UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 782 – 1 dicembre 2019
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02 ABUSI SUI MINORI Milano. Tutele dei minori, Livia Pomodoro referente diocesano
04 ACCOGLIENZA DEI PROFUGHI Corridoi umanitari: 113 profughi siriani. Dal 2016 entrati 3.000
05 AFFIDAMENTO CONDIVISO Diritto di visita? Decide il giudice di merito
07 AFFIDO Affidamento minori: il ruolo dei nonni
08 AUTORITÀ GARANTE INFANZIA Definire standard minimi per mense, asili nido, parchi, banca dati
09 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 44, 27 novembre 2019
10 CHIESA CATTOLICA La parola e il silenzio: 50 anni della Commissione Teologica
12 Divergenza con Wojtyla. Visione che privilegia Vangelo non i valori
12 Abusi nella Chiesa, il cardinale: “Non fui creduto sulle vittime”
13 CHIESE EVANGELICHE I Vangeli tra testimonianza e creazione letteraria
14 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL. Aprite le porte alla vita
15 CONSULTORI FAMILIARI La prima fotografia dell’ISS
16 A 40 anni dalla nascita: sintesi dei principali risultati.
18 Requisiti e standard di fabbisogno indicativi per i consultori
18 Il consultorio familiare ovvero un ferito ai margini della strada
20 CONSULTORI CATTOLICI Asti. Consultorio Baggio sportello di ascolto per chi è in difficoltà
20 CONSULTORI UCIPEM Bologna. Ritrovarsi. Un passo indispensabile: verso di me
21 Faenza. Corso di crescita interiore e comunicazione efficace
21 Lodi. Gruppo sulla genitorialità al Consultorio Ucipem
21 Pescara. Percorso per coppie che vivono la difficoltà di avere figli
22 Portogruaro. Report della Regione Veneto
22 COORDINAZIONE GENITORIALE La coordinazione genitoriale nel sistema italiano
24 DALLA NAVATA I Domenica di Avvento – Anno A – 1 dicembre 2019
24 Avvento è attesa: questo mondo ne porta un altro nel suo grembo
25DEMOGRAFIA ISTAT Natalità e fecondità della popolazione residente in Italia
26 La denatalità? E’ un sintomo della crisi del capitalismo
27 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Disarmare la pace
29 MATERNITÀ Dacia Maraini, nella maternità conta la cultura
30 MATRIMONI Gassani, “sempre più vecchi e in comune”
31 MIGRANTI Sono più di 3mila i tutori volontari per i minori stranieri
32 NONNI Lo statuto onto-giuridico della nonnità
36NULLITÀ MATRIMONIO Tradimento e vita da separati in casa non bastano per annullare
37 OMOFILIA Aids: colpisce solo gli omosessuali, una bufala dura a morire
38 PASTORALE «Ritroviamo il fascino del matrimonio in Chiesa»
39 PSICOLOGIA Nell’interdipendenza l’amore ci fa più belli
40 SESSUOLOGIA Relazioni di coppia. Sessualità in cerca di (nuovo) valore
41 TEOLOGIA La sostanza del ministero ordinato come problema sistematico.
43 G.L. su ordinazione delle donne: Non c’è posto x la discriminazione
45VIOLENZA Giornata violenza donne: micidiale divisione fra sesso e amore
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ABUSI SUI MINORI
Milano. Tutele dei minori, Livia Pomodoro referente diocesano
Livia Pomodoro, già presidente del Tribunale di Milano, è il referente diocesano per la Tutela dei minori designato dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini per il triennio 2019-2022. L’istituzione di questo nuovo incarico e la nomina di Pomodoro fanno parte «di un articolato percorso nel quale si inserisce anche la pubblicazione del documento Formazione e prevenzione.
www.chiesadimilano.it/referente-diocesano-per-la-tutela-dei-minori/news/formazione-e-prevenzione-343.html
Linee guida per la tutela dei minori elaborato nei mesi scorsi dalla Commissione diocesana per la Tutela dei minori, istituita in febbraio dall’arcivescovo Delpini», rende noto un comunicato della Chiesa ambrosiana, nel quale si annuncia come il documento sia stato «inviato personalmente a tutti i sacerdoti e i diaconi dell’arcidiocesi e ha come destinatari quanti a vario titolo sono impegnati nell’attività educativa, così da favorire una più vasta e capillare sensibilità sul drammatico e intollerabile fenomeno degli abusi».
Commissione_tutela_definitivo_coverinterno-1.pdf
«L’asservimento abusante dei minori è diabolico». No a ritardi e omissioni. Nel documento sono identificate le coordinate fondamentali della «formazione di base» alla relazione educativa, indirizzate a quanti, preti, consacrati e laici, svolgono funzioni educative in ambito ecclesiale, e sono messe, nero su bianco, le «linee operative per la tutela dei minori nella Chiesa ambrosiana». «La tutela dei minori – si legge nel documento diocesano – è l’impegno inderogabile e prioritario per la vita della Chiesa, la quale, mentre deve ordinariamente compiere ogni sforzo per prevenire gli abusi, deve prontamente intervenire nella cura di chi ne fosse coinvolto». Ritardi, incertezze, omertà, non sono ammissibili, scrive la Commissione. «L’asservimento abusante dei minori è diabolico; il loro servizio, accogliente e amorevole, è divino. Ai minori – ricorda il documento – Dio riserva una speciale e provvidente cura. Sui minori risplende luminoso il suo volto».
Un referente per le segnalazioni di abusi e «l’ascolto attento» delle vittime. Alla responsabilità di Livia Pomodoro, dunque, l’arcivescovo Delpini affida l’incarico di «referente diocesano per la Tutela dei minori». «Intendiamo avvalerci di tale realtà – si legge nel decreto di costituzione e nomina del referente, datato 23 novembre 2019 – per accogliere le segnalazioni relative a presunti abusi su minori, secondo adeguate modalità di contatto e per raccogliere gli elementi per una prima valutazione dell’Ordinario; chiediamo inoltre l’aiuto del Referente per l’assunzione delle scelte più idonee per l’accompagnamento delle vittime e degli abusatori». Il documento diocesano Formazione e prevenzione sottolinea «la determinazione del nostro arcivescovo di nominare un referente diocesano che abbia il compito di dedicarsi all’ascolto attento delle presunte vittime». In questo modo si intende dare recezione a «quanto autorevolmente indicato dal Papa, che nulla si ometta per accogliere ed accompagnare con empatica solidarietà chi sia stato ferito a causa di forme di abuso sessuale, di potere e di coscienza».
Con questa nomina, Pomodoro diviene membro di diritto del Servizio regionale per la Tutela dei minori e «si riferirà, per quanto previsto, al Servizio nazionale per la Tutela dei minori». Nata in Puglia, Livia Pomodoro è ormai milanese d’adozione, avendo svolto quasi l’intero percorso professionale nel capoluogo lombardo. Gran parte della sua attività, inoltre, è stata proprio sul fronte dei minori, come presidente del Tribunale dei minorenni di Milano.
Il referente diocesano non opererà in solitudine. Disporrà di «adeguate figure di collaborazione operativa» e «potrà avvalersi di un’équipe di esperti», della quale fanno parte la psicologa Nicoletta Pirovano e il canonista monsignor Desiderio Vajani. L’ufficio del referente, spiega il comunicato diffuso dalla diocesi, «è accessibile su appuntamento attraverso l’apposito form “Referente diocesano per la tutela dei minori” presente sul portale www.chiesadimilano.it». Nello svolgimento dei suoi compiti, il referente diocesano «terrà conto delle competenze affidate alla Commissione diocesana per la Tutela dei minori con decreto arcivescovile in data 11 febbraio 2019».
Il documento «Formazione e prevenzione», primo frutto del lavoro della Commissione. La Commissione diocesana per la Tutela dei minori, voluta dall’arcivescovo Delpini, è presieduta dal vicario generale, il vescovo ausiliare Franco Agnesi, ed è formata da persone con esperienze e competenze molteplici – pastorali, teologiche, canonistiche, giuridiche, psicologiche, psichiatriche, pedagogiche ed altre ancora. Primo frutto del lavoro della Commissione è il documento diocesano Formazione e prevenzione. Linee guida per la tutela dei minori, la cui elaborazione e diffusione – assieme all’istituzione e nomina del referente diocesano – rientra in un articolato processo di recezione delle indicazioni offerte dal magistero papale e dai più autorevoli documenti ecclesiali – a partire dal motu proprio di papa Francesco Vos estis lux mundi, del 7 maggio 2019,
www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html
e dalle nuove Linee guida per la Tutela dei minori della Chiesa italiana pubblicate il 24 giugno 2019.
Linee-guida-per-la-tutela-dei-minori-e-delle-persone-vulnerabili.pdf
Dal Vangelo la «incondizionata e inappellabile condanna» di ogni abuso. Il documento è costituito da tre capitoli. Nel primo si offre l’inquadramento evangelico della questione. Il richiamo è al cosiddetto «discorso ecclesiale» di Gesù, al capitolo 18 del Vangelo di Matteo. Un discorso che «sorprende e impressiona per la sua attualità: riguarda, infatti, l’abuso di potere dei grandi sui piccoli». Un passo inquietante e incandescente. «La Parola di Dio, mentre attesta la realistica inevitabilità degli scandali, dichiara la loro assoluta intollerabilità. La condanna dell’abuso di potere, di coscienza e sessuale è incondizionata, inappellabile». Una Parola che chiama la Chiesa alla conversione e a «non ammettere alcun ritardo e incertezza» in materia di prevenzione dell’abuso dei minori. Con la pronta, massima sollecitudine per la cura delle vittime – alle quali «la Chiesa può e deve chiedere perdono qualora non abbia tutelato un minore e addirittura abbia coperto chi l’abbia abusato», perdono che tuttavia «non può pretendere di ricevere» – non deve mancare l’impegno per la «cura dei colpevoli». Nella sua riflessione sul brano evangelico la Commissione indica con chiarezza i due peccati «che feriscono mortalmente la comunione ecclesiale e pongono pertanto fuori della Chiesa: l’abuso nei confronti dei minori e il rifiuto del perdono al peccatore pentito». Dunque l’abuso (sessuale, di coscienza e di potere) sui minori va denunciato e punito, ma al contempo non è possibile negare il perdono al peccatore veramente pentito, che è tale soltanto assumendosi responsabilità e relative sanzioni sul piano penale, civile e canonico.
La «formazione di base» per la «prevenzione remota» del rischio di abusi. Il secondo capitolo del documento è dedicato alla formazione di base necessaria per gli operatori pastorali coinvolti nell’educazione dei minori e «va considerata remota prevenzione al rischio dell’insorgere di condotte abusanti». Dal Seminario alla Formazione permanente del clero, dalla Fondazione oratori milanesi ai formatori alla vita religiosa maschile e femminile, dalle scuole cattoliche ai movimenti ecclesiali alle associazioni educative, culturali, caritative e sportive di ispirazione cristiana, tutti sono chiamati a fare la loro parte, sia sul piano della formazione di base, sia sul piano dell’indispensabile aggiornamento. In queste pagine, fra le altre cose, sono messe a fuoco le dimensioni fondamentali di una formazione di base al compito e alla relazione educativa – l’orizzonte ecclesiale e il suo mandato, lo stile del servizio evangelico, l’attitudine alla collaborazione e alla corresponsabilità – e i contenuti imprescindibili di tale formazione – che riguardano: la dimensione del potere/responsabilità; i confini invalicabili della relazione educativa; la maturità sessuale dell’educatore; il rapporto riservatezza-trasparenza. Un passaggio importante: nemmeno la necessità di «sopperire a gravi necessità organizzative giustifica l’affrettare i tempi affidando responsabilità a persone che non sono ancora pronte per assumerle».
Le «linee operative» per la tutela dei minori nella Chiesa ambrosiana. Nel terzo capitolo sono indicate le linee operative alle quali ogni istituzione e ogni educatore in diocesi devono attenersi. L’obiettivo: rendere evidenti quali siano i comportamenti coerenti o incoerenti rispetto alla missione della Chiesa; offrire garanzie a chi affida i minori alla comunità cristiana. In queste pagine si ricorda come «si considerano equiparati ai minori gli adulti in particolari situazioni di fragilità». L’abuso fisico, l’abuso emotivo, l’abuso sessuale e «la trascuratezza o negligenza» sono i «possibili danni da evitare ai minori» nello «svolgimento delle attività ecclesiali». Ecco, dunque, l’identificazione dettagliata degli impegni da assumere, dei criteri di scelta di quanti si occupano di minori, delle caratteristiche che devono avere gli ambienti ecclesiali frequentati da minori, della necessità di identificare in ogni attività «le figure di responsabilità» e avere il consenso dei genitori allo svolgimento delle attività con minori, alle cautele riguardo alle azioni da compiere o da evitare nello svolgimento delle attività con i minori.
Azioni da compiere, azioni da evitare. La terza parte di queste linee guida entra dunque più in dettaglio nelle azioni che sono parte integrante di un sano rapporto educativo e quelle che invece sono «da evitare». «Esse appariranno del tutto scontate a chi si attiene a una sana e corretta condotta con i minori – scrive la Commissione – in quanto identificano solo i comportamenti più macroscopici che devono essere promossi o evitati. Si vogliono pertanto evidenziare quali sono le condotte più rilevanti nel rapporto con i minori che devono essere perseguite con passione e impegno o che devono essere attentamente evitate».
E così tra le «azioni da compiere» troviamo «trattare i minori con eguale rispetto evitando distinzioni particolari»; «evitare un comportamento che possa essere recepito come inappropriato, offensivo e abusante per il minore nel linguaggio, nei gesti e negli sguardi»; «rispettare la sfera delle riservatezza e intimità del minore»; «vigilare sulle condotte tra minori evitando episodi di bullismo»; «informare e confrontarsi con le famiglie circa qualsiasi espressione di disagio manifestata».
Segue poi l’elenco delle «azioni da evitare»: colpire o abusare fisicamente un minore; abusarne psicologicamente; porre in essere comportamenti che siano di cattivo esempio; avere qualsiasi forma di interesse o attività sessuale con un minore; avere con un minore una comunicazione privata attraverso l’uso dei social e anche di invitare il minore a tenere segreto questa comunicazione; svolgere attività all’interno di una abitazione privata in assenza di altri adulti, ma anche in luoghi pubblici che abbiano spazi non visibili e appartati; dormire senza altri adulti nella stessa stanza con uno o più minori (si pensi alle gite, ai pellegrinaggi o ai campi estivi); tollerare o partecipare a comportamenti di minori che siano illegali, abusivi o che mettano in pericolo la loro sicurezza; provvedere a gesti di cura della persona o a qualsiasi attività di carattere personale che il minore potrebbe svolgere in autonomia (il lavarsi, vestirsi e spogliarsi per un cambio di abito). Uno spazio specifico è dedicato alle «cautele» nell’«uso degli strumenti tecnologici», di internet e dei social. In coda al documento è pubblicato il «modulo di adesione all’impegno per la tutela dei minori da parte degli educatori»
Enrico Lenzi e Lorenzo Rosoli Avvenire lunedì 25 novembre 2019
www.avvenire.it/chiesa/pagine/tutele-dei-minori-livia-pomodoro-referente-diocesano
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ACCOGLIENZA DEI PROFUGHI
Corridoi umanitari: a Roma 113 profughi siriani dal Libano. Dal 2016 entrati 3.000 in Europa
Con i 113 profughi siriani arrivati oggi a Roma dal Libano sono 3.000 le persone che hanno avuto la possibilità di entrare in Italia, Francia e Belgio tramite i corridoi umanitari dal 2016 ad oggi. Una cifra che comprende sia i protocolli promossi da Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese, sia quelli firmati dalla Conferenza episcopale italiana, che agisce tramite Caritas e Migrantes. Una collaborazione fattiva tra società civile e i ministeri dell’Interno e degli Esteri. Stamattina all’aeroporto di Fiumicino i 113 sono entrati grazie al progetto totalmente autofinanziato dalla raccolta fondi di Sant’Egidio e dall’8‰ delle Chiese valdese e metodiste, con la partecipazione dell’Unione buddista europea, che ha portato finora in Italia oltre 1.800 persone. Tra i nuovi arrivi c’erano decine di bambini, famiglie intere, ragazzi con disabilità.
Andranno in piccoli e grandi centri come Genova, Sorrento, Vico Equense, Sassari, Roma, Formia, Cattolica, Napoli, Padova, Genova, Pontassieve, Luserna, Pinerolo Fossano, Butrio, Pisa, Pesaro, Reggio Calabria, Trento. Saranno accolti da associazioni, parrocchie, comunità, diaconia valdese e famiglie. Studieranno la lingua italiana, i bambini andranno a scuola e una volta ottenuto lo status di rifugiato saranno inseriti nel mondo del lavoro. L’obiettivo è la piena integrazione nella società italiana. E’ l’alternativa concreta, legale e sicura, ai pericolosi viaggi in mare nelle mani dei trafficanti.
Mustafà, di Aleppo, rivede dopo 12 anni la famiglia della sorella. Ad attendere la sorella, arrivata con il marito e tre figli, che non vedeva da dodici anni, c’è Mustafà. 29 anni, occhi azzurri, sorriso aperto e un italiano perfetto con lieve cadenza sarda. Non immagineresti che è siriano di Aleppo. E’ arrivato in Italia con il padre, con visto regolare, prima dell’inizio della guerra. Ora vive in un appartamento con una fidanzata italiana e lavora nell’assistenza agli anziani. Il resto della famiglia è rimasto invece intrappolato nel conflitto. La sorella Amani, 34 anni, è fuggita con il marito e i figli in Libano, il Paese con la più alta incidenza di rifugiati al mondo, e ha sperimentato la dura vita dei profughi. Mustafà è emozionatissimo, i suoi occhi brillano di gioia. E’ venuto a Fiumicino insieme alla coppia sarda che lo affianca da anni, insieme alla Caritas di Sassari. “Sono la mia seconda famiglia”. Due sue nipotine non ce la fanno ad attendere l’ingresso ufficiale ad uso di fotografi e telecamere e sgattaiolano prima attraverso lo spiraglio della porta per abbracciarlo. Un abbraccio lunghissimo, come gli anni che li hanno separati. Poi arriva la sorella, la commozione è intensa. E’ provata dall’esilio e dalle sofferenze ma “ora siamo di nuovo insieme”, dice Mustafà, non smettendo di ringraziare tutti. Gli occhi sono più azzurri che mai, il futuro promette una vita in pace, a Sassari.
Bushra, 26 anni, in Italia da sola. Bushra ha solo 26 anni e ha già visto tanto nella sua vita. E’ fuggita da sola dalla guerra in Siria non ancora ventenne. A Beirut è riuscita a continuare gli studi all’università, poi è stata raggiunta dal fratello. La famiglia è ancora in Siria. “In Libano facevo volontariato con organizzazioni nazionali ed internazionali a sostegno e supporto della comunità siriana – racconta -. Ad un certo punto mi sono resa conto che la situazione per noi siriani stava degenerando e sono stata costretta a chiedere aiuto ai corridoi umanitari”. La sua destinazione è Padova. “So solo che andrò a vivere con altre ragazze. Ora finalmente mi sento al sicuro”.
Una Italia che apre le porte. “Oggi arrivate in una Italia che apre le porte – ha detto Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio –. Siamo molto preoccupati perché la guerra in Siria non finisce. Vogliamo che la nostra preghiera diventi una forma di accoglienza”. Tremila persone fatte entrare legalmente in Europa, ha aggiunto, “non sono piccoli numeri. Sono grandi numeri, perché la vita di ognuno vale tantissimo”. Christiane Groeben, vice presidente della Fcei [Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia], ha ricordato il primo ingresso dei corridoi umanitari nel febbraio 2016: “Solo allora ho capito che questo progetto funziona davvero”.
Il 10 dicembre prossimo la Fcei sarà al Parlamento europeo per chiedere di aprire dei corridoi umanitari europei dalla Libia. “L’Europa è ferma – ha osservato – e non sembra capire l’urgenza di quanto sta accadendo. Ce lo ricordano i morti di Lampedusa, ultime vittime della lentezza europea. La nostra coscienza non può accettare questa strage silenziosa”. Per Donatella Candura, viceprefetto del Ministero dell’Interno, si tratta “di un grande lavoro di squadra”. La pastora Thesie Mueller della Tavola valdese, ha riferito che il Sinodo valdese “ha dato il mandato di rinnovare ancora i corridoi umanitari e di continuare l’impegno di salvataggio in mare”.
Sono in corso trattative con i ministeri dell’Interno e degli Esteri per la firma di un nuovo protocollo. “Quando ci è stata data l’opportunità di sostenere il progetto non abbiamo esitato ad aderire”, ha concluso Stefano Bettera, vicepresidente dell’Unione buddista europea.
Patrizia Caiffa Agenzia SIR 27 novembre 2019
http://m.agensir.it/italia/2019/11/27/corridoi-umanitari-a-roma-113-profughi-siriani-dal-libano-dal-2016-entrati-3-000-in-europa
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AFFIDAMENTO CONDIVISO
Diritto di visita? Decide il giudice di merito
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 24937, 7 ottobre 2019.
Collocamento e calendario di visita: come decide il giudice in caso di separazione tra coniugi. Quando i genitori si separano senza trovare un accordo sull’affidamento dei figli, a decidere è il giudice. Le regole valgono sia per le coppie sposate che per quelle di conviventi. Il tribunale dovrà stabilire sia l’affidamento che la collocazione dei minori.
Quando si parla di affidamento ci si riferisce ai poteri di scelta nelle questioni più importanti per la vita dei figli, che spettano sia al padre che alla madre. Il «collocamento», invece, attiene alla semplice residenza, al luogo ove i figli andranno abitualmente a vivere.
Ebbene, se l’affidamento è, di norma, «condiviso» da entrambi i genitori (sicché, tutti e due avranno diritto di adottare le scelte inerenti all’istruzione, crescita, educazione e salute dei bambini), il collocamento è abitualmente fissato presso la madre, tenendo tuttavia conto delle preferenze espresse dal minore (che, da 12 anni in su, deve essere obbligatoriamente sentito).
Lo scontro attiene spesso ai giorni di visita del genitore non collocatario: quando questi può vedere i bambini, prenderli da scuola, farli dormire da sé? Non esistono regole: tutto è rimesso alla decisione del giudice che, fermo restando la necessità di contemperare i diritti e doveri dei genitori, deve comunque privilegiare l’interesse superiore dei minori. Sorge quindi il problema dell’affidamento condiviso e dei giorni in cui viene esercitato il diritto alle visite: insomma, il cosiddetto calendario.
Di solito, si tiene innanzitutto conto dell’età del bambino, del lavoro del genitore non collocatario e della distanza tra questi e il genitore invece collocatario. Ad esempio, tanto più è piccolo il bambino, tanto più è ridotto il diritto di visita del padre, proprio per dare la possibilità alla madre dell’allattamento e delle cure che i neonati necessitano. Al crescere dell’età aumenteranno anche i tempi di permanenza presso l’altro genitore.
Collocamento dei figli. Il Codice civile prevede che il giudice debba stabilire i tempi e le modalità della presenza dei figli minori presso ciascun genitore. Si tratta di una norma di amplissima elasticità motivata dal fatto che ogni caso sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria rappresenta un caso a se stante. Come diremo in seguito, l’affidamento condiviso non impone e non prevede, ai fini della sua attuazione pratica, una matematica suddivisione dei tempi di permanenza del minore con ciascun genitore.
Anche se il figlio minorenne ha il diritto di trascorrere tempi di durata sostanzialmente analoga con ciascun genitore, è evidente che ciò che deve essere salvaguardata e perseguita è soprattutto la qualità del tempo rispetto alla quantità. I genitori possono liberamente accordarsi per la collocazione e il diritto di visita del figlio. La soluzione in assoluto più diffusa nella prassi prevede che il figlio o i figli minori risiedano in prevalenza presso l’abitazione del genitore ritenuto più idoneo: questo genitore è detto “collocatario“.
Ben si può avere un affidamento condiviso del minore e, nello stesso tempo, la sua collocazione prevalente e residenza presso uno solo dei genitori. Il collocamento prevalente è quello che garantisce maggiormente l’interesse esclusivo del minore perché il continuo e periodico cambiamento della collocazione e della gestione del quotidiano provoca nel minore la perdita di punti di riferimento stabili.
Tempo di permanenza dei figli presso i genitori separati. Di recente, la Cassazione ha ricordato che affido condiviso non significa pari tempo con i genitori. Non si può pensare di far vivere un bambino con una valigia sempre in mano, costringendolo a restare “senza fissa dimora”. La sua residenza abituale e principale resta quella del genitore collocatario – la madre – fermo restando il diritto dell’altro genitore di mantenere solidi legami con questi. Alla fine dei conti, il tempo non viene diviso paritariamente con la forbice: 50% all’uno, 50% all’altro. C’è infatti da tenere conto della scuola, delle ore per fare i compiti, lo sport e le attività post scolastiche. C’è poi il sonno chiaramente. Tutto ciò deve avvenire nel rispetto della stabilità mentale e psicologica del bambino. Il residuo tempo libero sarà diviso tra i genitori. Questo è il senso del rispetto dei pari diritti tra i genitori.
L’affido condiviso non equivale all’affido paritario, non ci deve essere una perfetta ripartizione di tempi con entrambi i genitori: il giudice può stabilire un regime secondo cui il figlio rimane con il genitore collocatario per un tempo ben superiore rispetto all’altro, senza per questo violare i principi dell’affido condiviso, che non presuppone necessariamente, come da prassi ampiamente consolidata, tempi uguali o simili di permanenza del figlio con entrambi i genitori. Tali concetti sono stati espressi più volte dalla giurisprudenza. Da ultimo, con una recente ordinanza la Cassazione ha ribadito che l’affido condiviso non vuol dire trascorrere il medesimo tempo con entrambi i genitori. La regola, infatti, non esclude che il figlio possa essere collocato prevalentemente presso uno dei due genitori con uno specifico regime di visita per l’altro. Ed è il giudice a stabilire in concreto le modalità di esercizio del diritto di visita sempre nel rispetto dell’esclusivo interesse del minore.
Preliminarmente, osservano i giudici «che la regola dell’affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori non esclude che il minore sia collocato presso uno dei genitori e che sia stabilito uno specifico regime di visita con l’altro genitore» [Cass. n. 22219/18; n. 18131/2913]. Peraltro, affermano, «attiene al potere del giudice di merito stabilire le concrete modalità di esercizio del diritto di visita, che non sono sindacabili nelle loro specifiche articolazioni nel giudizio di legittimità, ove è invece possibile sollevare censure solo – laddove lo stesso – si sia ispirato, nel disciplinare le frequentazioni del genitore non convivente con il minore, a criteri diversi da quello fondamentale dell’esclusivo interesse del minore».
Insomma, non ci sono giorni prestabiliti e predefiniti in cui il figlio debba stare con il padre o con la madre: se non c’è accordo tra i due, è il giudice a definirli secondo l’interesse e l’età del bambino, i suoi impegni scolastici e non. Di solito, al padre viene assegnata la possibilità di vedere il figlio dalle 2 alle 3 volte a settimana, con weekend e festività alternate.
Qual è il genitore collocatario. L’individuazione del genitore collocatario – ossia presso cui i figli andranno a vivere – deve avvenire all’esito di un giudizio volto a valutare solo l’interesse morale e materiale della prole, in merito alle capacità dei genitori di crescere ed educare il figlio nella nuova situazione determinata dalla disgregazione dell’unione, tenendo conto, in base a elementi concreti, del modo in cui il padre e la madre hanno in precedenza svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, attenzione, comprensione, educazione e disponibilità a un assiduo rapporto, nonché della personalità di ciascun genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore.
Calendario visita dei figli. Con il collocamento prevalente si devono stabilire tempi e modalità di frequentazione dei figli minori da parte del genitore non collocatario, al fine di garantire rapporti equilibrati e costanti con entrambi i genitori. Di regola l’accordo di separazione o la sentenza del giudice (con congrua motivazione) specifica quando il genitore non collocatario può ospitare o incontrare i figli, quando essi devono trasferirsi presso la sua abitazione, con quale dei genitori i figli devono passare festività o vacanze. Come detto, è il tribunale – in assenza di accordo tra i genitori – a definire i calendari di visite. Difficilmente, si potrà stabilire un obbligo di frequentazione quotidiano, che potrebbe comportare una forte destabilizzazione fisica e psicologica per il ragazzo, oltre alle conseguenze che ciò avrebbe sul suo studio.
