NewsUCIPEM n. 794 – 23 febbraio 2020

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02 ABORTO VOLONTARIO                           Aborto, le donne e stili di vita incivili: la verità dietro gli slogan

035 ADOZIONI INTERNAZIONALI             In Moldova una nuova legge che riduce tempi e burocrazia      

03 AFFIDO CONDIVISO                                Cassazione: affido condiviso non significa dividere i figli al 50%

04                                                                          La Cassazione predilige modello monogenitoriale

09 ASSEGNO di MANTENIMENTO FIGLI Niente tenuità del fatto per chi non mantiene i figli

10                                                                          Maggiorenni e indipendenti: al padre va restituito quanto pagato

11 ASSEGNO DIVORZILE                               Cassazione: meno soldi all’ex moglie che non cerca lavoro

12 AICCeF                                                          La prossima giornata di studio il 26 aprile 2020 a Salerno

13 ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI                             OEFFE sta per Orientamento Familiare

14 BIGENITORIATÀ                                        Mutui, affitti e mantenimento: nuovi aiuti a separati e divorziati

15 CENTRO IT. STUDI FAMIGLIA               Newsletter CISF – n. 7, 19 febbraio 2020

18 CHIESA CATTOLICA                                  Approfondire le fonti. Abolire la legge del celibato o il sacerdozio?

20                                                                          Un Appello di base per un nuovo vescovo “conciliare” per Genova

27 CITTÀ DEL VATICANO                             Cresce una cultura di attenzione, ascolto e prevenzione sui minori

28                                                                          Lotta agli abusi, un anno di riforme concrete

29 CONVIVENZA                                             La convivenza more uxorio

31 CULTURA DIGITALE                                 Il cambio di paradigma in corso intorno alle teorie dei media

32 DALLA NAVATA                                         VII Domenica del tempo ordinario – Anno A -23 febbraio 2020

33                                                                          Porgi l’altra guancia: disinnesca il male

33 DENATALITÀ                                               Inflazione dell’io e figli visti come ostacolo alla propria libertà

34                                                                          Servizi, non vincoli. La voglia di fare figli torna se cala la paura

34                                                                          Diventare mamma e papà E sempre più difficile

36 DIVORZIO                                                    5Accordo: fondamentale la tutela dell’interesse del minore

37 DONNE NELLA CHIESA                           I ministeri femminili nella storia

38 DOVERI E DIRITTI DEI BAMBINI          I doveri dei figli nei confronti dei genitori.

39 ENTI TERZO SETTORE                              Riforma terzo settore, ecco le priorità del ministero

41                                                                          Associazioni e partita iva: quando è davvero necessaria?

42 GOVERNO                                                   Il ministro Bonetti: “Family Act in fase di rifinitura”

42                                                                          Legge di bilancio per il 2020: le novità importanti per le famiglie

43 OMOFILIA                                                    Il silenzio dei preti gay nell’era del matrimonio omosessuale

44 PARLAMENTO                                            Arriva l’educazione emozionale a scuola

46 POLITICA                                                      Ecco il Family Act per combattere il crollo delle nascite

47 PSICHIATRIA                                               Demenze. Materiali on line

48                                                                          Ragazzo morto di anoressia

49                                                                          Anoressia. Disturbi del comportamento alimentare adolescenti

50 SINODO PANAMAZZONICO                 Maria: per un passo avanti sulla questione femminile

51                                                                          Nell’ Amazzonia un luogo teologico

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ABORTO VOLONTARIO

Aborto, le donne e stili di vita incivili: la verità dietro gli slogan

«Mi hanno teso una mano quando stavo per affogare. Se Federico è nato, lo devo a loro. Non sapevano niente di me, ma hanno amato me e il mio bambino, senza condizioni». La voce di Amina, 17enne di origine straniera, si staglia limpida sul cicaleccio confuso che abbiamo ascoltato nelle ultime ore sull’aborto. Amina non aveva famiglia, era sola al mondo, aveva deciso di abortire perché «che futuro potevo dare a un figlio?»; all’ultimo minuto ha incontrato i volontari del Movimento per la vita e il Progetto Gemma di adozione prenatale a distanza. Ma la voce limpida di Amina non sembra interessare a nessuno. È un peccato, perché avrebbe molto da insegnare.

Il leader della Lega Matteo Salvini domenica durante un comizio a Roma ha stigmatizzato l’utilizzo dei Pronto soccorso italiani come supermarket degli aborti ripetuti da parte di donne «né di Milano né di Roma», come «soluzione a stili di vita incivili». Parole inesatte o addirittura fuorvianti per vari motivi.

  1. Il primo è che le donne non vanno ad abortire al Pronto soccorso. L’iter è ancora e sempre quello fissato dalla legge 194 del 1978 e prevede una visita ginecologica, una “sospensione” di 7 giorni e poi la procedura, chirurgica o farmacologica, in un ospedale o in un centro autorizzato.
  2. Il secondo motivo è che il fenomeno delle «recidive», pur gravissimo, in Italia è decisamente meno frequente che in altri Paesi, con valori tra i più bassi a livello internazionale: lo 0,9% delle donne sottoposte a Ivg nel 2017 (in totale 80.733, in costante diminuzione dal 1982) avevano avuto 4 o più aborti precedenti (una percentuale minima, dunque), che l’1,4% ne aveva avuto 3 precedenti, che 5,1% ne aveva avuti 2 precedenti.
  3. Il terzo motivo – il più importante – per cui le parole del leader della Lega sono fuorvianti riguarda gli «stili di vita» che le donne straniere adotterebbero e che sarebbero la causa degli aborti ripetuti. Se è indubbio che per una (minima) parte di donne e dei loro uomini l’aborto è vissuto come contraccezione d’emergenza (ma ciò riguarda soprattutto l’utilizzo delle pillole del giorno dopo, non censito dalle statistiche sulle Ivg), la situazione più frequente è quella di povertà materiale e culturale, solitudine e sopraffazione. «Stili di vita incivili» di cui le donne non sono protagoniste ma vittime: ragazze dalle quali lo sfruttatore finale – italiano – pretende rapporti non protetti. Giovani immigrate che svolgono lavori non regolari, sottoposte a duri ricatti sulla propria vita personale.

Nessuno, né domenica né lunedì, ha parlato di tutto questo, seppellendo nella rissa para-politica un tema serio, serissimo, nascosto, se non addirittura “segretato”: la solitudine e l’abbandono in cui si trovano le donne più fragili di fronte a una gravidanza indesiderata. Questo sì, dovrebbe far discutere. Questo sì, dovrebbe indignare.

            Se Salvini ha scelto uno slogan sbagliato e infelice (“I Pronto soccorso come supermarket degli aborti per rimediare a uno stile di vita incivile”) la replica della sinistra è stata altrettanto deludente, con un contro-slogan del leader del Pd – «Giù le mani dalle donne» – ugualmente fuorviante. Il riflesso condizionato della sinistra, quando si parla di aborto, è alzare le barricate in difesa dell’autodeterminazione delle donne, della libertà/diritto di scegliere e della intangibilità della legge 194. Insistere su questi tasti assomiglia a un tentativo di distogliere l’attenzione sulla questione vera. Di che libertà esattamente parla la sinistra quando una donna si sente obbligata ad abortire perché non ha i mezzi per affrontare la maternità? Che genere di autodeterminazione c’è quando ad abortire è una ragazza straniera sfruttata sui campi o sul ciglio di una strada? Quello che è mancato nel dibattito ancora una volta ideologico di queste ore, a destra come a sinistra, è la voce di Amina e delle migliaia che, a differenza di lei, non hanno trovato una mano tesa.

Allora, rovesciamo lo slogan: non «Giù le mani dalle donne», bensì «Mani tese alle donne», soprattutto a quelle più fragili. Con i sostegni per altro previsti e mai attuati dalla 194, che non a caso si intitola “Legge contenente norme per la tutela sociale della maternità”. E si dimostri, con scelte politiche non ideologiche ma coraggiose e di autentica umanità, come fa da mezzo secolo il Movimento per la vita con le sue mani tese, che ciò che sta a cuore non è solamente la difesa del principio astratto dell’autodeterminazione in quanto tale, ma la concreta libertà dalla solitudine, dalla sopraffazione, dal bisogno, dalla povertà. La libertà di scegliere per la vita

Antonella Mariani      Avvenire         17 febbraio 2020

www.avvenire.it/attualita/pagine/aborto-salvini-cosa-a-detto-qual-e-la-verita

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In Moldova una nuova legge che riduce tempi e burocrazia

Una notizia molto positiva arriva dalla Moldova. Lo scorso 29 gennaio 2020 il Governo ha infatti approvato un Progetto di Legge che porta alla modifica di un pacchetto significativo di norme che riguarda la protezione del bambino, ivi inclusi il Codice di Procedura Civile, il Codice della Famiglia e la Legge 99/2010 sul regime giuridico dell’adozione.

Tra le novità introdotte dal Progetto di Legge, che ora dovrà passare al vaglio del Parlamento, ci sono:

  1. L’esaminazione della domanda di adozione in regime di priorità e con una procedura speciale, con la fissazione della data dell’udienza giudiziaria per l’assenso all’adozione entro massimo 10 giorni lavorativi dalla data della presentazione della domanda (attualmente, non esiste un termine limite);
  2. L’entrata in vigore della sentenza di adozione, siccome è una procedura speciale, in massimo 10 giorni lavorativi (rispetto agli attuali 30 per la nazionale e 60 per la nazionale);
  3. La riduzione della durata del primo viaggio pre-adottivo a un massimo di 30 giorni rispetto al periodo da uno a tre mesi previsto dalla normativa vigente.

“Siamo felici – commenta Marco Griffini, presidente di Ai.Bi., Ente autorizzato a operare sulle adozioni internazionali nel Paese dell’Europa orientale – perché questo significa che anche la Moldova, con questa riforma proposta, che ha un carattere di snellimento delle procedure burocratiche, dimostra una volontà politica di apertura nei confronti dell’istituto adottivo e questo non può che fare ben sperare. In Italia dovremmo e dobbiamo prendere nota di queste”

AIBInews       17 febbraio 2020

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-in-moldova-nuova-legge-riduce-tempi

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AFFIDO CONDIVISO

Cassazione: affido condiviso non significa dividere i figli al 50%

Corte di Cassazione, prima Sezione civili, ordinanza n. 3652, 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37415_1.pdf

L’ordinanza della Cassazione ribadisce che nel momento in cui il giudice dispone l’affido condiviso di un minore, i genitori non possono pretendere che i tempi da trascorrere con il proprio figlio debbano essere perfettamente divisi a metà in base a un calcolo aritmetico. Occorre tenere conto prima di tutto del diritto del minore a crescere in modo sano ed equilibrato. Di fronte a questo interesse primario vengono meno le problematiche lavorative dei genitori. Nel caso di specie inoltre, la relazione conflittuale dei genitori dopo la separazione non ha ostacolato la buona relazione della figlia minore con entrambe le figure genitoriali. Il ricorso del padre quindi, con cui contesta la fissazione della residenza della figlia presso la madre, deve essere respinto.

Affido condiviso non significa tempo diviso a metà. Il Tribunale dispone l’affido condiviso di una minore con collocazione prevalente presso la madre. La casa familiare è assegnata alla donna, al padre è riconosciuto il diritto di visita e a suo carico è posto l’obbligo di corrispondere 200 euro mensili e il 50% delle spese straordinarie per la figlia. Il padre avanza reclamo verso detta decisione, ma la Corte d’Appello lo respinge. Lo spostamento della residenza delle minore provocherebbe un turbamento inutile della sua attuale situazione di convivenza con la madre, priva di disagio o inopportunità.

            Una convivenza paritaria in termini assoluti comporterebbe uno sconvolgimento della situazione attuale, tale da rendere la condizione della figlia più faticosa e destabilizzante. I diritti di visita del padre inoltre sono stati stabiliti dai servizi sociali nell’interesse della minore, perché pur consentendo un ampio spazio di relazione con il genitore non turba i ritmi di vita della figlia con l’altro. Sulla richiesta di un tempo di conversazione giornaliero audio video con la figlia la Corte fa notare che tale richiesta, inizialmente accolta, è stata poi revocata implicitamente e non è stata più oggetto di domanda da parte del padre.

Simmetrica ripartizione dei tempi di permanenza presso i genitori. Il padre ricorre in Cassazione contestando con il primo motivo del ricorso come la collocazione della minore presso la madre è stata disposta senza un’adeguata attività istruttoria. La Corte d’appello si è infatti limitata a desumere la presunta stabilità della minore presso la madre da una decisione giudiziale provvisoria e contestata fin dall’inizio. Con il secondo evidenzia come la Corte non abbia preso in considerazione il lavoro della donna (soggetto a turnazione) e i rapporti intercorrenti tra gli ex coniugi e di ciascuno di essi con la minore, come delineati dai servizi sociali e tratteggiati dal professore incaricato nella sua relazione tecnica. Con il terzo contesta come la Corte abbia affermato che “i principi che presiedono alla regolamentazione dei rapporti tra genitori non conviventi e figli non si identificano, ancora una volta in parametri aritmetici, vale a dire in una simmetrica ripartizione dei tempi di permanenza della minore con ciascuno dei genitori.” Con il quarto infine contesta la ritenuta revoca implica del provvedimento con cui il giudice di primo grado ha autorizzato un contatto telefonico giornaliero tra padre e figlia.

            Affido condiviso non significa tempi paritari con la figlia. La Cassazione respinge il ricorso del padre per i seguenti motivi. Gli Ermellini ritengono il primo motivo del ricorso inammissibile perché non indica il fatto omesso che avrebbe condotto la Corte a decidere erroneamente. Risulta infatti che la valutazione della Corte relativa ai provvedimenti provvisori adottati dal giudice di merito sull’affidamento si è poi rivelata fondata dopo la successiva istruttoria. La Corte ha inoltre ritenuto che la volontà della donna di non riaprire un dialogo con il marito non rileva rispetto al thema decidendum dell’affido, visto che il rapporto della minore con entrambi i genitori si è svolto senza ostacoli dopo la separazione. Il secondo motivo invece è infondato. La Corte nel disporre l’affidamento della figlia ha tenuto conto dei tempi lavorativi dei genitori, degli impegni della minore e dell’idoneità genitoriale di entrambi, ritenendo più positivo e stabile per la bambina mantenere una relazione stabile con la madre nella fase della prima infanzia, perché in grado di assicurare una crescita più serena ed equilibrata della minore, a cui comunque è garantita una frequentazione con il padre. Stabilire la residenza della minore tenendo conto solo degli orari di lavoro dei genitori non è confacente ai suoi interessi.

Infondato anche il terzo motivo. Corretto il principio applicato dalla Corte in base al quale: “la regolamentazione dei rapporti fra genitori non conviventi e figli minori non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice di merito che, partendo dalla esigenza di garantire al minore la situazione più confacente al suo benessere e alla sua crescita armoniosa e serena, tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo.” Infondato infine anche il quarto motivo. Il provvedimento che ha disposto il contatto telefonico giornaliero del padre con la figlia è stato implicitamente revocato perché la Corte d’Appello, dopo averlo valutato, lo ha ritenuto passibile di strumentalizzazione.

 Annamaria Villafrate studio Cataldi            18 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37415-cassazione-affido-condiviso-non-significa-dividere-i-figli-al-50.asp

 

Affidamento dei figli: la Cassazione predilige modello monogenitoriale

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 1191, 21 gennaio 2020

https://sentenze.laleggepertutti.it/sentenza/cassazione-civile-n-1191-del-21-01-2020

Una lunga serie di interventi volti alla conservazione del vecchio schema monogenitoriale trova coronamento nella sentenza di Cassazione che mostra senza equivoci per quale modello simpatizzi.

Premessa: la sentenza di Cassazione fra precomprensione e creazione giudiziaria di diritto.La sentenza ripropone un antico problema, ovvero la determinazione e il rispetto del confine – a volte labile, ma di estrema rilevanza, visto che i gradi del giudizio non sono infiniti – tra decisioni di merito e di legittimità. In effetti, chi scrive è intimamente convinto che l’estensore di un provvedimento prima decida come orientare la decisione su basi di opportunità di ispirazione culturale e dopo ne cerchi la giustificazione tecnica, costruendola in qualche modo, non sempre persuasivo (è il noto fenomeno della c.d. precomprensione dell’interprete). Tutto questo sarebbe difficilmente accettabile, anche se la scelta a priori fosse ispirata a generali principi di equità applicati episodicamente, caso per caso e in assenza di sistematicità. Si ha, invece, non di rado l’impressione che le decisioni della Corte seguano fedelmente suoi punti di vista, andando in sostanza a “correggere” il dettato normativo. In altre parole, sembra che chi amministra il potere giudiziario a quei livelli utilizzi le occasioni fornite da singole vicende, anche a costo di forzarne la soluzione, per modificare sostanzialmente regole che non approva. Così, creando un evidente conflitto tra i poteri dello Stato.

La filosofia generale sottesa all’affidamento condiviso. Il diritto di famiglia – e in particolare le regole sull’affidamento condiviso – fornisce un illuminante esempio di una prassi di questo tipo. Lo rammenta, inequivocabilmente, la sentenza, che appare improntata ad una filosofia di dubbia coerenza con la lettera e con lo spirito della Legge 54/8 febbraio 2006.                          www.camera.it/parlam/leggi/06054l.htm

            Conviene, tuttavia, partire un po’ più indietro per meglio verificare se la recente decisione si collochi o meno all’interno di una sistematica tendenza ostile ai concreti contenuti della bigenitorialità. Se questi, come sembra pacifico, possono essere individuati nel pari coinvolgimento dei genitori nella cura dei figli, nelle pari opportunità di relazione con essi e nel pari obbligo – diverso solo nella misura – di contribuire, ciascuno per suo conto, al soddisfacimento dei loro bisogni, è facile verificare come invece le simpatie della Suprema Corte siano tutte per la monogenitorialità. Naturalmente i principi elencati sono da intendere solo come regola generale, con tutte le infinite eccezioni che la casistica sottopone. Ma la differenza resta fondamentale e chiarissima. Un conto è porsi come obiettivo primario le pari opportunità e allontanarsene solo se e nella misura in cui sia materialmente impossibile realizzarle; altra cosa assumere come modello consigliabile, preferenziale, di partenza, la prevalenza di un genitore e neppure curarsi di verificare se sia possibile operare diversamente.

Posta la questione in questi termini, si tratta solo di riflettere su quanto è sotto gli occhi di tutti, a partire dai prestampati distribuiti nelle cancellerie per quanto attiene ai giudici di prime cure, che dimostrano ad abundantiam il favore nei confronti del modello sbilanciato, a genitore prevalente: l’esatto opposto di quanto previsto dalla riforma del 2006. Meno semplice, ma possibilissimo, ottenere la medesima evidenza per la Cassazione, la cui rilevanza è massima, trattandosi di Corte di legittimità. In questa sede, dunque, la sentenza che inaugura il 2020 quanto al regime di affidamento dei figli sarà considerata come punto di arrivo di decisioni antecedenti, le più significative delle quali verranno velocemente rammentate.

L’ostilità “storica” della Suprema Corte verso il modello condiviso. Iniziando dall’aspetto cruciale, la presenza dei figli presso ciascuno dei genitori, la legittimazione della prassi di sbilanciare la frequentazione introducendo (rectius [più esattamente], inventando) un “genitore prevalente” è assolutamente costante, per cui non esiste che l’imbarazzo della scelta. L’ammissione più esplicita può essere vista in Cass. 18087/14 settembre 2016: “Il criterio che privilegia la madre nell’individuazione del genitore con il quale i figli in età scolare o prescolare vivranno in via prevalente in ipotesi di separazione può essere superato solo se la donna non possiede le necessarie capacità genitoriali ed educative”. Si è ovviamente al cospetto della confessione di una ideologia contra legem che va ben oltre quanto di regola praticato, individuando anche differenze di genere di dubbia costituzionalità, non necessarie per il ragionamento che qui si conduce, che mira soltanto a mostrare come la Suprema Corte, anziché limitarsi ad impiegare rigorosi criteri di legittimità rispetto alla normativa in vigore, introduca filtri appartenenti a parametri di opportunità – ossia di merito – partoriti da personali e soggettive convinzioni. Una pronuncia tutt’altro che isolata, come si accennava. Chi gradisse testimonianze più recenti può agevolmente trovarle nell’ordinanza n. 24937/7 ottobre 2019, che riproduce acriticamente, a ben guardare, i criteri e le misure dell’affidamento esclusivo, anche se in forma camuffata o surrettizia, ovvero invertendo la dovuta regola dell’equilibrio con l’eccezione della prevalenza, adottata a priori.

D’altra parte, la predilezione della Corte per l’esistenza di un genitore “collocatario” è segnalata vistosamente anche dalla individuazione di una “residenza abituale”, infilata nel Codice civile dal D. Lgs. n. 154/28 dicembre 2013                                                                        www.lexitalia.it/leggi/2013-154.htm

in assenza di espressa delega, comunemente intesa nella giurisprudenza di merito come l’abitazione del genitore prevalente, mentre dovrebbe rispondere solo alla necessità di individuare il giudice competente in caso di trasferimenti unilaterali dei figli – ovvero attuati senza accordo con l’altro genitore né l’autorizzazione del giudice – e dovrebbe tenere conto solo del vissuto precedente e non degli attuali effetti dell’abuso. Lo segnala, ad es., Cass. 21285/20 ottobre 2015, affermando che a tal fine “sarà necessaria una prognosi sulla possibilità che la nuova dimora diventi l’effettivo, stabile e duraturo centro di affetti e di interessi del minore”. Ossia nello specifico ci si deve chiedere se il genitore abusante – tipicamente il ‘collocatario’ – abbia intenzione o meno di rientrare con i figli, anziché valutare dove questi si erano fin lì radicati. Valutazione che, se giustapposta a quanto leggibile per le medesime situazioni sul sito stesso del Ministero della Giustizia, dove ci si riferisce nell’identico modo al “genitore non affidatario/collocatario” (Scheda pratica – Sottrazione verso l’estero di un minore residente in Italia), dà chiara prova della discriminazione giuridica introdotta dalla giurisprudenza di ogni ordine e grado all’interno dell’affidamento condiviso, in senso diametralmente opposto alle lettera e alla ratio della Legge n. 54/2006.                            www.giustizia.it/giustizia/it/mg_3_5_8.page

Passando, d’altra parte, ad aspetti ancora più concreti, l’affezione per il modello monogenitoriale e la conseguente esasperata tutela del “genitore collocatario” emerge con grande chiarezza da quanto si legge in Cass. 2127/03 febbraio 2016 in materia di contribuzione alle spese straordinarie: “Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso”. Un’affermazione, questa, che non necessita di commenti.

            Esemplare, del resto, per lo sconfinamento nel territorio del merito è quanto si legge in materia di mantenimento economico dei figli. La Suprema Corte, nella decisione (sentenza) n. 23411/04 novembre 2009, correttamente dichiara che secondo la Legge 54/2006 “l’assegno per il figlio” può essere disposto “in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore”. Purtroppo nello stesso provvedimento la Suprema Corte cede alla tentazione di mettersi in proprio, aggiungendo: “È da ritenere (…) che la corresponsione di assegno si riveli quanto meno opportuna, se non necessaria, quando (…) l’affidamento condiviso preveda una collocazione prevalente presso uno dei genitori (…) Il genitore collocatario, essendo più ampio il tempo di permanenza presso di lui, avrà necessità di gestire, almeno in parte, il contributo al mantenimento da parte dell’altro genitore, dovendo provvedere in misura più ampia alle spese correnti e all’acquisto di beni durevoli che non appartengono necessariamente alle spese straordinarie (indumenti, libri…).”. A prescindere dalla evidente violazione di regole di logica e buon senso nel sostenere che l’abbigliamento e l’istruzione sono funzione della convivenza (non potrebbe invece provvedervi, anche per intero, il genitore meno presente?), si proclama una preferenza che anzitutto conduce nello specifico a rigettare una richiesta di mantenimento diretto fondata, sulla base di soggettive considerazioni di opportunità (non ammissibili in sede di legittimità), ma che si è poi forzati a difendere in successive inevitabili occasioni, con motivazioni ancora più “sorprendenti”. Si sosterrà, infatti, in Cass. n. 22502/04 novembre 2010 che “nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277 cod. civ., in tema di mantenimento dei figli (…), la regola dell’affidamento condiviso a entrambi i genitori ai sensi dell’art. 155 cod. civ. (…) non implica deroga al principio secondo il quale ciascun genitore deve provvedere alla soddisfazione dei bisogni dei figli in misura proporzionale al suo reddito. In applicazione di essa, pertanto, il giudice deve disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, va posto a carico del genitore non collocatario, prevedendone lo stesso art. 155 la determinazione in relazione ai tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore”. Dove evidentemente ci si è dimenticati che altra – e anch’essa non unica – variabile da considerare è il reddito, per cui secondo questa sorprendente tesi il genitore che guadagnasse 10 volte più dell’altro ma tenesse i figli con sé un giorno al mese in più avrebbe titolo per esigere una contribuzione in denaro… E alla facile contestazione che ne seguì si pensò di dare definitiva replica sostenendo (Cass. n. 785/20 gennaio 2012) che il giudice è autorizzato a optare sempre e comunque come vuole tra mantenimento diretto e indiretto dal secondo comma dell’art. 337 ter c.c., che a lui dà facoltà di determinare il modo e la misura del contributo. Purtroppo dimenticando che la disposizione codicistica citata, al quarto comma, dedica al mantenimento specifiche prescrizioni in favore della forma diretta, che quindi non possono essere scavalcate dal generico accenno del comma 2, che non poteva lasciare che a lui l’ultima parola, ad es. per dettagliare quanto pesa un capitolo di spesa rispetto ad un altro o quale dei genitori provvederà all’abbigliamento se lo vogliono entrambi.

D’altra parte, la dimostrazione della distanza ideologica e culturale della magistratura di Cassazione dai principi fondanti dell’affidamento condiviso è fornita anche da recenti esternazioni della Presidente uscente della prima Sezione civile (specificamente competente in materia di famiglia), la quale dichiara con disinvoltura che “Dalla previsione di tempi paritetici scaturisce una serie di conseguenze tutte molto discutibili. Mi riferisco all’assegno di mantenimento dei figli, che viene sostanzialmente soppresso con la previsione che ciascuno dei genitori provveda al mantenimento diretto nel periodo di permanenza della prole presso di sé” (IlSole24Ore.com). Ora, il mantenimento si articola in due componenti: le spese legate alla convivenza (cibo, utenze, igiene personale e simili) e le spese esterne, che cioè da essa non dipendono. È questo secondo gruppo di oneri, in genere quantitativamente di gran lunga prevalente, che caratterizza la forma del mantenimento, a seconda che ad essi provveda ciascun genitore per la propria parte (diretto), oppure che deleghi l’altro fornendogli il relativo denaro (indiretto). Collegandolo al primo gruppo e solo a quello (come nella citazione) si avrebbe sempre mantenimento diretto perfino prima della riforma che lo ha introdotto, ossia anche in regime di affidamento esclusivo; contro ogni evidenza.

In definitiva, l’intera questione esemplifica in modo eloquente che la Suprema Corte è affezionatissima alle proprie ideologiche convinzioni e le difende accanitamente a prescindere dalla logica giuridica e dalle prescrizioni di legge.

            Anomalie e aporie della sentenza di Cassazione n. 1191/2020. Con queste premesse la sentenza non dovrebbe sorprendere più di tanto. Si segnala, tuttavia, sia perché costituisce in buona misura un “punto di accumulazione” delle posizioni precedentemente illustrate, sia perché – in sostanza – serpeggia attraverso il contestato fraseggio della Corte di Appello (che la Cassazione sposa in toto e ribadisce) attraverso ciò che si tollera e ciò che si censura, un giudizio moraleggiante, di regola punitivo per il ricorrente (che in effetti si pone in posizione polemica verso il ‘sistema’ elaborato dalla giurisprudenza), sui comportamenti interni alle famiglie, che, se non seguiti, comporteranno sanzioni da parte delle istituzioni: insomma, ci si ispira ai principi propri dello Stato etico.

Tutta la vicenda suscita, infatti, non pochi motivi di perplessità, a causa di circostanze indubbiamente anomale e/o irrituali, che inevitabilmente lasciano sconcertati. A prescindere dal fatto che se ne possa riuscire a reperire in qualche modo giustificazione attraverso aspetti formali o rilievi capziosi, resta il fatto che sono “troppe” e che sono davvero pesanti sotto il profilo sostanziale. Possibile che, al contrario, a ben guardare e frugare nelle pieghe del diritto ispirandosi a principi di equità non se ne potesse evitare o sanare alcuna?

Ad es., un giudice onorario del Tribunale Z sottopone una propria vertenza al giudizio delle corti del medesimo distretto: eccezioni respinte, con evidente disagio deontologico (come minimo). Oppure: viene disposto che le due figlie non abbiano contatti con il compagno della madre ed esse trascorrono i quattro mesi estivi presso il bagno dove questi lavora, alloggiando presso la di lui casa, ma le istituzioni tacciono. Ovvero, si censura la scarsa presenza del padre presso le figlie che affiderebbe sistematicamente alle cure dei nonni, dimenticando però che in tale periodo quel genitore, rimasto privo di risorse a causa di provvedimenti giudiziali, era tornato ad abitare presso i nonni (e cioè presso i di lui genitori). Nonni le cui risorse economiche vengono introdotte d’ufficio tra quelle dell’obbligato per il calcolo del contributo al mantenimento (non si comprende in nome di quale norma o principio), in aggiunta a potenzialità di guadagno previste, ma comunque ancora inesistenti.

 O ancora: un’autoritaria estromissione del consulente di parte ricorrente che assisteva agli incontri tra la parte medesima e le figlie viene ordinata dal giudice di CA senza alcuna motivazione giuridica; giudice che estromette anche il Curatore speciale delle minori, che era stato nominato nelle prime cure e che stava avviando le parti ad una soluzione equilibrata. Inoltre: le videoregistrazioni degli incontri in CTU vengono distrutte prima che sia possibile utilizzarle. Il tribunale ne ordina il deposito e gli si risponde che non esistono più… Rammenta, è vero, la Suprema Corte che “ i dati acquisiti dai tecnici strumentali agli accertamenti delegati nel corso dell’espletamento delle indagini, in applicazione di quanto previsto dall’art. 11, lett. e) del Codice della privacy, non possono  essere conservati per un tempo superiore  quello necessario per il conseguimento degli scopi per cui sono stati acquisiti, raccolti o successivamente trattati, tempo da identificarsi con la conclusione dell’incarico peritale e il deposito della relazione”. Ma pare non accorgersi che in tal modo se ne svuota totalmente l’utilità e il senso. Se non sono disponibili fino a che il procedimento è aperto, ma devono essere distrutti non appena terminate le operazioni peritali, se ne impedisce la verifica e l’utilizzazione nell’ambito del processo, che è la sede in cui si è avvertita la necessità di disporre la consulenza. I periti non hanno bisogno delle tracce, visto che erano fisicamente presenti: i difensori, invece, sì. Altrimenti che motivo c’è di crearle? Ma la Suprema Corte si affida ad una capacità del tutto teorica di contemperare le esigenze del contraddittorio con quelle della privacy, anche se nella fattispecie questo bilanciamento sia mancato. Così come, attraverso vari meccanismi perversi, il prelievo del quinto dello stipendio viene applicato per due volte contemporaneamente al medesimo soggetto, che però lo perde totalmente, perché per i restanti tre quinti opera la distrazione disposta dal giudice. Quanto ciò sia compatibile con la legge e con i principi costituzionali la Corte non si perita di motivare.

            Ma ciò che maggiormente preoccupa, sotto il profilo costituzionale, è lo sconfinamento nelle sfere di competenza individuale del cittadino. Valutazioni come “La Corte di merito (p.7) muovendo dagli esiti delle relazioni dell’ente affidatario dà conto della circostanza che il padre trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutto il giorno e tornando solo la sera” sono davvero allarmanti. Al di là del fatto che la descrizione viene da una fonte con la quale il ricorrente è in polemica; al di là del fatto che non si svolge alcuna indagine sulle ragioni di tali assenze (che potrebbero essere inevitabili); al di là del fatto che i nonni sono titolari jure proprio di un diritto di frequentazione dei nipoti; al di là del fatto che utilizzare persone terze per la custodia dei figli è pratica comunissima presso le famiglie separate: è l’intervento di per sé che è davvero sconcertante. È l’interferenza con l’organizzazione familiare e con scelte che sono anche educative e la relativa censura che risulta inaccettabile (quantomeno in uno Stato di diritto). E questo anche se quel padre aveva chiesto un ampliamento dei tempi di frequentazione. Una maggiore presenza delle figlie avrebbe potuto, ad es., consentirgli di organizzare diversamente le proprie attività esterne. Per chiarire il concetto: a determinati lavoratori dipendenti viene concesso il part-time solo se la loro responsabilità di genitori supera una certa soglia in termini di impegno. Come si può, quindi, censurare al buio, in base al modello teorico auspicato dal funzionario statale? Così opera lo Stato etico.

