo implica, inevitabilmente, un profondo mutamento, che in Francesco trova il suo inizio, e che può essere descritto bene con queste parole: “Rispetto a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI, Francesco non pensa e non agisce più come se la modernità esistesse ancora; e, quindi, inizia a delineare una visione della Chiesa e del cattolicesimo coerente con l’effettività storica all’interno della quale essi disegnano la loro fedeltà al vangelo del Regno e alla creazione desiderata da Dio. Fedeltà che non può più essere univoca e uniforme, la stessa e medesima ovunque la fede si trovi a vivere nel quotidiano degli uomini e delle donne di oggi.”

            Tutto ciò comporta, come conseguenza, una “riscrittura” della tradizione, una tradizione, che rinunci ad alcuni dei “luoghi comuni moderni”, che dopo Trento si erano imposti a tal punto, da identificarsi con l’essenza stessa della fede: “La decisione di Francesco è esattamente questa: sostenere l’uscita della Chiesa cattolica dalla lotta contro i mulini a vento della modernità, riattivando, nel cuore istituzionale della Chiesa, la dinamica originaria della notizia evangelica di Dio. Per lungo tempo, la condizione storica ha permesso al cattolicesimo latino (quello che si è diffuso in tutto il mondo) di costruire un apparato concettuale, istituzionale, canonico e pastorale che poteva formalmente rinunciare al corpo a corpo quotidiano con le Scritture testimoniali”

            Questo è il quadro di comprensione, che M. Neri delinea come portante nel pontificato, almeno nei suoi primi sette anni di esercizio. Mi sembra che si tratti di una analisi molto lucida e convincente, dalla quale farei derivare, quasi come corollari, due conseguenze assai rilevanti: da un lato il superamento del “dispositivo di blocco”, che aveva caratterizzato la stagione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI; dall’altro l’affermarsi di un “nuovo equilibrio” tra magistero positivo e magistero negativo.

Per precisione, chiarisco che utilizzo le espressioni “magistero negativo” e “magistero positivo” in senso “tecnico”: ossia come quel magistero che consiste nel “condannare proposizioni erronee” o nel “definire proposizioni di fede”. Il primo è “negativo”, perché nega errori, il secondo è “positivo” perché pone proposizioni di verità.

La tradizione non è più bloccata. Il primo aspetto del magistero di Francesco che è bene mettere in rilievo è il fatto che, fin dall’inizio, esso si muove in vista del recupero urgente di un concetto “dinamico” di tradizione. Molte delle espressioni più caratteristiche di Evangelii Gaudium, già nel 2013, discendono precisamente da questa lettura “non statica” della tradizione. In questo intento Francesco non fa altro che riprendere la grande intuizione del Concilio Vaticano II, che già alla fine del papato di Paolo VI, ma soprattutto durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, aveva subito un drastico ridimensionamento, fino a trovare, indirettamente, la sua smentita nella implicita teorizzazione di un “dispositivo di blocco”, mediante il quale la Chiesa poteva trovare la tradizione solo nel suo passato, spogliandosi di ogni autorità sul nuovo. La riscoperta della autorevolezza del presente e del futuro per istituire pienamente l’esperienza della tradizione mi sembra il più grande guadagno ecclesiale di questi sette anni. La rilevanza del tempo per lo spazio e della realtà per la idea – secondo due dei famosi principi introdotti da EG – sono la traduzione più chiara proprio di questa prospettiva, che reagisce in modo autorevole contro la tendenza alla spazializzazione e alla idealizzazione della tradizione. La resistenza e la opposizione a Francesco, lungo questi sette anni, può essere compresa come la inerzia di una visione della Chiesa in cui il “controllo dello spazio” esclude la rilevanza del tempo e in cui la “difesa della idea” immunizza dalla realtà. Aver dato nuova evidenza ai “segni dei tempi” e alla “forza del reale” nell’annuncio del Vangelo è la prima cifra qualificante l’esercizio del magistero di questo settennio.

