NewsUCIPEM n. 781 – 24 novembre 2019

                                NewsUCIPEM n. 781 – 24 novembre 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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02 ACCOGLIENZA FAM. TEMPORANEA  Patto tra psicologi e avvocati. Nuova rete per i minori e 10 nodi

04                                                                          Ben 12mila minori in affido in 18 mesi: ma quanti sono i minori

04                                                                          Affido familiare. Affido cos’è?

05 ADOZIONE INTERNAZIONALE              Convenzione ONU da aggiornare. Adozione deve essere gratuita

05                                                                          Centinaia di milioni spesi x l’eterologa, poco o nulla per le adozioni

06                                                                          Casi in cui è deducibile la spesa relativa agli incontri post adottivi

08 ADOZIONI NAZIONALI                            Con tre figli adottano tre orfani di femminicidio

08 ASSEGNO DI SEPARAZIONE                  Criterio tenore di vita escluso anche nell’ assegno di separazione

09 ASSEGNO DIVORZILE                               Guida legale completa aggiornata alla riforma Morani 2019

11                                                                          Assegno di divorzio una tantum non deducibile

11 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI     Mantenimento: ridotto, non eliminato l’assegno al figlio laureato

12 A.I. C. C e F.                                                 65a Conferenza internazionale dell’ICCFR a Roma

13 ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI             Ai. Bi.: “Chiediamo che l’abbandono venga dichiarato un abuso”

13 AUTORITÀ GARANTE INFANZIA         Dichiarazione per il 30°anniversario della Convenzione di NewYork

15 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 43, 20 novembre 2019

17 CHIESA CATTOLICA                                  Superare il “si è sempre fatto così”

18                                                                          Se sappiamo chi siamo non dobbiamo temere dialogo con islamici

19                                                                          Convegno nazionale rete Viandanti

21 COGNOME PER I FIGLI                            Cognome materno ai figli: oltre 54mila firme per la petizione

21 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL.        I dati Istat. Le convivenze? Ecco perché ci interrogano

23 DALLA NAVATA                                         XXXIII  Domenica Tempo ordinario- Anno C – 24 novembre 2019

23                                                                          Le porte del cielo spalancate per noi

23DEMOGRAFIA                                            ISTAT. Matrimoni nel 2018

24                                                                          Meno matrimoni e con fatica

24                                                                          Più matrimoni e sorpasso: i riti civili superano quelli religiosi

25                                                                          L’allarme dell’Istat. Lavoro, madri ancora penalizzate

26 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    Bonus asili. “Non cambia nulla, non rilancia la natalità”

27 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA        “Bisogna avere occhi buoni per capire Francesco”

28 GENETICA                                                    La complessità genetica degli antichi Romani

29 GRAVIDANZA                                             Licenziamento in gravidanza: ultime sentenze

30 MATRIMONIO                                        Il matrimonio conviene fiscalmente?                                  

32 MEDICINA PREVENTIVA                        Rompiamo il silenzio sull’Hiv” per fermare i nuovi contagi

33 MIGRANTI                                                   Dossier statistico immigrazione 2019. Migranti e salute

35 OMOFILIA                                                    Le prospettive pastorali cattoliche per le famiglie irregolari

36 PERMESSI                                               Quelli di paternità, quando si possono usare durante la maternità?

37 PROCREAZIONE ARTIFICIALE               Eterologa: ok al regolamento su trapianti e donatori

37 PSICOLOGIA                                                Le due anime della madre. Il paradosso materno

38 SINODO PANAMAZZONICO                 Schönborn: un’ampia rilettura del sinodo

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ACCOGLIENZA FAMILIARE TEMPORANEA

Caso Bibbiano. Patto tra psicologi e avvocati. Nuova rete per i minori e 10 nodi aperti

Né pericolose banalizzazioni né assurde epurazioni. Ma un’operazione accurata e saggia di integrazioni legislative e di buone prassi amministrative in grado di correggere e di modificare i punti più rischiosi e quelli ormai inadeguati, senza stravolgere un apparato di protezione che, se gestito in modo onesto e trasparente – come troppo spesso oggi non avviene – ha dimostrato di poter funzionare.

Ecco quello che appare necessario per il nostro sistema di tutela dei minori fuori famiglia di cui il caso Bibbiano ha mostrato tutte le fragilità e tutte le ombre. Ora, mentre il procedimento giudiziario prende forma con le richieste di rinvio a giudizio che dovrebbero essere formulate tra pochi giorni, è opportuno continuare l’approfondimento puntando i riflettori su un dato culturale finora rimasto un po’ in ombra.

Sulle pagine di Avvenire abbiamo raccontato più volte esperienze e testimonianze, abbiamo dato voce alle vittime e offerto la possibilità agli addetti ai lavori e agli esperti dei vari ambiti di indicare i correttivi ritenuti più efficaci. Ricapitoliamo in estrema sintesi quanto emerso nei dieci punti a fondo pagina. Cambiamenti che ci appaiono ineludibili per avviare quell’operazione trasparenza ormai fondamentale se l’obiettivo è davvero quello di garantire ai bambini in difficoltà e alle loro famiglie la certezza di uno Stato amico, capace di interventi saggi e prudenti.

Ma per comprendere il senso di questo impegno a favore di minori e famiglie è importante non fermarsi. E tentare di alzare lo sguardo dal fuoco incrociato di accuse e controaccuse, superando il confronto, troppe volte sterile e strumentale, tra avvocati e giudici, assistenti sociali e psicologi.

Esiste una chiave possibile per questa operazione, che è culturale prima ancora che giuridica o politica? Sì, per andare in profondità possiamo prendere a prestito – se il parallelo è lecito – la stessa logica che ha spinto Papa Francesco a scrivere Amoris lætitia, passare cioè dal principio del “male minore” a quello del “bene possibile”. È un salto culturale fondamentale, un cambio di mentalità che dovrebbe essere assunto anche da coloro che si occupano della tutela dei bambini a livello giuridico, sociale, psicologico, relazionale. Certo, occorre cambiare registro e mettere in conto dosi raddoppiate di fatica e di impegno. E qui la domanda decisiva è una sola: siamo davvero convinti che ogni vita, e quindi ogni bambino, sia un tesoro insostituibile per la società intera? Che ogni esistenza, soprattutto la più fragile e indifesa, vada protetta, tutelata, accompagnata con tutte le attenzioni possibili? Che ogni famiglia vada aiutata ad assolvere i propri compiti educativi e di crescita dei figli anche in mezzo alle difficoltà più gravi, senza pretese di sostituzione da parte delle istituzioni, se non quando strettamente necessario proprio per la tutela di quei bambini?

Ecco, se ne siamo davvero convinti, non possiamo che sostenere la logica del “bene possibile”, cioè dell’impegno che ci spinge a cogliere anche nelle situazioni più complesse di difficoltà familiari, quello spiraglio positivo che ci dice di non mollare, di continuare a scommettere sulle possibilità di risollevarsi da parte di quella madre e di quel padre. Se c’è un margine anche esile per restituire a una famiglia dissestata la possibilità di recuperare quel minimo indispensabile di progettualità e di impegno educativo, sarebbe grave non continuare a insistere, a provare, a cercare nuovi sbocchi.

Certo, non si tratta di auspicare tentativi ad oltranza, oltre ogni ragionevolezza, ma di valutare con serenità e con misura quali sono le strade obiettivamente percorribili per aiutare quel minore e, allo stesso tempo, sostenere la sua famiglia.

Non sempre è possibile, d’accordo. E in alcune situazioni occorre rassegnarsi alla scelta più dolorosa. Ma un conto è tentare tutte le strade possibili, proporre per esempio un affiancamento ai genitori, inventarsi un affido part time, o una delle tante forme di sostegno con il coinvolgimento della famiglia d’origine. In altre situazioni, quelle più drammatiche, si può provvedere all’allontanamento del genitore sospettato di maltrattamenti o addirittura abusi, proteggendo però, e quindi lasciando intatto, il rapporto tra il bambino e la madre.

Tante insomma le strade da verificare con un’attenta analisi psicosociale condotta da un pool di esperti – oggi prassi quasi inesistente – prima di procedere a uno sradicamento coercitivo del minore dalla sua famiglia. Esistono servizi sociali e procure minorili che hanno fatto e continuano a fare proprio questo, con un impegno lodevole che parte proprio dallo sforzo di salvaguardare, per quanto possibile e opportuno in quella data circostanza, il rapporto tra il minore e la sua famiglia d’origine. È la logica, appunto, del “bene possibile”.

Ma nel nostro sistema di protezione dei bambini e dei ragazzi in situazione di fragilità e di abbandono non appare quella dominante. Da almeno trent’anni sembra vincente un altro punto di vista che considera fatica inutile lo sforzo di mettersi al fianco della famiglia che non ce la fa per tentare ogni via pur di non frantumare l’immagine dei genitori agli occhi di un bambino. Perché quella donna e quell’uomo rimangono genitori. Sempre. E in questo dato biologico c’è un bene etico a prescindere, un valore che tutte le istituzioni dovrebbero considerare tanto sacro e inviolabile ma meritare sforzi intelligenti per proteggerlo e salvaguardarlo.

Anche nei casi più drammatici c’è un bene, magari solo uno spiraglio di bene, un luce pallida, che è ingiusto e sbagliato annullare. Non si tratta né di tracciare una lode spropositata del familismo immorale né di esaltare l’oltranzismo arcaico dei legami di sangue. Anche nelle relazioni familiari esistono connessioni che, quando spezzate dalla violenza o dall’abuso, è oggettivamente impossibile ripristinare. E insistere, partendo da un presupposto ideologico, significa talvolta non vedere situazioni di grave pregiudizio per i minori.

Ma un conto è ammettere l’impossibilità di custodire quel legame dopo aver tentato tutte le strade possibili per curarne e cauterizzarne le ferite. Un altro è far propria la logica del “male minore” e procedere ideologicamente all’estirpazione del rapporto, nella convinzione che la famiglia sia comunque una comunità in cui naturalmente sono predominanti germi impossibili da guarire.

Secondo questo approccio, quando esplodono conflittualità e dissidi profondi, quando la disgregazione del nucleo familiare appare irreversibile – ma spesso non lo è – quando il disagio dei figli si manifesta in modo tale da lasciar intravedere anche solo per deduzione l’ombra cupa dell’abuso, l’unica possibilità sembra quella di provvedere all’allontanamento dei minori.

Non viene detto con tale evidenza in alcun protocollo, ma così capita ed è capitato troppe volte. Possibile che il copione di Bibbiano sia lo stesso già visto a Sagliano Micca, a Finale Emilia, a Rigliano Flaminio, ad Avellino? Possibile, certo perché la scuola di pensiero che ha ispirato le scelte di servizi sociali, psicologi e, in alcune circostanze, di giudici minorili scarsamente preparati, è stata contrassegnata da un indistinto ma tenace e pervasivo atteggiamento anti-famiglia.

In molte occasioni gli specialisti che hanno operato queste scelte erano – o ancora sono – affiliati alla rete Cismai [Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia https://cismai.it]. In altre occasioni l’appartenenza è servita soltanto ad ottenere credibilità per l’assegnazione di incarichi importanti. Ma qui non vogliamo demonizzare nessuna sigla e neppure aprire processi alle associazioni e ai singoli terapeuti che hanno scelto di consociarsi al Cismai. Le responsabilità, quando penalmente accertate, sono sempre personali. Anzi, siamo convinti che la maggior parte degli psicologi e dei terapeuti che danno vita a quella rete, sia professionalmente irreprensibile e umanamente in buona fede.

Ma il dubbio rimane. Così, come la convinzione che per il nostro sistema di protezione dei minori, sia arrivato il momento di liberarsi da qualsivoglia dittatura culturale, per aprirsi a visioni diverse, più disponibili verso la possibilità di recuperare il positivo che esiste in ogni famiglia, in ogni fragilità relazionale.

Forse è arrivato il momento di dare vita a nuove aggregazioni di esperti e di professionisti disponibili a rinnovare, su basi scientifiche e non ideologiche, il panorama di questo puzzle dove ormai appare impossibile collocare le tesserine al posto giusto. L’abuso esiste, ma non ogni situazione di difficoltà può essere letta con il prisma deformato di chi si ostina a cogliere in ogni segnale di difficoltà le tracce di una violenza sessuale. Forse è il caso di voltare pagina. Forse è il caso di riconoscere e praticare, come ci insegna papa Francesco, la bellezza del “bene possibile“. E, quasi sempre nei rapporti tra genitori e figli, è davvero possibile. Basta volerlo con cuore aperto e sguardo libero da pregiudizi.

I dieci nodi aperti

1)      L’articolo 403. Perché lasciare solo ai servizi sociali il potere di decidere gli allontanamenti d’urgenza dei minori (art. 403 del codice civile), senza prevedere una verifica parallela dei Tribunali? Oggi la segnalazione può essere differita “a discrezione”.

2)       Temi per le udienze. Oggi non esiste l’obbligo di fissare un tempo ragionevole per la convocazione della prima udienza dopo un allontanamento. Spesso passano mesi. Nel penale ci sono solo 48 ore di tempo. I minori non meritano la stessa sollecitudine?

3)      Dati confusi. Manca un registro nazionale dei minori fuori famiglia. Esistono i dati delle 29 procure minorili che però spesso non registrano tempestivamente i minori rientrati in famiglia dopo un periodo in comunità. E le informazioni arrivano da tre fonti diverse (e danno risultati diversi).

4)      Cooperative senza controlli. La legge Turco (328/2000) permette ai Comuni al di sotto dei 15mila abitanti (l’80% del totale) di affidarsi a servizi sociali consorziati. Così un ruolo delicatissimo, visto che le relazioni dei servizi diventano atti ufficiali che pesano nelle sentenze, viene svolto di fatto senza controlli.

5)       Difesa dei genitori. Oggi nei processi che riguardano la sorte dei minori non è previsto il contraddittorio paritetico per i genitori prima dell’avvio del procedimento. Capita così che di fronte a una relazione dei servizi sociali considerata contestabile, il parere della famiglia d’origine sia messo in secondo piano.

6)      Ascolto dei minori. Non esistono linee guida approvate ufficialmente dal ministero per l’ascolto del minore. Così ogni terapeuta è autorizzato di fatto a scegliere il criterio preferito, senza alcun controllo preventivo del tribunale dei minori.

7)      Garanzie risarcitorie. Oggi per i magistrati che operano nell’ambito minorile non è prevista alcuna garanzia risarcitoria. Introdurre l’accertamento delle responsabilità, con controlli documentati da un’autorità terza, potrebbe elevare la qualità professionale.

8)      Via i tribunali? Perché non sostituire il Tribunale per i minorenni con un Tribunale della famiglia su cui far convergere tutti i procedimenti in cui sono coinvolti genitori e figli (per esempio le cause di separazione quando ci sono di mezzo figli contesi)?

9)       Quale revisione? Perché non mettere a punto un criterio di “riparazione” quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli (caso “Diavoli della Bassa”)? Come ricucire il dramma agli occhi dei minori?

10)   Terapie per la famiglia. Quando un minore viene collocato in comunità, chi si prende cura della fragilità della famiglia a cui è stato sottratto? Oggi non c’è nessun obbligo, neppure da parte dei servizi, di proporre progetti o terapie di sostegno per genitori in difficoltà. Una grave carenza.

Luciano Moia             Avvenire                    22 novembre 2019

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/minori-nuova-rete-dopo-bibbiano

 

Ben 12mila minori in affido in 18 mesi: ma quanti sono i minori fuori famiglia in Italia?

Oltre Bibbiano e gli scandali che hanno infangato il buon nome di una forma d’accoglienza come l’affidamento famigliare, ci sono i dati della Commissione d’inchiesta parlamentare, emersi proprio in occasione del trentennale della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, che parlano di 12mila minori dati in affido, in Italia, negli ultimi 18 mesi.

I rientri in famiglia, però, sono soltanto 1.500. “Questo significa – commenta il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini – che sono 10mila e 500 i minori che restano fuori famiglia. Dunque viene spontanea una domanda: quanti sono in totale i bambini che si trovano in questa condizione in Italia? Che fondamento hanno le stime che periodicamente vengono redatte?”.

La chiarezza, quando si parla di dati relativi ai minori fuori famiglia, purtroppo non è garantita. Il perché è presto spiegato. “La famosa banca dati dei minori adottabili, prevista dalla legge, esiste o no? Non sapendo quali dati contenga, non si può capire se riguardino solo i minori adottabili o, in generale, quelli fuori famiglia – prosegue Griffini – Questo strumento è come un fantasma che aleggia tra i vari Tribunali per i minorenni, senza mai palesarsi. Peccato perché si potrebbe fare luce sui numeri, una volta per tutte”.

“Certo – chiosa il presidente di Ai.Bi. – porsi ancora queste domande, in un giorno in cui celebriamo non il primo ma il trentesimo anniversario della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia è inquietante e paradossale”

AiBinews 20 novembre 2019

www.aibi.it/ita/ben-12mila-minori-in-affido-in-18-mesi-ma-quanti-sono-i-minori-fuori-famiglia-in-italia

 

Affido familiare. Affido cos’è?

Quando una famiglia attraversa un momento di difficoltà e non riesce a prendersi momentaneamente cura dei figli, i minori possono essere accolti per un periodo di tempo determinato in un’altra famiglia, la famiglia accogliente.

Chi può fare affido? Coppie sposate o conviventi, con o senza figli, single. Non sono fissati particolari vincoli di età degli affidatari rispetto al minore affidato, salvo la maggiore età.

Come è organizzato l’affido? L’affido, che noi chiamiamo Accoglienza Familiare Temporanea (AFT), può durare fino ad un massimo di 24 mesi.

L’affido è un’esperienza unica, che arricchisce chi la vive, sia esso un bambino, una famiglia, un operatore. Raccontarlo dai diversi punti di vista dei protagonisti ci sembra una bella opportunità per capire meglio questa realtà. Sono parole scritte dai protagonisti e non hanno la pretesa di essere esaustive rispetto ad un argomento, semplicemente tratteggiano un’emozione e un punto di vista

www.aibi.it/ita/attivita/affido

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Griffini (Ai.Bi.) ad Avvenire: “Convenzione ONU da aggiornare. Adozione deve essere gratuita”

“Andrebbe stabilito uno status speciale per i minori fuori famiglia. Questi bambini dovrebbero avere diritti aggiuntivi, perché se non sei figlio sei solo”

Il 20 novembre del 1989 la Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia veniva approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Da allora ogni anno, il 20 di novembre, si celebra la ricorrenza che ricorda questo fatto storico. Ma per Marco Griffini, presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, organizzazione nata da un movimento di famiglie adottive e affidatarie, che da prima di quella data lotta, in Italia e in diversi Paesi del mondo, contro l’abbandono minorile, la Convenzione “è importante certo, ma forse, dopo 30 anni, andrebbe un po’ aggiornata”.

            Lo ha dichiarato nel corso di un’intervista con Luciano Moia di Avvenire. Il motivo di questa posizione, spiega, è da ricercarsi nel fatto che quel documento “non spiega a chiare lettere che ogni bambino ha diritto a una famiglia. Anche coloro che ne sono privi. E invece un diritto che va sancito in modo inequivocabile. E guardandolo dalla parte dei diritti dei bambini, non degli adulti ad avere un figlio”.

            Ci si riferisce, anche e ovviamente, all’adozione internazionale. “Da nessuna parte nella Convenzione – spiega Griffini – si parla dell’adozione internazionale come sistema di protezione dell’infanzia. Se non viene inserita in questo contesto, rischia di rimanere come il soddisfacimento del desiderio di due genitori ad avere un figlio: uno sguardo inaccettabile. Perché in questi 30 anni non c’è mai stato un rapporto sullo stato di abbandono dei minori nel mondo? Abbiamo il rapporto Unicef sui minori orfani circa 150 milioni nel mondo ma non si dice quanti sono i minori negli istituti, quanti vivono con i parenti, con i nonni. E non sappiamo quanti sono i minori abbandonati e non adottati”.

            Al fine di ridare dignità a tutti quei bambini che non possono essere figli, Griffini avanza una sua proposta: “Andrebbe stabilito uno status speciale peri minori fuori famiglia. Questi bambini dovrebbero avere diritti aggiuntivi perché vanno protetti in modo particolare. Perché non pensare di festeggiare i 30 anni dalla Convenzione con una Giornata del figlio? Se non sei figlio, sei solo e non sei in relazione con nessuno. Solo il figlio non è solo”. Questo, nell’attuale Convenzione, è “un approccio del tutto assente. Certo, si parla di diritti dei minori e degli obblighi da parte delle istituzioni per riconoscere questi diritti. Ma chi meglio di una madre e di un padre, anche adottivi, potrebbe tutelare i diritti dei figli?”.

            E così, prosegue Griffini, circa l’adozione “dobbiamo riconoscere che è un grande atto di giustizia perché ridà speranza a un bambino che ha subito la più grande delle ingiustizie, quella di essere privato di una famiglia. Ripeto, mai considerare l’adozione un modo per dare un bambino a una famiglia. E questo atto di giustizia è un diritto da riconoscere a livello internazionale. Quindi se è un diritto, dev’essere gratuito. Abbiamo mai visto da qualche parte che i diritti si pagano? Se fosse gratuita, si risolverebbero all’istante tutti i sospetti legati al traffico di bambini. E nessuno avrebbe più motivi per speculare”.

AiBinews        19 novembre 2019

www.aibi.it/ita/infanzia-griffini-ai-bi-ad-avvenire-convenzione-onu-da-aggiornare-adozione-deve-essere-gratuita

 

Griffini (Ai.Bi.): “Centinaia di milioni spesi dallo Stato per l’eterologa, poco o nulla per le adozioni”

In Italia si spendono centinaia di milioni di euro per sovvenzionare la PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) eterologa, che è stata inserita nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), ma, nel contempo, vengono tagliate le risorse destinate al Fondo per le Adozioni. Un’assurdità che ha una piuttosto evidente connotazione ideologica e che, ancora una volta, è stata denunciata dal presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini, nel corso di un’intervista a In Terris. (18 novembre 2019)

www.interris.it/risultati_ricerca.php?ricerca=adozioni

Il documento di programmazione – ha spiegato Griffini a proposito della prossima legge di bilancio – stabilisce che saranno tagliati 2 milioni di euro nel giro dei prossimi tre anni, il fondo per le adozioni passerà così dai 25 milioni attuali a circa 23 milioni”.

Un fulmine a ciel sereno “visto che il ministro della Famiglia Elena Bonetti questa estate aveva detto che occorreva sostenere le adozioni, infatti – prosegue il presidente di Ai.Bi. – ci aspettavamo un segnale di fiducia in linea con quanto dichiarato. La Bonetti dice che sono stati tagliati molti capitoli di spesa e che sono previste altre forme di aiuto alle famiglie ma voglio evidenziare che le famiglie adottive non possono essere trattate come le ‘normali’ altre famiglie. Si meritano molto di più: hanno dovuto pagare, anche profumatamente, il loro ‘parto’ e lo hanno fatto non pensando soltanto a sé stessi, ma rimediando, con il loro atto di giustizia, alle colpe di una società che ha privato un bambino della cosa per lui più preziosa: un padre e una madre”.

Eppure i costi che le famiglie adottive devono affrontare sono “moltissimi a cominciare dai biglietti aerei. Nel complesso un’adozione può costare anche 20-25 mila euro. Una coppia che concepisce e partorisce il proprio figlio giustamente ha tutta l’assistenza medica pagata dallo Stato ma la cosa assurda è che lo Stato spende anche centinaia di milioni di euro per elargire nei LEA l’inseminazione eterologa. (…) Per questo non mi accontento quando mi sento dire che la finanziaria avrà comunque dei bonus per tutte le famiglie, noi dovremmo avere qualcosa in più perché rimediamo ad un grande atto di ingiustizia”.

Griffini è inoltre tornato alla carica sulla proposta di un bonus da 10mila euro per ogni famiglia adottiva. “Si tratta – spiega – di dare un cifra forfettaria di 10 mila euro alle famiglie che intendono adottare: questo servirebbe a semplificare le procedure perché ora è previsto un sistema di rimborsi parziali delle spese sostenute per l’adozione. Questi rimborsi al momento sono fermi alle adozioni del 2015, malgrado siano stati finanziati anche quelli degli anni successivi, ma si tratta di procedure lunghe con le spese che vanno dimostrate nel dettaglio. Con il forfettario da 10mila euro si coprirebbero comunque solo parte delle spese ma almeno la cifra sarebbe disponibile in tempi rapidi senza portare fiumi di incartamenti. Tra l’altro incentivare le adozioni è un modo per contribuire alla natalità, si aumenta il numero dei nuovi italiani”.

            Ma, per favorire le adozioni internazionali, serve anche snellire la burocrazia. E farla finita con la vergogna dei decreti vincolati. “I tribunali – conclude il presidente di Amici dei Bambini – emettono decreti vincolanti troppo rigidi ad esempio quello di Venezia rifiuta le adozioni sopra gli 8 anni perché sostiene per i bambini più grandi c’è un alto tasso di fallimento, ma questo non è vero, ci sono bambini di 8 anni che hanno avuto percorsi di inserimento molto lineari.

            Resta poi un mistero se sia funzionante la banca dati unificata del ministero della Giustizia che permetterebbe ad ogni tribunale italiano di verificare se sono presenti bambini dichiarati adottabili in altre parti d’Italia. La banca dati è prevista da una legge del 2000 e nel 2012 abbiamo vinto un ricorso che ne chiedeva l’immediata creazione ma ancora nel 2017 il ministro Orlando in un’interrogazione diceva che l’avrebbero presto resa operativa. Al momento non metterei la mano sul fuoco circa l’effettivo funzionamento di questo strumento. Il caso Giovannino dimostra che se i casi sono resi visibili c’è una grande disponibilità da parte delle famiglie italiane. Non sempre è necessario andare in Africa o in Brasile per trovare un orfano a cui dare una famiglia, ci sono circa 300 – 400 minori l’anno che in Italia vengono dichiarati adottabili, una banca dati nazionale dovrebbe far incrociare questi dati con la disponibilità di tutte le coppie italiane

AiBinews                    18 novembre 2019

www.aibi.it/ita/griffini-ai-bi-centinaia-di-milioni-spesi-dallo-stato-per-leterologa-poco-o-nulla-per-le-adozioni

 

Casi in cui sono deducibili le spese relative agli incontri post adottivi.

Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 85/E del 9 ottobre 2019

www.agenziaentrate.gov.it/portale/documents/20143/2063991/RISOLUZIONE+85.pdf/0e2451e9-7008-2c72-f7a9-afef91aac984

L’articolo 10, comma 1, lett. l-bis) del Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, stabilisce che si deduce dal reddito complessivo, se non è deducibile nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, “il cinquanta per cento delle spese sostenute dai genitori adottivi per l’espletamento della procedura di adozione disciplinata dalle disposizioni contenute nel Capo I del Titolo III della legge 4 maggio 1983, n. 184”.                          www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1986/12/31/086U0917/sg

            Ai sensi dell’articolo 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184, “l’adozione internazionale dei minori provenienti da Stati che hanno ratificato la Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale (fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, ratificata con legge 31 dicembre 1998, n. 476) o che, nello spirito della predetta Convenzione, abbiano stipulato accordi bilaterali, può avvenire solo con le procedure e gli effetti previsti dalla medesima” legge n. 184 del 1983.

www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

In particolare, gli aspiranti all’adozione, che abbiano ottenuto il decreto di idoneità pronunciato dal Tribunale dei minorenni, ai sensi dell’articolo 30 della citata legge n. 184 del 1983, devono, ai sensi del successivo articolo 31, “conferire incarico a curare la procedura di adozione ad uno degli Enti autorizzati” dalla Commissione per le adozioni internazionali costituita, ai sensi dell’articolo 38, comma 1, della medesima legge n. 184 del 1983, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri che cura anche la tenuta del relativo albo.

Ai sensi dell’articolo 31, comma 3, lett. o), della citata legge n. 184 del 1983, inoltre, l’Ente autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione “certifica, nell’ammontare complessivo agli effetti di quanto previsto dall’articolo 10, comma 1, lettera l-bis), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, le spese sostenute dai genitori adottivi per l’espletamento della procedura di adozione.”.

Per la deducibilità delle spese di adozione non è necessario aver acquisito lo status di genitore adottivo. Con diversi documenti di prassi, l’Agenzia delle entrate ha delineato l’ambito applicativo del citato articolo 10, comma 1, lett. l-bis), del TUIR e, con la risoluzione 28 maggio 2004, n. 77/E, ha chiarito, tra l’altro, che, ai fini della deduzione delle spese in argomento, non è necessario aver acquisito lo status di genitore adottivo, essendo possibile dedurre tali spese a prescindere dalla effettiva conclusione della procedura di adozione e indipendentemente dall’esito della stessa. Ciò in quanto la deduzione è prevista per agevolare coloro che decidono di adottare un minore straniero e che, pertanto, vengono ad essere sottoposti all’osservanza di tutti gli obblighi che la procedura di cui al citato Capo I del Titolo III della legge n. 184 del 1983, impone.

Nella medesima risoluzione è stato, dunque, precisato che sono deducibili, in particolare, le spese sostenute a partire dal conferimento ad un Ente autorizzato del mandato all’adozione, con il quale inizia la procedura di adozione. La predetta procedura è da ritenersi conclusa con l’acquisizione dello status di genitore adottivo mediante la dichiarazione di efficacia in Italia, da parte del competente tribunale per i minorenni, del provvedimento di adozione emesso dall’autorità straniera, se l’adozione è stata pronunciata nello Stato estero prima dell’arrivo del minore in Italia.

            Se, invece, l’adozione si perfeziona dopo l’arrivo del minore in Italia, il tribunale per i minorenni riconosce il provvedimento dell’autorità straniera come affidamento preadottivo, ai sensi dell’articolo 35 comma 4, della citata legge n. 184 del 1983 e stabilisce in un anno la durata del predetto affidamento decorso il quale, se ritiene che la permanenza nella famiglia che lo ha accolto è ancora conforme all’interesse del minore, pronuncia l’adozione concludendo, con tale atto, la procedura in esame.

Nella medesima risoluzione n. 77/E del 2004 è stato, inoltre, chiarito che sono deducibili tutte le spese sostenute, debitamente documentate e certificate dall’Ente autorizzato, finalizzate all’adozione del minore quali, ad esempio, quelle riferite all’assistenza che gli adottandi hanno ricevuto, alla legalizzazione dei documenti, alla traduzione degli stessi, alla richiesta di visti, ai trasferimenti, al soggiorno, all’eventuale quota associativa nel caso in cui la procedura sia stata curata da enti.

Deducibilità delle spese relative agli incontri post adottivi. Con specifico riguardo alla spese relative agli incontri post adottivi per la verifica del corretto inserimento del minore, nella citata risoluzione n. 77/E del 2004, è stato chiarito che non sono deducibili le spese sostenute per i “reports post adottivi”, ovverosia quelle connesse alle relazioni e agli incontri successivi al provvedimento di adozione, emesso dall’autorità straniera o alla pronuncia di adozione da parte del Tribunale per i minorenni. Ciò in quanto gli stessi rappresentano un onere per i genitori adottivi rientrante nel generico dovere di mantenere, istruire ed educare i figli a fronte del quale l’ordinamento tributario riconosce la detrazione per carichi di famiglia.

L’Agenzia delle Entrate ha, tuttavia, rilevato che, nell’ambito della procedura di adozione internazionale, taluni Paesi di origine dei minori richiedono – in base alla legislazione interna, nonché in applicazione di accordi bilaterali o protocolli di intesa con lo Stato Italiano in materia di adozioni internazionali – l’elaborazione di relazioni periodiche sulle condizioni del minore adottato e sul livello di integrazione nella nuova famiglia, anche dopo l’acquisizione dello status di genitore. Dai predetti accordi internazionali deriva, in particolare, l’impegno a trasmettere, per il tramite degli Enti autorizzati o delle autorità centrali, al Paese di origine del minore, informazioni sull’inserimento del bambino nel nuovo contesto familiare e sociale, periodicamente e secondo le scadenze indicate nei citati accordi.

Per adempiere tale obbligo, gli Enti autorizzati acquisiscono dagli adottanti un’apposita dichiarazione che li impegna, per l’intero arco di tempo previsto dall’accordo internazionale con il Paese estero da cui proviene il bambino, a fornire agli enti stessi le notizie necessarie per predisporre tali relazioni.

In considerazione di tale circostanza, la circolare 27 aprile 2018, n. 7/E (confermata dalla circolare 31 maggio 2019, n. 13/E) ha ricompreso dette spese tra quelle ammesse alla deduzione, alla stregua di ogni altre spesa documentata finalizzata all’adozione del minore atteso che, sulla base della normativa sopra delineata, le predette verifiche costituiscono, in sostanza, un adempimento strettamente correlato alla procedura di adozione internazionale come, peraltro, evidenziato anche dall’Istante.

Alla luce di quanto precede, in linea con i chiarimenti già forniti con le citate circolari n. 7/E del 2018 e n. 13/E del 2019, si precisa che, solo qualora sulla base dell’accordo stipulato con il Paese di origine del minore, i genitori adottivi siano tenuti a consentire le verifiche post adozione, le spese relative alle predette verifiche, in quanto adempimenti necessari per l’espletamento della procedura di adozione, sono deducibili ai sensi del citato articolo 10, comma 1, lett. l-bis), del TUIR.

Redazione MioLegale             22 novembre 2019

www.miolegale.it/notizie/spese-adozione-internazionale-deducibili

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ADOZIONI NAZIONALI
Con tre figli adottano tre orfani di femminicidio. Ma lo Stato li lascia soli

Dal 2000 a oggi sono ormai due migliaia gli orfani di femminicidio in Italia, con 865 donne rimaste vittime, 70 nel solo 2019. Numeri davvero drammatici. Eppure, nonostante una legge del gennaio 2018 abbia stanziato cinque milioni di euro per sostenere gli orfani di crimini domestici, mancano ancora i decreti attuativi e si è bloccato tutto. E questi figli rimasti orfani non hanno avuto nulla. Non lo hanno avuto loro e neppure le famiglie adottive e affidatarie.

            Si tratta di un vero e proprio dramma nel dramma, una tragedia di cui si parla troppo poco. Eppure, da questo dolore, nascono storie di accoglienza interessanti. Come quella di Paola Giulianelli Calì, mamma di naturale di tre figli e adottiva di altri tre, figli della cugina del marito, Marianna Manduca, che fu ammazzata dal consorte a coltellate. Un crimine efferato, che ha lasciato, per l’appunto, tre orfani di sei, cinque e tre anni. Quando sono arrivati, spiega la madre al Corriere del Veneto, “è stata molto dura. Praticamente ci è esplosa una bomba in casa. I piccoli sono arrivati con l’irruenza dei selvaggi, erano molto traumatizzati. E ci mettevano continuamente alla prova. Anche integrarsi con i nostri figli non è stato facile… Marianna, la loro mamma, era cugina di mio marito. Viveva in Sicilia, ma lì non c’era nessuno disposto ad accoglierli, così li hanno mandati da noi a Senigallia”. I bambini “all’inizio raccontavano tanti episodi terribili della vita con il padre, prima che lui uccidesse la madre. Era tossicodipendente, li teneva nella più totale incuria. Racconti dell’orrore. Portavano con loro tante angosce, con il tempo hanno preferito cancellare la loro vita precedente, rimuoverla. Non vogliono parlare della madre. Credo il dolore sia troppo forte”.

            Sulla loro storia è stato girato anche un film, “I nostri figli”, mandato in onda in prima serata su Rai Uno. Ma, nonostante un gesto di accoglienza così coraggioso e celebrato, il destino non è sempre stato generoso. “Il Comune di Senigallia – spiega – ci ha aiutati. Io ho dovuto lasciare il lavoro, era impossibile seguire tutti i bambini. Poco tempo dopo l’azienda dove lavorava mio marito ha chiuso. Ci siamo trovati a vivere in sette con 500 euro al mese… Ma abbiamo superato anche quel periodo”.

Tuttavia, spiega ancora, “ci siamo sentiti abbandonati. È stato tutto un rimbalzare di responsabilità. Di fatto, i soldi promessi dal Fondo per gli orfani di femminicidi non sono mai arrivati. I figli delle donne vittime di femminicidio restano invisibili. Ci sono tante storie di nonni che hanno adottato i nipoti, hanno speso tutto per mantenerli. E non hanno i soldi per pagare gli psicologi, con i bambini che non dormono la notte per angoscia e incubi”.

AiBinews 23 novembre 2019

www.aibi.it/ita/con-tre-figli-adottano-tre-orfani-di-femminicidio-ma-lo-stato-li-lascia-soli

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ASSEGNO DI SEPARAZIONE

Criterio del tenore di vita escluso anche nell’assegno di separazione

Come nel divorzio, l’assegno assolve a una funzione assistenziale e compensativa

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 26084, 15 ottobre 2019

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Ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento nella separazione, è priva di rilevanza la richiesta di provare l’alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio di uno dei coniugi. I criteri utilizzabili sono quello assistenziale e quello compensativo.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza ha chiarito il concetto di irreversibilità della crisi coniugale ai fini della separazione personale dei coniugi. Con riguardo alla quantificazione del mantenimento, la Corte ha escluso l’utilizzo del criterio del tenore di vita in analogia con l’assegno divorzile.

Nel giudizio separativo, il marito convenuto non si costituisce in giudizio e il Tribunale accoglie la domanda della moglie senza imporre alcun assegno di mantenimento stante la condizione di autosufficienza economica di entrambe le parti.

La sentenza è impugnata dall’uomo il quale chiede che il giudizio sia dichiarato nullo per non essere stato convocato a presenziare all’udienza presidenziale e per non avere ricevuto la notifica dell’ordinanza di fissazione dell’udienza davanti al giudice istruttore.

Il Tribunale ha inoltre errato nell’omettere l’accertamento sull’irreversibilità della crisi coniugale.

La Corte d’Appello territoriale dichiara nullo il procedimento stante la mancata comparizione del marito all’udienza presidenziale senza rimettere la causa al tribunale. Nel merito, ritiene infondata la richiesta di accertamento sull’intollerabilità della convivenza, presupposto richiesto dall’art. 151 c.c., e dispone che la moglie versi al marito un assegno di mantenimento di 1.500 euro. Anche contro questo provvedimento, l’uomo ricorre in Cassazione.

            La soluzione interpretativa della Cassazione è rilevante quanto a due particolari questioni.

  • Sulla prova dell’intollerabilità della convivenza
  • Mantenimento per il coniuge e per i figli nella separazione e nel divorzio

La Corte chiarisce che l’intollerabilità della convivenza deve essere intesa come fatto psicologico squisitamente individuale: non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza. Ovviamente, tale fatto, deve essere verificabile in base a fatti oggettivi e a tal fine rileva, sia la presentazione stessa del ricorso separativo, sia il risultato del tentativo di conciliazione da esperire in sede di comparizione all’udienza presidenziale.

Sull’assegno di mantenimento al coniuge economicamente più debole. Nella coppia era risultato un rilevante squilibrio economico in favore della moglie, e, infatti, il marito aveva chiesto che l’assegno fosse rideterminato in 6.000 euro mensili anziché 1.500.

La Cassazione, ai fini della determinazione della misura dell’assegno, richiama però l’orientamento di legittimità applicabile all’assegno divorzile. In forza dell’orientamento delle Sezioni Unite

[Cass. civ. S.U. n. 18287 dell’11 luglio 2018www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=15939#.Xe5xh_x7nJU],

 è irrilevante la richiesta di provare l’alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la notevole consistenza del patrimonio della moglie, dovendosi attribuire all’assegno, una funzione assistenziale – ampiamente soddisfatta dalla misura dell’assegno riconosciuto al ricorrente – e una funzione compensativa, i cui presupposti non sono stati provati.

            La Corte pertanto ha respinto il ricorso ritenendo che la mancata rimessione al giudice di primo grado dopo la declaratoria di nullità del procedimento, non rientra nelle previsioni di cui all’art. 353 e ss c.p.c., e, in tal caso, il giudice di appello deve decidere la causa nel merito, dopo aver dichiarato la nullità e autorizzare tutte le attività che dovevano essere esperite (conformi Cass. Civ. n. 26361/2011 e Cass. Civ. 8713/2015).

Avv. Giuseppina Vassallo       Altalex 21 novembre 2019

www.altalex.com/documents/news/2019/11/21/criterio-del-tenore-di-vita-escluso-anche-nell-assegno-di-separazione

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                                                            ASSEGNO DIVORZILE

Guida legale completa all’assegno di divorzio aggiornata alla riforma Morani 2019

Cos’è l’assegno di divorzio. L’assegno divorzile consiste nell’obbligo di uno dei coniugi di versare periodicamente all’altro coniuge un assegno “quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”. Secondo le disposizioni contenute nell’art. 5, comma 6 della Legge sul divorzio (L. 898/01 dicembre 1970) il tribunale, quando pronuncia sentenze di divorzio, determina anche la misura dell’assegno divorzile tenendo conto di una serie di fattori e principalmente tra cui il reddito dei due coniugi, le ragioni della decisione e la durata del matrimonio.

www.altalex.com/documents/leggi/2012/06/27/disciplina-dei-casi-di-scioglimento-del-matrimonio

Il versamento dell’assegno può essere mensile ovvero in un’unica soluzione (in tal caso anche con assegnazione di un bene).

Differenza tra assegno di mantenimento e divorzile. L’assegno divorzile è una delle principali conseguenze di carattere patrimoniale del divorzio, dato che proprio con il divorzio il giudice stabilisce l’eventuale diritto di uno dei coniugi di percepirlo.

L’assegno divorzile va distinto dall’assegno di mantenimento che spetta, (al ricorrere delle condizioni di legge) prima del divorzio ossia a seguito di separazione personale dei coniugi e, quindi, in una fase ancora transitoria del rapporto.

Va segnalata in proposito una rivoluzionaria sentenza della Corte di Cassazione che ha messo ancor più in risalto la distinzione tra l’assegno di mantenimento e l’assegno divorzile.

Assegno divorzile e tenore di vita: la sentenza Grilli. Si tratta della sentenza n. 11504/10 maggio 2017 che proprio con riferimento all’assegno di divorzio ha affermato che il criteri di liquidazione non può essere quello del mantenimento del tenore di vita (come accade dopo la sola separazione personale), dato che sarebbe in contrasto con la natura stessa del divorzio.

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=14634#.XfJmqPx7nJU

Il divorzio, spiega la Corte, estingue il rapporto matrimoniale e pertanto se si determinasse l’assegno divorzile in base al tenore di vita si finirebbe per ripristinare tale rapporto “in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale”. Naturalmente l’addio al tenore di vita vale solo in caso di divorzio e non anche per la separazione.

Quando spetta l’assegno divorzile. L’assegno divorzile è un diritto di credito imprescrittibile, irrinunciabile e indisponibile che un ex coniuge vanta nei confronti dell’altro, fino al momento in cui il beneficiario stesso passi a nuove nozze oppure l’obbligato muoia o fallisca.

I criteri per la concessione dell’assegno di divorzio. Come risulta dal dettato dell’art. 5, comma 6, legge n. 898/1970 nel valutare l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione di uno dei due coniugi, si deve tener conto anche di una serie di elementi, tra i quali spiccano, da un lato, l’impossibilità di procurarseli per motivi di salute o per la difficoltà di “spendere” la propria qualificazione personale nel mercato del lavoro in quel dato momento storico e contesto sociale e, dall’altro lato, l’eventuale protrarsi di una convivenza more uxorio, dalla quale derivi un miglioramento delle condizioni economiche del coniuge più debole.

L’autosufficienza economica dopo la Cassazione. Dopo la sentenza n. 11504/2017 si è posto però il problema di come valutare la c.d. “autosufficienza economica” del coniuge economicamente più debole. A tal proposito la Corte di Cassazione ha indicato quattro “indici di prova” per stabilire se il coniuge sia o meno autosufficiente:

  • Il possesso di redditi di qualsiasi specie
  • Il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e/o immobiliari
  • Le capacità e le effettive possibilità di lavoro personale dell’ex.
  • Lo stabile disponibilità di una casa di abitazione.

Sia ben chiaro, il criterio del tenore di vita che viene meno per il coniuge divorziato resta invece per i figli.

      Da quando spetta l’assegno e quando è possibile modificarlo. Fermo restando che il diritto all’assegno divorzile, ove stabilito nella sentenza di divorzio, spetta fin dal momento in cui questa passa in giudicato, è possibile richiedere al giudice di rideterminarlo in qualunque tempo, qualora sopravvengano apprezzabili modifiche dei rispettivi redditi.

E’ interessante evidenziare, infine, le speciali forme di garanzia che l’ordinamento ha posto a tutela di questo peculiare diritto di credito, soprattutto a seguito delle modifiche introdotte dalla novella del 1987, in aggiunta ad altre eventuali forme che il giudice può sempre disporre (ad esempio, iscrizione di ipoteca su un immobile dell’obbligato, pignoramento dei suoi beni, del suo stipendio o della sua pensione).

L’assegno divorzile, infatti, non solo può essere pagato anche da terzi (come previsto per l’assegno di mantenimento a seguito di separazione personale), ma è data al beneficiario perfino la possibilità, senza ricorrere al giudice, di richiedere direttamente al datore di lavoro dell’obbligato fino alla metà di quanto gli spetta, avendo addirittura un’azione esecutiva nei confronti del datore stesso, in caso d’inadempimento (cfr. art. 8 legge n. 898/1970).

Assegno divorzile: la riforma Morani. La riforma Morani, dal nome della deputata prima firmataria del testo (che riproduce quello approvato nella precedente legislatura della deputata Ferrari), recependo le novità giurisprudenziali apportate a partire dalla nota sentenza Grilli in poi, mira a ridefinire i criteri dell’assegno di divorzio.

Il Ddl, recante “Modifiche all’articolo 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, in materia di assegno spettante a seguito di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile”, prevede infatti la cancellazione dell’assegno in caso di nuovo matrimonio e “nuovi” e compositi criteri in luogo del “vecchio tenore di vita”. Non sarà infatti legato al reddito ma anche al patrimonio, all’età e alla condizione lavorativa del soggetto richiedente, all’impegno di cura dei figli comuni minori, alla durata del matrimonio (ecc.). Inoltre, sarà “a tempo”, ossia il giudice potrà “predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili”.

La proposta di legge, come modificata dalla Commissione giustizia, è stata approvata dalla Camera il 14 maggio 2019, pressoché all’unanimità (con 386 voti a favore 19 astenuti e nessun contrario), ed è dal 16 luglio all’esame della II commissione giustizia del Senato. [Disegno di legge n. 1293, 3 articoli]

www.camera.it/leg18/126?tab=&leg=18&idDocumento=506&sede=&tipo=

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1111653/index.html?part=ddlpres_ddlpres1-articolato_articolato1

http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51802.htm

Newsletter giuridica 18 novembre 2019 – Studiocataldi.it –

www.studiocataldi.it/guide_legali/divorzio/assegno-divorzile.asp

 

Assegno di divorzio una tantum non deducibile

Corte di Cassazione, Sezione tributaria civile, sentenza n. 29178, 12 novembre 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_36416_1.pdf

Per la Cassazione, l’assegno all’ex moglie, se viene corrisposto una tantum e non in forma periodica, non è deducibile dal reddito del soggetto obbligato.  La sentenza della Cassazione accoglie il ricorso avanzato dall’Agenzia delle Entrate e ribadisce che, nel momento in cui il soggetto obbligato corrisponde alla ex moglie l’assegno una tantum e non in forma periodica, non può dedurre tale importo dal reddito come previsto dall’art. 10 del D.P.R n. 917/1986. Questo perché, come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, l’assegno corrisposto una tantum non è soggetto alla successione delle leggi nel tempo e neppure a variazioni temporali.

La vicenda processuale. L’Agenzia delle Entrate ricorre per la Cassazione della sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia che ha rigettato il suo appello avanzato nei confronti del provvedimento di primo grado della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto il ricorso di un contribuente contro l’avviso con cui l’Ufficio aveva accertato “ai fini Irpef, per l’anno d’imposta 2001, il maggior reddito imponibile derivante dal recupero a tassazione dell’onere relativo al versamento, una tantum, effettuato dal contribuente alla moglie, di euro 67.000,00, in ottemperanza ad atto di transazione stipulato tra le parti nel corso della loro causa di separazione giudiziale tra coniugi.”

Per l’Agenzia, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917/1986, il predetto componente positivo era indeducibile dal reddito imponibile del contribuente erogante, perché privo del carattere della periodicità e per la mancata previsione del titolo in un provvedimento giudiziario.

Il ricorso del fisco: assegno una tantum non deducibile. L’Agenzia denuncia l’omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo, da identificarsi nella sussistenza di un giudicato interno sulla qualificazione dell’assegno come assistenziale ed alimentare (ai sensi dell’art. 360, comma 1, num. 3 e 5, cod. proc. Civ.) e l’erronea riconducibilità dell’assegno in questione, pagato una tantum all’art.10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 917 del 1986 il quale dispone che:” 1. Dal reddito complessivo si deducono, se non sono deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo, i seguenti oneri sostenuti dal contribuente: […] c) gli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria.”

L’assegno corrisposto all’ex coniuge una tantum non è deducibile. La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia e dopo essersi pronunciata sulla questione del giudicato relativa alla natura dell’assegno, ritiene pacifico il fatto che “l’assegno de quo è stato corrisposto una tantum, a titolo di liquidazione e capitalizzazione dell’assegno di mantenimento dal medesimo controricorrente alla moglie, a seguito di un accordo raggiunto tra i coniugi nell’ambito della causa di separazione giudiziale.”

            Sulla questione della deducibilità invece gli Ermellini ribadiscono che l’art. 10, comma 1, lettera g), del d.P.R. n. 597/1973 e l’art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 917/1986 limitano “la deducibilità, ai fini dell’applicazione dell’IRPEF, solo all’assegno periodico – e non anche a quello corrisposto in unica soluzione – al coniuge” perché, come chiarito dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 383/2001, è discrezionalità del legislatore prevedere discipline distinte per le “due forme di adempimento tra loro diverse, una soggetta alle variazioni temporali e alla successione delle leggi, l’altra capace di definire ogni rapporto senza ulteriori vincoli per il debitore, non risulta né irragionevole, né in contrasto con il principio di capacità contributiva.”

Annamaria Villafrate Newsletter giuridica Studiocataldi.it 18 novembre 2019

www.studiocataldi.it/articoli/36416-assegno-di-divorzio-una-tantum-non-deducibile.asp

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ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI

Mantenimento: ridotto, non eliminato l’assegno al figlio laureato

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 30491, 21 novembre 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_36514_1.pdf

Per la Cassazione va ridotto, non eliminato il contributo per il figlio laureato trentenne affetto da sindrome ansioso depressiva, con difficoltà a trovare lavoro

La Cassazione con l’ordinanza rigetta il ricorso di una madre, finalizzato a ottenere un assegno di mantenimento per il figlio più corposo di quello fissato dalla Corte d’Appello in 350 euro. Gli Ermellini confermano la decisione del giudice impugnato perché la valutazione relativa alla diminuzione, non alla totale eliminazione dell’assegno per il figlio, ha tenuto conto dei parametri stabiliti dalla giurisprudenza quando il giudice deve decidere in materia di mantenimento dei figli maggiorenni.

Mantenimento figlio maggiorenne. Il Tribunale con decreto revoca l’assegno di 700 euro mensili imposto al padre in favore del figlio trentenne, revoca contestualmente l’assegnazione della casa alla ex moglie, respinge la domanda di revoca dell’assegno divorzile disposta a favore della moglie, così come la richiesta di aumentare la misura di tale importo avanzata dalla moglie, restando assorbita quella di aumento del contributo per il figlio. La Corte d’Appello però fissa l’assegno per il figlio a 350 euro e dispone l’assegnazione della casa alla ex moglie a cui nega l’incremento dell’assegno di divorzio.