Le insanabili carenze della Consulenza Tecnica di Ufficio disposta dal giudice di primo grado. Tutto ciò premesso, esistono anche valutazioni e scelte per le quali non esiste discrezionalità e non si riescono a scorgere meccanismi di sanatoria neppure peregrini. È il caso dell’intera procedura che ha accompagnato la Consulenza Tecnica di Ufficio, all’interno della quale sarebbe stata svolta l’audizione della figlia maggiore. Anche sorvolando sulla già rammentata distruzione dei verbali audiovisivi, anche evitando di soffermarsi sull’ennesima anomalia di nominare due consulenti di ufficio anziché uno solo, già la formulazione del quesito appare non coerente con le competenze e il ruolo dei periti, nonché, soprattutto, con le previsioni di un affidamento che a priori dovrebbe essere condiviso. Si chiede, infatti:

  • ” quale dei due genitori sia maggiormente idoneo a garantire un proficuo e stabile percorso di crescita delle minori (…);
  • Quale possa essere il miglior regime di affidamento e/o collocamento delle minori nell’attualità e nella prospettiva (…);
  • Quale possa essere il miglior regime di frequentazione da riservarsi al genitore non prevalente collocatario”.

Ora, chi scrive sa bene che quesiti del genere vengono formulati con grande frequenza nei nostri tribunali. Tuttavia, una simile circostanza quantitativa non può costituire motivo di assoluzione presso una Corte di legittimità. Se un automobilista parcheggia in divieto di sosta non evita la multa facendo notare che “lo fanno tanti senza pagare pegno…”.  Si chiede, dunque, al consulente psicologo di effettuare una scelta su aspetti prettamente giuridici, ovvero al di là della valutare se siano presenti in uno dei genitori caratteristiche che costituiscano motivo anche potenziale di pregiudizio per i figli, lasciando al giudice il compito di valutare quale sia il tipo di provvedimenti da adottare in simili circostanze, se ne delega la scelta ai periti stessi, per giunta sottolineando, contra legem, che si dovrà individuare “il migliore” dei due genitori, anche se fossero entrambi perfettamente idonei; oltre, ovviamente, a prevedere già nel quesito che dovrà esserci un genitore prevalente, collocatario, e un soggetto “secondario”, che dovrà accontentarsi dell’antico “diritto di visita”. Insomma, una completa restaurazione delle modalità dell’affidamento esclusivo.

            Ciò premesso, si disserta a lungo in sede di legittimità su una “audizione della figlia maggiore”, che in realtà non è mai avvenuta. L’aspetto più bizzarro può essere visto nelle pagine che la Suprema Corte spende per sostenere che di fatto l’audizione c’è stata e si è svolta all’interno della CTU, perché la presenza della ragazzina in quella sede ha rispettato la sostanza di una audizione, anche se non disposta. Il motivo per cui tutto ciò ha dell’incredibile è che l’audizione di un figlio minore “non può” essere rimesso ai soggetti e all’ambiente della CTU stessa. Ossia una Corte di legittimità si affanna a sostenere che è tutto regolare perché… è avvenuto ciò che per sua natura e definizione non doveva verificarsi, anche a prescindere dall’assenza di incarico: “L’ascolto indiretto del minore (…) non è mai questione terminologica, ma di metodo; il relativo incombente resta pertanto soddisfatto non solo ed esclusivamente se vi sia stato l’utilizzo del termine nel conferimento dell’incarico al tecnico nominato ed il richiamo allo stesso nella svolta relazione, ma per le modalità secondo le quali esso sia stato operato”. Ora, è vero che l’ascolto può anche essere indiretto; forse – e il forse è da sottolineare tre volte – può anche sostenersi che l’esecuzione sana il difetto della mancanza di incarico: ma non appare assolutamente sostenibile che se ne possano modificare i caratteri essenziali. Il diritto all’ascolto è diritto in capo al figlio di esprimere il proprio pensiero ove lo voglia e su ciò che voglia. Nella CTU, invece, il figlio è sottoposto a un interrogatorio sui temi e per gli scopi che interessano l’interrogante, ovvero per carpirgli comunque una preferenza, che differenzi i genitori, pur in un affidamento a priori condiviso. Un incarico di audizione in CTU – tratto dallo stesso ambito di giustizia milanese (Trib. Milano, Sez. IX, provvedimento 20 marzo 2014, n. 10217) – fornisce un esempio illuminante di una simile procedura: “…il Ctu dovrà indagare l’effettiva volontà del minore circa il luogo in cui desidera vivere in modo prevalente e circa il modo e i contenuti e i tempi di frequentazione di entrambi i genitori”. A tutto ciò si somma, in modo decisivo, la mancanza di protezione del soggetto dalle pressioni e dalle interferenze – anche involontarie – delle parti e/o dei loro rispettivi consulenti, presenti all’interrogatorio. Pure, a dispetto di ciò, la Suprema Corte si sbilancia nel sostenere che le operazioni si sarebbero svolte con perfetta regolarità, per cui né la sede (contestata), né l’assenza di mandato costituiscono motivo valido di impugnazione.

Conclusioni. Avendo sottolineato l’affezione della Suprema Corte per il modello monogenitoriale, si può avere la curiosità di chiedersi perché si dovrebbero considerare le elencate bizzarrie del caso milanese come una conferma di questa tendenza. La risposta si trova nella generale filosofia dell’intera vicenda, scremandola dagli innumerevoli incidenti di percorso e riportandola all’essenziale, al di là dei classici e strumentali posizionamenti di tutte le componenti in gioco (non solo delle parti). La resistente, sulla base di modalità stabilite al primo grado che, anche se rispettate, creavano una forte disparità di opportunità e di ruolo tra i genitori, stava costituendo un nuovo nucleo familiare rispetto al quale l’altro genitore sarebbe stato comunque accessorio e sempre meno rilevante. Il ricorrente, sicuramente fortemente risentito per l’inutilità dei suoi sforzi e quindi esposto al rischio di andare fuori misura, intendeva svolgere compiutamente il proprio ruolo di genitore, permettendo alle figlie di godere di pari opportunità di accesso ad entrambi. E le cose sono andate come sappiamo.

            Il braccio di ferro tra i due modelli, mono e bigenitoriale, non è dunque ancora terminato. Anche se la bigenitorialità viene sistematicamente svuotata dei suoi contenuti sostanziali, ciò non basta: non è forse in atto una raccolta di firme per chiedere al Parlamento anche l’abrogazione della legge istitutiva dell’affidamento condiviso (la legge 54 del 2006 va abolita!)? E da che parte stia la Suprema Corte non potrebbe essere più chiaro. Ma anche in quale direzione va la storia e dove porterebbe avallare una concezione della famiglia in crisi tutt’altro che progressista.

Marino Maglietta       altalex             21 febbraio2020

www.altalex.com/documents/news/2020/02/21/affidamento-figli-cassazione-predilige-modello-monogenitoriale

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEI FIGLI

Niente tenuità del fatto per chi non mantiene i figli

Per la Cassazione, la non punibilità per particolare tenuità del fatto va esclusa se l’obbligo di versamento si protrae per troppo tempo

Due vicende processuali, in cui gli Ermellini negano il mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto in relazione al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. La Cassazione n. 5774/2020 mette in evidenza che la causa di esclusione non è riconoscibile se il mancato versamento non è occasionale, ma perdura per lungo tempo

       Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 5774, 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37394_1.pdf

La Cassazione n. 5765/2020 stabilisce altresì che il riconoscimento della causa di esclusione della responsabilità richiede una valutazione complessa di tutti i fattori, come la gravità della condotta, il grado di colpevolezza e l’entità del danno arrecato.

            Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 5765, 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37394_2.pdf

Omesso mantenimento figli per alcuni mesi. Nella prima vicenda processuale la Corte d’Appello riforma la sentenza di primo grado e dichiara l’imputato non punibile per il reato di cui all’art. 570 c.p. comma 2 per l’omesso versamento del contributo al mantenimento di 300 euro mensili e del 50% delle spese straordinarie dovute per i figli minori. Dall’istruttoria è emersa la saltuarietà degli inadempimenti, limitati ad alcuni mesi e dovuti alle difficoltà economiche che il soggetto obbligato attraversando a causa d attività commerciali avviate e non andate a buon fine. I fatti di causa pertanto devono ritenersi di particolare tenuità.

            Il Procuratore Generale ricorre contro la sentenza assolutoria ritenendo erronea l’applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. L’imputato nel corso di 38 mesi ha versato solo 8 mensilità, ha corrisposto una somma ridotta per 6 mesi ed è stato inadempiente in relazione alle altre scadenze, comprese le spese straordinarie.

Tenuità del fatto esclusa se l’obbligo contributivo non è occasionale. Con la sentenza n. 5774/2020 la Cassazione accoglie il ricorso del procuratore e annulla il provvedimento con rinvio ad altra Sezione della Corte per un nuovo giudizio. Per gli Ermellini la Corte d’Appello è giunta a riconoscere la tenuità del fatto e la non punibilità dell’imputato senza fornire un’adeguata motivazione. La Corte ha infatti fatto un mero riferimento ad un “inadempimento saltuario e limitato a pochi mesi e a generiche difficoltà economiche” dell’imputato. Nelle due sentenze precedenti invece è stato messo in evidenza che il mancato rispetto degli obblighi di mantenimento si riferisse in realtà a 38 mesi. Di tutti questi mesi infatti l’imputato ha versato ai figli quanto stabilito dal giudice solo per 8 mensilità, in altre 6 occasioni ha versato un importo ridotto e nei residui 24 è risultato del tutto inadempiente. La Corte inoltre non ha preso in considerazione il principio secondo cui: ” la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis cod. pen. è sì applicabile al reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ma a condizione che l’omessa corresponsione del contributo al mantenimento abbia avuto carattere di mera occasionalità; e la modesta entità del contenuto dell’obbligo contributivo imposto e non adempiuto non è di per sé sufficiente a configurare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, avendo rilievo, a tal fine, le modalità e la durata della violazione.”

Interesse ai bisogni della famiglia e accollo mutuo. Nella seconda vicenda processuale invece la Corte d’appello conferma la sentenza di primo grado condannando l’imputato alla pena di due mesi di reclusione e duecento euro di multa per il reato di cui all’art. 570 comma 2 c.p. L’imputato però ricorre in Cassazione mettendo in evidenza che:

  • L’obbligo di versare il contributo di 300 euro mensili per i figli non era stato definito da un provvedimento giudiziale, ma da un accordo negoziale con la compagna;
  • La ex compagna ha dichiarato al Pm che ai figli non erano mai mancati i mezzi di sussistenza;
  • Dopo la separazione dalla compagna si era accollato per intero il pagamento della rata del mutuo;
  • Non si è mai disinteressato completamente delle problematiche economiche della famiglia,
  • Di aver assunto un impegno che gli ha impedito di assolvere alla contribuzione per i figli.

    Chiede quindi il riconoscimento della non punibilità per particolare tenuità del fatto, erroneamente negato in sede di merito.

Giudizio tenuità del fatto deve tenere conto di tutti gli aspetti della vicenda. Con la sentenza n. 5765/2020 la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso presentato dall’imputato precisando che, affinché possa configurarsi la causa di esclusione di responsabilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa che tenga conto delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza e dell’entità del danno o del pericolo che ne consegue. In questo caso la Corte d’Appello ha adeguatamente motivato la ragione che l’ha portata a non riconoscere la causa di esclusione della punibilità in quanto ha rimarcato in senso negativo le modalità e la gravità della condotta dell’imputato, protrattosi per ben otto anni.

Annamaria Villafrate Studio Cataldi 17 febbraio 20209

www.studiocataldi.it/articoli/37394-niente-tenuita-del-fatto-per-chi-non-mantiene-i-figli.asp

 

Figli maggiorenni e ormai indipendenti: al padre va restituito quanto pagato per il mantenimento

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 3659, 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37384_1.pdf

            Un padre conveniva in giudizio l’ex moglie ed esponeva che, dopo aver il Tribunale dichiarato la cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, era stato pattuito a carico dello stesso il pagamento di un contributo di mantenimento mensile per le due figlie, fino al termine degli studi universitari. Successivamente, lo stesso Giudice aumentava l’importo dell’assegno di mantenimento. Ma dopo che le figlie avevano conseguito la laurea e contratto anche matrimonio, rispettivamente nel 1994 e nel 1998, al padre di queste ultime nel 2006 veniva notificato un atto di precetto per il pagamento del contributo relativo agli ultimi 5 anni, cui comunque lo stesso aveva provveduto nonostante non vi fosse tenuto; pertanto, chiedeva la restituzione di quanto pagato e la condanna dell’ex moglie al risarcimento del danno per l’appropriazione indebita delle somme. Il Tribunale, in primo grado, e la Corte d’Appello in secondo, rigettano la pretesa restitutoria, così il padre ricorre in Cassazione.

Il venir meno dell’obbligo di mantenimento dei figli. Nel caso di specie, come risulta dalla sentenza impugnata, le figlie, con il matrimonio contratto nel 1994 e nel 1998, hanno raggiunto la definitiva indipendenza economica; e tale circostanza per i Giudici di legittimità è decisiva e giustifica il venir meno dell’obbligo del padre di provvedere al loro mantenimento. A ciò si aggiunge anche che prima dei matrimoni delle figlie, queste comunque avevano conseguito il diploma di laurea che faceva venir meno l’obbligo di mantenimento da parte sua, in base all’accordo congiunto raggiunto tra i coniugi in sede di divorzio.

La circostanza, poi, che il procedimento di revisione delle condizioni economiche proprie del regime post coniugale sia stato introdotto dal ricorrente solo in un secondo momento, per ottenere il riconoscimento del mutamento di dette condizioni e di essere esonerato in futuro da ulteriori pagamenti, non impedisce la proposizione dell’azione restitutoria delle somme indebitamente corrisposte, a norma dell’art. 2033 c.c..

Spetta, infatti, al giudice cui si propone la domanda restitutoria di indebito valutarne la fondatezza in relazione agli eventi successivi che si verificano. E – proseguono i Supremi Giudici – che l’irripetibilità delle somme versate dal genitore obbligato all’ex coniuge si giustifica solo dove gli importi riscossi abbiano assunto una concreta funzione alimentare, la quale non ricorre nelle ipotesi in cui ne abbiano beneficiato i figli maggiorenni che ormai abbiano una indipendenza economica in un periodo in cui era noto il rischio restitutorio. A ciò consegue l’accoglimento del ricorso, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio, per nuovo esame, alla Corte territoriale in diversa composizione.

 Redazione scientifica   Il familiarista   19 febbraio 2020

http://ilfamiliarista.it/articoli/news/figli-maggiorenni-e-ormai-indipendenti-al-padre-va-restituito-quanto-pagato-il?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_19_Febbraio_2020

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ASSEGNO DIVORZILE

Cassazione: meno soldi all’ex moglie che non cerca lavoro

Doppietta degli Ermellini sull’assegno di divorzio: lo stesso va ridotto se la moglie non si attiva nel cercare un lavoro e se non ci sono impossibilità oggettive di procurarsi i mezzi necessari

Due ordinanze della Cassazione, la n. 3661/2020 e la 3662/2020 si pronunciano in materia di assegno di divorzio.

La prima specifica che l’assegno di divorzio deve essere ridotto se la moglie, dopo la fine del matrimonio, non si attiva nel cercare un lavoro e tiene un atteggiamento passivo, facendo così ricadere la conclusione del rapporto sull’ex marito.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 3661, 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37432_1.pdf

La seconda invece chiarisce che, nel riconoscere e quantificare l’assegno di divorzio è necessario tenere conto anche dell’inadeguatezza dei mezzi o dell’impossibilità oggettiva da parte del coniuge richiedente, di procurarsi autonomamente i mezzi necessari.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 3662, 13 febbraio 2020

https://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37432_2.pdf

Ridotto l’assegno alla ex che dopo il divorzio eredita e non cerca un impiego

Nella prima vicenda processuale la Corte d’Appello su ricorso dell’ex marito, tenuto a versare alla ex moglie un assegno mensile di 4.000 euro in virtù della sentenza di divorzio, riduce l’assegno a 2.000 euro, perché la donna nel frattempo è diventata erede prima della madre e poi del padre e dopo la separazione non ha cercato un’occupazione. Avverso la decisione del giudice di secondo cure la donna ricorre in Cassazione lamentando nel quarto motivo del ricorso come la Corte abbia interpretato erroneamente l’art. 5 comma 6 della legge n. 898/1970 nella parte in cui afferma che dopo la separazione non c’è prova che la ex moglie si sia attivata nella ricerca di un’occupazione.

Dimezzato dal giudice del gravame l’assegno di divorzio alla ex moglie. Nella seconda la Corte d’Appello riduce l’assegno mensile di 1.000 euro stabilito dal Tribunale in favore della moglie a 500 euro. La donna ricorre in Cassazione e i suoi difensori depositano memoria in cui danno atto del raggiunto accordo tra le parti, con cui è stabilito l’obbligo, a carico del marito, di versare alla ex moglie la somma di 20.000 euro a titolo di mantenimento una tantum. Il marito però ricorre in Cassazione lamentando come la corte d’Appello si sia limitata riconoscere l’assegno divorzile in favore della ex moglie, in base a un semplice giudizio comparativo delle condizioni personali ed economiche delle parti, senza indagare sull’esistenza dei presupposti richiesti ai fini del riconoscimento di questo diritto.

Assegno divorzio ridotto senza impossibilità oggettive di procurarsi i mezzi. La prima vicenda processuale si conclude con l’emissione dell’ordinanza n. 3661/2020 che dispone il rigetto del ricorso della moglie. Per la Corte infatti, nel riconoscere e nel quantificare l’assegno di divorzio assumono rilievo “le capacità dell’ex coniuge di procurarsi i mezzi di sostentamento e le sue potenzialità professionali e reddituali, piuttosto che, come ritiene parte ricorrente, le occasioni concretamente avute dall’avente diritto di ottenere un lavoro. Infatti se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, non si può che attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l’ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista, di chi di limiti ad aspettare opportunità di lavoro, riversando sul coniuge più abbiente, l’esito della fine della vita matrimoniale.”

            Sulla seconda vicenda processuale la Cassazione, con ordinanza n. 3662/2020 accoglie il ricorso del marito e rinvia alla Corte d’Appello in diversa composizione, con l’obbligo di attenersi al seguente principio di diritto (non rispettato dal giudice dell’impugnazione nella prima fase del giudizio): “ai sensi della l. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la l. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tener conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.”

Annamaria Villafrate             Studio Cataldi 20 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37432-cassazione-meno-soldi-all-ex-moglie-che-non-cerca-lavoro.asp

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ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

La prossima giornata di studio il 26 aprile 2020 a Salerno

Nasce un figlio, nasce un genitore. Il tema di quest’anno è mirato ad aiutarci a sviluppare e sostenere le competenze genitoriali, rispettando gli stadi evolutivi dei figli, ed a valorizzare la loro personalità. In questa Giornata di primavera esamineremo la prima fase della competenza genitoriale, dal bambino ideale a quello reale, dalla prenatalità alla preadolescenza.

  • Accompagnerà in questa ricerca un ospite d’eccezione: Alberto Pellai, medico e psicoterapeu­ta dell’età evolutiva, ricercatore presso il dipartimento di scienze bio­mediche del­ l’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva. Nel 2004 il Ministero della Salute gli ha confe­rito la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica.

 https://ilconsulente43.blogspot.com/2020/02/5.html

            Programma                            0re 9 – 17,30

  • Saluto della Presidente Stefania Sinigaglia e delle Autorità presenti
  • Relazione del prof. Alberto Pellai, professore ordinario e ricercatore
  • Laboratori prima parte
  • Laboratori seconda parte
  • Feed-back dei gruppi in plenaria
  • Conclusioni e saluti
  • Laboratori esperenziali
  1. 1.       Le origini della vita ovvero le origini dal concepimento al primo anno di vita, di Rita Roberto e Alfredo Feretti.
  2. 2.       Alla scoperta del mondo! ovvero la nascita del sé e del noi. Chi ben incomincia…, di Arianna Siccardi e Gabriele Graziani.
  3. Voglia di volare ovvero la magia dell’incontro con la realtà: un percorso a piccoli passi, di Stefania Sinigaglia e Raffaello Rossi.
  4. 4.       Preadolescenza e dintorni, ovvero il viaggio verso nuove scoperte di figli e genitori, di Patrizia Margiotta e Sara Hawker.
  5. 5.       Come fare… l’apprendista e lo stregone, ovvero formule magiche e pozioni per trasferire i poteri, di Claudia Monti e Maurizio Qualiano.

Prima di iscriverti e scegliere il Laboratorio vedi:       

  1. Iniziamo con una canzone per narrare le Origini: C’è una tribù in Africa Orientale dove la data di nascita di un bambino non si conta dal giorno in cui è nato, neppure dal giorno in cui è stato concepito, ma dal giorno in cui è stato pensato per la prima volta da sua madre Quando la donna decide di avere un bambino va a sedersi sotto l’albero più grande del villaggio e lì comincia ad ascoltare. Ascolta la canzone del bambino che vuole nascere, e lì sotto l’albero impara la sua canzone. Dopo che ha ascoltato la canzone del figlio, comincia a cantarla. La canta al padre del bambino prima del concepimento. La canta quando rimane incinta, e continua a cantarla ogni mese della sua gravidanza, e il giorno in cui il bambino vuole nascere, durante il travaglio lei canta. La canta al bambino appena nato, e la canta quando lo presenta al villaggio perché tutti sappiano che quella è la sua canzone. Poi la insegna al bambino che cresce, se il bambino cade, o si fa male, gli canteranno quella canzone. Quella canzone lo accompagnerà tutta la vita e durante il matrimonio la canzone dello sposo e della sposa verranno cantate insieme. Quando verrà il giorno della sua morte, tutto il villaggio canterà per lui, per l’ultima volta la sua canzone. “(Kornfield, 1996). La nascita immette in una storia familiare, nel rapporto tra le generazioni e ci aiuta a comprendere quale sia il legame con il “villaggio” cui quel bambino appartiene. Introduciamo cosi il concetto di grembo psichico transgenerazionale che non è solo quello della madre ma anche quello di un padre, di un fratello o sorella, dei nonni, della famiglia e della comunità. Se tale grembo non sa accogliere, non sa fornire risorse e possibilità, influisce negativamente sul nascituro. Essere accanto ai genitori in queste fasi determinanti dell’accoglienza della vita, del nutrirla e farla crescere è un privilegio ed una funzione importantissima della nostra professione.
  2. I primi anni di vita sono il periodo più “denso” che attraversano gli esseri umani. Impariamo a parlare, mangiare cibi solidi, camminare e a relazionarci con il mondo intorno a noi. Noi nasciamo incompleti e solo un lungo accudimento fisico ed emotivo accompagnerà lo sviluppo del bambino/a fino alla maturità. Il compito dei genitori prima e degli adulti in generale, è quello di aiutare e facilitare “l’essere in formazione” nel gestire, con acquisita consapevolezza, la massa di informazioni pratiche ed emotive da cui rischia di essere travolto. Da qui si evince l’importanza di un corretto atteggiamento di accoglienza, cura ed educazione da parte dei genitori e delle figure che si avvicendano a questo compito. Se durante il percorso di crescita c’è stata qualche, reiterata e prolungata, carenza fisica, psichica e/o di relazionale, il bambino rischia di strutturare e accumulare esperienze negative che produrranno comportamenti disfunzionali per il pieno sviluppo delle sue potenzialità. Attraverso esercizi di autoascolto, ci alleneremo a empatizzare con i piccoli e con gli adulti per individuare i limiti e le risorse dello stile di accudimento interiorizzato. L’obiettivo del laboratorio è aiutare le famiglie che si rivolgono ai Consulenti a non smarrirsi in questo delicato e bellissimo compito.
  3. Quella dai 6 ai 10 anni è un’età molto delicata, che segna l’ingresso del bambino nel mondo reale. È, dunque, essenziale aiutarlo ad attribuire un valore positivo alla concretezza sottesa al “fare esperienza della realtà”, affinché il bambino diventi sempre più consapevole di sé e di ciò che ha conquistato nella prima infanzia. Durante questa fase della vita – cosiddetta “della fanciullezza” o anche “della latenza” – la relazione tra genitori e figli si connota, dunque, come un processo dinamico, all’interno del quale entrambi sono chiamati ad assolvere specifici compiti evolutivi e a soddisfare altrettanti bisogni. Alla base di questo processo si ritrova il concetto di crescita umana teorizzato da Pamela Levin (“I cicli dell’identità”, 1988), che postula la costante reiterazione di stadi nel corso della vita, i quali, scandendo le diverse fasi evolutive dei figli, riattivano nei genitori bisogni e angosce che appartengono alla loro personale storia evolutiva. Durante il laboratorio proveremo a sintonizzarci con questa fase della vita, utilizzeremo “linguaggi” diversi, per attivare risonanze e far riaffiorare alla mente e al cuore le nostre prime esperienze di incontro con la realtà. A volte sono proprio i tentativi più inattesi e apparentemente ludici a racchiudere grandi significati, come piccolissime pietre dall’immenso valore.
  4. Il laboratorio propone un lavoro centrato sulle difficoltà e sulle risorse sia dei genitori che dei figli preadolescenti ad attraversare e superare le fasi faticose e talvolta turbolente del passaggio dall’identità infantile ad un’immagine del sé adulto. Saper accettare la trasformazione del proprio corpo. Accettare il proprio genere sessuale. Saper stabilire nuove modalità di relazione con i genitori, altri adulti di riferimento, gli stessi coetanei Lavoro che prevede la consapevolezza dei genitori ad essere guida accogliente e generosa ma anche ferma e sicura, per traghettare questo processo di crescita che spesso può implicare comportamenti rischiosi e trasgressivi dei figli (bullismo, atteggiamenti oppositivi, disagio personale, uso di sostanze). Il fine del laboratorio è, dunque, aiutare i genitori “ad essere accanto ma senza sostituirsi” come Maria Montessori ci insegna.
  5. La finalità del Laboratorio è quella di effettuare un focus sulla particolare relazione che esiste tra il Tutor di Tirocinio e il Tirocinante. Prima di tutto individueremo chi è il lo Stregone e chi è l’Apprendista, quali segreti poteri ha il primo e a quali libri di formule magiche attinge il secondo, per disegnare una mappa di ruoli, funzioni, attività e competenze. Poi ci concentreremo sulle pozioni magiche da preparare, e soprattutto su quali poteri vogliamo acquisire con queste formule e a quali ancestrali ed archetipiche conoscenze vogliamo attingere per meglio organizzare la nostra attività di Stregoni. Il tutto messo a macerare con un pizzico di autoascolto, 7 foglie di professionalità, 5 gocce di consapevolezza e una spolverata di umiltà.

https://ilconsulente43.blogspot.com/2020/02/4.html

Le iscrizioni on line saranno aperte sino al 10 aprile 2020, salvo esaurimento dei posti.

Informazioni                          www.aiccef.it/it/news/la-prossima-giornata-di-studio-a-salerno.html

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI

OEFFE sta per Orientamento Familiare.

Nella vita di tutti i giorni, a lavoro ma anche nelle relazioni, siamo sommersi dalle cose urgenti che dobbiamo fare. OEFFE con i suoi corsi ha il preciso compito di ricordarti che è fondamentale dedicare del tempo non solo alle cose urgenti, ma anche a quelle importanti.

Sabato 28 marzo 2020, dalle 16.30 in poi, comincia Prime decisioni. Un allarme pubblicato su Il sole 24 ore: Tre ragazzi su 10 sono insufficienti nelle competenze alfabetiche svela infatti che moltissimi giovani italiani che frequentano la terza media, in realtà, hanno grosse difficoltà a comprendere per bene un testo scritto e a esprimersi correttamente in italiano, specialmente per iscritto. I numeri peggiorano ancora quando si parla di matematica, dove i ragazzi in difficoltà sono ben quattro su dieci.

Secondo eminenti psicopedagogisti, la fascia 8-10 è detta età d’oro. Ma per evitare di rilassarsi troppo, in questi anni è utile imparare a mettere in atto semplici ma efficaci strategie educative per far crescere ancora meglio i tuoi figli.

C’è una vita oltre la play?

  • Sono solo lobotomizzati davanti a uno schermo o è possibile fargli assumere più responsabilità?
  • Come armonizzare i diversi stili educativi dei genitori?

Attraverso il corso sperimenterai come individuare i punti di forza dei tuoi figli perché si trasformino in capacità (saper fare qualcosa) e qualità (saper essere: sinceri, ordinati, laboriosi). Temi e moduli del corso

  • Il carattere dei figli
  • La vita in famiglia
  • L’educazione della volontà
  • L’utilizzo del tempo libero
  • Educare insieme

Pensato per chi ha figli tra i sette e gli undici anni d’età, il focus del corso è la cosiddetta “età dell’oro” che i ragazzi vivono in quel periodo della loro crescita e si insegna come individuare i punti di forza dei figli per aiutarli a trasformarli in capacità e qualità.

Il taglio dei corsi OEFFE è pratico, secondo una metodologia propria, senza ricette prestampate. Si usa un caso reale e una nota tecnica come punto di partenza per l’analisi degli argomenti in 4 step: singolarmente, in coppia, in piccolo gruppo con altre coppie e nella sessione generale, guidata da un moderatore OEFFE.

Intanto proseguono i corsi già annunciati all’inizio della stagione 2019/2020 e le prossime sessioni dei vari corsi si tengono e i prossimi in programma sono, entrambi il 21 marzo, Amore & matrimonio e Primi passi.

Milano via Fratelli Ruffini 5.                                                      www.oeffe.it/course/prime-decisioni

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BIGENITORIATÀ

Mutui, affitti e mantenimento: nuovi aiuti a separati e divorziati

Storica iniziativa della provincia di Trento che delibera la deducibilità di una serie di oneri a sostegno delle famiglie separate e divorziate per favorire il diritto dei figli alla bigenitorialità. Il disegno di legge 39/XVI, “Interventi a sostegno dei coniugi separati o divorziati in difficoltà”, appena approvato dal Consiglio della Provincia di Trento, modificando i criteri di calcolo dell’indicatore ICEF offre notevoli opportunità a favore di tale categoria ai fini dell’accesso al credito a condizioni agevolate.

Mutuo, affitto e mantenimento deducibili dal reddito. Rilevato l’impoverimento di tali nuclei familiari, dovuto sia al raddoppiamento di varie voci di spesa che alla perdita delle economie di scala, si decide di consentire la deduzione dal reddito non solo del mutuo che sia stato contratto dal genitore che si allontana dalla casa familiare per procurare un nuovo alloggio a se stesso e a i figli – nonché dell’eventuale canone di locazione del medesimo – ma anche dell’assegno per contribuire al mantenimento della prole.

In sostanza, viene prevista la possibilità di ottenere prestiti a condizioni particolari in modo da facilitare la restituzione delle somme. Concretamente la Provincia, stanziando 100.000,00 euro per il primo anno e 200.000,00 per l’anno successivo, potrà concedere fino ad un importo massimo di 30.000,00 euro, il rimborso degli interessi su prestiti contratti ai fini e nelle condizioni suddette. In questo modo si calcola di poter soddisfare 66 richieste alla partenza più altrettante l’anno dopo, mantenendo le prime. La Provincia, per rendere operativa la procedura, si è impegnata a sottoscrivere specifiche convenzioni con gli Istituti di credito disponibili.

            A ciò è da aggiungere la possibilità di assegnazione temporanea di alloggi pubblici, come già avvenuto da tempo in altre sedi.

A chi spettano i benefici. Il beneficio riguarda in primo luogo i coniugi, e quindi i figli di coppie sposate, ma è stato integrato fino a comprendere le coppie di fatto ai sensi della 76/2016, per rispettare l’unicità della filiazione stabilita dal Dlgs 154/2013. Restano, quindi, ancora escluse le coppie di fatto che non si siano registrate; ma nulla vieta di procedere in tal senso a chi, in vista di una rottura, voglia fruire dei benefici.

Gli altri interventi a favore della bigenitorialità. Insieme a questo tipo di sostegno il Ddl prevede interventi “nell’ambito della rete di servizi sanitari, socio sanitari e socio assistenziali esistenti, ed in particolare” operati “dai consultori per il singolo, la coppia e la famiglia e dagli sportelli per il sostegno ai singoli e ai nuclei familiari”. Una particolare enfasi è riservata alla mediazione familiare, sottolineando la sua “specifica attenzione alle situazioni di fragilità e conflitto familiare, con l’obiettivo di garantire il diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori.”