Nuovo magistero positivo, nuovo magistero negativo. Il secondo aspetto che vorrei mettere in luce, e che è connesso con il primo, implica un ripensamento della “forma magisteriale”. Per intenderlo bene, occorre una premessa. L’esercizio del “magistero pontificio” è stato caratterizzato, lungo la storia, dal prevalere di un “magistero negativo” rispetto al “magistero positivo”, secondo il significato dei termini che ho già chiarito sopra. Poche infatti sono state le “formulazioni dogmatiche”, ma numerosissime le “condanne”. E questo non era solo un limite dell’esercizio classico del magistero. Un magistero che “condanna proposizioni”, condanna solo quelle. Non altro. Lascia uno spazio di libertà molto grande. Fino al Concilio Vaticano I così si è mosso il magistero. Con i due concili Vaticani le cose cambiano radicalmente, fino all’emergere, con il Vaticano II e dopo di esso, di una prevalenza assoluta del magistero positivo sul magistero negativo.  Anzi, uno dei fenomeni più interessanti, dagli anni 60 in poi, è la progressiva estensione della competenza positiva del magistero, che diventa addirittura “invasivo”. E questo non è un fenomeno privo di limiti. Potremmo dire che, paradossalmente, l’estendersi del magistero positivo non è solo un fatto positivo. Perché ciò modifica profondamente le logiche ecclesiali, determinando una rilevanza spropositata del magistero pontificio, rispetto alle altre forme di esercizio della autorità ecclesiale. Ed è, in fondo, l’ombra lunga della logica ordinamentale imposta dal Codice di Diritto canonico, del 1917 come nel 1983. Si è creato, così, dopo il Vaticano II e fino a Benedetto XVI, un “sistema” in cui il magistero papale assorbiva in sé ogni autorità, fino a definirsi non solo positivamente, ma anche negativamente: dove non si riconosceva autorità, non esisteva altra autorità. Con Francesco mutano entrambi i fronti di questa composizione istituzionale e ideale. Da un lato, infatti, il magistero positivo di Francesco si interpreta con nuova libertà, sia linguistica sia istituzionale. E’ evento linguistico ed evento esperienziale. D’altra parte egli assume l’elemento “negativo” non più in termini di “condanna di proposizioni erronee” (secondo la soluzione classica), ma neppure in termini di “esclusione di autorità” (secondo la soluzione prevalente nel post-concilio), ma come rimandando ad “altre autorità” (e questo appare evidente – e perciò imbarazzante – soprattutto in Amoris Lætitia e in Querida Amazonia). Un “magistero papale” che “non deve risolvere tutte le questioni” è una lettura “classica” della funzione magisteriale, che riconosce il proprio limite, alla quale però non eravamo avvezzi da almeno 2 secoli. Ci sembra una rivoluzione, o una sovversione, solo perché siamo tutti cristiani e cattolici dalla memoria corta.

            Potrei così dire che, lungo questi 7 anni di cui domani ricorre l’anniversario, abbiamo conosciuto, gradualmente, una forma nuova e antica di esercizio del magistero papale, che si sta rinnovando sia dal punto di vista dell’esercizio del “magistero positivo”, sia dal punto di vista dell’esercizio del “magistero negativo”. Non deve sorprendere che queste novità non solo lascino il corpo ecclesiale con qualche imbarazzo, ma che incontrino una obiettiva difficoltà ad essere elaborate in modo pienamente efficace. Tuttavia bisogna riconoscere con gratitudine che l’orizzonte è aperto, il linguaggio è inaugurato, i gesti sono forti e belli, e i principi di attuazione non mancano. Questi sette anni sono stati non solo “l’inizio di un inizio”, ma anche, e forse ancor più, un “punto di non ritorno”. Del quale possiamo rallegrarci. Anche se, immediatamente, questo “inizio” crea per tutti soltanto una complicazione, per quanto meravigliosa. Essa implica, infatti, il ripensamento di un apparato concettuale, istituzionale, canonico e pastorale, al quale ci dedicheremo – a partire da noi fino ai nostri pronipoti – per almeno un secolo. Questi sette anni di grazia hanno il dito puntato su almeno 4 generazioni a venire: così funziona il primato del tempo sullo spazio