Contraddittorio arricchimento capacità professionali. Ricorre in Cassazione la ex moglie lamentando tra i vari motivi del ricorso in Cassazione la contraddittoria motivazione relativa all’arricchimento delle capacità professionali del figlio dopo il conseguimento della laurea e alla condizione di disagio personale (sindrome ansioso depressiva) da cui è affetto. Contesta altresì l’omesso esame della richiesta avanzata nei confronti del padre di contribuire al 50% delle spese necessarie per il figlio, il peggioramento delle condizioni di salute della ricorrente e il mancato accoglimento della domanda di provvedere a precisi accertamenti della situazione reddituale dell’ex marito, dopo la ripresa del lavoro come dipendente per una azienda di costruzioni. Al ricorso si oppone l’ex marito e padre con controricorso.

Quando va solo ridotto l’assegno per il figlio laureato. La Cassazione con l’ordinanza rigetta il ricorso della donna perché infondato. Per quanto riguarda in particolare i rilievi sollevati per il figlio gli Ermellini rilevano come la Corte d’Appello abbia tenuto conto, nel ridurre l’assegno di mantenimento a favore del figlio, della laurea in archeologia conseguita nel 2013, della sua conseguente maggiore possibilità di procurarsi un lavoro retribuito, della sindrome depressiva da cui è affetto e dell’età raggiunto.

Valutazione avvenuta nel rispetto dei criteri giurisprudenziali applicati in materia di mantenimento dei figli maggiorenni e in particolare con quello che prevede che “la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa, nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, dal raggiungimento della maggiore età, da parte dell’avente diritto.” Giudizio che giustifica anche il rigetto della domanda tesa a ottenere il contributo del padre al 50% delle spese straordinarie relative al percorso universitario, alle cure mediche non coperte dal servizio sanitario e alle attività sportive del figlio.

Annamaria Villafrate  Studio Cataldi                       22 novembre 2019

 www.studiocataldi.it/articoli/36514-mantenimento-ridotto-non-eliminato-l-assegno-al-figlio-laureato.asp

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ASSOCIAZIONE ITALIANA CONSULENTI CONIUGALI E FAMILIARI

65a Conferenza internazionale dell’ICCFR a Roma

La Commissione Internazionale sulle relazioni della coppia e della famiglia, ICCFR, ed il Centro Internazionale Studi sulla Famiglia, CISF, hanno organizzato la 65a Conferenza internazionale ICCFR, svoltasi a Roma dal 14 al 16 novembre 2019.

Titolo della Conferenza: Refugee and migrant children and families. Preserving family life through hard challenges (Famiglie e minori, rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà.

            Vi hanno partecipato esperti e professionisti da tutto il mondo, e, dato l’argomento che in Italia ha assunto un connotato sociale di particolare rilievo, riteniamo sarà particolarmente sentito e vissuto.

            L’Aiccef, storico partner dell’ICCFR, ha partecipato ai lavori con una delegazione di alto livello, formata dalla presidente Stefania Sinigaglia dalle consigliere Rita Roberto e Sarah Hawker.

Nella giornata di sabato, l’Aiccef ha presentato un workshop specialistico dal titolo: Siamo ascolto che accoglie ed accompagna: la consulenza familiare per salvaguardare i diritti dei minori e delle famiglie immigrate o rifugiate in ricongiungimento. Il laboratorio è stato condotto da Stefania Sinigaglia e Rita Roberto, con il supporto linguistico di Sarah Hawker

News 18 novembre 2019

www.aiccef.it/it/news/65-conferenza-internazionale-dell-iccfr-a-roma.html

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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI

Ai.Bi. Amici dei Bambini: “Chiediamo che l’abbandono venga dichiarato un abuso”

Il presidente di Amici dei Bambini: “UNICEF non fa indagini sui care leaver, ma nove su 10 di loro vivono veri e propri drammi”

            La giornata di mercoledì 20 novembre 2019 marcava il trentennale della Convenzione ONU per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Una ricorrenza da celebrare, certo, ma in modo riflessivo. E così il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, realtà che da trent’anni lotta contro l’abbandono minorile in Italia e nel mondo, Marco Griffini, ha provato a tirare le somme in un’intervista a Vita.

Somme che sono positive, ma non del tutto. “30 anni di diritti, bene – ha detto – ma ne manca uno fondamentale: il diritto alla famiglia. Se si va a leggerli uno per uno non c’è il diritto di un minore di crescere in un ambito familiare e io aggiungerei anche che un bambino ha diritto di crescere con un padre e una madre”. Un diritto che “non c’è per i Paesi che chiudono all’adozione internazionale il dovere comunque di trovare una famiglia ai bambini abbandonati. Per me questa è una carenza”.

L’abbandono, per il presidente di Ai.Bi., è una emergenza umanitaria vera e propria, “accanto a denutrizione, salute e guerra. Di abbandono si muore”. Non in senso figurato. Perché parecchi, per fare un esempio, sono i “care leaver”, cioè i ragazzi che lasciano l’istituto soltanto raggiunta la maggiore età, che finiscono per perdersi nella droga e nella depressione.

            Eppure il rapporto sull’abbandono “è l’unico rapporto che UNICEF non abbia mai stilato. Hanno monitorato tutto, tranne questo: al punto che non sappiamo quanti siano i minori abbandonati, che sono in un istituto. Inoltre l’UNICEF non ha mai spinto a definire l’adozione internazionale come uno strumento di protezione per i minori: di conseguenza i Paesi che chiudono le adozioni internazionali non hanno alcuna sanzione. Penso ad esempio a Etiopia, Kenya, Romania, mi chiedo come fai a privare un bambino della possibilità di avere una casa. E non mi risulta che questi bimbi vengano adottati all’interno del loro Paese”.

            E, proprio a proposito dei care leaver [Coloro che hanno perso gli affetti familiari”], spiega Griffini “quando a 18 anni – questo accade in tutto il mondo – escono dagli istituti, è una tragedia. L’UNICEF non fa indagini, ma noi nel nostro piccolo abbiamo potuto vedere come in Marocco come in Russia o in Brasile nove su 10 di loro vivono dei veri e propri drammi”.

Guardando ai prossimi 30 anni, “chiediamo che l’abbandono venga dichiarato un vero e proprio abuso: se tu Stato non trovi una famiglia a un bambino abbandonato, questo è un abuso”. Per Griffini si tratta di un problema culturale dal momento che l’assistenza in sé non risolve il problema dell’abbandono: “meglio una famiglia sgarrupata che il nulla”.

Un’altra delle battaglie di Ai.Bi. è l’avvocato del minore, “gli out of family children dovrebbero avere diritto a un avvocato. Secondo noi nel momento in cui lo Stato lascia un minore fuori famiglia, quello ha diritto a un avvocato. Si è combattuto per il diritto all’ascolto, ma manca quello alla difesa per il minore fuori famiglia. Un avvocato che faccia anche valere il diritto al risarcimento del danno subito”.

            Nonostante la flessione, tremenda, delle adozioni internazionali, la speranza di Griffini è che ci possa essere una ripresa. “La nostra speranza è che si rimetta in funzione tutta la macchina organizzativa e che si ritorni agli anni passati quando il nostro era il Paese che firmava più accordi bilaterali in tema di adozioni internazionali. Negli ultimi anni le delegazioni internazionali non venivano nemmeno perché non avevano degli interlocutori. Ora spero che la ministra Bonetti lavori in questa direzione, noi l’aspettiamo”

AiBinews        21 novembre 2019

www.aibi.it/ita/marco-griffini-ai-bi-a-vita-chiediamo-che-labbandono-venga-dichiarato-un-abuso

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AUTORITÀ GARANTE PER L’INFANZIA

  Dichiarazione dell’Autorità garante per il 30° anniversario della Convenzione di New York

     “Sono trascorsi 30 anni dall’adozione a New York della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La ricorrenza impone un bilancio su ciò che è stato fatto e sulle sfide, presenti e future”. È quanto dichiara l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano in occasione del trentennale il 20 novembre.   

      “Cosa manca per la piena attuazione dei diritti in Italia lo ha indicato il Comitato Onu” prosegue. “Tra le raccomandazioni di febbraio 2019: superare le disparità territoriali e raccogliere dati su violenza, disabilità, fuori famiglia, salute mentale e dispersione scolastica. E ancora: assicurare maggior ascolto ai minorenni, garantire il diritto alla salute, contrastare l’abbandono scolastico, garantire la sicurezza degli edifici e migliorare la protezione dei minorenni vulnerabili. 

      Allo stesso tempo se guardiamo la realtà di oggi, troviamo un mondo diverso: sono emersi nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità. Aumentano gli individualismi, si disgregano le relazioni a tutti i livelli: di coppia, tra generazioni e nella comunità. Abbiamo riflettuto su questo e abbiamo anche ascoltato bambini e ragazzi. Ne sono emersi nuovi diritti. Tra essi ricordo il diritto dei bambini a non essere lasciati soli, a non dover assistere a discussioni o litigi tra genitori, a coltivare i propri sogni e a realizzarli, a utilizzare in modo consapevole e sicuro i nuovi media digitali.

      Sarebbe bene parlare di diritti in crescita. I diritti sono sì punti fermi, ma vanno interpretati in chiave evolutiva alla luce del principio, fissato dalla Convenzione, della prevalenza del superiore interesse del minore. 

I diritti devono comunque essere realizzati e garantiti nei confronti di tutte le persone di minore età, senza differenze. Oggi i servizi all’infanzia e all’adolescenza non rispettano standard minimi uguali per tutti. Per colmare tali differenze occorre definire i livelli essenziali delle prestazioni previsti dalla Costituzione. Come Autorità garante ne abbiamo indicati quattro:

  1. Mense scolastiche per tutti i bambini delle scuole dell’infanzia,
  2.  Posti di nido autorizzati per almeno il 33% dei bambini fino a 36 mesi,
  3. Spazi-gioco inclusivi per i bambini da zero a 14 anni  
  4. Una banca dati sulla disabilità dei minorenni.

     Si tratta non di punti di arrivo, ma dell’inizio di un percorso per definirne altri cosicché sia possibile celebrare i 30 anni della Convenzione dando il via a una serie di azioni concrete per l’attuazione dei diritti di bambini e ragazzi. Perché nessun bambino resti indietro.  Non uno di meno, non un diritto di meno”.

Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Comunicato stampa Roma, 19 novembre 2019

www.garanteinfanzia.org/comunicati-stampa

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/dichiarazione-30-anni-crc_0.pdf

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 43, 20 novembre 2019

Orchestra di piazza Vittorio. Bello l’incontro che si è verificato, oltre ogni barriera, con la bellezza e con la musica, grazie alla performance di un gruppo di musicisti dell’Orchestra di Piazza Vittorio, che hanno suonato e dialogato con i partecipanti alla 65.a Conferenza ICCFR – CISF, “Famiglie e minori rifugiati e migranti: proteggere la vita familiare nelle difficoltà”. Tra i tanti canti ascoltati, anche questa breve (2’42”) e coinvolgente “Si Dios fuera negro“.

www.youtube.com/watch?v=xWuGErTCUjo

Famiglie e minori rifugiati e migranti: proteggere la vita familiare nelle difficoltà” (Roma, 14-16 novembre 2019). Si è appena conclusa la 65.a Conferenza ICCFR, in collaborazione con il CISF. Un incontro di estremo interesse: oltre 100 partecipanti da oltre 10 nazioni (con presenze anche da Cina, Sud Africa, USA ed Australia), e una lunga serie di esperienze, buone pratiche e progetti innovativi. Nelle prossime settimane metteremo a disposizione i materiali delle relazioni, in inglese o in italiano, che saranno disponibili sui siti di ICCFR e di CISF (ove possibile metteremo a disposizione i materiali in entrambe le lingue). Qui alleghiamo i link dei discorsi introduttivi di Anne Berger, Chair ICCFR (in inglese), e di Francesco Belletti, direttore Cisf (in italiano).

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf4319_allegato0.pdf

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf4319_allegato1.pdf

La famiglia nella legge di stabilità: sempre marginale, se non cambia lo sguardo. Un testo del direttore Cisf (F. Belletti)

www.ilsussidiario.net/news/manovra-famiglia-le-magagne-dietro-agli-slogan-su-asili-nido-e-assegni-per-i-figli/1950702

      Nel complesso anche questa legge di Bilancio lascia la famiglia tra le “non priorità” del governo; ma questo è in fondo inevitabile, perché per sviluppare politiche della famiglia serve un vero cambio di paradigma: bisogna essere convinti che la famiglia è una risorsa (e non un costo sociale), che ha responsabilità e creatività (anziché bisogni da soddisfare con nuovi servizi), che una famiglia solida genera valore sociale ed economico, un valore aggiunto nella produzione di un Prodotto interno lordo che non è solo economico-finanziario, ma riguarda la produzione di coesione sociale, speranza, progetto e solidarietà […]”.

Silver economy: la rilevanza economica degli anziani. Finalmente, nel secondo Paese al mondo con la popolazione più anziana (dopo il Giappone), si comincia a parlare degli scenari demografici che ci attendono, e delle loro conseguenze di carattere economico (non solo costi sociali, ma anche soggettività economica, risparmio e capacità di spesa). Il recente Rapporto Censis-Tendercapital, La silver economy e le sue conseguenze, presenta i dati di cui tutto il mondo politico-economico dovrebbe tener conto: in dieci anni nel nostro Paese sono cresciute di 1,8 milioni di persone con almeno 65 anni (pari alla somma degli abitanti di Napoli e Torino) e più di 1 milione di persone con 80 anni e più (pari alla somma degli abitanti di Palermo e Firenze). Contemporaneamente, i giovani fino a 34 anni sono diminuiti di 1,5 milioni, cifra che è pari alla somma degli abitanti di Milano e Trento

                                            Sintesi_Rapporto Censis-Tendercapital_1.pdf

Roma, master in consulenza familiare. Edizione 2019-2021. Il Master in Consulenza familiare si propone di formare operatori altamente qualificati che intendano spendere le proprie specifiche competenze professionali in servizi di aiuto e sostegno alla famiglia (quali ad esempio i Consultori familiari, i Centri per la famiglia, i Centri di aiuto alla vita, i Centri di ascolto). Il Corso, promosso a Roma dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, in collaborazione con L’Università Cattolica e altri soggetti, vuole promuovere le competenze relazionali e progettuali che possano mettere in grado gli operatori che a vario titolo si occupano della famiglia (educatori, pedagogisti, psicologi, assistenti sociali, avvocati, medici, consulenti etici e canonici) di attivare efficaci relazioni di aiuto e di sostegno alla persona, alla coppia e alla famiglia nella prospettiva del lavoro d’équipe, con particolare attenzione alla promozione del benessere relazionale, allo sviluppo delle competenze della famiglia e al sostegno alla genitorialità, nel quadro di fondamentali riferimenti antropologici, pedagogici, socio-psicologici, giuridici, teologici ed etici.                            Master-Consulenza-Familiare-Depliant-2019.10.10.pdf

 

 

Save the date

  • Nord: Appuntamenti pedagogici a Brescia, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Cattolica: Crescere nella famiglia: la ricerca pedagogica tra diritti, bisogni, responsabilità, Brescia, 5-6 dicembre 2019.                 https://brescia.unicatt.it/events-Locandina%20Crescere%20nella%20famiglia.pdf

2019-11-05-Università-Cattolica-Convegno-05-12-2019-Locandina.pdf

  • Nord: Nel cuore dei diritti I disegni e i sogni dei bambini, i doveri e le responsabilità degli adulti, Brescia, 10 dicembre 2019

www.unicatt.it/eventi/evt-nel-cuore-dei-diritti-i-disegni-e-i-sogni-dei-bambini-i-doveri-e-le-responsabilita-degli-adulti

  • Nord: Fatti della vita ed eventi acuti nella malattia grave, cronica e nella disabilità: l’ospedale e i suoi attori, incontro promosso dal Centro Milanese di Psicoanalisi (ECM richiesti), Milano, 14 dicembre 2019.

www.cmp-spiweb.it/14-dicembre-2019-fatti-della-vita-ed-eventi-acuti-nella-malattia-grave-cronica-e-nella-disabilita-lospedale-e-i-suoi-attori

  • Nord: Il bambino e la sua famiglia: aspetti psicologici e giuridici, convegno della Società Italiana di Scienze Forensi (con crediti formativi per avvocati), in collaborazione con Fondazione Guglielmo Gulotta Rete Sociale APS di Psicologia forense e della Comunicazione e con Il Patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Milano, 13 dicembre 2019.

newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf4619_allegato2.pdf

  • Centro: Famiglie, diseguaglianze e sofferenza sociale nello spazio urbano. Un caso: Roma, incontro promosso dalla Cattedra “Gaudium et Spes” del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II all’interno del Ciclo di Incontri “A due voci”, Roma, 11 dicembre 2019.

www.istitutogp2.it/wp/wp-content/uploads/Spazio-Urbano-Locandina-2019.12.03.pdf

  • Centro: Paura di vivere e paura di morire nel tempo dell’uomo perfetto. Le sfide della scienza tra speranze e illusioni, incontro promosso da diocesi di Pesaro e Forum delle associazioni familiari Pesaro Urbino, Pesaro, 6 dicembre 2019.

www.viverepesaro.it/2019/12/03/paura-di-vivere-e-paura-di-morire-nel-tempo-delluomo-perfetto-incontro-venerd-6-dicembre/758265

  • Centro: I Consultori Familiari a 40 anni dalla loro nascita tra passato, presente e futuro, convegno promosso da ISS, CCM e Ministero della Salute Roma, 12 dicembre 2019

www.iss.it/?cat=13

  • Sud: Sagome a colori – La Disabilità: una Questione di Sfumature, una serie di incontri in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, promossa da F.I.D.A.P.A. BPW Italy – Sezione di Corato e altri organismi attivi sul territorio, Corato (BA), 5-14 dicembre 2019

www.csvbari.com/sagome-a-colori-la-disabilita-una-questione-di-sfumature/?utm_source=CSV+NEWSLETTER&utm_campaign=6f719c88f1

  • Sud: La professione dello psicologo e psicoterapeuta in cure palliative dell’adulto e del bambino tra concretezze e humanities, convegno promosso da U.O.C. Oncoematologia Pediatrica – ASL Lecce e dall’Associazione Genitori “Per un Sorriso in più” ONLUS (con crediti formativi ECM), Lecce, 13 dicembre 2019

www.cnoas.info/cgi-bin/cnoas/vfale.cgi?i=JJAJIJWQGUTJQJNWUQHIXL&t=brochure&e=.pdf

  • Estero: Looking back, looking forward: 40 years since the first international conference on foster care (Uno sguardo all’indietro, uno sguardo in avanti: 40 anni dopo la prima conferenza internazionale sull’affidamento), evento promosso da IFCO (International Foster Care Organisation), Londra, 6 dicembre 2019.

 www.eventbrite.co.uk/e/looking-back-looking-forward-ifco-london-seminar-2019-tickets-78876340257?fbclid=IwAR19AkBA7f3t6YXqyON5GOlAzBHk9eWC-

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Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio     http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/novembre2019/5148/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Superare il “si è sempre fatto così”

        Sembra ovvio che, per sviluppare una riflessione teologica sulla riforma della Chiesa, si debba partire dalla sua identità ideale, quale è attestata nella Scrittura e nella più ampia Tradizione delle fede, per poi chiedersi quali processi si possano attivare per avvicinare a questo modello la forma e gli stili concreti delle comunità cristiane.

     Un percorso a tappe. Yves Marie Joseph Congar OP [*1904†1995], però, ci invita a premettere a questo percorso alcune considerazioni su un tema che apparentemente non è rilevante per la riforma ecclesiale, cioè il modo in cui Dio agisce nella storia della salvezza. Così egli scrive: «Questo movimento [che va da Adamo alla città celeste] si realizza a tappe, nel corso di uno sviluppo che comporta delle realizzazioni successive e progressive. […] Esiste costantemente il pericolo che una tappa raggiunta rifiuti di lasciarsi superare, che il gruppo o gli uomini depositari della promessa, depositari del germe e del suo avvenire, s’attacchino come a qualche cosa d’invariabile e di definitivo alle forme nelle quali l’idea vivente si trova attualmente realizzata e che, tuttavia, il dinamismo stesso del germe e della promessa esige di superare» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 112).

     Dunque, secondo Congar, il disegno della salvezza che va dalla creazione del primo uomo fino alla Gerusalemme celeste si realizza a tappe. Dio è come un sapiente educatore che non chiede alla sua Chiesa e all’intera umanità il meglio in assoluto, ma solo ciò che esse possono effettivamente fare e dare in un preciso tempo e luogo, cioè in una tappa del loro percorso.

    Poi, però, a questa tappa ne segue un’altra, cioè si entra in una situazione nuova in quanto le richieste di Dio evolvono. Il passaggio da una tappa all’altra comporta un cambiamento insolito, che in precedenza non era possibile né richiesto.

   La riforma della Chiesa consiste esattamente nel fare questo salto anomalo, questo passaggio complesso e talvolta sconcertante da una tappa all’altra. Non si tratta semplicemente di abbandonare stili cattivi e di crescere nella virtù, ma di entrare in una comprensione più profonda del Vangelo e quindi di introdurre dei cambiamenti nella forma delle comunità ecclesiali che non erano previsti in precedenza. Questo significa che non si può parlare di una fedeltà della Chiesa a Dio in termini assoluti, ma sempre relativi ad un preciso momento e luogo della sua esistenza.

     In analogia al percorso individuale degli esseri umani, anche una comunità cristiana può essere chiamata a fare delle scelte che in precedenza non sarebbero state giustificate. Insomma, se ovviamente vi sono delle novità che distorcono l’esperienza cristiana, ve ne sono altre che rappresentano esattamente il modo di essere fedeli a Dio nel momento presente.

    Come rileva Congar, però, non di rado i credenti tendono a ritenere definitiva e immutabile quella comprensione del cristianesimo e quella forma di Chiesa a cui essi hanno aderito. Vorrebbero quindi che la Chiesa restasse incollata alla “loro” tappa, per così dire, e che non procedesse oltre. In altre parole, ci si identifica con una forma molto concreta e delimitata di esperienza cristiana, fatta di un certo linguaggio, di determinate strutture (“la mia chiesa”, “il mio oratorio” ecc.), di specifiche forme di devozione, e così via. Nel caso dei pastori, poi, ci si può fossilizzare anche su un certo modo di fare pastorale, anche se non funziona più da tempo.

    Solitamente queste persone reagiscono fortemente davanti alla proposta di accettare dei cambiamenti, perché vedono in questo una sorta di svalutazione di quanto hanno creduto e vissuto per molti anni. In realtà, il mettere in discussione determinati stili pastorali o forme ecclesiali non significa ritenerli sbagliati, ma semplicemente appartenenti ad una tappa ormai superata nel disegno di Dio.

     Ricadute pastorali. Per esemplificare queste considerazioni, possiamo applicarle a due problematiche pastorali. Anzitutto, le idee di Congar possono aiutarci a usare una certa cautela nel proporre la devozione ai santi. Se queste figure esemplari sono vissute in epoche passate, resteranno per sempre esempi di virtù, ma non potranno necessariamente costituire un modello di vita da replicare oggi in tutti gli aspetti del loro stile, perché essi sono esistiti in una tappa differente del cammino ecclesiale. Un prete, ad esempio, potrà trovare nel Curato d’Ars [Jean-Marie Baptiste Vianney *1786 †1859] o in Giovanni Bosco [*1815 †1888] degli esempi imperituri di fedeltà a Dio, ma non potrà ricalcare pedissequamente i loro stili spirituali e pastorali, dal momento che ciò che Dio chiedeva alla sua Chiesa quando questi santi erano in vita – la tappa che essi dovevano incarnare – è presumibilmente differente da ciò che domanda oggi alle nostre comunità cristiane.

Questo pone un problema complesso per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica che sono custodi di un carisma donato ad un fondatore che è vissuto in una tappa ormai superata del disegno divino. Se ogni vero carisma può certamente attraversare molte tappe, ciò non significa che esso possa essere vissuto negli stessi termini del passato.

    Ancora, per molte decenni si è potuto fare pastorale giovanile cercando di “tenere in parrocchia” dei giovani che erano culturalmente cristiani per il fatto di nascere nel nostro paese. L’obiettivo di questo approccio non era quello di convincerli a scegliere di essere cristiani e cattolici, ma di creare attorno a loro ambienti sani che non inficiassero la loro fede e in cui potessero approfondire il loro essere credenti. A tale scopo si sono costruite innumerevoli strutture per poter offrire ai giovani maggiori protezioni e motivazioni.

     Oggi, però, questo mondo non esiste più. Le comunità cristiane solitamente non possono competere con altre organizzazioni sul piano dell’offerta ricreativa, ma soprattutto i giovani non si lasciano più plasmare così facilmente dall’ambiente in cui vivono (che in realtà sono molteplici), ma eventualmente chiedono di essere aiutati a scegliere se essere cristiani in un mondo in cui è normale non esserlo. Un ambiente sano non è più sufficiente. Questa situazione richiede che le comunità si riformino in modo da evangelizzare le persone, e non semplicemente da offrire loro spazi e strumenti di incontro, di socializzazione e di ricreazione.

    È comprensibile che chi ha portato avanti il suo servizio ecclesiale in un altro tempo si pensi davanti alla difficile alternativa di assumere uno stile diverso – cosa talora impossibile per l’età o per abitudini inveterate – o illudersi che il mondo sia ancora quello di sempre e che le proprie strategie funzionino ancora.

     Congar ci invita a pensare che quello che si è fatto in passato, quando la Chiesa stata vivendo un’altra tappa del suo percorso, è stato assolutamente positivo, anche se ora quell’approccio non funziona più. Si tratta quindi di favorire il passaggio a un’altra tappa, e nel caso non si sia in grado di accompagnarla, di lasciare spazio ad altre figure più adatte, ringraziando il Signore per il bene che si è fatto fino al presente.

Massimo Nardello Settimana news    19 novembre 2019

www.settimananews.it/teologia/superare-si-sempre-cosi

 

Se sappiamo chi siamo non dobbiamo temere il dialogo con gli islamici

 Un brano di «Odierai il prossimo tuo» del cardinale Matteo Zuppi. Nel libro, scritto con Lorenzo Fazzini, Zuppi indaga le conseguenze dell’individualismo sfrenato che spinge le persone a idolatrare il benessere personale e le rende sorde alla sofferenza altrui.