Un’altra decisione, relativa alle frequentazioni e ai tempi di permanenza del minore di tenera età con il genitore non collocatario, ha individuato nel compimento dei 4 anni una sorta di spartiacque ai fini di determinare la tempistica, precisando che prima di quell’età i periodi di permanenza possano essere limitati a causa anche delle abitudini di vita del minore, per potere essere ampliati dopo il compimento del quarto anno [Cass. 9 gennaio 2014 n. 273].
La legge per tutti 25 novembre 2019
Ordinanza www.laleggepertutti.it/341184_affidamento-condiviso-giorni
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AFFIDO
Affidamento del minore: il ruolo dei nonni
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 28257, 4 novembre 2019
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_36441_1.pdf
Nello svolgimento del giudizio sull’adeguatezza, o meno, del familiare prescelto quale affidatario in via temporanea del minore, il giudice di merito deve valorizzare le figure vicarianti inter-familiari, ad esempio i nonni. In particolare, deve soffermarsi sul loro contributo al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine, criterio guida di ogni scelta in materia di affido, anche temporaneo, dei minori.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, pronunciandosi su una vicenda di affidamento di tre minori in un ambiente protetto etero familiare, stante la ritenuta adeguatezza delle competenze dei genitori e nonni paterni. In particolare, l’allontanamento dei ragazzini era stato disposto a causa delle violenze subite dai genitori. Nemmeno i nonni erano ritenuti adeguati a prendersi cura dei piccoli stante l’età avanzata, l’atteggiamento di giustificazione della condotta violenta del figlio, il ricorso del nonno a metodi educativi violenti rispetto a uno dei nipoti e l’atteggiamento fortemente critico della nonna con la madre dei minori.
In Cassazione, i nonni contestano questi elementi e ritengono che il giudice a quo non abbia effettuato un’accurata valutazione sulla loro idoneità nel rendersi affidatari dei minori, nonostante costoro fossero già stati designati in precedenza quali affidatari dal sindaco del Comune. In particolare, rammentano come i nonni facciano parte del cerchio parentale più ristretto e deputato, come tale, allo svolgimento del percorso di recupero del ruolo genitoriale.
L’affido temporaneo etero-familiare, rammentano i giudici, rappresenta una misura offerta al bambino che versa in difficoltà, determinate dalla malattia di un genitore, isolamento sociale, trascuratezza, fenomeni di violenza fisica e psichica, relazioni disfunzionali, e quindi in casi che, temporaneamente, possono ostacolare la funzione educativa o la convivenza tra genitore e figlio. L’affido temporaneo etero-familiare è dunque un intervento “ponte”, destinato a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare all’esercizio della responsabilità genitoriale e a porsi in funzione strumentale alla tutela riconosciuta, con carattere prioritario, dall’ordinamento al diritto del minore a crescere nella propria famiglia d’origine.
La misura rientra tra i provvedimenti convenienti per l’interesse del minore, di cui all’art. 333 c.c., in quanto volta a superare la condotta pregiudizievole di uno o di entrambi i genitori, senza dar luogo alla pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale,
L’affidamento ai membri della famiglia allargata. Dunque, ben può declinarsi nelle forme dell’affidamento interfamiliare, ovverosia ai membri della cosiddetta “famiglia allargata”, nell’esigenza, prioritaria, di evitare al minore, insieme al trauma conseguente all’allontanamento dai genitori, quello di vedersi deprivato del contesto familiare in cui è cresciuto. Dunque, ove l’affido etero-familiare abbia un’apprezzabile distensione temporale che rifugga, come tale, dal definire una situazione di stretta urgenza, emerge l’esigenza di non allentare il legame del minore con la famiglia di origine, di cui i nonni sono chiara espressione. Si tratta di una conclusione strumentale alla tutela del diritto, finale e personalissimo, del minore a crescere nella famiglia naturale a salvaguardia del suo sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico
Affidamento minori: va valorizzato il ruolo dei nonni. Pertanto, conclude la Corte, il giudizio e l’eventuale istruttoria che il giudice di merito è tenuto a svolgere in ordine all’adeguatezza, o meno, del familiare prescelto quale affidatario in via temporanea, ai sensi dell’art. 333 c.p.c., a soddisfare le esigenze del minore e a salvaguardarne il sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, va accuratamente svolto, valorizzando delle figure vicarianti interfamiliari il contributo al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine che è criterio guida di ogni scelta in materia di affido, anche temporaneo, dei minori.
Il decreto impugnato non ha fatto applicazione di tale principio, in quanto, nel negare l’affido temporaneo ai nonni dei minori, ha valorizzato evidenze in fatto che in nessun modo ha posto in valutazione, per saggiarne la resistenza, rispetto al diritto dei minori a crescere e a permanere nella famiglia di origine, anche allargata a figure vicarianti, al fine di non allentare, seppure temporaneamente, i legami con la stessa.
Lucia Izzo Studio Cataldi 17 novembre 2019
www.studiocataldi.it/articoli/36441-affidamento-del-minore-il-ruolo-dei-nonni.asp
La Corte di Cassazione ha precisato che “Il giudizio e l’eventuale istruttoria da svolgersi dal giudice del merito in ordine all’adeguatezza, o meno, del familiare prescelto quale affidatario in via temporanea, ai sensi dell’articolo 333 c.pc., a soddisfare le esigenze del minore ed a salvaguardarne il sano ed equilibrato sviluppo psico-fisico, va accuratamente svolto, valorizzando delle figure vicarianti inter-familiari il contributo al mantenimento del rapporto con la famiglia di origine che è criterio guida di ogni scelta in materia di affido, anche temporaneo, dei minori“.
Secondo la Corte, dunque, è necessaria una valutazione preliminare dei familiari dei minori, nella fattispecie i nonni, rispetto alla valutazione in ordine all’affidamento etero – familiare. La priorità che l’ordinamento deve sempre considerare è il diritto del minore a crescere nella propria famiglia d’origine (in senso più’ ampio, sul ruolo dei nonni nei percorsi di affido e frequentazione dei minori.
- In tema di adozione vd. Cass. n. 23979 del 24/11/2015;
- In tema di rapporti con il minore, ex articolo 317-bis c.c., vd. Cass. n. 19780 del 25/07/2018.
Newsletter AIAF Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori.
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AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI
Definire standard minimi uguali tra regioni per mense, asili nido, parchi inclusivi, banca dati
In occasione del trentennale della Convenzione di New York l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza (Agia) ha pubblicato la proposta di individuazione di quattro livelli essenziali delle prestazioni (LEP) per i diritti di bambini e ragazzi “I livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali delle persone di minore età”. Riguardano mense scolastiche e asili nido – da concepire non più come servizi a domanda individuale ma come un diritto per tutti – parchi inclusivi e accessibili e una banca dati per la disabilità. In Italia l’accesso a tali servizi per l’infanzia cambia tra territori. Andrebbero garantiti, secondo l’Agia, quanto meno standard minimi uguali per tutti. Secondo la Costituzione tale risultato può essere raggiunto attraverso la definizione di LEP. La proposta sarà inviata al Governo, Parlamento e altri soggetti interessati.
“Definire un livello essenziale – afferma la Garante Filomena Albano – significa rendere effettive le prestazioni su tutto il territorio nazionale e garantire la presenza uniforme di servizi che rispondono alle esigenze primarie dei minorenni, in attuazione del principio di pari opportunità previsto dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Presentare nel mese del trentennale questa proposta è un modo per dare concretezza alla celebrazione. Tale iniziativa non deve, però, essere considerata un punto di arrivo, bensì l’inizio di un percorso che porti quanto prima alla piena attuazione dei diritti di bambini e ragazzi e, allo stesso tempo, conduca alla definizione in futuro di ulteriori LEP”. È la legge istitutiva dell’Autorità garante che ha attribuito all’Agia il compito di formulare osservazioni e proposte per l’individuazione dei LEP, attività questa già avviata nel 2015 con la realizzazione di un primo documento.
La proposta di LEP dell’Autorità garante – realizzata in collaborazione con Irs (Istituto di ricerca sociale) – è stato presentato alle amministrazioni, ai rappresentanti sindacali e dell’associazionismo, che sono stati coinvolti in qualità di stakeholder, nella sua definizione. Si tratta del ministero del lavoro e politiche sociali, di quello dell’interno, di quello della giustizia, di quello della salute, del Miur, del Mibact, del MEF, Dipartimento per le pari opportunità, del Dipartimento per le politiche della famiglia, dei rappresentanti di Anci, dell’ISTAT e dei sindacati confederali (CGL, CISL e UIL), dei membri della Consulta nazionale delle associazioni e delle organizzazioni dell’Agia, nonché dei referenti della rete di associazioni “Batti il 5!”.
- La pubblicazione è NEL dal sito dell’Autorità nella sezione Stampa e comunicazione/Pubblicazioni.
www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/lep-web.pdf
- La scheda illustrativa delle proposte di definizione dei LEP
www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/26-11-2011-livelli-essenziali-prestazioni-schede.pdf
Comunicato stampa AGIA Roma, 26 novembre 2
www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/26-11-2011-livelli-essenziali-prestazioni.pdf
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – N. 44, 27 novembre 2019
v Google sa tutto! Tutto da ascoltare, questo divertente colloquio telefonico, dove una “persona normale” vuole ordinare una pizza, ma facendo il consueto numero di telefono della sua solita pizzeria si trova a fare i conti con un risponditore Google, che sa tutto, ma proprio tutto, su di lui, sui suoi gusti alimentari, ma anche su tante altre questioni personali – altro che privacy! Qui Google rappresenta solo la punta dell’iceberg di una società digitalizzata che pare riuscire a sapere tutto di noi, senza limiti e 25 barriere www.youtube.com/watch?v=IiELwhnxYAA
v Matrimoni e famiglia secondo l’Istat. Un preciso intervento di Pietro Boffi (Cisf) su Famiglia Cristiana on line. Più prime nozze, ci si sposa sempre più tardi, aumentano le unioni civili, un bambino su tre non ha i genitori coniugati. Come vanno interpretati questi e altri dati, pubblicati dall’Istat, relativi ai matrimoni celebrati nel 2018?
www.famigliacristiana.it/articolo/matrimoni-e-famiglia-l-sorpasso-delle-unioni-civili-si-quele-religiose.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_27_11_2019
v Genitori sempre, oltre la separazione. Il ruolo peculiare del padre nell’educare i figli e introdurli alla vita. http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf4419_allegato1.pdf
Il Cisf volentieri partecipa (F. Belletti) al convegno per celebrare i trent’anni di vita dell’Associazione “Famiglie Separate Cristiane”, realtà attiva in ambito pastorale e sociale. L’associazione ha saputo rispondere fin dall’inizio, con grande capacità profetica, all’esigenza delle persone separate di poter disporre di un luogo di aggregazione, di accompagnamento spirituale e materiale, di rappresentanza e di voce nel dibattito pubblico (anche grazie alla partecipazione al Forum delle associazioni familiari).
v Family international monitor. Notizie dal mondo. E’ stata pubblicata nei giorni scorsi la Newsletter n. 7 “Inside Families” dell’Osservatorio Internazionale sulla Famiglia (Family International Monitor), un progetto realizzato grazie alla collaborazione tra Cisf, la cattedra Gaudium et Spes del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia e UCAM (Università Cattolica di Murcia, Spagna).
[link per ricevere la Newsletter] https://static.wixstatic.com/ugd/e2c551_ada439e58ada466a963a4161ec9adf82.pdf
Tutti i materiali redazionali della Newsletter sono disponibili in inglese, spagnolo e italiano. L’editoriale della Newsletter n. 7 è stato curato dal Prof. Gilfredo Marengo, Direttore della cattedra Gaudium et Spes, sul tema: “La famiglia testimone della forza salvifica della povertà“
https://static.wixstatic.com/ugd/e2c551_ada439e58ada466a963a4161ec9adf82.pdf
v Regno unito (UK). Modelli sperimentali per servizi residenziali aperti per anziani. “Il vecchio modello delle case di cura istituzionalizzate sta perdendo terreno a favore di “luoghi dell’invecchiamento” che permettano agli ospiti di poter continuare a partecipare alla vita della comunità locale, favorendo l’integrazione degli ospiti. Un nuovo movimento per gli alloggi si rifà ai canoni abitativi degli ospizi del X secolo, offrendo abitazioni protette dall’esterno, ma indipendenti, che spesso si affacciano su un cortile circolare comune. Il tutto per un affitto non economico ma abbordabile. Molti offrono collegamenti diretti con il mondo esterno e varie attività di carattere sociale”
http://www.centrostudi.50epiu.it/Schede/the_solution_to_ageing_britains_housing_crisis_build_almshouses?fbclid=IwAR2s3b5fGhfwHcLSunoszQ8TZa8LyQQz-k0UP2ljgzKGO2kOvmOyt_B92sw
v Roma. Concorso fotografico ACLI 2019. In che lavoro siamo?! Al via la V edizione del Concorso Fotosocial 2019. Per il quinto anno consecutivo si rinnova l’appuntamento con il concorso, promosso dalle ACLI di Roma in collaborazione con il Circolo ACLI Pietra su Pietra, con il supporto tecnico dell’associazione Graffiti. Quest’anno il tema è “In che lavoro siamo?” una questione aperta per intraprendere, attraverso gli scatti dei partecipanti, un viaggio a 360° attorno al mondo del lavoro. Il Concorso è aperto a fotografi professionisti, non professionisti e instant. Per partecipare basterà postare la propria foto sulla pagina ufficiale dell’evento di Facebook o sul proprio profilo Instagram, seguita dagli ashtag: #FotoSocialRoma, #AcliRoma, #InCheLavoroSiamo oppure inviarla via email all’indirizzo comunicazioneacliroma@gmail.com. Le foto verranno valutate e giudicate da una Giuria di esperti.
www.acliroma.it/fotosocial-201
v ISTAT. Rapporto “Conciliazione tra lavoro e famiglia”. “Nel 2018 12 milioni 746 mila persone tra i 18 e i 64 anni (34,6%) si prendono cura dei figli minori di 15 anni o di parenti malati, disabili o anziani. Tra queste, quasi 650 mila si occupano contemporaneamente sia dei figli minori sia di altri familiari. […] Padri e madri riportano problemi di conciliazione in ugual misura. Sono però soprattutto le donne ad aver modificato qualche aspetto della propria attività lavorativa per meglio combinare il lavoro con le esigenze di cura dei figli: il 38,3% delle madri occupate, oltre un milione, ha dichiarato di aver apportato un cambiamento, contro poco più di mezzo milione di padri (11,9%). […] Poco meno di un terzo dei nuclei familiari con figli minori usa i servizi, mentre il 38% conta sull’aiuto di familiari, soprattutto dei nonni, oppure di amici”. Rapporto di estremo interesse e ricco di dati.
www.istat.it/it/files//2019/11/Report-Conciliazione-lavoro-e-famiglia.pdf
v Trento – Festival della Famiglia 2019, 2-7 dicembre 2019. L’appuntamento è diventato un punto di riferimento a livello nazionale per le politiche familiari in Italia, a partire dalla 1° edizione, tenutasi nel 2012, anno di approvazione del 1° Piano Nazionale sulla Famiglia (documento tuttora valido, ma ampiamente inattuato), http://famiglia.governo.it/media/1334/piano-famiglia-definitivo-7-giugno-2012-def.pdf
ma anche nel pieno della crisi economica globale, e nel vivo di forti politiche di “austerità”, che hanno poi generato forti delusioni, proprio rispetto alla reale attuazione del Piano stesso, da parte dei Governi a venire. E oggi la situazione non pare certo migliorata. “Durante il Festival 2019 saranno confrontate e discusse, attraverso una ricca proposta di seminari, le politiche di contrasto alla denatalità adottate in diversi contesti europei, dal sostegno al reddito per le famiglie con figli al potenziamento della filiera dei servizi di conciliazione vita-lavoro, dalle politiche per i giovani di supporto alla transizione all’età adulta alle politiche del lavoro e della casa”. Il titolo del Festival 2019 è: Denatalità: emergenza demografica, culturale ed economica. Quali gli impatti e quali le politiche di contrasto efficaci?
www.trentinofamiglia.it/News-eventi/Eventi-annuali-dell-Agenzia/Festival-della-famiglia-2019
v Dalle case editrici http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf4419_allegatolibri.pdf
- Marcianum Press, Il limite. La condizione dell’educazione, Casaschi C, (a cura di)
- Marietti 1820, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Ferrarotti F.
- San Paolo, Che bello il mondo! Ma che fatica per mamma e papà, Bottani M.
- Charon Rita, Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti, Raffaello Cortina, Milano, 2019, pp. 296, € 25,00.
Come integrare le storie dei pazienti nella pratica clinica? Come arricchire le evidenze e l’oggettività della scienza medica con il vissuto e le emozioni individuali? In un saggio che è ormai un classico, l’autrice risponde a queste domande mettendo la narrazione al servizio della medicina, per farci scoprire il potere del racconto nelle relazioni terapeutiche. Attraverso la lettura e la scrittura, infatti, si possono sviluppare quelle capacità di ascolto e di attenzione necessarie non solo per arrivare a diagnosi più adeguate e a terapie più condivise, ma anche per prendersi cura davvero di chi soffre, in contrasto con un sistema sanitario che sembra anteporre le preoccupazioni aziendali e burocratiche ai bisogni delle persone. Con esempi tratti dalla pratica clinica e dalla letteratura, con un impianto teorico solido e multidisciplinare, il volume ci mostra in che modo si possa sviluppare un contatto empatico con il paziente, per una medicina più umana, etica ed efficace.
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
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CHIESA CATTOLICA
La parola e il silenzio: 50 anni della Commissione Teologica Internazionale
Per la occasione dell’anniversario dei 50 anni della Commissione Teologica Internazionale, due testi, di papa Francesco e di Joseph Ratzinger, Vescovo emerito di Roma, nel commemorare l’evento, hanno toccato alcuni punti sensibili della visione cattolica circa la relazione tra teologia e magistero. Credo sia utile passare in rassegna alcune affermazioni importanti dei due brevi documenti.
La teologia del magistero e il magistero della teologia. Come aveva scritto la stessa Commissione Teologica, in un documento del 2012 (Commissione Teologica Internazionale, Teologia oggi: prospettive, principi e criteri), “, tra magistero e teologia vi è una relazione strutturale. Anzi la stessa teologia esercita un “magistero della cattedra magistrale”, che collabora strutturalmente con il “magistero della cattedra pastorale”.
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_doc_20111129_teologia-oggi_it.html
C’è dunque una missione “generatrice” dei teologi, che non deve essere mai sottovalutata: “Avete, nei confronti del Vangelo, una missione generatrice: siete chiamati a far venire alla luce il Vangelo. Infatti vi ponete in ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alle Chiese nelle diverse culture per portare alla luce aspetti sempre nuovi dell’inesauribile mistero di Cristo, in cui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3). E poi aiutate i primi passi del Vangelo: ne preparate le vie, traducendo la fede per l’uomo d’oggi, in modo che ciascuno possa sentirla più vicina e sentirsi abbracciato dalla Chiesa, preso per mano lì dove si trova, e accompagnato a gustare la dolcezza del kerigma e la sua intramontabile novità. A questo è chiamata la teologia: non è disquisizione cattedratica sulla vita, ma incarnazione della fede nella vita” (Francesco, Discorso alla CTI).
Questo compito di “traduzione della fede” è costitutivo della missione della Chiesa e chiede competenza, studio audacia e insieme pazienza. Le virtù del teologo mettono alla prova il suo lavoro e lo rendono talora anche assai difficile. Ma resta un passaggio di cui la Chiesa, e il magistero pastorale, non può fare a meno. Con queste parole Francesco sottolinea il valore esemplare del lavoro teologico, che sia svolto alla luce di due principi: “La Commissione adempirà la propria vocazione di essere anche modello e stimolo per quanti – laici e clero, uomini e donne – desiderano dedicarsi alla teologia. Perché solo una teologia bella, che abbia il respiro del Vangelo e non si accontenti di essere soltanto funzionale, attira. E per fare una buona teologia non bisogna mai dimenticare due dimensioni per essa costitutive. La prima è la vita spirituale: solo nella preghiera umile e costante, nell’apertura allo Spirito si può intendere e tradurre il Verbo e fare la volontà del Padre. La teologia nasce e cresce in ginocchio! La seconda dimensione è la vita ecclesiale: sentire nella Chiesa e con la Chiesa, secondo la formula di sant’Alberto Magno: «In dulcedine societatis, quærere veritatem» (nella dolcezza della fraternità, cercare la verità). Non si fa teologia da individui, ma nella comunità, al servizio di tutti, per diffondere il gusto buono del Vangelo ai fratelli e alle sorelle del proprio tempo, sempre con dolcezza e rispetto”. (Francesco, Discorso alla CTI)
La comprensione dello “scandalo”: la parola e il silenzio. Se possibile, Francesco ha ancor più accentuato questa vocazione, chiedendo di “rischiare nella discussione”. Ha però delimitato questo “rischio” alle “questioni tra i teologi”, sottolineando che al popolo va riservato il “pasto solido della fede”. Ecco il testo del papa: “E vorrei ribadire alla fine una cosa che vi ho detto: il teologo deve andare avanti, deve studiare su ciò che va oltre; deve anche affrontare le cose che non sono chiare e rischiare nella discussione. Questo però fra i teologi. Ma al popolo di Dio bisogna dare il “pasto” solido della fede, non alimentare il popolo di Dio con questioni disputate. La dimensione di relativismo, diciamo così, che sempre ci sarà nella discussione, rimanga tra i teologi – è la vostra vocazione -, ma mai portare questo al popolo, perché allora il popolo perde l’orientamento e perde la fede. Al popolo, sempre il pasto solido che alimenta la fede” (Francesco, Discorso alla CTI).
La degenerazione conflittuale del dibattito teologico, in effetti, costituisce un pericolo sempre aperto e assai rischioso. D’altra parte, bisogna anche riconoscere, che non sempre il caso si presenta secondo la descrizione offerta dal discorso papale. Talora, infatti, è il popolo ad avere le questioni, e la teologia tarda, indugia, esita a recepirle. Per questo non è azzardato ampliare questa visione con una ulteriore avvertenza. E lo direi così:
- Vi è il caso in cui le problematiche teologiche, che si sviluppano “tra esperti”, debbono conservare quella riservatezza che può essere sciolta solo quando la soluzione è guadagnata ed assunta, consigliando il “silenzio pubblico” come strategia professionale ed ecclesiale da preferire;
- Vi è il caso in cui le questioni più urgenti vengono già dal popolo, si impongono in modo diretto alla attenzione comune, preoccupano i cuori e le vite, e la teologia, proprio perché tace, determina lo scandalo e il disorientamento comunitario.
Direi, pertanto, che c’è uno scandalo della parola, ma vi è anche uno scandalo del silenzio: non è deciso, una volta per tutte, neppure per il teologo, se sia più prudente tacere o parlare. In alcuni casi una parola troppo audace può essere davvero motivo di scandalo e di disorientamento. Ma in altri casi è proprio un silenzio che non si rompe a creare scandalo, disagio, disorientamento. E’ vero, infatti, che in certi casi sono i teologi a “portare le questioni” al popolo. Ma in altri casi è il popolo a portare le questioni ai teologi, i quali sono tenuti a parlare, e non possono tacere.
Per dirlo con una bella formula, coniata dal teologo Eberhard Jüngel, “il teologo deve offrire chiarimenti e salvare i fenomeni”. Ci sono casi in cui il fenomeno può essere salvato solo nella misura in cui lo si sa chiarire in modo nuovo. Proprio il “lavoro teologico” che papa Francesco continuamente svolge su diversi “fronti caldi” – il matrimonio, l’ecumenismo, le istituzioni di governo, il dialogo interreligioso – dimostra come le questioni, più che poste dai teologi, sono poste dai fenomeni, e si impongono “comunitariamente”: guai a tacerne!
Una “nota” sul diaconato femminile: la storia e la dottrina. Con singolare “tempismo”, per la medesima occasione, anche J. Ratzinger, con la sua esperienza ecclesiale e magisteriale, ha scritto un “Indirizzo di saluto” alla CTI, nel quale, oltre a molte annotazioni autobiografiche, ha allegato, nella prima nota del breve testo, una considerazione che deve essere ritenuta preziosa proprio in ordine alle questioni del rapporto tra teologia e magistero.
www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20191022_saluto-bxvi-50ann-cti_it.html
Eccone il testo, che si riferisce ad un documento prodotto dalla CTI a proposito del “conferimento alle donne del diaconato femminile”: “Un’eccezione è costituita in certo qual modo dal documento sul diaconato pubblicato nel 2003, elaborato su incarico della Congregazione per la Dottrina della Fede e che doveva fornire un orientamento riguardo alla questione del Diaconato, in particolare riguardo alla questione se questo ministero sacramentale potesse essere conferito anche alle donne. Il documento, elaborato con grande cura, non giunse a un risultato univoco riguardo a un eventuale Diaconato alle donne. Si decise di sottoporre la questione ai Patriarchi delle Chiese orientali, dei quali tuttavia solo molto pochi risposero. Si vide che la questione posta, in quanto tale, era di difficile comprensione per la tradizione della Chiesa orientale. Così quest’ampio studio si concludeva con l’asserzione che la prospettiva puramente storica non consentiva di giungere ad alcuna certezza definitiva. In ultima analisi, la questione doveva essere decisa sul piano dottrinale” (Joseph Ratzinger, Vescovo emerito di Roma, Indirizzo di saluto, nota 1).
Le brevi annotazioni qui riportate segnalano, con molta chiarezza, un compito teologico inaggirabile: sul diaconato femminile la storia non è in grado di condurre ad un “risultato univoco”. Riconoscere che la questione si pone, essenzialmente, sul piano sistematico e dottrinale significa che in essa la Chiesa può e deve far uso della propria autorità, con la prudenza della audacia. Non può spostare sul passato la responsabilità che la riguarda nel suo presente e nel suo futuro. Anche su questo fronte la collaborazione tra magistero magistrale e magistero pastorale non solo è possibile, ma è necessaria. Perché il riconoscimento magistrale della autorità permetta alla autorità pastorale di assumere decisioni nuove. In questo caso, se lo si guarda dalla parte giusta, l’ostinarsi nel silenzio apparirebbe molto più imprudente e scandaloso di una lungimirante presa di parola.
Andrea Grillo blog: Come se non 30 novembre 2019
www.cittadellaeditrice.com/munera/la-parola-e-il-silenzio-50-anni-della-commissione-teologica-internazionale
La divergenza con Wojtyla. Una visione che privilegia il Vangelo non i «valori»
La fine del blocco sovietico venne accolta con gioia, ma anche come uno stimolo al rinnovamento della Chiesa dall’arcivescovo di Milano cardinale Carlo Maria Martini, presidente all’epoca del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa con sede a San Gallo, in Svizzera. Lo dimostrano gli interventi inediti rinvenuti nell’Archivio storico diocesano di Milano da Francesca Perugi, che sta preparando una tesi di dottorato, con il professor Gian Luca Potestà, presso il dipartimento di Scienze religiose dell’Università Cattolica, fondato mezzo secolo fa. «Nei suoi discorsi all’incontro con i vescovi dell’Est tenuto a Vienna nella primavera del 1990 — osserva la studiosa — Martini mette in guardia contro il pericolo di affrontare una fase nuova riproponendo modelli del passato. Qui emerge una divergenza con papa Giovanni Paolo II, per il quale la nuova evangelizzazione di cui l’Europa aveva bisogno, di fronte al dilagare del materialismo consumista, poteva ispirarsi all’esempio delle Chiese dell’Est, che avevano resistito vittoriosamente all’ateismo comunista. Invece Martini è convinto che la secolarizzazione di tipo occidentale prenderà piede anche nei Paesi dell’Est liberati dal giogo sovietico. Quindi, a suo avviso, occorre “evitare di rincorrere ideali impossibili” come quello di un cattolicesimo egemonico: alla Chiesa spetta invece il compito di trovare modi adeguati per annunciare il messaggio evangelico “in un mondo tecnicizzato e complesso”».
La questione torna in un appunto inedito che Martini scrive a mano durante il Sinodo speciale per l’Europa riunito a Roma dal 28 novembre al 14 dicembre 1991: «L’Europa — vi si legge — non è solo una storia di valori da ricostruire! È un’area provvidenziale in cui il primato va dato ai Vangeli, non ai valori. Solo partendo dal primato del Vangelo si potrà dire che si mettono a posto anche i valori!».