Andrea Grillo blog: Come se non                  12 marzo 2020

www.cittadellaeditrice.com/munera/sette-anni-di-francesco-nuovo-magistero-positivo-e-negativo

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OMOFILIA

    Come il sacerdozio diventa un nascondiglio soffocante per i preti gay

Qui [in questi quattro casi, visti negli articoli precedenti della serie] vediamo echi delle tre possibili risposte a una situazione di difficoltà individuate da Albert O. Hirschman nel 1970: l’uscita, la voce (qui in due forme, corporea e vocale), e la lealtà (silenziosa alla chiesa).

            Particolarmente interessante è il caso di padre Adrien, la “talpa” che impersona la lealtà silenziosa alla Chiesa e tutta una generazione di preti e religiosi gay francesi ordinati durante il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), succeduto a quello che Denis Pelletier definisce “la crisi cattolica” degli anni ‘60 e ‘70.

Generalmente considerata una generazione cardine dal punto di vista della “ricostituzione dell’ideale sacerdotale” (Céline Béraud), i suoi sacerdoti per la maggior parte incarnano ciò che Philippe Portier chiama “il cattolicesimo identitario”, in reazione al “cattolicesimo aperto” che conobbe molta diffusione negli anni ‘70 e ‘80.

            Questa tendenza [identitaria], se pure avviata già alla fine degli anni ‘70, divenne chiaramente visibile durante gli anni ‘90, quando questi giovani sacerdoti apparvero nel rarefatto mondo del lavoro ecclesiastico. Volevano separarsi dai loro parrocchiani, ed essere un modello per loro, quindi scelsero di indossare la talare, o il completo clericale di giacca nera e camicia, per dimostrare così di non essere d’accordo con il presunto lassismo dei sacerdoti più anziani, ripetendo anche rigidamente la retorica morale proveniente dal Vaticano.

            Sotto questo punto di vista, la vita pubblica di padre Adrien è un esempio lampante della sua generazione, ma è una vita che dimostra di essere più che mai “divisa”, e il suo “nascondiglio” (che giunge quasi a rivendicare) è particolarmente scioccante.

            Questo perché, sebbene il nascondiglio e l’omofobia interiorizzata possano essere utili per adattarsi a una società fondata sull’eteronormatività [Intendo, per “eteronormatività”, “quel sistema asimmetrico e binario di genere che permette l’esistenza di due, e solo due, sessi, in cui il genere corrisponde perfettamente al sesso (il genere maschile al sesso maschile, il genere femminile al sesso femminile), e in cui l’eterosessualità (riproduttiva) è obbligatoria, o perlomeno desiderabile e rispettabile” (Kraus, citato da Judith Butler).], sono sempre meno tollerati nella [nostra] società, a causa della relativa liberalizzazione del matrimonio omosessuale e della creazione di nuovi mezzi di soggettificazione, caratterizzati dalla messa in discussione della maturità e della sincerità dell’individuo, tanto dentro che fuori dal cattolicesimo.

Dato che padre Adrien appare tanto fedele alla retorica omofoba cattolica, quanto incapace di uscire allo scoperto come gay, non sorprende che si sia dimostrato sospettoso verso la mia ricerca, e più in generale verso gli studi sul genere e la sessualità, in quanto vi percepisce una minaccia alla sua persona.