     

     Non è vero che il pluralismo religioso deve per forza indebolire la nostra identità. Semmai la disarma e la mette in relazione. E come sempre dialoga per davvero chi sa chi è e sceglie di essere se stesso non da solo o contro gli altri, ma assieme agli altri. Se si hanno identità incerte, si ha paura degli altri e di tutto. Oppure si cercano gesti dimostrativi come risposta alle proprie insicurezze. La sfida del pluralismo religioso costituisce una grande opportunità per ritrovare noi stessi e riscoprire le nostre radici profonde. Per essere ancor di più «noi». Mi sembra un’ovvietà. Ma non lo è, perché i pregiudizi si raggrumano in convinzioni che in seguito fanno opinione.

       I musulmani odiano davvero i cristiani o li disprezzano, come tante volte si sente ripetere? Non è vero. È pericoloso pensare che il mio interlocutore ce l’ha con me oppure supporre che, appena può, si imporrà su di me: difficilmente, se rimango prigioniero di una tale visione, sarò libero di costruire un rapporto costruttivo con lui, e viceversa. Piuttosto, la diffidenza che posso comunicare all’altro, se reiterata, può creare un malessere, un problema in più che confermerà il reciproco pregiudizio. Dobbiamo perseguire un dialogo autentico. Ed essendo noi, padri, madri e figli, la prima generazione chiamata a farlo, è importante gettare basi solide per generare un rapporto aperto, libero, intelligente, anche forte, che difenda l’umanesimo – che è molto cristiano nel suo nucleo –, dentro il quale l’islam deve inserirsi.

     Il nostro umanesimo richiede non solo il rispetto della legge, ma anche di quelle regole della vita comune che sono parte del suo insieme di valori. Non dobbiamo aver paura di questo aspetto. Ciò farà crescere – è già nato, a frammenti – un islam «italiano». «Sono un italiano musulmano» è una frase che già si sente dire, tranquillamente. Anzi, molti ragazzini di fede islamica dicono «sono bolognese», «sono modenese», «sono romano», e non ci aggiungono nemmeno più la parola musulmano.

     Racconta ancora Adrien Candiard OP [*1982, opera al Cairo]: «Spesso sento dire in Europa che i musulmani sono pronti e si stanno organizzando per invadere il continente. Ora, se voi andaste al Cairo, la città dove abito io e abitano milioni e milioni di musulmani, e chiedeste a qualcuno: «È vero che voi musulmani avete in mente di invadere l’Europa?», tutti vi guarderebbero stralunati. Anzi, vi risponderebbero: «Noi invadere voi? Scusate, ma chi è che ha invaso militarmente, negli anni recenti, con la scusa di portare la democrazia, l’Iraq e altre terre dove abitano in maggioranza musulmani? Chi ha fatto sì che in Medio Oriente gli uomini cambiassero il loro modo di vestire? Voi in Europa indossate la dishdasha, la tunica lunga dei maschi? Le vostre donne mettono l’hijab, il velo in testa? Voi andate a vedere film egiziani al cinema? Oppure siamo noi che siamo invasi dal vostro modo di vivere, di pensare, di vestire, dai vostri film, dalla vostra musica?”».

     Guardare il mondo da un’altra prospettiva aiuta a considerare problemi e situazioni con occhi diversi. Un po’ più di articolazione nei giudizi e nel ragionamento ci sarebbero di grande giovamento. Certo, non dobbiamo essere ingenui: la diversità spaventa e inquieta perché non tutto è indolore. Essa comunque ci costringe a una comprensione più precisa su chi siamo. E in tempi di maggior difficoltà sociale, chiunque può diventare un possibile concorrente. Se si perde il lavoro a cinquant’anni, tutto può aumentare la nostra angoscia. Eppure, una maggiore comprensione aiuta anche a far diminuire quell’angoscia, mentre generalizzazioni facili e pregiudizi lasciano soli con le proprie paure e le proprie rabbie, magari travestite da sensi di superiorità. Dobbiamo aiutarci tutti a vivere nella diversità e nella complessità»

Matteo Zuppi     La stampa 24 novembre 2019

https://francescomacri.wordpress.com/2019/11/24/il-pluralismo-religioso-come-opportunita-per-riscoprire-le-proprie-radici

 

Dottrina e pastorale: continuità nel cambiamento

     Il tema del terzo convegno nazionale della rete “Viandanti” (“‘Lo Spirito e noi…’ Dottrina e pastorale: continuità nel cambiamento”) è di scottante attualità nella Chiesa. È stato così anche per quelli precedenti, ma questo lo è in modo speciale. «Con papa Francesco le questioni e il dibattito interno alla Chiesa si sono concentrati sul problema che intendiamo affrontare oggi», ha affermato Franco Ferrari, presidente della rete, introducendo i lavori.                                                                                                       www.viandanti.org/website

      L’accusa rivolta al papa dai tradizionalisti è che i cambiamenti da lui introdotti nella pastorale comportano l’abbandono dell’immutabile dottrina della Chiesa. In realtà, nella bimillenaria storia della Chiesa, la dottrina è stata modificata più volte alla luce delle esigenze pastorali via via imposte dai tempi. Lo hanno mostrato molto bene i vari relatori.

     Daniele Menozzi, professore emerito di Storia della Chiesa alla Normale Superiore di Pisa, ha tratteggiato i cambiamenti della dottrina della libertà religiosa nel periodo che va dalla rivoluzione francese a oggi. I tradizionalisti ignorano quel che effettivamente è successo nel cattolicesimo. Le loro accuse al papa e la minaccia di scisma, hanno in realtà scopi meramente politici e puntano a impedire il recupero da parte di Bergoglio di quell’idea di Chiesa messianica e attenta ai “segni dei tempi” che è presente nel Concilio Vaticano II, ma non è stata sviluppata dai papi successivi. L’attenzione ai “segni dei tempi” cambia la Chiesa calandola nella storia e permettendole di non essere più in ritardo rispetto al tempo in cui vive: un ritardo a cui fatalmente è condannata, invece, se segue come criterio per l’azione pastorale l’astrattezza della dottrina. La storia aiuta la Chiesa ad approfondire il significato del Vangelo e a comunicarlo per quello che è: la Buona Novella di misericordia di cui quanto mai hanno bisogno gli uomini contemporanei.

     La misericordia è il cuore del Vangelo, il modus vivendi Christi, ha sostenuto Giovanni Ferretti, professore emerito di filosofia dell’Università di Macerata. Essa dunque costituisce il criterio fondamentale per interpretare Cristo, il vangelo e il mondo. Scaturisce dal riconoscimento della dignità sacra di ogni persona di cui ha di mira non la condanna ma la salvezza e commisura, quindi, la sua “validità” non in riferimento a norme etiche astratte ma a ciò che è di vantaggio alla pienezza della sua vita, come Gesù ha fatto riferendosi alla norma del sabato. Per applicare il criterio della misericordia in modo adeguato occorrono dei “ripensamenti” profondi.

  1. Innanzitutto del modello fondamentalistico-sacrale della Scrittura e dei dogmi della Chiesa, imparando a distinguere la verità che in essi ci interpella dai condizionamenti storici che vi si trovano per darne una formulazione comprensibile nel linguaggio della cultura attuale. Si tratta di una svolta ermeneutica nella missione evangelizzatrice della Chiesa, la cui importanza è sottolineata da papa Francesco nella Evangelii gaudium per non cadere nel rischio, usando formule “ortodosse”, di comunicare un “Dio non evangelico” e un ideale umano non veramente cristiano: espressioni molto forti, mai usate nel magistero. La mancanza di questa coscienza ermeneutico-teologica, che impedisce la corretta interpretazione del criterio della misericordia, è evidente nelle critiche al papa di travisare la dottrina.
  2. Un altro ripensamento è quello della concezione di Dio che ha caratterizzato il cristianesimo sino ad oggi, ampiamente presente nell’Antico Testamento ma di cui ci sono tracce anche nel Nuovo. Essa ci presenta un Dio capace di misericordia ma anche di estrema violenza nelle sue punizioni. Il Dio di Gesù Cristo, invece, è incondizionato amore, vuole misericordia e non sacrifici. Per questo anche quella concezione arcaico-sacrale di Dio viene corretta nell’Evangelii gaudium.
  3. Un terzo ripensamento infine riguarda il rapporto tra Bibbia e morale. I principi etici della Bibbia, come è detto ancora nell’Evangelii gaudium, corrispondono all’esigenza di pienezza di vita dell’uomo. Non sono di tipo impositivo ma maieutico. Pure la rivendicazione moderna dell’autonomia razionale della morale, in questa prospettiva, può assumere per la Chiesa un valore positivo, permettendo, tra l’altro, di non svalutare la ricerca etica dei non credenti.

     Questi “ripensamenti” diventano possibili se la Chiesa impara a muoversi con “sensibilità rabdomante”, andando a scovare nella storia ciò che del Vangelo vi è presente: se, in altri termini, anche per Ferretti, va alla ricerca dei “segni dei tempi”.

       La dialettica tra dottrina, evoluzione storica e pastorale è emersa pure nella relazione di Severino Dianich, docente emerito di ecclesiologia della facoltà di teologia di Firenze. Egli ha esaminato la dottrina del sacerdozio. Il Nuovo Testamento ha sancito la fine del sacerdozio antico affermando l’unico sacerdozio di Cristo, come si legge nella Lettera agli Ebrei. Paolo si riferisce ad una missione “sacerdotale” individuandola nell’annuncio del Vangelo e nella predicazione, affidata come dono dall’alto tramite il rito dell’imposizione delle mani da parte degli apostoli. Ad essa egli connette l’autorità nella custodia della fede e, di conseguenza, nel governo della comunità: grande questione, quest’ultima, rimasta sempre aperta. Quanto si estende la funzione di guida da parte di chi ha il compito di conservare e annunciare la fede, fin dove è legittimo che arrivi?

     Un passo ulteriore è compiuto da Ignazio di Antiochia che attribuisce al vescovo-presbitero in modo esclusivo la celebrazione eucaristica. Nessuna testimonianza del Nuovo Testamento dice questo. Da qui si sviluppa più tardi, soprattutto in Agostino, il senso del sacramento ministeriale. L’azione della Chiesa, per lui, è segno e strumento di un’azione che in realtà è di Cristo e, quindi, trascende il potere umano. La dottrina cattolica ha subìto anche sviluppi ambigui, dovuti ad una progressiva “sacerdotalizzazione” del ministero: ha ereditato dal sacerdozio pagano titolo, paludamenti, ritualità. La figura del prete e del vescovo è diventata sempre più una figura sacra. In questo lungo processo è andato perduto il ruolo dei laici che solo col Vaticano II è stato recuperato grazie al ritorno alla dottrina biblica del sacerdozio comune di tutti i fedeli.

      Il relatore ha considerato pure la tradizione luterana del ministero, che si discosta molto da quella cattolica sulla concezione del sacerdozio. Tuttavia Lutero non ha mai pensato ad una laicizzazione del ministero, sostenendo che il pastore agisce in persona Christi. Non intende poi la sua funzione come pura delega da parte della comunità, riconoscendole quindi una certa “sacramentalità”.

      Dianich non ha trascurato il grande problema del ministero ordinato della donna, sostenendo che il cammino verso di esso è inesorabile nonostante il blocco dottrinale posto da Giovanni Paolo II. Il no attuale ha sue motivazioni che, tuttavia, è difficile qualificare come talmente rigorose da giustificare una chiusura definitiva. Nel corso della storia la dottrina si è dunque modificata, adattandosi ai mutamenti storici.

     Merito della lectio di Flavio Dalla Vecchia, che insegna Sacra Scrittura nello studio teologico “Paolo VI” di Brescia, è di aver mostrato come questo sia in qualche modo richiesto dal testo evangelico stesso. Nella sua relazione, che ha aperto il convegno, ha commentato il capitolo 13 di Matteo dove Gesù afferma: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove da cose antiche». È proprio tale azione che rende possibile al Vangelo di parlare al proprio tempo. Lo stesso Matteo lo fa: traendo “cose nuove” dall’insegnamento di Gesù e, rimanendo perfettamente aderente a esso, egli cerca di renderlo più adeguato, più comprensibile, al suo uditorio, che non è più quello della gente di Galilea, ma è fatto di cittadini, forse di Antiochia.

     Anche l’elezione, voluta dagli apostoli, di sette persone cui affidare il servizio delle mense e dei poveri, raccontata in Atti, è una cosa totalmente nuova rispetto all’insegnamento di Gesù. Lo stesso accade pure con la circoncisione. Gesù non ne parla. È Paolo che sceglie di non imporla più, cosa che poi diventa prassi di tutta la Chiesa. È sempre necessario, dunque, “trarre cose nuove” dalle parole di Gesù e, quando queste non ci sono, capire, seguendo lo spirito del Vangelo, dove ci vuole portare Dio.

Paolo Bertezzolo       “www.adista.it”  14 novembre 2019

www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=Paolo+Bertezzolo++++++“www.adista.it”++14+novembre+2019

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COGNOME PER I FIGLI

Cognome materno ai figli: oltre 54mila firme per la petizione

     Sono passati tre anni ma la proposta di legge per il cognome materno ai figli non è stata presa in considerazione. Sulla spinta delle 54mila firme raccolte dalla petizione su Change.Org l’obiettivo è chiederne la calendarizzazione in aula.     

     Tre anni di attesa per una riforma “indifferibile”. Sono già passati tre anni e, nel frattempo, si sono succeduti ben quattro governi, tuttavia la riforma sul cognome che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 286 dell’8 novembre del 2016, aveva definito «indifferibile», non è stata ancora approvata.

www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=286

     Sulla testa dell’Italia pende la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, perché il nostro Paese «non permette di scegliere il cognome materno – si legge nella petizione su Change.org voluta da Laura Cima. Anche la nostra Corte Costituzionale si è pronunciata in proposito, come abbiamo ricordato, ed ha «obbligato a dare il cognome materno ma solo se il padre acconsente. Nella sentenza i giudici della Corte Europea chiedono al nostro Paese di “adottare riforme” legislative o di altra natura per rimediare ai diritti violati ma la situazione che si è determinata nel nostro paese dopo la sentenza della Corte Costituzionale è gravemente discriminante per la madre».

     De Conciliis, la riforma non può essere procrastinata. E invece, non solo la sentenza non ha trovato applicazione, ma afferma Rosanna Oliva De Conciliis, presidente della “Rete per la parità”, l’associazione intervenuta nel corso del giudizio davanti alla Corte, nel terzo anniversario del provvedimento: «Non solo. Non hanno trovato corretta applicazione gli effetti immediati della sentenza, di competenza dei ministeri della Giustizia, Interno, Esteri, Pari Opportunità e Pubblica Amministrazione. E non è stata neanche fornita piena informazione ai soggetti interessati». E poi ricorda al Governo e al Parlamento l’estremo ritardo nell’attuazione di quella riforma. «La sentenza 286 del 2016 della Corte Costituzionale fu estremamente chiara- evidenzia – la riforma non poteva essere procrastinata e andava realizzata “per disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”.

     Cognome materno, l’obiettivo è chiedere la calendarizzazione in aula. Il lavoro si è concentrato nelle ultime settimane nell’organizzazione di incontro pubblico a Roma per fare il punto sulla situazione. «Il nostro obiettivo preso atto del dichiarato impegno delle ministre Fabiana Dadone ed Elena Bonetti – prosegue De Conciliis «è di ottenere l’istituzione da parte del Governo di un tavolo tecnico interministeriale, primo e importantissimo passo per una riforma organica che, nel rispetto dei principi costituzionali, garantisca la parità uomo donna e il diritto all’identità di tutte e tutti».

Gabriella Lax   Newsletter giuridica   Studio Cataldi.it     18 novembre 2019 –

www.studiocataldi.it/articoli/36373-cognome-materno-ai-figli-oltre-54mila-firme-per-la-petizione.asp

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

I dati Istat. «Grazie a chi si sposa». Le convivenze? Ecco perché ci interrogano

     Il neo direttore dell’Ufficio famiglia della Cei fra Marco Vianelli: gratitudine per chi sceglie il “per sempre”. Le convivenze? «Ecco perché ci interrogano»

     «Gratitudine» per coloro che scelgono di sposarsi e diventare così un segno per la comunità. È quasi commosso, commentando i dati dell’Istat, fra Marco Vianelli OFM, classe ’66, veneziano, mediatore e presto consulente familiare, giudice di tribunale ecclesiastico e da ottobre direttore dell’Ufficio famiglia della Conferenza episcopale.

 

 

     Direttore, l’Istat registra 4.500 matrimoni in più dell’anno passato, quasi tutti attribuibili a prime nozze. Come interpreta questo dato?

    Innanzi tutto con gratitudine. In primis gratitudine per coloro che hanno deciso di diventare segno, di compromettersi con una comunità. Di raccontare al mondo che non basta amarsi, ma che quest’amore deve essere messo a disposizione anche degli altri, perché ogni dono (e l’amore sponsale è una vocazione e quindi un dono) è per una missione. Secondariamente gratitudine per coloro che hanno accompagnato questi “giovani” in questa scelta. Nel sì di due, oggi più che mai, c’è un villaggio.

     I dati Istat interrogano anche la pastorale dei fidanzati: cosa vuol dire preparare al matrimonio sposi di 33,7 anni in media e spose di 31,5? Secondo la sua esperienza, le parrocchie si sono già adeguate a questo spostamento anagrafico sempre più accentuato?

     Le parrocchie sono “presidi” sul territorio estremamente preziosi. Sono memoria e profezia. In questo tempo sono esposte a grandi mutamenti e trasformazioni (lo spopolamento, la ridefinizione in unità pastorali, la mancanza di clero…) ed indubbiamente molte vivono in affanno. Ma sono comunque il luogo dove la comunità ancora custodisce e accoglie le domande complesse di un territorio. A volte le risposte non sono sempre adeguate o efficaci, ma esprimono il più delle volte forme di cura pastorale, c’è un reale desiderio di essere comunità vive e significative e non solo strutture burocratiche. In tutto questo, accompagnare persone adulte al “per sempre” diventa una grande sfida. Perché ci troviamo davanti persone più grandi d’età sì, ma non necessariamente più libere o più stabili. I giovani/adulti che si affacciano ai percorsi in preparazione alla vita nuziale risentono comunque di un tempo di precarietà, d’incertezza e a volte è proprio la possibilità di dire “per sempre” a una persona che li rinfranca in un cammino che li vede spaesati e “disperanti”. Inoltre più grandi vuol dire anche più feriti, con tutto ciò che questo comporta in termini di ascolto e proposta. Ma il problema di fondo è che più grandi non necessariamente vuol dire più credenti, più maturi nella fede. A mio avviso oggi la sfida più grande è proprio sul piano della fede, perché il matrimonio è una “cosa” per adulti.

     Come viene affrontato a livello pastorale il fenomeno consolidato delle convivenze?

Come sempre si parte dall’accoglienza. Oggi penso sia un fatto sdoganato che l’incontro con l’altro è sempre un epifania, uno svelarsi, un’opportunità. Questi fratelli e sorelle ci aiutano a fare un esame di coscienza. Quale narrazione abbiamo fatto del matrimonio? È vero, questo è un tempo liquido, forse gassoso, ma noi come abbiamo raccontato l’amore a questi “giovani”? Perché sembra non essere più bello dirsi “per sempre”? Che cosa li spaventa? Forse perché dell’amore abbiamo messo in luce solo la fatica e non la gioia, forse non siamo riusciti ad affascinarli dei legami, a far loro scoprire che si è veramente liberi solo quando si appartiene “per sempre” a Qualcuno. C’è poi il grande miracolo di molte coppie di conviventi che chiedono di sposarsi. Allora diventa interessante mettersi in ascolto di che cosa cercano nel matrimonio! Perché apparentemente hanno tutto. Potrebbero continuare nella convivenza, ma arriva un momento che non basta. Arrivano con una domanda non banale, che va ascoltata ed evangelizzata e che può a sua volta diventare evangelizzante: abbiamo scoperto che nell’amore c’è “di più”! Io vedo in questo una grande opportunità, un “segno dei tempi”.

    C’è poi una grande diversità territoriale: al Sud l’80% delle prime nozze tra sposi entrambi italiani è religioso, contro il 59% al Nord. Un “tesoretto” da preservare o un retaggio tradizionale che andrà a sparire?

      In questo cambiamento d’epoca non ci sono tesori da conservare, ma persone da incendiare. Il Papa parlando di una Chiesa in uscita ci ricorda che non possiamo rassicurarci di posizioni prese. Non possiamo pensare questo tempo come una guerra di trincea, che verrà vinta per sfinimento o per azioni eroiche di singoli. Penso innanzi tutto che dobbiamo smetterla di sentirci assediati e di pensarci in guerra, non penso che sia questa una categoria che appartenga a noi cristiani. È un tempo che grida la paura della dispersione, dissoluzione e lo fa molte volte alzando muri e alzando la voce, mentre lo Spirito ci aiuta a comprendere che siamo in un tempo che ha bisogno di testimoni credibili e soprattutto contenti, gioiosi della scelta fatta. Si dice che la bellezza salverà il mondo, ma se non sappiamo renderla evidente e attraente nulla resterà.

     C’è da ultimo il tema dei single: se meno gente si sposa, inevitabilmente più gente rimane sola… La Chiesa come risponde a queste solitudini?

     Questa è una sfida non semplice da affrontare. Questa condizione non sempre è frutto di una scelta libera, gioiosa e consapevole. Molto spesso ci sono delle ferite che hanno impedito il realizzarsi di una vocazione sponsale. Anche a questi figli di Dio, con delicatezza e tenerezza, va annunciata la vocazione nuziale, il progetto di Dio a far nozze con ciascuno di noi, perché la vita battesimale è una vita nuziale. Nessuno è destinato ad essere solo; qualcuno amava dire “soli, ma non da soli”. Penso che questi fratelli siano preziosi per la vita della Chiesa, che non solo debbano esser accolti ma che possano restituirci parole di Vangelo.

Antonella Mariani          Avvenire       21 novembre 2019

www.avvenire.it/attualita/pagine/nel-s-di-due-c-il-segno-che-contagia-le-comunit

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DALLA NAVATA

XXXIV Domenica del Tempo ordinario Cristo re dell’universo – Anno C – 24 novembre 2019

2 Samuele         05, 01 In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero:  

                              “Ecco noi siamo tue ossa e tua carne”.

Salmo               121, 01 Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!».
Colossési          01, 15 Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in            .                       lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili.
Luca                   23, 42 E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

 

Le porte del cielo spalancate per noi

     Sta morendo, posto in alto, nudo nel vento, e lo deridono tutti: guardatelo, il re! I più scandalizzati sono i devoti osservanti: ma quale Dio è il tuo, un Dio sconfitto che ti lascia finire così? Si scandalizzano i soldati, gli uomini forti: se sei il re, usa la forza! E per bocca di uno dei crocifissi, con una prepotenza aggressiva, ritorna anche la sfida del diavolo nel deserto: se tu sei il figlio di Dio… (Lc 4,3).

     La tentazione che il malfattore introduce è ancora più potente: se sei il Cristo, salva te stesso e noi. È la sfida, alta e definitiva, su quale Messia essere; ancora più insidiosa, ora che si aggiungono sconfitta, vergogna, strazio. Fino all’ultimo Gesù deve scegliere quale volto di Dio incarnare: quello di un messia di potere secondo le attese di Israele, o quello di un re che sta in mezzo ai suoi come colui che serve (Lc 22,26); se il messia dei miracoli e della onnipotenza, o quello della tenerezza mite e indomita.

     C’è un secondo crocifisso però, un assassino “misericordioso”, che prova un moto compassione per il compagno di pena, e vorrebbe difenderlo in quella bolgia, pur nella sua impotenza di inchiodato alla morte, e vorrebbe proteggerlo: non vedi che anche lui è nella stessa nostra pena? Una grande definizione di Dio: Dio è dentro il nostro patire, Dio è crocifisso in tutti gli infiniti crocifissi della storia, Dio che naviga in questo fiume di lacrime. Che entra nella morte perché là entra ogni suo figlio. Che mostra come il primo dovere di chi ama è di essere insieme con l’amato. Lui non ha fatto nulla di male.

     Che bella definizione di Gesù, nitida semplice perfetta: niente di male, per nessuno, mai, solo bene, esclusivamente bene. E Gesù lo conferma fino alla fine, perdona i crocifissori, si preoccupa non di sé ma di chi gli muore accanto e che prima si era preoccupato di lui, instaurando tra i patiboli, sull’orlo della morte, un momento sublime di comunione. E il ladro misericordioso capisce e si aggrappa alla misericordia: ricordati di me quando sarai nel tuo regno.

     Gesù non solo si ricorderà, ma lo porterà via con sé, se lo caricherà sulle spalle, come fa il pastore con la pecora perduta e ritrovata, perché sia più leggero l’ultimo tratto di strada verso casa. Oggi sarai con me in paradiso: la salvezza è un regalo, non un merito. E se il primo che entra in paradiso è quest’uomo dalla vita sbagliata, che però sa aggrapparsi al crocifisso amore, allora le porte del cielo resteranno spalancate per sempre per tutti quelli che riconoscono Gesù come loro compagno d’amore e di pena, qualunque sia il loro passato: è questa la Buona Notizia di Gesù Cristo.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.cercoiltuovolto.it/vangelo-della-domenica/commento-al-vangelo-del-24-novembre-2019-p-ermes-ronchi

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DEMOGRAFIA

Matrimoni nel 2018

   Nel 2018 sono stati celebrati in Italia 195.778 matrimoni, circa 4.500 in più rispetto all’anno precedente (+2,3%).      Prosegue la tendenza a sposarsi sempre più tardi. Attualmente gli sposi al primo matrimonio hanno in media 33,7 anni e le spose 31,5 (rispettivamente 1,6 e 2,1 anni in più rispetto al 2008).

   Le seconde nozze, o successive, dopo una fase di crescita rilevata negli ultimi anni, dovuta anche all’introduzione del “divorzio breve”, rimangono stabili rispetto all’anno precedente. La loro incidenza sul totale dei matrimoni raggiunge il 19,9%.