            Un’iniziativa storica della provincia di Trento. Volendo quindi, doverosamente, cogliere gli aspetti più significativi di una iniziativa che si caratterizza indubbiamente come storica rottura rispetto a consolidati schemi, si ha anzitutto il compito di spiegare come si giustifichi la deduzione dell’assegno di mantenimento dei figli, che a livello nazionale non è deducibile dall’IRPEF. La più banale obiezione alla scelta trentina consiste infatti nel far notare che se quella coppia non si separava avrebbe ugualmente dovuto provvedere ai bisogni della prole, per cui “non esiste aggravio”. Ciò, tuttavia, è solo apparentemente corretto. Anzitutto il mantenimento si compone di due gruppi di oneri, le voci ordinarie e le “spese straordinarie”. E l’assegno va a coprire le prime; le seconde sono calcolate a parte. Ora, sono essenzialmente le prime che in caso di separazione aumentano sensibilmente, essendo necessario pagare i canoni del doppio di utenze, riscaldare il doppio circa di ambienti e perdere le economie di scala per l’alimentazione. E ciò che si può dedurre è proprio l’assegno, non le spese straordinarie. D’altra parte, più in generale, mentre la deduzione dal reddito IRPEF si riflette direttamente sugli oneri fiscali, quella dall’ICEF serve solo a poter accedere ad agevolazioni sociali.

Il fine: la tutela del diritto dei figli alla bigenitorialità. Appare, viceversa, decisamente di maggiore interesse osservare che l’intera iniziativa è mirata a tutelare il diritto dei figli alla bigenitorialità. Scorrendo mozione, delibera e interventi illustrativi il riferimento ad esso è continuo. E non meno evidente è la implicita polemica nei confronti di istituzioni e organismi nazionali che vanno in direzione esattamente opposta. In tal senso la rilevanza “politica” dell’iniziativa indubbiamente si esalta nel momento in cui si osserva che giunge temporalmente quasi in risposta a recenti sollecitazioni rivolte al Parlamento per ottenere l’abrogazione della legge 54/2006. E non meno significativa è quindi l’approvazione unanime del Consiglio e della Giunta di una mozione presentata dal consigliere Degasperi, che appartiene alla minoranza.

Ddl provincia di Trento approvato        www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37365_1.pdf

Relazione tecnica Ddl approvato           www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_37365_2.pdf

Marino Maglietta       Studio Cataldi 13 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37365-mutui-affitti-e-mantenimento-nuovi-aiuti-a-separati-e-divorziati.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 7, 19 febbraio 2020

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/febbraio2020/5160/index.html

Un video per iniziare la lettura della newsletter. Il tuo più grande desiderio. Una provocazione educativa nel tempo degli smartphone. Al di là di un pizzico di retorica, questo breve video ricorda che la dipendenza dagli schermi non riguarda solo i bambini, ma caratterizza spesso i comportamenti degli adulti, proprio di quei genitori che dovrebbero educare i figli ad un uso consapevole di smartphone, tablet ed altri device. Utile per ripensarci…

www.facebook.com/guardachevideo/videos/781366579008105

Le risposte di 4.000 famiglie italiane davanti alla sfida delle relazioni digitali. Sempre interessanti in merito, i dati del Rapporto Cisf 2017. “Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali” che coglie le sfide della società digitale e offre alcune indicazioni per una gestione intelligente delle opportunità e dei rischi che i nuovi media portano con sé.

www.sanpaolostore.it/relazioni-familiari-nell-era-delle-reti-digitali-nuovo-rapporto-cisf-2017-9788892213289.aspx?Referral=newsletter_cisf_20200219

Proteggere e promuovere i minori. Una riflessione dal Family International Monitor di Olivia E. Nuñez Orellana, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, Messico, centro di ricerca che collabora alla stesura del Report 2020, su Famiglia e povertà relazionale, previsto in uscita a giugno 2020.                                                      www.familymonitor.net

Il testo è l’Editoriale del n. 9 della Newsletter Inside Families. “[…] È evidente che la vulnerabilità dei minori di fronte alle diverse situazioni di crisi di varie latitudini e alla crisi sperimentata dalla società attuale dovrebbero essere il centro della riflessione e obbligare tutti ad una risposta immediata. La posta in gioco nel lasciare i minori al di fuori delle opportunità di sviluppo è, oltre al futuro specifico di ciascuno di essi, il futuro e la stabilità della società intera. Quando il dramma vissuto da ciascun bambino o adolescente si massifica, si converte in statistica o viene menzionato unicamente in un discorso che esprime buone intenzioni, tutto questo contribuisce a una visione superficiale, al fatto di conoscere una realtà ma senza riconoscere il volto di persone che, indifese, sperano unicamente che qualcuno abbia il coraggio di parlare per loro e di farci rivolgere uno sguardo più profondo ai loro occhi. Ciò fa sì che minimizziamo l’importanza di questa realtà e ce ne distanziamo […]”

https://e2c551fc-a6dd-446e-b16e-88cea8a16b3e.usrfiles.com/ugd/e2c551_bd6304c70a58481080b5ea4bd21e5ab1.pdf

Roma. Incontro con la filosofa Adela Cortina, autrice del libro “Aporafobia, il rifiuto del povero”  “L’Instituto Cervantes di Roma presenta “Dialoghi 2030”, un ciclo d’incontri dedicato ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, organizzato in collaborazione con ASIERI e IE University, Madrid.              newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0720_allegato1.pdf

Matrimoni adolescenziali in Brasile. Quali sono i rischi? (da Newsletter “Inside Families”, Family International Monitor)                                                                               www.familymonitor.net

Secondo quanto riportato dall’Unicef, il Brasile si colloca al quarto posto per diffusione dei matrimoni di ragazze minorenni. È una pratica così diffusa che in alcune zone del Paese non si riesce neanche a percepirne la problematicità.

https://b5094af5-fa37-47bf-8e1c-6a030eea0308.usrfiles.com/ugd/b5094a_5e4bdd5d030846e78604153b3916d678.pdf

 Il rapporto di Plan International BrasilTirando o véu – estudo sobre casamento infantil no Brasil” (“togliere il velo. Indagine sui matrimoni di minorenni in Brasile “approfondisce le cause e le conseguenze di queste unioni. “Le conseguenze dei matrimoni adolescenziali sono varie e preoccupanti. […] gravidanze precoci, che mettono a rischio la salute delle ragazze più giovani. L’abbandono scolastico è elevatissimo per entrambi i sessi e produce una serie di conseguenze deleterie per la famiglia. L’interruzione degli studi, infatti, implica la mancanza di professionalizzazione degli adolescenti che si traduce in una situazione economica estremamente precaria per entrambi i coniugi”.

Caregiver familiari: quanti e chi siamo? Così si intitola il report che l’associazione “Genitori tosti in tutti i posti – Onlus” (un nome, un programma!) ha messo on line in questi giorni,

www.genitoritosti.it/wp-content/uploads/2020/02/2020.02.04-GT-Caregiver-familiare.pdf

frutto di un articolato questionario pubblicato sempre online,

docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeOHU0pF5xlZblapAruirHB3syAkgh0Fa1X281F5lVwAkyT7Q/viewform

che ha ricevuto finora 1.460 risposte, ed a cui è ancora possibile rispondere. Questa indagine ha consentito per la prima volta di tracciare un abbozzo di identikit dei caregiver familiari: il loro ruolo, i loro bisogni, le loro esigenze, e soprattutto che cosa pensano dovrebbe contenere una buona legge a tutela dei caregiver familiari. Può sembrare incredibile, infatti, però nessuno finora aveva avuto l’idea di censire in qualche modo i caregiver familiari, per avere lo specchio della situazione. E questo la dice lunga sull’attenzione che in Italia viene posta alla famiglia, anche a quella che con sacrificio e dedizione totali fanno risparmiare allo Stato (cioè a tutti gli altri) una quantità enorme di risorse.

Ancora sui caregiver.  Un percorso formativo per sostenere i caregiver giovani, promosso dall’Inrca (Istituto Nazionale Riposo e Cura Anziani Centro Ricerche Economico-Sociali per l’Invecchiamento), Ancona. “L’obiettivo del progetto “ME-WE” è rafforzare la resilienza (ovvero la capacità di affrontare positivamente le difficoltà quotidiane, senza abbattersi) e il benessere dei giovani caregiver adolescenti (15-17 anni) che si occupano di fornire assistenza pratica e supporto emotivo a persone anziane, malate, disabili, non autosufficienti, con problemi di dipendenza (alcol, droga, gioco d’azzardo). Come? Con un corso gratuito per supportare lo sviluppo armonico di questi giovani in una fase cruciale come l’adolescenza e diminuire il rischio di sofferenza, isolamento sociale e possibili ricadute negative su profitto scolastico e carriera lavorativa”.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0720_allegato2.pdf

Dalle case editrici

  • Cantagalli, Dizionario su sesso, amore e fecondità, Noriega J., Ecochard R. e I. (a cura di)
  • Punto Famiglia, Il piccolo alfabeto della fede in famiglia. Parole per imparare a crescere insieme, Ippolito V.
  • San Paolo, Cristiani qualunque. Di fatto, unioni in cerca di Dio, Scarpa M., Testa E.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0720_allegatolibri.pdf

  • Bonifati Carla, Barletta Pio, Storia di un amore imperfetto, Itaca, Castel Bolognese (RA), 2018

Vive di grandi passioni questo agile libretto, che attraversa sogni, desideri, progetti e tradimenti di Carla e Pio, una coppia che, pur vivendo un profondo radicamento in un’esperienza ecclesiale, non viene risparmiata dai dolori, dalle fragilità e dalle alterne vicende della vita, sia nelle storie esistenziali e professionali dei singoli che nella stessa alleanza coniugale. Per certi versi è un pezzetto della storia dell’Italia di oggi, vista dal punto di vista di due protagonisti, umili ma determinati; giovani che vogliono cambiare il mondo e la propria vita, che cercano il bene ultimo per sé e per le persone attorno a sé, ma che devono anche attraversare l’amaro deserto di un tradimento (lui con un’altra), con una sofferenza e una lontananza che durano anni. Una storia drammaticamente vera, e due persone che per molti versi sono “come tanti altri”, ma che appaiono anche straordinarie, per la loro tenacia nel cercare il bene, nel non accontentarsi di una vita tranquilla, persino nella loro inquietudine esistenziale. Il quotidiano eroismo di tante coppie normali, che attraversano problemi grandi e piccoli, ma che vogliono “restare vivi”. Certo, in questa storia balza agli occhi la bellezza del perdono, costruito dopo anni, e ben descritto non solo nella grandezza di chi accoglie nuovamente, ma anche nell’esplicito desiderio di che chiede di essere perdonato –  perché per perdonare bisogna essere in due. E questa testimonianza conferma per l’ennesima volta – se ancora ce ne fosse bisogno – che la famiglia del Mulino Bianco non appartiene certo all’immaginario della famiglia che vive nella comunità cristiana (F. Belletti)

Specializzarsi per la famiglia

  • Milano, Università Cattolica. Corso base per Tutor del Programma Teen STAR 2020. Programma di educazione affettiva e sessuale. “Il corso di formazione si rivolge a insegnanti, educatori e professionisti di area sociale, psicologica e sanitaria, impegnati nell’educazione e nella formazione dei giovani. Obiettivo del corso è offrire una formazione di base al programma per l’educazione affettivo-sessuale Teen STAR, fornendo strumenti e metodi per sviluppare con i ragazzi il percorso educativo” (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, dal 15 al 19 aprile 2020). Scadenza iscrizioni: 8/04/2020. Iscrizioni attraverso il seguente form online.

https://formazionecontinua.unicatt.it/formazione-corso-base-per-tutor-del-programma-teen-star-ecm-ps10mi3401-10

Save the date

  • Nord: Open day scuola iris 2020, ciclo di incontri su terapia e relazioni familiari promosso dalla Scuola di Psicoterapia Iris, Milano, 23 marzo, 18 maggio, 29 giugno 2020.

newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0920_allegato4.pdf

  • Nord: Competenze psicologiche dell’avvocato nella crisi della famiglia, tre incontri promossi da AIAF avvocati e psicologi Erba (CO), 13 e 20 marzo, 3 aprile 2020.

https://aiaf-avvocati.it/competenze-psicologiche-dellavvocato-nella-crisi-della-famiglia/

  • Centro: Che pluralismo. 20 anni dalla legge 62/2000. La libertà di scelta, una ricchezza per tutti, incontro promosso dal Forum delle associazioni familiari, Roma, 10 marzo 2020.

https://educazione.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/6/2020/02/13/Invito8-62_2000_20anni.pdf

  • Centro: La Nurturing Care dalla prospettiva del padre. Dalla prevenzione della violenza domestica alla promozione della paternità accudente nei primi 1.000 giorni, organizzato da Istituto Superiore di Sanità – CNaPPS (Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute) e da Associazione Cerchio degli Uomini, nel Progetto Europeo PARENT (Promotion, Awareness-raising and Engagement of Men in Nurture Transformations – Promozione, risveglio della consapevolezza ed impegno nelle trasformazioni della cura), Roma, 17 marzo 2020.

www.epicentro.iss.it/formazione/appuntamenti/programma-parent3-2020.pdf?fbclid=IwAR31uIZxNHcNaIBqpoe5XM5PnWs87s7HmsNR1QKNyOsREz4UZmaM6jIk9os

  • Sud: Il buffet delle emozioni, evento conclusivo di “I sapori delle emozioni”, percorso formativo per bambini delle elementari e studenti dell’istituto alberghiero, promosso da Age-Trani (Associazione Italiana Genitori) e altre agenzie del territorio, Trani, 31 marzo 2020.

www.csvbari.com/new/wp-content/uploads/2020/02/Locandina-I-sapori-delle-emozioni-AGE-Trani

  • Sud: L’interpretazione del disegno infantile, incontro promosso dall’associazione di volontariato Artemes, Bari, 13 marzo 2020.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0920_allegato5.jpg

  • Estero: When a Child Rejects a Parent: Are We Part of the Problem or the Solution? 57.a Conferenza annuale AFCC (Association of Family and Conciliation Courts), New Orleans, 27-30 maggio 2020.

www.afccnet.org/Portals/0/Conferences/AFCC%20NOLA%202020%20Program%20-%20Final.pdf

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/febbraio2020/5160/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Approfondire le fonti. Abolire la legge del celibato o abolire il sacerdozio?

Che ancora oggi non si possa affrontare serenamente una questione come quella del celibato dei preti, che e stata da tempo risolta in altre Chiese cristiane, appare francamente incredibile: non si sa se ridere o piangere. Come e possibile che il tentativo di Bergoglio di apportare qualche piccola innovazione incontri una così forte opposizione in una parte non trascurabile del mondo cattolico?

Tanto più che il papa ha più volte dichiarato di non volere affatto introdurre la facoltatività del celibato come regola generale: nel gennaio 2019, per esempio, durante la conferenza stampa nel volo di ritorno da Panama ha ricordato ≪una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. […] Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d’accordo a permettere il celibato opzionale≫. I possibili cambiamenti di cui si parla appaiono dunque davvero di scarsissima rilevanza, mentre oggi sarebbero ben altre le questioni da affrontare: bisognerebbe cioè pensare non a rendere facoltativo il celibato o ad ammettere le donne al sacerdozio ma ad abolire lo stesso sacerdozio!

Certo questa affermazione può apparire in contrasto non solo con la tradizione ecclesiastica ma con lo stesso vangelo. Eppure le cose non stanno cosi: anzi, e proprio per fedeltà al vangelo e alla più antica tradizione che bisognerebbe abolire il sacerdozio. Anche se può sembrare una boutade, questa e una tesi condivisa da fior di studiosi cattolici, i quali sostengono che – ammesso e non concesso che le parole che i vangeli attribuiscono a Gesù siano state effettivamente da lui pronunciate – dai racconti evangelici non risulta affatto l’intenzione di Gesù di istituire un ordine sacerdotale. Mi limiterò perciò a citare due o tre autori i cui scritti risalgono ormai ad alcuni decenni fa.

Nel 1997 Herbert Haag (1915- 2001), noto biblista e già professore dell’Università di Tubinga, faceva osservare – nel volumetto Da Gesù al sacerdozio, edito in Italia nel 2001 dalla Claudiana, da cui sono tratte le citazioni che seguono – che l’invito rivolto agli apostoli [“Questo e il mio corpo, che e dato per voi; fate questo in memoria di me” (Luca 22,19)] o le parole indirizzate ai discepoli [“A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Giovanni 20,23)] non sono sufficienti per affermare che Gesù abbia istituito l’ordine sacerdotale, perché si tratterebbe di compiti affidati a tutta la comunità dei credenti. In effetti, sappiamo che né Gesù né gli apostoli erano sacerdoti ed e assodato che nella Chiesa delle origini ≪la celebrazione dell’eucaristia era di esclusiva competenza della comunità. Coloro i quali presiedevano l’eucaristia, con l’accordo della comunità, non erano “ordinati”. Erano semplici membri della comunità. Oggi li definiremmo dei laici, uomini ma anche donne, di regola sposati ma anche non sposati≫ (Haag, p. 23). A tutto ciò bisogna poi aggiungere che l’impressione che si ricava dai vangeli e che Gesù non avesse una buona opinione dei sacerdoti del suo tempo. Nella parabola del samaritano che soccorre l’uomo lasciato mezzo morto dai briganti, per esempio, egli non perde l’occasione per notare – sarebbe eccessivo parlare di una certa perfidia anticlericale? – che invece ≪un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passo oltre≫ (Luca 10,31).

E non basta. Più volte gli evangelisti gli attribuiscono previsioni infauste per il Tempio di Gerusalemme, centro del culto di cui i sacerdoti avevano l’esclusiva: ≪Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta≫ (Marco 13,2). I rapporti, per usare un eufemismo, già non erano idilliaci, ma ascoltare l’accusa che il Tempio e stato trasformato in un ≪covo di ladri≫ (Marco 11,17) supera ogni limite di sopportazione del ceto sacerdotale, e non c’è quindi da stupirsi se in prima fila, tra i nemici di Gesù, ci sono proprio i sacerdoti più influenti, come ricorda Marco nel versetto successivo: ≪Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire≫. E saranno proprio quei sacerdoti, insistono gli evangelisti, a mobilitarsi per bloccare il tentativo dell’autorità romana di salvare Gesù dalla condanna a morte: ≪i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli [Pilato] rimettesse in liberta per loro Barabba≫ (Marco 15,11). Stando, dunque, ai vangeli, ≪oggi e opinio communis che la responsabilità della morte di Gesù sia da attribuire ai sacerdoti del tempio≫ (Haag, p. 70).

E la situazione non migliora dopo la morte di Gesù. Infatti, stando agli Atti degli Apostoli, i successi dei discepoli irritano i capi dei sacerdoti, al punto che questi tentano, decapitandolo, di fermare la diffusione del movimento: ≪Si levo allora il sommo sacerdote con tutti quelli della sua parte, cioè la setta dei sadducei, pieni di gelosia, e, presi gli apostoli, li gettarono nella prigione pubblica≫ (5,17-18), e addirittura ≪volevano metterli a morte≫ (5,33). Per tutta una serie di motivi sembra, dunque, poco probabile che il maestro di Nazaret volesse istituire un ordine sacerdotale, e che tale intenzione si sia concretizzata nel corso dell’ultima cena.

Infatti, il clero non ha accompagnato tutta la storia del cristianesimo: ha certo una durata plurisecolare ma e sconosciuto alla Chiesa dei primi secoli. E questo un fatto che crea qualche problema ai sostenitori della tradizione. In effetti, ≪se Gesù come si sostiene, ha istituito il sacerdozio della nuova alleanza, occorre chiedersi come mai non se ne trovi traccia nei primi quattrocento anni di storia della Chiesa≫. La spiegazione e semplice, prosegue il nostro autore: per quanto riguarda l’istituzione da parte di Gesù ≪del sacramento dell’ordinazione sacerdotale, la dimostrazione e del tutto impossibile≫ (Haag, p 23).

In effetti, quando le comunità che si rifanno a Gesù cominciano a darsi una struttura, scelgono degli anziani, uomini e donne che hanno raggiunto una certa maturità, come guide nel cammino della fede, e in seguito le comunità che si trovano su uno stesso territorio sceglieranno, tra questi anziani, un επίσκοπος [vescovo], cioè un “sorvegliante”, un “coordinatore”. E dal termine greco πρεσβύτερος [presbitero], che significa appunto ‘più anziano’, che e derivato l’italiano ‘prete’, nel linguaggio corrente divenuto equivalente di ‘sacerdote’. In realtà, il presbitero- prete e un membro della comunità, non è separato da essa e non è il mediatore abilitato a mettere in rapporto i semplici fedeli con una divinità lontana e inaccessibile. In poche parole, la separazione tra sacerdoti e laici non ha fondamento: tutti i credenti costituiscono il λαος, il popolo di Dio.

Ma se dai vangeli non risulta che Gesù immaginasse una figura di sacerdote quale quella che conosciamo, cioè separato dal popolo e titolare di sacre funzioni, come ha avuto origine la tradizionale concezione del prete cattolico, quasi un secondo Cristo? Non c’è dubbio che un ruolo particolare l’ha giocato uno scritto per lungo tempo attribuito a san Paolo ma in realtà composto decenni dopo la sua morte da un autore anonimo, e cioè la Lettera agli Ebrei. Questo è infatti l’unico documento del Nuovo Testamento che attribuisce a Gesù i titoli di ἱερεύς e ἀρχιερεύς (e cioè sacerdote e sommo sacerdote). E già il fatto che questo sia l’unico testo di tutto il NT che rilegge in questa prospettiva la figura di Gesù non dovrebbe costituire un problema? Ma c’è di più. Il versetto frequentemente citato, anche nei testi pontifici, per definire il ruolo dei sacerdoti cristiani e per giustificare la loro separazione dai semplici fedeli e il seguente: ≪Ogni sommo sacerdote, infatti, è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati≫ (5,1). Peccato, però, che quel passo non parli affatto dei sacerdoti cristiani! Anzi, osserva Haag, ≪per due motivi la citazione di questo testo è arbitraria. In primo luogo, si parla qui del sommo sacerdote d’Israele; in secondo luogo, non c’è un altro scritto neotestamentario che si opponga con tanta forza alla concezione di un sacerdozio cristiano come la lettera agli Ebrei≫ (Haag, p 57).

Infatti, secondo l’anonimo autore della Lettera, Gesù ≪non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso≫ (7,27). Da ciò si ricava che ≪dando se stesso, Gesù ha portato a compimento la sua opera. Ciò significa che in futuro non potranno più esserci alcun sacrificio e alcun sacerdozio≫ (Haag, p. 83). In effetti, la Lettera non parla mai, riguardo alla comunità cristiana, di sacerdoti ma usa un termine profano per indicare le ‘guide’ da seguire nel cammino della fede: ≪Ricordatevi dei vostri capi (hegoumenoi) [leader], i quali vi hanno annunciato la parola di Dio≫(13,7).

Se le cose stanno cosi, e giusto chiedersi con Haag: ≪l’attuale modello di sacerdozio ha ancora un futuro?≫ Il nostro autore risponde citando le parole del teologo tedesco Bernhard Häring (1912-1998) [da me ascoltato ad Assisi], da molti considerato il più grande moralista cattolico del XX secolo che, dopo avere ribadito che ≪la Chiesa dei primi tre secoli non conosceva […] né il termine “clero” né la struttura a esso corrispondente≫, si mostra sicuro che il clero sia destinato a scomparire: ≪Non è necessario essere profeti o veggenti per dire che la chiesa adotterà questa possibilità [di affidare agli “anziani” la presidenza delle celebrazioni eucaristiche]. Quel che non si può sapere e invece quanti danni la Chiesa arrecherà a se stessa e al proprio mandato prima che le più alte istanze ecclesiastiche dirigenti ne prendano atto≫ (Haag, pp. 60-61).

Alle stesse conclusioni di Häring e di Haag giunge alcuni anni dopo Xabier Pikaza, già docente presso l’Università della Conferenza episcopale spagnola e la Pontificia Università di Salamanca, nel volume Sistema, libertà, Chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, pubblicato in Italia da Borla nel 2002. Commentando per esempio il vangelo di Marco 3,34-35 – ≪Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, (Gesù) disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me e fratello, sorella e madre”≫ –, il teologo spagnolo fa notare che attorno a Gesù si e riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: ≪I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”≫ (Pikaza, p. 173). Stranamente Marco non parla di “padri”, e ciò è sintomatico però una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la Chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?

Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti ≪che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] è di tutti. […] La Parola e principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in liberta, senza intermediari sacrali≫ (Pikaza, pp. 161-162).

Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta ≪secondo la tradizione degli antichi≫ (Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite: si tratta di un progetto rivoluzionario! La rottura con la religiosità ufficiale e assoluta, tanto che Marco (≪Io distruggerò questo tempio≫ 14,58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente eliminata: il ≪messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, è arrivata alla sua fine. […] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire […]: va distrutto≫ (Pikaza, pp. 216-217).

In piena sintonia con Häring e con Haag, Pikaza ritiene quindi che questo sistema ecclesiale di tipo patriarcale, fondato su una gerarchia di maschi celibi ≪sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed e diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, ne serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo≫ (Pikaza, p. 470, nota 1).

Per concludere: è evidente che papa Francesco non può né vuole fare nulla di quanto suggerito dagli studiosi cattolici citati, eppure proprio questo bisognerebbe fare per essere fedeli al progetto di Gesù per il quale Dio e un padre a cui i figli possono rivolgersi direttamente, senza bisogno di sacerdoti-mediatori. Di persone mature, indicate dalla comunità perché capaci di guidare gli altri nell’esperienza di fede, c’è, nell’ottica del vangelo, sicuramente bisogno; di mediatori e amministratori del sacro sarebbe decisamente meglio fare a meno.

Elio Rindone, saggista e bacelliere di teologia presso la Pontificia Università Lateranense.

www.adista.it              6 febbraio 2020

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202002/200219rindone.pdf

 

Un Appello di base per un nuovo vescovo “conciliare” per Genova

Chiediamo per Genova un Vescovo sulle orme di Papa Francesco.

Quando il 19 gennaio 2020 scorso il nunzio apostolico in Italia, venuto a Genova, incontrò i vescovi liguri e comunicò che il papa aveva accolto le dimissioni dell’arcivescovo di Genova (dopo due anni di proroga), disse anche che si sarebbe dato luogo alle consultazioni fra il clero genovese per avere indicazioni sul successore.

Fu a questo punto che si aprì una discussione fra i molti amici che abitualmente si riuniscono, anche in gruppi diversi, per pregare e riflettere sui grandi temi sui quali si interroga in questi tempi tutta la chiesa. In particolare sembrò naturale partecipare a questo momento importante della chiesa genovese, provando a viverlo non in curiosa o pettegola attesa, ma in spirito sinodale, promuovendo una riflessione sulla attuale situazione della comunità ecclesiale e sulle esigenze che manifesta.

Siamo infatti convinti che il rapporto fecondo tra il vescovo e la sua chiesa non possa esaurirsi in un rapporto tra il vescovo e il clero, per quanto stretto esso possa essere. Il vescovo è guida e anche espressione di tutta la chiesa, di tutti i battezzati. Laici e clero, religiosi e religiose, in unità con il vescovo, tutti sono, con differenti funzioni, ugualmente responsabili della vita e della missione della chiesa.

In molti incontri è stato elaborato un documento (“Chiediamo per Genova un vescovo sulle orme di papa Francesco”) che è stato offerto all’attenzione di altri amici e poi fatto circolare sul web. Ha raggiunto in questi giorni più di 700 firme ed è stato letto da oltre 8.000 persone: una piccola comunità che si è attivata per sentirsi chiesa e per esprimere le sue osservazioni a chi e a coloro cui spetta la responsabilità di decidere.

Con animo grato per la dedizione con cui il vescovo Angelo Bagnasco ha condotto la sua opera pastorale in mezzo a noi, attendiamo con fiducia e disponibilità il suo successore.

                               Maria Pia Bozzo Ferraris                                              29 febbraio 2020

www.c3dem.it/chiediamo-per-genova-un-vescovo-sulle-orme-di-papa-francesco

 

Angelo Cifatte ha lanciato questa petizione e l’ha diretta a Francesco Bergoglio, Papa della Chiesa Cattolica e a mons. Emil Paul Tscherrig, svizzero Nunzio Apostolico in Italia e nella Repubblica di San Marino in Italia e nella Repubblica di San Marino (primo non italiano) e a 1 altro/altra

 

Perché parliamo.

La Diocesi di Genova e la città tutta stanno affrontando un fondamentale momento di passaggio: la nomina del nuovo Vescovo. È noto che Papa Francesco ha chiesto, come per altre situazioni, una consultazione allargata per raccogliere contributi e proposte. Come credenti attivi in diverse realtà ecclesiali della città, come parte del “popolo di Dio in cammino”, desideriamo partecipare alla consultazione e offrire al Vescovo di Roma e al Nunzio in Italia un contributo per la scelta del nuovo Vescovo, in base alla nostra coscienza e al sacerdozio battesimale che viviamo.

La chiesa cattolica è oggi ad un bivio tra un processo di rinnovamento missionario che rimette al centro i valori evangelici (processo favorito e incarnato da Papa Francesco) e la tendenza ad un “accanimento dottrinale”, di difesa e conservazione dell’esistente, di separazione tra “puri e impuri”, spesso in nome di tradizioni che hanno caratterizzato solo una parte della chiesa e un pezzetto della sua storia.

Noi crediamo in una “chiesa in uscita” che ascolta e lavora per conformarsi di più al Vangelo di Gesù, e per farsi “ospedale da campo” dell’umanità sofferente. Credere in questa conversione richiede applicazione e competenza, non un semplice consenso di facciata né una timida gestione dell’ordinario.

Noi crediamo nel percorso partecipativo che coinvolge tutte le componenti ecclesiali e che si esprime nella dimensione della sinodalità, quella esistente ma soprattutto quella da sviluppare come sta succedendo ai livelli più alti della chiesa e nelle diocesi di tutto il mondo.

Le sfide della chiesa di Genova.

Offriamo una sintesi di priorità che il nuovo Vescovo e con lui le varie realtà ecclesiali dovrebbero affrontare, per una chiesa che sia rilevante nel contesto contemporaneo della città. Sono proposte nate dal confronto, dall’ascolto e dalla discussione di gruppo che abbiamo vissuto, ma auspichiamo che ogni comunità possa riflettere su ciò che ritiene urgente per una primavera della chiesa di Genova.

  1. Le comunità devono farsi interlocutrici attive, ed essere chiamate ad esserlo, in occasione di questa nomina come delle prossime nomine ai vari incarichi che hanno una ricaduta su tutti.
  2. Occorre aggiornare la formazione dei preti, perché sia fortemente radicata nel Concilio Vaticano II e consenta così di abitare la complessità del mondo di oggi. Occorre incoraggiare un capillare aggiornamento biblico nel clero e nei laici, perché si sappia “spezzare” la Parola tra la gente e liberarla da concezioni fuorvianti, che non riescono a interpellare e nutrire l’uomo di oggi. Occorre applicare e vivere la riforma liturgica per passare da celebrazioni asettiche o teatrali a celebrazioni comunitarie. Occorre mettere a sistema percorsi di catecumenato per giovani e adulti riferendosi ai primi secoli della chiesa, per rimediare all’assenza di una concreta, credibile formazione cristiana delle persone adulte.
  3. Le parrocchie vivono la crisi di non corrispondere più alla vita dei quartieri e delle persone, come anche di dipendere eccessivamente dalla centralità del parroco, volente o nolente. Occorre un ripensamento della presenza territoriale, degli impegni quotidiani, e una desiderata, preparata, crescente autonomia dei laici. Occorre investire sul diaconato permanente e coniugato per promuovere l’animazione pastorale ed organizzativa nelle comunità parrocchiali.
  4. Occorre una visibile e determinata promozione della donna, della parità di genere e del coinvolgimento nei ruoli decisionali, senza retoriche paternalistiche ma lasciando e aprendo spazi effettivi e paritari.
  5. L’attuale contesto storico e il Vangelo stesso richiedono un rinnovato impegno per la giustizia, che sia centrale e diffuso nella comunità, non un optional delegato ad alcuni incaricati. In particolare va colta e affrontata sul lungo termine la sfida dell’accoglienza e inclusione dei migranti. La risposta umana e sociale alle povertà e all’emarginazione deve unirsi ad un’azione coraggiosa, profetica di denuncia dei meccanismi di ingiustizia strutturale, delle mancanze dei poteri costituiti e delle violazioni dei diritti umani.
  6. Occorre costruire un ampio piano pastorale sulla cura della casa comune come definita nella Laudato Si’. L’ambiente è la sfida del secolo e la Madre Terra è il dono di Dio che non possiamo continuare ad uccidere, a partire dalla nostra città e dai nostri stili di vita.
  7. Occorre una riforma dell’informazione diocesana perché sia capace di dare voce alla pluralità di una chiesa “poliedrica”, perché sia attenta ad evitare linguaggi e approcci clericali, perché sviluppi strumenti aggiornati e coordinati, con una maggiore autonomia di professionisti laici e del mondo giovanile.
  8. Occorre generare meccanismi di trasparenza nella gestione economica, con la pubblicazione di entrate ed uscite. Occorre ripensare evangelicamente la presenza diocesana e i rapporti di potere in consigli di amministrazione di enti e aziende, responsabilizzando persone laiche.
  9. Occorre un maggiore coordinamento inclusivo con i movimenti ecclesiali, scoraggiando l’eventuale ricerca di spazi di potere per ambiti di influenza.
  10. Una primavera nella chiesa genovese non può che partire da un processo di ascolto e di confronto, per una lettura comunitaria e sincera dei segni dei tempi. È fondamentale la convocazione di un inedito Sinodo diocesano che abbia il coraggio di favorire una reale e plurale partecipazione, a servizio della chiesa diocesana e della città.