Antonio Carioti in “Corriere della Sera” del 30 novembre 2019
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201911/191130cairoti.pdf
Abusi nella Chiesa, il cardinale: “Non fui creduto sulle vittime”. E corregge Ratzinger
Sul dramma della pedofilia nella Chiesa i panni sporchi non si lavano più in casa. Anche a costo d’impallinare il decano del collegio cardinalizio e persino di correggere pubblicamente il Papa emerito. Che il clima in tema di abusi sui minori sia cambiato all’interno del popolo di Dio lo si evince una volta di più dall’ultima lezione dell’arcivescovo di Vienna, Cristoph Schoenborn, tenuta all’ateneo della capitale austriaca. Nell’occasione il cardinale, fra i più autorevoli interpreti del riformismo pastorale bergogliano, ha raccontato lo scontro da lui avuto nel 1998 con l’allora segretario di Stato vaticano, l’oggi 92enne Angelo Sodano, proprio sugli orchi in abito talare.
Non è un mistero che fra i due porporati si sia consumata una diatriba, ma mai prima d’ora erano stati resi noti i dettagli dell’accesso confronto. “Sulle vittime di pedofilia Sodano non mi ha creduto“, ha detto chiaro e tondo Schoenborn nel suo intervento di 50 minuti. Per capire i contorni della pesante accusa occorre tornare indietro nel tempo, per l’esattezza al 1995, anno in cui l’arcivescovo austriaco incontrò alcune persone che sostenevano di essere state abusate in tenera età dal suo predecessore, il cardinale Hans Hermann Groer, che, travolto dalle accuse, era stato costretto a dimettersi. Ai danni dell’alto prelato non venne mai emessa alcuna condanna per il semplice motivo che gli episodi contestati nel frattempo erano caduti in prescrizione. Sta di fatto che il giornalista Hubertus Czernin, nel suo libro inchiesta Das Buch Groer, ha scritto di 2.000 bambini e ragazzi violentati dal porporato scomparso nel 2003.
Nei tre anni seguiti alla sua nomina sulla cattedra di Vienna, Schoenborn, lo ha ricordato lui stesso nel corso della lezione, ascoltò le testimonianze di numerose potenziali vittime di Groer. Ne rimase profondamente scosso, soprattutto si convinse della veridicità dei loro racconti al punto che, a marzo 1998, insieme con altri tre vescovi connazionali, dichiarò pubblicamente di essere giunto alla “certezza morale” che le accuse contro l’emerito erano “sostanzialmente” corrette. Pochi mesi più tardi, l’episcopato austriaco stilò un rapporto indirizzato al Papa nel quale si criticava il modo in cui la Chiesa aveva accolto le denunce contro Groer. Il documento venne consegnato a Giovanni Paolo II nel corso della canonica visita ad limina. È in questo contesto che avvenne il burrascoso dialogo fra Schoenborn e Sodano. Che il primo ha dettagliato così all’università: “Anche io non sono stato creduto sulla pedofilia nella mia controversia con il cardinale Sodano. Lui mi ha letteralmente detto in faccia: ‘Vittime? Questo è quello che dici tu!’”. A surriscaldare gli animi in quel frangente aveva contribuito anche il vescovo Kurt Krenn di Sankt Poelten. Il presule accusò direttamente gli altri membri dell’episcopato austriaco di mentire sul caso Groer. Da notare che anche Krenn nel 2004 sarà costretto a cedere il testimone per un altro scandalo pedofila. Quello scoppiato nel seminario diocesano dove diversi sacerdoti furono accusati di aver scaricato online video pedopornografici, nonché d’intrattenere relazioni omosessuali. Episodi tutti derubricati dal vescovo alla voce “stupide ragazzate”.
Intanto lo scontro fra Schoenborn e Sodano era destinato ad avere un’appendice. Stavolta nel 2010, l’anno in cui il cardinale italiano, durante le celebrazioni pasquali in piazza San Pietro, arrivò ad affermare che le informazioni sugli abusi sui minori nella Chiesa erano solo “un chiacchiericcio”. Davvero troppo per Schoenborn che poco più tardi, in un incontro riservato con i giornalisti, reso pubblico suo malgrado, definì le parole di Sodano “una pesante offesa per le vittime”. La fuga di notizia gli costò una convocazione in Santa Sede da parte di papa Benedetto XVI. Nell’occasione il cardinale, alla presenza dello stesso Sodano e del nuovo segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, sostanzialmente fu costretto ad esprimere il suo “dispiacere” per l’eco suscitata dalla sua dichiarazione che avrebbe dovuto restare off the record.
Anche questo episodio deve aver portato al raffreddamento dei suoi rapporti con Benedetto XVI, per lungo tempo suo mentore. Già studente del futuro Pontefice, Schoenborn, presule domenicano dalla formazione conservatrice abbinata a un’apprezzata capacità di mediazione (la si è vista anche al recente Sinodo panamazzonico) e a un progressivo slancio pastorale, in passato ha contribuito a curare l’ultima edizione del Catechismo della Chiesa cattolica, sotto la direzione di quel Ratzinger che più volte lo ha incoronato suo “figlio spirituale”. In pochi pertanto si sarebbero aspettati dal cardinale una così franca, pubblica correzione del Papa emerito. E invece, durante la lectio all’Università di Vienna, Schoenborn è voluto tornare sul recente, controverso scritto di Benedetto XVI (lo stile ha sollevato dubbi sulla paternità del testo) dedicato alle cause della diffusione della pedofilia nella Chiesa.
“Il Pontefice emerito ha approntato una diagnosi, che non voglio criticare – ha detto l’arcivescovo di Vienna -, ma voglio solo correggere citando alcune cifre. Benedetto XVI è dell’opinione che l’abuso sessuale clericale ha le sue origini nel movimento del 1968. Le cifre per l’Austria mostrano un’immagine del tutto differente”. In particolare nel paese alpino il 60% dei casi si sarebbe consumato fra il 1940 e il 1969. Come si spiega questo dato? “Nei sistemi chiusi l’abuso avviene molto più frequentemente che in quelli aperti”, ha spiegato Schoenborn, prendendo così le distanze dal sistema ecclesiale antecedente al Concilio Vaticano II, apertosi nel ‘62 e chiusosi tre anni più tardi.
Giovanni Panettiere quotidiano. Net 30 novembre 2019
www.quotidiano.net/esteri/abusi-chiesa-1.4913846
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CHIESE EVANGELICHE
I Vangeli tra testimonianza e creazione letteraria
Corrado Augias, giornalista e conduttore televisivo, e uno scrittore estremamente prolifico, di vasti interessi. Tra questi vi è una indubbia attenzione al fenomeno religioso, tanto che, lui ateo, ha già dedicato diversi libri al Nuovo Testamento. Ricordiamo per esempio: Inchiesta su Gesù, insieme al prof. Mauro Pesce. Questo format, che prevede un esperto che viene intervistato e incalzato da Augias, evidentemente si è dimostrato di successo, perché ricompare anche nell’ultima fatica del nostro autore.
Questa volta, nel libro Il grande romanzo dei Vangeli, viene affiancato da Giovanni Filoramo, professore di Storia del Cristianesimo, e affronta quella vasta platea formata dai personaggi, singoli o collettivi, che attorniano la figura centrale di Gesù. Tra i personaggi singoli abbiamo così Maria, Giuseppe, la Maddalena e altri; mentre tra i personaggi collettivi abbiamo la folla, il Sinedrio, o anche i monti. Da dove nasce questa scelta? Augias afferma che questi personaggi, nel corso del tempo, sono stati come cristallizzati dalla lettura tradizionale e rinchiusi in una funzione di simboli, perdendo in tal modo la loro umanità.
Prendendo quindi lo spunto da un’affermazione dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, secondo cui i testi sacri sono un ramo della letteratura fantastica, Augias prova a raccontare questi personaggi quasi fossero protagonisti di un dramma o di un romanzo. Ma per far questo occorre cercare di comprenderli nel loro ambiente e a ciò provvede lo storico Filoramo con precisione e anche con una certa leggerezza di stile. La domanda che il credente si pone è se sia legittima la lettura dei Vangeli che li equipara alla letteratura fantastica, o se non rischi di renderli irrilevanti per la vita e per la fede, riducendoli al pari di un qualsiasi romanzo, per quanto appassionante.
Va detto che ormai da quasi un secolo si riflette sulla natura dei quattro Evangeli e sul “Gesù storico” e, come spesso succede, il pendolo della discussione oscilla tra l’accettazione o la negazione del loro valore storico. La realtà sta probabilmente nel mezzo, nel senso che la tradizione su cui gli evangelisti fondano il loro racconto è molto solida. Ma è anche vero che gli evangelisti non sono dei cronisti neutri: ciò che essi vogliono fare e dare testimonianza del Risorto, raccontando di lui anche prima della croce. E lo fanno con il linguaggio e lo stile degli storici del loro tempo. Questo spiega certe parole che vengono riportate e che l’evangelista non può certo aver ascoltato, come a esempio il Magnificat cantato da Maria in Luca 1, 40ss., o anche certi racconti che ci lasciano perplessi, ma che hanno una forte valenza teologica. Ma spiega anche certi silenzi, incomprensibili per il lettore moderno, come quello riguardante la figura di Giuseppe.
Si tratta di curiosità a cui tentarono di rispondere, maldestramente, alcuni scritti posteriori e di fronte alle quali anche Augias deve fermarsi. La ragione sta nel fatto che simili problemi che appassionano un lettore del XX secolo, sono semplicemente irrilevanti per gli evangelisti, i quali guardano a un’altra realtà. Quella, appunto, del Cristo risorto. È questo il nodo: è certamente legittimo leggere i Vangeli come documenti letterari o storici, ma il loro valore e il loro significato sta nel fatto che essi indicano un evento, la resurrezione di Gesù, che non è classificabile con gli strumenti della ricerca storica perché si pone al di là della storia e fonda una storia nuova (Jürgen. Moltmann, *1926). Ora, i nostri due autori con la loro opera accompagnano il lettore attraverso un percorso certamente non facile. E lo fanno con serietà e con partecipazione fornendo al lettore italiano, spesso digiuno di conoscenze bibliche, degli strumenti per farsi una propria opinione e, speriamo, per trovare il gusto di procedere oltre nella ricerca.
Paolo Ribet “Riforma”, settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi. 29 novembre 2019
https://riforma.it/it/articolo/2019/11/26/i-vangeli-tra-testimonianza-e-creazione-letteraria
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Aprite le porte alla vita
Nel documento in vista della celebrazione della prossima Giornata Nazionale per la Vita, in calendario per il 2 febbraio 2020, il rifiuto di «ogni forma di aborto, abbandono, maltrattamento e abuso» e l’invito a promuovere «l’uguale dignità di ogni persona».
In allegato il testo, firmato dal Consiglio Episcopale Permanente, suddiviso in tre paragrafi: “desiderio di una vita sensata”, “dalla riconoscenza alla cura”, “ospitare l’imprevedibile”.
In 41 edizioni (quella del 2020 sarà la 42ª) il tema della vita, è stato declinato dalle più diverse angolature. Basta scorrere i titoli delle Giornate per rendersene conto.
Si è parlato del ruolo della madre (“Madre e figlio, unica via da accogliere”, 1981); del problema del lavoro (“Territorio e lavoro al servizio della vita”, 1983); della pace (“Quale pace se non salviamo ogni vita”, 1987); di famiglia (“La famiglia tempio della vita”, 1994); di paternità (“Paternità e maternità, dono e impegno”, 1999); di denatalità (“Senza figli non c’è futuro”, 2004); di sofferenza (“La forza della vita nella sofferenza”, 2009), di crisi economica (“Generare la vita vince la crisi”, 2013). E nel 2017 è stata ricordata anche Madre Teresa di Calcutta.
Comunicato stampa CEI 28 novembre 2019
www.chiesacattolica.it/aprite-le-porte-alla-vita
Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per 42ª Giornata Nazionale per la Vita. 2 febbraio 2020
Aprite le porte alla Vita
- Desiderio di vita sensata. 1. “Che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?” (Mt 19,16). La domanda che il giovane rivolge a Gesù ce la poniamo tutti, anche se non sempre la lasciamo affiorare con chiarezza: rimane sommersa dalle preoccupazioni quotidiane. Nell’anelito di quell’uomo traspare il desiderio di trovare un senso convincente all’esistenza.
Gesù ascolta la domanda, l’accoglie e risponde: “Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti” (v. 17). La risposta introduce un cambiamento – da avere a entrare – che comporta un capovolgimento radicale dello sguardo: la vita non è un oggetto da possedere o un manufatto da produrre, è piuttosto una promessa di bene, a cui possiamo partecipare, decidendo di aprirle le porte. Così la vita nel tempo è segno della vita eterna, che dice la destinazione verso cui siamo incamminati.
- Dalla riconoscenza alla cura. È solo vivendo in prima persona questa esperienza che la logica della nostra esistenza può cambiare e spalancare le porte a ogni vita che nasce. Per questo papa Francesco ci dice: “L’appartenenza originaria alla carne precede e rende possibile ogni ulteriore consapevolezza e riflessione”. All’inizio c’è lo stupore. Tutto nasce dalla meraviglia e poi pian piano ci si rende conto che non siamo l’origine di noi stessi. “Possiamo solo diventare consapevoli di essere in vita una volta che già l’abbiamo ricevuta, prima di ogni nostra intenzione e decisione. Vivere significa necessariamente essere figli, accolti e curati, anche se talvolta in modo inadeguato”.
È vero. Non tutti fanno l’esperienza di essere accolti da coloro che li hanno generati: numerose sono le forme di aborto, di abbandono, di maltrattamento e di abuso. Davanti a queste azioni disumane ogni persona prova un senso di ribellione o di vergogna. Dietro a questi sentimenti si nasconde l’attesa delusa e tradita, ma può fiorire anche la speranza radicale di far fruttare i talenti ricevuti (cfr. Mt 25, 16-30). Solo così si può diventare responsabili verso gli altri e “gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita, e che ha consentito ad essa di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri”.
Se diventiamo consapevoli e riconoscenti della porta che ci è stata aperta, e di cui la nostra carne, con le sue relazioni e incontri, è testimonianza, potremo aprire la porta agli altri viventi. Nasce da qui l’impegno di custodire e proteggere la vita umana dall’inizio fino al suo naturale termine e di combattere ogni forma di violazione della dignità, anche quando è in gioco la tecnologia o l’economia. La cura del corpo, in questo modo, non cade nell’idolatria o nel ripiegamento su noi stessi, ma diventa la porta che ci apre a uno sguardo rinnovato sul mondo intero: i rapporti con gli altri e il creato.
- Ospitare l’imprevedibile. 3. Sarà lasciandoci coinvolgere e partecipando con gratitudine a questa esperienza che potremo andare oltre quella chiusura che si manifesta nella nostra società ad ogni livello. Incrementando la fiducia, la solidarietà e l’ospitalità reciproca potremo spalancare le porte ad ogni novità e resistere alla tentazione di arrendersi alle varie forme di eutanasia.
L’ospitalità della vita è una legge fondamentale: siamo stati ospitati per imparare ad ospitare. Ogni situazione che incontriamo ci confronta con una differenza che va riconosciuta e valorizzata, non eliminata, anche se può scompaginare i nostri equilibri. È questa l’unica via attraverso cui, dal seme che muore, possono nascere e maturare i frutti (cf Gv 12,24). È l’unica via perché la uguale dignità di ogni persona possa essere rispettata e promossa, anche là dove si manifesta più vulnerabile e fragile. Qui infatti emerge con chiarezza che non è possibile vivere se non riconoscendoci affidati gli uni agli altri. Il frutto del Vangelo è la fraternità.
www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2019/11/28/Messaggio-Giornata-Vita-2020.docx
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CONSULTORI FAMILIARI
Consultori familiari, la prima fotografia dell’ISS
Legge n. 405, 29 luglio 1975, integrata da art.3 L. n. 40, 19 febbraio 2004, citata L. n. 194, 22 maggio 1978
www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=25554
Nel nostro Paese ci sono troppo pochi consultori familiari rispetto ai bisogni della popolazione (1 consultorio ogni 35.000 abitanti sebbene siano raccomandati nel numero di 1 ogni 20.000).
È questo uno dei dati emersi dall’indagine su 1.800 consultori italiani condotta tra novembre 2018 e luglio[GM1] 2019 nell’ambito del progetto CCM “Analisi delle attività della rete dei consultori familiari per una rivalutazione del loro ruolo con riferimento anche alle problematiche relative all’endometriosi” finanziato e promosso dal Ministero della Salute e coordinato dal Reparto Salute della Donna e dell’Età Evolutiva dell’ISS.
I servizi offerti. Oltre il 98% dei consultori partecipanti all’indagine (1.535 su 1800, di cui 622 al Nord, 382 al Centro e 531 al Sud) lavorano nell’ambito della salute della donna. Più del 75% si occupano di sessualità, contraccezione, percorso IVG, salute preconcezionale, percorso nascita, malattie sessualmente trasmissibili, screening oncologici e menopausa e post menopausa.
L’81% dei consultori (1.226, di cui 504 al Nord, 224 al Centro e 498 al Sud) offrono servizi nell’area coppia, famiglia e giovani e gli argomenti più trattati sono la contraccezione, la sessualità e la salute riproduttiva, le infezioni/malattie sessualmente trasmissibili e il disagio relazionale.
Tra i consultori che hanno svolto attività nelle scuole il tema più frequentemente trattato è l’educazione affettiva e sessuale (il 94%), seguito dagli stili di vita, dal bullismo e dal cyberbullismo.
Le figure professionali. Il ginecologo, l’ostetrica, lo psicologo e l’assistente sociale sono le figure professionali più rappresentate nei consultori, con una grande variabilità in termini di organico tra le Regioni. Infatti, prendendo a indicatore il numero medio di ore lavorative settimanali per 20.000 abitanti previste per le diverse figure professionali per rispondere al mandato istituzionale, solo 5 Regioni del Nord raggiungono lo standard atteso per la figura dell’ostetrica, 2 per il ginecologo, 6 per lo psicologo e nessuna per l’assistente sociale che al Sud registra un numero medio di ore settimanali (14) che è quasi il doppio rispetto al Centro (8 ore) e al Nord (9 ore).
Il ruolo dei consultori per la tutela e la promozione della salute. Da questa prima analisi i consultori risultano un servizio unico per la tutela della salute della donna, del bambino e degli adolescenti. Svolgono un’insostituibile funzione di informazione a sostegno della prevenzione e della promozione della salute della donna, accompagnano e sostengono le donne in gravidanza e nel dopo parto, offrono lo screening del tumore della cervice uterina e garantiscono supporto a coppie, famiglie e giovani, sebbene con diversità per area geografica suscettibili di miglioramento.
Il ruolo dei consultori è strategico per la prevenzione e la promozione della salute e, nell’ambito della promozione della procreazione consapevole e responsabile, hanno contribuito a ridurre le Interruzioni Volontarie di Gravidanza nel Paese di oltre il 65% dal 1982 al 2017.
www.epicentro.iss.it/consultori/indagine-2018-2019
Consultori familiari a 40 anni dalla nascita: sintesi dei principali risultati. Estratto
Sono trascorsi più di 40 anni dalla nascita dei Consultori Familiari (CF), servizi di base a tutela della salute della donna, del bambino e della coppia e famiglia, istituiti con la legge nazionale 405/1975. Figli di una fase storica caratterizzata da una profonda e radicale trasformazione socio-culturale, i CF hanno introdotto principi straordinariamente innovativi che ancora oggi, nel quadro complessivo dell’assistenza sociosanitaria, li rendono un esempio unico di servizio connotato da un forte orientamento alla prevenzione e alla promozione della salute e basato sull’approccio olistico alla salute, la multidisciplinarietà, l’integrazione con gli altri servizi territoriali. Lo sviluppo dei CF ha seguito tuttavia un percorso non lineare nel corso del tempo e non omogeneo a livello territoriale, che ne ha talora minato l’identità. Tra le cause di questa discontinuità possiamo annoverare la frammentata organizzazione regionale, le diverse dotazioni di risorse umane ed economiche e l’insufficiente definizione di obiettivi di salute appropriati e misurabili. Pur nelle difficoltà operative, il valore strategico che storicamente è sempre stato riconosciuto ai CF è dimostrato dalle linee di indirizzo, di riqualificazione e di rilancio che il Ministero della Salute ha prodotto negli anni.
Tra gli altri ricordiamo il Progetto Obiettivo Materno Infantile (POMI) quale espressione operativa della rilevanza strategica assegnata alla tutela della salute della donna e del bambino nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 e, più recentemente, i richiami ai CF presenti nei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) del 2017, nel Piano Nazionale Fertilità e nel IV Piano Nazionale Infanzia e Adolescenza. Sull’onda di un rinnovato interesse per un’azione di rilancio dei CF ancorata all’attualità del loro valore strategico per la salute pubblica, nel 2017, il Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM) del Ministero della Salute ha promosso e finanziato il progetto “Analisi delle attività della rete dei CF per una rivalutazione del loro ruolo con riferimento anche alle problematiche relative all’endometriosi“, affidandone il coordinamento all’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Oggetto di questo rapporto è la presentazione dei principali risultati che il progetto ha permesso di ottenere.
Metodi. Il progetto si è rivolto ai servizi consultoriali pubblici e privati accreditati presenti sul territorio nazionale. Il gruppo di coordinamento del progetto dell’ISS, con il supporto di un Comitato Tecnico (CT) di esperti nazionali ha definito l’articolazione dello studio che ha previsto una raccolta di informazioni online a tre livelli:
- Primo livello – regionale, per descrivere l’assetto organizzativo entro cui operano i CF;
- Secondo livello – di Azienda Sanitaria Locale (ASL o equivalente: ASP, USL, AUSL, Area Vasta, Comprensorio) o di Distretto (o equivalente: ASST), limitato ai CF pubblici, per descrivere gli aspetti legati al coordinamento dei servizi consultoriali e alla loro integrazione con il territorio. Solo per la Provincia Autonoma (P.A.) di Bolzano è stato incluso anche il coordinamento dei consultori privati accreditati;
- Terzo livello – di singolo CF, pubblico o privato accreditato, per descrivere le caratteristiche strutturali e le attività offerte agli utenti.
Per ciascun livello di indagine è stata messa a punto una specifica scheda di rilevazione dati online. Gli obiettivi definiti a livello nazionale per l’area materno-infantile e giovani/famiglie nei principali documenti di riferimento, quali il POMI e i nuovi LEA, sono stati tradotti in azioni e queste, a loro volta, in indicatori che hanno fornito gli elementi utili alla formulazione dei quesiti delle schede di rilevazione. Anche le precedenti indagini nazionali e locali pertinenti sono state utilizzate come riferimento, per garantire la confrontabilità dei dati raccolti dal progetto con quelli già disponibili da altre fonti. La disponibilità a partecipare al progetto è stata richiesta agli Assessorati Regionali alla Sanità che, contestualmente alla propria adesione, hanno individuato un referente regionale.
Il referente regionale ha compilato la scheda del primo livello di indagine e identificato i responsabili del massimo livello di coordinamento dei servizi consultoriali delle ASL (coincidente a volte con la ASL e a volte con il Distretto) della propria Regione. I responsabili di ASL/Distretto sono stati contattati dal gruppo di coordinamento dell’ISS per la conferma della disponibilità a compilare la scheda del secondo livello di indagine. Hanno inoltre fornito indicazioni operative per la definizione delle modalità di esecuzione del terzo livello di indagine nel territorio di competenza e per l’identificazione dei referenti per ogni sede consultoriale. Per ogni livello di indagine è stata creata una lista con i nominativi e i riferimenti di tutti i referenti. A ciascun indirizzo e-mail è stato associato un codice identificativo. Tutti i referenti del progetto hanno ricevuto un link personalizzato per accedere e compilare la scheda di raccolta dati online. L’acquisizione dei dati da parte dell’ISS è avvenuta contestualmente alla compilazione e all’invio delle schede da parte dei referenti.
Prima dell’avvio delle indagini la funzionalità del sistema di raccolta dati è stata testata nelle ASST di Mantova e dei 7 Laghi, nei Distretti del Perugino e del Trasimeno e nella ASL Napoli 1. Tutte le Regioni e P.A. del Paese hanno aderito al progetto. La raccolta dati è operativamente iniziata con l’indagine di livello regionale nel novembre 2018 e si è conclusa con la raccolta dati del livello di singola sede consultoriale nel luglio 2019.
Organizzazione dei servizi consultoriali a livello regionale. I risultati di questa sezione si riferiscono alle 19 Regioni italiane. L’organizzazione dei servizi consultoriali è eterogenea.
In 5 Regioni i consultori familiari sono incardinati nel Dipartimento materno infantile, in 2 Regioni nel Dipartimento delle cure primarie, in 7 Regioni fanno capo a Dipartimenti diversi nelle diverse ASL (Figura 1). In 5 Regioni non è stato riportato un livello organizzativo a livello di Dipartimento ma a livello di Distretto.
Anche il coordinamento è articolato in modo diversificato: in 8 Regioni sono presenti servizi consultoriali organizzati in Unità Operative Complesse (UOC), dotate di autonome risorse umane, tecniche e finanziarie gestite da un direttore (Figura 2), mentre altrove il modello organizzativo è quello dell’Unità Operativa Semplice (UOS). I modelli organizzativi sono disomogenei anche all’interno delle stesse Regioni.
Presenza del privato accreditato. Solo per la presenza del privato accreditato sono state prese in considerazione anche le due P.A. Servizi consultoriali privati accreditati sono presenti – con ruolo e peso molto diversi – in 6 Regioni e una P.A. I CF accreditati sono 91 in Lombardia (35% del numero complessivo dei CF riportato dai referenti), 3 in Friuli Venezia Giulia (11%), 17 in Toscana (10%), 8 in Abruzzo (22%), 2 in Molise (40%), 9 in Sicilia (5%), 15 nella P.A. di Bolzano (28%). In Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Sicilia e nella P.A. di Bolzano i CF del privato accreditato operano secondo un accordo che ne definisce le attività.
(…)
Numerosità e distribuzione regionale dei Consultori familiari. La legge n. 34/1996 prevede la disponibilità di un CF ogni 20.000 abitanti, stimando che un servizio che prevede la prossimità territoriale e il libero accesso non possa soddisfare appieno i bisogni di salute di popolazioni bersaglio più ampie. Nel POMI si è ritenuto opportuno distinguere fra zone rurali, per le quali sarebbe auspicabile un CF ogni 10.000 abitanti, e zone urbane con un CF ogni 25.000. Dalla nostra indagine risulta che in media sul territorio nazionale è presente un CF ogni 35.000 abitanti (Figura 5). Solo in 5 Regioni e una P.A. il numero medio di abitanti per CF è compreso entro 25.000, mentre in 7 Regioni il numero medio è superiore a 40.000 abitanti per CF, con un bacino di utenza per sede consultoriale più che doppio rispetto a quanto previsto dal legislatore. Si evidenzia una rilevante variabilità interregionale, con bacini di utenza per CF tendenzialmente più ampi al Nord rispetto al Centro e al Sud.
Istituto Superiore di Sanità 28 novembre 2019
www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=2ahUKEwjojvXE38PmAhUICewKHWWMBVwQFjAAegQIBRAH&url=https%3A%2F%2Fwww.epicentro.iss.it%2Fconsultori%2Fpdf%2Fsintesi-risultati-28_11_19.pdf&usg=AOvVaw2Q8zK6nbU2D1aXGLjhI118
Requisiti e standard di fabbisogno indicativi per i consultori familiari
La legge n. 34/1996 prevede un consultorio familiare ogni 20.000 abitanti. Sarebbe opportuno distinguere tra zone rurali e semiurbane (1 ogni 10.000 abitanti) e zone urbane-metropolitane (1 ogni 20.000-25.000 abitanti). Per lo svolgimento delle sue funzioni il consultorio si avvale, di norma, delle seguenti figure professionali:
• ginecologo, pediatra, psicologo, dei quali si può prevedere un impiego corrispondente al carico di lavoro determinato dalle strategie di interventi di prevenzione e dalla attività svolta per l’utenza spontanea
• ostetrica, assistente sociale, assistente sanitario, infermiere pediatrico (vigilatrice di infanzia), infermiere (infermiere professionale)
• in qualità di consulenti, altre figure professionali quali il sociologo, il legale, il mediatore linguistico-culturale, il neuropsichiatra infantile, l’andrologo e il genetista presenti nella Asl a disposizione dei singoli consultori.