    Considerando gli anni più recenti, nel biennio 2015-2016 c’è stato un lieve aumento dei matrimoni anche dovuto agli effetti del Decreto legge 132/2014 (introduzione dell’iter extra-giudiziale per separazioni e divorzi consensuali) e della Legge 55/2015 (“Divorzio breve”) che hanno semplificato e velocizzato la possibilità di porre fine al matrimonio in essere e, quindi, consentito di risposarsi a un numero maggiore di coppie rispetto al passato.

     La diminuzione dei primi matrimoni è da mettere in relazione in parte con la progressiva diffusione delle libere unioni. Queste, dal 1997-1998 al 2017-2018, sono più che quadruplicate passando da circa 329 mila a 1 milione 368 mila. L’incremento è dipeso prevalentemente dalla crescita delle libere unioni di celibi e nubili, passate da 122 mila a 830 mila circa.

     Accanto alla scelta delle libere unioni come modalità alternativa al matrimonio, sono in continuo aumento le convivenze prematrimoniali, le quali possono avere un effetto sul rinvio delle nozze a età più mature (posticipazione del primo matrimonio). Ma è soprattutto la protratta permanenza dei giovani nella famiglia di origine a determinare il rinvio delle prime nozze.

     Nel 2018 sono state celebrate 33.933 nozze con almeno uno sposo straniero, il 17,3% del totale dei matrimoni, una proporzione in leggero aumento rispetto all’anno precedente.

     Nel 2018 sono state costituite 2.808 unioni civili (tra coppie dello stesso sesso) presso gli Uffici di Stato civile dei comuni italiani. Queste si vanno a sommare a quelle già costituite nel corso del secondo semestre 2016 (2.336), anno di entrata in vigore della Legge 20 maggio 2016, n. 76, e dell’anno 2017 (4.376). Come nelle attese, dopo il picco avutosi subito dopo l’entrata in vigore della nuova legge il fenomeno si sta ora stabilizzando.                                                                                  Report_Matrimoni_Unioni_Civili_2018.pdf

Comunicato stampa 20 novembre 2019

www.istat.it/it/archivio/235759

 

Meno matrimoni e con fatica

     Gli italiani si sposano meno, lo fanno soprattutto civilmente e il matrimonio dura in media 16 anni, l’età della separazione si aggira a 47 anni per gli uomini e 44 per le donne. Il quadro degli ultimi dati sui matrimoni in Italia fornito dall’Istat non è confortante. Nel 2014 sono stati celebrati 189.765 matrimoni circa 4.300 in meno rispetto all’anno precedente. Al primo matrimonio si arriva sempre più maturi: gli sposi hanno in media 34 anni e le spose 31. Al nord e al centro i matrimoni civili superano quelli religiosi. La separazione arriva in media dopo 16 anni ma in caso di matrimoni recenti la durata diminuisce fino a 10 anni. In crescita le separazioni con uno dei due coniugi ultrasessantenne.

     Diminuiscono anche i matrimoni misti, cioè dove almeno uno degli sposi è straniero, e quelli fra stranieri. Lo rileva l’Istat nel suo report su matrimoni, separazioni e divorzi relativo all’anno 2014. I matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera sono stati circa 24 mila (il 12,8% delle nozze celebrate nel 2014), in calo di 1.850 unità sul 2013. La diminuzione si deve soprattutto alle nozze tra stranieri, che l’anno scorso sono state 6.724 (il 3,5% dei matrimoni totali). E i più numerosi sono quelli tra cittadini romeni. In particolare, le unioni con un coniuge italiano e l’altro straniero sono state 17.506, e la tipologia prevalente è quella in cui è la sposa ad essere straniera: 13.661 nozze (il 78% di tutti i matrimoni misti). Una sposa straniera su due è cittadina di un paese dell’Est Europa.

     I giovani hanno sempre meno voglia di sposarsi ma per contro tendono sempre di più a convivere: le unioni di fatto sono più che raddoppiate dal 2008, superando il milione nel 2013-2014. Lo rileva l’Istat. In particolare, le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili arrivano a 641mila nel 2013-2014 e sono la componente che fa registrare gli incrementi più sostenuti, essendo cresciute quasi 10 volte rispetto al 1993-1994. A dimostrare ulteriormente che le unioni di fatto sono una modalità sempre più diffusa di formazione della famiglia, il dato che oltre un nato su quattro nel 2014 ha genitori non coniugati.

Avvenire 12 novembre 2015

www.avvenire.it/attualita/pagine/istat-dati-matrimoni-italia

 

Più matrimoni e sorpasso storico: i riti civili superano quelli religiosi.

Scelti soprattutto sopra i 30 anni e al Nord. Al Sud prevale la tradizione

     Non ci si sposa più giovanissimi, si rinvia, si aspetta la conquista della stabilità economica ma poi, sempre più spesso dopo i 30 anni, arriva il giorno in cui si convola a nozze. Il fascino del matrimonio non perde vigore anche se ci si sposa più tardi. E sulla scia della tendenza inarrestabile da decenni a preferire il comune alla chiesa, il 2018 è stato l’anno dello storico «sorpasso»: i riti civili hanno superato quelli religiosi, sono stati il 50,1 per cento, pari a 92 mila 182 sul totale di 195 mila 778.

     Nozze più tardi. I matrimoni aumentano, ci racconta l’Istat nel suo report su matrimoni e unioni civili, ma ci si sposa sempre più tardi: gli uomini arrivano al primo matrimonio con una età media di 33,7 anni (nel 2017 era 32,1), e le donne di 31,5 (ed era 29,4). Per l’Istat il motivo è l’«invecchiamento del Paese»: il numero di figli è drasticamente diminuito e in dieci anni la fascia della popolazione tra i 16 e i 34 anni è scesa di 12 milioni. Ci sono sempre meno giovani, quindi meno matrimoni e unioni civili tra giovani. Ma c’è anche l’aspetto economico che incide: la «prolungata permanenza dei giovani in famiglia» dovuta per buona parte al lavoro precario, ma anche a scelte di vita in netta controtendenza rispetto a 40 anni fa. Il 67,5% dei maschi (+1,3% rispetto a 10 anni fa) e il 56,4% (+3%) delle femmine tra i 18 e i 34 anni vive con i genitori. Molti giovani poi, decidono di convivere prima di convolare a nozze, e anche questo spiega il rinvio.

     Le convivenze. Se i matrimoni sono aumentati nel 2018 (4.500 in più rispetto al 2017), crescono, e in misura maggiore, anche le libere unioni. Il trend decennale delle nozze infatti resta in discesa (nel 2008 furono 246 mila 613, nel 2018 sono state quasi 196 mila) mentre costante è la crescita delle convivenze, che sono più che quadruplicate dal 1998, passando in 20 anni da 329 mila a 1 milione e 368 mila. Aumentano anche i figli nati fuori dal matrimonio: nel 2017 furono uno su tre 3.

    Le coppie omosessuali. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso costituite nel corso del 2018 sono state 2 mila 808, con una prevalenza di uomini, 64,2% del totale. Il 37,2% nel Nord ovest e il 27,2% al Centro, ma è soprattutto nelle grandi città che si registrano queste unioni. A Roma e a Milano una su tre, rispettivamente 10,1 e 18,7 ogni centomila abitanti. A Napoli e a Palermo invece, il dato si attesta su una unione civile ogni 100 mila abitanti.

    Le scelte al Sud. I dati Istat rilevano dunque un’Italia spaccata a metà: al Sud ci si continua a sposare con rito religioso; è il Nord che alza la media dei matrimoni civili. Nelle regioni settentrionali le nozze con rito civile sono il 63,9% mentre nelle regioni meridionali, dove due coppie su tre preferiscono varcare la soglia della chiesa, sono meno della metà (30,4%).

     Vero è anche che il balzo dei matrimoni civili è in buona parte dovuto alle seconde nozze e alle successive, che sono aumentate in dieci anni dal 13,8% al 19,9%, e che il boom negli ultimissimi anni di secondi e terzi matrimoni è dovuto al divorzio breve (le seconde nozze e successive sono quasi sempre civili, 94,6%). Scelgono di sposarsi in comune anche la stragrande maggioranza delle coppie in cui almeno uno degli sposi è straniero (89,5%); nel Nord e nel Centro, dove la presenza degli stranieri è più radicata, parliamo di un matrimonio su quattro. Alla tradizione delle nozze in chiesa sono più legati i giovani, gli under 30, che scelgono il rito civile per il 24,8%, molti meno dei 35-40enni che per il 37,8% dicono «sì» all’ufficiale di stato civile.

Mariolina Iossa      Il corriere della sera   22 novembre 2019

www.corriere.it/cronache/19_novembre_20/piu-matrimoni-sorpasso-storicoi-riti-civili-superano-quelli-religiosi-4b6bed22-0bd8-11ea-a21c-9507e0a03cd5.shtml

 

L’allarme dell’Istat. Lavoro, madri ancora penalizzate

In Italia, l’11,1% delle madri non ha mai lavorato per prendersi cura dei figli,

in Europa, la media è del 3,7%

     Diventare padri migliora la partecipazione degli uomini al mercato del lavoro, mentre essere madri è ancora penalizzante per le donne, a causa della difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia. Un dato (forse) inatteso e una conferma, invece ampiamente prevista, sono i due aspetti principali del report “Conciliazione tra famiglia e lavoro”, diffusa questa mattina dall’Istat, su dati del 2018.           www.istat.it/it/archivio/235619

   A livello generale, sono 12 milioni e 746mila le persone tra i 18 e i 64 anni (pari al 34% della popolazione considerata), che si prendono cura di figli minori di 15 anni o di parenti malati, disabili o anziani. Tra questi, 2 milioni e 827mila svolgono questo servizio di cura in maniera continuativa. Fra i genitori occupati con figli minori di 15 anni, il 34,6% dei padri e il 35,9% delle madri lamentano problemi di conciliazione tra il lavoro e la famiglia e poco meno di un terzo utilizza i servizi messi a disposizione dagli enti locali. Anche questa carenza, fa sì che l’11,1% delle donne con almeno un figlio, non abbia mai lavorato fuori casa, per prendersi cura della famiglia.

    Il divario tra uomini e donne. Mentre il tasso di occupazione degli uomini tra i 25 e i 54 anni, con figli minori di 14 anni, tende a migliorare (89,3% rispetto all’83,6% degli uomini senza figli), per le donne la situazione è opposta e ancora fortemente penalizzante. Il tasso di occupazione delle madri di 25-54 anni è al 57%, mentre quello delle donne senza figli è al 72,1%. I tassi di occupazione più bassi si registrano tra le madri di bambini in età prescolare: 53% per le donne con figli sotto i 2 anni e 55,7% per quelle con figli tra i 3 e i 5 anni. All’opposto, la quota di chi resta escluso dal mercato del lavoro è più bassa per i padri rispetto agli uomini senza figli, con un tasso di inattività pari, rispettivamente, al 5,3% e 9,1%. Per le madri, invece, il tasso di inattività è del 35,7%, rispetto al 20,3% delle donne senza figli.

     La laurea fa la differenza. Cruciale, per favorire il lavoro delle madri, è il titolo di studio. Il report dell’Istat, infatti, evidenzia che oltre l’80% delle madri laureate ha un lavoro fuori casa, contro il 34% di quelle con titolo di studio pari o inferiore alla licenza media. Il divario con le donne senza figli scende da 21 punti percentuali se il titolo di studio è basso, a 3,7 punti se pari o superiore alla laurea. Il titolo di studio fa la differenza anche tra le donne che hanno responsabilità di cura di parenti malati, anziani e disabili. Un servizio che, in sei casi su dieci, è svolto dalle donne (1 milione e 343mila quelle tra i 45 e i 64 anni di età, di cui il 49,7% è occupata). Dal confronto con le donne che non hanno questo tipo di responsabilità, emerge un divario tra i tassi di occupazione pari a quasi 4 punti percentuali, confermato anche a livello territoriale. Il possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea, annota l’Istat, riduce invece la differenza tra le donne con o senza responsabilità a soli 1,9 punti percentuali.

     Italia maglia nera in Europa. La mancata partecipazione al mercato del lavoro o l’interruzione lavorativa per motivi legati alla cura dei figli, riguarda quasi esclusivamente le donne ed è un fenomeno che non viene riscontrato, con queste dimensioni, in altri Paesi dell’Unione Europea. Nel 2018, quasi il 50% delle donne tra i 18 e i 64 anni con almeno un figlio, ha interrotto il lavoro per almeno un mese continuativo, compresa la maternità obbligatoria (per chi ne ha usufruito). La media dell’Unione Europea è, invece, il 32,6%. Inoltre, in Italia, l’11,1% delle donne con almeno un figlio non ha mai lavorato, un valore triplo rispetto al 3,7% della media europea.

     Orari impossibili. Oltre un lavoratore italiano su tre, il 35,1% per la precisione, denuncia la difficile conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli di cura della famiglia. Al primo posto, nella classifica delle difficoltà quotidiane, c’è il regime orario. In particolare, le fatiche maggiori sono a carico delle madri con un impiego a tempo pieno (43,3% fa fatica a conciliare), rispetto al 24,9% di quelle che lavorano part-time. La conciliazione è resa complicata anche dal lavoro a turni, in orari pomeridiani o nel fine settimana (19,5%) e dal troppo tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro (18,1%).

     Servizi scarsi e troppo cari. Soltanto il 31% delle famiglie con figli sotto i 14 anni si avvale regolarmente di servizi pubblici o privati, come asili nido, scuole materne, ludoteche o baby-sitter. Il 38% chiede aiuto ai parenti che, in nove casi su dieci, sono i nonni. Tra le madri di under 14 che non utilizzano i servizi, il 15% ne avrebbe, invece, estremo bisogno ma non può accedervi perché troppo costosi (9,6%), oppure assenti o senza posti disponibili (4,4%). In particolare, lamentano costi troppo alti le madri con figli di 0-5 anni (15,6%) e le non occupate (12,9%), le quote più alte per la mancanza dei servizi sono sempre tra le madri di figli in età prescolare (6%) e le residenti nel Mezzogiorno (5,5%).

Paolo Ferrario Avvenire 18 novembre 2019

www.avvenire.it/economia/pagine/lavoro-madri-ancora-penalizzate

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Bonus asili. “Non cambia nulla, non rilancia la natalità”

     “Quando resteranno vuoti, perché non ci saranno bambini a occuparli, che ce ne faremo dei nidi?” L’incremento del bonus per gli asili nido? “Non incide, non rilancia la natalità, non va a migliorare la vita delle famiglie. In sostanza non cambia nulla”. La netta stroncatura del provvedimento recentemente annunciato dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, è arrivata da Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni familiari, che ha spiegato il suo punto di vista con un’intervista e poi un intervento su Famiglia Cristiana. Secondo De Palo, infatti, “Non si può vendere come un grande vittoria destinare 2,8 miliardi per i prossimi tre anni in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo in Italia. Se non ci fosse l’emergenza demografica, se l’Italia fosse un paese che ha politiche familiari notevoli allora sì, ma nella situazione che stiamo vivendo è quasi una presa in giro”.

     È palpabile, nelle sue parole, il rammarico per il rinvio dell’assegno unico per ogni figlio. “Fino a pochi giorni fa – dice De Palo – si era parlato di assegno unico, con delle cifre molto diverse. Quella presentata è una manovra che darà un assegno unico solamente per i nuovi nati, cioè una manovra identica a quella dell’anno prima che è sua volta identica a quella dell’anno ancora prima. Vengono previsti tre miliardi per il bonus epifania, soldi dati alle persone che utilizzano il bancomat invece che i contanti, meno per una cosa che dovrebbe invece essere più importante e più grande. Allora ci si chiede quale sia la priorità. Non si comprende che il bene comune non è la somma degli interessi particolari. Gli interessi particolari dei pensionati (quota 100), gli interessi particolari dei disoccupati (reddito di cittadinanza), dei sindacati (cuneo fiscale), non sono il bene comune. Il bene comune è una visione d’insieme che ha il coraggio di investire parecchie risorse”.

     “Quando resteranno vuoti, perché non ci saranno più bambini a occuparli, che ce ne faremo dei nidi?”, chiosa ancora De Palo in un altro intervento, sempre su Famiglia Cristiana, a proposito del bonus. “Non saranno 500 milioni di euro a cambiare la vita delle famiglie con figli (…) l’aumento del bonus per le rette dei nidi, peraltro limitato ai nuclei famigliari sotto i 40mila euro di ISEE, è riduttivo”.

www.aibi.it/ita/bonus-asili-de-palo-forum-famiglie-non-cambia-nulla-non-rilancia-la-natalita

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

 “Bisogna avere occhi buoni per capire Francesco”

     Incontro all’Università Sophia di Tokyo con padre Juan Haidar, gesuita argentino di Santa Fè, allievo di Bergoglio dal 1985 al 1991 nella casa di formazione di Buenos Aires. Quando Bergoglio fu eletto Papa, padre Haidar segue l’evento in tv dal Giappone. “Ho provato una grandissima gioia”, ricorda. “Ma anche paura. Ho pensato subito che le persone avrebbero fatto fatica a capirlo, lo avrebbero criticato. Perché per capire Bergoglio bisogna avere occhi buoni”

     “A volte noi non crediamo nei giovani. Li vediamo sempre attaccati allo smartphone, distratti, poco interessati, quasi indifferenti. Bergoglio invece crede nelle persone. È convinto che Dio lavora in ogni cuore. Non è mai pessimista di fronte alla realtà. Mai”. È questa capacità di vedere il sole sempre, anche nella oscurità della notte, l’insegnamento più importante che padre Juan Haidar ha ricevuto da Papa Francesco. Il gesuita, argentino di Santa Fé, insegna oggi filosofia all’Università Sophia di Tokyo. Lo incontriamo lì, indaffarato con poster e fogli in mano, tra i corridoi dell’ateneo dove tra pochi giorni arriverà il Santo Padre. Padre Haidar aveva solo 20 anni quando Bergoglio era Superiore della casa di formazione dei gesuiti a Buenos Aires. L’ha conosciuto così, negli anni che vanno dal 1985 al 1991, in un periodo in cui Bergoglio aveva già vissuto le atrocità del regime militare in Argentina e il vento di rinnovamento portato dal Concilio Vaticano II nella Chiesa. I giovani appena entrati nella casa di formazione, lo guardavano con interesse forse proprio per questo. Per padre Haidar, Bergoglio era il “modello di gesuita”. “Se mi chiedi perché sono diventato gesuita, è anche perché ho visto in lui una scelta di vita che mi attraeva. Era una vita piena, che non scartava nulla, fatta di preghiera, di studio, di cura delle persone. E a me questa vita piaceva”.

     Padre Haidar capisce subito che con Bergoglio poteva parlare di tutto. Aveva solo 20 anni ed aveva un bisogno immenso di confrontarsi con qualcuno anche sulle cose più private, sui fatti di tutti i giorni. Era come “un padre” per lui. Il ricordo si sposta subito sull’attenzione che Bergoglio aveva per i poveri. Era convinto che “erano le persone più vicine a Dio”. Ai giovani gesuiti, diceva di studiare con gli insegnanti dal lunedì al venerdì. Ma poi il sabato e la domenica dovevamo andare nei barrios e mettersi alla scuola dei poveri. Prendeva sul serio le parole del Vangelo: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”.  “Io però non provenivo da una famiglia povera e queste parole per me erano difficili da capire”, racconta padre Haider. “Mi chiedevo: ma cosa possono insegnarmi queste persone. È gente ubriaca, persa, ignorante. Ne parlavo spesso con Bergoglio. E lui mi diceva che se non partivo da queste persone, non potevo diventare un uomo di Dio.

      Mi parlava anche della saggezza dei poveri: conoscono Dio molto meglio di te e di tanti teologi”. Padre Haidar intravede in Bergoglio anche un modello di pedagogia che lo segnerà in futuro. “Quando gli parlavo, lui era veramente interessato a quello che gli stavo confidando. Non rispondeva con frasi fatte o concetti generali. Mai iniziava la frase dicendo, “come Karl Reiner scriveva…”. No, aveva una parola sempre originale, personale, adatta a te. L’unica cosa a cui teneva, era che noi crescessimo. Voleva che diventassimo persone migliori di quelle che eravamo. Era un continuo stimolo per noi studenti. Quello che ricordo è che con lui stavi bene, perché ti rispettava, ti illuminava”. Poi la vita va avanti. Padre Haidar viene mandato in Giappone e Bergoglio diventa vescovo. “Quando è diventato vescovo ha continuato a vivere una vita povera perché non aveva bisogno niente. Aveva Dio, aveva le persone, aveva i poveri”.

     Succede l’incredibile: il 13 marzo 2013, Bergoglio si affaccia dalla loggia centrale della Basilica Vaticana. Era diventato Papa. Padre Haidar segue l’evento in tv dal Giappone. “Ho provato una grandissima gioia ma anche paura”, ricorda. “Ho pensato subito che le persone avrebbero fatto fatica a capirlo, lo avrebbero criticato. Perché per capire Bergoglio bisogna avere degli occhi buoni”. Anche quando era vescovo, padre Haider andava a cercare che cosa dicevano di lui sui giornali. “Bergoglio non è mai stato un politico. Però vuole cambiare la società. Lo fa in modo diverso, in modo evangelico, come Gesù.

    Ma per capirlo, bisogna avere occhi buoni”. Quella di padre Haidar è quasi una premonizione. Papa Francesco in questi 6 anni di pontificato è stato spesso oggetto di critiche, talvolta di veri e propri attacchi. “Quando l’ho visto affacciarsi per la prima volta in piazza San Pietro, sembrava emozionato”, confida il gesuita. “Con il tempo è diventato se stesso, completamente libero, con una grande forza. Sono convinto di due cose. La prima è che i cardinali che oggi lo criticano, lo hanno scelto. L’altra è che anche Gesù è stato criticato. Per questo il Papa dice che le critiche non lo colpiscono. A noi ha insegnato a non avere mai paura di parlare con tutti, anche e soprattutto con chi ti critica. Ciò non vuol dire non avere un pensiero forte. Significa essere aperti a tutti”.

     Padre Haidar è costantemente in contatto con Papa Francesco. Gli basta scrivere una mail che lui gli risponde subito. Spesso il Papa gli chiede come stanno le persone di comune conoscenza. Non perde mai il ricordo di nessuno. Lo è andato a trovare a Roma, nella casa di Santa Marta. Hanno celebrato insieme la messa e dopo la colazione, il Papa gli ha chiesto: “hai tempo per parlare un po’?”. “Gli ho risposto che sì, certo che avevo tempo. Così siamo andati nella sua stanza e abbiamo parlato tantissimo. Ricordo che era un mercoledì, c’era udienza ed ero preoccupato che il Papa facesse tardi”. Quello che oggi a padre Haidar manca di più di Bergoglio è proprio quella libertà di parlargli sempre. In Argentina, stavano spesso insieme. Facevano lunghe passeggiate.

    “Non so com’è oggi la sua vita. So che il Papa ha bisogno di stare con le persone, di parlare con loro, di interessarsi dei loro problemi, anche delle storie più semplici”. Ora riceverlo a Sophia è “una grande emozione”. “Ci ha chiesto di non fare nulla, nessun discorso, nessuna canzone. Solo stare insieme e celebrare la messa. Anche per l’incontro con i giovani, ci ha detto che viene soprattutto per ascoltare gli studenti”. Alla fine dell’intervista, padre Haidar registra un video messaggio che tramite il Sir invia a Papa Francesco: “Caro Jorge, ti stiamo aspettando qui in Giappone con tanta gioia. Stiamo lavorando molto per preparare questa visita, ma siamo tutti molto contenti. Preparati bene, perché molte persone ti sta aspettando, soprattutto i giovani, tanto che non sappiamo dove metterli. Mi chiedono perché c’è soprattutto da parte dei giovani così tanta attesa. Io credo perché vedono in te un segno di speranza, un leader apprezzato nel mondo, una persona che predica il Vangelo ed è un discepolo di Gesù. Ti aspettiamo!”.

M. Chiara Biagioni    agenzia SIR      20 novembre 2019

agensir.it/mondo/2019/11/20/papa-in-giappone-padre-haidar-gesuita-di-sophia-bisogna-avere-occhi-buoni-per-capire-francesco

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GENETICA

La complessità genetica degli antichi Romani

     Il 7 novembre 2019 è stato pubblicato sulla rivista Science uno studio che ha analizzato il DNA di 127 individui rinvenuti in 29 siti archeologici di Roma e dintorni che coprono un arco cronologico di circa 12.000 anni. Dai dati raccolti emerge che Roma ha rappresentato per millenni un punto di incontro di popolazioni diversissime tra loro. Tracce di DNA riconducibili a comunità degli attuali Ucraina e Iran, o ancora della penisola anatolica raccontano di migrazioni, spostamenti e passaggi antichissimi, di cui si era (quasi persa la memoria). Gli autori dello studio si sono detti molto stupiti dei risultati ottenuti, non ci si aspettava una diversità genetica così ampia già in periodi precedenti alla fondazione di Roma. Questo stupore è stato naturalmente amplificato dai media, che nella narrazione della notizia (come spesso accade in campo storico-archeologico) hanno puntato sull’elemento emotivo, sulla meraviglia e sul mistero. La genetica dei Romani rivela multietnicità! L’antica Roma era una città di immigrati, sono solo alcuni esempi dei titoli che sono comparsi su alcune testate di stampa italiana. Eppure, per chi lavora nel settore queste sono tutt’altro che novità.

     È impensabile, ad oggi, pensare alla storia di Roma senza parlare di multietnicità, di immigrazione, di integrazione. Gli schemi interpretativi adottati attualmente dalla ricerca storica e da quella archeologica fanno in particolar modo riferimento a modelli culturali o materiali nel senso archeologico del termine. Possiamo indagare gli spostamenti di persone e idee attraverso lo studio di ciò che di queste persone rimane, ovvero oggetti, costruzioni, iscrizioni. Queste attestazioni vengono lette in funzione del fatto che rappresentano le manifestazioni fisiche di ciò che producevano (quindi pensavano) popolazioni del passato. In questo modo nella distribuzione degli oggetti si può leggere un riflesso degli spostamenti ma anche dei rapporti che intercorrevano tra le diverse genti: conflitti, commerci, scambi, influenze, tutto è raccontato dagli oggetti (e dalle iscrizioni in età storica).