    La chiesa di Genova contiene già in sé molte energie vitali e iniziative meritevoli che potrebbero se valorizzate e armonizzate costituire i semi per una stagione di rinnovamento.

La persona di cui abbiamo bisogno.

Desideriamo chiamare, accogliere e accompagnare a servizio della nostra città un Vescovo in grado di mettersi con umiltà e determinazione di fronte a tutto questo; che abbia la capacità di ascoltare, chiedere consigli e sintetizzare la pluralità; che abbia la volontà di rendere conto delle sue scelte e delle sue azioni; che cerchi di includere e non di allontanare chi la pensa diversamente; che frequenti abitualmente le periferie esistenziali e gli “ultimi” del territorio. Una persona che sia presente ogni giorno e che sia facilmente accessibile. Un Vescovo che intenda seguire, imitare e applicare il magistero e lo stile di Papa Francesco.

 17 febbraio 2020                    www.ildialogo.org/appelli/indice_1581960110.htm

 

{Il vescovo di Ivrea mons. Albino Mensa il 12 ottobre 1966 venne nominato arcivescovo di Vercelli. Il Concilio Vaticano II era terminato l’8 dicembre 1965. Un gruppo di laici (tra cui il presente redattore, allora presidente diocesano dell’Azione cattolica e tra i fondatori del consultorio familiare eporediese) inviarono un lettera con cui chiedevano un vescovo all’altezza dei tempi. Furono accontentati: venne nominato mons. Luigi Bettazzi, dal 1963 vescovo di Tagaste (la diocesi di s. Agostino) e vescovo ausiliare di Bologna (che aveva appena partecipato al Concilio Vaticano II a soli 40 anni. Ndr}

 

Il sistema della nomina dei vescovi (15 febbraio 2002)

Il sistema attualmente (2002) in vigore è relativamente recente nella storia della Chiesa. La formalizzazione dell’esclusivo potere di nomina dei vescovi da parte del Papa (“eos libere nominat Romanus Pontifex”) è avvenuto con il Codice di diritto canonico del 1917 (can.329 § 2). Una norma così tassativa non era mai esistita in passato; essa è la estrema conseguenza dell’orientamento prevalso al Concilio Vaticano I.

L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II non ha affrontato direttamente il problema della nomina dei Vescovi o, meglio, si è limitato a sottolineare la necessità che l’autorità civile non interferisca. Ha lasciato aperto il problema della partecipazione del laicato e del clero alla designazione. Però l’affermazione conciliare di una Chiesa carismatica prima di tutto popolo di Dio, organizzata in modo orizzontale prima che verticale, apriva la strada a una riconsiderazione della situazione.

La direzione scelta dal centro della Chiesa è andata nella direzione del congelamento della situazione precedente e quindi in direzione diversa, se non opposta, allo spirito dell’ultimo Concilio. Il canone 377 § 1 del nuovo Codice del 1983 ha sostanzialmente riproposto il dettato del codice precedente. Altri documenti pontifici avevano già confermato questa linea solo dando qualche indicazione sulle modalità di segnalazione delle liste dei candidati ma confermando enfaticamente che esse non sono per nulla vincolanti e che le nomine restano sempre di libera e piena competenza del romano pontefice.

Troppe nomine discutibili. Eppure, negli anni ’70 vi furono tentativi per avviare una prassi di partecipazione nella nomina dei Vescovi ma senza successo. Troppe nomine portarono a frustrazioni e a disamoramento nei confronti della Chiesa. Valga per tutte la vicenda delle nomine nella Chiesa olandese, in quella tedesca d in quella svizzera. Dove la coscienza ecclesiale è più vigile e diffusa” le conseguenze di queste nomine sono catastrofiche: la fiducia nella Chiesa di molti fedeli si sente ancora una volta defraudata; nella Chiesa, proprio tra i cattolici più attivi, aumenta il malessere. La Chiesa universale si sente ferita”. I casi che si possono citare sono numerosi e riguardano in particolare l’America latina (tra i più recenti quello dell’Arcivescovo di Lima) dove la teologia della liberazione è stata ostacolata ricorrendo spesso a nomine ad essa ostili.

Il sistema gestito in modo autoritario attraverso i nunzi apostolici favorisce il conformismo. La selezione molto spesso avviene favorendo i candidati più fedeli a Roma dal punto di vista disciplinare e dottrinale e non quelli più pastoralmente capaci, in sintonia con l’ispirazione conciliare e partecipi della cultura e della realtà ecclesiale locale. A questo scopo è predisposta la procedura di selezione mediante più che discutibili questionari da compilare sotto segreto. Il Card. Martini nel suo intervento all’ultimo Sinodo dei Vescovi ha posto esplicitamente il problema con parole inequivoche. [Cfr. Adista n.75 del 29-10-2001; nel suo intervento Martini ha affermato che “la riflessione sul Vescovo come strumento di comunione nella Chiesa locale, e come colui che la rappresenta e la interpreta, porta a chiedersi come sia possibile far sì che la Chiesa locale possa anche riconoscersi come espressione del suo Vescovo, a partire dalle procedure utilizzate per la ricerca di candidati adatti”.]

 Sono fatti ben noti. La situazione si è aggravata con questo pontificato (Giovanni Paolo II) e ciò contribuisce alle difficoltà attuali della Chiesa cattolica.  Nei recenti incontri al massimo livello (Concistoro di maggio 2001, Sinodo mondiale dei vescovi, ottobre 2001) il problema del rapporto tra le Chiese locali e Roma è stato il tema dominante, le tensioni sono state forti ma per ora tutto è fermo. Il problema della nomina dei Vescovi è connesso a quello della struttura gerarchica e non comunitaria della Chiesa cattolica.

            …e i danni nei rapporti ecumenici. I limiti di una decisione solo individuale e la mancanza di collegialità nella decisione (oppure una collegialità di pochi, con decisioni non motivate, gestite in segreto magari espressione di veri e propri gruppi di potere ecclesiastico) sono stati analizzati, fin dal secolo scorso, in modo obiettivo e drammatico dal Rosmini, teologo di insospettabile fedeltà alla Chiesa ([cf. Lettera III in appendice a “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa”, BUR Rizzoli Milano 1996, pag.302 dove il Rosmini afferma: “Egli è certo che il privato giudizio s’inganna sovente, come quello sul quale le affezioni e le inclinazioni particolari esercitano influenza non piccola, ed è piegato sovente, senza che l’uomo stesso se ne avvenga, dal favore, e dalle individuali raccomandazioni, e in ogni caso un uomo solo non può, generalmente parlando, vedere tutto dove ci sono tante cose a vedere. All’incontro non è così facile che si inganni o sia prevenuto il concorde giudizio di tutti, giacché nel giudizio di molti le propensioni individuali si elidono e distruggono scambievolmente, i particolari lumi e le speciali vedute si completano coll’unirsi, e resta netta e concorde la verità. Al che consuona la sentenza che pronunziarono i Sommi Pontefici Siricio ed Innocenzo I quando dicevano “Integrum enim est iudicium quod plurimorum sententiis confirmatur”(è corretto il giudizio che viene confermato dall’opinione di molti)]).

Nei rapporti ecumenici, soprattutto con le Chiese nate dalla Riforma, il problema centrale non è solo quello del ministero petrino. C’è anche il problema di tutta l’organizzazione gerarchica anti-comunionale e anti-collegiale della Chiesa cattolica, a partire da quello della nomina dei Vescovi. Senza un modello ed una prassi diversa l’ecumenismo, dopo molti passi in avanti, rischia di fermarsi o anche di arretrare.

Il Gruppo di Dombes, che in Francia svolge da tempo una preziosa ricerca interconfessionale, nel 1976 ha pubblicato un importante documento in cui si rileva che il problema dell’episcopato non deve essere affrontato soltanto sul piano dottrinale, in quanto può essere decisivo il modo concreto del suo funzionamento (vedi n.8 del documento); fra le proposte che esso avanza per la Chiesa cattolica ( n.8 e n. 58) indica quella di un coinvolgimento di tutto il popolo di Dio nella scelta dei Vescovi [Il documento afferma al punto n.62 : “Per manifestare che l’autorità episcopale è radicata nella comunione ecclesiale, è importante che la designazione del Vescovo sia frutto di un rapporto vivo e di una consultazione tra il vescovo di Roma, i vescovi vicini, i preti della Diocesi e tutto il popolo interessato. Ci sembra infatti auspicabile che tutto il popolo di Dio sia associato nella scelta del suo vescovo”.]

Il Sinodo dei Vescovi e la nomina del Vescovo. Ci saremmo aspettati che il Sinodo dello scorso ottobre 2001, tra i tanti problemi relativi alla figura del Vescovo, affrontasse anche quello della sua nomina. Pare invece che l’argomento sia stato trascurato. Nulla si dice nel documento preparatorio (il c.d. Instrumentum laboris); poco pare sia stato detto durante il dibattito (almeno dalle scarse notizie trapelate), nulla si dice nel Messaggio finale, nulla nelle segrete “Propositiones” indirizzate al Papa (e sulla base delle quali egli scriverà un proprio documento). Questo imbarazzante silenzio del Sinodo, in cui pure si sono ripetuti vivaci contrasti sul rapporto tra Chiese locali e Curia romana, testimonia non che il problema non esista ma che il Sinodo è uno strumento di collegialità incapace di intervenire sulla struttura della Chiesa e sulla sua riforma. La sua limitata rappresentatività e l’irrilevanza delle sue conclusioni consultive hanno portato alla convinzione ormai largamente diffusa che le sue sessioni servano solo come occasione di incontro tra vescovi, magari interessante e per certi versi utile. Però anche le migliori analisi e proposte si arenano di fronte al muro di gomma della Curia vaticana ed alla permanente linea conservatrice di Giovanni Paolo II nella gestione interna della Chiesa.

Dobbiamo accettare passivamente questo immobilismo? Tutto continuerà come prima nella prossima nomina del nostro nuovo vescovo? Eppure anche la storia della nostra Diocesi di Milano ci dà segnali importanti. Basti ricordare che i due patroni della Diocesi, i santi Ambrogio e Carlo, sono diventati vescovi di Milano in modi del tutto inconcepibili per la nostra routine ecclesiastica: S. Ambrogio è stato imposto dal popolo; S. Carlo è stato nominato vescovo della diocesi di Milano a 27 anni dallo zio papa Pio IV. Dunque si può cambiare. Nulla c’è di immutabile nella Chiesa se non la fede in Cristo.

            La nomina dei vescovi nella storia della Chiesa cattolica. Gli studiosi di storia della Chiesa, senza distinzioni, confermano che la designazione dei vescovi da parte della comunità dei credenti nell’evangelo è stata costante nella Chiesa per secoli. Nella nomina del Vescovo intervenivano, in forme diverse, il clero e il popolo (“clerus populusque”) e i vescovi vicini alla diocesi interessata. Solo a partire dal XIII il papato si è andato appropriando del potere di nominare direttamente i vescovi o di accettare la designazione fatta dal potere politico. L’intervento del Papa nelle nomine ed il conflitto secolare con re o principi fa parte della storia tout court (e non solo quindi della storia della Chiesa). Adriano VI, il papa riformatore, che per primo si trovò a confrontarsi con Lutero, accolse nel 1523 tra le proposte di riforma della Chiesa quella dell’elezione dei Vescovi fatta con voto segreto e secondo coscienza. Questo proposito non ebbe seguito.

Al Concilio di Trento lo scontro per reintrodurre l’antica consuetudine della presenza attiva del popolo alla designazione dei vescovi fu lungo e vivace. La posizione episcopalista (che voleva tornare alla pratica della Chiesa antica) rimase in minoranza a causa dello “spirito dei tempi”, dominato dall’assolutismo degli stati e dal timore dei protestanti. E tuttavia il testo approvato al concilio di Trento fu più blando di quello tassativo contenuto nel Codice del 1917.

Una prassi di origine apostolica che consentiva una maggiore comunione tra vescovo e popolo fu così progressivamente e completamente abbandonata. Negli ultimi secoli le deroghe alla nomina pontificia sono state tutte eccezioni in pejus, dato che il papato romano ha permesso per secoli che fossero i sovrani degli stati “cattolici” (Francia, Austria, Spagna e Portogallo e colonie) a scegliere i vescovi che più loro facevano comodo, limitandosi ad una pura ratifica. Quanto era consentito al potere civile era negato ai credenti nell’Evangelo che partecipavano alla vita della Chiesa.

            Antonio Rosmini riapre il problema nel diciannovesimo secolo. Come è ben noto, chi ha ripreso a parlare di designazione da parte del clero e del popolo, con forti argomentazioni e fornendo una ricca documentazione, è stato Antonio Rosmini. Nel suo celebre “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa” (quarta piaga) ed in tre lettere successive si parla della “nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale”. Rosmini non si occupa solo di stigmatizzare l’intervento dei re: egli ripercorre con ricchezza di citazioni la storia dei primi secoli ed afferma: “I Santi Padri i quali insegnarono che quella parte che ha il popolo nell’elezione dei suoi Pastori procede dalla legge divina, ne trassero le prove

1)      Dalla legge antica;

2)      Dagli Atti apostolici che ci narrano l’elezione di S. Mattia, di S. Timoteo, e dei sette Diaconi;

3)      Da alcuni luoghi delle lettere di S. Paolo;

4)      Dalle ragioni intrinseche procedenti dalla dottrina di Cristo, cioè dalla dolcezza e ragionevolezza del governo ecclesiastico, dalla dignità de’ Cristiani, dal fine dell’ecclesiastico ministero, dalla sicurezza maggiore di un giudizio pubblico ecc.;

5)      Dall’immediata tradizione non iscritta di Cristo e degli Apostoli”.

Per Rosmini la partecipazione del popolo alla elezione del vescovo non è di diritto divino costitutivo ma di diritto divino morale: per cui se manca il popolo o se interviene un potere civile la nomina non è invalida. Ma, esauritesi le cause che hanno sospeso l’esercizio del diritto da parte del popolo di designare il vescovo, è doveroso che si ritorni alla situazione originaria. Rosmini sostiene anche che “il Clero ed il popolo può essere chiamato a concorrere alle elezioni vescovili con diversi procedimenti, e il definire quali siano i più opportuni dipende in gran parte dalle circostanze differenti in cui si trovano le varie provincie”.

Cf. Lettera III in appendice a “Le cinque piaghe della Santa Chiesa” citato pag. 299. Di seguito il Rosmini esprime ” la speranza che i Vescovi, conoscenti della condizione dei tempi in cui viviamo, dei grandi bisogni della Chiesa, e delle speranze che a lei adduce il grido alzato di libertà, vogliano dopo tanto tempo di disunione e d’isolamento, radunarsi nello spirito del Signore, e trattare quelle cose che interessano al reggimento della loro Chiesa. Imperciocché la sapienza collettiva e l’unità dello spirito e dei mezzi è quello, di cui più che mai la Chiesa oggidì abbisogna: ella abbisogna di sentire tutta la grandezza della promessa del Signore, il quale disse, che dove due o tre saran congregati in suo nome, egli sarà nel mezzo di essi“.

Con il Vaticano II nasce una nuova ecclesiologia. Dopo il Vaticano II l’istanza comunionale rinacque anche nella elaborazione teologica e ne sono testimonianza, tra l’altro, i fascicoli monografici di “Concilium”. Si può leggere in particolare lo studio di Hervé-Marie Legrand sul rapporto tra “il vescovo che è nella Chiesa e la Chiesa che è nel suo vescovo” (secondo la formula di S. Cipriano). Si tratta – egli dice – di “una ecclesiologia in cui la partecipazione di una chiesa alla scelta del vescovo appare come un’esigenza di struttura. Questa partecipazione non è una venerabile usanza tra tante altrettanto legittime. Togliere questa pietra all’edificio dell’ecclesiologia autenticamente cattolica e tradizionale significa minarlo gravemente. Quando la centralizzazione amministrativa sostituisce l’istituzione originale, allora non si realizza più un’ecclesiologia di comunione, tra le chiese ed all’interno della chiesa locale”.

Le nuove prospettive aperte dal Vaticano II e sviluppatesi anche in seguito ai numerosi dialoghi interconfessionali vanno nella direzione di un’ecclesiologia di comunione e di corresponsabilità nella gestione della comunità dei credenti. Pensiamo quindi che non si possa rinunciare al carisma del popolo di Dio nella designazione del proprio vescovo. Con essa non si può pensare di esaurire ogni esigenza di democrazia e di comunione. Il progetto ultimo a cui pensiamo è quello di una organizzazione della comunità dei credenti di tipo sinodale che, ai vari livelli, preveda organismi collegiali con poteri non solo consultivi. Un vescovo eletto dal clero e dal popolo ma dotato, come ora, di ogni potere non sarebbe una soluzione soddisfacente. Riteniamo però che l’andare nella direzione di un vescovo che sia diretta espressione del popolo di Dio che dovrà presiedere sia comunque un fatto innovativo in questo momento e che indichi la direzione da seguire anche per le altre riforme. [Particolarmente efficace è Giovanni Cereti quando afferma:” Queste prospettive facendo prendere sempre più coscienza ai battezzati della loro dignità di figli di Dio in un popolo di fratelli (Mt. 23,8), hanno risvegliato l’esigenza di una partecipazione più attiva alla vita della comunità, e non soltanto alla preghiera liturgica (SC 11.14.19 ecc..) o all’apostolato (LG 31.33; AA 2, ecc..) ma allo stesso governo della comunità (cf. LG 12.32.37). La partecipazione di tutto il popolo di Dio alla scelta dei propri vescovi appare così un’esigenza di quella ecclesiologia di comunione che si va sempre più affermando e che ha indotto alcuni spostamenti di accento di grande portata ecumenica che possiamo così riassumere :1) Il ministero del vescovo viene sempre più compreso in rapporto alla ministerialità di tutto il popolo di Dio; 2) La chiesa viene sempre più compresa a partire dalla chiesa locale; 3) L’unità della chiesa deve sempre più essere compresa come una comunione di “chiese sorelle” (cui Roma presiede nell’amore)”.]

            La Chiesa deve diventare comunione. Cosa impedisce ora di aprire le finestre? di ascoltare i carismi diffusi? di percorrere nuove strade? Per secoli la vita interna della chiesa è stata un’isola “democratica” in un mondo in cui il potere di Cesare era organizzato con criteri ben lontani dal clima di corresponsabilità e di fraternità che si viveva in molte comunità cristiane. Adesso la situazione si è completamente rovesciata. Inoltre non esiste praticamente più (se non forse in Cina) l’invadenza del potere civile nella nomina dei vescovi a giustificare un intervento così diretto ed esclusivo da parte di Roma.

Particolarmente dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e la crollo dei regimi dittatoriali in America Latina si sono quasi ovunque nel mondo diffusi sistemi democratici o che comunque praticano o dicono di voler praticare elementi di democrazia. La chiesa cattolica ha invece mantenuto ed accentuato nell’ultimo secolo e mezzo un sistema accentrato ed autoritario di cui la nomina dei vescovi è solo un aspetto (il controllo si estende sui seminari e le università, sulla ricerca teologica, sulla liturgia ecc…).

Così Giuseppe Alberigo stigmatizza la situazione: “Appare sconcertante che l’affermazione della democrazia politica in luogo dei sistemi autocratici nelle aree dove il cattolicesimo era presente non abbia indotto il pontificato romano ad adeguamenti, come era avvenuto in occasione di altri precedenti grandi mutamenti culturali. Almeno sino agli anni quaranta del XX secolo si assiste ad una aspra polemica nei confronti del metodo democratico, frequentemente confuso con la secolarizzazione. Anzi nei confronti di qualsiasi ipotesi di democratizzazione della Chiesa si oppone un intransigente appello al “diritto divino” della struttura ecclesiastica” [cf. in ” Forme storiche di governo nella Chiesa”, lectio brevis presso l’Università di Bologna, in “Il Regno” n.21 del 1-12-2001. Nella parte conclusiva della sua magistrale lezione Alberigo indica delle strade che si potrebbero percorrere: “Il livello legislativo dei grandi orientamenti generali dovrebbe essere affidato a un organo assembleare di tipo conciliare, distinto da quello- molto ristretto ma comprendente sempre il vescovo di Roma- responsabile delle decisioni di governo, dalla scelta dei nuovi vescovi ( o dalla convalida delle scelte operate localmente) sino alle numerose deliberazioni richieste dalle circostanze”. Per Alberigo la curia romana dovrebbe essere molto snellita ed anche dislocata nelle diverse aree di presenza geografica della Chiesa. Dovrebbe crescere il ruolo delle Conferenze episcopali e dei Sinodi, anche continentali, e comunque, ai vari livelli, dovrebbe porsi ” il problema della partecipazione dei fedeli all’elaborazione delle decisioni che li riguardano secondo il principio del quod omnes tangit”.].

La “democrazia” esiste già nella Chiesa cattolica. Nella chiesa cattolica vige un doppio sistema: uno rigido, centralizzato, autoritario e maschilista (S. Sede-diocesi-parrocchia), ed un altro flessibile, reticolare, collegiale, e anti-sessista, rappresentato dagli istituti di vita consacrata, che si autogestiscono secondo le proprie costituzioni interne (con ratifica a posteriori da parte della S. Sede che interviene in casi eccezionali).

Vi è poi l’esperienza delle Chiese cattoliche di rito orientale il cui modello sinodale, oltre a rappresentare un possibile percorso per un nuovo rapporto con l’ortodossia, è in evidente contrasto con quello della chiesa di rito latino ed è fonte di permanenti tensioni con la Curia romana come testimoniano anche gli interventi dei padri sinodali appartenenti a queste Chiese nel recente Sinodo. [In particolare si può leggere in “Il Regno” n.21 del 1-12-2001 l’intervento di Gregorio III Laham, patriarca greco-melchita di Antiochia e di tutto l’Oriente, che ha detto: “Si è atteso troppo ad applicare i decreti del Concilio Vaticano II, e le direttive e le dichiarazioni delle encicliche e delle lettere dei papi, e soprattutto del santo padre Giovanni Paolo II. Una ulteriore attesa toglierebbe ogni credibilità alla buona volontà della Chiesa di Roma in materia di dialogo ecumenico. Avviene esattamente il contrario: il “Codice dei canoni delle Chiese orientali” ha ratificato usanze assolutamente contrarie alla tradizione ed alla ecclesiologia orientale!”.]

Nella chiesa esistono da tempo collaudati sistemi di autogoverno. Riteniamo che esistano i presupposti di ordine dottrinale e pastorale perché si pensi finalmente ad una strada diversa per la struttura S. Sede-diocesi-parrocchia e che sia necessario iniziare a percorrerla fin da oggi. Bisogna rimuovere il clima di silenzio, di attesa e di accettazione passiva della situazione che caratterizza quella parte della Chiesa che, dopo il Concilio, si è proposta di seguire il Cristo, oltre che con la preghiera e le opere, anche con la testimonianza del modo di essere e di organizzare la comunità di credenti.                                      (Omissis)

Concrete proposte di comunione ecclesiale. La proposta di modificare il sistema di nomina dei vescovi ruota attorno alla necessità di creare consenso e comunione tra i credenti con la ratifica da parte del vescovo di Roma della guida che la chiesa locale ha individuato. Nel caso di conflitto o di stallo nella designazione del nuovo vescovo il Papa avrebbe il compito di arbitrare e di risolvere le tensioni. I modi concreti per giungere a questo consenso possono essere diversi, come lo sono stati nel primo millennio.

Rosmini propone che si debba: “restituire al pieno suo atto la gran massima di S Leone Magno: “Qui præfuturus est omnibus, ab omnibus eligatur”; e quindi che all’elezione del vescovo debbano concorrere

1)      La plebe cristiana e pia della diocesi,

2)      Il Clero della diocesi stessa,

3)      I Vescovi comprovinciali presieduti dal loro Metropolitano;

4)       Il Romano Pontefice come giudice e definitore supremo” (26).

Il “Documento di Barcellona” (27) espressione di una approfondita inchiesta in tutte le diocesi catalane e di una Assemblea tenutasi lo scorso 27-28 ottobre auspica un percorso “ideale” ed uno “fattibile”; quest’ultimo è proposto nei seguenti termini: “Quando si presenta la necessità di un ricambio nel ministero episcopale proponiamo di sollecitare espressamente negli organismi diocesani (consiglio presbiterale, consiglio pastorale, parrocchie, comunità e movimenti) un dibattito rigoroso sul profilo che si considera adeguato per la figura del Vescovo; questo profilo deve fondarsi sulla sintonia del candidato con l’ispirazione evangelica e con uno spirito di comunione e di responsabilità nei rapporti interni alla chiesa. Ugualmente è opportuno che si promuova uno studio sulla qualità del funzionamento di questi organismi. Le caratteristiche di questo profilo del vescovo devono riguardare la capacità di animare e gestire in modo partecipativo la vita delle comunità così come la conoscenza della società e la cultura nella quale vive la chiesa diocesana”.

Casiano Floristàn propone un percorso simile. Sostiene che devono essere coinvolte “tutte le istanze della comunione ecclesiale:

  1. La diocesi (mediante i consigli presbiterale e pastorale che presentano la lista dei candidati),
  2. La conferenza episcopale (che, attraverso un’apposita commissione, sceglie il più idoneo della lista, oppure propone un altro candidato)
  3. La Santa Sede (che conferma, salvo casi speciali, il vescovo scelto).

In questo modo si cerca di evitare l’influenza nefasta di certi interessi politici o l’imposizione di una linea pastorale distante dal popolo e dal Vaticano II”.

Le modalità concrete della partecipazione del popolo possono essere diverse e sono state diverse in passato. Salvatore Capo, nell’importante saggio per esempio propone. “Quando si rende vacante un seggio episcopale, un legato nominato dal papa (può anche essere un vescovo) convoca e presiede un collegio elettorale costituito da:

  • Tutti sacerdoti della diocesi, anche quelli che non sono parroci;
  • Tutti i diaconi della diocesi;
  •  Tutti i componenti laici del consiglio pastorale diocesano;
  •  Un rappresentante laico di ogni consiglio pastorale parrocchiale.

Questo collegio si riunisce per una intera giornata dedicata alla preghiera, alla riflessione e all’invocazione dello Spirito Santo. Alla fine della giornata si procede all’elezione a scrutinio segreto e viene eletto chi ha riportato almeno i due terzi dei voti. Nel caso in cui nessuno riporti i due terzi dei voti si procede usando la stessa procedura in vigore per l’elezione del papa”.

 Come si vede sono tutte proposte ben lontane da qualsiasi ipotesi di estensione alla nomina dei vescovi di istituti tipici della democrazia rappresentativa delle istituzioni civili. Ci sembrano percorsi forse non definitivi ma già da ora praticabili e segno di ricerca della comunione nella comunità ecclesiale

            Ogni ostacolo dovrebbe essere superato di fronte all’urgenza di voler essere più fedeli all’Evangelo ed allo spirito che animava la chiesa dei primi secoli. Se di ciò si è convinti non dovrebbe mancare il coraggio di innovare dando un segnale a partire dalla diocesi più grande del mondo cattolico e guidata da un arcivescovo universalmente conosciuto e stimato.

[Si potrà sostenere che questo percorso non è previsto dalla prassi e dal diritto canonico. Ma, volendo proprio seguire la ricerca dell’ortodossia giuridica, anche il codice prevede che si svolgano consultazioni; si tratterebbe solo di dare un’interpretazione estensiva al canone 377 § 3 e di fare anche riferimento al can. 129 § 2 dove recita che i fedeli laici possono cooperare nell’esercizio della potestà di governo (di giurisdizione). Si può anche fare appello al canone 212 § 3 in cui si afferma che “i fedeli hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli”.]

Con 29 note                       www.noisiamochiesa.org/?p=7883

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CITTÀ DEL VATICANO

Zollner: cresce una cultura di attenzione, ascolto e prevenzione sui minori

Una riunione di Pastori, non un convegno di studi; quattro giorni di preghiera e discernimento, catechetici e operativi. Con queste parole un anno fa veniva presentato l’Incontro “La protezione dei minori nella Chiesa”, convocato da Papa Francesco dal 21 al 24 febbraio 2019 nell’Aula nuova del Sinodo in Vaticano, alla presenza dei responsabili delle Chiese di tutto il mondo. All’Incontro, anche persone di diversi continenti che raccontarono la loro esperienza di abusi. Padre Hans Zollner, membro della Pontificia Commissione per la protezione dei minori e presidente del Centro della protezione dei minori della Pontificia Università Gregoriana, parla dei risultati di quella riunione al microfono di Gudrun Sailer, della redazione tedesca di Radio Vaticana – Vatican News.

Un anno fa si è tenuto in Vaticano il vertice sulla protezione dei minori. Da allora, quali azioni e decisioni concrete sono state prese e cosa è cambiato nel modo di affrontare la questione da parte della Chiesa?

R. – Abbiamo avuto nuove leggi, soprattutto “Vos estis lux mundi – Voi siete la luce del mondo”, in cui sono state introdotte alcune norme che riguardano per esempio l’obbligo di erigere un ufficio per le denunce di accuse in ciascuna diocesi, che implica anche l’obbligo di denunciare da parte di sacerdoti o di religiosi quando sanno di abuso o sospettano abuso presso l’autorità ecclesiastica competente, e anche l’inizio di alcuni passi da svilupparsi per la cosiddetta accountability, cioè il rendere conto riguardo il modo in cui un vescovo, un provinciale eseguono le loro competenze, i loro compiti, rispetto a queste domande.

Poi abbiamo visto che, dopo l’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali sulla protezione dei minori in febbraio scorso, moltissimi di questi vescovi sono tornati nei loro Paesi, hanno parlato dell’incontro avuto con le vittime durante quei giorni: erano rimasti molto impressionati e hanno trasmesso questo ai loro confratelli. Penso che possiamo constatare che c’è un certo cambiamento generale abbastanza visibile anche negli sforzi di molte Conferenze episcopali non solo di rivedere le loro linee guida ma anche di far sì che il messaggio del Papa sia pure implementato: cioè ascoltare le vittime, fare giustizia e impegnarsi nella prevenzione degli abusi.

La Chiesa ha ricevuto molti apprezzamenti per il coraggio e la trasparenza mostrati durante e dopo questo vertice, ma c’è anche chi l’ha criticata perché vorrebbe più coraggio e più trasparenza. Lei cosa risponde?

R. – Penso che il Papa abbia fatto veramente moltissime cose. Ultimamente, in dicembre, ha deciso di abolire l’applicazione del segreto pontificio al trattamento dei casi canonici nella Chiesa contro sacerdoti o chierici in generale che hanno abusato. Quindi adesso nessuno può nascondersi dietro questa regola che esisteva fino a dicembre scorso nel non collaborare con le autorità civili competenti.

È un fortissimo passo avanti nella trasparenza e fa vedere che la Chiesa non può considerarsi e non può essere considerata un’entità a parte dello Stato: deve rispettare le leggi dello Stato e deve cooperare con le autorità quando richiedono per esempio documentazione e collaborazione piena per fare giustizia, cioè per arrivare a un giudizio consolidato tramite i fatti che possono essere documentati negli archivi, anche diocesani. E poi il Papa continua: non è finito questo cammino. Prossimamente ci saranno altri passi visibili, preparati nel corso di tutto l’anno, rispettando la necessità di andare a fondo nelle cose e di analizzarle bene. Vogliamo avere un quadro completo e penso che si stia arrivando a una decisione importante dopo l’altra, in modo da creare nel tempo una cultura di attenzione e prevenzione ma soprattutto una cultura all’interno della Chiesa di salvaguardia della vita di tutte le persone.