Se a livello di distretto (o per un insieme di distretti) si prevede, come è auspicabile, la presenza di servizi specialistici ambulatoriali ginecologici, pediatrici, di psicologia clinica e di psicoterapia, gli stessi operatori consultoriali potrebbero essere impegnati anche in questi servizi, per il completamento dell’orario, al fine di una migliore continuità assistenziale.
Nella rete degli ambulatori ginecologici afferenti all’organizzazione dipartimentale aziendale, sia a livello distrettuale, sia a quello ospedaliero, dovrebbero essere previsti il servizi di colposcopia e di ecografia, disponibili alle segnalazioni provenienti dal consultorio.
Il consultorio familiare deve essere facilmente raggiungibile e possibilmente in sede limitrofa ai servizi sanitari e socio assistenziali del distretto, preferibilmente a pianoterra e senza barriere architettoniche, in ambienti accoglienti, nel rispetto della normativa per l’edilizia sanitaria e delle diverse esigenze della popolazione di ogni età maschile e femminile, in particolare dei bambini e degli adolescenti. Considerate le varie afferenze e le tipologie di intervento il Distretto dovrà predisporre dei set di attrezzature adeguati per le attività specifiche e generali del consultorio e dovrà altresì identificare, ai fini della rendicontazione correlata all’attribuzione del budget di finanziamento, il centro di costo competente.
Estratto dai L.E.A.- Suppl. Ord. Gazzetta Ufficiale n.19 del 23 gennaio 2002
Liste di prestazioni
Assistenza sanitaria e sociosanitaria alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie; educazione alla maternità responsabile e somministrazione dei mezzi necessari per la procreazione responsabile; tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, assistenza alle donne in stato gravidanza; assistenza per l’interruzione volontaria della gravidanza, assistenza ai minori in stato di abbandono o in situazione di disagio; adempimenti per affidamenti ed adozioni
Fonti
Legge 29 luglio 1975, n. 405; Legge 22 maggio 1978, n. 194; D.M. 24 aprile 2000 “P.O. materno infantile” DPCM 14 febbraio 2001 D.L.1 dicembre1995, convertito nella legge 31 gennaio 1996, n.34
Modalità organizzative e standard
Il P.O. individua modalità organizzative nell’ambito del “percorso nascita”, trasporto materno e neonatale, assistenza ospedaliera (compresa urgenza ed emergenza) ai bambini, riabilitazione, tutela salute della donna. Lo stesso P.O. individua requisiti organizzativi e standard di qualità delle U.O. di ostetricia e neonatologia ospedaliere, inclusa la dotazione di personale. La legge n. 34/1996 prevede 1 C.F. ogni 20mila abitanti
Liste di prestazioni
Le prestazioni erogabili sono diffusamente elencate nel P.O. materno infantile e nel DPCM 14 febbraio 2001.
https://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=2ahUKEwixqfWu7sPmAhUkNOwKHZ3iBQ0QFjAAegQIAxAH&url=https%3A%2F%2Fwww.epicentro.iss.it%2Ffocus%2Fconsultori%2FCF_Requisiti%26Standard.pdf&usg=AOvVaw17WhDfx_2y-7K0bFcPOo0j
Il consultorio familiare ovvero un ferito ai margini della strada
In Italia, fin dagli anni settanta, si è sempre parlato tanto di aborto, dividendo semplicisticamente la cittadinanza in favorevoli e contrari, ma non si è mai riflettuto abbastanza su quello che è il problema dei tanti bambini e ragazzi destinati a non diventare del tutto uomini o donne, cioè dei tanti bambini nati malformati, sordomuti, ciechi, per colpa di una mancata assistenza pre e post natale alla madre, o dei bambini cosiddetti “istituzionalizzati”, cioè privati di quell’affetto necessario alla loro crescita, o ancora dei bambini violentati, non scolarizzati o avviati alla delinquenza e preda delle mafie. Si tratta, con tutta evidenza, di bambini e ragazzi, di fatto, “abortiti” per colpa della società e dello stato. A questo proposito, dopo la recente pubblicazione del primo rapporto ufficiale sul consultorio familiare, a 35 anni dalla sua istituzione, è il caso di ripercorrerne la storia. Una storia che ci permette di capire come il consultorio familiare sia sempre stato, e sia, ancora oggi, in Italia, una sorta di ferito ai margini della strada.
Il consultorio familiare venne istituito nel 1975 (anche se le prime proposte risalivano al lontano 1949), con la legge 405, grazie al movimento delle donne che lo aveva fortemente voluto, e alla convergenza dei partiti di allora, cattolico, socialista e comunista. Si trattava di un presidio pubblico con la finalità di assicurare informazione, consulenza e assistenza psicologica, sanitaria e sociale su argomenti fondamentali per le coppie e per le famiglie, cioè maternità, paternità, procreazione responsabile e salute sessuale. Con la legge 194 del 1978, poi, le competenze del consultorio inclusero anche l’assistenza all’aborto.
Fino a quel momento, gli unici centri di sostegno per queste problematiche regolarmente funzionanti erano stati solo quelli privati, con forti connotazioni religiose. I primi consultori prematrimoniali esistenti in Italia, infatti, erano sorti per iniziativa di alcuni sacerdoti o laici d’ispirazione cattolica, riuniti nel Ucipem (Unione Consultori Italiani Matrimoniali e Prematrimoniali), a cui erano poi seguiti consultori di gruppi volontari, di indirizzo politico diverso, come quelli dell’Aied (Associazione internazionale Educazione Demografica), del Cemp (Centro per l’Educazione Matrimoniale e Prematrimoniale), e del Ced (Centro Educazione Demografica), che tendevano, per lo più, a favorire la conoscenza dei mezzi anticoncezionali. Fino a quel momento, le funzioni dei nascenti consultori, soprattutto dopo la soppressione [31 dicembre 1975] dell’Onmi (Opera Nazionale per protezione Maternità e Infanzia) e dei servizi gestiti dal ministero della Giustizia, erano state delegate alle Regioni, anch’esse peraltro di recente nascita. La difficoltà organizzativa dei consultori si affiancava all’insufficienza delle istituzioni sanitarie del paese e spesso anche alla mancanza di un’adeguata specializzazione dei medici preposti. Sia l’assistenza alla coppia e alla famiglia, quanto le tecniche psicologiche e mediche finalizzate al controllo delle nascite, non potevano essere svolte con coerenza perché demandate a norme legislative regionali diverse.
La legge che faceva nascere il consultorio familiare pubblico metteva di fronte la capacità dello stato di gestire un problema di tale portata e l’attaccamento della Chiesa alla gestione delle problematiche relative alla famiglia, secondo la propria reiterata tradizione secolare. Si trattava, dunque, di un primo importante banco di prova e di un’occasione preziosa per cominciare un discorso di crescita, non solo a livello di organizzazione sociale, ma anche a livello dei rapporti tra società religiosa e società civile.
Quando nacque, il consultorio scontava subito tutta l’inadeguatezza della legge e delle strutture organizzative italiane: finì per essere gestito dai rappresentanti dei partiti, dei sindacati, delle parrocchie, figure, con tutta evidenza, troppo burocratizzate per poter assolvere alla loro funzione specifica, a scapito dunque del diretto coinvolgimento della società, cioè a dire delle famiglie, delle coppie e in particolare della donna. A questi meccanismi si provò ad affiancare, inizialmente, il volontariato, con la presenza, nel consultorio di donne che informavano e discutevano le varie problematiche relative alla vita sessuale della coppia. Ma una soluzione di questo tipo, se pure utile, non poteva che ritenersi provvisoria e monca. Permanevano, inoltre, enormi differenze tra le diverse regioni. In sostanza, si disse molto all’italiana, i consultori sarebbero diventati ciò che la politica e la società li avrebbero fatti diventare.
Vediamo allora, dopo 35 anni, cosa sono diventati. Dalla metà degli anni ottanta, il numero dei consultori familiari pubblici era continuato a crescere, nonostante la mancanza di un miglioramento della funzionalità e del livello del servizio offerto. Nel 1979, cioè un anno dopo l’approvazione della legge sull’aborto, erano circa 600 quelli pubblici e poco più di 200 quelli privati; nel 1981 si era passati ad un rapporto di 1.456 contro 167. Nel 2006 il numero dei consultori notificato era pari a 2.188 per quelli pubblici, mentre si erano ancora ridotti, a 103, quelli privati. Ma veniamo all’oggi.
Di recente il ministero della Salute ha pubblicato il primo rapporto nazionale sui consultori familiari pubblici presenti in Italia. La situazione è a dir poco preoccupante. Solo in poche regioni le Asl prevedono un capitolo di bilancio ad essi adibiti, ma più in generale, non hanno alcun interesse a valorizzare i consultori, come dimostra il mancato adeguamento delle risorse e degli organici. Il numero dei consultori è passato dai 2.097 del 2007 ai 1.911 del 2009, con un consultorio ogni 31 mila abitanti circa, contro un valore legale stabilito per legge di 1 ogni 20 mila in area urbana e 1 ogni 10 mila in area rurale. Mancherebbero all’appello, dunque, almeno 1.000 consultori. Inoltre, la legge prevede un organico multidisciplinare, con figure professionali come ginecologo, pediatra, psicologo, ostetrica, assistente sociale, sanitario, consulente legale, infermieri. Nel rapporto si legge invece che solo nel 4% dei casi è coperto l’organico, in particolare l’andrologo è assente in tutti in consultori pubblici nazionali (ad eccezione che in Valle d’Aosta). La legge prevede che il consultorio disponga di locali per l’accoglienza utenti, la segreteria, la consulenza psicologica e terapeutica, le visite ginecologiche e pediatriche, le riunioni, l’archivio, mentre la realtà dice che il 15% dei consultori ha solo 1-2 stanze, ben 440 consultori non hanno una stanza per gli incontri di gruppo, ed addirittura 634 non possono inviare e ricevere mail. Inoltre il 9% dei consultori è aperto la mattina solo uno o due giorni a settimana e il 7% non risulta mai aperto la mattina, mentre il 14% non è mai aperto neppure il pomeriggio, mentre il sabato mattina è chiuso l’86% dei consultori italiani. Quanto ai contenuti, l’assistenza alla gravidanza è praticamente inesistente mentre il percorso prematrimoniale è fornito solo in tre regioni.
Per completare il quadro è bene ricordare che i consultori matrimoniali familiari fondati sul cosiddetto sul “counselling” (cioè sulla consulenza come relazione di aiuto tra consulente e coppia) risalgono alla fine degli anni Venti negli Stati Uniti, ed hanno avuto, da allora, un considerevole sviluppo in numerosi stati europei, in particolare in Inghilterra (1946), nei paesi scandinavi (1952), poi in altre nazione come Austria, Irlanda, Malta, Francia, Svizzera, Germania etc. Nel corso degli anni sessanta e dei primi anni settanta i consultori hanno poi avuto ampia diffusione e riconoscimento in quasi tutti gli stati dell’Europa occidentale e infine, anche da noi.
E’ evidente che, oltre ad essere arrivati ancora una volta per ultimi a questo servizio di base per la cultura della famiglia e delle coppie, ci troviamo ancora oggi ad un livello di funzionalità e di fruibilità del servizio assolutamente inadeguato, se paragonato a quelli degli altri paesi. Non ci stancheremo mai di ricordare e di ripetere, dunque, che è su questi argomenti che si misura il grado di civiltà di uno stato. Forse, al di là delle fumose affermazioni di principio, è il caso che il governo tecnico di recente formazione inizi proprio col mettere mano a inadempienze e inadeguatezze come questa per meritarsi la nostra stima e la nostra simpatia.
Linkchiesta 17 novembre 2019
www.linkiesta.it/it/blog-post/2011/11/17/il-consultorio-familiare-ovvero-un-ferito-ai-margini-della-strada/2911
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CONSULTORI CATTOLICI
Asti. Consultorio Familiare F. Baggio uno sportello di ascolto per chi è in difficoltà
Dal 1° dicembre 2019 in via Gioberti in Asti è attivo lo sportello di ascolto e sostegno “Spazio famiglia”, rivolto alle famiglie in situazione di fragilità sociale.
Attivo dal lunedì al venerdì dalle 15:30 alle 18:30, offre un supporto mirato e specifico per la gestione delle fragilità sociali e per il sostegno nel superamento delle difficoltà relazionali, comunicative e legali da parte di un’équipe multidisciplinare di psicologi, psicoterapeuti, mediatori familiari, psicopedagogisti e avvocati.
L’iniziativa è del Consultorio Familiare F. Baggio, in collaborazione con il C.I.F. grazie al contributo della Fondazione CRAT ed il sostegno del CSVAA.
www.csvastialessandria.it/2019/12/13/dal-consultorio-familiare-f-baggio-uno-sportello-di-ascolto-per-chi-e-in-difficolta
L’attività più impegnativa e continuativa che caratterizza il CIF di Asti è la promozione e il sostegno del consultorio familiare CIF “Francesca Baggio”, unico consultorio CIF in Piemonte che da 31 anni presta servizio gratuito sul nostro territorio. Un servizio con una lunga storia, infatti fin da gli anni 70 la signorina Baggio, precorrendo i tempi, aveva capito, come la famiglia già in quegli anni, diventasse più fragile: ma, per le fasce deboli era difficile ricevere un aiuto gratuito, non essendo ancora presente nella nostra provincia un consultorio familiare in carico al servizio pubblico: per questo decise, nel 1977 di istituire ed aprire ad Asti un Consultorio familiare, formato da un équipe multidisciplinare costituita da operatori specifici del settore e riconosciuto con delibera della giunta regionale n. 62/7294 del 8 marzo 1977, con la finalità, allora come adesso, di offrire un servizio gratuito, rivolto alle singole persone, alle coppie e alle famiglie per aiutarle ad affrontare momenti di disagio e particolari problemi, legati alla loro situazione di vita e di relazione. Inoltre, il servizio che il Consultorio offre oggi, è attivo anche sul territorio non solo per la prevenzione del disagio, ma svolgendo attività di formazione e informazione in collaborazione, sia con le varie agenzie educative presenti, sia con le istituzioni.
www.cifnazionale.it/regioni/piemonte/servizi/consultoriofamiliarefrancescabaggio
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Bologna. Ritrovarsi. Un passo indispensabile: verso di me
Cosa faremo Attività esperienziale su di sé tramite Costellazioni familiari di Bert Hellinger e utilizzo di informazioni provenienti dal proprio Disegno, secondo le conoscenze provenienti dall’Human Design. Conosceremo e sperimenteremo le domande che “aprono” di Access Consciousness. Prime alfabetizzazioni riguardo ai tipi umani e le loro differenze e prima conoscenza del proprio Disegno.
Perché. A scuola non ci hanno insegnato molto riguardo alle relazioni. Eppure è un tema che pervade le nostre vite. E, a giudicare dalle separazioni, divorzi, conflitti, guerre, che l’umanità vive, non si può dire che non abbiamo nulla da imparare a riguardo. Come possiamo vivere, a tutti i livelli, e prima di tutto con noi stessi, relazioni che siano arricchenti invece che depauperanti? E come possiamo facilitare, consigliare, guidare altri a farlo? Questo seminario offre conoscenza e strumenti concreti in questa direzione.
Gli obiettivi.
- Scioglimento di difficoltà individuali, familiari, relazionali, anche di relazione d’aiuto,
- Conoscere e sperimentare le domande che aprono per attingere al mare delle possibilità,
- Accrescere la conoscenza e la comprensione di sé e altrui tramite la conoscenza proveniente dall’Human Design.
A chi è consigliato? A chi vuole ampliare la conoscenza di se stesso e degli altri oltre che la propria consapevolezza. A chi vuole facilitarsi la vita, propria e di relazione ed eventualmente facilitarla anche ad altri. A chi opera nelle relazioni d’aiuto di ogni genere, ai consulenti familiari.
Questo modulo è il 1° di 4 incontri del ramo formativo “Ritrovarsi” condotto da Gilda D’Elia e fa parte dei percorsi di “Formazione integrata alle Relazioni” organizzati dal Servizio di Consulenza per la Vita Familiare. www.consultoriobologna.it
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Faenza. Corso di crescita interiore e comunicazione efficace
Il consultorio in collaborazione con Sicof, organizza un percorso per migliorare le capacità di ascolto e il riconoscimento dei propri bisogni e risorse. Il corso prevede esercitazioni tecnico-pratiche nell’arco di 11 incontri, da novembre 2019 a giugno 2020.
Il percorso si propone di favorire l’esplorazione di sé, la capacità di ascolto dei propri bisogni e il riconoscimento delle proprie risorse per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che siamo.
Il corso è per tutti e, in particolare, è consigliato a coloro che si occupano di relazione: animatori di gruppi, educatori ed insegnanti (per i quali può valere come aggiornamento professionale accreditato al MIUR) ed a persone che lavorano a stretto contatto con utenti e clienti. Metodo: con esercitazioni tecnico-pratiche, intende favorire le relazioni all’interno del gruppo per lo sviluppo e l’integrazione di abilità comunicative e di ascolto utili a migliorare la relazione con l’altro sia in ambito professionale che personale.
Struttura: 10 incontri, uno ogni tre settimane, da novembre 2019 a giugno 2020 (di Training Group della durata di 3 ore) e 1 seminario di un giorno a marzo 2020. Gli incontri possono essere organizzati su due gruppi di 12 / 20 persone in orari diversi.
www.diocesifaenza.it/site/corso-di-crescita-interiore-e-comunicazione-efficace-2
Lodi. Gruppo sulla genitorialità al Consultorio Ucipem
Si tiene un gruppo sulla genitorialità dedicato a chi sta affrontando una separazione. Il gruppo è aperto sia alle coppie che ai singoli. Si parlerà delle reazioni dei figli a seconda dell’età, di come comunicare i cambiamenti e di come comprendere la loro emotività; si parlerà anche del ruolo dei nonni e dei vissuti legati ad una eventuale nuova famiglia. Il gruppo sarà tenuto dall’assistente sociale Elisa Manunta e dalla psicoterapeuta Manuela Randazzo. E’ prevista la presenza dell’avvocato Michele Pizzi sui vari aspetti legali relativi alla separazione e alla gestione dei figli. www.ilcittadino.it/Agenda/2019/11/26
Pescara. Choros. Percorso per coppie che vivono la difficoltà di avere figli
- La parola greca choros significa spazio, opportunità, un luogo ristretto che accoglie e che può nutrire. Choros vuole essere la possibilità di uno spazio per poter “dire” un dolore che non si può dire.
- Choros vuole essere un luogo protetto per sé, in cui portare il proprio diverso sentire di donna e di uomo rispetto a questa mancanza.
- Choros vuole essere una opportunità di contatto intimo per la coppia, di narrarsi e provare, insieme, a uscire dalla solitudine muta della quotidianità.
- Choros vuole essere uno spazio in cui nutrirsi dell’esperienza di altre coppie che hanno vissuto e vivono questa stessa condizione.
Il Percorso è rivolto a coppie che vivono la difficoltà di avere figli. 8 incontri in gruppo massimo di 6 coppie
Conduttori del percorso: Ines De Rosa e Domenico Francone, consulenti familiari
www.ucipempescara.org/choros
Portogruaro. Report della Regione Veneto
I CFSE, Consultori familiari Socio Educativi, come il Consultorio familiare Fondaco, svolgono un ruolo importante in Regione, riconosciuto e valorizzato dalla Regione Veneto, affiancando i Consultori Pubblici nell’area sociale ed educativa del sostegno e dell’assistenza e della prevenzione promozione.
www.consultoriofamiliarefondaco.it/cff/wp-content/uploads/2019/11/02-Consultori-Familiari-Report-attivit%C3%A0-2018.pdf
In allegato i Report pubblicati dalla Regione del Veneto
www.regione.veneto.it/web/sociale/pubblicazioni-famiglia
nei quale sono visibili i dati relativi all’attività svolta dai CFSE del Veneto e quindi anche dal nostro Consultorio nell’anno 2018 [7 soci dell’UCIPEM] e dai Consultori familiari pubblici [totale 28].
www.consultoriofamiliarefondaco.it/cff/wp-content/uploads/2019/11/01-Report-CFSE-2018.pdf
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COORDINAZIONE GENITORIALE
La coordinazione genitoriale nel sistema italiano
La coordinazione genitoriale è un nuovo metodo di intervento nelle situazioni di alta conflittualità genitoriale a protezione e tutela dei figli minori. Scopo dell’articolo è quello di illustrare i caratteri della coordinazione genitoriale, le differenze rispetto ad altri tipi di intervento e svolgere una critica su modelli applicativi in cui la coordinazione genitoriale viene disposta al giudice e si svolge nel processo. Gli autori affermano che la CoGe è un metodo alternativo di gestione del conflitto, rispetto alla giurisdizione e deve essere riscattata la sua autonomia rispetto al processo ed alle sue regole.
Francesco Pisano, Elena Giudice Il familiarista 26 novembre 2019
http://ilfamiliarista.it/articoli/focus/la-coordinazione-genitoriale-nel-sistema-italiano?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_27_Novembre_2019
La Coordinazione Genitoriale è una nuova pratica di risoluzione delle dispute di coppia alternativa al giudizio (ADR [Alternative Dispute ResolutionMetodi alternativi di risoluzione delle controversie]) focalizzata sul figlio minore: i genitori, accompagnati nel percorso educativo apprendono, con il sostegno e l’affiancamento del Parenting Coordinator (Coordinatore Genitoriale) a gestire e contenere tempestivamente il conflitto, a comprendere le reali esigenze del figlio e ad instaurare con lui un rapporto sano e stabile.
Il Coordinamento Genitoriale è rivolto alle famiglie che hanno maggiori difficoltà ad adattarsi alle transizioni familiari legate alla separazione e divorzio e a far rispettare le sentenze dei Tribunali o i piani di affidamento congiunto. Il Coordinamento Genitoriale facilita l’attuazione delle decisioni giudiziarie in materia di minori coinvolti, nella ricerca di soluzioni per superare gli ostacoli alla loro attuazione. Aiuta i genitori a concentrarsi sulle esigenze dei propri figli e a prendere nuove decisioni consensuali, se necessario.
In un approccio eco-sistemico, il Coordinatore Genitoriale interverrà all’interno della famiglia, il suo ambiente e le sue risorse, mantenendo un rapporto con gli altri professionisti coinvolti e, all’occorrenza, l’Autorità Giudiziaria. La figura del Coordinatore Genitoriale, originaria degli USA dove nasce negli anni 90, è pertanto affine a quella di un arbitro della contesa: da una parte, fornisce gli strumenti necessari per ristabilire l’equilibrio familiare; dall’altra parte, con il consenso delle Parti e del Giudice, viene investito di un potere direttivo e decisorio nelle situazioni in cui non vi è la possibilità di addivenire a risoluzioni mediate.
Compito del Coordinatore Genitoriale è agevolare la risoluzione dei contrasti tra genitori separati o divorziati i quali, pur nella disponibilità di buone capacità educative, sono talmente (e profondamente) coinvolti nelle dinamiche conflittuali da non riuscire ad attuare una responsabile ed adeguata gestione della prole in regime di affidamento condiviso.
Il Coordinatore Genitoriale dovrebbe essere, pertanto, un soggetto terzo, super partes, imparziale che aiuta i genitori ad applicare il programma di genitorialità nell’ambito dell’incarico disposto dal Giudice al Coordinatore o dell’incarico allo stesso conferito di comune accordo da parte dei genitori, così evitando che il conflitto abbia ripercussioni negative sui figli e favorendo, altresì, la collaborazione tra padre e madre, con conseguente riduzione dei contrasti che porterebbero ad un appello assiduo e sistematico all’Autorità Giudiziaria.
La Coordinazione Genitoriale si configura come un processo multidisciplinare e multilivello che ha lo scopo di rispondere ai bisogni di consulenza delle famiglie e di offrire guide e orientamenti da parte di professionisti competenti relativamente a questioni riguardanti il piano genitoriale e gli accordi di separazione/divorzio, con attenzione preminente rivolta ai figli.
Suo obiettivo è, pertanto, l’interesse del minore coinvolto, suo malgrado, nel conflitto genitoriale: l’intervento verte e rimane costantemente focalizzato sul benessere psicofisico del bambino al quale deve essere garantita la più ampia tutela. A tal riguardo, il Coordinatore Genitoriale aiuta i genitori con elevato grado di conflittualità, a risolvere i propri contrasti, a trovare soluzioni al di fuori delle aule di Tribunale, a ricostruire una responsabilità genitoriale adeguata ai bisogni della prole, preservandola dai danni derivanti da un sistematico e quotidiano scontro genitoriale.
Come innanzi anticipato, l’incarico al Coordinatore Genitoriale può essere disposto dal Giudice nell’ambito di un procedimento che verte sulle modalità di gestione dei figli minori: in tale ipotesi, i poteri e l’ambito di azione del Coordinatore Genitoriale sono disciplinati nel provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. Se, invece, l’incarico viene conferito direttamente dai genitori su loro libero accordo, il contenuto del mandato viene discusso e concordato tra i genitori ed il professionista. In ogni caso, il Coordinatore Genitoriale non ha potere di disporre sull’affidamento, sul collocamento dei figli minori e sulle questioni economiche che rimangono di competenza dell’Organo Giudicante.
Il Coordinatore Genitoriale ha il compito di far rispettare il piano genitoriale in tutti i suoi aspetti (salute, istruzione, educazione e sviluppo socio-affettivo dei figli minori) e, qualora dovesse ravvisare situazioni gravemente pregiudizievoli nei confronti dei minori (violenza, abusi, maltrattamenti, ecc.) è chiamato ad assumere, a tutela degli stessi, le più opportune misure, prima fra tutte, la segnalazione del problema alle Autorità Giudiziarie competenti e ai Servizi Sociali.
Nel 2005 sono state redatte le linee guida dell’Association of Family and Concilation Courts (AFCC), risultato di un lavoro interdisciplinare svolto a livello internazionale, utilizzate anche in vari Stati Europei e, recentemente, anche in Italia da alcuni Tribunali. Tali linee guida, in linea di massima, non costituiscono delle regole vincolanti, bensì delle importanti raccomandazioni e suggerimenti per il professionista in merito alle condotte da adottare. Pertanto, rappresentano un modello di riferimento ad ampio spettro come ideale tutoraggio nell’esplicazione dell’attività. La loro finalità è diffondere buone prassi, competenze e formazione altamente specializzata nel settore.
Nella maggior parte delle Linee Guida viene utilizzato il termine “dovrebbe” che denota che quanto indicato nella prescrizione è auspicabile e che, pertanto, al Coordinatore Genitoriale è concesso di agire in difformità dalle stesse esclusivamente per motivi giustificati dall’interesse precipuo della prole. È usato, invece, molto raramente il termine “deve” che, invero, è proprio delle linee guida di più alta cogenza: in tali ipotesi al Coordinatore Genitoriale non rimangono margini di discrezionalità per agire diversamente da come ivi indicato.
Esempi di linee guida inderogabili da parte del Coordinatore Genitoriale sono la prima e la quinta:
- La Linea Guida I afferma che il Coordinatore Genitoriale deve essere qualificato, istruito e formato, tenuto ad aggiornarsi professionalmente la formazione continua, competente in materia di diritto di famiglia e nelle specifiche procedure giudiziarie.
- La Linea Guida V, altresì, dispone che il Coordinatore Genitoriale debba sempre segnalare i casi sospetti di abusi o maltrattamenti su minori alle competenti Autorità Giudiziarie al fine di salvaguardarli da rischi e pericoli.
Tale figura, da poco utilizzata anche in Italia, ha destato molto interesse, anche alla luce di due importanti pronunce che hanno introdotto il Coordinatore Genitoriale come strumento volto a dirimere le coppie genitoriali altamente conflittuali (cfr. Decreto Tribunale di Milano IX Sez. Civ. 29 luglio 2016 – Presidente Rel. Est. Dott.ssa Laura Cosmai; Decreto Tribunale di Mantova I Sez. Civ. 5 maggio 2017 – Presidente Rel. Est. Dott. Bernardi). In entrambi i casi, l’Organo Giudicante ha indicato in maniera analitica i compiti del professionista, tra cui, in particolare, quello di salvaguardare i rapporti tra i genitori e i figli minore, fornendo le più opportune direttive correttive di eventuali comportamenti disfunzionali dei genitori rispetto al progetto di crescita e “autonomizzazione” dei bambini, oltre a coadiuvarli nelle decisioni in tema di salute, educazione, istruzione dei minori e nel rispetto del protocollo di visita del genitore non collocatario.