     Per quanto riguarda Roma, da tempo la storia e l’archeologia hanno messo in evidenza come l’Impero non solo fosse multietnico, ma che da questa complessa composizione di popolazioni traesse la sua forza. In piena età imperiale tutti coloro che nascevano in condizione libera entro i confini dello Stato avevano cittadinanza romana, e Romani si consideravano. Attualizzando, è come se oggi chiunque nasca in un paese dell’Unione Europea si considerasse prima Europeo che italiano o francese. Non che la componente territoriale venisse meno, ovviamente: ancora possiamo riconoscerla in particolari produzioni o nell’onomastica, ma la concessione di diritti agli abitanti dell’Impero era generalizzata.

     Quindi, dal punto di vista storico-archeologico era già noto che i Romani non fossero, di fatto, romani. Lo studio della genetica ci consente di risalire indietro nel tempo, oltre alla grande complessità culturale dell’Impero. Questo studio sul DNA ci racconta di un’Italia al centro di spostamenti più antichi, precedenti alla strutturazione di un polo accentratore. Tornano in mente le vicende di Enea, che da Troia sullo Stretto dei Dardanelli giunse nell’antico Lazio e i cui discendenti fondarono l’Urbe. Lontani dal dire che questa leggenda abbia un fondo di verità, forse nel mito fondativo troviamo un ricordo: resta la memoria di spostamenti così antichi da rendere impossibile (e forse inutile) cercare di ricostruire i nomi delle popolazioni e delle persone che si mossero verso l’Italia centrale. E allora il mito ricama, costruisce una memoria che poi sarà condivisa da tutti coloro che si pensano Romani.

     Una memoria immateriale e una memoria materiale registrata nei geni, strettamente mescolate. Un’ulteriore conferma del fatto che ogni popolo non è un monolite: le persone si adattano alle contingenze, si spostano e si integrano. Solo grazie ai movimenti, sia culturali che spaziali, le comunità umane sono quelle che noi oggi conosciamo, sempre in movimento, sempre pronte a cambiare.

Giacomo Rosso      Riforma.it                    18 novembre 2019

https://riforma.it/it/articolo/2019/11/18/la-complessita-genetica-degli-antichi-romani?utm_source=newsletter&utm_medium=email

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GRAVIDANZA

Licenziamento gravidanza: ultime sentenze

  1. Diritto alla conservazione del posto. Il licenziamento intimato alla lavoratrice nel periodo ricompreso tra l’inizio della gravidanza ed il compimento di un anno di età del bambino, in violazione del divieto di cui all’art. 54 del D.lgs. n. 151 del 2001, è nullo ed improduttivo di effetti, sicché il rapporto di lavoro va considerato come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto alle retribuzioni dal giorno del licenziamento sino alla effettiva riammissione in servizio.

www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/01151dl.htm

Cassazione civile sez. lav., 11/01/2017, n.475

  1. Licenziamento della lavoratrice incinta. Il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza, anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro – non avendo questi ricevuto un certificato medico attestante la situazione personale della dipendente – costituisce un recesso “contra legem”, quindi nullo con conseguente reintegra della lavoratrice.

Tribunale Roma sez. lav., 05/02/2019, n.1035

  1. c.       Divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza. La deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 2, comma 2, lett. b) della L. n. 1204 del 1971 per la lavoratrice in gravidanza in ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda, cui essa è addetta, opera per pacifico indirizzo quando cessi in toto l’attività d’impresa o anche solo del reparto di adibizione della prestatrice, pur dotato di autonomia funzionale.          www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1971-12-30;1204

Tribunale Tivoli sez. lav., 19/03/2018, n.152

  1. Lavoratrice in stato di gravidanza: nullità del licenziamento. Il licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza, giustificato sulla base della chiusura di un punto vendita nell’ambito di una attività aziendale, deve ritenersi nullo in quanto la cessazione di un ramo di azienda non integra il presupposto della “cessazione dell’attività aziendale” richiesto dall’art. 54, comma 1, del D.Lgs. n. 151 del 2001 ai fini della validità del provvedimento interruttivo del rapporto di lavoro.

Tribunale Pescara sez. lav., 19/01/2016, n.39

  1. e.       Illegittimità del licenziamento. È illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente la quale – al termine del periodo di assenza obbligatoria per gravidanza previsto dall’art. 56, commi 1 e 3, D.lgs. 26 marzo 2001 n. 151 – si rifiuti di prendere servizio presso una sede di lavoro diversa da quella occupata al momento dell’inizio della gravidanza in quanto, stante la normativa sulla tutela della maternità e della paternità, la lavoratrice ha diritto a conservare il posto di lavoro e la medesima sede (salvo rinuncia scritta) così che non possa configurarsi assenza ingiustificata – quindi giusta causa di recesso – il rifiuto al mutamento di sede.                  Cassazione civile sez. lav., 30/06/2016, n.13455
  2. f.        Ripristino del rapporto e diritto al risarcimento del danno. Ai sensi dell’art. 54 D.lg. n. 151/2001 con riferimento allo stato di gravidanza e di puerperio, il divieto di licenziamento trova applicazione dall’inizio della gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Tale divieto opera, infatti, in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio, pertanto, ancorché il datore di lavoro sia inconsapevole dello stato della lavoratrice, la nullità del licenziamento intimato comporta il ripristino del rapporto e il diritto al risarcimento del danno.                                                          Tribunale Matera, 20/05/2016
  3. g.       Stato di gravidanza sopravvenuto durante il periodo di preavviso. In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, lo stato di gravidanza sopravvenuto durante il periodo di preavviso se non è causa di nullità del recesso – per la quale rileva, ai sensi dell’art. 54, comma 5, del D.lgs. n. 151 del 2001, il momento in cui il licenziamento è intimato e non quando diviene efficace – costituisce evento idoneo a determinare la sospensione del periodo di preavviso ex art. 2110 c.c., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.                          Cassazione civile sez. lav., 03/04/2019, n.9268
  4. Maternità: l’acclarata cessazione dell’azienda. Il licenziamento della lavoratrice deve presumersi – senza che sia stata raggiunta prova contraria – intervenuto durante lo stato di gravidanza in coincidenza con l’avvenuto concepimento e, come tale affetto da nullità. Il secondo licenziamento ricondotto questa volta alla dichiarata cessazione dell’attività dell’azienda, condizione che consente il licenziamento anche della lavoratrice in maternità, per la richiesta dell’impresa di accedere a concordato preventivo, successivamente omologato, e acclarato che l’attività d’impresa non sia mai proseguita dopo tale richiesta, deve ritenersi essere legittimo.

Corte appello Firenze sez. lav., 05/06/2017, n.673

  1. i.        Lavoro domestico. In tema di lavoro domestico non opera il divieto di licenziamento della lavoratrice in stato di gravidanza atteso che l’art. 62, comma 1, del D.lgs n. 151 del 2001, richiama gli artt. 6, comma 3, 16, 17, 22 commi 3 e 6 (con il relativo trattamento economico e normativo), ma non anche l’art. 54 dello stesso decreto.                                     Cassazione civile sez. lav., 02/09/2015, n.17433
  2. j.        Mancata comunicazione dello stato di gravidanza. Il licenziamento irrogato alla lavoratrice a termine in stato di gravidanza è nullo, anche se la dipendente non abbia informato il datore del proprio stato, e la relativa impugnazione non è assoggettata al termine di sessanta giorni, potendo essere fatta valere in ogni tempo.                                                 Cassazione civile sez. lav., 03/07/2015, n.13692

Redazione La legge per tutti              22 novembre 2019

www.laleggepertutti.it/331752_licenziamento-gravidanza-ultime-sentenze

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MATRIMONIO

Il matrimonio conviene fiscalmente?

    Rispetto alle coppie di fatto, le coppie sposate hanno diritto a minori benefici e pagano più tasse?

     «Sposarsi, oggi, non conviene più, meglio convivere; anzi, ancora meglio non essere sposati e avere due residenze diverse, così l’Isee è più basso e si prende il reddito di cittadinanza». Ultimamente, sentiamo spesso ripeterci questo “consiglio”, da parte di amici, parenti o conoscenti.

     Non mancano i “pentiti” del matrimonio: «Io e mia moglie ci siamo separati, e lei ha trasferito la residenza nella seconda casa, così non paghiamo più l’Imu, e anche la Tari è più bassa. Inoltre, abbiamo diritto all’assegno sociale e alla pensione di cittadinanza».

      C’è anche, però, chi sostiene che il matrimonio sia più conveniente della convivenza, per via del diritto alla detrazione per coniuge a carico ed alla pensione di reversibilità, in caso di decesso del coniuge lavoratore o pensionato.

     Ma fiscalmente il matrimonio conviene, oppure è la convivenza la scelta più opportuna? In realtà, non esiste una risposta valida per tutti, ma la scelta migliore, tra matrimonio e convivenza, dipende dalla specifica situazione e dal reddito prodotto dalla coppia.

     In ogni caso, alla luce delle più recenti disposizioni, il matrimonio rappresenta un passo “irreversibile”: chi decide di sposarsi, poi si pente e si separa per ragioni di convenienza economica, può essere sottoposto a verifiche ed accertamenti, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore del decreto sul reddito di cittadinanza. In molti, difatti, hanno deciso di separarsi per finta, per ottenere un Isee (l’indicatore della situazione economica della famiglia) più basso e guadagnare, così, il diritto al nuovo sussidio. Proprio per questo, in base alle nuove regole, i coniugi separati o divorziati fanno parte dello stesso nucleo familiare Isee, qualora continuino a risiedere nella stessa abitazione; se la separazione o il divorzio sono avvenuti dopo il 1° settembre 2018, il cambio di residenza deve essere certificato da apposito verbale della polizia locale.

     Ai fini Isee, comunque, la convivenza è “equiparata” al matrimonio, e spesso non serve nemmeno aver due residenze diverse, né essere separati o divorziati, se la coppia ha dei figli.

  • Il matrimonio conviene se uno dei coniugi non ha reddito? Fiscalmente, il matrimonio può essere conveniente se uno dei coniugi ha un reddito pari a zero, o molto basso, al di sotto di 2.840,51 euro. In questi casi, difatti, si ha diritto alla detrazione per coniuge a carico: si tratta di un importo che viene sottratto direttamente dalle imposte, e che può arrivare sino a 800 euro all’anno. La detrazione varia in base al reddito, spetta se il coniuge non è effettivamente o legalmente separato. (…)

     L’importo della detrazione deve essere poi rapportato ai mesi durante i quali il coniuge è stato effettivamente a carico, considerando che è equiparata al mese intero qualsiasi frazione di mese: ad esempio, se il contribuente si è sposato nel mese di settembre, l’importo della detrazione va diviso per 12 (mesi) e moltiplicato per 4 (mesi di spettanza della detrazione, cioè settembre, ottobre, novembre, dicembre). Lo stesso procedimento si deve applicare in caso di separazione, considerando anche il mese durante il quale la separazione avviene.

     Se la coppia si separa nel mese di giugno, il coniuge può essere considerato a caso per 6 mesi, in quanto conta anche il mese in cui è avvenuta la separazione.

     Non è invece possibile rapportare la detrazione in caso di superamento della soglia di reddito di 2.840,51 euro da parte del coniuge a carico: in questo caso, non spetta alcuna detrazione per tutto l’anno.

     Il matrimonio conviene con due case nello stesso comune? Fiscalmente, il matrimonio può essere invece non conveniente se i coniugi possiedono due case nello stesso Comune: in queste ipotesi, è inverosimile che la coppia sposata viva in abitazioni differenti, visto che la convivenza è una delle finalità del matrimonio. I coniugi con due case nello stesso Comune, quindi, devono pagare l’Imu e la Tasi su una delle due abitazioni.

     Se, però, i due sono separati, ciascuno può fissare la residenza in un’abitazione differente, ottenendo quindi l’esenzione Imu e Tasi. Tuttavia, la situazione è a rischio, in caso di finta separazione: il Comune, ad esempio, potrebbe avviare delle verifiche sulla base dei consumi. Se in un immobile non si registrano consumi di luce, gas o acqua, è improbabile che sia abitato: dall’indagine potrebbe derivare un accertamento fiscale e l’obbligo di pagare le imposte degli ultimi due anni, con interessi e sanzioni.

     Il matrimonio conviene per Isee e reddito di cittadinanza?   Il matrimonio può risultare non conveniente anche ai fini Isee, nel caso in cui entrambi i coniugi producano reddito o possiedano beni immobili o patrimonio mobiliare (carte, conti, libretti, titoli, partecipazioni…) con valore al di sopra di determinate soglie.        

     L’indicatore Isee, che ha lo scopo, in sostanza, di “misurare” la ricchezza della famiglia, è indispensabile per ottenere la maggior parte delle agevolazioni pubbliche e diversi sussidi, tra i quali il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza. Con la separazione, o col divorzio, il valore dell’Isee può abbassarsi, in quanto non sono più considerati i redditi e il patrimonio del coniuge uscito dal nucleo familiare: la valutazione della convenienza va fatta, però, caso per caso. Se, ad esempio, i coniugi sono entrambi molto poveri o nullatenenti, la separazione non conviene, in quanto è applicata una scala di equivalenza che fa crescere il valore del reddito di cittadinanza e abbassa l’Isee al crescere del numero dei familiari.

     Ad ogni modo, bisogna considerare che, a fini della dichiarazione Isee, non sempre la composizione del nucleo familiare coincide con la famiglia anagrafica (risultante all’anagrafe del Comune): se la coppia ha figli, entrambi i genitori vengono comunque considerati nell’indicatore, anche se non sono mai stati sposati, o risultano separati o divorziati (salvo rare eccezioni).

     Inoltre, i coniugi separati o divorziati fanno parte dello stesso nucleo familiare Isee se continuano a risiedere nella stessa abitazione; se la separazione o il divorzio si sono verificati dopo il 1° settembre 2018, il cambio di residenza deve essere certificato da un apposito verbale della polizia locale, per evitare gli abusi.

     Il matrimonio conviene per l’assegno sociale? L’assegno sociale può essere ottenuto dagli over 67 se il reddito personale non supera 5.954 euro annui ed il reddito della coppia è inferiore a 11.908 euro (valori 2019). Può dunque accadere che l’interessato, con reddito pari a zero, perda il diritto all’assegno sociale in quanto il coniuge ha un reddito superiore a 11.908 euro annui. In questi casi, quindi, il matrimonio non conviene.

     Se, però, l’interessato supera la soglia di reddito di 5.954 euro, senza superare gli 11.908 euro annui, ed il coniuge non ha reddito, o ha un reddito che, sommato a quello dell’interessato, non supera 11.908 euro all’anno, il matrimonio fa guadagnare il diritto al sussidio.

     Il matrimonio conviene a chi ha debiti? Se uno dei due coniugi è fortemente indebitato, ed è stato scelto il regime di comunione dei beni, i creditori possono rivalersi sui beni in comunione; in caso di separazione dei beni, i debiti di uno dei due coniugi non si trasferiscono sull’altro e i creditori possono aggredire solo i beni del debitore.

     In caso di pignoramento mobiliare (arredi, elettrodomestici, gioielli…), però, vige la presunzione di comproprietà di beni mobili, se gli sposi risiedono assieme: il coniuge non debitore può dimostrare la proprietà dei beni mobili pignorati nella residenza solo con atto pubblico o scrittura privata di data certa anteriori al momento in cui è sorto il presupposto dell’iscrizione a ruolo.

      Gli immobili in comproprietà possono essere pignorati al 50%.

Noemi Secci   La legge per tutti  21 novembre 2019

www.laleggepertutti.it/339885_il-matrimonio-conviene-fiscalmente

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MEDICINA PREVENTIVA

“Rompiamo il silenzio sull’Hiv” per fermare i nuovi contagi

     I dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità mostrano un calo del 20% dei nuovi casi ma aumentano i contagi tra i più giovani e le diagnosi tardive. Ecco perché bisogna tornare a ‘far rumore’ su questa patologia

I giovani non hanno paura dell’Aids [Acquired Immune Deficiency Syndrome – Sindrome da Immunodeficienza Acquisita] perché non conoscono questa malattia oggi considerata meno pericolosa perché curabile. E così, anche se l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità mostra che le nuove infezioni sono diminuite del 20% nel 2018 rispetto al 2017 e che le morti si sono ridotte di un terzo tra il 2000 e il 2016, l’incidenza più alta delle nuove infezioni da Hiv è quella che si registra nei giovani tra i 25 e i 29 anni. In vista della Giornata Mondiale contro l’Aids, il Ministero della Salute ha organizzato tre diversi appuntamenti con tutti gli attori coinvolti. Oggi a Roma la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali – SIMIT promuove, con il supporto non condizionato di MSD, la tavola rotonda dal titolo “Rompiamo il silenzio sull’Hiv” [Human immunodeficiency virus – virus dell’immunodeficienza umana].

     La malattia in Italia. Secondo gli ultimi dati del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia nel 2018, sono state riportate, entro il 31 maggio 2019, 2.847 nuove diagnosi di infezione da HIV pari a 4,7 nuovi casi per 100.000 residenti. L’incidenza di nuove diagnosi HIV tra i giovani di età inferiore a 25 anni ha mostrato un picco nel 2017. Tra le regioni più popolose, l’incidenza della malattia più alta è stata registrata in Lazio, Toscana e Liguria. Le persone che hanno scoperto di essere HIV positive nel 2018 sono maschi nell’85,6% dei casi. “L’Hiv può restare asintomatico e silente per molti anni prima della comparsa dei primi sintomi – evidenzia Barbara Suligoi del Centro Operativo Aids presso l’Istituto Superiore di Sanità. “L’effettuazione del test HIV, da eseguire ogni qualvolta ci si sia esposti a rapporti sessuali non protetti con persone di cui non si conosce bene lo stato di salute, e l’uso del preservativo, che consente di proteggersi dall’HIV e da numerose altre infezioni sessualmente trasmesse, costituiscono due strumenti cardine per la prevenzione e il controllo di questa infezione tuttora dilagante”.

     Educazione sessuale e preservativi gratis nelle scuole. A preoccupare gli esperti è soprattutto la maggiore incidenza di nuove diagnosi di HIV registrata tra i giovani adulti, di età compresa tra i 25 e i 29 anni. – “Tra le nuove generazioni – dichiara il Viceministro della Salute Pierpaolo Sileri (medico, docente universitario) – c’è una scarsa consapevolezza e conoscenza del virus, di come si trasmetta e di cosa fare per difendersi dal rischio di infezione. Molti confondono la prevenzione delle gravidanze indesiderate, mediante l’uso della pillola contraccettiva, con la prevenzione Hiv. Molti altri invece si vergognano a comprare i profilattici. Sarebbe importante introdurre l’educazione sessuale nelle scuole e iniziative per la distribuzione gratuita di preservativi agli studenti delle università e delle scuole secondarie di secondo grado”.

     Migliore accesso alle terapie come forma di prevenzione. La tendenza alla riduzione delle nuove diagnosi che si osserva per la prima volta da alcuni anni nei dati di sorveglianza 2018, ha verosimilmente a che fare con l’accesso universale alla terapia promosso dalle Linee-Guida Italiane. “La persona Hiv-positiva in terapia antiretrovirale con viremia soppressa – dichiara Andrea Antinori, direttore UOC Immunodeficienze Virali dell’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma – non trasmette l’infezione. Inoltre, esistono sul territorio nazionale diverse iniziative di accesso al test Hiv, sia nei centri clinici che al di fuori dell’ambiente ospedaliero, in programmi di collaborazione tra centri di Malattie Infettive e Associazioni per la lotta contro l’Aids, e i risultati iniziano a vedersi. C’è bisogno di potenziare queste iniziative di accesso al test e di inizio precoce della terapia antiretrovirale, come pure di ampliare e promuovere l’uso della profilassi pre-esposizione (PrEP), strumento indispensabile per arrivare a progressiva riduzione di incidenza delle nuove diagnosi”.

     La spesa per i farmaci antiretrovirali e il sommerso. Si stima che in Italia vivano circa 130mila persone con Hiv, di cui 110mila diagnosticate, 94mila seguite, 82mila in terapia antiretrovirale e 73mila virologicamente soppresse: questo significa una differenza di quasi 60mila persone (il 44%) fra chi ha l’infezione e chi ha l’infezione sotto controllo. Il Rapporto OSMED-AIFA 2018, con riferimento ai farmaci antiretrovirali, mostra come la spesa per questa tipologia di farmaci sia in diminuzione (nonostante l’aumento dei pazienti trattati), assestandosi intorno ai 700 milioni di Euro/anno. “Bisogna garantire l’accesso universale alle cure, facendo ricorso ad un nuovo modello complessivo di gestione dell’Hiv – sottolinea Francesco Saverio Mennini, direttore del Centro Economic Evaluation and HTA-Ceis, Università di Roma Tor Vergata. È necessario anche attivarsi maggiormente verso l’emersione del sommerso: il Ministero della Salute ha stimato che in Italia la carica virale sia soppressa nel 52% dei pazienti Hiv, per cui è necessario implementare un sistema che favorisca maggiormente la diagnosi dell’infezione”.

     Tra le varie iniziative per alzare l’attenzione sull’Aids c’è anche un video realizzato da Friends of the Global Fund Europe, in collaborazione con la compagnia teatrale Bluestocking, Aidos (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) e Network italiano salute globale – e che fa parte di una campagna lanciata lo scorso anno dal titolo “Aids, Tubercolosi e Malaria: fatti e stereotipi”. Il breve video è stato costruito attorno agli stereotipi più comuni diffusi sull’Aids e sul ruolo del Fondo Globale per sconfiggerle. Il Fondo Globale è la più grande organizzazione impegnata per la lotta a queste malattie a livello mondiale di cui l’Italia è tra i maggiori donatori al mondo, e per la quale ha appena contribuito con un finanziamento di 161 milioni di euro per il trienni 2020-2022. 

      Irma D’Aria     La repubblica     20 novembre 2019

        Video             www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2019/11/20/news/_rompiamo_il_silenzio_sull_hiv_per_fermare_i_nuovi_contagi-241486705

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MIGRANTI

Dossier statistico immigrazione 2019. Migranti e salute

     Il Dossier statistico immigrazione si pone come obiettivo di contribuire a una corretta consapevolezza del panorama migratorio italiano, attraverso una lettura ragionata dei dati e delle dinamiche strutturali del fenomeno; uno strumento conoscitivo che intende porsi al servizio della società. Giunto alla 29ma edizione, viene realizzato dal Centro studi e ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti e il contributo di decine di studiosi ed esperti in materia.

     Popolazione residente. Non si sono verificate significative espansioni della popolazione straniera residente in Italia, che al 31 dicembre 2018 ha visto un aumento del 2,2% rispetto al 2017, arrivando così a 5,26 milioni di residenti, pari all’8,7% degli abitanti. Una tendenza alla stabilità che non è in linea con l’incremento a livello mondiale delle migrazioni, dovute alle disuguaglianze economiche, alle guerre e conflitti in atto e ai disastri ambientali provocati dai cambiamenti climatici globali. Inoltre, all’aumento di 111.000 presenze rispetto all’anno precedente hanno contribuito anche i 65.400 bambini nati nel corso del 2018 da coppie straniere già presenti in Italia.

     In aggiunta, il numero complessivo dei nuovi nati in Italia continua a calare raggiungendo, nel 2018, il livello più basso registrato da decenni (439.700 dei quali poco più di un settimo riferite a genitori stranieri 14,9%). Un dato preoccupante che conferma l’inesorabile declino demografico dell’Italia, prossima ad avere oltre un terzo della popolazione complessiva con più di 65 anni e solo 1 under18 ogni 8 abitanti.

     Provenienza e religione. Dei 5,3 milioni di cittadini stranieri residenti in Italia, oltre 2,6 milioni (il 50,2%) sono europei (di cui 1,6 milioni proviene da Paesi appartenenti all’UE), 1,1 milioni provengono dagli Stati africani (21,7%, soprattutto dai Paesi dell’Africa settentrionale e occidentale) e 1,1 milioni (20,8%) dall’Asia. Il continente americano conta circa 380mila residenti in Italia (7,2%), provenienti in prevalenza dal Centro-Sud America (6,9%). I più numerosi (più dell’intera provenienza dall’Africa) sono i romeni, che con 1.207.000 residenti continuano a rappresentare la prima collettività estera in Italia, precedendo di gran lunga i 441.000 albanesi, i 423.000 marocchini e, a maggiore distanza, i 300.000 cinesi e i 239.000 ucraini.

     Dai dati presentati nel dossier emerge inoltre che, a differenza di quanto la popolazione italiana crede, la religione musulmana è praticata solo da un terzo degli stranieri residenti in Italia (33%), mentre la maggioranza è costituita da cristiani (il 52,2% del totale).

     Dati anagrafici. Il rapporto tra i generi è sostanzialmente equilibrato, con un leggero sbilanciamento a favore delle donne (51,7%), anche se la percentuale varia molto in funzione della cittadinanza di origine: ad esempio le donne rappresentano il 77,6% della popolazione ucraina in Italia, mentre costituiscono il 26,5% dei residenti senegalesi.

     Riguardo all’età, i dati indicano che la popolazione straniera residente in Italia è giovane: l’età media è di 35 anni (contro i 46 anni della popolazione italiana) e anche in questo caso le medie variano in funzione della cittadinanza. Ad esempio, l’età è inferiore alla media per i cittadini dell’Africa centrosettentrionale e dell’Asia centro-meridionale, mentre per i cittadini ucraini l’età è più elevata.

     Sbarchi. Secondo i dati raccolti dall’agenzia europea Frontex il numero degli attraversamenti irregolari delle frontiere nel 2018 ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 5 anni, anche in seguito agli accordi tra il nostro Paese e la Libia. I migranti della rotta del Mediterraneo centrale sbarcati in Italia sono scesi a 23.370 in tutto il 2018 (l’80,4% in meno rispetto al 2017, in cui erano 119.310). Non diminuisce invece il numero di decessi in mare. Infatti, malgrado siano diminuiti i morti in mare, nel 2018 è aumentata la pericolosità della traversata: ogni 35 arrivi si registra un decesso, mentre nel 2017 il rapporto era 1 decesso ogni 50 arrivi riusciti.