Adesso si parla anche della questione degli abusi sulle religiose. Cosa si può dire e soprattutto cosa si può fare in proposito?

R. – La cosa più importante che mi confermano anche tante vittime di abuso, riferendosi a quando erano minori, è che le vittime devono essere ascoltate e anche in questo il Papa è veramente un modello perché non solo ha incontrato nel passato ma incontra continuamente persone vittime di abuso. Ciò dovrebbe essere un esempio per tutti i responsabili, soprattutto tra i religiosi degli Istituti maschili o tra il clero diocesano, che devono ascoltare e devono essere sensibili e non rifiutare e non scoraggiare le religiose quando vogliono iniziare a parlare di quello che hanno sofferto o loro stesse oppure quando sono a conoscenza di consorelle che hanno subito questi crimini. Dunque l’ascolto è la prima cosa perché è importante essere creduti ed essere accettati anche in quello che uno vuole esprimere non solo tramite il racconto dei fatti, anche se espresso in modo aggressivo, amaro a volte e con la sensazione di non ricevere sufficiente giustizia. Questo un responsabile che ascolta deve accettarlo prima di poter iniziare un dialogo ulteriore per sapere cosa si può offrire in termini di aiuto, di terapia, di sostegno o nel cercare di capire come dobbiamo cambiare le strutture nella comunità religiosa, tra comunità religiose e tra queste e le istituzioni diocesane. Spesso sono state anche dipendenze economiche o lavorative a far sì che le suore fossero facilmente preda di sacerdoti che abusavano di loro non solo sessualmente ma anche in termini di lavoro e di dipendenza pure spirituale.

Gudrun Sailer             Vatican news              20 febbraio 2020

www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-02/zollner-intervista-un-anno-fa-incontro-protezione-minori.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email

 

Lotta agli abusi, un anno di riforme concrete

A un anno dal summit del febbraio 2019, facciamo il punto sui provvedimenti voluti da Papa Francesco che hanno profondamente modificato l’approccio al fenomeno delle violenze commesse da persone consacrate. Otto decisioni – e altre se ne attendono – nel segno della trasparenza sui crimini e sui colpevoli e della massima tutela delle vittime

Definirlo posa della prima pietra non è esatto perché il basamento poggiava su fondamenta già strutturate, gettate non solo in questo Pontificato. Ma è indubbio che l’edificio costruito negli ultimi mesi nella Chiesa per contrastare il fenomeno degli abusi commessi dal clero si sia giovato in modo originale del lavoro di “architettura” disegnato dal Summit sulla protezione dei minori svoltosi in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. I prossimi passi ormai in dirittura d’arrivo saranno l’attesa Task force, per sostenere conferenze episcopali e comunità religiose che hanno bisogno di preparare o aggiornare le linee guida in materia, e il Vademecum della Congregazione per la Dottrina della Fede, entrambi annunciati alla fine dell’Incontro di febbraio.

Quel che è accaduto in dodici mesi – una serie di provvedimenti papali e la creazione di strumenti di intervento, tra tutti l’abolizione del segreto pontificio sui casi di abuso – prende le mosse da quei giorni di intenso lavoro cominciato esattamente un anno fa, con il Papa attorniato principalmente dai presidenti degli episcopati, ma anche da membri della Curia, rappresentanti di Istituti religiosi ed esperti. Un totale di 200 persone tutte accomunate da un bisogno di “consapevolezza e purificazione” – come recita il titolo sotto il quale sono stati raccolti e pubblicati gli atti prodotti dal meeting – da cui Francesco si congedò con le parole gravi e impellenti pronunciate all’omelia della Messa conclusiva in Sala Regia. Resta nella memoria quello sprone a proteggere i più piccoli dai “lupi voraci”, il desiderio di farsi prossimo alle vittime e a un “Dio tradito e schiaffeggiato”.

             Già un mese più tardi, il 26 marzo 2019, Francesco mette la firma in calce a tre documenti che cambiano il volto della legislazione vaticana.

  1. Il primo è la Lettera apostolica in forma di Motu Proprio con cui si stabilisce che sia perseguito chi commette “abuso o maltrattamento contro minori o contro persone vulnerabili”, che per i reati commessi in territorio Vaticano abbiano giurisdizione penale gli organi giudiziari interni, che alle vittime sia offerta assistenza spirituale, medica, sociale e legale, nonché sia garantito il diritto a un equo processo per gli imputati e si proceda alla rimozione dagli incarichi per i condannati, fermo restando anche per loro un supporto riabilitativo.
  2. Il secondo provvedimento varato dal Papa è la Legge 297 per lo stato della Città del Vaticano. Il nuovo codice impone, tra l’altro, l’obbligo di denuncia tempestivo di una notizia di reato e fissa a 20 anni il termine di prescrizione dello stesso che, in caso di minore, decorre dal compimento dei 18 anni di età. La Legge 297 indica inoltre nel “servizio di accompagnamento” lo strumento idoneo a fornire ogni forma di assistenza alle vittime e alle loro famiglie.
  3. Il terzo provvedimento, le “Linee guida per la protezione dei minori”, sancisce i criteri per la scelta degli operatori pastorali e le corrette norme di comportamento nel rapporto con minori e persone vulnerabili e in generale elenca le procedure da seguire nel caso di procedimenti a carico di abusatori.

Dopo aver legiferato su questa materia all’interno del Vaticano, un mese e mezzo dopo Francesco estende in modo analogo gli stessi obblighi a tutta la Chiesa. Lo fa con il Motu proprio “Vos estis lux mundi”, firmato il 9 maggio 2019. Anche nel caso di questo documento si fissano le norme da seguire per segnalare molestie e violenze e assicurare che vescovi e superiori religiosi rendano conto del loro operato. Il documento introduce l’obbligo per chierici e religiosi di segnalare gli abusi e richiede a ogni diocesi di dotarsi di un sistema facilmente accessibile al pubblico per ricevere le segnalazioni. Per assistere i dicasteri nell’applicazione del Motu proprio viene istituito un tavolo presieduto da monsignor Filippo Iannone, presidente del Pontificio Consiglio per il Testi Legislativi, al quale siedono rappresentanti della Segreteria di Stato e delle Congregazioni per la Dottrina della Fede, per le Chiese Orientali, per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei popoli, per il Clero, per gli Istituti di Vita Consacrata.

Alla fine dello scorso anno, il Papa compie un passo ulteriore. Il 17 dicembre 2019 vengono ufficializzati due Rescritti a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin.

  1. Il primo, che suscita grande eco mediatica, promulga l’Istruzione con la quale Francesco cancellando il “segreto pontificio” vuole dare certezza sul modo di comportarsi – e dunque sul grado di riserva da adottare – nei casi di denunce di abusi sessuali commessi da clero e religiosi e su eventuali coperture e silenzi da parte autorità ecclesiastiche.
  2. Il secondo Rescritto introduce modifiche alle Normæ de gravioribus delictis. Una di queste configura come reato da parte di un chierico l’acquisizione, la detenzione o la divulgazione di immagini pornografiche di minori considerati tali non più fino a 14 anni ma fino a 18 anni. Un’altra è quella che concede la facoltà di esercitare il ruolo di avvocato e procuratore non più come in passato a un chierico ma a “un fedele, provvisto di dottorato in diritto canonico”.

Alessandro De Carolis – Città del Vaticano 21 febbraio 2020

www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-02/papa-francesco-abusi-clero-minori-summit-febbraio-riforme-anno.html?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=NewsletterVN-IT

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CONVIVENZA

La convivenza more uxorio

Con il termine convivenza more uxorio (famiglia di fatto o convivenza di fatto) si indica l’unione stabile e la comunione (di vita, spirituale e materiale) tra due persone che non è fondata sul matrimonio.

Che cos’è la convivenza. La convivenza more uxorio è in sostanza la relazione affettiva e solidaristica che lega due persone in comunione di vita. La situazione di fatto che si crea è simile, per molti aspetti, al matrimonio. La Cassazione n. 6381/1993 dichiara che la convivenza more uxorio è legittima per il nostro ordinamento perché non contrasta con il buon costume, l’ordine pubblico e le norme imperative. La legge n. 76/20 maggio 2016 (legge Cirinnà) ne ha introdotto la disciplina nel nostro ordinamento. La normativa contempla una serie di diritti a favore dei conviventi che restituisce dignità alle unioni che non contraggono matrimonio. Il partner di un soggetto dichiarato inabile può essere infatti nominato suo amministratore di sostegno, fargli visita nei luoghi di ricovero ed esprimere la sua opinione sul trattamento terapeutico che lo riguarda. Il decesso di uno dei conviventi causata da un illecito altrui commesso sul posto di lavoro, durante la circolazione stradale o in altre circostanze, legittima l’altro convivente a chiedere il risarcimento danni da morte. Il lavoro di uno dei conviventi nell’impresa dell’altro gli attribuisce il diritto di partecipare agli utili.

La casa familiare nelle convivenze more uxorio. Durante la convivenza, se la casa che le parti hanno destinato alla coabitazione è di proprietà esclusiva di uno solo, l’altro non vanta diritti sulla stessa, perché considerato un semplice “ospite”(in senso contrario si è espressa la Cassazione con sentenza n. 17971/2015 aderendo quanto già sancito dalle sentenze n. 7/2014 e n. 7214/2013). In caso di decesso invece il partner superstite subentra nel contratto d’affitto e, se l’immobile era di proprietà del defunto, mantiene il diritto di abitazione per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.

Il diritto al mantenimento. La corresponsione dell’assegno di mantenimento non è contemplata nel caso in cui a separarsi è una coppia di fatto. L’unica forma di contributo prevista dalla nuova legge consiste nel diritto agli alimenti, solo se l’ex convivente versa in stato di bisogno. La misura e durata degli alimenti sono tuttavia stabiliti in base al periodo della convivenza.

L’affidamento dei figli se si rompe l’unione more uxorio. I figli naturali nati al di fuori del matrimonio sono parificati in tutto e per tutto ai figli legittimi nati in costanza di matrimonio (D. Lgs. n. 154/28 dicembre 2013). Pertanto, in una coppia di fatto che si separa, ogni genitore, in assenza di accordo per gestire la relazione con i figli, può rivolgersi al Tribunale ordinario. Spetterà così all’autorità giudiziaria stabilire la misura dell’assegno di mantenimento, il diritto di visita, l’affidamento e l’assegnazione della casa familiare.

I contratti di convivenza. I contratti di convivenza presuppongono la registrazione anagrafica della coppia di fatto (eterosessuale od omosessuale) presso il Comune di residenza. La sua stipula si rivela particolarmente utile in caso di separazione, poiché le parti possono stabilire a priori le rispettive modalità di contribuzione alle necessità della famiglia di fatto durante la convivenza e quando questa viene meno.

Le obbligazioni naturali che scaturiscono dalla convivenza. Il tema delle obbligazioni naturali all’interno delle coppie di fatto emerge quando la coppia si divide. Tanto per ricordarne brevemente il significato, l’obbligazione naturale consiste nel pagamento spontaneo di una somma di denaro o nell’esecuzione spontanea di una prestazione, per puro ossequio a regole sociali o morali. L’assenza del vincolo giuridico comporta che le obbligazioni naturali siano soggette a quanto stabilito dall’art. 2034 C.C.: 1. “Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. 2. I doveri indicati dal comma precedente e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato non producono altri effetti”. Il convivente che ha elargito somme per il mantenimento della coppia o della famiglia di fatto (in presenza di figli) non può pertanto chiederne la restituzione, se sono stati rispettati i principi di proporzionalità e adeguatezza. Occorre tenere conto altresì dei casi in cui l’esborso risulta ingente e come tale non riconducibile nell’ambito delle obbligazioni naturali (Tribunale di Treviso sentenza n. 258/2015; Cassazione n. 18632/2015; Cassazione n. 1266/2016).

La giurisprudenza sulla famiglia di fatto. Ecco alcune massime rilevanti in materia di famiglia di fatto o convivenza more uxorio:

  • Cassazione n. 9178/2018. Si ha convivenza more uxorio, che assume rilievo anche ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente nel caso di perdita della vita dell’altro, allorquando due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in forza del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale.
  • Cassazione n. 2466/2016. L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso.
  • Cassazione n. 1266/2016. Al termine di un periodo di convivenza more uxorio può essere stabilito un compenso economico a favore di un partner solo se questi ha svolto a favore dell’altro prestazioni che esulano dai normali doveri materiali e morali, quale il lavoro domestico, il cui assolvimento non dà luogo a risarcimento alcuno, costituendo obbligazione naturale ex articolo 2034 del Cc, conformemente al dettato costituzionale di cui all’articolo 2.
  • Trib. Reggio Emilia n. 315/2016. Nell’ambito di un giudizio per il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, la questione dell’esistenza o dell’assenza di una “vita familiare” ex art. 8 Cedu, in assenza di qualsiasi vincolo di parentela, è anzitutto una questione di fatto e ricomprende anche le unioni omosessuali.
  • Cassazione n. 19423/2014. La convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio del convivente e diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità. Tale interesse assume i connotati tipici di una detenzione qualificata che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario ai danni del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.

Annamaria Villafrate 21 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/23466-la-convivenza-more-uxorio-e-la-giurisprudenza-sulla-famiglia-di-fatto.asp

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CULTURA DIGITALE

Il libro di Padula: provare a spiegare il cambio di paradigma in corso intorno alle teorie dei media

Oggi “i media siamo noi”, lo slogan di Massimiliano Padula, docente della Pontificia università lateranense, che ha appena pubblicato la sua quinta monografia dal titolo “Comunica il prossimo tuo – Cultura digitale e prassi pastorale” (ed. Paoline). Un libro scritto per i suoi studenti ma anche per chi si occupa di comunicazione ad ogni livello nella Chiesa, “mi permetterei di consigliarlo a tutti coloro i quali non hanno ancora ben compreso questo cambio di paradigma in corso, questo processo di naturalizzazione della tecnologia”, le parole di Padula che il Sir ha incontrato per parlarci del suo ultimo lavoro, una finestra sulla situazione attuale nella quale sono invisibili i confini tra cosa è mediale e cosa non lo è.

Nel bene o nel male, l’argomento che più di altri è sulla bocca di tutti quotidianamente sembra essere quello della comunicazione, soprattutto dopo l’avvento dell’era digitale che ha distrutto i confini tra chi costruiva l’informazione e chi ne fruiva. Oggi “i media siamo noi”, lo slogan di Massimiliano Padula, docente incaricato di sociologia e comunicazione nell’Istituto pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia università lateranense, che ha appena pubblicato la sua quinta monografia dal titolo “Comunica il prossimo tuo – Cultura digitale e prassi pastorale” edito da Paoline (pg. 123 – 10 €). Un libro scritto per i suoi studenti ma anche per chi si occupa di comunicazione ad ogni livello nella Chiesa, “mi permetterei di consigliarlo a tutti coloro i quali non hanno ancora ben compreso questo cambio di paradigma in corso, questo processo di naturalizzazione della tecnologia”, le parole di Padula che il Sir ha incontrato per parlarci del suo ultimo lavoro, una finestra sulla situazione attuale nella quale sono invisibili i confini tra cosa è mediale e cosa non lo è, dato che la tecnologia è sempre più naturalizzata, socializzata e personalizzata, fino al punto che le applicazioni del nostro telefonino non sono altro che l’opportunità di soddisfare i nostri bisogni immediatamente.

            Perché ha scritto questo libro?

  1. Il primo motivo è la riflessione in relazione allo studio e al contesto accademico nel quale mi trovo ad operare nel quotidiano.
  2. Il secondo motivo invece è la sistematizzazione di una riflessione che ormai dura da qualche anno e ha trovato una prima organizzazione nel libro precedente che si intitola “Umanità mediale, teoria sociale e prospettive educative” scritto insieme a Filippo Ceretti sui media.

L’obiettivo principale di questo libro è annusare e poi provare a spiegare il cambio di paradigma in corso intorno alle teorie dei media. Non più considerati esclusivamente in chiave tecnicistica ed ecologica, ovvero media come ambienti, ma considerati sempre più in chiave antropologica.

            In un momento nel quale proprio lei sottolinea come i media non esistono più e che anzi, i media siamo noi tutti, qual è il punto di intersezione tra Dio e i media?

Il titolo del libro si ispira al comandamento più umano che c’è, ovvero “Ama il prossimo tuo come te stesso”, cioè comportati in un certo senso, rendi la tua esistenza, la tua vita, simile a quella del tuo prossimo. Trasmetti la giustizia, la bellezza, la bontà che caratterizza il tuo vivere quotidiano anche al tuo prossimo. Il rapporto tra Dio e media c’è sempre stato, basti pensare alle riflessioni della Chiesa o la definizione di media come areopago del tempo moderno, elaborata e promossa da Giovanni Paolo II. I media sono certamente opera di Dio, in quanto l’uomo è creato e generato a immagine e somiglianza, ma i media sono soprattutto il frutto delle intensioni e dei progetti dell’uomo. Nei media, soprattutto quelli digitali, l’uomo proietta la propria umanità, per questo motivo i media siamo noi, in quanto in essi trasliamo la nostra qualità etica.

Possiamo costruire relazioni, generare azioni belle oppure di contro possiamo riflettere e riverberare l’ambiguo, il discutibile, il disvaloriale che ci caratterizza.

La naturalezza della persona che abita gli spazi mediali sembra, per certi versi, diversa da quella con la quale normalmente saremmo abituati a confrontarci in un ambiente come la strada. Lei definisce questo atteggiamento con i termini “plus umanizzazione” e “minus umanizzazione”. Cosa significa e come si spiegano queste variazioni della personalità?

Esiste una certa narrativa intorno a internet, il web e i media digitali, che spinge molto sul negativo. Molti demonizzano, molti inquadrano i media in chiave patologica, altri utilizzano il termine disumanizzazione, io invece credo che all’interno degli spazi on-line, cioè luoghi e territori di quotidiana interazione sociale, come forum di discussione, social network e gruppi whatsapp, che ormai comprendono porzioni significative del nostro vivere quotidiano, l’individuo tende ad eccedere di umanità, plus umanizzazione.

Abbandona i tradizionali filtri, come buon senso, confronto, pazienza, perdono, temperanza e incontro, determinati da educazione, principi, valori e che caratterizzano il suo essere sociale. Molto spesso negli spazi on-line questa operazione di filtraggio tende a nascondersi e l’uomo radicalizza le proprie posizioni. Quindi si verificano episodi di turpiloquio, insulto, offesa ed altri ancora che solitamente nella vita reale non si registrano. Di contro, a volte, l’individuo si minus umanizza, cioè comprime le potenzialità dell’umano e tende a non intervenire, a non partecipare. La cultura digitale è partecipativa e si fonda sulla condivisione, mentre l’individuo è fermo, non partecipa, non condivide, non entra nelle logiche archetipiche e naturali della cultura digitale e quindi difetta di umanità.

Si può trovare un equilibrio tra le due parti?

L’equilibrio si trova con l’educazione dell’umanità mediale, ispirata da valori guida, anche se questa non può eliminare il fenomeno della devianza, cioè della trasgressione da comportamenti socialmente accettabili, istituzionalizzati dalle norme o dalle regole. Pensiamo a fenomeni come cyberbullismo, heath speech, grooming, adescamento, ludopatie e pedopornografia on-line, cioè atteggiamenti deviati e in molti casi criminali che molto spesso sono la conseguenza della plus umanizzazione.

L’individuo non si rende conto che on-line l’esistenza è reale, come l’esistenza off-line. La soluzione è la presa di coscienza che non c’è differenza tra una vita off e on, come spiega il neologismo di Luciano Floridi “onlife” [assenza di un confine netto tra reale e virtuale]. Prendere coscienza di questo è il primo passo per trovare un equilibrio dell’esistenza che ci rende persone corrette, giuste, educate, filtrate anche negli spazi on-line.

            L’evangelizzazione è perno della comunicazione. Non è un caso che anche Papa Francesco, come si evince da alcune delle citazioni riportate nel libro, poneva l’accento su di essa e sull’importanza dei media già dal 2002, quando era ancora cardinale.

            L’evangelizzazione può svilupparsi, concretizzarsi, consolidarsi, attraverso gli strumenti di comunicazione. Dai vecchi media fino ad oggi, il rapporto tra evangelizzazione e comunicazione è consolidato e segue in modo parallelo lo sviluppo dei media. Dal post Concilio vaticano II fino alla Laudato si’, l’Evangelii gaudium o i messaggi per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, dove Papa Francesco riflette in alcuni passaggi sulle ricadute della dimensione mediale e uno sbilanciamento forte su quelle che sono le categorie umane, utilizzando la categoria della projimidad (prossimità). Jorge Mario Bergoglio la introduceva per definire come il comunicatore buono, bravo e giusto è quello che si fa prossimo come il buon Samaritano, che sceglie di non essere indifferente al moribondo sul ciglio della strada, che sceglie di non infierire su di lui, come spesso fa qualcuno negli spazi on-line, ma si ferma, lo guarda, lo prende in carico, lo porta in un rifugio sicuro e ne cura le ferite. Quindi comunica il prossimo tuo si ispira anche a questa categoria intorno alla quale si sviluppa una riflessione umana sulla comunicazione che è la prossimità.

Marco Calvarese        AgenziaSIR    22 febbraio 2020

www.agensir.it/italia/2020/02/22/cultura-digitale-il-nuovo-libro-di-padula-per-provare-a-spiegare-il-cambio-di-paradigma-in-corso-intorno-alle-teorie-dei-media

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DALLA NAVATA

VII Domenica del tempo ordinario – Anno A – 23 febbraio 2020

Levìtico             19, 18. (Il Signore parlò a Mosè e disse:) «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore»

Salmo               102, 13. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo           

                                    temono

1Corìnzi            03, 23.  Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio

Matteo               05, 43.  «Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti».

 

Porgi l’altra guancia: disinnesca il male

Una serie di situazioni molto concrete: schiaffo, tunica, miglio. E soluzioni in sintonia: l’altra guancia, il mantello, due miglia. La semplicità del vangelo! «Gesù parla della vita con le parole proprie della vita» (Christian Bobin). Niente che un bambino non possa capire, nessuna teoria astratta e complicata, ma la proposta di gesti quotidiani, la santità di ogni giorno, che sa di abiti, di strade, di gesti, di polvere. E di rischio. E poi apre feritoie sull’infinito: siate perfetti come il Padre, siate figli del Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni.

Fare ciò che Dio fa, essere come il Padre, qui è tutta l’etica biblica. E che cosa fa il Padre? Fa sorgere il sole. Mi piace questo Dio solare, luminoso, splendente di vita, il Dio che presiede alla nascita di ogni nostro mattino. Il sole, come Dio, non si merita, si accoglie. E Dio, come il sole, si trasforma in un mistero gaudioso, da godere prima che da capire. Fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni.

Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia. Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Cristo degli uomini liberi, padroni delle proprie scelte anche davanti al male, capaci di disinnescare la spirale della vendetta e di inventarsi qualcosa, un gesto, una parola, che faccia saltare i piani e che disarmi. Così semplice il suo modo di amare e così rischioso

p. Ermes Ronchi, OSM

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-23-febbraio-2020-p-ermes-ronchi

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DENATALITÀ

Inflazione dell’io e figli visti come ostacolo alla propria libertà

Nel 2019 le morti in Italia hanno superato di 212mila unità le nascite. L’allarme di Mattarella: “Il tessuto del nostro Paese si indebolisce e va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno”. Per il sociologo Mario Pollo il crollo della natalità è anzitutto un problema culturale: “ethos infantilistico” e incapacità di sacrificarsi per i figli.

In Italia culle sempre più vuote. Lo scorso 11 febbraio l’Istat ha confermato nei suoi “Indicatori demografici” per l’anno 2019 una tendenza già in atto da tempo. Al 1° gennaio di quest’anno la popolazione era di 60 milioni 317mila individui con un saldo negativo rispetto all’anno precedente di -212mila unità. Nel 2019 le nascite sono state 435mila contro i 647mila decessi: il più basso livello di ricambio naturale nel Paese dal 1918.

Di qui l’allarme e il monito del capo dello Stato Sergio Mattarella:Come conseguenza dell’abbassamento di natalità vi è un abbassamento del numero delle famiglie. Questo significa che il tessuto del nostro Paese si indebolisce e va assunta ogni iniziativa per contrastare questo fenomeno”.

Perché gli italiani fanno sempre meno figli? L’assegno universale dalla nascita all’età adulta ipotizzato dalla ministra per la Famiglia Elena Bonetti, insieme ad un fisco family-friendly, un ampliamento dei congedi parentali, l’armonizzazione tra tempi di vita e di lavoro potrebbe essere la soluzione? No, secondo Mario Pollo, sociologo e antropologo dell’educazione, che assicura al Sir: “Questi interventi pubblici certamente aiuterebbero ma non sarebbero risolutivi. La crisi delle nascite ha ragioni più profonde che vanno al di là dei motivi economici”.

Professore, quali sono queste ragioni?

“È anzitutto un problema culturale, e non di oggi. Già una ventina d’anni fa parlavo dell’inizio di un lento suicidio della nostra cultura. In questo ambito sono da tempo in atto due fenomeni interconnessi tra loro: la scomparsa dell’età dell’infanzia e la diffusione dell’ethos infantilistico.

Che cosa intende dire?

Con l’avvento della tv e più di recente dei nuovi media, il “filtro” che proteggeva i bambini da realtà del mondo non adatte loro perché ancora incapaci di comprenderle ed elaborarle – guerre, morte, violenza, sessualità, denaro – si è dissolto e questi aspetti sbattuti prepotentemente davanti ai loro occhi hanno provocato uno “svezzamento” precoce non sostenuto da un’adeguata maturità. Un’adultizzazione che non è sinonimo di maturazione. A questo si aggiunge un mercato dei consumi che negli anni ha ampliato il target coinvolgendo anche i più piccoli. Oggi abbiamo un bambino forzatamente adultizzato a fronte di adulti-consumatori rimasti adolescenti tutta la vita, anche se invecchiati. Un cortocircuito che continua a mettere in crisi la relazione educativa e la capacità dei giovani adulti di oggi di assumersi responsabilità di cura nei confronti di qualcun altro.

Quel “sacrificarsi per i figli”, leit-motiv delle generazioni precedenti, è un concetto scomparso a fronte di una sorta di “ethos infantilistico” che fa ripiegare narcisisticamente su se stessi di fronte alla sfida della genitorialità vista come ostacolo alla possibilità di vivere una vita “piena” secondo il mito di una illusoria autorealizzazione.

C’è chi ha parlato di “dittatura dell’io”.

Sì, l’inflazione dell’io è la patologia sociale di oggi. Anche negli adolescenti. Nella ricerca sui giovani romani, “Il futuro negato”, che il mese scorso ho presentato per la Caritas, una delle cose che più mi ha colpito è la diffusa incertezza degli adolescenti, con riferimento al proprio avvenire, tra mettere su famiglia o rimanere single. Paternità e maternità vengono da molti viste come limitazione della libertà personale e della possibilità di autorealizzazione senza comprendere che la vera autorealizzazione passa attraverso la cura dell’altro da me.

Senza il “noi” non esiste un “io” maturo.

È però indiscutibile che la crisi economica di questi ultimi anni abbia prodotto un contesto di grande precarietà e incertezza verso il futuro. Mia madre mi raccontava che lei e mio padre si sposarono mettendo insieme la fame con la sete. In passato la scarsità di risorse economiche non impediva di mettere al mondo i figli. Oggi si pensa ai figli più come a un qualcosa che può minare la ricchezza della famiglia che come ad una risorsa, e si tende a voler programmare tutto.

Si può invertire questa tendenza?

Solo ritornando a sognare il futuro ed elaborando progetti di vita individuale e sociale che non siano necessariamente lo sviluppo di tutto ciò che forma e condiziona il presente. I sogni non muoiono all’alba; l’alba è il momento per rimboccarsi le maniche e lavorare per realizzarli anche laddove sembra che tutto remi contro. Ma occorre recuperare la concezione dei figli come nostro futuro, mentre oggi i bambini vengono visti come contemporanei del presente.

Serve quindi un cambiamento di mentalità. Chi può farsene promotore?

Nella storia i cambiamenti radicali sono sempre stati prodotti da minoranze che hanno saputo immettere nella società e nella cultura dei virus in grado di contagiarle positivamente.

Minoranze che siano al tempo stesso fermento e forza vitale. A chi sta pensando?

Anzitutto alla Chiesa. Credenti, associazioni e gruppi dovrebbero attivarsi a livello sociale, culturale e comunicativo proponendo modelli di vita e parametri diversi dal conformismo del politically correct, opposti alla deriva dell’individualismo imperante. Solo un’azione educativa profonda, illuminata da un’apertura alla trascendenza, potrebbe aiutare le persone a sviluppare la propria unicità e identità all’interno di un percorso di crescita nella solidarietà e responsabilità nei confronti degli altri. Per costruire una società di uomini e donne aperti alla vita e capaci di creare un futuro di maggiore umanizzazione e giustizia.

Giovanna Pasqualin Traversa AgenziaSIR    17 febbraio 2020

www.agensir.it/italia/2020/02/17/denatalita-mario-pollo-sociologo-inflazione-dellio-e-figli-visti-come-ostacolo-alla-propria-liberta

 

«Servono servizi, non vincoli. La voglia di fare figli torna se cala la paura»

Professoressa Chiara Saraceno, la denatalità che continua inesorabile da cinque anni ed ha raggiunto nel 2019 un nuovo record, è davvero un grosso problema per l’Italia? Perché?

È un problema il fatto che stiamo diventando una società sempre più vecchia, il che significa minore capacità di innovazione e di adattamento ai cambiamenti del mondo. Ma soprattutto è un problema il fatto che anche chi vuole avere figli non riesce ad averli. E in questo modo si limita la libertà delle persone. Senza parlare del fatto che naturalmente il costo delle pensioni graverà sempre di più su una quota sempre più piccola di popolazione.

Da cosa si evince il desiderio non esaudito di fare figli?

Bisogna distinguere tra natalità e fecondità: la prima è il numero di figli che nasce sul totale della popolazione, la seconda è il numero medio di figli per donna, che oggi è molto basso, 1’1,29. Il tasso di natalità dipende in larga misura dalla composizione per età della popolazione e naturalmente è potenzialmente inferiore in una società dove si è rovesciata la piramide per età. Naturalmente non possiamo pensare di tornare ai tassi di natalità degli anni Cinquanta e Sessanta, quando eravamo una popolazione molto giovane. Però, se quei pochi che possono fare figli ne fanno meno di quanti ne desiderino- perché il desiderio di averne almeno due è più o meno costante nel tempo – allora si abbassa ulteriormente il tasso di natalità. E a parte i problemi che ciò comporta, ripeto, c’è una questione di libertà.

            In Europa i Paesi con natalità simile o inferiore a quella italiana sono solo la Grecia, Malta, Monaco e le Andorre. Cosa pesa di più, secondo lei, sulla bassa propensione a fare figli: la condizione socio-economica o quella culturale?

Credo che alla base ci sia un complesso di problemi: dal punto di vista culturale abbiamo ancora modelli di genere molto rigidi, per cui sulla donna si riversa tutta la cura della prole, e anche i datori di lavoro guardano alle donne che diventano madri come delle lavative. Però ci sono anche i problemi di organizzazione sociale: la disoccupazione, la precarietà che riguarda soprattutto i giovani, la mancanza di servizi… Non è un caso che oggi, per la prima volta in Italia, la fecondità delle donne tra i 35 e i 39 anni, ossia di coloro che hanno trovato una certa stabilità, sia maggiore di quella tra i 25 e i 29 anni.

Eppure la Turchia è in Europa il Paese con più alta natalità, e in Italia un quinto dei bambini nasce da madre straniera…

Naturalmente stiamo parlando di un Paese, il nostro, mediamente sviluppato, dove i figli non sono considerati un segno di opulenza, né vengono messi al mondo per continuare le proprie tradizioni o mantenere il proprio status sociale. Sono frutto invece del desiderio e della scelta, si fanno sempre più in età adulta proprio perché si aspetta di sentirsi pronti, e per i figli i genitori cercano di costruire opportunità maggiori di quelle che hanno avuto loro. Le donne sono più istruite, si aspettano l’indipendenza economica e di entrare nel mondo del lavoro. Ed è bene che sia così, per la propria sicurezza e per quella dei loro figli.

Al Sud infatti, a causa dell’emigrazione e del conseguente o spopolamento, nascono meno bimbi che al Nord.