Importante precisare che, in ipotesi di disaccordo tra i genitori, il Coordinatore Genitoriale ha il potere di assumere le decisioni più opportune a tutela dei minori, ovvero di monitorare la relazione genitori/figli, al fine di fornire al padre ed alla madre le necessarie indicazioni correttive relative ai loro comportamenti disfunzionali.
La concreta efficacia pragmatico-giuridica di tale nuova figura professionale, che guida e controlla l’operato di genitori altamente conflittuali, potrà essere verificata nel tempo, studiando ed analizzando i risultati che si saranno ottenuti a tutela dei minori i quali, da sempre, rappresentano i soggetti più vulnerabili che devono essere tutelati nel loro processo evolutivo affettivo – relazionale.
In Italia la coordinazione genitoriale è ancora in fase embrionale. Nel 2016, al fine di riconoscere e inserire nel sistema giudiziario tale strumento, presso il Tribunale di Milano ha iniziato a riunirsi un tavolo di lavoro composto dalle rappresentanze ordinistiche degli Avvocati di Milano e degli Assistenti Sociali della Lombardia, dall’Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia e per i Minori – AIAF Lombardia “Milena Pini”, dalla Camera Minorile di Milano, da un magistrato della IX Sezione Famiglia e, oggi, anche dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia. Definito l’ambito e le specificità dell’intervento di coordinazione genitoriale, si è lavorato e si lavorerà all’elaborazione del Manuale Italiano della Coordinazione Genitoriale, definendo i criteri e il percorso formativo elettivo, oltre all’elaborazione di un elenco dei professionisti riconosciuti dal Tribunale per questo specifico incarico.
Avv. Carolina Akie Colleoni 26 gennaio 2018
www.prontoprofessionista.it/articoli/la-coordinazione-genitoriale-avvocati-civile-avv-carolina-akie-colleoni-milano-milano-lombardia-8031.html
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DALLA NAVATA
I Domenica di Avvento – Anno A – 1 dicembre 2019
IsaiaGènesi 15 14, 04 Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra
18Salmo 122, 08 Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene.
Romani 13, 11 Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
Matteo 24, 42 Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. la vostra perseveranza salverete la vostra vita.
L’Avvento è attesa: questo mondo ne porta un altro nel suo grembo
Al tempo di Noè gli uomini mangiavano e bevevano… e non si accorsero di nulla. Non si accorsero che quel mondo era finito. I giorni di Noè sono i giorni della superficialità: «il vizio supremo della nostra epoca» (Raimon Panikkar Alemany).
L’Avvento che inizia è invece un tempo per accorgerci. Per vivere con attenzione, rendendo profondo ogni momento. L’immagine conduttrice è Miriam di Nazaret nell’attesa del parto, incinta di Dio, gravida di luce. Attendere, infinito del verbo amare. Le donne, le madri, sanno nel loro corpo che cosa è l’attesa, la conoscono dall’interno.
Avvento è vita che nasce, dice che questo mondo porta un altro mondo nel grembo; tempo per accorgerci, come madri in attesa, che germogli di vita crescono e si arrampicano in noi. Tempo per guardare in alto e più lontano. Anch’io vivo giorni come quelli di Noè, quando neppure mi accorgo di chi mi sfiora in casa e magari ha gli occhi gonfi, di chi mi rivolge la parola; di cento naufraghi a Lampedusa, di questo pianeta depredato, di un altro kamikaze a Bagdad.
È possibile vivere senza accorgersi dei volti. Ed è questo il diluvio! Vivere senza volti: volti di popoli in guerra; di bambini vittime di violenza, di fame, di abusi, di abbandono; volti di donne violate, comprate, vendute; volti di esiliati, di profughi, di migranti in cerca di sopravvivenza e dignità; volti di carcerati nelle infinite carceri del mondo, di ammalati, di lavoratori precari, senza garanzia e speranza, derubati del loro futuro; è possibile, come allora, mangiare e bere e non accorgersi di nulla.
I giorni di Noè sono i miei, quando dimentico che il segreto della mia vita è oltre me, placo la fame di cielo con larghe sorsate di terra, e non so più sognare. Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro… Mi ha sempre inquietato l’immagine del Signore descritto come un ladro di notte. Cerco di capire meglio: perché so che Dio non è ladro di vita. Solo pensarlo mi sembra una bestemmia. Dio viene, ma non è la morte il suo momento. Verrà, già viene, nell’ora che non immagini, cioè adesso, e ti sorprende là dove non lo aspetti, nell’abbraccio di un amico, in un bimbo che nasce, in una illuminazione improvvisa, in un brivido di gioia che ti coglie e non sai perché.
È un ladro ben strano: è incremento d’umano, accrescimento di umanità, intensificazione di vita, Natale. Tenetevi pronti perché nell’ora che non immaginate viene il Figlio dell’Uomo. Tenersi pronti non per evitare, ma per non mancare l’incontro, per non sbagliare l’appuntamento con un Dio che viene non come rapina ma come dono, come Incarnazione, «tenerezza di Dio caduta sulla terra come un bacio» (Benedetto Calati)
Padre Ermes Ronchi, OSM
www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-1-dicembre-2019-p-ermes-ronchi
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DEMOGRAFIA
Natalità e fecondità della popolazione residente in Italia
ISTAT – Report 25 novembre 2019
Natalità in calo, soprattutto per i primogeniti Continuano a diminuire i nati: nel 2018 sono stati iscritti in Anagrafe 439.747 bambini, oltre 18 mila in meno rispetto all’anno precedente e quasi 140 mila in meno nel confronto con il 2008.
Il persistente calo della natalità si ripercuote soprattutto sui primi figli che si riducono a 204.883, 79 mila in meno rispetto al 2008.
Il numero medio di figli per donna scende ancora attestandosi a 1,29; nel 2010, anno di massimo relativo della fecondità, era 1,46.
L’età media arriva a 32 anni, quella alla nascita del primo figlio raggiunge i 31,2 anni nel 2018, quasi un anno in più rispetto al 2010.
Continuano a diminuire i nati. Nel 2018 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 439.747 bambini, oltre 18 mila in meno rispetto al 2017. Una tendenza negativa che non evidenzia segnali di inversione: secondo i dati provvisori riferiti al periodo gennaio-giugno 2019, le nascite sono già quasi 5 mila in meno rispetto allo stesso semestre del 2018. Nell’arco degli ultimi dieci anni le nascite sono diminuite di 136.912 unità, quasi un quarto (il 24% in meno) rispetto al 2008. Questa diminuzione è attribuibile esclusivamente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani (343.169 nel 2018, quasi 140 mila in meno nell’ultimo decennio). Si tratta di un fenomeno di rilievo, in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni. In questa fascia di popolazione, le donne italiane sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette babyboomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust [stasi demografica], ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995.
A partire dagli anni duemila l’apporto dell’immigrazione, con l’ingresso di popolazione giovane, ha parzialmente contenuto gli effetti del baby-bust; tuttavia questo effetto sta lentamente perdendo la propria efficacia man mano che invecchia anche il profilo per età della popolazione straniera residente. Al primo gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni sono poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni della fecondità, meno nascite. Questo impatto può essere stimato applicando alla popolazione media del 2018 i livelli di fecondità relativi al 2008 (espressi mediante i tassi di fecondità specifici per età). In questo modo si otterrebbero oltre 485 mila nati per il 2018; confrontando questo valore con i 576.659 nati del 2008, risulterebbe un gap di circa 92 mila nascite imputabile unicamente alla variazione di ammontare e di struttura per età della popolazione femminile in età feconda.
Questo fattore è responsabile per circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. La restante quota dipende invece dalla diminuzione della fecondità da 1,45 figli per donna a 1,29. Continuano a diminuire le nascite all’interno del matrimonio (297.768), quasi 19 mila in meno rispetto all’ultimo anno, 166 mila in meno rispetto al 2008. Ciò è dovuto anche al forte calo dei matrimoni che si è protratto fino al 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze, per poi proseguire con un andamento altalenante che vede nel 2018, anno in cui sono stati celebrati 195.778 matrimoni, un lieve aumento (+4.500) rispetto al 2017.
Il calo delle nascite riguarda soprattutto i primi figli. La fase di calo della natalità avviatasi con la crisi si ripercuote soprattutto sui primi figli, diminuiti del 28% circa tra il 2008 (283.922, pari al 49,2% del totale dei nati) e il 2018 (204.883, pari al 46,6%). Complessivamente i figli di ordine successivo al primo sono diminuiti del 20% nello stesso arco temporale. La forte contrazione dei primi figli interessa tutte le aree del Paese, ad eccezione della provincia autonoma di Bolzano che al contrario presenta un aumento (+4,9%). La diminuzione dei primi figli rispetto al 2008 è superiore a quella riferita a tutti gli ordini di nascita in quasi tutte le regioni italiane, a testimonianza della difficoltà che hanno le coppie, soprattutto le più giovani, nel formare una nuova famiglia con figli; problematica un po’ diversa rispetto all’inizio del millennio, quando la criticità riguardava soprattutto il passaggio dal primo al secondo figlio.
I primi figli si sono ridotti di oltre il 30% in Piemonte (-33,2%), Valle d’Aosta (-33,6%), Liguria (-34,1%), Veneto (-31,5%), Friuli-Venezia Giulia (-32,9%), Emilia-Romagna (-30,2%), Toscana (-31,9%), Umbria (-35,9%) e Marche (-34,4%). Tra le cause del calo dei primi figli vi è la prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine, a sua volta dovuta a molteplici fattori: il protrarsi dei tempi della formazione, le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni, una tendenza di lungo periodo ad una bassa crescita economica, oltre ad altri possibili fattori di natura culturale. L’effetto di questi fattori è stato amplificato negli ultimi anni da una forte instabilità economica e da una perdurante incertezza sulle prospettive economiche del Paese, che ha spinto sempre più giovani a ritardare le tappe della transizione verso la vita adulta rispetto alle generazioni precedenti. www.istat.it/it/archivio/224393
Testo integrale www.istat.it/it/files//2019/11/Report_natalità_anno2018_def.pdf
La denatalità? E’ un sintomo della crisi del capitalismo
Con un tasso di fecondità sceso nel 2018 a 1,29 figli per donna l’Italia è in piena crisi demografica. Ma si può fare qualcosa di utile contro il crollo delle nascite? Ovviamente sì. Ma chiunque volesse cimentarsi nell’impresa dovrebbe tenere conto di un aspetto che può sconfortare: per ridare linfa alla natalità non basta il pur indispensabile impegno per cercare di colmare la distanza che ci separa dai Paesi con assegni per i figli più generosi, un fisco più leggero per chi ha famiglia e misure più incisive per favorire la conciliazione casa-lavoro. Intendiamoci, è tutto molto più che necessario: è dovuto. Ma ogni sforzo dovrebbe fare i conti con una cultura che ha messo i figli fuori dall’orizzonte del dono, trasformandoli in un bene desiderato ma non primario, a volte un lusso, altre un optional.
Non è un problema solo italiano, è globale. In tutto il mondo sviluppato i tassi di fecondità sono sotto il tasso di sostituzione di 2,1 figli per donna necessario a garantire la stabilità della popolazione. Ciò a cui si sta assistendo è una convergenza verso la cifra di 1,7 figli. Lyman Stone, economista americano esperto di questioni demografiche, nell’indicare questa tendenza ha parlato di un «new normal della natalità», una specie di nuovo standard equiparabile alla «stagnazione secolare» dell’economia, concetto proposto dall’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers. E come le banche centrali sembrano avere le armi spuntate quando cercano di incidere sull’inflazione con la leva monetaria, anche i governi oggi paiono impotenti nel tentativo di contrastare il declino demografico e l’invecchiamento della società. Perché la società è cambiata e di Mario Draghi della natalità non se ne vedono all’orizzonte.
C’è un modo diverso di guardare ai figli, e lo si vede nel fatto che i tassi di fecondità sempre più ristretti stanno interessando sia i Paesi che concedono poco o nulla ai genitori, come gli Stati Uniti, sia quelli con politiche familiari avanzate, come nel Nord Europa. Le ragioni che giustificano il calo delle nascite sono moltissime, ma variano così tanto da sembrare delle scuse: da una parte è la mancanza di lavoro, dall’altra la carenza di nidi, da una parte è la secolarizzazione, dall’altra l’abitudine ai maxi-sussidi, da una parte sono i bassi tassi di occupazione femminile o l’eccessiva disparità di genere, dall’altra i ritmi di lavoro esagerati. Dove i problemi sono maggiori, come in Italia, anche le nascite sono minori, ma le differenze in fin dei conti sono di pochi decimali: da 1,3 figli a 1,7 figli il salto è grande, ma non così tanto se il differenziale è spesso determinato dal contributo positivo dell’immigrazione e il dato comune è l’aumento di chi non diventa mai genitore insieme alla lenta e progressiva scomparsa delle famiglie numerose.
Tutto sembra essere cambiato, detonato improvvisamente, con la Crisi del 2008, dopo lo scoppio della bolla immobiliare e il fallimento della Lehman Brothers, per il logoramento delle condizioni economiche, ma soprattutto a causa di quella condizione di insicurezza verso il futuro e di precarietà che si è abbattuta sulle nuove generazioni, come suggerisce anche una recente ricerca dei demografi Marcantonio Caltabiano e Chiara Ludovica Comolli.
A questi giovani che si sono trovati a fare i conti con le macerie della prima globalizzazione, papa Francesco ha rivolto diversi appelli accorati, anche usando parole di forte impatto: «Abbiate il coraggio di scelte definitive», «non fatevi rubare il futuro», «abbiate il coraggio della felicità». Il problema è che chi ha “rubato” il futuro ai giovani non è in grado di restituirlo, perché sul banco degli imputati non c’è solo la generazione degli adulti, i figli del baby-boom o i loro predecessori, ma un’intera cultura e una visione del mondo. Ed è al confronto con questo ostacolo che sembrano riferirsi i richiami di Francesco, quando ad esempio parla di «una società spesso ebbra di consumo e di piacere, di abbondanza e lusso, di apparenza e narcisismo».
Che cosa ci ha portati a questo? Nel suo ultimo libro, “Il capitalismo e il sacro” (Vita e Pensiero-Avvenire), l’economista filosofo Luigino Bruni, editorialista di questo giornale, invita seriamente a riflettere sulla «devastazione umana e sociale prodotta dalla cultura-religione-idolatria» rappresentata dal capitalismo. Sotto accusa è la società dell’iper-consumo, un sistema economico e culturale che nel suo franare sembra travolgere tutto, anche gli ultimi scampoli di umanità. Sul New York Times, in una lunga analisi dal titolo emblematico, “The end of babies”, “La fine dei bambini”, Anna Luoie Sussman individua una possibile via d’uscita: «Il primo passo è rinunciare all’individualismo celebrato dal capitalismo e riconoscere l’interdipendenza che è essenziale per la sopravvivenza a lungo termine».
Abbiamo condannato, a ragione, il comunismo, ma anche il capitalismo si sta mangiando i bambini. L’ultima “stazione” di questo “culto” che ha eretto l’egoismo a “regola di vita” sta conducendo all’estinzione della specie? Un aspetto emblematico della vicenda è che benché di figli ne nascano pochi ovunque nel mondo occidentale, tutte le ricerche, come quelle realizzate in Italia dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, indicano che le persone desiderano più bambini di quelli che mettono al mondo. In questo “vorrei ma non posso” del desiderio di famiglia c’è tutto il dramma della precarietà materiale e morale di questa epoca: perché non basta più rimuovere gli ostacoli fisici per colmare il gap, se di fronte c’è una lista infinita di idoli da adorare e/o possedere prima e anche dopo la nascita di un figlio. La promessa di una vita intensa e ricca di cose, di esperienze, di libertà illimitata, può fermarsi di fronte al “limite” rappresentato da un bambino?
Tutto il racconto moderno sulla famiglia è incentrato su una domanda di fondo: un figlio è l’inizio di una vita o l’inizio di una vita di rinunce? A truccare le carte, se ci pensiamo bene, è anche la dimensione iper-competitiva ingrediente principe della tensione capitalistica, e che può tradursi in ansia paralizzante quando ci si mette a pensare cosa serve a un bambino per poter vivere, ma soprattutto competere, per essere al pari degli altri.
Per trovare una risposta rassicurante – o anche solo una frase tipo: “Keep Calm, it’s just a baby” (“Stai tranquillo, è solo un bambino”) da stampare sulle magliette – servirebbe una trama un po’ diversa da quella a disposizione. Nel suo ultimo libro, “Le Nuove Melanconie” (Raffello Cortina), lo psicanalista Massimo Recalcati porta a riflettere sul passaggio già consumato della crisi del sistema capitalistico e su quel che resta del «turbo-consumatore ipermoderno», orfano dell’illusione di non avere né limiti né confini. Il “vuoto” che è rimasto dopo questa crisi, potremmo dire le macerie lasciate dal crollo dei mutui subprime [mutui a clienti non meritevoli di fiducia], sta producendo «angoscia» e una «nuova domanda di sicurezza». Ed è in questo, scrive Recalcati, che si registra «l’affermazione di una nuova melanconia che corrompe la trascendenza vitale del desiderio, assegnando al desiderio stesso un destino di morte». Come dire: possono ancora nascere figli in una società che esprime un bisogno clinico di muri? Che sta melanconicamente delineando il proprio fine-vita?
La cultura che ha trasformato tutto in merce, che ha reso i figli una conquista individuale, un trofeo di cui andare fieri, un prodotto acquistabile, qualcosa che non è più concesso nemmeno ai poveri e che invece riguarda una ristretta cerchia di ambiti in cui lo sviluppo, le opportunità e la qualità della vita sono al massimo, è diventata anche una società che non trova la forza di riprodursi, pur se ne percepisce ancora il desiderio. Il capolavoro ultimo di questo Grande Inganno collettivo è il tentativo di far apparire i figli come una delle cause della crisi ambientale. In attesa di studi che certifichino che una famiglia numerosa orientata alla sobrietà emette meno CO2 di un single della “classe creativa”, bisognerebbe avere il coraggio di mostrare che le due crisi, quella climatica e quella delle nascite, sono prodotte dalla stessa matrice. All’origine c’è sempre l’individuo ripiegato su se stesso, che egoisticamente definisce la propria affermazione scaricando i costi del proprio benessere su qualcun altro e non accetta una revisione degli stili di vita.
Forse in un mondo che corre meno, e riconosce il valore delle relazioni, ci sarà più posto per i boschi e anche per i figli. In questo senso una politica per la natalità deve scegliere se essere timida e irrilevante oppure avere la forza di affrontare una rivoluzione che è anche culturale.
Massimo Calvi Avvenire 26 novembre 2019
www.avvenire.it/attualita/pagine/la-denatalita-colpa-della-crisi-del-capitalismo
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Disarmare la pace
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2019/11/24/messaggio-incontropace-hiroshima.html
Francesco da Hiroshima e Nagasaki. “Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e di morte”. Così il papa ad Hiroshima. Ma lui è l’unico che resta ancorato a quel buco nero e che mette in gioco la sua autorità di leader per parlare da quel buco nero a un mondo che sembra volere sprofondarvi di nuovo. Chi ha colto fin dal suo sorgere l’inaudita novità del pontificato di Francesco, non si stupirà delle sue fermissime parole da Hiroshima e Nagasaki.
Da “queste terre che hanno sperimentato come poche altre la capacità distruttiva cui può giungere l’essere umano” per condannare le armi nucleari come “un crimine” e il pensiero stesso che le ha concepite. Un papa che ha cominciato a Lampedusa (“Vergogna!” salvare le banche e non i naufraghi), che nel memoriale della Shoà in Israele ha rinominato il peccato originale come il peccato non dell’Adam, ma di Caino, che ha aperto l’Anno santo non a Roma ma a Bangui, che ha convocato la Chiesa intera al capezzale dell’Amazzonia morente per il fuoco appiccato dagli uomini, non poteva non salire a quel buco nero.
Vi è salito come al vero nuovo altare su cui l’umano, e insieme anche il divino, sono bruciati per il sacrificio. E ha detto queste parole: “Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?“.
Come sono lontani i vescovi americani che al Concilio, per assolvere la strategia della deterrenza e l’equilibrio del terrore, impedirono che si condannasse anche il solo possesso delle armi nucleari! Ora la Chiesa, finché il papa è il papa, ne condanna oltre al possesso anche la fabbricazione e il commercio, perché la corsa agli armamenti, egli ha detto appena è arrivato a Nagasaki, “spreca risorse preziose che potrebbero invece essere utilizzate a vantaggio dello sviluppo integrale dei popoli e per la protezione dell’ambiente naturale. Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo”.
Ed ha aggiunto una nuova definizione alla pace, dopo quella di Giovanni XXIII («con i mezzi di distruzione oggi in uso e con le possibilità di incontro e di dialogo, ritenere che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace è fuori dalla ragione» «con i mezzi di distruzione oggi in uso e con le possibilità di incontro e di dialogo, ritenere che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace è fuori dalla ragione – alienum a ratione-Pacem in terris) dicendo che “la vera pace è disarmata”: o è disarmata o non è, ossia non può esserci: “Le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. La vera pace può essere solo una pace disarmata”. Essa non sta solo in un non fare (non fare la guerra) ma in un costruire continuo nella giustizia il bene di tutti.
Giustamente noi ci siamo scandalizzati al sapere che pochi ricchi hanno tanta ricchezza quanto la metà più povera della terra, ma ancora di più dovremmo indignarci al sapere che la grottesca enormità della spesa per gli armamenti (giunta, dicono gli analisti, a 1800 miliardi di dollari l’anno scorso) non solo toglie ogni speranza ai poveri, ma impedisce di porre mano alla vera emergenza che minaccia un altro buco nero per il mondo intero: la devastazione degli ecosistemi e la fine stessa della storia. Perché tutto si tiene. “È un grave errore pensare che oggi i problemi possano essere affrontati in maniera isolata senza considerarli come parte di una rete più ampia”, ha detto papa Francesco a Tokyo. E non a caso parlando al recente Congresso mondiale del diritto penale, ci ha tenuto a dire che sta per mettere nel Catechismo della Chiesa cattolica un nuovo peccato, quello ecologico, che grida anch’esso, come la guerra, contro Dio e gli uomini.
Perché se il sistema politico non giunge a metterlo tra i crimini, lui intanto lo ascrive al peccato; e si sa come nella storia i due termini si siano, anche fortunosamente, intrecciati.
La verità è che siamo arrivati a quella svolta epocale per la quale la salvezza dell’umanità e del mondo non è più solo l’argomento delle religioni e delle Chiese, ma è l’urgenza stessa della politica e del diritto. Le due salvezze si incontrano, diventano una sola, fede e storia, grazia e libertà, sono portate dai fatti a incontrarsi in una sintesi nuova, escono dalla dialettica degli opposti. Eppure proprio ora l’irrompere dei particolarismi, dei nazionalismi, dei sovranismi sta distruggendo quel tanto di ordine internazionale che con tanta fatica si era cominciato a costruire dopo la prova della seconda guerra mondiale.
Nel messaggio di Nagasaki sulle armi nucleari il papa ha denunciato proprio questo rovesciamento che è in corso, che si manifesta nello “smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader”. Ormai gli appelli, le denunce, e anche milioni di voci che si levano dalle piazze non bastano più.
Va ripresa con coraggio la strada gloriosa dell’internazionalismo, la costruzione del multilateralismo. Questo, oggi, è il vero “stato d’eccezione” su cui ieri si insediavano i vecchi sovrani. Ma per fare questo occorre tornare alla politica per promuovere una politica per la Terra; occorre fondare un diritto capace di dettare regole impegnative per tutti, un costituzionalismo mondiale e un sistema di garanzie che lo renda efficace, occorre una Costituzione per la Terra.
Raniero La Valle il manifesto martedì 26 novembre 2019
http://serenoregis.org/2019/11/26/disarmare-la-pace-raniero-la-valle
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MATERNITÀ
Dacia Maraini, nella maternità conta la cultura
Colloquio con la scrittrice sul legame con i figli adottivi
Avere un figlio. Diventare madre, una delle esperienze più intense, rivoluzionarie nella vita di una donna. Di quel rapporto, madre-figlio, che crea e genera, sono piene pagine e pagine: scritti, riflessioni, teorie, testimonianze. Ed altrettante se ne potrebbero scrivere per questa relazione che richiama quasi un segreto. “Si tratta del segreto di un legame fatto di una conoscenza carnale profonda, non dicibile, che precede la ragione”. Così scriveva Dacia Maraini in ‘Un clandestino a bordo’, pubblicazione uscita nel marzo 1996, in cui parla di maternità e aborto, dell’implicazione del corpo della donna. Ma che succede nella maternità adottiva? Che segreto lega due esseri, biologicamente sconosciuti, ma che quasi per magia danno comunque anche vita ad un rapporto di tipo fisico, non scontato ed affatto marginale?
È la stessa Maraini che, sollecitata ad una riflessione sul tema, ne parla in un colloquio con Noidonne. “Nella maternità biologica – dice la scrittrice – il primo rapporto fisiologico e viscerale avviene nel ventre della madre. Nella maternità adottiva entra in gioco la cultura, propria dell’essere umano. È l’impronta culturale che orienta le scelte delle donne e degli uomini. Adottare un bambino è una scelta culturale e sentimentale di cui bisogna tener conto. È infatti la cultura l’elemento che distingue l’essere umano dagli animali che fanno figli solo spinti dalla forza riproduttiva. Fare un figlio infatti dovrebbe essere una scelta consapevole e responsabile. Le donne e gli uomini dovrebbero orientare la propria vita in base ad un progetto ben definito, non affidato al caso. Di solito, la decisione di fare un figlio nasce dall’amore, dalla voglia di vivere insieme e di mettere su famiglia. In questo non c’è differenza fra maternità biologica e maternità adottiva”.
Che l’incontro della madre col figlio avvenga in sala parto o in un istituto, o in un ospedale, certo è che quell’incontro resta unico. Da lì si comincia un cammino comune, incancellabile, ci si appartiene, l’uno entra a far parte della vita dell’altro.
Nella gravidanza, “come dicevo, l’incontro fra madre e figlio avviene prima di tutto nel suo ventre. La donna e il feto si riconoscono e si nutrono l’un l’altro. Poi viene il parto ed entra in gioco la società con le sue regole, i suoi bisogni, i suoi valori”. Ecco che subentrano la cura, la protezione, l’attenzione, l’attaccamento, l’amore verso il figlio, fatto distintivo della maternità, di qualunque tipo sia. E del resto, “il sangue conta fino ad un certo punto. Anzi – sottolinea Maraini – direi proprio che conta poco. Quello che conta è l’amore, l’accudimento, l’accettazione dell’altro e la capacità di dare generosamente di sé”.
Nell’adozione padre e madri possono essere sullo stesso piano: l’assenza del coinvolgimento fisico della donna stabilisce una relazione alla pari fra genitori? “Non credo esista una risposta univoca a questa domanda. Le relazioni umane sono molto diversificate, dipendono da tante situazioni diverse. Adrienne Rich, una scrittrice che per me è stata molto importante, ha scritto delle cose interessanti sulla maternità. Fra l’altro, ha raccontato quanto sia stato decisivo per il parto, il passaggio dalle mani di carne delle levatrici alle mani di ferro, come il forcipe, dei ginecologi, quando la medicina è diventata una scienza dal cui studio le donne sono state escluse”.
Mamma biologica e mamma adottiva. Nessuno scontro, né conflitto, né classifica. Lo psicanalista junghiano Massimo Recalcati sostiene che la genitorialità è sempre adottiva perché l’elemento biologico non è tale da contraddistinguere questo rapporto se non si stabilisce una relazione. “Sono d’accordo con lui”, afferma l’autrice di ‘La lunga vita di Marianna Ucria’ che ribadisce: “Anche se il rapporto madre figlio è all’inizio un fatto biologico, questo non è determinante. Gli esseri umani, infatti, sono figli della storia e della cultura che li hanno allontanati, e di molto, dalla natura trasformandola e modificandola. Margaret Mead, una grande antropologa americana, ha scritto un libro illuminante per dimostrare che il valore della maternità cambia secondo la storia e gli usi e i costumi di un popolo. Una riflessione che vale anche da noi, se pensiamo che per secoli il figlio veniva allontanato dalla madre per essere affidato ad una balia, mentre di recente si è stabilito che, appena nato, deve starle vicino. Così anche la questione dell’allattamento: in certi periodi storici l’allattamento al seno della madre è stato considerato inutile, addirittura malefico, mentre in altri momenti essenziale”. Ritorna quindi l’aspetto culturale nel vissuto della maternità, nella vita della donna e del figlio.