            Infatti, in uno dei rari studi in lingua francese sui sacerdoti gay, Hélène Buisson-Fenet (2004) riconosceva fin dall’inizio della ricerca che sarebbe impossibile, per i sociologi, approcciare i sacerdoti che corrispondono a questo profilo, pur essendo evidente, per le persone addentro la Chiesa, che sono molti: “L’orientamento omosessuale nella vocazione sacerdotale è una questione che riguarda sacerdoti che hanno alle spalle esperienze e ambienti molto diversi tra loro, ma è molto più facile ottenere un’intervista con chi proviene da spiritualità più aperte e da ambienti che promuovono la libertà di parola”, questo perché tali sacerdoti sono obbligati a sviare l’attenzione per poter rendere inaccessibile la loro doppia identità di devianti, e questo li caratterizza fortemente, sia nella Chiesa che nella società, in quanto sacerdoti che ripropongono in maniera molto rigida la retorica omofoba, persino nelle situazioni pastorali [Le situazioni pastorali possono essere definite “le prassi istituzionali locali che mirano a diffondere il messaggio cristiano nelle situazioni di vita vissuta, lì dove esso può essere ricevuto” (Hélène Buisson-Fenet)], e che quindi vanno controcorrente rispetto alla società e alla Chiesa stessa.

            Questo si collega alla “inversione sulla tematica dell’omosessualità” (Éric Fassin), e produce individui che, con la loro pratica dell’omosessualità, contraddicono la posizione dell’istituzione che hanno promesso pubblicamente di incarnare.

            Da questo punto di vista, padre Adrien manterrà il suo ruolo di guardiano e proteggerà dalla mia curiosità il doppio segreto della sessualità, specialmente quella dei preti gay. Ma se rifiuta così strenuamente di lasciarmi entrare nello “spettacolo del nascondiglio” (Eve Kosofsky Sedgwick) è anche perché il nascondiglio è molto meno segreto e sicuro di prima, e lui lo sa.

Sempre più cattolici, che siano pro- o anti- persone LGBTIQ, sono consapevoli dell’omosessualità: “Ma perché scrivi una tesi sulla mascolinità dei preti? Devi concludere così: sono tutte checche!” mi dice ridendo un mio conoscente cattolico, non senza una traccia di omofobia.

            In realtà, il fatto che il sacerdozio cattolico sia un nascondiglio quasi perfetto (per i gay) non è più un segreto, o meglio, è un segreto parzialmente rivelato.

Articolo di Josselin Tricou, assistente al Laboratorio di studi di genere e sessualità (LEGS) all’Università Parigi, pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte quinta.

www.gionata.org/come-il-sacerdozio-diventa-una-nascondiglio-soffocante-per-i-preti-gay

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PROCREAZIONE

Il danno da procreazione quando la vita diventa fonte di sofferenza

1. La tutela del concepito. Il nostro legislatore ha dedicato diverse norme alla tutela del concepito, riconoscendo ad esso, anche indirettamente, fondamentali tutele inalienabili (articolo 2 della Costituzione che tutela i diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo; articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute). Il concepito è oggetto di tutela e in quanto tale viene garantito nei suoi interessi fondamentali, ma la sua tutela dev’essere determinata con particolare attenzione; nella tutela del nascituro entrano infatti in gioco innumerevoli fattori, circostanze tra loro molto diverse; la scienza medica e la società evolvono costantemente, modificando aspetti essenziali della fattispecie, e con il loro fondamentale contributo è spesso necessario mettere tutto nuovamente in discussione.

            L’ordinamento è sempre orientato alla tutela della vita (così come, apparentemente in modo paradossale, viene precisato anche nella legge 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza), quindi anche alla tutela del concepito finalizzata alla nascita di un individuo sano.

2. Il danno da procreazione. I problemi insorgono nel momento in cui si contestualizza la tutela del concepito e il suo diritto a nascere sano in un sistema nel quale vi sono diversi interessi di altri soggetti direttamente coinvolti, che possono essere con esso contrastanti. Una situazione tipica che può porsi in questi termini concerne certamente il caso in cui i genitori siano portatori di malattie genetiche che saranno quindi, con variabile probabilità, trasmesse al nascituro. I diritti che inevitabilmente collidono sono il diritto a nascere sano del concepito ed il diritto alla procreazione dei genitori.