            E non era così fino agli anni Ottanta. Oggi al Sud si assiste ad un doppio fenomeno: l’impoverimento demografico dovuto alla fuga dei giovani e il minore arrivo di stranieri.

Secondo lei, in questa situazione, basta un “Family act?”

No, non basta. Ovviamente ci vuole ben altro. Però sarebbe bello che finalmente in questo Paese, invece di continuare ad evocare la famiglia come il toccasana di tutti i mali o cercare di aumentare la fecondità per far risalire la natalità, si cominciasse a fare qualcosa. Bisognerebbe creare condizioni amichevoli per chi, desiderandolo, vuole fare un figlio o un bimbo in più. Ora, non so cosa si intenda inserire in questo «Family act», però credo che la prima cosa da fare sia mettere ordine nel sistema variegato e complicato dei sostegni economici, che si differenziano troppo a seconda di dove si vive, anche a parità salariale, del lavoro svolto o chissà cos’altro. Occorre una razionalizzazione, con un occhio all’equità. Come «Alleanza per l’infanzia» stiamo ragionando su questo tema. Però non basta un voucher per la babysitter, sono importantissimi – ripeto – i servizi. Non tanto per i genitori, ma proprio per i bambini, perché sono uno strumento di pari opportunità, e così devono essere concepiti. Bisognerebbe togliere un po’ di vincoli, non imporre solo obblighi, per dissipare le paure. Solo così può tornare la voglia di fare figli.

Eleonora Martini        il Manifesto    12 febbraio 2020

www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/02/troppa-paura-per-fare-figli-int-c.-saraceno-man.pdf

 

Diventare mamma e papà E sempre più difficile

Le ricerche ci dicono che il desiderio di avere dei figli e costituire una famiglia rimane molto popolare tra i giovani. In Italia, secondo i dati forniti dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo, ancora oggi due ragazzi su tre considerano diventare genitori come una dimensione fondamentale della propria realizzazione. Sappiamo però che le cose vanno in ben altro modo. Secondo i dati appena resi noti dall’Istat, nel 2019 in Italia il numero delle nascite zero è stato pari circa a 435.000, meno della metà rispetto ai nati del 1974 e minimo storico dall’Unità d’Italia. Con un’ulteriore flessione del tasso di fecondità (1,29 figli per donna, fanalino di coda in Europa) e i tanti giovani che lasciano il Paese (in 10 anni abbiamo perso 250.00o giovani), da cinque anni l’Italia segna un bilancio demografico negativo (nel 2019 -1,9‰ residenti). Per molti dei nostri giovani l’aspirazione a diventare padri e madri è destinata a non realizzarsi mai. O almeno a essere rinviata sine die.

Le ragioni culturali — legate all’instabilità delle relazioni affettive — non bastano a spiegare la situazione. L’inverno demografico del nostro Paese rivela un grave ritardo nel capire, prima ancora che nel contrastare, le cause di una difficoltà che non sta solo penalizzando una intera generazione, ma anche compromettendo ogni prospettiva di rilancio. L’Italia si trova così a vivere in modo particolarmente acuto uno dei paradossi delle società contemporanee che, sc non governate, finiscono per negare la stessa facoltà di scelta individuale di cui si riempiono retoricamente la bocca. Infatti, le condizioni nelle quali vivono i nostri giovani — dal punto di vista del lavoro (con salari bassi, precarietà persistente e percorsi di carriera stentati, specie per le donne in con un mercato immobiliare che continua a essere caratterizzato da valori sproporzionati) e dei servizi (con la età fertile), della casa (scarsità e il costo degli asili nido) — sono tali da rendere molto difficile la decisione di formare una famiglia.

Il problema nasce dal fatto che in Italia, più che altrove, ci si ostina a non collocare la questione demografica nella giusta cornice. Che è quella della sostenibilità integrale, per la quale l’elemento intergenerazionale è essenziale. Il confronto internazionale (in primis con la Francia, dove una politica lungimirante ha riportalo il tasso di fertilità a 2,01 bambini per donna) mostra chiaramente che solo un’azione mirata e prolungata permette di affrontare la questione. Se si vuole restituire ai nostri giovani la possibilità di scegliere di costruire una famiglia occorre dunque mettere in campo una strategia complessiva. Non singole misure spot come si è fatto negli ultimi decenni. Per questo, prima ancora di mettersi a elencare i vari interventi possibili, occorre superare la contesa ideologica (famiglia sì, famiglia no) che ha occupato il dibattito pubblico nel nostro Paese e convenire finalmente su una visione positiva e realista.

  1. In primo luogo, mettere al mondo, accudire e educare i figli non è semplicemente un atto privato, che riguarda chi decide di darlo, ma è una decisione che ha rilievo di interesse generale. Un contributo allo sviluppo della società italiana nella prospettiva della sostenibilità integrale di lungo periodo.
  2. In secondo luogo, in una società avanzata esistono tanti tipi di famiglia, più o meno stabili. Sappiamo anche, però, che il lavoro di cura è un lavoro difficile che si estende su almeno due decenni. Per quanto oggi un tale compito non possa più essere fatto ricadere solo sulla famiglia -che spesso non è nella condizione di poterlo fare – rimane il fatto che il suo svolgimento sia più facile (e meno costoso) se si è in due: è nell’interesse sociale che il nucleo familiare abbia una certa stabilità.
  3. In terzo luogo, è in atto nella vita sociale una lenta ma profonda rinegoziazione dei rapporti di genere. Su tanti piani diversi. Da qualunque parte la si voglia prendere, al cuore c’è la questione femminile. Tanto più se si tiene conto che il livello di studio delle ragazze è oggi superiore a quello dei ragazzi. Se non si affronta e si risolve — dentro e fuori la famiglia (a cominciare dall’ambito lavorativo) — la questione femminile, non sarà possibile nessun rilancio. Né economico né demografico.
  4. In quarto luogo, la famiglia non è una cellula autosufficiente. Non lo è mai stata e lo è ancora meno oggi. II suo nucleo più intimo può esistere e funzionare solo dentro un ecosistema. E poiché il contesto tradizionale (fatto di reti parentali e di vicinato) non esiste più, ne va costruito uno nuovo. Vale qui il vecchio detto africano «per crescere un bambino ci vuole un villaggio». Cioè una comunità. Che oggi va ricostituita tessendo una rete di spazi, contesti, servizi. Quando questo non accade, si arriva al paradosso che il mettere al mondo figli diventa un privilegio di chi sta bene.

Infine, va riconosciuto e premiato il ruolo educativo della famiglia. Tutto ciò che i genitori spendono per far sviluppare le doti e le capacità dei propri figli — in ambito scolastico, professionale, artistico, sportivo e così via — va considerato come un investimento che ha nel formare persone e cittadini migliori il suo ritorno sociale.

Mauro Magatti, sociologo ed economista       Corriere della sera     12 febbraio 2020

www.c3dem.it/wp-content/uploads/2020/02/diventare-mamma-e-pap%C3%A0-%C3%A8-sempre-pi%C3%B9-difficile-m.-magatti.pdf

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DIVORZIO

Accordo raggiunto con negoziazione assistita: fondamentale la tutela dell’interesse del minore

Il Pubblico Ministero, con apposito provvedimento, non autorizzava l’accordo di cessazione degli effetti civili dell’unione matrimoniale tra due coniugi, raggiunto a seguito di negoziazione assistita, rilevando che l’affidamento della loro figlia in via esclusiva alla madre era contrario all’interesse stesso della minore «non essendo state indicate le ragioni di potenziale pregiudizio poste a fondamento di una scelta  pacificamente contraria ai principi consolidati in ordine all’affidamento dei minori  ispirati  alla bigenitorialità».

Convocati dal Presidente del Tribunale di Milano, ai sensi dell’art. 6, L. 162/ 10 novembre 2014, i genitori hanno fatto proprio il suddetto suggerimento del P.M., prevedendo per la minore un affido condiviso con prevalenza e residenza anagrafica presso la madre e confermando le frequentazioni con il padre e l’onere di quest’ultimo alla contribuzione al mantenimento della figlia.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legge:2014-09-12;132

L’autorizzazione da parte del Tribunale. Così modificato, individua il Tribunale, che l’accordo di divorzio a seguito di negoziazione assistita risponda perfettamente agli interessi della minore. Pertanto, ritenuto che il Presidente del Tribunale possa comunque dare l’autorizzazione negata dal P.M. (in quanto si giunge ad un accordo rispondente all’interesse della minore), o ancora, ritenuto che lo stesso Giudice, una volta fissata l’udienza e raccolta la volontà dei genitori di aderire ai rilievi effettuati dal P.M., possa procedere a tale autorizzazione senza necessariamente operare una “conversione” del rito in separazione consensuale o in divorzio congiunto ovvero in revisione delle condizioni di separazione o di divorzio, a tal proposito autorizza, in questa sede, l’accordo di cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito di negoziazione assistita, come appunto modificato dai genitori dopo l’accordo raggiunto in udienza in relazione all’affidamento congiunto della loro figlia minore con permanenza prevalente e residenza anagrafica presso la madre.

Redazione scientifica                         Il familiarista 19 febbraio 2020

http://ilfamiliarista.it/articoli/news/accordo-di-divorzio-raggiunto-con-negoziazione-assistita-fondamentale-la-tutela-dell?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_19_Febbraio_2020

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DONNE NELLA CHIESA

I ministeri femminili nella storia

Secondo le anticipazioni del quotidiano francese «Le Figaro» del 13 gennaio 2010, nel libro del card. Robert Sarah Des profondeurs de nos coeurs, la continenza sessuale da funzionale (al ministero dei preti) diventerebbe ontologica, per cui il celibato è necessario, anzi indispensabile. Sempre nel medesimo numero del giornale parigino c’è un’intervista al cardinale dal titolo «Preti, siate fieri del vostro celibato», il tutto pensato come un grido d’amore per il Papa, i preti e tutti i cristiani nella crisi sconvolgente (saisissante) che sta attraversando la Chiesa.

Portare in giro la moglie. Con questa politica (che scambia l’ideologia per amore) la gerarchia ecclesiastica cerca di proteggere l’attuale forma di servizio presbiterale a scapito del diritto dei fedeli di accedere all’Eucaristia, soprattutto nelle zone costrette a privarsene per mesi se non anni (È così che si amano i cristiani sparsi nelle regioni più impervie?). L’oggetto del contendere è proprio la concezione sacrale dell’Eucarestia (e dei ministeri): essa da una parte richiede obbligatoriamente un ministro ordinato maschio (e celibe) e dall’altra la rifiuta ai divorziati risposati.

            Nel testo del cardinale si trova la seguente tesi: «Lo stato coniugale riguarda l’uomo nella sua totalità; e dato che servire il Signore richiede tutte le risorse di una persona, non sembra possibile che le due vocazioni si realizzino contemporaneamente». L’affermazione sembra provenire dallo scritto di Ratzinger [inserito all’interno del libro] che si richiama al «Non posso tacere» di S. Agostino, cosa che invece dovrebbe fare da Papa emerito.

 Il cardinale, prefetto della congregazione per il culto divino e i sacramenti, che ha ottenuto la licenza in teologia alla Gregoriana, ma anche quella in S. Scrittura presso lo Studium francescano di Gerusalemme, dovrebbe conoscere 1ª Corinti 9,5 in cui Paolo scrive: «Non abbiamo forse noi [io e Barnaba] il diritto di portare in giro una sorella (di fede) come moglie, allo stesso modo degli altri apostoli, dei fratelli del Signore (Mt 13,55; Mc 6,3) e di Cefa?» Pietro, gli apostoli e Giacomo, il fratello [carnale] del Signore (Galati 1,19), non hanno forse servito il Signore? I vescovi sposati di cui si parla nella 1ª Timoteo 3,1-7 non hanno servito il Signore? Gli attuali preti sposati della chiesa cattolica di rito greco-orientale (alcuni ancora presenti nel nostro Meridione) non stanno servendo il Signore?

Leta e Flavia: donne celebranti. Per quanto poi concerne i ministeri femminili, secondo lo storico e accademico del cristianesimo Giorgio Otranto sul finire del V secolo in una vasta area dell’Italia meridionale e della Dalmazia, c’erano donne che esercitavano un vero e proprio “sacerdozio” (termine classico che tuttavia andrebbe evitato) ministeriale. Infatti Papa Gelasio nel 494 d.C. indirizza una lunga lettera a tutti gli episcopi della Lucania, Calabria e Sicilia, infuriato per il fatto che proprio col mandato (e forse con l’imposizione delle mani) dei vescovi «le donne venivano ammesse ad “amministrare ai sacri altari” [feminæ sacris altaribus ministrare], e compivano tutte (cuncta) le funzioni che erano state assegnate solamente al ministero degli uomini e non competono al sesso femminile». Anche le epigrafi attestano l’esistenza del presbiterato femminile in Calabria tra la metà e la fine del V secolo, come la Leta presbytera di Tropea (che non è la moglie del prete); ma c’è pure una Flavia Vitalia presbytera nella città dalmata di Salona, ove sul coperchio di un sarcofago compare anche il termine sacerdotæ (neologismo inequivocabilmente femminile, inesistente nel latino classico).

Attone (vescovo di Vercelli tra il IX e X secolo), esperto canonista e raccoglitore di disposizioni conciliari in materia di organizzazione ecclesiastica, vita sacramentale ed espressione liturgica, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate (ad adjumentum virorum etiam religiosæ mulieres in sancta Ecclesia «cultrices» ordinabantur; Ep. 8, PL 134,114) ed erano a capo delle comunità (etiam feminæ præerant ecclesiis); erano chiamate presbitere (presbyteræ) ed avevano il compito di predicare, comandare e insegnare a fondo (prædicandi, jubendi vel edocendi…officium sumpserant). Ricordiamo che i nomi terminanti in trix, come il suddetto cultrix nel pl. cultrices, sono nomina agentis, ossia indicano un’azione, nel nostro caso il fare culto [quindi donne celebranti?].

            Tutto questo significa che la posizione assunta al riguardo dalla chiesa antica (non dalla sola gerarchia) non può configurarsi come una tradizione monolitica, ma piuttosto come una questione vivamente dibattuta, e diversamente risolta almeno nel primo mezzo millennio cristiano, per poi essere definitivamente “stroncata” a partire dalla monarchia assoluta papale. I conservatori insistono sul fatto che Gesù avrebbe selezionato solo 12 maschi, per cui tale scelta sarebbe irreformabile, col solito refrain: «non ci possiamo fare niente, perché proviene dalla volontà di Nostro Signore [è l’Ècriture comme Parole de Dieu (ivi nelle anticipazioni)]». Ma noi sosteniamo che il NT dice proprio il contrario [le défaut méthodologique (ivi) è loro, non nostro], a prescindere dalle (o semmai contro le) condizioni socio-culturali della donna in quel tempo.

Giunia: un’apostola insigne. Solo Luca restringe il titolo di apostolo ai 12, conosciuti a livello catechistico nella dizione classica dei 12 apostoli. Ma gli apostoli sono più dei 12, come ad es. Paolo e Barnaba, chiamati tali da Luca stesso nell’unica sua eccezione esterna ai 12 in Atti 14,4.14 (a Iconio nell’Anatolia, dopo che erano stati cacciati via dalla Cappadocia). Si è apostoli (inviati) per un dono del Gesù risorto, con l’incarico personale e permanente di predicare ed edificare la Chiesa. L’apostolo è mandato dall’alto, per volontà e “diritto divino” (secondo una classica espressione cara ai conservatori).

            Orbene, nel finale della lettera ai Romani (16,1-16) non c’è solo la diaconessa Febe (quella che di solito viene ricordata) ma tutta una serie di saluti a donne e coppie di sposi: salutate Trifena, Trifosa e Perside che si affaticano nel Signore, che hanno lavorato per Lui servendolo (non erano mica tutte nubili). Salutate Prisca e Aquila, una coppia nominata ben sei volte nel NT (non hanno servito il Signore?), in una delle quali (Atti 18,2) si dice esplicitamente che erano marito e moglie. Veniamo ora al pezzo forte (Rom 16,7): «Salutate Andronico e Giunia [una coppia come Prisca e Aquila; Giunian, in accusativo, non è un maschio, come invece l’ha voluto far passare una tendenziosa storiografia cattolica]….sono degli apostoli insigni che erano in Cristo anche prima di me». Più precisamente «sono esimi fra gli apostoli», che spiccano come tali nel senso forte di Paolo, il quale non si riferisce al loro pur indubbio “apostolato” (nella dizione generica attuale) a Roma. Giunia è un’apostola insigne come Barnaba: gli apostoli non furono tutti maschi, poiché ci sono state apostole (dall’alto) per volontà divina; sono perciò i tradizionalisti che vanno contro il diritto divino, anziché assecondarlo. Se è così, chi siamo noi per interdire loro il presbiterato (che è un di meno rispetto all’essere apostoli)? Di diritto umano-ecclesiastico, e quindi riformabile, sono i preti solo maschi.

Mauro Pedrazzoli   Il foglio (Torino) n. 469   febbraio 2020

http://www.ilfoglio.info/default.asp?id=5&ACT=5&content=823&mnu=5

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DOVERI E DIRITTI DEI BAMBINI

I doveri dei figli nei confronti dei genitori.

Essere bravi genitori non è facile. Tuttavia, al giorno d’oggi, è indispensabile educare il bambino ad assumersi le proprie responsabilità. Solo in questo modo, il figlio sviluppa le proprie capacità ed inclinazioni naturali nel rispetto degli altri e di ciò che lo circonda. Si parla spesso dei diritti, ma quali sono i doveri del bambino? Si pensi, ad esempio, al dovere di rispettare i genitori. È importante quindi insegnare al figlio l’importanza dei diritti, ma soprattutto dei doveri per permettergli di avere una crescita equilibrata.

La riforma della filiazione. Prima di capire quali sono i doveri del bambino, è importante soffermarci brevemente sulla riforma della filiazione che ha equiparato i figli garantendo loro pari tutela. Oggi, infatti, tutti i figli sono uguali, indipendentemente dal fatto che possano essere nati da genitori sposati oppure da genitori conviventi. In altre parole, non esiste più la distinzione tra figli legittimi e figli naturali. Al fine di tutelare il bambino, quindi, la riforma ha delineato i diritti e i doveri connessi allo loro status.

La responsabilità genitoriale. Quando nasce un figlio, entrambi i genitori concorrono al suo mantenimento, alla sua educazione, alla sua istruzione e così via. Questo complesso di doveri è ciò che, nel linguaggio giuridico, è noto con il termine di responsabilità genitoriale. Tale responsabilità (che ha sostituito la potestà genitoriale) sussiste per il semplice fatto che i genitori abbiano generato il figlio e si esaurisce nel momento in cui il figlio, divenuto maggiorenne, abbia raggiunto l’autosufficienza economica.

            La responsabilità genitoriale viene esercitata dal padre e dalla madre di comune accordo e non viene meno neppure in caso di separazione o divorzio dei genitori. L’unica eccezione è rappresentata dal fatto che se, ad esempio, uno dei due genitori è costretto a trasferirsi temporaneamente all’estero per lavoro, la responsabilità genitoriale sarà esercitata dall’altro genitore in modo esclusivo. Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale, però, deve comunque vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio.

            In caso di disaccordo sul percorso educativo del figlio, ciascun genitore può chiedere un parere al giudice, che si pronuncerà anche dopo aver ascoltato il minore (che ha compiuto 12 anni).

Quali sono i doveri del bambino. Al bambino spettano non solo diritti ma anche doveri. In particolare, si parla del dovere di:

  • Rispettare i genitori;
  • Convivere con i genitori oppure con il genitore che esercita la responsabilità genitoriale. Il figlio minore, quindi, non può abbandonare la casa dei genitori e, se dovesse farlo, i genitori potrebbero rivolgersi al giudice tutelare;
  • Contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia con la quale convive. È chiaro che il figlio è tenuto a questo dovere nel momento in cui raggiunge l’età necessaria per trovarsi un lavoro. Se, ad esempio, il figlio ormai maggiorenne convive con i genitori e ha un lavoro stabile, avrà il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia. In casi eccezionali, il figlio può anche essere obbligato a versare gli alimenti (cioè vitto e alloggio) nei confronti dei propri genitori. Tale situazione, tuttavia, scatta esclusivamente nel caso in cui il genitore non sia in grado di procurarsi il proprio sostentamento;
  • Prendersi cura dei genitori incapaci di intendere e di volere. In caso di abbandono, il figlio può essere chiamato a rispondere penalmente;
  • Andare a scuola ed essere responsabile dei propri studi.

Quali sono i diritti del bambino. I diritti che il bambino acquista fin dal momento della nascita sono quelli relativi:

  • Al mantenimento: questo diritto non si limita a quanto è necessario per la crescita e la formazione del bambino, ma deve garantirgli anche un tenero di vita adeguato alle esigenze della famiglia. I genitori, infatti, devono provvedere al mantenimento del figlio in base alle proprie sostanze e alle rispettive capacità di lavoro professionale e casalingo;
  • All’assistenza morale (noto anche come diritto all’amore) nel senso che i genitori devono essere capaci di prendersi cura del bambino e di crescerlo con amore, di sostenerlo, di spronarlo e così via;
  • All’educazione e all’istruzione secondo le proprie capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni. Questo vuol dire che i genitori devono consentire al minore di poter frequentare la scuola e l’università una volta raggiunta la maggiore età;
  • A crescere nella propria famiglia e a mantenere rapporti significativi con i parenti. Ad esempio, il bambino ha diritto di vedere i nonni anche se ci sono problemi familiari;
  • All’ascolto: il bambino di dodici anni, o se di età inferiore purché capace di discernimento, ha diritto ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano;
  • All’eredità nei confronti dei genitori senza alcuna distinzione con gli altri figli. Ci sono delle quote prestabilite, anche in assenza di testamento, che vengono divise in maniera proporzionale in presenza di altri fratelli e del genitore superstite;
  • Alla bigenitorialità, ovvero il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori. Tale diritto permane anche dopo la separazione o il divorzio;
  • Alla religione da osservare, anche qualora i genitori siano in disaccordo;
  • Ad accedere alle informazioni che riguardano l’identità e l’origine della famiglia biologica (per i figli adottivi);
  • Alla possibilità di agire in giudizio per ottenere il riconoscimento o il disconoscimento della paternità;
  • Alla possibilità di agire in giudizio per esperire l’azione di reclamo o di contestazione dello stato di figlio. In entrambi i casi le azioni sono dirette rispettivamente a chiedere il riconoscimento dello status di figlio oppure a contestarlo;
  • A pretendere il mantenimento da parte dei genitori, nel momento in cui non fosse in grado di provvedere da solo e non per colpa sua. Si pensi, ad esempio, allo studente universitario fuori sede oppure al figlio che non riesce ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Redazione La legge per tutti              21 febbraio 2020

www.laleggepertutti.it/369718_quali-sono-i-doveri-di-un-bambino

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ENTI TERZO SETTORE

Riforma terzo settore, ecco le priorità del ministero

Il direttore generale Lombardi all’incontro di Capacit’Azione a Roma anticipa la pubblicazione dei nuovi modelli di schema di bilancio e illustra i tempi del registro unico nazionale. E auspica che si incentivino le forme di collaborazione con gli enti pubblici. “Volontario incompatibile con lo status di lavoratore”

Una riforma costruita insieme con le Regioni e la rappresentanza del terzo settore per parlare con un’unica voce. Così Alessandro Lombardi, direttore terzo settore e responsabilità sociale delle imprese del ministero del Lavoro e politiche Sociali ha riassunto il percorso culturale della nuova legislazione sul terzo settore, in occasione dell’incontro “Al centro del volontariato” svoltosi ieri a Roma. Davanti a una platea di centinaia di persone tra volontari, operatori del terzo settore e della pubblica amministrazione, Lombardi ha anche fatto il punto sulla riforma anticipando alcuni dei pezzi fondamentali per completare il quadro normativo.

Dopo la pubblicazione delle linee guida sul bilancio sociale, quelle sull’impatto sociale e il decreto sulle erogazioni liberali in natura, il Consiglio nazionale del terzo settore dello scorso gennaio ha approvato i modelli di schema di bilancio per gli enti che, dopo le dovute verifiche, saranno presto in Gazzetta ufficiale. Lombardi ha anche annunciato che è in fase avanzata il decreto sul social bonus su cui bisognerà avviare un percorso insieme ai ministeri dei Beni culturali e dell’Economia, per poi passare anche al Consiglio di Stato. Sarà aperto a breve, inoltre, il dialogo sulle linee guida sulla raccolta fondi.

Ma soprattutto Lombardi ha spiegato lo stato di avanzamento di uno dei decreti più attesi, quello che definisce il funzionamento del registro unico nazionale, su cui è avviato dallo scorso ottobre un confronto con le Regioni, la rappresentanza del terzo settore e gli ordini professionali. Un processo che “ha portato a un testo che oggi ha un sufficiente livello di completamento e che contiamo di chiudere nelle prossime settimane”. Il decreto dovrà passare dalla Conferenza Stato-Regioni prima di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale e, dopo questa fase, Unioncamere avrà 6 mesi per la messa a punto della piattaforma informatica. A partire dalla data di operatività, ci sarà il popolamento iniziale con il passaggio di organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale dai rispettivi registri attuali. Gli uffici nazionali e locali eseguiranno poi i controlli sugli statuti, assegnando dove si ravvisi un termine di 60 giorni entro cui gli enti avranno possibilità di fare integrazioni e modifiche. Per le Onlus è in cantiere un percorso diverso ma ancora non definito.

            Altro tema cruciale nel discorso di Lombardi è quello del rapporto tra impegno sociale e pubblica amministrazione. “La vera qualificazione degli Enti del terzo settore è nell’oggetto sociale: svolgere attività di interesse generale li mette in una condizione di equiordinazione (parità, ndr) rispetto alle istituzioni. Questo trova piena applicazione in strumenti come la co-programmazione e la co-progettazione e rende tutti più responsabili”.

            E per superare le difficoltà di dialogo istituzionale sull’art. 55 del Codice del terzo settore, Lombardi ha annunciato la costituzione di un tavolo di lavoro con i rappresentanti delle Regione, dell’Anci e del Forum terzo settore per definire una posizione comune in merito. Sempre alla pubblica amministrazione, Lombardi chiede uno sforzo in più in termini di formazione e competenze. “Sarà necessario, quindi, adeguare i profili professionali alla riforma per avere funzionari in grado di implementare la riforma e cogliere i bisogni dei territori”. Un ultimo passaggio è sul volontariato, tema molto caro alla direzione generale del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. “Nelle risposta ai quesiti che ci arrivano, manteniamo il presidio dell’incompatibilità del volontario con lo status di lavoratore nell’organizzazione e ne abbiamo tenuto conto sia nelle indicazioni sul bilancio sociale e in modo facoltativo negli schemi di modelli di bilancio”.

            L’evento in cui è intervenuto il direttore generale è il modulo dedicato ai centri di servizio per il volontariato del progetto Capacit’Azione, promosso dal Forum Terzo settore Lazio in collaborazione con CSVnet, Forum Nazionale del Terzo Settore con i fondi del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. L’obiettivo è di formare 1.380 esperti sulla riforma del terzo settore che diventeranno a loro volta formatori degli Enti coinvolti in questo processo normativo.

            “Per la prima volta le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale e la cooperazione del Lazio si trovano nella stessa stanza, insieme così come definito dalla riforma del terzo settore, toccando i numeri più alti di partecipazione in Italia al progetto – spiega Francesca Danese, portavoce del Forum Terzo Settore Lazio e responsabile di Capacit’Azione. Stiamo dimostrando che non si passa più sulla nostra testa e che siamo dovunque, in ogni ambito, dal welfare, alla cultura, all’ambiente, mantenendo un rapporto dialettico con la pubblica amministrazione, forti di nuovi strumenti legislativi come la co-programmazione e co-progettazione. Dobbiamo continuare a pretendere spazi fisici e di partecipazione, così come indicato dalla legge”.

            “La riforma rafforza la presenza dei centri di servizio per il volontariato – spiega Stefano Tabò, presidente di CSVnet – e li norma in modo importante perché la nostra è una funzione pubblica. Non è un’azione quantitativa, ma qualitativa perché l’indicazione normativa è di promuovere la presenza e il ruolo dei volontari nel nostro paese. Questo compito si riallaccia alle indicazioni della Costituzione stessa, alla luce anche dell’articolo 19 del Codice del terzo settore per cui la pubblica amministrazione deve promuovere la cultura del volontariato. Questo ci dice come deve essere la nostra società. É una responsabilità collettiva in cui i Csv hanno una funzione importante”.

Lara Esposito                         21 febbraio 2020

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3542-riforma-terzo-settore-ecco-le-priorita-del-ministero?Itemid=893

 

Associazioni e partita iva: quando è davvero necessaria?

È prevista solo nei casi in cui le entrate siano fiscalmente rilevanti, escludendo quelle istituzionali e le quote associative. Molto spesso basta il codice fiscale ma è obbligatoria per chi ha rapporti con la pubblica amministrazione o svolga attività commerciali. Ecco tutti i casi in cui sono previsti regimi agevolati

            Aprire la partita iva è un passo importante per un’associazione. Non tutte però, hanno la necessità di farlo in quanto spesso le entrate che percepiscono non sono fiscalmente rilevanti. Come si legge in un articolo del Cantiere terzo settore, non è chiamata a richiederne l’apertura l’associazione che si limiti a percepire:

Entrate istituzionali, intendendo tali quote e contributi associativi così come erogazioni liberali,

    I corrispettivi specifici versati dai soci per partecipare ad attività inerenti ai fini istituzionali dell’organizzazione (es: l’iscrizione ad un corso di scrittura creativa o ad una manifestazione sportiva). Queste entrate, infatti, non concorrono alla formazione del reddito imponibile (ex art. 148, terzo comma e seguenti del Testo Unico delle imposte sui redditi) e non sono da assoggettare ad Iva (ex art. 4 del DPR IVA). Tale agevolazione è concessa esclusivamente alle tipologie associative elencate dall’art. 148, terzo comma, del Testo Unico delle imposte sui redditi (Tuir), come le associazioni culturali, politiche, sportive dilettantistiche o di promozione sociale, e a condizione che l’associazione rispetti, statutariamente e nella sua gestione, i vincoli dell’assenza di scopo di lucro, trasparenza gestionale e democraticità associativa. Alle associazioni che abbiano assunto la qualifica di organizzazioni di volontariato e di Onlus è oggi riservato uno speciale e diverso trattamento fiscale (rispettivamente definito dalla Legge 266/1991 e dal Dlgs 460/1997 ancora in vigore). Nel caso in cui l’associazione percepisca esclusivamente le tipologie di entrate sopra menzionate, la stessa potrà essere titolare del solo codice fiscale con cui è possibile stipulare contratti così come instaurare rapporti di lavoro con i propri collaboratori ed assolvere gli adempimenti di natura fiscale e previdenziale a cui sono tenute le associazioni anche se titolari di solo codice fiscale.

            Nel momento in cui l’associazione intende, invece, percepire introiti di natura diversa perché vuole svolgere attività a pagamento dirette a terzi, ivi inclusa la pubblica amministrazione, o perché vuole svolgere attività intrinsecamente commerciali (come una sponsorizzazione o l’attività di ristorazione o la cessione di beni nuovi), si apre la necessità di aprire la partita iva. Astrattamente l’associazione potrebbe non aprire la partita iva nel caso in cui l’attività di natura commerciale sia occasionale e non implichi una organizzazione complessa: in questo caso andrà sempre a generare un reddito (c.d. reddito diverso) da assoggettare a tassazione per cui si rende opportuno valutare se sia invece fiscalmente più opportuno aprire la partita iva in regime forfettario.

            Regimi agevolati per associazioni sportivo dilettantistiche e per le associazioni senza scopo di lucro. Le associazioni senza scopo di lucro possono infatti optare per un regime fortemente agevolato: si tratta del regime di cui alla Legge 398/1991 che garantisce a chi non supera i 400.000 euro di entrate commerciali di liquidare le imposte in misura forfettaria (le imposte dirette ammontano circa all’1% dei ricavi commerciali mentre viene liquidato il 50% dell’iva introitata, salva la maggiore aliquota per la cessione dei diritti radio-televisivi) e di accedere a semplificazioni contabili.

Con l’entrata in vigore del Titolo X del Codice del Terzo settore (Cts) questo regime tornerà ad essere riservato alle associazioni sportive dilettantistiche che valuteranno di non qualificarsi come enti del terzo settore. Le associazioni di promozione sociale e le organizzazioni di volontariato potranno accedere ad un analogo regime agevolato (art. 86 Cts) qualora i ricavi commerciali non superino i 130.000 euro mentre negli altri casi potranno optare, come la generalità degli enti del terzo settore non commerciali, per un regime forfettario ai soli fini delle imposte dirette, dovendo quindi liquidare l’Iva in regime Iva da Iva (art. 80 Cts).