Preziose le parole di Dacia Maraini. Preziose le sue osservazioni. L’accoglienza di un figlio adottivo – ci permettono di dire – fa quindi parte di quei comportamenti culturali dove la biologia, per forza di cose, è esclusa ma in cui la relazione umana è esaltata. Un possibile modello di rapporti sociali più evoluti, creativi, empatici. Che acquista così un senso nobile al di fuori del mero rapporto della coppia genitoriale, anche se da esso nasce. Forse è qui il mistero da cui ha preso le mosse questa riflessione.
Agnese Malatesta Noidonne on line n. 45 Anno XIV – 20 novembre 2019
www.noidonne.org/articoli/dacia-maraini-nella-maternit-conta-la-cultura.php
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MATRIMONI
Gassani, “sempre più vecchi e in comune”
E spesso non ci si separa solo per difficoltà economiche. Il presidente dei matrimonialisti Gian Ettore Gassani commenta i numeri dell’Istat sui matrimoni nel Bel Paese
Ci si sposa sempre meno e sempre meno in chiesa, ci si sposa più tardi, si fanno sempre meno figli e sono gli over 65 a divorziare. I numeri dell’Istat tracciano l’immagine di un Paese che, in tema di nozze, è cambiato negli ultimi anni. Il dato più inaspettato è quello che ha visto, nel 2018, un clamoroso sorpasso dei matrimoni col rito civile rispetto ai matrimoni in chiesa.
Su questi numeri abbiamo raccolto il commento di Gian Ettore Gassani, avvocato e presidente dell’Ami (Avvocati matrimonialisti italiani per la tutela delle persone, dei minorenni e della famiglia).
«Quelli dell’Istat – spiega Gassani – sono dati statistici che offrono la fotografia di un Paese che sta cambiando radicalmente. L’Italia è sempre stata il Paese del matrimonio, inteso come una istituzione invincibile e invece le cose non stanno così: nel 1970 furono celebrati 450mila matrimoni, nel 2018 appena 198mila. Sebbene ci sia stato un trend in ascesa del 2%, resta un dato: siamo il penultimo Paese in Europa, dopo la Slovenia, come numero di matrimoni in proporzione al numero degli abitanti. Questo fa pensare. Ovviamente anche in questa analisi bisogna fare dei distinguo: l’Italia del Nord è diversa diverso al Sud: al Nord 4 matrimoni su dieci finiscono in tribunale; al Sud solo l’1,8%, a sottolineare che, a parità di numero di abitanti, c’è una profonda differenza tra le due parti d’Italia».
I matrimoni civili superano quelli religiosi. Lo scorso anno sono stati 195.778 i matrimoni celebrati, il 2,3% in più dell’anno precedente, di questi 98.182, il 50,1% con rito civile, una formula che è in costante aumento (nel 1970 erano il 2,3% del totale, nel 2008 il 36,7%) e che nel nord Italia rappresenta ormai il 63,9% del totale delle nozze. Nel Sud del paese, invece, due matrimoni su tre (il 69,6) si celebrano ancora in chiesa.
«L’elemento che fa riflettere – afferma ancora il matrimonialista – è che i matrimoni civili, nel Paese più cattolico del mondo, abbiano superato quelli con il rito religioso. Ovviamente questo va inquadrato nel dato che, nel 20% dei secondi matrimoni non c’è possibilità di sposarsi in chiesa, ma soltanto al comune. Tuttavia, questa corsa al matrimonio civile pare non avere fine. Al sud i matrimoni religiosi sono ancora in netta maggioranza poiché nel Meridione il matrimonio viene inteso come un sacramento religioso e sentito maggiormente: c’è ancora chi investe nel giorno del matrimonio, ci si sposa di più ci si separa di meno».
Aumentano le coppie di fatto. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso, nel 2018 sono state 2.808, sono gli uomini il 64,2% del totale. Il 37,2% è stato costituito nel nord ovest e il 27,2% dal centro, ma una grande concentrazione è quella nelle grandi aree urbane. «Sono diminuite le unioni civili perché il boom lo hanno fatto all’indomani del varo della legge Cirinnà – aggiunge Gassani – tuttavia abbiamo migliaia di coppie omosessuali che si sono unite civilmente e sappiamo che le unioni civili sono quasi uguali ad un vero matrimonio».
Rileva il presidente Ami «Aumentano anche le coppie di fatto che hanno una struttura sovrapponibile a quella delle coppie coniugate, con figli, con mutui da pagare, con i loro riti che sono simili a quelli delle coppie sposate, Al Centro e al Nord le coppie di fatto sono in costante aumento. Aumenta l’età media degli sposi: 34 lui, 31 lei e anche questo è un segnale. Negli ultimi 30 anni sta aumentando la media: siamo passati dai 25 lui, 23 lei. Questo accade perché il matrimonio non è visto dunque come l’unica soluzione per la propria vita ma viene prima il lavoro, questioni economiche, difficoltà ad accedere ai mutui, c’è una cultura che prevede prima una sistemazione professionale, dopo di che si può pensare a convolare a giuste nozze».
In Italia si fanno pochi figli. Dato allarmante è che si fanno sempre meno bambini: nel 2017 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 458.151 bambini, oltre 14 mila in meno rispetto al 2016 e oltre 26 mila in meno rispetto al 2015. Guardando al triennio 2014-2017, le nascite sono diminuite di circa 45mila unità, mentre sono quasi 120mila in meno rispetto al 2008. Un dato destinato ad aggravarsi anche quest’anno, se consideriamo che a giugno, il numero delle nascite registrate nel primo semestre del 2019 è pari a poco più di 206 mila bambini. Ma non solo. «Un altro dato che preoccupa è che in Italia si fanno pochi figli e uno su 5 nasce fuori dal matrimonio – aggiunge il legale – le coppie mettono al mondo 1,2 figli a testa quindi siamo una società di figli unici: e questo riguarda non solo l’età che avanza ma soprattutto i costi l’assenza di asili nido e di politiche sociali a favore della famiglia».
Figli e politiche del welfare. Per questo motivo, secondo Gassani: «La famiglia deve rimanere al centro dell’agenda politica ed ha bisogno di risorse di aiuti, di welfare, di sostegno, non è possibile lasciarla sola, invece si investe pochissimo per garantire le case ai giovani sposi, per garantire soprattutto le donne lavoratrici che hanno paura di mettere al mondo figli perché si sa, che esiste ancora una grave discriminazione nei confronti delle donne lavoratrici mamme o neo mamme e tutto ciò è gravissimo dal punto di vista sociale e giuridico. È un’altra violenza che le donne subiscono, tra le tante, quella di avere paura di poter diventare madri perché non c’è un sistema che aiuta le donne. Credo che solo una politica importante possa ridare fiato all’istituto del matrimonio ma anche alla coppia in genere, evitando milioni di single, persone che hanno paura di fare il grande passo».
Quanto dura un matrimonio? In chiusura, il presidente Ami ricorda che «La durata media di un matrimonio è di tredici anni, quindi finisce la cosiddetta crisi del settimo anno; e una coppia su 4 che si separa ha superato i 65 anni, anche questo è un dato che fa riflettere. Prima era difficilissimo vedere un over 65 separarsi, oggi è molto facile. Un paese che è cambiato profondamente anche se, al suo interno tra Nord e Sud, si registrano profonde differenze culturali. È chiaro che al Sud, accanto a quella che è la visione del matrimonio ci sono anche difficoltà economiche, le donne sono disoccupate per cui hanno difficoltà a chiedere la separazione, poiché sappiamo le separazioni impoveriscono».
Gabriella Lax studio Cataldi 9 novembre 2019
www.studiocataldi.it/articoli/36515-matrimoni-gassani-sempre-piu-vecchi-e-in-comune.asp
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MIGRANTI
Sono più di 3mila i tutori volontari per i minori stranieri
Sono già più di 3mila in Italia i tutori volontari dei minori stranieri non accompagnati. Sono in netta prevalenza donne, laureate, residenti in particolare in Sicilia e nel Mezzogiorno e, a fine 2018, dopo i corsi di formazione e il via libera dei Tribunali, hanno già avuto un abbinamento con quasi 4mila ragazzi e ragazze arrivati da soli nel nostro Paese. Sono questi i risultati del primo monitoraggio sul Sistema della tutela volontaria effettuato dall’Ufficio nazionale del Garante per l’infanzia e l’adolescenza, che Avvenire è in grado di anticipare.
Negli elenchi dei Tribunali per i minorenni, infatti, risultano già iscritti per la precisione 3.029 tutori volontari di minori stranieri non accompagnati (Msna), di cui 505 provenienti da elenchi preesistenti all’entrata in vigore della legge 47, 7 aprile 2017. www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/04/21/17G00062/sg
Si tratta della norma che ha riformato l’accoglienza dei minori migranti nel nostro Paese, con l’obiettivo di favorirne la protezione e l’integrazione grazie all’affidamento in famiglia o, appunto, la tutela da parte di un volontario. Il tutore non ospita a casa propria il minore, lo aiuta però nello svolgimento della pratiche burocratiche, ma soprattutto lo accompagna nel percorso di vita, agevolandone lo sviluppo personale e l’integrazione nella nostra società.
Particolarmente interessante è la composizione delle persone che si sono rese disponibili a questo compito di guida e di cura dei minori immigrati e che per farlo, prima del vaglio da parte dei Tribunali, hanno seguito uno dei corsi preparatori organizzati dai Garanti regionali dell’infanzia. Fra i tutori, infatti, il 75,4% è rappresentato da donne, il 57,7% ha un’età superiore ai 45 anni e ben l’83,9% è laureato, il 77,8% ha un’occupazione – per lo più nelle professioni intellettuali, scientifiche e a elevata specializzazione – e il 9,1% l’ha avuta ed è oggi pensionato.
Particolarmente impegnati risultano la Sicilia (che peraltro ha il record di minori stranieri non accompagnati ospitati) e il Mezzogiorno in generale, anche se il numero dei tutori non dipende solo da quante persone si rendono disponibili, ma anche dalla organizzazione dei corsi da parte dei Garanti regionali – 48 quelli effettuati in 18 mesi, con 26 ore di formazione – e dalla celerità dei Tribunali nel verificare i requisiti, iscrivere i tutori negli appositi elenchi e dare il via libera agli abbinamenti con i ragazzi e le ragazze. I primi tre distretti di Corte d’appello per numero di tutori volontari iscritti negli elenchi sono Catania (244), Roma (242) e Palermo (241). Hanno meno iscritti in Italia, invece, Campobasso e Trento con 18, Messina con 19 e Brescia con 22. Così, nel corso dei 12 mesi del 2018 sono stati accettati dai tutori nominati 3.902 abbinamenti a un minore straniero non accompagnato.
Si tratta di un risultato molto positivo e significativo, se si considera che, secondo l’ultimo monitoraggio del ministero del Lavoro, ad ottobre in Italia erano presenti nel nostro Paese e censiti 6.566 minori stranieri non accompagnati (mentre 5.282 risultano irreperibili), di cui il 94% maschi e il 6% femmine. Sono in prevalenza adolescenti sulla soglia della maggiore età – l’86% ha 16 o 17 anni – mentre i bambini tra 0 e 6 anni solo appena lo 0,8% e quelli nella fascia d’età 7-14 il 5,3%. Per un quarto del totale si tratta di ragazzi albanesi, seguono i pakistani e gli egiziani con l’8% circa ciascuno. Le Regioni con la presenza maggiore sono, come detto, la Sicilia con oltre il 23%, la Lombardia con il 12 e il Friuli Venezia Giulia con il 10%.
Francesco Riccardi Avvenire 28 novembre 2019
www.avvenire.it/attualita/pagine/sono-piu-di-3mila-i-tutori-volontari-per-i-minori-stranieri
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NONNI
Lo statuto onto-giuridico della nonnità
In questi ultimi tempi al neologismo “genitorialità” si è aggiunto quello di “nonnità” che non è, da molti, conosciuto o riconosciuto. L’Autrice, riportando i pareri di psicologi e facendo riferimento alle fonti normative internazionali e nazionali e anche alla Carta costituzionale, tratteggia questa sfera esistenziale e relazionale riguardante i nonni che è la nonnità e rivela come sia “costituzionale” nella crescita dei nipoti e di tutta quella che dovrebbe essere la comunità.
1. Nonni da ri-conoscere. Come la sfera attinente i genitori costituisce la genitorialità così quella riguardante i nonni realizza la nonnità, che non è solo un neologismo del XXI secolo ma può essere ritenuto anche un “sillogismo relazionale”, di generazione in generazione.
La Legge 31 luglio 2005, n. 159 “Istituzione della Festa nazionale dei nonni”, di soli tre articoli, ha istituito la “festa dei nonni” (esistente in altri Paesi, per esempio negli USA già dal 1978) e riconosciuto il loro ruolo socio-giuridico, come si ricava dall’art. 1 comma 1: “È istituita la «Festa nazionale dei nonni» quale momento per celebrare l’importanza del ruolo svolto dai nonni all’interno delle famiglie e della società in generale”. Indicativo che la festa sia definita “nazionale” e che ricorra il 2 ottobre che cristianamente è la “festa degli Angeli Custodi”. In tal modo si sono valorizzati la matrice cristiana della Costituzione italiana e l’ascendenza degli stessi padri costituenti. Nel comma 4 dell’art. 1 si parla, poi, di “crescenti funzioni assunte dai nonni nella famiglia e nella società” che è ancora più pregnante del riconoscimento del ruolo.
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2005/08/12/005G0191/sg
Infatti, la relazione tra nonni e nipoti realizza i valori costituzionali, quali lo svolgimento della personalità e la solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e può essere ritenuta una “funzione che concorre al progresso materiale o spirituale della società”, mutuando la terminologia dell’art. 4 Cost. (si pensi pure alle varie forme di prestazioni volontarie da parte di persone anziane, tra cui la figura del “nonno vigile”). Etimologicamente “progresso” è andare avanti ed è quello che hanno fatto i nonni, di cui sono esempio i nonni.
www.senato.it/1024
Ada Fonzi, esperta di psicologia dello sviluppo, scrive: “Che cosa significa questo rapporto intergenerazionale per i nonni? Moltissimo. Significa non rinunziare a cogliere il dipanarsi della traccia della vita, significa riuscire a fare in modo che il presente, inevitabilmente impoverito, e il futuro, inevitabilmente ridotto e incerto, siano riscattati da un tesoro accumulato, un passato che continua nonostante tutto a esistere e farsi presente. È il segreto di quella che gli psicologi chiamano «generatività», un «pensare per generazioni» che permette di sentirsi ancora vivi e utili anche se le forze incominciano a venire meno”.
Anche Maria Teresa Zattoni e Gilberto Gillini, consulenti relazionali e pedagogisti della famiglia, scrivono: “[…] i nonni sono chiamati a imparare il bello dell’attesa, della non-pretesa, dello stupore e della gratitudine. Essi rappresentano una fase della vita di famiglia assolutamente indispensabile, perché possono diventare grandi «allenatori» per la seconda generazione: mostrano che la vita vale la pena di essere vissuta, nonostante intoppi e dolori. E mostrano che il dono da offrire alle nuove generazioni è quello della pace, cioè della sintonia tra mente e mano, tra desiderio e motivazione al fare”.
“[…] anziani e bambini, gli unici a possedere una via di fuga verso il fantastico. Gli unici a volare via coi palloncini e ad avere nella testa una macchina dei sogni” [Dalla recensione del film d’animazione sulle emozioni “Inside out”, 2015].
Tra nipoti e nonni vi è un insondabile e ineffabile legame che va al di là di ogni riconoscimento giuridico, per questo sarebbe auspicabile costituirlo, mantenerlo e custodirlo senza andare nelle aule giudiziarie. “Il segreto della virtù dei nonni sta nell’amore dei nipoti” [Da un racconto di Natale].
La nonnità sia vissuta come una delle relazioni fondamentali e non fatta valere nelle aule giudiziarie visto che, in taluni casi, i nonni devono ricorrere ai tribunali per poter almeno vedere i propri nipoti (e la negazione è una vera sottrazione del “paesaggio emozionale”), anche laddove non vi sia una manifesta conflittualità familiare. Sempre più spesso, purtroppo, le situazioni e/o i diritti che dovrebbero essere esercitati e vissuti nella normalità sono oggetto di acerrimi conflitti e si rivendica davanti ai giudici quello che un tempo era la quotidianità familiare e tutto a discapito dei bambini.
“Gli ascendenti hanno il diritto a mantenere rapporti effettivi con i nipoti, anche dopo la separazione o il divorzio dei genitori: le Autorità nazionali che non predispongano tutte le misure necessarie per tutelare il benessere del minore e favorire il percorso di riconciliazione con i nonni e non agiscano con rapidità per rendere effettivo ed efficace tale rapporto pongono in essere una violazione dell’art. 8 della Cedu [Convenzione europea dei diritti dell’uomo]. A questo proposito, giova ricordare che i rapporti tra ascendenti e nipoti rileva ai fini della vita familiare di cui all’art. 8 citato” (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 20 gennaio 2015). Per quanto discutibile l’espressione “ascendenti” riferita ai nonni, il suo significato originario (da “ascendere”) indica un moto di salita, di innalzamento, un moto di vita: quanto di meglio si possa trasmettere ai figli. La genitorialità, pertanto, non sia gelosia dei figli ma genealogia non solo di generazioni ma anche di emozioni per i figli. I figli sono un po’ per tutti, ma in realtà non sono di nessuno, se non della vita: la loro vita.
http://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=0900001680063777
La nonnità: una delle relazioni più significative della vita, che accompagnano per tutta la vita e oltre la vita. Alcune generazioni presenti non godono di questo privilegio a causa di relazioni familiari conflittuali, come le cosiddette “famiglie chiasmatiche”. Si devono apprezzare i nonni ricordando che sono tali e non surrogati o antagonisti dei genitori, anche se accanto a numerose sentenze che sostengono le ragioni dei nonni, significativa è la sentenza della Cassazione civile, Sezione 1, 19 gennaio 2015, n. 725, che, nel rigettare il ricorso della nonna materna che chiedeva il ricongiungimento con la nipote, ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito fondata sull’effetto altamente negativo (in quel caso esaminato) nell’interesse preminente della minore del mantenimento del rapporto di frequentazione con la ricorrente. Per evitare la giudizialità anche del rapporto nonni-nipoti è bene riconsiderare quanto di positivo e costruttivo vi sia in questo rapporto.
www.personaedanno.it/articolo/non-esiste-un-incondizionato-diritto-di-visita-dei-nonni-cass-7522015-valeria-mazzotta
Lo psicologo e psicoterapeuta Fulvio Scaparro rammenta: “I bambini amano i racconti e lo si capisce fin da quando ancora non hanno l’uso della parola. Ascoltano rapiti le storie ben raccontate da genitori e nonni che trovano, essi stessi, piacere del narrare”. Il filosofo francese Paul Ricoeur (in “Tempo e racconto”) parlava di “identità narrativa”, quale capacità umana di narrarsi, come combinazione dei due poli della permanenza e del cambiamento. Occorre recuperare il tempo e la capacità di narrare e narrarsi per contribuire allo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale dei fanciulli (art. 27 par 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia) affinché anche loro possano, un giorno, concorrere al progresso materiale o spirituale della società (succitato art. 4 comma 2 Costituzione).
I nonni danno il loro apporto nella costruzione dell’identità dei bambini. A tale proposito gli esperti Zattoni e Gillini affermano: “Occorre narrare, infatti: ne abbiamo bisogno, oggi più che mai, perché non sappiamo più farlo. Una o due generazioni fa c’erano i nonni scampati alla guerra e così raccontavano, raccontavano… La tentazione è oggi quella di dirsi: «Non ho niente di speciale da dire». Non è vero. Per un nipote sapere qualcosa delle generazioni che l’hanno preceduto significa stabilità e connessione. Stabilità: dietro le mie spalle non c’è il vuoto, il silenzio, l’anonimato (purtroppo ci stiamo preparando a generazioni di figli dell’eterologa o perfino della maternità surrogata che rischieranno di sentirsi questo vuoto, questa “negazione” della provenienza!). Io figlio/nipote, so da quali miliardi di gesti buoni, da quali ferite, da quali errori provengo: e posso sentirmi orgoglioso perché la vita è arrivata fino a me. Posso anche ricevere “compiti evolutivi” che concorrono al senso della mia vita! Al sentirmi di qualcuno! Posso trovare il mio posto perché una lunga fila di persone mi precede e so che una fila mi seguirà”. Narrare significa, nell’etimologia, “far conoscere raccontando, rendere esperto, consapevole”, pertanto corrisponde a quell’“impartire orientamento ed i consigli necessari” cui sono tenuti genitori e altri adulti secondo l’art. 5 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. www.unicef.it/Allegati/Convenzione_diritti_infanzia_1.pdf
www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm
Lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai soggiunge: “[…] io penso che i nonni possano dare consigli ai genitori, quando questi si confrontano con loro e chiedono aiuto. Allo stesso tempo i nonni devono educare i nipoti mentre li hanno vicini a loro, senza però sostituirsi a mamma e papà”. Genitori e nonni: a ciascuno il proprio ruolo e la propria responsabilità nell’impartire l’orientamento ed i consigli necessari al fanciullo (ai sensi del summenzionato art. 5 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Ai nonni si può riferire a pieno titolo quel compito di impartire orientamento e consigli “avendo la presbiopia della vita”.
Quando vengono a mancare i nonni, viene a mancare una parte essenziale dell’albero genealogico e anche una ragione di far ritorno alle radici. Tra nonni e nipoti vi sono una notevole differenza d’età e altre differenze che si rivelano solo arricchenti, anche perché lo stato d’animo è lo stesso (l’incertezza di una fase della vita) e l’emozione provata è la stessa: quella di vivere una delle relazioni più importanti della e per la vita. Età, difficoltà o avversità non causano inabilità ad amare in chi non si fa sopraffare: questo l’esempio e il percorso di vita tracciato dai nonni. I nonni: pilastri e pioli di vita per tutta la vita.
Nello sviluppo della personalità del fanciullo sono essenziali anche i nonni, da non trattarsi né come baby sitter né come secondi genitori. “Quando la cura e le preoccupazioni educative, che fanno inevitabilmente parte dei compiti dei genitori, passano in secondo piano, – spiega Ada Fonzi – ci si può abbandonare alla gioia di una consonanza emotiva di cui da anni non si aveva più esperienza. Il bambino parla e il nonno lo ascolta, senza lasciarsi scoraggiare da parole incomprensibili o frasi sconnesse, preso anche lui in una sorta di cerchio magico in cui ciò che conta è lo sguardo fiducioso del piccolo e la stretta della sua manina. Questo per quanto riguarda i più piccoli, mentre per i più grandi leggere insieme o risolvere un problema di matematica sono ugualmente occasioni imperdibili che contrassegnano un rapporto straordinario di fiducia reciproca”. Nell’art. 2 della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967) si legge: “Perché possa svolgere le sue attività di gioco e di lavoro, il fanciullo ha bisogno di convenienti rapporti umani”. E tra i convenienti (da “convenire”, incontrarsi) rapporti umani ci sono sicuramente quelli con i nonni.
https://www.diritto.it/stampa-articolo/?articolo_id=27031
https://www.diritto.it/l-attualita-della-carta-dei-diritti-del-fanciullo-al-gioco-e-al-lavoro
La Fonzi aggiunge: “Capita alcune volte che i genitori siano critici nei confronti dei nonni, accusati di essere troppo permissivi; «lo vizi troppo» è il solito ritornello. Non prendetevela, nonni. Scrollatevi di dosso i compiti educativi, che spettano ai genitori, e abbandonatevi al piacere di un’affezione totalizzante. Siate consapevoli che quel bambino non è solo figlio dei suoi genitori, ma di più generazioni, di tutte quelle che lo hanno preceduto. Insomma, chi non va a trovare i nonni non commette un solo peccato mortale. Ma due! Uno verso se stesso e l’altro verso i nonni”. Nell’art. 8 par. 1 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si prevede “[…] il diritto del fanciullo di conservare la propria identità, nazionalità, nome e relazioni familiari”. I nonni sono componenti insostituibili e indelebili, nonostante tutto e tutti, dell’identità, della nazionalità, del nome (inteso anche come cognome) e delle relazioni familiari di ogni bambino. Mentre in passato nel nostro ordinamento giuridico i nonni erano chiamati solo per gli oneri (ai sensi del previgente art. 148 cod. civ.), le novelle legislative della L. 219/2012 e del D.Lgs. 154/2013 hanno tenuto conto altresì dell’aspetto relazionale in vari articoli del codice civile, in particolare nell’art. 317 bis, rubricato “Rapporto con gli ascendenti”, la cui formulazione è stata ritenuta poco felice perché suscettibile di contraddizioni e più interpretazioni (per esempio il verbo “mantenere” rispetto a coloro cui è impedito di vedere i nipotini sin dalla nascita). www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/12/17/012G0242/sg
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/01/08/14G00001/sg
www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-ix/capo-i/art317bis.html
La giornalista Renata Maderna osserva: “[…] secondo il normale ciclo della vita: nonni più affettuosi e vizianti (in nome del fatto che non ci trascorrono tanto tempo insieme…) e genitori più coerenti ed educanti. Mi sembrerebbe più allarmante il contrario, che purtroppo non di rado si osserva, quando i genitori, piuttosto di risultare simpatici, diventano gli sdolcinati avvocati difensori dei figli e i nonni degli insopportabili e brontoloni censori di costumi”. Genitori e nonni, figure parentali e educative differenti che devono coesistere, senza confliggere, per il bene dei bambini. Come recita il Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, “[…] il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione”. Il primo verso “Un vecchio e un bambino si preser per mano” e tutto il testo della canzone “Il vecchio e il bambino” di Francesco Guccini si addicono alla relazione nonni-nipoti e a quelli che dovrebbero essere i contenuti e le emozioni della nonnità. Una relazione basata sul con-tatto, sulla con-divisione perché nonni e nipoti hanno, nella maggior parte dei casi, lo stesso atteggiamento trepidante nei confronti della vita e la stessa fragilità essendo gli uni verso la fine del cammino e gli altri allo start della staffetta della vita.
2. Nonni da ri-spettare. Papa Francesco racconta della nonna Rosa: “È stata spogliata tante volte negli affetti, ma aveva sempre lo sguardo in alto. Diceva poche cose di una saggezza semplice. Consigliava poco, ma si vedeva che rifletteva tanto e pregava tanto”. I nonni di una volta, i nipoti di una volta: un rapporto fatto di presenza, di stare, sostare, restare. In passato non c’era distinzione tra nonni paterni e materni, ma c’erano solo i nonni, il rispetto, l’ascolto, l’esempio, lo sguardo espressivo, poche parole semplici, senza alcuna interpretazione, dietrologia, lettura tra le righe o altra dissonanza, bensì soltanto emozioni sincere che sarebbero diventate per i nipoti ricordi basilari nella crescita e nel fruttificare i semi ricevuti. La nonnità era e dovrebbe essere basata sulla naturalezza (dal verbo “nascere”), perché è quel rapporto che fa sì che geneticamente e genealogicamente i nipoti ci siano. I nonni sono “amici” (dalla stessa radice di “amare”) particolari che avviano al sentimento dell’amicizia, a quei valori di cui si parla nell’art. 29, relativo all’educazione, della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. I nonni sono “ascendenti” non solo dal punto di vista giuridico ma anche da quello emozionale e psicologico.
Papa Francesco continua: “La nostra società ha privato i nonni della loro voce. Abbiamo tolto loro lo spazio e l’opportunità di raccontarci le loro esperienze, le loro storie, la loro vita. Li abbiamo messi da parte e abbiamo perduto il bene della loro saggezza. Vogliamo rimuovere la nostra paura della debolezza e della vulnerabilità, ma così facendo aumentiamo negli anziani l’angoscia di essere mal sopportati e abbandonati”
[Papa Francesco in “La saggezza del tempo. Papa Francesco in dialogo sui grandi temi della vita”, ed. Marsilio 2018, p. 9].
In latino “nonnus” significava “monaco”, in senso ampio “persona anziana”, mentre “nonno” si diceva “avus”. In passato esisteva una riverenza nei confronti dei nonni che, purtroppo, si è persa. La nonnità è un diritto relazionale dei bambini che, oltre a fondamenti psicologici, antropologici e sociologici, trova i suoi presupposti in vari testi normativi, tra cui la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, in cui nell’art. 5 si parla di “famiglia allargata” e nell’art. 8 di “relazioni familiari”.