     Lavoro. Per i lavoratori stranieri nel nostro Paese si verificano problemi in termini di condizioni di lavoro, opportunità di carriera, livelli retributivi e mobilità sociale. L’Istat ha calcolato che a fine 2018 i lavoratori stranieri rappresentavano circa il 10,6% di tutti i lavoratori nel Paese. Due lavoratori stranieri su 3 lavorano nel settore dei servizi, quali assistenza domestica e familiare (soprattutto le donne straniere), alberghiero-ristorativo, servizi di pulizie, dei trasporti, di facchinaggio ecc; oltre un quarto, soprattutto uomini, lavorano nell’industria e il 6,4% del totale in agricoltura.

     La tipologia di occupazione che vede coinvolti i lavoratori stranieri dimostra che c’è una tendenza, a fare lavori poco qualificati, mentre solo 7 ogni 100 svolgono professioni qualificate. I dati dimostrano infatti che i lavoratori stranieri percepiscono una retribuzione media mensile (poco più di 1000 euro) più bassa del 24% rispetto a quella degli italiani (quasi 1400 euro). Retribuzione che si abbassa ancora di più per le sole donne straniere (-25% rispetto alla media dei lavoratori stranieri nel loro complesso), che dunque sono doppiamente stigmatizzate.

     Incidenti sul lavoro e malattie professionali. Dei 645.049 infortuni sul lavoro denunciati all’INAIL nel corso del 2018, il 16,3% (105.344) hanno interessato lavoratori stranieri, con un aumento del 5,7% rispetto al 2017 (se si considerano i soli lavoratori non comunitari l’aumento è del 7,8%). I primi tre comparti di lavoro con maggiore incidenza infortunistica risultano il manifatturiero (31,2%), i trasporti (13,2%) e le costruzioni (11,7%), a dimostrazione di come il lavoratore straniero venga impiegato spesso in settori particolarmente rischiosi e con maggiore attività manuale.

     Il numero complessivo di denunce per malattie professionali protocollate dall’INAIL nel corso del 2018 è stato pari a 59.506. Le denunce presentate da lavoratori stranieri hanno registrato un incremento del 4% rispetto al 2017, passando da 3769 a 3919. L’incremento è stato dell’1,9% per i non comunitari, passati dai 2626 casi del 2017 ai 276 del 2018. Le malattie professionali denunciate dagli stranieri riguardano prevalentemente gli uomini (circa il 65%), soprattutto i lavoratori appartenenti alle stesse nazionalità individuate per gli infortuni e che sono addetti ai settori industriali e artigianali di produzione di beni. Le malattie prevalenti tra gli stranieri sono le affezioni osteo-articolari, le malattie del sistema nervoso e quelle dell’orecchio che, da sole, rappresentano circa il 90% del totale.

     Molte donne straniere lavorano nel settore dei servizi domestici e di assistenza presso le famiglie, spesso in nero o con dichiarate solo una parte delle ore effettivamente lavorate. Una situazione che ha come effetto quello di privare le lavoratrici straniere di una serie di tutele (previdenziali, infortunistiche ecc.) e di garanzie (legate alla retribuzione, ai tempi di riposo, alle mansioni ecc.); ma, per le condizioni in cui viene svolto, comporta spesso notevoli sacrifici esistenziali (lontananza da coniugi e figli rimasti all’estero, con conseguenti conflitti e separazioni familiari) e disturbi psicologici (la cosiddetta “sindrome Italia”). Tutta questa situazione influisce negativamente sul loro stato di salute e aumenta l’esclusione e la vulnerabilità.

     Stima dell’impatto economico e fiscale dell’immigrazione. Sebbene inseriti nel mercato occupazionale nelle condizioni di svantaggio descritte, ai lavoratori immigrati è ancora ascrivibile il 9% del PIL nazionale (pari a un valore aggiunto di 139 miliardi di euro annui) e l’entità delle loro rimesse non solo è aumentata sensibilmente, passando dai circa 5 miliardi di euro del 2017 a 6,2 miliardi del 2018, ma ha ancor di più sopravanzato quanto l’Italia destina agli aiuti internazionali allo sviluppo. A ciò si aggiunga che, secondo i calcoli effettuati dalla Fondazione Leone Moressa, anche nel 2018 il saldo nazionale tra entrate e uscite complessive (ossia tra quanto gli immigrati assicurano all’erario in pagamento di tasse, contributi previdenziali, pratiche di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno e di acquisizione della cittadinanza ecc. e quanto lo Stato spende specificatamente per loro in servizi, sussidi e altri costi) è risultato positivo, per lo Stato, di 200.000 euro nell’ipotesi minima e di 3 miliardi di euro nell’ipotesi massima.

  • consulta il sito IDOS, leggi il comunicato stampa sul Rapporto statistico immigrazione 2019 e la scheda di sintesi
  •  scarica l’intervento di Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS la presentazione del dossier statistico immigrazione 2019.

Giulia Marchetti e Silvia Declich – Iss Istituto Superiore di Sanità      21 novembre 2019

www.epicentro.iss.it/migranti/dossier-statistio-immigrazione-2019?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=21novembre2019

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OMOFILIA

L’amore nonostante tutto. Le prospettive pastorali cattoliche per le famiglie irregolari

      La visione tradizionale dell’eterosessualità come “normale” viene smentita dall’esperienza reale, in cui assolutamente normale è, se mai, “il caos dell’amore”. Anche l’omosessualità appartiene a questa molteplicità, che riguarda direttamente il popolo di Dio. “A partire dalle riflessioni sinodali non rimane uno stereotipo della famiglia ideale, bensì un interpellante mosaico formato da tante realtà diverse, piene di gioie, drammi e sogni.” (Amoris Lætitia §57).

.www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

     Riconoscere il valore di queste relazioni, dare una dignità alla cura, alla dedizione, alla comprensione reciproca nelle diverse forme del vivere insieme: questo è adesso il compito della chiesa cattolica. Le famiglie non esistono per soddisfare la Chiesa; è bensì la Chiesa che esiste a favore delle famiglie. Molti temono che questa prospettiva, inaugurata da Amoris Lætitia, sia una “innovazione”, come se il nuovo fosse un nemico in sé, o un nemico di Dio, che invece (come afferma papa Francesco) “è giovane” e capace di fare nuove tutte le cose. La tradizione è una realtà vivente, e solo una visione limitata può immaginarsi il tesoro della fede come immobile: poiché la stessa Parola di Dio è una realtà dinamica ed evolutiva. Non si può, di conseguenza, preservare la dottrina senza ammetterne lo sviluppo. Nelle diocesi, si nota che il tema delle relazioni omosessuali può essere sminuito – come il problema di una minoranza irrilevante – oppure suscitare seria attenzione, poiché appartiene all’esperienza reale, e talvolta dolorosa, di molte famiglie. Molti si aspettano che nella chiesa cattolica l’amore omosessuale non venga più condannato ed emarginato. Per molti questa è la speranza in una liberazione.

    Ma ciò richiede, in una prospettiva più ampia, che la Chiesa Cattolica sia disponibile a rivedere la sua dottrina sulla sessualità e a darne una visione positiva e costruttiva. A tale scopo, un primo passo da fare sarebbe quello di abolire il linguaggio dell’emarginazione e del giudizio: ad esempio, quello che divide le famiglie fra regolari e irregolari, ordinate o disordinate. Il rispetto parte dal linguaggio, si manifesta chiamando le persone come loro vogliono essere chiamate, insegna J. Martin. Bisogna, piuttosto, riconoscere che esistono molte possibili situazioni di famiglia, e che esse sanno mobilitare grandi risorse spirituali, da cui anche la Chiesa Cattolica potrebbe imparare. Ad esempio, le famiglie considerate non tradizionali reggono a volte una notevole pressione che proviene proprio dall’istituzione il cui compito sarebbe quello di proteggere l’amore ed invece lo ostacola; e rispondono a questa pressione resistendo alla avversità e manifestando un amore eroico, poiché amano “nonostante tutto” (AL §118). Come può la Chiesa Cattolica pensare ed agire in senso contrario? Disprezzare l’amore è l’unica vera perversione morale. Un altro valore che spesso si manifesta nelle famiglie così dette “irregolari” è la fedeltà, come la solidarietà dei genitori per i propri figli omosessuali, che è un riflesso della fedeltà di Dio verso noi esseri umani. La chiesa cattolica dovrebbe amare con la fedeltà incondizionata di una madre, chiamata a rendere percepibile la misericordia di Dio (AL §49).

     Oltre all’amore e alla fedeltà, le persone che si amano al di fuori del modello tradizionale di famiglia insegnano anche la pazienza, quella con cui attendono di essere riconosciute ed apprezzate. Questo è anche un segno della loro fede. La svolta inaugurata da Amoris Lætitia comporta anche che molte persone omosessuali ricordino e raccontino la storia delle loro ferite e della loro sofferenza. Questa storia deve essere presa in seria considerazione. Guardare all’amore e alla famiglia in una nuova prospettiva significa anche consolare la memoria delle persone ferite dagli atteggiamenti duri e spietati della chiesa cattolica. Significa che la chiesa cattolica è chiamata a chiedere perdono. Tutte le relazioni vanno costruite con gioia e responsabilità, poiché tutte offrono l’opportunità di scoprire l’azione dello Spirito Santo. Coloro che vogliono vivere in una relazione duratura, esclusiva e responsabile, sperano che il loro amore possa essere accolto e benedetto in modo chiaro. Esiste anche una vocazione all’amore omosessuale: molte coppie omosessuali intendono orientare la loro vita verso la fedeltà, la cura reciproca, la responsabilità e l’impegno per la vita.

     È quindi assurdo che la chiesa cattolica sia capace di benedire oggetti e persone, ma non l’amore, come se questo fosse un delitto. Molti fedeli, anche non omosessuali, soffrono per questa negazione e questa contraddizione: “il sentire dei fedeli ha una propria dignità teologica in quanto locus theologicus. Questo sensus fidelium ha ben chiaro che lo scopo della liturgia non è quello di emettere giudizi morali. Benedire è un gesto di consolazione, non una dichiarazione morale. Benedire vuol dire non approvare, ma augurare il bene con fiducia” (p. 40)

Martina Kreidler-Kos, *1967, laureata in teologia cattolica nel 1999 con un lavoro su Chiara d’Assisi, professore incaricato di filosofia e teologia nella scuola superiore di Münster (Germania), sposata, ha quattro figli.

Estratto del testo originale: Liebe trotz allem. Pastorale Pespektiven fur und durch non- konforme Familien

contenuto nel saggio cattolicoMit dem Segen der Kirche? Gleichgeschlechtliche Partnerschaft im Fokus der Pastoral” (Con la benedizione della Chiesa? Le unioni omosessuali nell’ottica della pastorale), a cura di Stephan Loos – Michael Reitemeyer – Georg Trettin, editore Herder (Germania), 2019, pp.29-44

liberamente tradotto da Antonio De Caro       Progetto Gion18 novembre 2019

www.gionata.org/lamore-nonostante-tutto-le-prospettive-pastorali-cattoliche-per-le-famiglie-irregolari

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PERMESSI

Permessi di paternità, quando si possono usare durante la maternità?

          Permessi di paternità, quando si possono usare durante la maternità? Permessi di paternità, quali sono le condizioni in cui un papà lavoratore dipendente può richiedere i riposi relativi alla paternità nel periodo della maternità? La circolare INPS n. 140 del 18 novembre 2019 risponde: se la madre è una lavoratrice autonoma, la fruizione non è alternativa.

www.inps.it/bussola/VisualizzaDoc.aspx?sVirtualURL=%2FCircolari%2FCircolare%20numero%20140%20del%2018-11-2019.htm

    Il documento di prassi ha fatto riferimento al Testo Unico sulla maternità e paternità, Decreto legislativo numero 151 del 26 marzo 2001,                                      www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/01151dl.htm

ed alla sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro numero 22177 del 12 settembre 2018.

www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=16037#.XfK53vx7nJU

     I dettagli della risposta dell’INPS. Permessi di paternità, quando si possono usare durante la maternità? La risposta della circolare INPS. L’ente risponde alla possibilità di uso non alternativo dei permessi legati alla paternità di un genitore lavoratore dipendente nel periodo di maternità della madre, lavoratrice autonoma.

     Come riportato dal documento la Cassazione aveva sottolineato che: “risulta maggiormente funzionale affidare agli stessi genitori la facoltà di organizzarsi nel godimento dei medesimi benefici previsti dalla legge per una gestione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela del complessivo assetto di interessi perseguito dalla normativa; consentendo perciò ad essi di decidere le modalità di fruizione dei permessi giornalieri di cui si tratta, salvo i soli limiti temporali previsti dalla normativa”.

     Con il nuovo documento di prassi vengono superate le indicazioni fornite al punto 2), quarto capoverso, della circolare INPS numero 8 del 17 gennaio 2003.

www.inps.it/circolari/Circolare%20numero%208%20del%2017-1-2003.htm

     Restano invece valide le altre istruzioni della circolare precedente che prevedono quanto segue:

  • Il padre lavoratore dipendente non può fruire dei riposi giornalieri nel periodo in cui la madre lavoratrice autonoma si trovi in congedo parentale;
  • Il padre lavoratore dipendente non ha diritto alle ore che l’articolo 41 del Decreto legislativo numero 151 del 2001 riconosce al padre, in caso di parto plurimo, come “aggiuntive” rispetto alle ore previste dall’articolo 39 del medesimo decreto legislativo (vale a dire quelle fruibili dalla madre), per l’evidente impossibilità di “aggiungere” ore quando la madre non ha diritto ai riposi giornalieri.

     Permessi di paternità, le istruzioni sull’applicazione della circolare INPS.I permessi relativi alla paternità di un genitore lavoratore dipendente possono essere utilizzati in modo non alternativo durante il periodo della maternità quando la mamma è una lavoratrice autonoma. Il documento di prassi fornisce alcune precisazioni:

  • Le indicazioni si applicano alle domande pervenute e non ancora definite;
  • Possono riguardare anche eventi pregressi quando l’interessato lo richieda, quando non siano trascorsi i termini di prescrizione ovvero per i quali non sia intervenuta sentenza passata in giudicato;
  • I dettagli relativi alla gestione informatica dei permessi saranno forniti con messaggio successivo.

    Nel quadro più generale delle misure di supporto alla genitorialità, da non tralasciare la novità che riguarda l’estensione del congedo di paternità per il 2020 a 7 giorni.

Tommaso Gavi – Leggi e prassi     19 novembre 2019

www.informazionefiscale.it/permessi-paternita-alternativi-maternita-lavoratrice-autonoma

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PROCREAZIONE ARTIFICIALE

Eterologa: ok al regolamento su trapianti e donatori

    Pubblicato il 13 novembre 2019 in Gazzetta Ufficiale il Decreto ministeriale n. 130 del 20 agosto 2019   che reca il regolamento che disciplina obiettivi, funzioni e struttura del Sistema Informativo Trapianti e del Registro nazionale dei donatori di cellule riproduttive a scopi di Procreazione Medicalmente Assistita eterologa                                                                www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/11/13/19G00138/sg

     Regolamento Sit e donatori Procreazione medicalmente assistita. Nello specifico, si tratta del regolamento sul Sistema Informativo Trapianti (Sit), previsto dalla legge 91 del 1 aprile 1999 relativo al silenzio-assenso sulla donazione di organi. Il provvedimento contiene inoltre le disposizioni relative al Registro nazionale dei donatori di cellule per procreazione medicalmente assistita eterologa, come previsto dalla legge 190 del 23 dicembre 2014 (Legge di stabilità 2015 art. 1, comma 298).

     Il provvedimento era stato firmato ad agosto 2019 da Giulia Grillo, allora ministro della Salute.

     Procreazione Medicalmente Assistita: obiettivi del decreto. In relazione alla donazione di organi, il decreto, si legge, punta a «garantire la piena trasparenza e tracciabilità delle fasi di donazione, prelievo, trapianto, post trapianto e segnalazione di eventi e reazioni avversi gravi e prestazioni sanitarie rispondenti a elevati standard di qualità e sicurezza» e, nello specifico: governo, tracciabilità e trasparenza dell’intero processo di “donazione-prelievo-trapianto” di organi; svolgimento delle attività che governano la domanda e l’offerta di organi, a scopo di trapianto, tra gli organismi e le istituzioni competenti sul territorio nazionale. Tra gli obiettivi ulteriori il controllo del rispetto delle linee guida definite e condivise tra gli organismi di coordinamento e dell’applicazione dei protocolli operativi da parte di tutti gli attori della rete trapianti, attraverso opportuni strumenti di monitoraggio; l’innalzamento del livello di qualità globale del sistema trapianti in Italia; la tracciabilità delle cellule dal donatore al nato e viceversa e il conteggio dei nati da un medesimo donatore, in relazione alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

     Gli altri scopi del decreto ministeriale. Il decreto ministeriale si prefigge inoltre di ottimizzare, nel caso del sistema informativo di trapianti, e di definire, nel caso del Registro, un sistema che consenta alle strutture sanitarie di comunicare i dati richiesti con modalità informatiche. Il tutto perfettamente in linea con le novità relative al trattamento di protezione dei dati personali.

Gabriella Lax    Newsletter giuridica Studiocataldi.it -18 novembre 2019

www.studiocataldi.it/articoli/36448-eterologa-ok-al-regolamento-su-trapianti-e-donatori.asp-

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PSICOLOGIA

Le due anime della madre. Il paradosso materno

     In una scena biblica assai nota due madri si rivolgono al giudizio del saggio re Salomone per accertare a chi appartiene il figlio appena nato che entrambe dichiarano essere “proprio”. Non può sfuggire il carattere speculare di queste due figure: due prostitute, due conoscenti che vivono nella stessa casa e che hanno generato un figlio negli stessi giorni; due donne senza un uomo. Entrambe rivendicano il diritto di essere la madre del bambino che ancora è in vita accusandosi reciprocamente di averlo soffocato durante la notte, di non aver avuto sufficiente cura e di aver, in seguito, sostituito il bambino morto con il bambino ancora in vita.

      Le due donne appaiono due protagonisti indistinte, una sorta di corpo unico a due teste. È evidente: queste due madri sono una sola madre, o meglio, indicano la dimensione contraddittoria della maternità in quanto tale, la sua doppia anima. Non a caso nell’accusa che si rivolgono in primo piano è un eccesso di presenza materna: una delle due madri si sarebbe “coricata” sul proprio figliolo soffocandolo. Questo indica il paradosso di come la madre che resta eccessivamente attaccata al frutto che ha generato può divenire causa della sua morte.

    È un insegnamento martellante che ritroviamo in tutti i vangeli soprattutto quando, nei suoi diversi “miracoli” di risurrezione, Gesù riporta alla vita figlie e figli ingabbiati da legami familiari troppo stretti e soffocanti agendo — come egli stesso afferma — come una “spada” che separa il figlio dalla madre e che, emancipando il processo di filiazione da qualunque base biologico-naturale evidente (“chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?), libera finalmente il desiderio del soggetto dalle attese degli altri, sottrae la vita dal recinto chiuso del familiare per renderla davvero vivente e generativa.

     Le due donne del celebre brano biblico rivendicano entrambe il possesso del bambino ancora in vita rigettando sull’altra la responsabilità della morte dell’altro bambino. Ma chi è la vera madre? Da una parte la madre che usa il proprio figlio come se fosse un oggetto, la madre come pulsione avida che non è disposta a cedere nulla e che vive la maternità come un esercizio di pura proprietà; dall’altra parte, invece, la madre del dono, quella che sa donare la propria assenza e la propria mancanza, quella che per assicurare la vita del figlio lo sa anche perdere. Queste due madri non sono tanto due madri distinte ma indicano lo sdoppiamento interno all’esperienza della maternità o, se si preferisce, le due anime della maternità. Essere madri implica sempre l’oscillazione tra l’esperienza dell’appropriazione del figlio e l’esperienza della separazione, del dono della perdita, del riconoscimento del figlio come vita altra, come alterità irriducibile; tra la spinta a possedere la vita mortificandola e quella di lasciare andare la vita che si è generata, di perderla per consentire ad essa di essere pienamente viva.

     Solo di fronte alla possibilità della morte reale del figlio, minacciata dallo stratagemma della spada da parte di re Salomone, una delle due madri cede, dichiarandosi disposta a rinunciare al riconoscimento della proprietà del figlio per salvaguardarne la vita. È disposta a perdere il proprio figlio purché esso possa vivere la sua vita. Ecco l’anima più grande. Non è forse questo l’atto che decide senza più dubbio alcuno l’identità della vera madre? Solo chi sa perdere chi ha generato può essere una madre autentica. È questa infatti la prova radicale che attende ogni madre: lasciare andare il proprio figlio dopo averlo generato e accudito, donare la libertà come segno dell’amore.

    Ogni madre porta con sé l’anima della madre disposta per amore a separarsi dal proprio frutto e l’anima della madre che invece rivendica un diritto di possesso esclusivo su chi ha generato. Le due donne del racconto biblico sono dunque due volti della stessa madre. Invocando una spada per dividere il bambino in due, salomone svela il fantasma perverso che presiede la maternità patologica: possedere, divorare, soffocare il proprio figlio, ridurlo ad oggetto del proprio godimento.

Massimo Recalcati (*1959) psicoanalista

«Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno» (Feltrinelli 2015)

    Donne Chiesa Mondo L’Osservatore romano    23 novembre 2019

www.osservatoreromano.va/it/news/le-due-anime-della-madre

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SINODO PANAMAZZONICO

Schönborn: un’ampia rilettura del sinodo

    Il card. Christof Schönborn, [*1945- OP] arcivescovo di Vienna, in un’intervista rilasciata alla rivista Communio di cui è coeditore, rilegge e approfondisce lo svolgimento del sinodo per l’Amazzonia sottolineando i punti chiave che l’hanno caratterizzato. Il cardinale ha partecipato al sinodo per incarico di papa Francesco. Rispondendo alle domande che gli ha posto il teologo dogmatico viennese, Jan-Heiner Tück, si è detto tra l’altro indignato per il modo con cui i media hanno dato le informazioni, fermandosi principalmente sui temi marginali e interni alla Chiesa, come i “viri probati” e il diaconato alle donne, quando invece tutta l’attenzione dei sinodali era rivolta a problemi che riguardano non solo l’Amazzonia, ma il mondo intero e che richiedono una conversione globale. Riportiamo il testo completo dell’intervista in una nostra traduzione.

 

      Card. Schönborn, il sinodo è una viva espressione della collegialità dei vescovi. Lei dal 1995 è arcivescovo di Vienna e ha già vissuto diverse esperienze di sinodi con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Quali cambiamenti sono avvenuti con papa Francesco?

     I sinodi si sono evoluti nel corso dei decenni e ne ho vissuti effettivamente parecchi. Anzitutto direi che il metodo è migliorato. Già con papa Benedetto ci furono dei cambiamenti nel metodo. Papa Francesco ha proseguito su questa linea. Per esempio, con l’Instrumentum laboris, il lavoro sinodale è stato elaborato in maniera più significativa, vale a dire programmato secondo i capitoli contenuti nel testo: nella prima settimana viene trattato il primo capitolo, nella seconda il secondo e nella terza il terzo, in modo che i contributi risultino tematicamente più focalizzati.

     Papa Benedetto si era già premurato che ogni giornata sinodale riservasse l’ultima ora agli interventi liberi, cosa che ha accresciuto la vivacità delle discussioni.

     Papa Francesco ha inoltre chiesto che i sinodali, dopo tre giorni di assemblea plenaria, si riunissero in gruppi linguistici. In questo modo viene intensificato lo scambio e messo meglio a fuoco il lavoro. Francesco ha anche introdotto la meravigliosa novità che, dopo ogni quattro interventi, ciascuno della durata di quattro minuti, si osservassero quattro minuti di silenzio per dare la possibilità di pregare.

     Un altro elemento di sviluppo del lavoro con Francesco sta nel fatto che i sinodi sono intesi maggiormente come un percorso, un processo che inizia con la fase pre-sinodale, continua con la celebrazione del sinodo e termina, infine, con la lettera post-sinodale del papa. In questo modo, il sinodo diventa realmente ciò che deve essere: un syn-odos, un cammino fatto insieme.

      Il sinodo per l’Amazzonia, svoltosi dal 6 al 27 ottobre a Roma, ha portato al centro dell’attenzione universale una Chiesa regionale della periferia. Ma il timore che i dibattiti potessero essere dominati dalle proposte di riforma dell’Europa occidentale era già stato dissipato dalla composizione dei sinodali. Cosa può dire al riguardo?

     Già con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano stati celebrati sinodi continentali e regionali. Ricordo, ad esempio, il sinodo per il Libano del 1995. Era un sinodo chiaramente regionale, ma aveva un significato ecclesiale universale; così è stato anche questa volta per il sinodo sull’Amazzonia. Era chiaramente un sinodo regionale perché tutti i vescovi della regione dell’Amazzonia erano ex ufficio membri del sinodo. Si è trattato realmente di un’assemblea plenaria dei vescovi dell’intera regione amazzonica.

     I rappresentanti della Chiesa universale erano relativamente pochi. Se ho contato bene, c’erano cinque partecipanti dall’Europa, due dall’Africa, uno dall’Asia, uno dall’Oceania e uno dal Nord America. Tutti gli altri erano o dell’Amazzonia o delle conferenze episcopali di questi paesi, ovvero presidenti delle Conferenze episcopali dei nove paesi amazzonici. In questo senso si è trattato di un evidente sinodo regionale che ha avuto luogo a Roma, sotto la presidenza di papa Francesco, con la partecipazione della Chiesa universale e della curia. I principali responsabili degli uffici di curia erano anch’essi membri del sinodo.

     Hanno partecipato al sinodo anche alcune suore e alcune esperte. Tuttavia, esse non avevano diritto di voto, cosa che era stata criticata in fase di preparazione del sinodo.

     Si tratta di una riunione episcopale del sinodo, in cui i vescovi hanno diritto di voto. Il papa ha ripetutamente dato il voto anche ai superiori generali degli ordini religiosi maschili. Ciò ha giustamente indotto a chiedere perché le superiore degli istituti religiosi femminili non potessero votare.