Il diritto alla procreazione è un diritto fondamentale della personalità dell’individuo e come tale, non solo inviolabile, ma il cui esercizio non può dar luogo ad un fatto illecito. Il diritto alla procreazione quindi non può in alcun modo essere negato o limitato, neanche quando ciò comporti la nascita di un individuo non sano; in caso contrario l’apparente interesse alla tutela della vita da parte dell’ordinamento, celerebbe in realtà una filosofia volta alla non vita, preferendo la non vita ad una vita “viziata” e limitando la libertà procreativa dei soggetti.

            L’alternativa a nascere con un’infermità, non è nascere sani, ma non nascere, e questo non è mai ammissibile nel nostro sistema giuridico. Per dottrina e giurisprudenza ormai consolidate infatti non esiste alcun diritto a non nascere se non sani (si veda a tal proposito Cass., SS.UU., 22.12.2015, n. 25767). Il nostro ordinamento predilige la vita in ogni circostanza, non ammettendo la soluzione dell’aborto quale conseguenza del mero stato di salute viziato del concepito. La logica di un paradossale diritto a non nascere se non sani prevedrebbe l’evitabilità del danno da procreazione accedendo alle tecniche di interruzione volontaria della gravidanza, applicando quindi la logica che si applica alla donna in tema di aborto, ma al concepito.

I casi di danno da procreazione sono caratterizzati dal fatto che è lo stesso soggetto danneggiato ad agire autonomamente o, più spesso, rappresentato in giudizio dai genitori. Egli si pone come titolare di un’azione destinata all’ottenimento del risarcimento del danno per essere venuto al mondo con gravi malformazioni e deficit: il danno finisce col combaciare con la stessa esistenza.

            Ciò che può considerarsi alla base dei diversi punti di vista in materia, è certamente la concezione che si ha della vita, ossia se essa sia sempre e comunque un bene da proteggere a prescindere dalla qualità con la quale si determina. Pacificamente si ritiene che non sia risarcibile il danno che si sia determinato per effetto del concepimento medesimo in quanto il danno origina dallo stesso fatto da cui origina la vita; ammettendo una tutela di questo tipo si comporterebbe in via indiretta un’ammissione della fondatezza di un diritto a non nascere.

            La decisione consapevole, quindi nel caso in cui la madre sia pienamente a conoscenza dello stato patologico che affligge il nascituro, di dare la vita ad un individuo affetto da invalidità, non può mai essere considerata in termini di ingiustizia del danno, di fatto colposo, in quanto da tale scelta origina la vita, tutelata in ogni sua forma e aspetto.

3. Il caso di Piacenza. Il Tribunale di Piacenza nel 1950 (31 luglio 1950) propone un innovativo punto di vista in materia. Una giovane donna, nata con lue congenita, chiedeva il risarcimento del danno nei confronti dei propri genitori per averla concepita nonostante avessero la consapevolezza della malattia e della sua ereditarietà. In quel contesto il Tribunale di Piacenza intraprese un percorso totalmente nuovo ma anche molto pericoloso; decise infatti di riconoscere in capo all’attrice la legittimazione all’azione risarcitoria nei confronti dei genitori, andando a costituire un precedente nel riconoscere il diritto del figlio al risarcimento del danno per essere venuto al mondo con delle infermità trasmesse, in maniera consapevole, dai propri genitori. Il Tribunale manifesta una rinnovata sensibilità per il tema del danno da procreazione. L’interesse del giudice si è soffermato sulle sofferenze che l’attrice ha patito e sarà costretta a patire, non solo fisiche ma anche psicologiche, a causa della qualità della sua vita.

Estremizzando i principi dell’ordinamento si è giunti a questa pronuncia che considera responsabili i genitori dell’attrice di aver generato, con piena consapevolezza, un individuo infermo, destinato a patire: la vita, sempre momento positivo di sviluppo e crescita, diviene un intollerabile percorso costellato di ostacoli e sofferenze.