Decommercializzazione delle quote solo per chi è fuori dal terzo settore. Con l’entrata in vigore della parte fiscale del codice del terzo settore cambieranno inoltre le valutazioni rispetto alla decommercializzazione dei corrispettivi specifici versati dai soci. Ad essa potranno infatti accedere esclusivamente le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali e sportive dilettantistiche che non si qualificano come enti del terzo settore, potendo applicare l’art. 148 del Tuir, nonché le associazioni di promozione sociale che potranno viceversa ricorrere all’art. 85 del Cts (sugli effetti della riforma sulle associazioni culturali si rinvia ad un precedente contributo).

            Per concludere un consiglio pratico: non richiedere l’apertura della partita iva se non si ha in programma di emettere fattura. Una volta aperta, l’associazione è chiamata a trasmettere la dichiarazione dei redditi anche se non ha emesso fatture con un conseguente inutile costo gestionale.

Francesca Colecchia – Arsea srl – Cantiere terzo settore       19 febbraio 2020

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GOVERNO

Il ministro Bonetti: «Family Act in fase di rifinitura»

La titolare della Famiglia intervenuta al Question time a Montecitorio. «Donne non devono essere costrette a scegliere tra l’essere madri e la professione»

La denatalità e la conciliazione vita – lavoro al centro dell’intervento di ieri pomeriggio, 19 febbraio 2020, del ministro per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti al Question time nell’aula di Montecitorio. «Le donne non devono essere costrette a scegliere tra l’essere madri e la carriera professionale», ha affermato. Quindi, rispondendo a un’interrogazione relativa al disegno di legge collegato alla legge di bilancio 2020 in materia di sostegno e valorizzazione della famiglia e di contrasto al fenomeno della denatalità, ha aggiunto che «certamente sono dati preoccupanti quelli che l’Istat ha certificato e che ci impegnano a dare risposte pronte ed efficaci a una situazione che da troppo tempo segna il nostro Paese: il calo delle nascite e un basso tasso di fecondità».

Per Bonetti, «si tratta di un problema multidimensionale che necessita di attivare processi multidimensionali, attraverso azioni integrate e coordinate». Un «cambio di passo», insomma, «necessario per un Paese che deve rimettersi in cammino e a cui dobbiamo restituire innanzitutto fiducia e speranza, su cui fondare la libertà di compiere scelte per il futuro, tra cui quella della genitorialità». A questo proposito, parlando del “Family Act” il ministro lo ha definito «una proposta integrata» che «in questi giorni è oggetto di rifinitura con il presidente Conte e gli altri ministri interessati e tutte le forze della maggioranza. La legge delega del “Family Act” – ha proseguito – prevede più capitoli: assegno universale per i figli, sostegno all’educazione, nuove norme per i congedi parentali, incentivi al lavoro femminile e sostegno all’autonomia giovanile».

Venendo nel merito della proposta, Bonetti si è soffermata sull’«assegno per ogni figlio fino ai 18 anni composto da una parte fissa universale e una variabile legata all’Isee della famiglia». Le risorse, ha chiarito, «si dovranno trovare nella riorganizzazione delle misure esistenti aggiungendole al fondo di oltre 2 miliardi già introdotto in legge di bilancio e alle nuove risorse che potranno essere trovate in fase di attuazione delle deleghe». Ancora, «con il “Family Act” si intende valorizzare l’educazione, anche quella non formale, tramite apposite misure di rimborso, defiscalizzazione delle spese con finalità educative sostenute dalle famiglie». In cantiere anche l’incentivazione del lavoro femminile nonché «l’armonizzazione dei tempi di vita, compreso quello del lavoro». Si pensa ad esempio all’«introduzione di un’indennità integrativa per il rientro al lavoro» e al ricorso a smart working e ad altre forme di flessibilità oraria.

Nelle parole del ministro, «un’adeguata normativa sui congedi parentali è fondamentale per affermare un principio di corresponsabilità tra padre e madre nella cura dei figli, promuovendo un processo culturale ormai indispensabile». Da ultimo, anche un accenno alla «promozione di percorsi di supporto all’autonomia e al protagonismo dei giovani, incentivandone il conseguimento dell’autonomia finanziaria e abitativa, la formazione e l’ingresso nella vita attiva».

Redazione online        Roma sette      20 febbraio 2020

www.romasette.it/il-ministro-bonetti-family-act-in-fase-di-rifinitura

 

Legge di bilancio per il 2020: le novità importanti per le famiglie

Il Parlamento ha approvato la legge di bilancio per l’anno 2020: i nuovi interventi per le famiglie.

  1. L’Assegno di natalità (Bonus bebè) per i figli nati o adottati nel 2020 potrà essere richiesto da tutte le famiglie, e avrà importi più alti. L’Assegno di natalità, conosciuto anche con il nome “Bonus bebè”, è il contributo economico che lo Stato offre alle famiglie che hanno o adottano un figlio.

Per i figli nati o adottati dal 1° gennaio al 31 dicembre 2020, lo Stato offre un contributo economico a tutte le famiglie, anche con un Isee superiore a € 25.000 (limite in vigore negli anni precedenti). Il contributo può essere richiesto all’Inps, che lo versa per un massimo di 12 mesi, secondo tre fasce Isee:

(…).     In caso di figlio successivo al primo, nato o adottato tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2020, l’importo dell’assegno è aumentato del 20%. Per saperne di più, si rimanda alla circolare sul sito dell’Inps.

www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=%2fCircolari%2fCircolare%20numero%2026%20del%2014-02-2020.htm

  1. Il Bonus asilo nido e per forme di assistenza domiciliare avrà importi più alti, fino a € 3 000 all’anno. Il Bonus asilo nido è il contributo economico che lo Stato offre alle famiglie che hanno un figlio, fra gli 0 e i 3 anni, che:
  • frequenta un asilo nido pubblico o privato;
  • necessita di assistenza domiciliare perché affetto da gravi patologie croniche.

Il contributo, in forma di rimborso per il pagamento delle rette, può essere richiesto all’Inps, che lo versa secondo tre fasce Isee: (…).            Per saperne di più, si rimanda alla circolare sul sito dell’Inps.

www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=%2fCircolari%2fCircolare%20numero%2027%20del%2014-02-2020.htm

  1. Anche per il 2020 sarà possibile chiedere il Premio alla nascita e all’adozione (Bonus mamma domani). Il Premio alla nascita e all’adozione, conosciuto anche con il nome “Bonus mamma domani”, è il contributo economico che lo Stato offre alle famiglie che hanno o adottano un figlio.

Per i figli nati o adottati tra il 1° gennaio al 31 dicembre 2020, il contributo è di € 800, indipendentemente dal reddito familiare. Il contributo può essere richiesto all’Inps dalla futura madre, dal 7° mese di gravidanza o entro un anno dalla nascita, adozione o affidamento preadottivo del figlio.

www.inps.it/search122/ricercaTema.aspx?sTrova=bonus%20mamma%20domani&sCategoria=&sDate=

  1. Il congedo di paternità, per i padri lavoratori dipendenti privati, aumenta da 5 a 7 giorni. Il congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente privato è aumentato da 5 giorni a 7 per l’anno 2020. Inoltre, il padre potrà fruire di un giorno di congedo facoltativo in alternativa alla madre.
  2. Nuovi finanziamenti statali per la messa in sicurezza, la ristrutturazione, riqualificazione e costruzione di asili nido, scuole dell’infanzia e centri polifunzionali per i servizi alla famiglia. Lo Stato garantisce un fondo fino a 100 milioni di euro annui dal 2021 al 2023, e di 200 milioni di euro annui dal 2024 al 2034, per il finanziamento di interventi relativi a opere pubbliche di messa in sicurezza, ristrutturazione, riqualificazione o costruzione di edifici di proprietà dei comuni destinati ad asili nido, scuole dell’infanzia e centri polifunzionali per i servizi alla famiglia.
  3. Viene creato il “Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”. Il nuovo Fondo prevede risorse pari a € 1 044 milioni per il 2021 e € 1 244 milioni annui dal 2022. Queste risorse potranno essere utilizzate per finanziare interventi di sostegno e valorizzazione della famiglia, il riordino e la sistematizzazione delle politiche di sostegno alle famiglie con figli.
  4. Più risorse per le adozioni internazionali.  Vengono aumentati di 500 mila euro annui, dal 2020, le risorse del Fondo per le adozioni internazionali, per sostenere le politiche sulle adozioni internazionali e il funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali

http://famiglia.governo.it/it/notizie/legge-di-bilancio-per-il-2020-le-novita-importanti-per-le-famiglie

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OMOFILIA

Vivere nel nascondimento. Il silenzio dei preti gay nell’era del matrimonio omosessuale

Oggi la Chiesa (cattolica) vuole controllare il “nascondimento” […] che era un modo con cui gli uomini gay potevano vivere tranquilli nell’ombra, una maniera di costruire un mondo tutto per loro in un mondo in cui non avevano diritto di esistere, e uno di questi mondi era ovviamente il sacerdozio! È un mondo quasi istituzionalizzato, dove ci si può nascondere e trovare le proprie soddisfazioni, fino a quel tanto che il sistema permette. E non esistono altre istituzioni o imprese, all’interno della società civile europea, che hanno giocato un tale ruolo all’infuori della Chiesa Cattolica […] e tutto questo ha funzionato fino alla rivoluzione sessuale, anzi veniva giustificato alla luce degli sviluppi della scienza e della sempre maggiore consapevolezza.

            Si può anzi dire che la Chiesa, fino a un certo punto, i gay li ha protetti! La Chiesa ti offriva lo spazio per vivere tranquillo e ti proteggeva da una società che non era in grado di capirti, e ti fraintendeva… OK, ma tutto questo è cambiato con la rivoluzione sessuale, con la nascita del movimento per i diritti gay, e oggi non è più come allora. Per me oggi la Chiesa non permette più un autentico sviluppo della persona, ma solo un simulacro di sviluppo. Voglio dire, i preti mi hanno detto che potevo continuare così, a vivere una doppia vita, ma ritengo che sarebbe stato un suicidio… perché sarebbe stata una menzogna, perché la rivoluzione sessuale e il movimento per i diritti gay mi hanno aiutato a scoprire l’importanza della dimensione pubblica della sessualità.

  (Intervista con monsignor Charamsa, ex membro della Curia romana, novembre 2015, all’età di 43 anni)

            Nell’ottobre 2015 il sacerdote Krzysztof Charamsa, teologo conservatore e membro della Congregazione Vaticana per la Dottrina della Fede (organismo tra i più importanti della Curia romana, che ha l’incarico di promuovere e salvaguardare “la dottrina della fede e della morale in tutto il mondo cattolico” [Giovanni Paolo II,  28 giugno 1988 Costituzione apostolica Pastor bonus, sezione III, Congregazioni per la Dottrina della Fede, articolo 48]), annunciò attraverso i media di essere gay e di volere, per questo motivo, vivere apertamente la relazione che aveva da molti anni con il suo compagno. Nonostante abbia affermato di non voler più vivere una menzogna, l’aspetto più importante della vicenda è la rottura di un patto di segretezza nei fatti imposto dalla Chiesa, in particolare dalla Congregazione a cui apparteneva.

            La segretezza (ovvero il rimanere in silenzio su qualcosa che in una organizzazione tutti sanno, e far sì che anche gli altri tacciano) è una tecnica di “governo”, o meglio di “condotta”, nel senso che a questo termine ha dato Michel Foucault, che caratterizza tutte le istituzioni. [“Forse la natura equivoca del termine ‘condotta’ ci viene in aiuto come nessun altro per comprendere la specificità delle relazioni di potere, in quanto ‘condotta’ significa ‘condurre’ altri (secondo dei meccanismi di coercizione che possono essere più o meno stringenti), ed è un modo di comportarsi in un campo di possibilità più o meno aperto. L’esercizio del potere consiste nel guidare le possibilità di condotta e mettere in ordine i possibili risultati. Fondamentalmente il potere non è tanto il confronto tra due avversari, o il collegamento che esiste tra loro, quanto una questione di governo.” Ricordiamo che Michel Foucault basava il suo concetto di governabilità sul modello cattolico del potere pastorale.]

Secondo il teologo protestante Éric Fhs all’interno della Chiesa Cattolica “è la rigorosa gestione della sessualità che qualifica l’autorità del clero, come anche l’obbedienza dei laici”.     Infatti, due caratteristiche distinguono la Chiesa Cattolica da quelle protestanti: al clero è richiesto di astenersi dai rapporti sessuali (i quali sono riservati ai laici eterosessuali, all’interno del matrimonio), e ai laici è imposta la confessione dei peccati al clero. È perciò molto comune che gran parte di tale “prassi di segretezza” (Wolfgang Kaiser) all’interno della Chiesa Cattolica sia dedicata alla gestione della sessualità. Éric Fuchs ne conclude che “la morale [cattolica] è più un campo di battaglia che una questione specifica, in quanto la battaglia sulla morale è in realtà una battaglia sull’ecclesiologia”; in altre parole, essa riguarda l’organizzazione e la legittimazione dell’istituzione.

            Tuttavia, negli ultimi anni si è intensificata, all’interno del cattolicesimo occidentale, la lotta sui temi della morale sessuale e della vita famigliare. La Chiesa deve far fronte ai cambiamenti delle concezioni di genere, e in particolare alla politicizzazione, all’interno della Chiesa istituzionale, delle tematiche riguardanti il genere e la sessualità.

            Tale dinamica esterna (descritta da Éric Fassin come “democrazia sessuale”) esercita una grande pressione sulla Chiesa, che si ripercuote sulle crescenti difficoltà di reclutamento del clero, e fa sì che i suoi membri rimanenti si interroghino sul modo in cui esprimono la loro sessualità e il loro genere. Il ruolo dei sacerdoti e l’immagine della Chiesa soffrono di ciò di cui parla Clément Arambourou riguardo al ruolo della politica e dei candidati presidenziali: “La relazione tra il genere e la sessualità rivela di non essere più basata sull’evidenza”; ora è “una questione di rappresentazione politica”.

            Questo articolo si apre con uno studio rivelatore del modo ideale-tipico di gestire i sacerdoti gay nella Chiesa occidentale, per poi spiegare i fondamenti e le evoluzioni recenti della prassi ecclesiastica di segretezza di cui sopra. L’esperienza e la soggettività gay soffrono meno di un tempo di una rigida separazione tra spazio privato e spazio pubblico (vale a dire, ciò che è conosciuto come “nascondiglio” o “armadio”), le unioni omosessuali in molti luoghi vengono riconosciute dalla legge, e il contesto sociale è generalmente caratterizzato da un invito a essere sessualmente autentici; il risultato è la paradossale necessità, per la Chiesa, di rafforzare la prassi della segretezza.

            La Chiesa sente la necessità di “guidare la possibilità” (Foucault), ovvero di rendere più probabile, il fatto che i sacerdoti gay non si rivelino, proprio mentre molti Stati, almeno ufficialmente, hanno abolito questa necessità. In ultimo questo articolo presenta l’ipotesi che il Vaticano, per ottenere questo, sta investendo tutte le sue forze per inventare, e poi combattere, un nemico fantasma: la “teoria del gender”. Sono tre correnti di analisi che verranno sviluppate in tre sezioni di questo articolo, il quale seguirà uno sviluppo a spirale che va dallo specifico al generale.

Articolo di Josselin Tricou pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte prima

https://www.gionata.org/vivere-nel-nascondimento-il-silenzio-dei-preti-gay-nellera-del-matrimonio-omosessuale

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PARLAMENTO

Arriva l’educazione emozionale a scuola

www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/52590.htm

In Senato è stato presentato dalla sen. Cinzia Leone il disegno di legge n. 1635 che vuole introdurre nelle scuole l’ora di educazione emozionale. Un progetto che nasce, per contrastare il bullismo e il cyberbullismo e per educare al rispetto delle donne e delle diversità culturali, frutto del lavoro della commissione d’inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere.

Un disegno complesso che prevede nuovi obblighi formativi per i docenti chiamati a insegnare educazione emozionale e una nuova organizzazione dell’offerta formativa delle scuole. L’intenzione è d’introdurre l’insegnamento della nuova materia a partire dal prossimo anno scolastico 2020-2021.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1142647/index.html?part=ddlpres_ddlpres1

Educazione emozionale per contrastare bullismo. Il disegno di legge n. 1635, comunicato alla Presidenza del Senato il 3 dicembre 2019 si pone l’obiettivo d’introdurre per la prima volta nel sistema scolastico italiano l’insegnamento dell’educazione emozionale nelle scuole d’infanzia primaria e secondaria. L’iniziativa, leggendo la relazione che accompagna il testo del decreto, prende spunto dai fenomeni di bullismo e di cyberbullismo e dagli studi compiuti sul fenomeno. L’aggressività dei bambini e degli adolescenti e i mezzi con cui viene veicolata, per lo più pc e smartphone, impediscono al bambino di sviluppare l’empatia e la compassione verso chi ha di fronte.

            Occorre una vera e propria educazione ai sentimenti e al linguaggio da utilizzare per esprimerle, quella che Goleman definisce “intelligenza emotiva.” Le capacità di controllare le proprie emozioni, di saperle analizzare ed esprimere nel modo più corretto, senza prevaricare l’altro o esercitare violenza si possono apprendere. Goleman, così come altri studiosi ritengono che l’acquisizione di questa capacità, se apprese da bambini e adolescenti, sono in grado di condizionare positivamente tutta la vita di un soggetto. L’esistenza di una persona è costellata infatti sin dalla nascita di relazioni: famiglia, scuola, Università e mondo del lavoro. E’ molto importante imparare a relazionarsi, anche perché non esistono bambini e adolescenti cattivi, ma solo bambini e adolescenti sentimentalmente analfabeti.

Da qui l’ispirazione al modello danese che da anni prevede la “Klassens Tid” ovvero l’ora di classe in cui si insegna l’educazione ai sentimenti.

Obiettivi dell’educazione emozionale. Come accennato il progetto sull’introduzione nelle scuole dell’educazione emozionale nasce per contrastare il bullismo e il cyberbullismo.

L’art. 1 del disegno di legge dispone a tale fine che il processo formativo relativo all’educazione emozionale è finalizzato nello specifico a:

  • Favorire e ottimizzare la consapevole conoscenza e il controllo di sé stessi e delle proprie emozioni in età evolutiva e nell’infanzia;
  • Sviluppare l’intelligenza emotiva quale capacità di riconoscere le proprie emozioni in relazione a quelle di chi ci circonda, gestendole e imparando a interagire in modo costruttivo con gli altri;
  • Prevenire comportamenti sociali a rischio, lesivi della dignità della persona, nella sfera privata, etica, religiosa, razziale e con particolare riferimento alla parità di genere.

L’insegnamento delle emozioni nelle scuole. Per quanto riguarda l’aspetto pratico dell’organizzazione scolastica, il disegno di legge prevede l’adozione di regolamenti, su proposta del Ministero dell’istruzione, per definire le disposizioni relative all’insegnamento, nel rispetto dei seguenti criteri:

  • Definizione del monte ore mensile da elargire durante l’ora di compresenza per un’ora alla settimana, nella scuola dell’infanzia e in quella primaria;
  • Definizione del monte ore mensile, per la scuola secondaria di primo grado e per il biennio della scuola secondaria di secondo grado, all’interno delle ore destinate all’insegnamento delle discipline obbligatorie d’indirizzo, con giudizio di merito da esprimersi alla fine di ogni quadrimestre;
  • Individuazione del personale docente formato, anche ricorrendo all’organico di potenziamento già presente nelle scuole;
  • Definizione dei contenuti da trattare nei vari cicli di studio, da diversificare in base ai vari gradi scolastici.

Gli istituti scolastici devono inoltre provvedere a rimodulare il piano dell’offerta formativa per includere anche l’ora di educazione emozionale e programmare, soprattutto nelle scuole d’infanzia e primaria, attività extracurriculare per coinvolgere le famiglie.

Formazione del personale docente. Al Ministro dell’istruzione il compito di stabilire con decreto la disciplina relativa allo svolgimento delle attività di formazione e aggiornamento dei docenti della scuola primaria e del personale docente della scuola secondaria di primo e secondo grado per l’insegnamento dell'”educazione emozionale”. Per ottimizzare la formazione del personale docente le scuole possono promuovere accordi di rete o in ambito territoriale con Università e o istituzioni di ricerca d’interesse nazionale.

Annamaria Villafrate Studio Cataldi 16 febbraio 2020

www.studiocataldi.it/articoli/37368-educazione-emozionale.asp

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POLITICA

Ecco il Family Act per combattere il crollo delle nascite

Secondo l’Istat, solo 435mila nascite contro 647mila decessi nel 2019 è il livello di ricambio naturale più basso dal 1918. Il ministro della Famiglia Elena Bonetti presenta oggi al Teatro Parenti di Milano i provvedimenti del governo per invertire la tendenza.

Da 102 anni, avverte l’Istat, l’Italia non aveva un ricambio demografico così negativo: nel 2019 solo 435.000 nascite, e 116.000 italiani in meno. Economisti, sociologi e demografi avvertono che ormai sta diventando una vera e propria emergenza. Proprio per provare ad affrontarla il ministro delle Pari Opportunità e Famiglia Elena Bonetti ha messo a punto un Family Act.

«Sono dati preoccupanti quelli che l’Istat ha certificato e che ulteriormente impegnano la politica a dare risposte pronte ed efficaci a una situazione che da troppo tempo segna il nostro Paese: il calo delle nascite e un basso tasso di fecondità», spiega il ministro Bonetti a Linkiesta in anteprima. «Un Paese che ha un simile problema di carattere demografico vive su di sé due conseguenze:

  • Il calo di popolazione giovanile in prospettiva e quindi, potenzialmente, un calo sia dal punto di vista economico che nella tenuta sociale e del welfare.
  • Un elemento che possiamo ricondurre a questo fenomeno, un deficit di speranza personale e collettiva che il nostro Paese deve invece essere in grado di attivare».

Spiega dunque Elena Bonetti che «per questo motivo servono subito politiche di investimento nelle famiglie, non soltanto a sostegno ma nel segno di una loro valorizzazione come luogo di costruzione di relazioni sociali positive. Politiche che riabilitino le persone a una libertà di scelta e a una dimensione di prospettiva e di speranza sulla quale costruire le scelte del futuro, tra cui quella della genitorialità. È proprio in questa direzione che abbiamo concepito il Family Act, un sistema integrato di proposte che in questi giorni verrà messo in campo, di concerto con il presidente Conte e con tutte le forze della maggioranza».

            Come spiegano da tempo gli studiosi, il problema di fondo è che mentre nelle società povere un figlio è un investimento, in quelle ricche diventa un consumo. Come ricorda un grande demografo come Massimo Livio Bacci nel suo classico Storia minima della popolazione del mondo, nel mondo pre-industriale il costo di allevamento di un figlio è basso. «In aree rurali e in certe condizioni, i figli possono costituire un guadagno netto per genitori. Il lavoro infantile e giovanile compensa i costi sostenuti dalla famiglia che, comunque, nelle economie povere non sono levati». Inoltre, «In molti contesti sociali, i genitori considerano i figli una garanzia di aiuto economico e materiale, oltreché affettivo, nelle età anziane. Indagini in Indonesia, Corea, Filippine, Thailandia e Turchia segnalano che l’80-90% dei genitori intervistati conta, per l’età avanzata, sull’appoggio economico dei figli. In ogni caso è naturale fare assegnamento sull’appoggio dei figli contro il rischio di estrema avversità».

            Al contrario, in una società come la nostra fare figli è un lusso, che può costare caro. Nel 2011 Federconsumatori fece una stima in base alla quale sommando le spese di alloggio, alimentazione, trasporti e comunicazioni, abbigliamento, salute, educazione, cura e varie, un ragazzo nei suoi primi 18 anni di vita sarebbe costato

ü  113.700 euro in una famiglia a reddito basso sotto i 22.100 euro l’anno;

ü  170.904 in una famiglia di reddito medio attorno ai 37.500 euro l’anno;

ü  271.350 in una famiglia di reddito alto oltre i 68.000 euro l’anno.

Ordinario di Demografia alla Cattolica di Milano e consulente del ministro Elena Bonetti per questo Family Act, Alessandro Rosina nell’intervento sul tema fatto all’ultima Leopolda spiegò addirittura che in Italia le famiglie per far crescere i figli rischiano addirittura la povertà, è in misura molto maggiore che nel resto d’Europa.

            Rosina in quell’occasione spiegò però anche la necessità di un cambiamento culturale «che porti a considerare un figlio non solo e non tanto come un costo privato, ma come un bene collettivo sul quale tutta la società ha convenienza a investire per il proprio futuro». Perché è evidente che una società con il rapporto tra le varie fasce di età squilibrato rappresenterebbe un costo insostenibile: basti immaginare a una situazione in cui i pensionati siano più di chi lavora.

            Ricapitolando, secondo l’Istat 435.000 nati vivi, di cui il 19,6% da madri straniere, contro 647.000 decessi rappresentano il livello di ricambio naturale più basso dal 1918: anno in cui al massacro della Grande Guerra era seguito quello della Spagnola. La popolazione residente è in calo da 5 anni consecutivi, l’età media dei 60,3 milioni di residenti è di 45,7 anni, gli stranieri sono l’8,9%, solo in Trentino-Alto Adige non diminuisce la popolazione di cittadinanza italiana. La speranza di vita alla nascita è di 81 anni per gli uomini e di 85,3 per le donne. Il numero medio di figli per donna è 1,20. L’età media al parto è 32,1 anni. Rispetto all’estero ci sono state 307.000 iscrizioni anagrafiche e 164.000 cancellazioni.

            Commentando questi dati, Rosina ha osservato che mentre l’Italia resta ostinatamente in coda alla media europea di natalità, la Germania dopo essere scesa a livelli inferiori ai nostri dal 2008 ha ripreso a risalire. Ma anche la Provincia di Bolzano ha fatto lo stesso. Germania e Provincia di Bolzano hanno in comune di avere effettuato politiche di sostegno alla natalità, e anche di avere un basso livello di Neet: giovani under 35 che né studiano né lavorano. In Italia è crollata sia la propensione a fare figli prima dei 30 anni, per via della difficoltà a trovare un lavoro stabile; sia quella a “recuperare” tra i 30 e i 34, per via della difficoltà a conciliare la famiglia con le esigenze del lavoro appena trovato.

            Il Family Act, dunque, contempla innanzitutto in un assegno universale da dare per ogni figlio dalla nascita all’età adulta, fin dal 2021: tra i 100 e i 250 euro al mese, a seconda del reddito. Si parla poi di rimborso e defiscalizzazione per le spese educative: asili nido, baby sitter, musica, sport. Il ministro Bonetti ricorda che è stato già avviato un contribuito tra i 1.500 e i 3.000 euro all’anno per gli asili nido, e un assegno di natalità per il primo anno di vita che va da 80 a 160 euro a seconda del reddito. Ma promette anche un nuovo sistema di detrazione nella riforma dell’Irpef, congedi parentali obbligatori fino a un mese anche per i padri, e un sostegno economico dopo la maternità perché non risulti poco conveniente rientrare al lavoro. «Restituire speranza e fiducia», è il suo slogan.

Maurizio Stefanini                 Linkiesta 17 febbraio 2020

www.linkiesta.it/it/article/2020/02/17/family-act-bonetti-crollo-nascite/45455

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PSICHIATRIA

Demenze. Materiali on line

Sono on line i video delle presentazioni dei relatori intervenuti al XIII Convegno “Il Contributo dei Centri per i disturbi cognitivi e le Demenze nella gestione integrata dei pazienti” che si è svolto all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) il 14 e 15 novembre 2019, organizzato dall’Osservatorio Demenze dell’ISS

            Sono ancora nette le differenze tra le Regioni nella rete di assistenza ai pazienti con demenza e ai loro familiari. Un CDCD (Centro per i Disturbi Cognitivi e le Demenze) su cinque è aperto un solo giorno a settimana senza una differenza per macro-aree, circa il 23% di queste strutture ha tempi di attesa uguali o maggiore ai 3 mesi e il 30% dei CDCD utilizza ancora un archivio cartaceo. Il numero dei servizi dedicati alle demenze nel Sud–Isole è carente soprattutto per i Centri Diurni e le Strutture Residenziali. Sono alcuni dei dati raccolti dall’Osservatorio Demenze dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e presentati il 14 e 15 novembre 2019 al XIII Convegno “Il Contributo dei Centri per i disturbi cognitivi e le Demenze nella gestione integrata dei pazienti”.

I dati della survey [indagine] sui servizi dedicati alle demenze condotta dall’Osservatorio demenze hanno fatto emergere una disomogeneità nell’organizzazione nei diversi territori. Disomogeneità già riscontrata osservando che il Piano Nazionale Demenze (PND), documento strategico per governare il fenomeno delle demenze nei territori, è stato recepito ad oggi da sole 11 Regioni e dalla Provincia autonoma di Trento e che in uno studio condotto dall’ISS, per valutare l’accordo dei Percorsi Diagnostici Terapeutici ed Assistenziali (PDTA) con le “Linee di Indirizzo Nazionale sui PDTA per le demenze” prodotto dal Tavolo per il monitoraggio e l’implementazione del PND promosso dal Ministero della Salute, sono stati censiti solo 6 PDTA prodotti dalle Regioni e 5 redatti dalle Aziende sanitarie locali (ASL).

Per questi motivi l’Osservatorio Demenze ha proposto la produzione di Report regionali da inviare ai responsabili del settore nelle diverse Regioni nei quali verrà indicato:

  • La stima dei casi affetti da demenza e da Mild Cognitive Impairment
  • Il quadro della rete dei servizi con un’elaborazione di una serie di indicatori di struttura, processo ed esito
  • Una survey sulla qualità dell’assistenza ai migranti
  • Le attività di formazione in essere nella medicina generale
  • Infine una stima della prevalenza dei fattori di rischio prevenibili.

Emerge in sintesi l’urgenza di stimolare l’implementazione delle differenti policy nei territori. Troppo grande è il gap tra quello che è stato prodotto a livello nazionale nella definizione delle politiche e delle strategie per governare il fenomeno delle demenze e quello che è stato recepito e implementato poi a livello locale.

Il programma della giornata                      www.epicentro.iss.it/demenza/pdf/Locandina-Finale-CDCD.pdf

L’abstract book “Istisan Congressi 19-C5

www.epicentro.iss.it/demenza/pdf/Istisan-XIII-Convegno-Il-contributo-dei-centri-per-i-disturbi-cognitivi-e-le-demenze-nella-gestione-integrata-dei-pazienti.pdf

            Epicentro        Istituto Superiore di Sanità 13 febbraio 2020

www.epicentro.iss.it/demenza/gestione-integrata-pazienti-convegno-2019?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=13febbraio2020

 

Ragazzo morto di anoressia.

Lorenzo Seminatore, 20 anni, è morto di anoressia il 3 febbraio 2020 a Torino. Domenica 16 febbraio i suoi genitori hanno lanciato un appello per evitare ad altre famiglie, se possibile, un calvario come il loro. “Occorre implementare reti di intervento sempre più efficaci, ma anche riconoscere che esistono alcune forme di anoressia ad oggi resistenti a qualsiasi trattamento”, afferma lo psichiatra Tonino Cantelmi. Tuttavia “non bisogna arrendersi. Dobbiamo studiare ancora molto”. E avverte: attenzione ai blog “pro-ana” [pro-anoressia] che riescono a convincere le ragazzine che il canone estetico del corpo filiforme è la migliore scelta di vita.

www.ildenaro.it/anoressia-ai-tempi-dei-social-occhio-ai-blog-pro-ana-si-disimpara-mangiare

Straordinaria la compostezza di questi genitori. Il padre parla lentamente, scandendo le parole con voce profonda e pacata. La madre, impietrita dal dolore, sillaba parole pesanti come pietre. Perché se non c’è tragedia più grande della morte di un figlio, nulla può dire la crudeltà dell’assistere impotenti al progressivo spegnersi, per sua volontà, della creatura cui hai dato la vita, il tuo amore e ogni tua energia. Lorenzo se n’è andato a 20 anni, ma aveva cominciato a consumarsi gradualmente in una sorta di lenta agonia già da quando ne aveva 14, sopraffatto ogni giorno di più da quel demone che si insinua strisciante facendoti odiare il cibo e il tuo corpo, mai abbastanza magro ed evanescente. Un ragazzo bello e sensibile il cui cuore si è fermato lo scorso 3 febbraio, ma la vicenda è venuta alla luce domenica 16 quando i genitori hanno deciso di rendere pubblica la loro tragedia lanciando un grido d’aiuto e un appello per evitare, se possibile, altri drammi simili al loro.