Il pedagogista Daniele Novara spiega: “I nonni sono importantissimi, ma a piccole dosi. Solo così possono esprimere il loro potenziale affettivo e ludico; viceversa, sono costretti a mettersi dei panni che appartengono ai genitori e anche alle educatrici di asilo nido. I nidi di qualità sono una straordinaria occasione di crescita e di apprendimento per i bambini. Nel nido il loro mondo sensoriale è valorizzato al massimo con i tanti materiali presenti, nella possibilità di fare e sperimentare continuamente e di giocare e socializzare con gli altri bambini. Lasciamo che i nonni facciano i nonni, senza imporre compiti e funzioni che non appartengono loro”. I genitori devono fare i genitori, i nonni devono fare i nonni e si deve consentire loro di esserlo per il bene dei bambini. “La responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo ai genitori o, all’occorrenza, ai tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi debbono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo” (art. 18 par. 1 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
“Se si fanno i bambini avanti negli anni anche i nonni saranno più vecchi e non potranno godersi i nipotini – secondo la psicologa Enrica Spotorno –. È un peccato perché sono una ricchezza. Ma purtroppo stanno scomparendo proprio per la tendenza a diventare genitori avanti negli anni”. Anagraficamente (e anche sotto altri profili) i genitori non devono essere nonni e i nonni non devono essere bisnonni o baby sitter o accompagnatori o visitatori o, peggio, inesistenti o resi tali. I nonni contribuiscono concretamente allo sviluppo del bambino. “I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare, nei limiti delle loro possibilità e delle loro disponibilità finanziarie, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo” (art. 27 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).
La storica Lucetta Scaraffia scrive: “Le nonne, che hanno allevato i figli senza il soccorso paterno, in tempi in cui internet non esisteva e in cui in fondo anche ai libri specializzati ricchi di istruzioni non si faceva molto caso, si trovano spiazzate. «Adesso non si fa più così» è la frase che si sentono ripetere più spesso: a proposito, per esempio, della posizione che devono tenere i neonati durante il sonno, o dell’uso del ciuccio, oppure degli intervalli dell’allattamento. Perfino le ninne nanne vengono talvolta sostituite non soltanto dalle musiche che si possono facilmente scaricare dai telefonini, ma anche dai misteriosi rumori bianchi, un misto di fruscii e di scorrere d’acqua, che dovrebbero rilassare i neonati. Rilassamento che, però, può essere all’improvviso interrotto dalla pubblicità, perché ovviamente tutto è commercio. Le nonne almeno continuano a cantare gratis…”. Le nonne (e in generale i nonni) non possono essere relegate dalla vita dei nipoti né essere delegate in tutti gli aspetti della vita dei nipoti, ma rappresentano proprio il punto di equilibrio e contribuiscono a un “imprinting” incancellabile e indispensabile nella formazione dei nipoti. Significativa a tale proposito quanto si legge nel già citato art. 27 par. 2 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, “i genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare”, disposizione che è diversa dalla formulazione di altre ove si parla di “genitori o tutori”.
Scaraffia aggiunge: “I padri di oggi sono partecipi, competenti, presenti perfino alle visite di controllo in gravidanza. Un nuovo ruolo che cambia tutte le relazioni famigliari, incluse quelle dei nonni”. Anche se le dinamiche familiari stanno cambiando e cambiano a beneficio della figura materna, la coppia genitoriale o il sodalizio genitoriale deve fare in modo di non chiudersi e di non escludere i nonni o di non attribuire loro un ruolo marginale o ritagliato. I nonni: pionieri di vita, coloro che trasmettono passioni, pazienza nel tempo (saper aspettare), parsimonia del tempo (fare tesoro e buon impiego del tempo), pace interiore. I nonni contribuiscono alla salute dei nipoti: “I cambiamenti dei modelli di vita, di lavoro e del tempo libero hanno un importante impatto sulla salute. Il lavoro e il tempo libero dovrebbero esser una fonte di salute per le persone. Il modo in cui la società organizza il lavoro dovrebbe contribuire a creare una società sana. La promozione della salute genera condizioni di vita e di lavoro che sono sicure, stimolanti, soddisfacenti e piacevoli” (dal paragrafo “Creare ambienti favorevoli” della Carta di Ottawa per la promozione della salute, 1986).
La giornalista Francesca Mineo si occupa della genitorialità adottiva e, conseguentemente, della nonnità adottiva: “L’attesa di un bambino adottivo, desiderato e amato prima ancora di essere conosciuto, rappresenta infatti una rivoluzione non solo per i futuri genitori, ma anche per i nonni. Questi ultimi hanno infatti un grande ruolo di sostegno dei figli nella scelta adottiva, e al contempo devono a loro volta imparare a gestire il proprio bagaglio emotivo di domande, costruendo la relazione con i neo-arrivati nipoti. Nulla è scontato: ci saranno tempi lunghi come nella “gravidanza degli elefanti”, interrogativi, dubbi e tanta voglia di essere una vera risorsa per la nuova famiglia che nasce” [F. Mineo in “Adozione. Una famiglia che nasce“, ed. San Paolo, Cinisello B., MI, 2018]. La nonnità è sempre una forma di adozione, elezione ed elevazione del cuore.
Si evince il ruolo fondamentale dei nonni anche dalle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), in particolare svolgono una vera funzione socio-educativa durante il ciclo della scuola dell’infanzia. www.indicazioninazionali.it/category/documenti-ufficiali
Nel paragrafo “Le famiglie” si legge: “Mamme e papà (ma anche i nonni, gli zii, i fratelli e le sorelle) sono stimolati a partecipare alla vita della scuola, condividendone finalità e contenuti, strategie educative e modalità concrete per aiutare i piccoli a crescere e imparare, a diventare più “forti” per un futuro che non è facile da prevedere e da decifrare”. Successivamente si legge: “[Il bambino] Pone domande sui temi esistenziali e religiosi, sulle diversità culturali, su ciò che è bene o male, sulla giustizia, e ha raggiunto una prima consapevolezza dei propri diritti e doveri, delle regole del vivere insieme”. E i nonni sono (o dovrebbero essere) le persone meglio deputate per rispondere a domande sui temi esistenziali e religiosi data l’età più matura e le maggiori esperienze.
Nel “Pilastro europeo dei diritti sociali” in 20 principi (2017) si parla di “solidarietà tra le generazioni”: tutelare la nonnità è una delle forme di questa solidarietà (quella solidarietà già espressa nell’art. 2 della Costituzione, che è stata conquistata e scritta dai “nonni di Italia”) per ricambiare la solidarietà ricevuta dai nonni. La nonnità è componente essenziale del capitale sociale in cui credere e su cui investire (per esempio con più progetti relativi a bambini e anziani insieme nelle stesse strutture “intergenerazionali”, cioè case di riposo in cui sono collocati anche asili nido o simili) per prevenire e superare qualsiasi crisi.
https://ec.europa.eu/commission/priorities/deeper-and-fairer-economic-and-monetary-union/european-pillar-social-rights/european-pillar-social-rights-20-principles_it
“Se oggi vi sono ancora dei frammenti di saggezza in questo pazzo mondo, bisogna ringraziare i nonni” (lo psichiatra Vittorino Andreoli). Saggezza è letteralmente “saggiare, pesare”, come sapienza è “percepire col gusto, con i sensi, avere sapore e senno”: quello che viene richiesto dalla vita e quello di cui hanno bisogno i giovani per andare avanti nella vita.
Margherita Marzario Altalex 29novembre 2019
www.altalex.com/documents/news/2019/11/29/statuto-onto-giuridico-nonnita
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NULLITÀ MATRIMONIO
Tradimento e vita da separati in casa non bastano per annullare il matrimonio
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile[GM2] , sentenza n. 30900, 26 novembre 2019
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_36587_1.pdf
Per la Cassazione, il tradimento a nemmeno un anno dal matrimonio e un’unione formale non giustificano l’annullamento ecclesiastico se c’è stata convivenza per tre anni. La Cassazione, ribadendo i principi già sancito dalla Sezioni Unite n. 16379/2014 rigetta il ricorso di un marito che ha richiesto la delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio perché a distanza di mesi dalla cerimonia ha avviato una relazione extraconiugale vivendo da quel momento un’unione di pura forma, da separato in casa. Per la Corte però la convivenza ultratriennale e il fatto che il ricorrente non abbia allegato né provato il venir meno dell’affectio coniugalis ostacolano la pronuncia di delibazione richiesta.
Il giudice dell’appello respinge la domanda di delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio, contratto dall’appellante e celebrato nel settembre del 2011. La corte, richiamando la SU n. 16379/2014 ha respinto la domanda stante la stabile convivenza della coppia per più di tre anni da matrimonio.
Stabilità della convivenza ostacolo alla delibazione. Il marito soccombente in appello ricorre in Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 8 c. 2 della legge n. 121/1985 e dell’art. 797 c.p.c. in quanto, secondo la giurisprudenza delle SS. UU., i requisiti della stabilità e dell’esteriorità della convivenza ultratriennale, che ostacolerebbero la delibazione della sentenza non sussisterebbero nel caso di specie.
Il marito ammette infatti di aver avuto una relazione extraconiugale dopo un anno dal matrimonio e di ave vissuto con la moglie come separato in casa dal dicembre 2011. Egli ritiene inoltre che, a parte l’impossibilità di evincere dalla sentenza la continuità della convivenza, la qualificazione e l’interpretazione della stessa, nel caso di specie, non può definirsi stabile e continuativa, in ogni caso per ciò che riguarda il suo matrimonio la stessa sarebbe solo “formale.”
La convivenza triennale fa passare in secondo piano tradimenti e un matrimonio di apparenze. La Cassazione rigetta il ricorso del ricorrente in quanto: “il dato incontroverso (come nel caso in esame) della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale, ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l’affermazione comune dell’esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione.”
Mancanza di affectio coniugalis che non dedotta e neppure provata dal ricorrente. La sua distanza affettiva dall’unione matrimoniale infatti non ha impedito ai due coniugi di convivere comunque insieme per tre anni, proseguendo così la convivenza sorta con il matrimonio.
Annamaria Villafrate studio Cataldi 30 novembre 2019
www.studiocataldi.it/articoli/36587-tradimento-e-vita-da-separati-in-casa-non-bastano-per-annullare-il-matrimonio.asp
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OMOFILIA
Aids: colpisce solo gli omosessuali, storia di una bufala dura a morire
L’Aids colpisce solo gli omosessuali? La risposta è un no deciso e a fare chiarezza su una ‘bufala’ dalle radici antiche sono gli esperti di ‘Dottoremaeveroche‘, il sito della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo) contro le fake news, in vista della Giornata mondiale contro l’Aids del 1 dicembre.
La storia della sindrome da immunodeficienza acquisita e dell’Hiv, il virus che la causa, “ha avuto inizio nel 1980, negli Stati Uniti, al Los Angeles Medical Center. Qui Micheal Gottlieb venne chiamato a visitare un paziente – trentatreenne, bianco, omosessuale – con una grave forma di polmonite e un’infezione orale dovuta al fungo Candida albicans“, ricordano gli esperti. “Il paziente mostrava anche segni di un’infezione da citomegalavirus. A distanza di un anno lo stesso medico Gottlieb visitò un altro paziente, omosessuale di 33 anni, che mostrava un quadro clinico molto simile. Nel giro di poco aumentarono i casi di uomini giovani omosessuali con infezioni soprattutto di Candida albicans e citomegalovirus: il comune denominatore era una forma di immunodeficienza di origine ignota purtroppo incurabile, che inizialmente la comunità medico-scientifica chiamò con il nome di Gay Related Immunodeficiency Syndrome (sindrome da immunodeficienza correlata all’essere gay)”.
Ma questa associazione tra omosessualità e morbo “venne presto smentita con la segnalazione da parte del Jackson Memorial Hospital di Miami, in Florida, di diversi casi analoghi che riguardavano però pazienti non bianchi e non omosessuali, sia uomini sia donne”. Nel giro di poco i Centers for Disease Control descrissero altri casi tra tossicodipendenti ed emofiliaci. “Il quadro che emergeva era quello di una malattia trasmissibile sessualmente o attraverso il contatto diretto con sangue infetto.
Nel 1982 il termine Gay Related Immunodeficiency Syndrome venne quindi corretto in Acquired Immuno Deficiency Syndrome, da cui la sigla Aids, con cui viene chiamata la sindrome in tutto il mondo”. Attorno a questa malattia, asintomatica nei suoi primi stadi e altamente contagiosa, si venne a creare un terrore sociale e conseguentemente una discriminazione e uno stigma.
“E per molto tempo l’etichetta ‘peste gay’ e ‘flagello di Dio contro gli omosessuali’ ha mantenuto in vita l’idea che l’Aids colpisca prevalentemente gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini, nonostante le conoscenze scientifiche sulla modalità di trasmissione dell’Hiv, distogliendo l’attenzione dal concreto e reale rischio di diffusione dell’infezione nel mondo: la trasmissione eterosessuale”, affermano i medici anti-bufale. Per avere un’ulteriore conferma che l’Aids non colpisce solo gli uomini che hanno rapporti con persone del proprio sesso è sufficiente leggere i dati epidemiologici: per esempio in Italia nel 2017 sono state 3.443 le nuove diagnosi di infezione da Hiv, pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti, con un’incidenza pressoché uguale a quella della media osservata tra le nazioni dell’Unione europea (5,8 nuovi casi per 100.000).
I casi più numerosi – riferisce l’Istituto superiore di sanità – sono attribuibili a trasmissione eterosessuale (46%), seguiti dai casi relativi a maschi omossessuali (38%) e persone che usano sostanze stupefacenti (3%). Quindi solo quattro casi di nuove infezioni su dieci riguardano gli omosessuali. Quali sono dunque i comportamenti a rischio? “Esistono tre diverse modalità di trasmissione dell’Hiv: via ematica, via sessuale che è la più comune e via materno-fetale.
- Il contagio per via ematica avviene attraverso lo scambio di siringhe infette o attraverso trasfusioni di sangue infetto.
- Quello per via sessuale è il più diffuso, la carica virale presente nello sperma e nelle secrezioni vaginali può infatti raggiungere livelli elevati. Pertanto tutti i rapporti sessuali non protetti dal preservativo possono essere causa di trasmissione dell’infezione.
- c. Terza e ultima modalità di trasmissione è quella da madre a figlio: può avvenire durante la gravidanza, durante il parto o con l’allattamento”, precisano gli esperti su Dottoremaeveroche.it.
Quanto ai rischi con un bacio o una stretta di mano, “non basta una semplice stretta di mano o la condivisione di oggetti casalinghi, quali piatti, bicchieri o posate, o un semplice bacio per essere contagiati”, ribadiscono gli esperti. “Un bacio è potenzialmente contagioso solo nel caso in cui sia un bacio in bocca e la persona sieropositiva abbia delle lesioni macroscopicamente visibili nella mucosa boccale: quindi è un evento raro. L’idea errata che sia sufficiente un bacio per prendere il virus dell’Aids è frutto dello stigma verso questa malattia”.
La pandemia dovuta all’Hiv in molte parti del mondo si sta ancora espandendo. Forse uno dei maggiori fraintendimenti dell’opinione pubblica (e dei mezzi di comunicazione) è la confusione tra nuovi casi di Aids, intesi come malattia conclamata, e nuovi casi di infezione. I primi stanno diminuendo, grazie alle terapie, i secondi invece sono stabili o addirittura in aumento. E sono questi ultimi che devono preoccupare”, scrive Giovanni Maga, responsabile della sezione Enzimologia del Dna & Virologia molecolare presso l’Istituto di Genetica molecolare Igm-Cnr di Pavia, nel suo libro ‘Aids: la verità negata’.
“Per ogni persona che viene trattata con i farmaci, altre due si infettano. A limitare grandemente la nostra capacità di contenere, anzi fermare l’epidemia, più degli impedimenti tecnici o dei limiti scientifici sono l’ignoranza e il pregiudizio come percezione della malattia quale elemento stigmatizzante dei malati, che porta a utilizzare l’Aids come fattore di discriminazione sociale”.
Adnkronos Salute 26 novembre 2019
www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=53903
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PASTORALE
«Ritroviamo il fascino del matrimonio in Chiesa»
Ci si sposa sempre meno (e non più giovanissimi), le cerimonie civili superano quelle in Chiesa, aumentano vertiginosamente le libere unioni e di conseguenza i figli nati fuori dal matrimonio. Questo lo scenario rilevato dall’Istat e che mostra un panorama in profonda mutazione della società e desolante riguardo i valori dell’impegno a mettere su famiglia tra le giovani coppie. Ne parliamo con padre Marco Vianelli Ofm, direttore, dallo scorso settembre, dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Cei.
I dati parlano di libere unioni quadruplicate in 20 anni. La Chiesa si è interrogata sulle ragioni?
«Non è semplice individuare una causa specifica. E sebbene sia importante interrogarsi sulle cause, ancor più importante è lasciarsi interrogare dal fenomeno. Cosa ci dicono le persone che scelgono di legarsi non definitivamente? Che cosa li spaventa? Perché la dimensione del sacro è scomparsa dal loro orizzonte, dalle loro necessità? Perché tutto è ridotto a un fatto privato, in modo particolare l’amore? Penso sia più affascinante cominciare ad ascoltare delle domande non poste».
Quali sono le azioni che la Chiesa può fare per invertire questa tendenza?
«Non penso che la Chiesa abbia la funzione di vigile, non è chiamata ad incanalare il traffico, ma piuttosto si deve preoccupare di accendere il desiderio. Se non riusciamo a manifestare il fascino della vita nuziale, difficilmente invertiremo la tendenza. Dovremmo provare a mostrare cosa c’è in più nel diventare segno della presenza amante di Qualcuno. Come la vita cambia se il Signore è presente e si serve dei nostri piccoli gesti quotidiani per amarci e per realizzare il regno dell’amore?»
Cosa dire a chi sostiene che la convivenza è una sorta di “prova” prima di arrivare al matrimonio?
«Penso che ogni scelta meriti rispetto e attenzione. Che sia comprensibile aver le vertigini di fronte al matrimonio e che, in un tempo segnato dalla precarietà, ogni forma di stabilità possa spaventare, ma l’amore non si “prova”, si vive. L’amore come tale necessita della totalità, della radicalità, se così non è non sarà mai soddisfacente. A volte dietro la scelta della convivenza c’è il bisogno di essere sicuri che le cose possano funzionare, ma la fatica più grossa non sta nel con-vivere (nel vivere con qualcuno) ma nel per-vivere (scegliere per chi valga la pena vivere). In questo caso la convivenza rischia di essere un’illusione, perché è una prova che non centra l’obbiettivo. Che non risponde alla domanda giusta, quella che inquieta di più».
Le risulta che parte di queste coppie poi finisca per sposarsi in Chiesa?
«Sì. E questo ci fornisce una grandissima opportunità. Perché ci raccontano che, pur essendosi presi tutto della vita nuziale, si accorgono che gli manca qualche cosa. Una cosa che, in realtà, potrebbero scoprire essere una Persona. Che non si può prendere, ma che si può solo ricevere in dono».
I dati Istat parlano anche di 1 bambino su 3 nato fuori dal matrimonio. Mettere al mondo un figlio non è più sentito come un motivo per regolarizzare la propria unione?
«In effetti molte coppie conviventi arrivano a celebrare le nozze dopo la nascita non solo del primo, ma anche del secondo figlio. Per certi versi si è attenuata l’esigenza di un “matrimonio riparatore”. Questi fratelli, se ad un certo momento della loro storia, decidono di accostarsi al sacramento delle nozze ci pongono una grossa sfida pastorale. Come accompagnarli alla scoperta della bellezza del “per sempre”, quando questo “per sempre” se lo sono già detto nella carne? Perché un figlio è “per sempre”. Allora diventa importante aiutarli a recuperare il fatto che forse non sono riusciti a dirsi “per sempre” nella libertà delle parole e hanno sentito il bisogno di rafforzarlo nella carne. Diventa allora prezioso ri-evangelizzare il valore della libertà, fondamento di ogni scelta».
Sui giornali si è insistito sul fatto che oltre la metà dei matrimoni in Italia (51,1%) sono avvenuti con rito civile, una formula che è in costante aumento (nel 1970 erano il 2,3% del totale, nel 2008 il 36,7%). Come leggere questi dati?
«In realtà se scorporiamo il dato riguardante le seconde e terze nozze, i matrimoni religiosi sono ancora superiori a quelli civili (la percentuale di primi matrimoni con rito civile è il 31,3%). Ma questo non può consolarci, non possiamo “giocare” con i numeri per riaccendere la speranza. La Speranza è una virtù teologale e ha un’altra fonte che la genera. Dobbiamo prendere atto che l’aver privatizzato l’amore e aver dato il primato ai sentimenti, ha orientato la nostra gente verso uno stile di cristianesimo un po’ soggettivo (potremmo dire take-away o self service, dove ognuno si sente in diritto di modellare l’attuazione della fede a seconda della propria soggettività). Sarà importante partire comunque dal bisogno di formalizzare una relazione, intrinseco nella scelta del matrimonio civile, e da lì accompagnare le persone nello scoprire la possibilità di divenire canali di grazia per altri. Di essere memoriale vivente di una presenza, di “un presente
Orsola Vetri Famiglia cristiana 21 novembre 2019
www.famigliacristiana.it/articolo/la-pastorale-familiare-e-le-unioni-civili.aspx
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PSICOLOGIA
Nell’interdipendenza l’amore ci fa più belli
“Ho bisogno di te”. Nel nostro immaginario questa frase è quella più direttamente collegata all’amore: nella misura in cui sento di avere bisogno di te, vuol dire che sono davvero innamorato e dunque che ti amo. Mi sei indispensabile: per questo hai un grande valore per me. Avere bisogno dell’altro ci mette in una condizione di vulnerabilità e di dipendenza, ma nello stesso tempo tiene vivo il desiderio: niente desideriamo di più di ciò che ci manca.
Ma cosa succede se le cose diventano diverse? Se non sento più questo “bisogno”? Se inizio a pensare che potrei vivere bene anche senza l’altro? Se e quando si verifica questo passaggio, si avverte sempre una sensazione di sconcerto: la sensazione è quella di avere messo tra sé e l’altro una distanza che sa di disamore. Ma davvero l’autenticità dell’amore è direttamente proporzionale alla sensazione di avere “bisogno” dell’altro? Davvero quando raggiungiamo una maggiore autonomia affettiva significa che non amiamo più?
Durante la sua storia il rapporto d’amore conosce molte fasi e molti passaggi; uno tra questi è proprio quello che permette di sperimentare un modo di essere indispensabili l’uno all’altro che è diverso dal “bisogno”. Nel matrimonio si costruiscono molte aree di interdipendenza reciproca: potremmo dire che “si prende forma” insieme. Nel corso del tempo ciò che ciascuno dei due “è” si va conformando poco alla volta in relazione all’altro: attraverso di lui, attraverso le modalità relazionali condivise, attraverso lo scambio quotidiano, due persone che si vogliono bene si modellano a vicenda, in un processo dinamico. Ciò che io sono dipende dunque anche da ciò che “noi” siamo stati, siamo, saremo ancora capaci di essere. La vitalità del rapporto dipende dalla capacità di mantenere sempre aperto il cambiamento: coltivare il desiderio personale di crescere sempre, fino alla fine della vita, e continuare a portare ciò che si è anche nel contesto del rapporto di coppia.
Nel matrimonio l’altro non è solo il nostro testimone, ma è anche è il nostro “partner di crescita”: l’incontro con lui dà infatti inizio ad un processo di trasformazione personale che è legato in modo specifico proprio a quell’incontro. In un incontro diverso sarebbero successe altre cose: in noi, tra noi, intorno a noi; saremmo dunque anche noi probabilmente delle persone diverse. Ma se leggiamo il matrimonio nel suo significato più profondo, dobbiamo pensare che proprio attraverso questo incontro e le sue vicissitudini si gioca la nostra concreta opportunità esistenziale, la misteriosa sfida che ci è proposta per rispondere alla nostra “vocazione” e per dare i nostri frutti migliori. L’altro, che è così vicino, ci rende impossibile bluffare: i suoi bisogni e le sue richieste mettono in evidenza ciò che ancora ci manca, la sua differenza fa emergere i nostri limiti. L’amore per l’altro ci obbliga a non accontentarci di ciò che siamo, a modellare le nostre caratteristiche, a far emergere e fiorire competenze e capacità relazionali nuove. Ci obbliga a lavorare su noi stessi, a non adattarci, a lottare, a rilanciare; ci obbliga a perdonare e perdonarci, ci obbliga a fare dell’amore qualcosa di più forte e duraturo del solo sentimento.
Ciò che la nostra storia ha fatto di noi è solo l’inizio: nessuno è “costretto” ad essere solo ciò che è stato e tutti abbiamo la libertà di cambiare, crescere, arricchire la nostra personalità. Possiamo farlo in ogni momento, a qualsiasi età, in ogni condizione; il processo di affinamento della propria personalità non ha un limite ed è un processo appassionante.
Ma tra questo “essere sempre più se stessi” (che è poi adempiere alla propria vocazione) ed essere in due coltivando il legame, non c’è nessuna necessaria contrapposizione; al contrario, spesso l’occasione più preziosa per mettere in atto una vera crescita personale passa proprio dall’altro: l’altro che, con la sua differenza, ci interpella a rimanere sempre aperti al cambiamento.
Mariolina Ceriotti Migliarese neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta Avvenire 28 novembre 2019
www.avvenire.it/rubriche/pagine/nell-interdipendenzal-amore-ci-fa-piu-belli
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SESSUOLOGIA
Relazioni di coppia. Sessualità in cerca di (nuovo) valore
La felicità nella relazione di coppia è la sfida a una cultura che ha svuotato sesso e piacere trasformandoli in oggetti egocentrici di consumo. Un punto di domanda e uno esclamativo, affiancati. «Sessualità. Che piacere?!» per dire che può essere insieme (o alternativamente) una ricerca o una rincorsa. Un desiderio di senso all’interno di una relazione (il punto di domanda) oppure semplicemente la spinta a soddisfare una pulsione (il punto esclamativo). La sessualità e la ricerca della felicità: è questo, ridotto ai suoi minimi termini, il senso del convegno della Confederazione italiana dei Centri per la regolazione naturale della fertilità (Cic-Rnf) [29 novembre-1 dicembre 2019].
La Cic-Rnf ha 28 anni di vita, 22 Centri confederati in tutta Italia, 800 insegnanti sul campo e 200 ‘sensibilizzatori’ sui metodi naturali. Una presenza notevole, dunque, che si scontra con perplessità, scetticismi, incomprensioni ma che in cambio offre un orizzonte di senso alla sessualità degli uomini e delle donne. «La sessualità rimanda a un piacere che interroga ma anche che chiede risposte che sembrano facili e invece coinvolgono la vita – spiega Giancarla Stevanella, presidente della Confederazione –. Infatti ne va sempre anche della felicità, della riuscita del proprio sogno d’amore, di quello più segreto che ciascuno porta nel cuore». Ecco il perché di quel punto di domanda messo in fondo al titolo dell’incontro: «La sessualità è sempre anche un incontro che chiede di essere indagato nel profondo, che sorprende».
Un messaggio controcorrente rispetto a quello (ingannevole) che propina la società, soprattutto ai più giovani: piacere senza limiti e senza impegni, sesso ostentato, deviato, esplorato, ottenuto e consumato a poco prezzo… e che quindi vale poco. Perché la sessualità, il vero piacere sessuale – ed è questo che diranno gli esperti, sessuologi, medici, psicologi e teologi che interverranno al convegno di Roma – si nutre di verità e di felicità, che senza amore non ci sono.
Il magistero della Chiesa, sul punto, è chiarissimo. «È il popolo cristiano che purtroppo fatica a vivere la sessualità in modo fedele – riprende Stevanella –. Ma oggi chi ascolta il consiglio della Chiesa e lo vive, e mi riferisco in particolare ai metodi naturali, sperimenta una pienezza di felicità coniugale, anche sessuale, che non ha uguali». Certo però che i metodi naturali, nelle diverse declinazioni (Sintotermico Camen, Ovulazione Billings, Sintotermico Roetzer), richiedono un approccio alla sessualità basato sul rispetto, sull’attesa, sulla continenza, sulla disciplina… tutte caratteristiche non proprio popolari nell’epoca del ‘tutto e subito’. «Nelle cose fondamentali della vita il tutto non coincide mai con l’immediato: svanirebbe, appunto, subito.