            Se non che, ampliando appena la prospettiva, si realizza immediatamente la distorsione concettuale operata dal giudice, in quanto è vero che i genitori hanno trasmesso la patologia alla propria figlia con il concepimento, ma è anche vero che il concepimento, fonte del contagio, è anche l’origine della vita; senza l’atto che genera il danno, il concepimento per l’appunto, non sarebbe venuto ad esistenza neanche il soggetto danneggiato. Sorge qui il primo fondamentale problema: si può pensare di condannare l’atto che ha portato alla vita, qualora esso abbia danneggiato il concepito?

            Tale questione è quella che ha smosso il giudice del Tribunale di Piacenza (il Giudice, in un importante passo della pronuncia, infatti afferma: “la vita è un grande dono, un immenso dono. Ora il trasmettere attraverso la generazione una condizione morbosa che questo grande dono trasformi in una immensa infelicità è illecito, contrario al diritto, contrario al comportamento della persona quale le è imposto dall’ordinamento giuridico che la riconosce e la eleva”).

            L’evoluzione della giurisprudenza ha portato a ritenere che non sia possibile ravvisare una legittimazione all’azione risarcitoria del figlio nei confronti dei genitori in casi analoghi a quello trattato a Piacenza nel 1950, per varie ragioni: l’inviolabile diritto a procreare in capo ai genitori, che, accogliendo la tesi del Tribunale di Piacenza, dovrebbe quindi essere limitato o vietato nei casi in cui ci sia la possibilità di trasmettere patologie; l’impossibilità di ravvisare un diritto a non nascere se non sani (oltre alla sentenza Cass., SS. UU. 25767/2015, si veda anche Cass. Civ., 29.7.2004, n. 14488, Cass. Civ., 11.5.2009, n. 10741, Cass. Civ., 2.10.2012, n. 16754).

            Tale sentenza, pur essendo stata oggetto di forti critiche e le cui concezioni possono ormai ritenersi superate, è stata fondamentale nello studio del danno da procreazione, in quanto ha aperto uno spiraglio su questioni delle quali fino ad allora, anche per ragioni socio-culturali, si discuteva con grande timore e difficoltà.

4. Conclusioni. L’intera funzione di questa disciplina è quella di evitare di abbandonare un soggetto, lasciarlo inerme, a fronteggiare le difficoltà personali e sociali causate da una menomazione che ha origine in una fase nella quale l’individuo stesso era estremamente vulnerabile. L’intervento del legislatore è quindi volto a far sì che il concepito, comunque, una volta venuto al mondo, possa godere di tutte le tutele necessarie a far sì che la qualità della sua vita possa essere la migliore auspicabile.

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SESSUOLOGIA

Contro il tabù mestruale

Parlare di mestruazioni oggi, significa confrontarsi con aspetti politici, psicologici e biologici. Ancora oggi viviamo le mestruazioni come qualcosa da patire, angustiante, persino traumatico. Un momento fondamentale per le bambine, poi donne, si vive come un castigo. Lo stigma sociale sul corpo che sanguina condiziona il rapporto fra la donna e il suo funzionamento naturale. Le esperienze soggettive in relazione a femminilità, maternità e sesso influiscono a loro volta sul ciclo mestruale.

Fra le nuove generazioni, qualcuna ha avuto una spiegazione adeguata su quello che succede al corpo femminile, magari grazie a madri che avevano loro stesse sofferto una disinformazione ancora maggiore. Come sosteneva Marie Langer, una psicoanalista pioniera negli studi sulle donne, reagire positivamente alla prima mestruazione sarebbe un indizio positivo di accettazione del proprio sesso, un evento che andrebbe festeggiato {esperienza familiare 1964}.

Al contrario sono tuttora molte le donne che reagiscono negativamente al ciclo mestruale. Sentono vergogna per il sangue e rifiuto per gli sbalzi ormonali, emozionali e fisici. In certi casi l’odio verso sé stesse arriva addirittura alla voglia di strapparsi le ovaie per evitare contrazioni dolorose. Sono retaggi di concezioni che fino al secolo scorso si davano per scontate, come il fatto che il sangue mestruale fosse “sporco”, pieno di tossine, qualcosa da cui stare alla larga. Certe idee sono oggi rifiutate, ma perdura una svalorizzazione del ciclo femminile.