Purtroppo, spiega al Sir Tonino Cantelmi, professore di cyber-psicologia all’Università europea di Roma e presidente dell’Associazione psichiatri e psicologi cattolici (Aippc), “l’anoressia è una patologia grave e complessa che può anche condurre alla morte; noi riusciamo a curare la maggior parte dei pazienti che ne soffrono, ma alcuni non rispondono ad alcuna terapia”. Secondo stime del ministero della Salute, ogni anno si registrano nel nostro Paese 8-9 casi ogni 100mila donne e 1,4 nuovi casi ogni 100mila uomini, in un rapporto maschi / femmine di quasi 2 a 8. I disturbi del comportamento alimentare riguarderebbero dai 3 ai 4 milioni di italiani.

                Nelle forme resistenti alle cure il tasso di mortalità si aggira tra il 5 e il 10 %.

Professor Cantelmi, che cos’è l’anoressia e da che cosa dipende?

E’ una patologia complessa, legata ad un grave disturbo dell’immagine corporea, che rientra nei disturbi del comportamento alimentare e consiste in una grave restrizione nell’assunzione del cibo, oppure nell’eliminazione ferrea del cibo assunto per arrivare ad una drastica perdita di peso. Diverse le cause: alcune di ordine genetico, biologico, costituzionale; altre di ordine più ambientale.

Chi colpisce in particolare?

A rischio sono soprattutto le adolescenti tra i 14 e i 16 anni ma aumentano i maschi e, anche se in percentuale minima, può esordire anche in bambini e bambine a partire dai 6- 8 anni. In alcuni casi, nonostante i migliori trattamenti, può purtroppo condurre alla morte. Un po’ come il cancro che malgrado i progressi della ricerca e l’aumento delle guarigioni, non è ancora stato del tutto sconfitto. In ogni caso, per la guarigione sono strategici la precocità e la qualità dell’intervento.

            Precocità appunto: esistono segnali o campanelli d’allarme da non sottovalutare?

L’anoressia si manifesta in tutta la sua prepotenza, al di là dei tentativi di camuffamento mesi in atto dalle sue “vittime” che cominciano a manifestare un’attenzione esasperata per la quantità di cibo che assumono, per il loro peso e immagine fisica. E da qualche tempo, a renderla ancora più insidiosa si aggiunge un nuovo nemico contro il quale combattere.

Quale?

Una sorta di inquietante “sostegno sociale” alla magrezza estrema come forma di bellezza che si esprime in due forme, una più manifesta, una più subdola. Da un lato il mondo della moda; dall’altro i siti e i blog “pro ana” che reclutano ragazzine inneggiando all’anoressia, instaurando una specie di competizione e facendo passare quasi una normalizzazione di questa patologia. Le sfilate mandano in passerella modelle anoressiche o anoressizzate: uno scandalo che tutti facciamo finta di vedere-non vedere. Ne parliamo ma in realtà non si interviene. Quanto alle community in rete, nelle nostre strutture residenziali dobbiamo combattere con l’idea che una paziente anoressica ricoverata possa connettersi con questi blog da cui ricevere consigli per ingannare i terapeuti o riuscire a farsi dimettere più rapidamente.

Influencer[persone influenti] di riferimento presentano l’anoressia come la migliore scelta di vita possibile: una sorta di dea che richiede rituali e sacrifici in nome di un’adesione che dà forza, fa sentire padrone di sé e del proprio corpo, è simbolo di autocontrollo, dominio e libertà estrema.

I genitori di Lorenzo hanno lanciato un grido d’aiuto sottolineando la scarsità di strutture. In Italia esiste una buona rete di strutture – nella sola regione Lazio ne esistono tre accreditate – ma la patologia è in fase di espansione e questo certamente richiede alla programmazione sanitaria uno sforzo in più. Dovremmo senza dubbio fare di più, ma il punto credo sia riconoscere la gravità e la complessità oggettiva di alcune forme di anoressia resistenti a qualsiasi trattamento: farmacologico, psicoterapico e riabilitativo anche comunitario e residenziale.

            E poi un ragazzo, una volta maggiorenne, può decidere di non curarsi. Questo vale per tutte le patologie psichiatriche. Gli strumenti coercitivi – essenzialmente il Tso (trattamento sanitario obbligatorio applicabile anche ai pazienti con anoressia) – sono regolati dalla legge. Purtroppo e per fortuna, perché questa norma costituisce una garanzia rispetto agli abusi, bilanciando in modo equilibrato garanzie di libertà del soggetto e, al tempo stesso, necessità di cura.

            Che cosa si sente di dire ai genitori di Lorenzo?

Desidero esprimere vicinanza al loro dolore, assicurare loro che possiamo e dobbiamo incrementare e implementare reti di intervento sempre più efficaci – uno sforzo è già in corso – ma anche ribadire che purtroppo, in alcune circostanze e di fronte alle forme di anoressia più complesse e resistenti ai trattamenti siamo davvero disarmati.

    Tuttavia non bisogna arrendersi. Dobbiamo studiare ancora molto.

Giovanna Pasqualin Traversa                        Agenzia SIR    18 febbraio 2020

www.agensir.it/italia/2020/02/18/ragazzo-morto-di-anoressia-cantelmi-psichiatra-implementare-reti-di-intervento-e-studiare-nuove-terapie-per-forme-resistenti

 

Anoressia. Disturbi del comportamento alimentare degli adolescenti

Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA): il tema è soprattutto legato ai giovani, in Italia sono circa 3 milioni quelli che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di cui il 95,9% sono donne e il 4,1% uomini. La percentuale di decessi in un anno per anoressia nervosa si aggira tra il 5,86 e 6,2%, tra 1,57 e 1,93% per bulimia nervosa e per gli altri disturbi tra 1,81 e 1,92%, secondo dati recenti. La morte di Lorenzo Seminatore, morto ad appena 20 anni per una ricaduta, è occasione per tornare a parlare di questo sommerso tragico, invitando i genitori a non sottovalutare i sintomi e a chiedere aiuto nei centri specializzati.

La causa dei Disturbi del Comportamento Alimentare è certamente legata a molti fattori di natura biologica, ma soprattutto psicologica e socio-culturale. Come afferma Stefano Vicari, autore con Ilaria Caprioglio del libro “Corpi senza peso”, edito da Edizioni Centro Studi Erickson: «insieme a una diagnosi precoce, è necessario promuovere una “controcultura della differenza” capace di valorizzare le peculiarità corporee di ognuno per contrastare l’odierna omologazione estetica. È fondamentale che i genitori siano in grado di offrire modelli di riferimento alternativi a quelli imposti dalla pressione mediatica che identificano la bellezza con la magrezza delle donne e con la muscolosità degli uomini”.

            Per aiutare i genitori e i ragazzi ad affrontare l’anoressia o la bulimia è necessario spezzare il pregiudizio che circonda questi disturbi, liberando i genitori dal senso di colpa che troppo spesso li paralizza davanti alla malattia dei loro figli. Proprio per questo è sempre più importante far conoscere e parlare delle problematiche legate a queste malattie con i ragazzi e con le famiglie senza tabù e ipocrisia.

L’età di esordio di questi problemi è tra i 15 e i 19 anni ma sono sempre più frequenti casi di anoressia già a partire dai 9 anni. I disturbi del comportamento alimentare, che possono essere suddivisi in sei differenti gruppi (Pica, Ruminazione, Disturbo Alimentare di Evitamento o Restrizione del cibo, Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo di Alimentazione Incontrollata), costituiscono un complesso insieme di disturbi mentali. Questi fenomeni vengono infatti molte volte sottovalutati sia da chi ne soffre che dalle famiglie.

Vicari, direttore della Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, spiega qui quali sono i segnali di allarme che i genitori possono cogliere per una diagnosi precoce e cosa è importante fare per affrontare nel modo più corretto i disturbi del comportamento alimentare.

1)      Anoressia, bulimia si insinuano nella vita degli adolescenti come un moderno demone che vede nel cibo il nemico-amico. Osservando i comportamenti del proprio figlio, quali sono i campanelli d’allarme che un genitore non dovrebbe sottovalutare? ”Tre i campanelli d’allarme: un forte dimagrimento, la perdita del ciclo mestruale e un comportamento ossessivo verso la propria forma fisica. Gli adolescenti presentano spesso momenti di crisi, assolutamente sani perché rappresentano la loro fase di crescita verso la vita adulta. Ma, a volte, i comportamenti problematici costituiscono un campanello d’allarme se non delle vere e proprie richieste di aiuto. Il confine tra situazione patologica e non-patologica è dato dal benessere e della qualità della vita delle persone”.

2)      Come instaurare un dialogo proficuo con l’adolescente “interrotto”? ‘Imparando a osservare e ascoltare, senza giudicare i propri figli. Occorre esserci, a volte anche in silenzio, garantendo una presenza anche fisica. Senza proporsi come detentori di verità assolute ma evitando, allo stesso tempo, di perdere il proprio ruolo di adulti, di voler “fare gli amici”. Tremo quando un genitore mi dice “io e mio figlio/a siamo due ottimi amici”.

3)       Cosa fare subito? ”I Genitori devono saper osservare i propri figli, cogliere i loro cambiamenti nel fisico, nel comportamento e nel loro umore. Nei casi più gravi è meglio consultare un medico, senza perdere tempo. In generale, si deve favorire la richiesta di aiuto, accompagnando il ragazzo o la ragazza nel cogliere quello che sta attraversando. Può essere un momento di difficoltà, di cui non c’è da aver paura nel parlarne e nel farsi aiutare. Il messaggio dovrebbe sempre essere: “C’è sempre una soluzione e io sono qui per darti una mano”.

4)      Cosa non fare mai? ”Pensare che il cibo sia il problema. Far sentire come un fastidio il problema del figlio, esprimere giudizi o essere ipocriti facendo finta che non ci siano problemi. Dire ” mangia un po’ di più così si risolve tutto” o “va tutto bene, non ti preoccupare” quando invece la situazione è drammatica.

5)      A chi possono rivolgersi i genitori? ”A centri altamente specializzati, con esperienza specifica. È importante prendere, se possibile, ogni decisione insieme al minore”.

Ansa 17 febbraio 2020

https://francescomacri.wordpress.com/2020/02/17/anoressia-disturbi-del-comportamento-alimentare-degli-adolescenti/#more-53101

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SINODO PANAMAZZONICO

Maria, discepola e testimone apostolica: per un passo avanti sulla questione femminile

L’insegnamento di Querida Amazonia (QA) sulle donne, nel tentativo di valorizzare e promuovere la loro presenza, propone problematicamente Gesù come modello per gli uomini e Maria come modello per le donne. Proviamo a rileggere questa affermazione alla luce dei Vangeli, per vedere se sia possibile liberarci dell’ingannevole bisogno di trovare uno specifico femminile nella Chiesa. Maria come prima fra discepoli/e e apostoli/e.

            Dopo aver seguito i lavori sul Sinodo panamazzonico, aver letto i documenti e i commenti, che attraversano tanto il magistero dell’attuale vescovo di Roma, attento alla realtà e proprio per questo profetico, la lettura dell’esortazione post-sinodale appare come un raccordo, fatto in punta di piedi, rispettando il misterioso lavorio dello Spirito che dovrebbe essere il protagonista di ogni radunarsi della Chiesa. Provo qui solo una risonanza sui paragrafi di QA relativi alla presenza femminile nella Chiesa, nei quali il papa prova un passo avanti, forse quello possibile a tutti: prova cioè a far accorgere che la Chiesa vive anche grazie alle donne e, a volte, solo grazie a loro. Prova a spezzare questa invisibilità pur non aprendo al ministero ordinato: non essere ordinate non sminuisce quello che siamo nella Chiesa.

            Il fatto che questo riconoscimento possa sembrarmi un passo avanti la dice lunga su quale sia la nostra situazione ecclesiale, ma questa è la realtà. E il papa ha cercato di dire quello che poteva essere realisticamente fatto, finendo per dare indicazioni concrete su incarichi ufficiali per le donne, perché possano incidere sulla Chiesa, e sul loro coinvolgimento nel discernimento e nelle decisioni di una chiesa sinodale. In questo tentativo di valorizzazione, c’è, però, un passaggio che resta ostico e che rischia di essere controproducente: «Il Signore ha voluto manifestare il suo potere e il suo amore attraverso due volti umani: quello del suo Figlio divino fatto uomo e quello di una creatura che è donna, Maria. Le donne danno il loro contributo alla Chiesa secondo il modo loro proprio e prolungando la forza e la tenerezza di Maria, la Madre» (QA, 101).

            In questo passaggio il papa pone l’attenzione sul fatto che nella Chiesa non ci sono solo maschi e ad un tempo, come il Concilio insegna, ricolloca Maria in mezzo al popolo cristiano riconsegnandocela come compagna e non come l’irraggiungibile modello che umilia le donne. Inoltre ce la presenta come madre, forte e tenera allo stesso tempo, cercando di svincolarci da stereotipi sdolcinati e anche evitando l’insistenza sulla verginità, categoria sempre offensiva per le donne, perché ci costringe a riflettere sui loro organi genitali e sulla loro vita sessuale. I problemi però – nonostante queste luci – ci sono: anzitutto Gesù e Maria non sono sullo stesso piano, non ci mostrano cioè l’amore di Dio in modo paritetico. Per ciascuno e per ciascuna – Maria in testa – l’amore del Padre si mostra in Cristo, ma non certo perché maschio. La maschilità, come l’essere ebreo o cresciuto a Nazareth, sono state le concrete contingenze della sua umanità, che lui ha vissuto completamente rivolto al Padre e ai fratelli: della sua maschilità ci dovrebbe interessante eventualmente lo stile, come l’abbia liberata dal potere e dalla violenza e da ogni aspirazione di supremazia. Egli è, comunque, modello di ogni credente, colui che vive in ogni credente, maschio o femmina che sia (Maria compresa).

            Se questo è vero le donne danno il proprio contributo non prolungando la forza e la tenerezza di Maria ma la forza e la tenerezza di Cristo che anche Maria ha vissuto. Lo fanno in modo femminile, certo, cioè con quello che sono: colte o ignoranti, sane o malate, madri o no, innamorate o abbandonate, violate o rispettate. Lo fanno di solito soffrendo molto di più degli uomini, perché il mondo è ingiusto contro i poveri, contro la terra e anche contro le donne. Maria, come lo ha fatto?

            Se leggiamo i Vangeli noi troviamo la donna che partorisce (cf. Lc 2), ma anche la credente, la profetessa e l’evangelizzatrice, la donna che dispone di sé senza chiedere il permesso al marito (cf. Lc 1), troviamo la donna povera che ha il coraggio di mandare avanti la storia della salvezza a costo della propria vita (cf. Mt 1), troviamo la discepola attenta ascoltatrice della parola e contemplatrice della storia (cf. Lc 2), la donna preoccupata per il proprio figlio fuori controllo (cf. Mc 3.6).

Gesù espressamente sposta la lode di Maria dalla maternità all’ascolto della Parola (cf. Lc 11), come il papa spiega così bene in Aperuit illis [lettera apostolica 30 settembre 2019], e quello che si dice di lei è vero per ogni credente, uomo o donna. Prolungare la presenza di lei nella Chiesa, significa allora prolungare l’ascolto, la fede, il coraggio, la testimonianza. Si potrebbe vederla anche come maestra per Gesù, quando gli indica l’ora propizia per rivelarsi, dirigendo il cammino di lui con discrezione, ma anche con l’autorità di una maestra (cf. Gv 2). Questo spiegherebbe perché poi, nell’ora suprema della croce, le venga affidato il discepolo (cf. Gv 19), ovvero colui che deve camminare sulla strada di Gesù.

www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190930_aperuit-illis.html

Infine Luca (cf. At 1-2) ce la presenta nel cenacolo fra coloro su cui scende lo Spirito e che annunciano per primi il Vangelo. Ella è così a tutti gli effetti tra i testimoni della prima ora, anzi è quella che ha creduto per prima. Fra i testimoni apostolici, che non sono certo solo i dodici (basti vedere 1Cor 15) lei è la più autorevole. Le donne allora devono prolungare questa presenza apostolica, sempre che gliene venga data la possibilità. Se non si vuole aprire per ora ad un ministero (forse per questo ci vorranno eventi prodigiosi simili a quelli narrati in At 9-10 quando non si riusciva a credere che lo Spirito potesse scendere anche sui pagani), possiamo almeno smettere di pensare al ministro come uno sposo e magari – come fa Paolo nella lettera ai Galati e nella seconda ai Corinzi – potremmo pensarlo (questo sì!) in termini materni: come uno che mette al mondo, fa crescere, nutre, insegna a parlare.

            Qualunque cosa decidiamo, però, preoccupiamoci di non mortificare lo Spirito, quello che abita tutti i credenti, donne comprese. Il papa mi sembra voglia andare in questa direzione, ma il passo è troppo corto, molto probabilmente perché non gli è sembrato possibile farlo più lungo. Per ora. Solo per ora.

Simona Segoloni Ruta            Il Regno delle Donne   17 febbraio 2020

www.ilregno.it/regno-delle-donne/blog/maria-discepola-e-testimone-apostolica-per-un-passo-avanti-sulla-questione-femminile-simona-segoloni-ruta

 

“Nell’Amazzonia un luogo teologico”.

Sogni, cose dette e cose non dette su “inculturazione” e “liturgia”

Esortazione Apostolica Postsinodale  Querida Amazonia  (QA)

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20200202_querida-amazonia.html

Il Sinodo sulla Amazzonia è stato una preziosa occasione in cui mettere alla prova, in loco, un modo di pensare il rapporto tra vangelo e cultura, che potrà valere, mutatis mutandis, per “ogni luogo”. Ciò significa precisamente non pretendere di applicare immediatamente altrove ciò che sarà pensato e sperimentato per il fiume e per la foresta, ma sapere che la fede parla, anche e sempre, a partire da questo o un altro fiume e da questa o un’altra foresta.

Dunque, non è contraddittorio sottolineare, anche con giusta insistenza, la “specialità” del Sinodo appena celebrato, e volerne trarre allo stesso tempo utili insegnamenti sul piano universale, riguardanti perciò ogni chiesa e ogni confessione di fede in Cristo. Il testo di QA dice questa cosa apertamente al n. 6, in modo quasi programmatico, come introduzione ai 4 sogni:

“Tutto ciò che la Chiesa offre deve incarnarsi in maniera originale in ciascun luogo del mondo, così che la Sposa di Cristo assuma volti multiformi che manifestino meglio l’inesauribile ricchezza della grazia. La predicazione deve incarnarsi, la spiritualità deve incarnarsi, le strutture della Chiesa devono incarnarsi. Per questo mi permetto umilmente, in questa breve Esortazione, di formulare quattro grandi sogni che l’Amazzonia mi ispira.” (QA 6)

I “volti multiformi” sono immagine della inesauribile ricchezza della grazia e il compito di “incarnazione” e di “inculturazione” viene assunto come orizzonte di metodo. E in questo senso viene valorizzato come criterio di fondo per “sognare”. Tutti e 4 i sogni riguardano, dunque, la possibilità di una società, di una cultura, di una cura per l’ambiente e anche di una comunità cristiana, che sia capace di valorizzare il Vangelo per la cultura e la cultura per il Vangelo. Il testo lo dice con queste parole: “Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici.” (QA 7)

Se dare alla Chiesa “nuovi volti con tratti amazzonici” è frutto di “incarnazione”, è evidente come la realtà del sogno debba passare, necessariamente, attraverso un “lavoro di inculturazione” in cui tutta la realtà ecclesiale viene coinvolta radicalmente. Perciò anche nei primi numeri dedicati al “quarto sogno”, al “sogno ecclesiale” (QA 61-69), questo aspetto viene sottolineato e si imposta il disegno con cui “sognare” la Chiesa in Amazzonia secondo questa prospettiva.

Non voglio ora analizzare tutto il seguito di questo IV capitolo, ma soltanto le conseguenze che tale impostazione ha sul tema della “inculturazione liturgica”. E vorrei farlo indicando 3 livelli di espressione:

a)       Il testo propositivo del Documento finale del Sinodo per l’Amazzonia (DF)

www.sinodoamazonico.va/content/sinodoamazonico/it/documenti/documento-finale-del-sinodo-per-l-amazzonia.html

b)      La riflessione trasognata di Querida Amazonia (QA)

c)       Il “non detto” dei testi e tra i testi, con tutta una serie di importanti conseguenze.

  1. 1.       La inculturazione liturgica nel DF. Il tema della “inculturazione liturgica” occupa, in DF, lo spazio di 4 numeri, che stanno subito prima della conclusione ed ha come titolo “Rito per i popoli originari”. La elaborazione di un “rito amazzonico” sarebbe il compito dell’organo attuativo del Sinodo (Organismo Ecclesiale Regionale Postsinodale per la regione amazzonica), di cui parla DF 115.

Rito per i popoli originari.

DF 116. Il Concilio Vaticano II ha aperto spazi per il pluralismo liturgico per le “legittime diversità e i legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli” (Sacrosanctum Concilium-SC 38).

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_it.html

In questo senso, la liturgia deve rispondere alla cultura perché sia fonte e culmine della vita cristiana (cfr. SC 10) e perché si senta collegata alle sofferenze e alle gioie del popolo. Dobbiamo dare una risposta autenticamente cattolica alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originali che includano la dimensione trascendente, comunitaria ed ecologica.

DF  117. Nella Chiesa cattolica ci sono 23 diversi Riti, segno evidente di una tradizione che fin dai primi secoli ha cercato di inculturare i contenuti della fede e la sua celebrazione attraverso un linguaggio il più possibile coerente con il mistero che si vuole esprimere. Tutte queste tradizioni hanno origine in funzione della missione della Chiesa: “Le Chiese di una stessa area geografica e culturale sono giunte a celebrare il Mistero di Cristo con espressioni particolari, culturalmente caratterizzate: nella tradizione del ‘deposito della fede’, nel simbolismo liturgico, nell’organizzazione della comunione fraterna, nella comprensione teologica dei misteri e in varie forme di santità” (Catechismo Chiesa Cattolica CCC 1202; cfr. anche CCC 1200-1206).

DF 118. È necessario che la Chiesa, nella sua instancabile opera evangelizzatrice, operi perché il processo di inculturazione della fede si esprima nelle forme più coerenti, affinché sia celebrato e vissuto anche secondo le lingue proprie dei popoli amazzonici. È urgente formare commissioni per la traduzione e la redazione di testi biblici e liturgici nelle lingue proprie dei diversi luoghi, con le risorse necessarie, preservando la materia dei sacramenti e adattandoli alla forma, senza perdere di vista l’essenziale. In questo senso è necessario incoraggiare la musica e il canto, il tutto accettato e incoraggiato dalla liturgia.

DF 119. Il nuovo organismo della Chiesa in Amazzonia deve costituire una commissione competente per studiare e dialogare, secondo gli usi e i costumi dei popoli ancestrali, in vista dell’elaborazione di un rito amazzonico che esprima il patrimonio liturgico, teologico, disciplinare e spirituale dell’Amazzonia, con particolare riferimento a quanto afferma la Lumen gentium per le Chiese orientali (cfr. LG 23).

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html

Questo si aggiungerebbe ai riti già presenti nella Chiesa, arricchendo l’opera di evangelizzazione, la capacità di esprimere la fede in una cultura propria, il senso di decentralizzazione e di collegialità che la cattolicità della Chiesa può esprimere. Si potrebbe anche studiare per proporre come arricchire i riti ecclesiali con il modo in cui questi popoli si prendono cura del loro territorio e si relazionano con le sue acque.

            Nell’orizzonte aperto dal Concilio Vaticano II, il compito di inculturazione liturgica appare senza possibili alternative. Il configurarsi di un “rito amazzonico” sarebbe il compito di una Commissione appositamente istituita dall’organo panamazzonico preposto alla esecuzione del Sinodo. Nell’orizzonte dei 23 riti già esistenti nella Chiesa cattolica, si dovrebbe un “ventiquattresimo” rito amazzonico, nel quale poter esprimere e comprendere la fede secondo le diverse cultura presenti in Amazzonia.

2. La inculturazione liturgica in QA. Se leggiamo ora QA, vediamo in quale misura in questo caso essa abbia recepito (sempre indirettamente) il dettato di DF e come lo abbia ripensato e ristrutturato. Ecco il testo, cui farò seguire il mio commento:

L’inculturazione della liturgia

QA 81. L’inculturazione della spiritualità cristiana nelle culture dei popoli originari trova nei Sacramenti una via di particolare valore, perché in essi si incontrano il divino e il cosmico, la grazia e il creato. In Amazzonia essi non dovrebbero essere intesi come una separazione rispetto al creato. Infatti, «sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale». Sono un compimento del creato, in cui la natura è elevata per essere luogo e strumento della grazia, per «abbracciare il mondo su un piano diverso».

QA 82. Nell’Eucaristia, Dio «al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia. […] [Essa] unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato». Per questo motivo può essere «motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato». Quindi «non fuggiamo dal mondo né neghiamo la natura quando vogliamo incontrarci con Dio». Questo ci consente di raccogliere nella liturgia molti elementi propri dell’esperienza degli indigeni nel loro intimo contatto con la natura e stimolare espressioni native in canti, danze, riti, gesti e simboli. Già il Concilio Vaticano II aveva richiesto questo sforzo di inculturazione della liturgia nei popoli indigeni, ma sono trascorsi più di cinquant’anni e abbiamo fatto pochi progressi in questa direzione.  

QA 83. Nella domenica «la spiritualità cristiana integra il valore del riposo e della festa. L’essere umano tende a ridurre il riposo contemplativo all’ambito dello sterile e dell’inutile, dimenticando che così si toglie all’opera che si compie la cosa più importante: il suo significato. Siamo chiamati a includere nel nostro operare una dimensione ricettiva e gratuita». I popoli originari conoscono questa gratuità e questo sano ozio contemplativo. Le nostre celebrazioni dovrebbero aiutarli a vivere questa esperienza nella liturgia domenicale e incontrare la luce della Parola e dell’Eucaristia che illumina le nostre vite concrete.

QA 84. I Sacramenti mostrano e comunicano il Dio vicino che viene con misericordia a guarire e fortificare i suoi figli. Pertanto devono essere accessibili, soprattutto ai poveri, e non devono mai essere negati per motivi di denaro. Neppure è ammissibile, di fronte ai poveri e ai dimenticati dell’Amazzonia, una disciplina che escluda e allontani, perché in questo modo essi alla fine vengono scartati da una Chiesa trasformata in dogana. Piuttosto, «nelle difficili situazioni che vivono le persone più bisognose, la Chiesa deve avere una cura speciale per comprendere, consolare, integrare, evitando di imporre loro una serie di norme come se fossero delle pietre, ottenendo con ciò l’effetto di farle sentire giudicate e abbandonate proprio da quella Madre che è chiamata a portare loro la misericordia di Dio». Per la Chiesa, la misericordia può diventare una mera espressione romantica se non si manifesta concretamente nell’impegno pastorale.

                    La meditazione sognante di papa Francesco riposa sicuramente sul testo di DF, ma utilizza, come schema di esposizione, le sequenze sulla liturgia di Laudato sì e alcuni spunti di Evangelii Gaudium. Viene addirittura rinforzata la prospettiva di un “rito amazzonico” da elaborare, sulla base di un giudizio piuttosto severo sul ritardo con cui sono stati fatti “pochi progressi” nella direzione chiaramente indicata dal Concilio. Sul piano dei sacramenti, della eucaristia e del riposo domenicale, la tradizione cristiana e la tradizione indigena possono trovare significative forme di reciproca illuminazione e conforto.

3. Il non detto dei (tra i) testi e le prospettive. Dall’esame dei due testi mi pare che si possano dedurre una serie di conseguenze, in parte lineari, in parte indirette, in parte totalmente aperte, su cui occorre trovare modo di agire e di decidere quanto prima, da chi è già indicato ora (o sarà indicato domani) come competente.

a)       Inculturare la procedura per un “rito amazzonico”. La inculturazione, ossia la concreta correlazione tra fede cristiana e cultura amazzonica, inizia sul piano “procedurale”: in che modo si dovrà procedere per costruire il nuovo rito? Il DF propone un percorso “in loco”, il cui obiettivo è la creazione di un “rito amazzonico”. QA non parla in alcun modo di procedure. Ma anche la categoria di “rito amazzonico”, ripresa in nota, sembra una forma breve, ma ancora molto vaga, di ciò che dovrebbe costituirsi. Se infatti sono 110 i popoli “isolati” che vivono nella foresta o ai margini delle città, come sarà possibile elaborare un “rito amazzonico comune”? Forse è possibile? Forse sarà necessario fissare alcuni “criteri comuni” perché le diverse diocesi o “regioni ecclesiastiche” possano elaborare riti adeguati ai loro fedeli? Forse il concetto di “rito amazzonico” è espressione già troppo “romana” – cioè troppo poco inculturata – per essere veramente utile al fine di assicurare un buon uso delle fonti. Rito amazzonico suonerà allora come “rito zairese”? Con la stessa incompiuta necessità di essere “inculturato nelle singole diocesi” del Congo?

b)      Incolturare il contenuto di un “rito amazzonico”. In secondo luogo, il ripensamento delle forme rituali del rito romano, ma fatte proprie ed elaborate dalle culture indigene, potranno riguardare la integralità della liturgia cristiana, o una sua parte, a seconda delle necessità. Sui singoli contenuti, nella diversità delle culture che dovranno e potranno mediare, sarà utile identificare non soltanto “variabili” all’interno della “classica forma romana”, ma forse anche strutture di inculturazione più profonde, in cui il ruolo della foresta o del fiume, della autorità o del movimento possano diventare riconoscibili e rilevanti in modo nuovo. Il dispositivo verbale – non solo il latino da tradurre, ma le lingue madri da recepire – e il dispositivo non verbale – non solo le sequenze, ma anche le soglie – dovranno rispondere alle attese e corrispondere alle funzioni. Non sarà cosa da poco.

c)       Inculturare i ministri di un “rito amazzonico”. Il terzo punto appare il più delicato e forse anche il più decisivo. Perché nel passaggio tra DF e QA questo punto ha subito il trattamento meno chiaro e più laconico. Non solo per via dei silenzi, ma per via di parole in parte profondamente dissonanti con il progetto. Come sarà possibile imparare davvero qualcosa dalla cultura della Amazzonia se il ruolo dei battezzati coniugati e il ruolo delle donne fosse compreso soltanto con le categorie del medioevo europeo? Come sarebbe possibile onorare il fiume e la foresta se mai pensassimo il ministro solo come maschio celibe in talare? Qui la questione non è imporre alla Amazzonia un “tema europeo” – come quello dei viri probati o del diaconato femminile – ma pensare la autorità dell’uomo coniugato o della donna autorevole secondo categorie non adeguate alla cultura amazzonica. Se è vero che “il rischio per gli evangelizzatori che arrivano in un luogo è credere di dover comunicare non solo il Vangelo ma anche la cultura in cui essi sono cresciuti, dimenticando che non si tratta di «imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica»” (QA 69), proprio qui, proprio sul progetto intorno alla inculturazione del ministro, il peso delle tare culturali classiche sembra singolarmente forte e il margine di autocritica e di revisione obiettivamente ancora troppo scarso.

Se l’Amazzonia viene giustamente definita “luogo teologico”, e lo si fa in modo effettivo, non in modo retorico e vuoto, questi tre punti meritano una accurata considerazione e una spedita soluzione. Se l’Amazzonia deve essere un “cantiere”, deve esserlo fino in fondo, ossia quanto alle procedure, quanto ai contenuti e quanto al ministero. Quanto più ciascuno di questi temi resterà in sospeso, indeciso o indeterminato, tanto più rischieremo di aver prodotto con finezza e competenza una serie di documenti di grande forza, con un impatto onirico assai alto, con una forza poetica impressionante, ma con un effetto concreto e un contenuto istituzionale che, in assenza di deliberazioni chiare e inequivocabili, rischierebbe ben presto di tendere a zero. E’ importante che non tutto sia deciso dal centro e che non tutto sia deciso dalla periferia. Ma il raccordo preciso tra quanto decide uno quanto decide l’altro sarà un piccolo e grande banco di prova di ciò che può significare, oggi, inculturazione: per l’Amazzonia come per tutti noi

                                               Andrea Grillo   blog Come se non       21 febbraio 2020        

www.cittadellaeditrice.com/munera/nell-amazzonia-un-luogo-teologico-qa-57-sogni-cose-dette-e-cose-non-dette-su-inculturazione-e-liturgia

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