Chi cerca il tutto e subito o rinuncia all’uno o all’altro. Nella sessualità vale la pena di volere il tutto e per sempre e i metodi naturali offrono lo strumento per vivere in questo modo anche il piacere della sessualità. Nella famiglia cristiana la felicità, anche sessuale, va cercata e trovata tutta e per sempre…». Una parola importante sul piacere sessuale, sulle sue declinazioni e sulla ricerca della felicità duratura la dirà la psicoterapeuta Mariolina Ceriotti Migliarese, ospite del convegno: «Ignorare o dimenticare la differenza profonda che esiste tra un piacere sostanzialmente autoerotico e il piacere profondo e durevole che può scaturire all’interno di una relazione vera ci rende infelici. La sessualità nella quale siamo immersi oggi è di natura autoerotica, anche in gran parte quella vissuta in coppia; succede quando non si vede e non si cerca nell’altro un vero partner relazionale ma un oggetto del desiderio, qualcuno che soddisfa il mio bisogno, che mi fa provare le sensazioni che cerco».
L’unica (triste) novità, aggiunge Cerotti Migliarese, è che oggi non è più solo il maschio a pensare il sesso come pura soddisfazione del proprio piacere. «Eppure, questo ‘consumare’ il sesso è proprio ciò che appiattisce il desiderio, lo impoverisce, lo svuota, perché il semplice ripetersi del circuito bisogno-soddisfazione non può appagare una creatura così complessa come l’uomo – conclude la neuropsichiatra –. È necessario dire con forza che la sessualità umana è veramente appagante solo là dove ci si fida e ci si affida l’uno all’altra, là dove si può sfuggire all’idea dell’amore come tecnica e del sesso come prestazione». Tutto questo è in linea con ciò che si trasmette nei Centri per la regolazione naturale della fertilità: amarsi è rispettarsi, amarsi è aspettarsi. Un’esperienza ben chiara a Maria Boerci, medico, psicologa, sessuologa e insegnante di metodi naturali a Milano, che interverrà domenica al convegno con le colleghe Sara Gozzini e Valentina Pasqualetto.
«I metodi naturali sono spesso percepiti come rinchiusi nell’esperienza cattolica, ma in realtà hanno una valenza che va ben oltre. Possono intercettare bisogni profondi e difficoltà delle coppia che non trovano ascolto altrove. Noi insegnanti stiamo al fianco degli uomini e delle donne a lungo, non li liquidiamo con una pillola». Quanto alle problematiche che emergono di più negli ambulatori, Boerci parla dei «matrimoni bianchi, più di quanti si immaginino. Il rapporto di fiducia che si crea tra noi e loro consente di accorciare i tempi per affrontare le reali cause del problema. Oppure l’infertilità di coppia: più si insiste nella ricerca della gravidanza, più ne soffre l’intesa sessuale. Il terzo caso che ci viene più di frequente sottoposto è la sessualità durante l’allattamento: noi non rispondiamo con pillola o preservativo, ma con percorsi di accompagnamento in cui la coppia diventa protagonista attiva». Ecco la ricerca della felicità: insieme, tenendosi per mano
Antonella Mariani Avvenire 28 novembre 2019
https://www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/sessualit-in-cerca-di-nuovo-valore
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TEOLOGIA
La sostanza del ministero ordinato come problema sistematico.
Breve riflessione sulle orme di Romano Guardini
“Le questioni che riguardano i motivi storici dell’“essere-divenuto” e quelle che riguardano i fondamenti interni dell’“essere-così” si sovrappongono” Romano Guardini [*1885 †1968 ]
La possibile apertura alle donne della ordinazione al diaconato, suscitata dalla iniziativa voluta da papa Francesco di costituire una Commissione di studio sul tema, ha aperto una fase di ripensamento e di apertura all’interno della Chiesa cattolica.
La autorità con cui la Chiesa può decidere un passaggio del genere deve essere garantita su due fronti. Da un lato, esige che la esperienza storica della tradizione offra esempi e prassi, che possano costituire, in qualche modo, o precedenti espliciti di una prassi di ordinazione diaconale di donne, o dinamiche che non escludano dalle possibilità una tale ordinazione. Questo lavoro storico, di per sé, è già stato compiuto. I documenti sono stati studiati e le pratiche sono state documentate.
Vi è però un altro aspetto della questione, che non deve essere affatto sottovalutato. Si tratta, in questo caso, di un profilo squisitamente sistematico. La storia, infatti, può parlarci della donna autorevole del V o del XI secolo. Ma la autorevolezza della donna, ossia il suo non essere più caratterizzata da “subiectio” o da “defectus emenentiæ gradus”, è un mutamento iniziato soltanto nel XIX secolo, e riconosciuto molto tempo dopo dalla Chiesa come un “segno dei tempi”, con la scoperta del “ruolo pubblico della donna”: dal 1963, a livello ecclesiale, le cose non sono più le stesse.
Da quando, con la enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII, si è formalmente accettato che il ruolo pubblico della donna sia per la Chiesa “segno dei tempi”, da cui la Chiesa può e deve imparare, tutto lo studio del passato non potrà mai più sostituire la novità di questa nuova condizione, inaugurata nel XIX secolo e impostasi da decenni almeno in una parte considerevole del mondo.
Ora, per la Commissione voluta da papa Francesco, si tratta oggi di riconoscere anzitutto questa novità, di accettare la ricchezza della autorità pubblica femminile e di ammettere la donna al ministero ordinato, nel grado del diaconato. Questa Commissione sarà allora non l’avvenire di una illusione, ma l’affermarsi della tradizione. Di una tradizione che sia capace di riconoscere non solo la autorità del passato, ma anche quella del presente e del futuro. Come è sempre stato, quando la prudenza dello Spirito ha avuto la meglio sulla cieca paura dell’inedito e sulla inerzia delle forme ecclesiali del passato.
La differenza tra questione storica e questione sistematica. Questo passaggio tuttavia appare particolarmente ostico e richiede una presentazione più accurata. Il lavoro della Commissione vuole anzitutto recuperare la comprensione storica della questione. Bene. Ma della storia della chiesa fanno parte tutti i secoli, i primi come gli ultimi. E la continuità della tradizione deve fare i conti con le discontinuità delle comprensioni culturali e sociali che hanno accompagnato la “natura femminile”.
Che cosa la Chiesa ha detto o fatto in rapporto alla donna ce lo dice la storia. Ma che cosa la Chiesa debba dire o fare domani, in rapporto alla donna, può dircelo solo la teologia sistematica. La sistematica deve essere “esperta storicamente”, ma la storia non vincola mai del tutto la sintesi sistematica. E’ una illusione che si possa costruire una sintesi sistematica soltanto sulla base di dati storici.
Ma poiché questa distinzione è tutt’altro che pacifica, e spesso ci illudiamo di poter chiedere ai fatti storici di risolvere le nostre questioni sistematiche, ecco il punto decisivo. Dal momento che la comprensione della donna ha subito una radicale trasformazione nella società liberale, aperta e ad alta differenziazione, e che tale trasformazione, a partire dal 1963, è diventata “autorevole” anche per la Chiesa, solo una teologia sistematica aggiornata sarà in grado non solo di elaborare una prospettiva sul futuro, ma anche di provvedere ad un criterio adeguato di lettura del passato.
Chi utilizza le norme del codice di diritto canonico, o i principi della teologia medievale, basati sulla teoria della “subiectio mulieris”, come criteri sistematici di considerazione storica della questione, cade in una “petitio principii” che inficia gravemente tutta la analisi. Per analizzare davvero la storia, devo sapere già in partenza che cosa voglio cercare. Quale donna sto cercando? Quale ministero? Quale ordinazione? Pretendo che i testi del IV secolo possano dirmi ciò che gli uomini hanno compreso culturalmente solo nel XIX secolo?
Per chiarire meglio questo problema è giusto ricorrere alle parole di un grande teologo e filosofo come Romano Guardini, che ha scritto sul tema un contributo assolutamente decisivo.
“Ciò che è stato e ciò che deve essere”. R. Guardini ha condotto una riflessione sul rapporto tra “sapere storico” e “sapere sistematico” agli inizi della sua carriera, in un articolo comparso su “Liturgisches Jahrbuch” nel 1921 e di recente tradotto molto opportunamente su “Rivista Liturgica”: R. Guardini, “Il metodo sistematico nella scienza liturgica”, RL, 105/3(2018), 183-196. Si tratta di uno scritto assai importante, perché mette in luce, in una maniera particolarmente acuta, la differenza tra approccio storico e approccio sistematico. La logica dei fatti e la logica delle “ragioni” risultano intrecciate in modo non lineare. Leggiamo una affermazione centrale di questo studio:
“Nel medesimo oggetto […] vi è un divenire e un essere, un mutarsi e un persistere, un effettivo e un vincolante. Al primo e orientata in modo particolare la ricerca storica, al secondo quella sistematica. Esse quindi si completano a vicenda nell’oggetto e nel metodo. Ciascuna ha bisogno dei risultati dell’altra come impulso e come autoverifica. Senza la storia, la sistematica corre il pericolo di costruire pregiudizialmente e in modo arbitrario. Essa deve quindi appropriarsi dei risultati storici, e su di essi misurare e rettificare i propri9. Senza sistematica, d’altro canto, la ricerca storica si perde nel flusso del meramente fattuale; i suoi concetti divengono confusi e le sfugge quanto vi e di stabilmente valido. Al contrario, i concetti e le linee sistematiche la aiutano a mantenere un ordine interno”. (187)
La necessaria integrazione tra il divenire storico e l’essere sistematico implica la esigenza per cui la teologia non solo non può lavorare soltanto su di un piano, ma che esiga anche la lucidità con cui si riesce a distinguere tra argomentazioni fondate sul divenire storico e argomentazioni basate sul compito sistematico. Se tra le due dimensioni non può esservi mai separazione, neppure può esservi confusione. Tra ciò che è e ciò che deve essere vi è sempre una differenza irriducibile. Ciò vale anche per il modo con cui argomentiamo circa il ministero ecclesiale. Le forme storiche, anche quando dettagliatamente documentate, non chiudono affatto lo spazio per una elaborazione sistematica, che non risulta assolutamente vincolata dalle forme storiche di esercizio del ministero. Ciò che Guardini ha studiato con acume a proposito della tradizione liturgica in senso lato può essere molto convenientemente applicato al dibattito attuale sul ministero. Lo si ascolti in questo ulteriore passaggio: “Tanto meno si permetterà un’argomentazione del genere: ‘Il significato del presente elemento liturgico può essere solo questo; perciò, solo così può essere stato compreso all’epoca della sua formulazione’. Sarebbe uno sconfinamento illecito. Occorre rifiutare costruzioni storiche di questo tipo, elaborate a partire da prospettive sistematiche preconcette.” (188).
Guardini sa rivelarci che, al di sotto di analisi storiche assai diffuse, si nascondono spesso “prospettive sistematiche preconcette”, che costringono i dati storici in ambiti problematici e in visioni categoriali del tutto arbitrarie e spesso assai unilaterali. Allegare “fatti” e fornire “ragioni” rimane un compito differente. Questo vale in modo speciale per la teologia del ministero ordinato.
Una ripresa di autorità. Va detto, infine, che un singolare parallelismo ha caratterizzato la vicenda recente della donna e della Chiesa. Nel momento in cui la donna acquisiva una rilevanza pubblica sempre più ingente e qualificata, la Chiesa entrava in una progressiva crisi di autorità. Mentre la donna acquisiva autorità, la Chiesa perdeva autorevolezza. O, per dire meglio, la Chiesa rischiava di ridurre sempre più la propria auctoritas ad un esercizio di autoritarismo, sostituendo spesso l’autorità dell’argomentazione con l’argomento di autorità. Così, la sola via con cui la Chiesa potrà riconoscere una almeno parziale autorità femminile corrisponderà, inevitabilmente, con il recupero di autorevolezza, mediante la cui la Chiesa può dire e fare “cose nuove”.
La prima cosa che la Commissione potrebbe indicare, dal punto di vista sistematico, come obiettivo di un ripensamento storico della “ordinazione diaconale della donna” sarebbe, da questo punto di vista, la rimozione di un ostacolo istituzionale, nel quale si esprime in modo diretto e direi violento, il principio di autorità senza argomenti: ossia la esclusione della donna dalla ordinazione. Il Canone 1024 – introdotto nel testo del CJC nel 1917 e ripreso nel CJC del 1983 – dovrebbe essere riformulato per consentire la ordinazione diaconale femminile.
Il presupposto sistematico di questa riforma è la considerazione che il sesso maschile non fa parte della sostanza del sacramento dell’ordine. Ossia che oggetto di ordinazione sono tutti i battezzati con determinati requisiti, di cui non fa parte la appartenenza ad un certo sesso. Quindi la prima riforma necessaria consiste nella riscrittura del canone 1024, che recita oggi (come nel 1917):
– Can. 1024 – Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile.
Il canone potrebbe diventare il seguente:
– Can. 1024 (riformato) – Riceve validamente la sacra ordinazione il fedele battezzato chiamato al servizio della Chiesa.
Una teologia sistematica che assuma uno sguardo rinnovato sullo sviluppo storico e sull’orientamento normativo dell’ultimo secolo, rimuove ogni ostacolo al riconoscimento della autorità femminile a livello di ministero diaconale. La riforma del codice, come orizzonte di restituzione di auctoritas alla donna – che sappia superare definitivamente ogni teoria della “subiectio” e del “defectus eminentiæ gradus” – costituisce l’orizzonte sistematico con cui potrà essere prodotta una seria analisi storica. Potremo leggere la tradizione ecclesiale con uno sguardo più puro. Che abbia occhi per la “sana tradizione” e consideri così anche quella malata. E possa perciò discernere se sia giusto mettere in continuità con Gesù la misoginia che vuole purificare il luogo sacro dalla impurità del sangue femminile, ovvero la libertà di una parola e di un gesto diretto, differenziato senza discriminazione, autorevole senza clericalizzazione.
La storia di cui abbiamo bisogno è orientata da questo spirito. E sa che la principale autorità che la tradizione, quando è sana, possa desiderare non è solo quella che viene dal passato, ma prima di tutto quella che apre al futuro.
Andrea Grillo blog come se non 25 novembre 2019
Ghislain Lafont sulla ordinazione delle donne: “Non c’è posto per la discriminazione”.
Nel contesto di un piccolo volume (“Un cattolicesimo diverso”, EDB, 2019), nel quale Ghislain Lafont [OSB *1928] presenta l’“ultima versione” della sua preziosa sintesi teologica, il monaco benedettino francese propone alcune pagine intense, esplicitamente dedicate al tema della autorità femminile nella Chiesa, elegantemente intitolato Nota sulla chiamata delle donne al carisma del governo. Per comprendere bene il testo, che si trova alla fine del III capitolo, e poco prima delle conclusioni, bisogna avere almeno una idea di ciò che lo precede. Pertanto vorrei procedere ad esporre in estrema sintesi i contenuti fondamentali del volume (1), per poi esaminare nel dettaglio i passaggi dedicati alla ordinazione femminile (2), che si occupano della questione della forma (3), della verità “infallibile” (4), e del riferimento alla vergine Maria (5). Non è difficile comprendere che si tratta di un testo assai prezioso per sviluppare oggi un serio dibattito sulla posizione della donna nella Chiesa.
- La struttura del volumetto. Il volume, come dice il suo autore nella Introduzione, è una riflessione su quattro elementi che caratterizzano un cattolicesimo diverso rispetto a quello classico. Tali elementi, inaugurati formalmente dal Concilio Vaticano II sono questi:
- Il sacrificio non è una pratica legata al male, ma alla natura stessa del reale e all’amore che ne è la verità;
- L’eucaristia non è una ripetizione dell’unico sacrificio, ma la sua “memoria attiva”;
- Il ministero nella Chiesa è un dono dello Spirito santo, radicato in un carisma specifico;
- Il nome di Dio più conforme al Vangelo è Amore all’eccesso, o Misericordia.
Sulla base di queste 4 novità il testo si sviluppa in 3 parti: nella prima parte, muovendo proprio da questo “amore originario”, viene presentato il “sistema nuovo”, che nella seconda parte viene confrontato con la presentazione “classica” della fede cristiana, per arrivare, nella terza parte, a configurare il “buon uso dell’eucaristia” e il “buon uso dell’autorità” come criteri di identità della Chiesa contemporanea. In questo contesto del terzo capitolo incontriamo le pagine che ora vorrei presentare con maggior precisione.
- Chiamata delle donne al carisma del governo. Lafont “non senza un certo timore” affronta la questione della ordinazione della donna. Da un lato ribadisce che la posizione della Santa Sede appare chiara e netta, escludendo questo tipo di ordinazione, perché Gesù stesso lo avrebbe escluso e la Chiesa non avrebbe il potere di cambiare su questo punto. Ma per l’autore, nonostante tutto ciò, esiste lo spazio per un “esercizio di scuola”, senza pretendere immediate conseguenze operative, nel quale tuttavia poter esercitare il pensiero e mettere alla prova i dati storici e sistematici della tradizione cattolica.
- La questione della forma. Il primo punto su cui Lafont applica il proprio pensiero è una questione “formale” che può diventare sostanziale. A proposito della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis l’autore si chiede: “Perché Giovanni Paolo II non si è espresso con tutta la chiarezza desiderabile? Perché non ha adottato le forme canoniche di una definizione dottrinale?” (63). Contrariamente a quanto operato da papa Pio IX e da papa Pio XII, per la definizione della Immacolata e della Assunta, Giovanni Paolo II ha adottato “una lettera che contiene certo un testo molto forte, ma che non è una definizione dogmatica” (64). In questo caso non si tratta di una questione secondaria. “Quando si tratta di una definizione che comporta l’obbligo di credere, sotto pena di essere separato dalla Chiesa, il legislatore è moralmente tenuto a una totale chiarezza, sia nell’enunciato di ciò che deve essere creduto, sia nella dichiarazione di autorità. Il magistero non ha diritto di lasciar passare un vizio di forma. La forma ex cathedra non è facoltativa” (64). Se è vero che vi è un magistero definitivo anche del magistero ordinario, è altrettanto vero che molte di queste decisioni, che si credevano irreformabili, e che forse sono state utili al loro tempo, hanno perso la loro autorità. “Quali che possano essere state le intenzioni personali di Giovanni Paolo II, resta il fatto che, non avendo usato la forma solenne, ha lasciato un po’ socchiusa la porta a ricerche teologiche miranti a venire a capo dei dubbi che sussistono” (64).
- La verità “infallibile”. Tuttavia, dopo questa domanda di carattere formale, Lafont pone una seconda questione, ancora più decisiva: “è possibile, in una materia nella quale è coinvolta la storia, giungere a una verità infallibile? ”(65). Il problema non è semplice, ma è chiaro che la “verità pratica” e la “verità storica” non sono in alcun modo afferrabili una volta per tutte. Il giudizio sul “soggetto femminile” non può essere oggetto di una “definizione”, proprio perché tale soggetto non è determinato solo da un profilo naturale, ma ha una storia, scaturisce da un processo di autocomprensione e di sviluppo che non può essere anticipato astrattamente o universalmente. Un esempio, fornito opportunamente da Lafont, sembra utile per comprendere meglio questa prospettiva. Egli infatti presenta un testo di Pio XII, del 1957, in cui il papa attribuiva “alla volontà di Gesù” il fatto di aver dato agli apostoli “un duplice potere”, ossia il potere d’ordine e il potere di giurisdizione. Lafont osserva che questa “dottrina”, considerata allora irreformabile, meno di dieci anni dopo fu sostituita dal Concilio Vaticano II con una lettura completamente diversa, che riconduceva ogni autorità alla ordinazione e faceva dell’episcopato la pienezza del sacramento.
Questo esempio sembra illuminare di una luce particolare la questione della “autorità femminile”. Scrive infatti con grande chiarezza Lafont: “Nell’attuale penuria di sacerdoti, capita di affidare a donne grandi responsabilità, in passato detenute da sacerdoti, per cui ora si comprende che possono essere esercitate da laici o da religiose. Ma capita che si affidino loro parrocchie, ossia intere comunità cristiane. In altri termini, si conferisce loro un ‘potere di giurisdizione’ (fosse pure sotto la responsabilità nominale di un ecclesiastico) senza il potere di ordine corrispondente ed esse possono fare tutto nella Chiesa, tranne celebrare il sacrificio spirituale della loro comunità, cosa che farà, quando lo si troverà, un sacerdote proveniente da altrove e senza alcun legame con la comunità. Si ritorna così alla dicotomia classica? Si conferisce loro una missione sacramentale, ma senza il sacramento e la grazia che vi è annessa” (66-67).
E’ chiaro che la precarietà di queste soluzioni, che reintroducono vecchie distinzioni solo in caso di “soggetto femminile”, più che come rimedi, appaiono come ulteriori problemi. Che lasciano insolute le questioni di fondo e perciò non escono dall’imbarazzo.
5. La vergine Maria. Anche il riferimento a Maria non è affatto risolutivo. Maria è assolutamente unica ed è modello per tutti, per uomini e donne. “La sua intelligenza, la sua forza, la sua missione sono incomparabili; ella è di un ordine diverso. E’ modello per ogni cristiano, uomo o donna. La missione delle donne cristiane si trova altrove e il non-sacerdozio di Maria non mi sembra in nulla esemplare per le donne in quanto donne. Ho paura che si proponga alle donna una pia immagine oleografica di povera-piccola.giovane-donna-al-focolare in un ambiente rurale di altri tempi” (67). Non è dunque in una astratta composizione di “principio petrino” e di “principio mariano” che si possa affrontare davvero la questione della autorità della donna nella Chiesa.
Non resta che una conclusione: “Se il sacerdozio è un carisma riconosciuto e ordinato, chi può decidere che le donne non possono avere questo carisma? Nella Chiesa cattolica bisogna ritenere che Gesù stesso ha escluso le donne da questo carisma? Né gli uomini né le donne sono sacerdoti nel senso sacrificale dell’Antico testamento. Gesù stesso non lo era…Gesù è l’unico sacerdote del suo sacrificio unico. La Chiesa che è il suo corpo entra in questo sacrificio. Dei cristiani sono chiamati, in questo corpo, a servire questo sacrificio spirituale. Un solo Signore, un solo mistero pasquale. Un solo Spirito. Io credo che non ci sia posto per la discriminazione” (67).
6. Breve conclusione su autorità e pensiero. Come appare con chiarezza, Lafont esercita responsabilmente il compito di “pensare” cui è chiamato il teologo, ogni teologo. Lo spazio per il pensiero, anche di fronte ai testi più autorevoli, resta per il teologo come oggetto di un dovere: poiché i fatti, pur con tutta la loro autorità, non sono mai, in quanto tali, delle ragioni sufficienti. Per questo Lafont ricorda una bella espressione del Card. Martini: “Non ho paura delle persone che non credono; ho paura delle persone che non pensano”. Un uso disinvolto di una “teologia d’autorità” rischia sempre di ridurre le ragioni alla sola evidenza dei fatti. Questo, come dice bene S. Tommaso d’Aquino, non è senza rischio: “Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”. Se l’assenso alla esclusione della donna dal ministero ordinato dovesse avere, come prezzo, la opaca certezza di “teste vuote”, avremmo ottenuto un piccolo guadagno di corto respiro, che non tarderebbe a capovolgersi, quam celerrime, in una perdita grave o forse in un ritardo quasi irrecuperabile.
Andrea Grillo blog: Come se non 27 novembre 2019
www.cittadellaeditrice.com/munera/ghislain-lafont-sulla-ordinazione-delle-donne-non-ce-posto-per-la-discriminazione
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VIOLENZA
Giornata violenza donne: micidiale divisione fra sesso e amore
Da credenti il richiamo ad uno sguardo che sappia riconoscere l’amore vero e autentico e consenta di camminare con il calore degli sguardi incrociati verso la meta della pace, della gioia, è quello evangelico: impossibile alzare la propria mano contro chiunque, a maggior ragione, alzarla contro chi si ama. Certamente con il presupposto di fondare il proprio amore sul grande Amore che ci ha creati
Indubbiamente l’informazione ai nostri giorni è rapida quando non simultanea e pure il coraggio della denuncia non manca. Si è superato anche quel crinale che impediva alla donna vittima di violenza di esternare per vergogna, per un malinteso senso di dignità, molto vicino all’onore delle donne del siglo de oro.
Però, né l’informazione che consente di prendere delle misure, né il senso di dignità della donna contemporanea, sembrano arginare episodi che lasciano traccia irreversibile non solo nella donna stessa ma in tutto il suo ambito di vita. Sconcerto, indignazione, riprovazione lo provano tutti (o quasi tutti) e scuotono il capo. In realtà però quali sono le iniziative, gli interventi concreti?
Non basta additare questa o quella donna che con il suo abbigliamento (o non abbigliamento) oppure con la sua, chiamiamola disinvoltura, pare attirare impeti di violenza, atti riprovevoli. Non basta neppure giocare su affermazioni di consenso o di pseudo consenso. Tutte queste opzioni sono soltanto una sorta di cerotto su di una ferita profonda che richiederebbe l’intervento di un medico esperto. Sono tutti pretesti per non guardare in faccia la realtà e girare comodamente pagina.
Inchieste ed indagini serie confermano che le donne patiscono violenza proprio dalle persone loro vicine, siano mariti, compagni o amici. Non suscita uno sgomento profondo? La persona con cui condividi tutta te stessa, si scatena irrazionalmente proprio contro di te.
Viltà e sopruso si stringono la mano. L’ottica con cui si osservano questi dolorosi fatti è unilaterale e soltanto denunciataria. Troppo poco e, francamente e paradossalmente, inutile. Perché tutto continua e chi subisce, continua a subire.
Eppure esiste una chiave che possa consentire di entrare nel gorgo del problema e trovare una via non d’uscita che viene a mascherarsi di silenzio ma una via di salvezza.
È carente il rispetto per la persona, ridotta ad un uso che poi conosce il suo getta. Rapido e comodo.
È carente il rispetto per l’amore, per la dedizione dell’uno all’altra, mentre viene sempre esaltato e pubblicizzato il sesso.
Davvero, all’interno delle grandi conoscenze della nostra epoca in ambiti quali la psicologia e la psicanalisi, si è introdotta una micidiale divisione fra sesso e amore. Divisione che non apre alla felicità dell’altro ma osserva solo se stesso, lasciando il varco a istinti incontrollati e, forse, incontrollabili.
L’educazione non deve solo essere sessuale ma educazione all’amore che sa donarsi. L’esasperazione che si trasforma in botte o in atti di prevaricazioni ha radici molto lontane che scendono nel profondo della rabbia, dell’insoddisfazione, della precarietà dell’esistenza che conosce solo quel arco di tempo e di spazio che concede la vita. Tutto spaventa. Tutto traumatizza. Non esiste più, nell’educazione e nella prassi che si insegna ai giovani, un ascolto della persona, del suo sentire, del diventare affini e vicini. La persona viene conculcata perché catturata nella sua superficie più banale. La donna soccombe perché non possiede la stessa forza del maschio? Troppo spesso sì, perché le donne che sanno difendersi la fanno pagare cara all’aggressore.
La donna soccombe perché pensa sempre ad un possibile recupero, pensa – se ci sono – ai figli? Mille e più le concause che fanno di ogni violenza, una tragedia dura e difficile da superare. Non sappiamo più guardarci negli occhi con limpidezza, libertà e desiderio di autentica complementarietà, condividendo gioiosamente un progetto comune.
Tutto il turbinio dell’animo maschile subisce una scossa che, se non è educato, si rivolta in gesti inconsulti. Da credenti il richiamo ad uno sguardo che sappia riconoscere l’amore vero e autentico e consenta di camminare con il calore degli sguardi incrociati verso la meta della pace, della gioia, è quello evangelico: impossibile alzare la propria mano contro chiunque, a maggior ragione, alzarla contro chi si ama.
Certamente con il presupposto di fondare il proprio amore sul grande Amore che ci ha creati.
Cristiana Dobner Agenzia SIR 25 novembre 2019
(Cristiana Dobner (Trieste *1946) laureata in Lettere e Filosofia, Master en Estudios de la Diferencia sexual, Università di Barcellona; Dottorato in Teologia Orientale; Master in Teologia Ecumenica (ISE); TEB (Toulouse); International Martini Award 2014. È carmelitana scalza nel monastero di S. Maria del Monte Carmelo a Concenedo di Barzio (Lecco).
http://preprod.agensir.it/italia/2019/11/25/giornata-violenza-donne-micidiale-divisione-fra-sesso-e-amore
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