Il menarca costituisce l’inizio della medicalizzazione della vita sessuale delle donne. Ormai siamo abituate a prendere analgesici che zittiscono il dolore e anticoncezionali che regolano o bloccano il flusso. Così pratiche pensate per casi eccezionali sono diventate la normalità. I preconcetti patologizzano un processo naturale e spontaneo del corpo.

Anche i prodotti cosiddetti igienici hanno effetti negativi sul corpo delle donne. Assorbenti con additivi sintetici, tamponi non certificati, biancheria intima piena di tinture, saponi dai mille profumi: non c’è una regolamentazione sicura sulla loro tossicità e su come interagiscono con i genitali. Solo pochissime associazioni di donne hanno indagato sull’argomento e hanno trovato prove degli effetti negativi sul sistema endocrino. Ma il sistema di produzione e consumo patriarcale abusa dell’insicurezza e della vergogna di noi donne. Da un’indagine realizzata intervistando 2.000 donne spagnole è emerso che il 49% di loro si è sentita violentata durante una visita ginecologica. Tutte le altre avevano comunque vissuto situazioni spiacevoli e scomode.

Il tabù mestruale, come lo chiamano gli antropologi, è ancora ben presente nella società attuale. Ancora ci sono donne che abbassano la voce o mantengono in segreto le loro mestruazioni. Eppure, fin dall’antichità le donne avevano l’abitudine di riunirsi per confrontarsi durante il periodo mestruale. A volte la Luna, con il suo ciclo, dava risposte alle domande che sembravano non averne. I Maori della Nuova Zelanda, per esempio, non distinguevano fra il ciclo lunare e quello mestruale. In molte lingue antiche le parole per luna e mestruazioni hanno la stessa radice, mentre comunità native dell’America del Nord spargevano il sangue mestruale nei campi coltivati perché lo ritenevano una fonte di fertilità. Oggi alcune di queste pratiche vengono riscoperte, come per il movimento “red tent”, tenda rossa, dove gruppi di donne si accompagnano a mestruare in sincrono.

É un tentativo di riconnettersi a ciò che ha sempre costituito la forza e la sacralità della donna e che, paradossalmente ha finito per separarla e sottometterla. Per secoli le donne con il ciclo venivano isolate, separate dalla comunità. Freud ha interpretato la paura degli uomini per le mestruazioni al terrore alla minaccia dei genitali castrati e sanguinanti: per questo le donne venivano scacciate e demonizzate. Ci sono esempi di questo tipo in culture di tutti i continenti. Per gli eschimesi, per esempio, la donna durante le mestruazioni era considerata pericolosamente contagiosa. Fra i Macuis della Guyana, le donne con il ciclo erano considerate impure. E ancora oggi, in alcuni paesi come il Nepal, si isolano le bambine che hanno le loro prime mestruazioni.

In tutto il mondo, pesano sul corpo delle donne secoli di traumi, dolore e oppressione. Il diritto sul proprio corpo è anche un diritto all’informazione e all’intimità. Mettere in discussione il tabù significa molto più che capirlo, vuole dire prendere coscienza e soggettivare la salute sessuale e riproduttiva. Significa rimettere in discussione qualsiasi pensiero o emozione riguardo la natura del corpo femminile. Ogni donna deve ripensare e demistificare quello che sa sulle sue mestruazioni. Abbiamo bisogno di abbandonare la visione medico-patologica e recuperare una visione delle mestruazioni, e di tutto il nostro corpo, più naturale e meno normalizzante. Riappropriarci della nostra naturalità ci darà più libertà.

Marilen Osinalde        10 marzo 2020

www.noidonne.org/articoli/contro-il-tab-mestruale-16684.php

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