      La relazione finale ha chiarito che gli spunti di riflessione nel sinodo erano sotto il segno della “conversione”, un aspetto che non è stato adeguatamente sottolineato nelle informazioni dei media. Cominciamo con la parola chiave dell’ecologia globale, che papa Francesco ha già ampiamente descritto nella sua enciclica Laudato si’ del 2015. Quali impulsi ha dato il sinodo nel campo della conversione ecologica?

     Sono molto grato e contento che lei metta al centro la parola “conversione”. Perché, se guardiamo l’indice del documento finale, in tutti i capitoli il termine “conversione” è una parola chiave. Questo è il filo rosso! Sullo sfondo c’è la preoccupazione che già papa Benedetto aveva chiaramente formulato: se si tratta di una conversione ecologica, allora questa non può essere separata dalla conversione spirituale, pastorale e culturale. È vero che la conversione è stato il tema centrale, ma, se giudico rettamente, esso in realtà, almeno finora, è stato recepito in maniera insufficiente.

    Se lei mi chiede della conversione ecologica, vorrei citare ciò che il noto ricercatore tedesco sul clima, il professor Hans Joachim “John” Schellnhuber [*1950], del Potsdam Institut di Berlino, ha dichiarato: «La distruzione della foresta amazzonica è la distruzione del mondo». Capisco che diversi miei colleghi vescovi abbiano poi detto che ciò era esagerato. Ma io credo che questa affermazione non sia un semplice flatus vocis, ma una cosa molto seria. Ci sono stati altri importanti interventi in questo senso, e tutti hanno convenuto che si tratta effettivamente di un problema decisivo che riguarda il futuro del mondo.

    Un vescovo dell’Amazzonia ha affermato: «Voi vi aspettate da noi che proteggiamo la foresta amazzonica, ma voi non siete disposti a cambiare il vostro stile di vita!». Il dramma dell’Amazzonia è il dramma del nostro stile di vita La coltivazione su larga scala della soia, che provoca il disboscamento di migliaia di chilometri quadrati della foresta pluviale, si traduce nel nostro consumo di carne: questo è il nostro stile di vita europeo o occidentale. Ed è per questo che c’è stata la richiesta di una solidarietà mondiale con la regione, perché si tratta di un problema universale. Non si può lasciare il peso di questa conversione ecologica ai paesi amazzonici e non muovere neanche un dito per venire loro incontro.

     Il prof. Schellnhuber ha anche ricordato che esiste un “Fondo Amazzonia”, finanziato finora solo da due paesi, mentre dovrebbe essere un Fondo mondiale, allo scopo di ammortizzare almeno in parte finanziariamente la sfida ambientale dell’Amazzonia.

      La sconcertante espressione di “grido della terra e dei poveri” esprime la richiesta di una conversione ecologica e sociale. Allo stesso tempo, si chiede di finirla di criminalizzare coloro che difendono i diritti della popolazione indigena e di proteggere i titoli giuridici di proprietà in modo più efficace.

    Una delle grandi domande che sono state sollevate in molti interventi riguarda l’incertezza delle giurisdizioni territoriali. I popoli indigeni vivono in questo luogo da secoli, da millenni e, naturalmente, non hanno un registro catastale definito della terra in cui vivono a cui appellarsi, e la richiesta di molti è che qui occorre una sicurezza territoriale in modo che le persone non possano essere facilmente sfrattate quando qualsiasi grande azienda acquista enormi territori e poi di lì allontana gli abitanti.

     Storicamente, l’evangelizzazione delle popolazioni indigene è sempre stata intrecciata con gli interessi delle potenze coloniali. Per purificare la memoria, papa Francesco nel 2015 ha chiesto per questo perdono. Si può dire che su questo punto la Chiesa cattolica impara la lezione dalla storia e compie una riflessione autocritica, nel senso che ora è fortemente decisa a schierarsi dalla parte della popolazione indigena per difenderla da questi interessi economici neocoloniali?

     Si può senza dubbio affermarlo, e vorrei aggiungere allo stesso tempo: tutto ciò che è stato fatto per le popolazioni indigene è stato compiuto in gran parte o quasi esclusivamente dalla Chiesa. Si inizia con la bolla Sublimis Deus di Paolo III, del 1537, in cui il papa – piuttosto discutibile per quanto riguarda la sua vita – rivendica con estrema chiarezza i diritti dei popoli indigeni e chiede alle potenze coloniali – soprattutto alla Spagna, ma anche al Portogallo – la proibizione della schiavitù delle popolazioni indigene. La Chiesa era l’unico potere reale di difesa anche se era giunta in quei luoghi per evangelizzare insieme ai colonizzatori. Fino ad oggi, la conoscenza delle popolazioni indigene e la conservazione delle loro tradizioni è stata promossa quasi esclusivamente dai missionari cattolici.

     Fino a un passato recente, i missionari erano pronti a imparare le lingue dei popoli indigeni, a metterle per scritto, a raccoglierle in vocabolari, a scrivere le loro tradizioni, come avevano fatto già nel secolo 16° i francescani in Messico. Grazie a questo lavoro disinteressato e affascinante, sono stati conservati molti dei loro tesori culturali e religiosi.

      Siamo così alla parola chiave della “conversione culturale” e al problema dell’inculturazione del Vangelo. Il sinodo ha proposto di elaborare un proprio rito amazzonico. Già nel contesto del sinodo alcuni hanno squalificato la cultura indigena come pagana. Ricordo il gesto con cui alcune statue intagliate che rappresentavano “la vita, la fertilità, la Madre Terra” furono rubate dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina e gettate nel Tevere. Questo atto iconoclasta fu celebrato come un atto simbolico “profetico”. Dall’altra parte, c’era una certa idealizzazione della pietà naturale indigena. Essa ha trovato espressione in una preghiera che diceva: «Pachamama di questi luoghi, bevi e mangia di questo sacrificio a tuo piacimento, in modo che la terra possa essere feconda». Questo pone l’interrogativo se l’inculturazione del Vangelo debba essere sempre anche un’evangelizzazione della cultura. La cultura può avere successo senza giungere a forme di miscuglio sincretistico. Quali criteri applicherebbe lei su questo argomento?

     Credo che l’argomento sia antico quanto il cristianesimo. La Chiesa primitiva se ne è occupata intensamente. In definitiva, è già un tema primordiale della Bibbia. La storia del popolo di Dio è una storia di costante confronto con gli idoli e gli idoli, Dio sa, non sono solo i Pachamama e i riti pagani, ma l’idolatria che ci minaccia oggi nel mondo illuminato e cosiddetto civile almeno quanto essa costituisce una minaccia per le popolazioni indigene.

     L’evangelizzazione ha sempre cercato di accogliere gli elementi positivi delle religioni, come già dice la celebre dottrina dei Padri della Chiesa circa i semina Verbi [Lógos spermatikòs – i semi del Verbo], gli elementi del Logos nelle culture dei popoli. Questo può spingersi fino al punto che san Massimo confessore (*580-†662) nel sacrificio umano dei pagani – con tutte le riserve che si possono fare – può persino vedere una prefigurazione del sacrificio del Figlio di Dio. Ovviamente, questo processo di inculturazione è sempre anche un cammino di purificazione, ma è anche un modo per essere coinvolti con le persone, la loro storia, la loro cultura, le loro vite, e qui ci saranno sempre dei limiti.

     Nella disputa sul rito, il mio ordine domenicano, insieme ai francescani, ha tenuto una posizione piuttosto rigorista rispetto ai gesuiti. In retrospettiva rimane l’interrogativo: i gesuiti, con la loro assimilazione e inculturazione di vasta portata, si movevano su una strada migliore di coloro che fin dall’inizio avevano cercato il martirio?

     Per quanto riguarda il sinodo dell’Amazzonia, la mia impressione è che lo sforzo di vedere l’inculturazione nel suo aspetto positivo sia stata predominante, e lo interpreto un po’ anche in termini di riparazione, perché molti ritengono che l’evangelizzazione sia avvenuta con poca sensibilità e forse anche che si siano distrutti degli elementi che avrebbero potuto fare da punto riferimento. Papa Francesco ha detto, nel suo discorso introduttivo al sinodo, che noi dobbiamo avvicinarci ad una cultura in punta di piedi.

     Questa cautela ha prevalso nel sinodo. Alcuni hanno avuto l’impressione che ciò esprimesse troppo poco la differenza. Poco è stato detto sul modo con cui, tra le popolazioni indigene, le tradizioni e le pratiche disumane avrebbero dovuto essere criticate in base al Vangelo.

     Ciò è anche in linea con la teologia dell’inculturazione del Concilio che cerca di rintracciare gli elementi di verità e di santità in altre culture, per purificarli, risanarli e poi illuminarli alla luce del Vangelo. Da un punto di vista scientifico liturgico, si pongono ulteriori domande: come dovrebbe essere il nuovo rito amazzonico tenendo in considerazione circa 160 popolazioni indigene e le loro culture locali? E siccome, a differenza di altri riti presenti nella Chiesa cattolica, non ha conosciuto uno sviluppo storico, come evitare che il nuovo rito diventi un prodotto artificiale?

    Condivido questa preoccupazione, anzi questa critica. Si è sentita varie volte anche nel sinodo. Io stesso, una volta, ho concelebrato a Bangalore la liturgia in rito locale indiano. Si può dire oggettivamente che è un prodotto artificiale. Non è derivata da una lunga storia. Il problema è analogo in Amazzonia. Con una varietà di popoli, una molteplicità di tradizioni religiose e culturali, creare un rito amazzonico indio comune è un artificio.

     Ma, per sapere se è giustificato integrare elementi culturali nella liturgia, basta leggere il celebre gesuita Josef Andreas Jungmann (*1889-†1975), che già alla fine degli anni ’40 pubblicò uno studio sull’inculturazione di elementi germanici nella liturgia latina. Molte cose che abbiamo considerato tipiche del rito romano si rifanno – come egli ha potuto dimostrare – agli influssi delle tradizioni popolari germaniche che furono integrate nella liturgia.

     Nelle discussioni durante il sinodo, ha aiutato molto una citazione di John Henry Newman (*1801-†1890), riportata da Andrea Tornielli nell’Osservatore Romano, tratta dall’Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), in cui Newman, appena canonizzato e forse anche presto dottore della Chiesa, ha indicato molti esempi di come il cristianesimo ha purificato e assorbito alcuni elementi pagani. Si dice in questo saggio: «L’uso dei templi, dedicati anche a singoli santi e occasionalmente addobbati con fronde d’albero, incenso, lampade e candele, oggetti benedetti per la guarigione delle malattie, acqua santa, festività e tempi festivi, uso di calendari delle feste, processioni, paramenti sacerdotali, la tonsura, l’anello nuziale, il volgersi verso Oriente, e poi le immagini, forse il canto liturgico e il Kyrie eleison: tutto ciò ha una derivazione pagana ed è stato benedetto così da essere stato adottato dalla Chiesa».

     Per quanto riguarda la “conversione pastorale”, il sinodo ha sottolineato che è necessario il cambio di paradigma da una pastorale occasionale a una pastorale di presenza continua. Cosa c’è dietro e quali passaggi sono richiesti?

     Il tema di una pastorale di visita rispetto a una pastorale di presenza è stato onnipresente nel sinodo. Ovviamente, questa è semplicemente l’esperienza dei vescovi con territori di grande estensione che noi non possiamo immaginare. È come se una parrocchia avesse un territorio grande quanto tutta l’Austria dove ci sono quindici parrocchie con una quantità di piccoli villaggi che fanno capo ad essa, ma così lontani che il sacerdote può visitarli solo una volta all’anno.

     Questa tensione tra visita e presenza è notevolmente accentuata dall’esistenza dei carismatici e dei pentecostali. Questo è un problema che, a mio avviso, è stato discusso troppo poco nel sinodo. Ho l’impressione che tutti lo sappiano, ma preferiscono non parlarne. Se è vero – come è stato descritto in un accurato documento informativo sulla situazione pastorale – che circa il 60% (alcuni sostengono fino all’80%) dei cristiani nella regione hanno ora trovato casa nelle Chiese libere e pentecostali, allora siamo in presenza di una sfida incredibile che certamente non può essere risolta da una riforma pastorale come l’introduzione dei viri probati.

     Qui si tratta dell’interrogativo di fondo che cosa significa presenza pastorale. La mia impressione, a sinodo concluso, è che il grande compito che la Chiesa in Amazzonia deve affrontare è quello di chiedersi onestamente perché i pentecostali raggiungono i villaggi più remoti e noi no.

     Nei commenti si è accennato ai metodi missionari invadenti e a una problematica teologica della prosperità nelle Chiese libere e pentecostali. La critica è certamente giustificata. Ma, per trovare una via d’uscita ai bisogni in Amazzonia, bisognerebbe chiedersi autocriticamente con la volontà ecumenica di imparare, quali sono gli elementi che possono essere ripresi fruttuosamente dalle Chiese libere e pentecostali, allo scopo di migliorare la pastorale della Chiesa cattolica nella regione.

     In effetti, per me ciò che nei pentecostali interpella più radicalmente la pastorale della Chiesa cattolica è il problema della proclamazione del Vangelo. Vescovi e partecipanti laici al sinodo hanno sottolineato che i pentecostali annunciano il kerygma [annuncio del messaggio cristiano] in maniera franca e libera.

     Noi cattolici facciamo una pastorale de conjunto, una pastorale d’insieme in cui in primo piano è l’aspetto sociale. Il rispetto delle tradizioni indigene talvolta ostacola l’annuncio diretto. I pentecostali, come ha detto un vescovo, parlano alla persona che è vicina e le dicono: “sai che Gesù Cristo è morto per te, è risorto e ti invita a dargli la tua vita?”. Questa forma diretta a noi è piuttosto estranea, ma è certamente un fattore per cui i pentecostali hanno così tanto successo. Un problema sono anche le promesse del benessere – il messaggio “se tu vieni da noi, Dio ti benedirà e avrai il benessere” –, ma anche la successiva delusione per il fatto che ciò non avviene. Il più delle volte questo fa sì che molti abbandonino le Chiese libere e vadano a cercare altrove. Molto alla fine, delusi, diventano atei. Altri ritornano alla Chiesa cattolica perché la Chiesa cattolica è con i poveri e perché non fa false promesse.

     Veniamo alla proposta secondo cui il bisogno pastorale dell’Amazzonia può essere alleviato anche con la raccomandazione di introdurre uomini che hanno dato buona prova in famiglia e nel lavoro. In precedenza c’erano state aspre critiche perché ciò avrebbe significato una “mondanizzazione borghese” del sacerdozio, una “rottura con la tradizione”. Nonostante questi avvertimenti, il sinodo ha appoggiato a grande maggioranza questa richiesta. Si tratta di un’autentica innovazione se si pensa che Paolo VI aveva sottratto al Concilio la discussione sull’allentamento del celibato e anche i suoi due successori e i corrispondenti sinodi episcopali non hanno messo in discussione la forma celibataria per i sacerdoti. Quali sono gli argomenti che stanno dietro a questa iniziativa?

     Vorrei prima accennare a ciò che io stesso ho detto nel sinodo. Come europeo che non è mai stato in Amazzonia, non ho voluto fare grandi affermazioni, ma porre alcune domande che possono illuminare il nesso che c’è con il problema delle condizioni per l’ammissione al ministero sacerdotale.

     La prima domanda diceva: cosa dice a noi Dio con il successo delle Chiese pentecostali? Senza rispondere onestamente a questa domanda, corriamo il rischio di trovare soluzioni approssimative, ma di non tener presente il tutto.

     La seconda domanda diceva: se è vero che dalla Colombia – un paese dove ci sono molte vocazioni al sacerdozio – 1.200 sacerdoti si sono recati negli Stati Uniti, in Canada e in Spagna, allora si pone l’interrogativo se 200 o 300 di questi, invece di andare a lavorare nel prospero Occidente, non avrebbero potuto o non avrebbero dovuto prestare il loro servizio in Amazzonia.

     Insieme a questa, vi è un’altra domanda di maggiore portata: a che punto è la solidarietà latino-americana con l’Amazzonia?

     Questo è il famoso interrogativo posto più volte dai papi fin dal 19° secolo: come va la distribuzione del clero? Non esiste forse nella Chiesa cattolica un obbligo continentale e universale di aiuto reciproco là dove c’è una carenza di sacerdoti? All’indirizzo delle Conferenze episcopali latinoamericane la richiesta sottolinea: se l’Amazzonia è una priorità – come ha affermato l’Assemblea generale dei vescovi dell’America Latina ad Aparecida nel 2009 –, allora ci dovrebbe essere anche la disponibilità di inviare dei sacerdoti in quella regione. In Brasile c’è una grande fioritura di nuove comunità, da cui provengono non poche vocazioni sacerdotali. Non occorrerebbe una maggiore solidarietà?

     La terza domanda che ho posto riguarda il diaconato permanente, cioè se uno debba essere diacono prima di poter venire ordinato sacerdote. Il diaconato permanente è stato introdotto dal concilio Vaticano II (cf. LG 29, AG 16). Esiste già da oltre 50 anni. Perché non è stata percorsa questa strada in Amazzonia in cui dei viri probati diaconi possano essere concretamente messi alla prova? Gli uomini sposati hanno un lavoro, una famiglia e, nello stesso tempo, sono impegnati nelle comunità come diaconi e possono essere persone del luogo.

    E, infine, la domanda sui ministeria quædam. Papa Paolo VI, in un documento del 1972 che reca lo stesso titolo, ha abolito gli ordini minori e li ha sostituiti con i ministeri del lettorato e dell’accolitato. Egli ha affermato esplicitamente che questi erano dei ministeri laicali e li ha riservati, per rispetto della tradizione, solo agli uomini.

     In questo sinodo la domanda ripetutamente posta riguarda la guida delle comunità da parte dei laici in comunità molto disperse, dove in concreto molto raramente può giungere un sacerdote, comunità che non sarebbero nemmeno in grado di mantenere un sacerdote. È possibile in questi luoghi affidare ufficialmente ai laici compiti di guida, che de facto esercitano già ampiamente, se si pensa ai catechisti, come ci sono in molti paesi anche in Africa. Esiste una statistica dell’Africa che mostra quanti vescovi attuali sono figli di catechisti, per non parlare delle vocazioni sacerdotali.

     La figura del catechista, e anche delle donne che in queste piccole comunità di villaggio guidano la preghiera e la pastorale, è un percorso che de facto è già stato intrapreso e che potrebbe sicuramente ottenere un maggiore incoraggiamento e sostegno da parte della Chiesa.

    Riassumendo tutto ciò, ci si può domandare: che dire dei viri probati presbiteri? Il documento finale del sinodo non usa mai questa espressione, ma parla della possibilità di imporre le mani a diaconi permanenti che hanno dato buona prova di sé e siano richiesti dalla comunità in modo da poter anch’essi presiedere l’eucaristia.

     Si tratta del ben noto articolo 111. Già la possibilità di pensare a facilitare le condizioni di ammissione all’ufficio sacerdotale ha suscitato voci preoccupate nel periodo di preparazione al sinodo. Secondo i più decisi sostenitori del celibato, occorre attenersi al celibato per il Regno dei cieli. Essi portano a questo scopo un insieme di argomenti: quello cristologico, che richiama la conformità con la forma di vita di Gesù, quello ecclesiologico sulla totale disponibilità per la Chiesa e quello escatologico, che sottolinea la natura di segno, rimandando oltre l’esistente verso la pienezza del compimento. Papa Francesco ha ripetutamente sottolineato che un celibato opzionale è fuori discussione ma, allo stesso tempo, ha annunciato la sua intenzione di voler riflettere su alcune norme eccezionali per regioni remote. È ciò che ha fatto il sinodo.

    Prima di tutto, vorrei aggiungere un’importante affermazione. Credo che per la maggior parte dei vescovi – spero per tutti coloro che in questo sinodo hanno votato a favore dell’articolo 111 – sia ovvio che per la Chiesa latina la forma di vita celibataria del sacerdote rimane la forma fondamentale.

     Nell’anno 692, il Trullanum (Concilio nel palazzo imperiale nella sala con la cupola detta Trullo a Costantinopoli, convocato dall’imperatore Giustiniano II all’insaputa della chiesa occidentale) decise per le Chiese orientali, in particolare per la tradizione bizantina, che il clero sposato era per così dire il modello basilare. A quel tempo, Roma non riconobbe quel concilio, ed è chiaramente rimasto fermo fino ad oggi che il carattere simbolico del sacerdozio celibatario rimane la forma basilare. Credo che questo debba rimanere tale anche in futuro, perché su questo punto alla Chiesa cattolica romana è stato affidato un grande tesoro che, nel corso dei secoli, nonostante tutte le difficoltà e tutte le debolezze, ha dimostrato di essere estremamente fecondo.

     Ciò che l’articolo 111 propone nel documento sinodale è una norma eccezionale che esiste già oggi nella Chiesa latina. Io ho un parroco luterano che è diventato cattolico con tutta la sua famiglia, e con l’autorizzazione di papa Benedetto XVI ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale. E questo non è il primo caso, ma rimane evidentemente una norma speciale in situazioni speciali.

     Credere che i viri probati possano diventare la forma fondamentale del sacerdozio nella Chiesa cattolica romana, penso che sarebbe un grave errore di calcolo. Ma non credo nemmeno che i sacerdoti sposati siano sacerdoti di seconda classe; e sottolineo questo come ordinario delle Chiese cattoliche orientali in Austria con circa 30 sacerdoti sposati in questo ordinariato i quali vivono con le loro famiglie e compiono il loro servizio. Se fosse vera l’affermazione secondo cui esiste un nesso ontologico tra celibato e sacerdozio, significherebbe che questi preti ontologicamente non sono sacerdoti in senso pieno, e ciò non può essere.

     Il Concilio ha espressamente dichiarato in Presbyterorum ordinis (art. 16) che il celibato non fa parte dell’essenza del sacerdozio e ha apprezzato i meriti dei sacerdoti sposati nelle Chiese orientali uniate. Questo deve essere ricordato ad alcuni critici che parlano di preti sposati con un linguaggio addirittura sprezzante.

   L’æqua dignitas, di cui ha parlato il Concilio, è qui da richiamare. Con la forma di vita celibataria, se vissuta in maniera credibile, è sottolineata l’alterità di Dio. La rinuncia è un vuoto che indica un mistero più grande.

     Il problema dei viri probati rimane in effetti anche per noi un interrogativo. L’abbiamo detto al sinodo e penso che sia lo stesso anche per la Chiesa universale. Il diacono permanente, che ha un lavoro, ha famiglia ed esercita il suo servizio nella Chiesa, è un laboratorio per un eventuale ministero sacerdotale che, naturalmente, deve accettare i limiti che comportano l’attività professionale e la vita familiare. Ma sostanzialmente non è impossibile.

     In relazione alla sua domanda, se un sacerdote in questa forma di vita possa significare chiaramente l’alterità rispetto al mondo e mettere in risalto anche la dimensione escatologica, vorrei semplicemente raccomandare di leggere alcune biografie dei santi della Chiesa orientale. Uno dei grandi santi della Chiesa ortodossa russa è Giovanni di Kronstadt (1829-1908), che era un sacerdote sposato ed è una delle sante figure sacerdotali della Chiesa universale.

       Penso che non si debbano assolutizzare gli argomenti a favore del celibato di cui si è parlato. Rimane sempre il velo o l’occultamento del sacramento. Non siamo ancora nel compimento, e la forma sacramentale contiene la pienezza, ma la contiene anche in forma frammentaria. Raccomando di leggere il n. 1550 del Catechismo della Chiesa cattolica, che parla dell’agire in persona Christi del sacerdote: non tutti gli atti del sacerdote si compiono con tutto il peso dell’in persona Christi, ma solo i grandi atti sacramentali dell’eucaristia, dell’assoluzione ecc.

    Naturalmente, anche il ministero pastorale è un’immagine di Cristo, una sua icona. Ma non ha tutto il peso e la grandezza della sacramentalità e questo coopera a far in modo che il sacerdote non sia posto oltre misura su un piedestallo, cosa che non può di fatto realizzare. Il pericolo del clericalismo, di cui papa Francesco parla così spesso, ha qualcosa a che fare con il fatto che, nell’École française, il prete sia compreso come una forma superiore dell’essere cristiano. Ma il Concilio ha chiaramente affermato nella Lumen gentium n. 10 (e il Catechismo lo ha adeguatamente spiegato): il sacerdote è anzitutto un cristiano e la sua santità si manifesta nella santità dell’essere cristiano. Pertanto, credo anche che un vir probatus, a cui il vescovo ha imposto le mani, debba prima di tutto dare testimonianza di essere un vero cristiano.

      Lei ha detto che “non è impossibile” pensare a dei viri probati anche nelle nostre regioni. Di fronte alla desertificazione spirituale delle comunità rurali più piccole e al fatto che le vocazioni al sacerdozio vanno verso il punto zero, vorrei qui ancora una volta ritornare alla domanda se il “non impossibile” non è forse troppo debole. Non bisognerebbe – in vista di una situazione di emergenza – pensare anche qui concretamente ai viri probati?

    Certamente, ma solo alle seguenti condizioni. In primo luogo, che il servizio sacerdotale celibatario sia promosso in modo molto esplicito come forma di base, perché era questa la forma di vita di Gesù. Questa sfida deve rimanere. E io penso che l’intera questione della pastorale vocazionale debba concentrarsi decisamente su questo. Consideri la forma di vita di Gesù senza legami, il suo rapporto con il Padre e con gli uomini in questa disponibilità totale e in piena trasparenza. Questa forma di vita è in se stessa un grande valore per cui vale la pena in ogni tempo invitare giovani e meno giovani a sceglierla.

     La seconda cosa richiesta per questo cammino è che noi stiamo già iniziando un percorso alternativo alla formazione sacerdotale, che non va oltre la piena formazione degli otto anni in seminario, ma è predisposto per accompagnare vocazionalmente uomini non sposati – e ci sono diversi di questi candidati che si mettono in questione –, ma che non possono lasciare il loro lavoro professionale, e potrebbero compiere un percorso di formazione sacerdotale. Sarebbe un passo sperimentale in direzione dei viri probati e spesso parliamo di questa possibilità. È un imperativo urgente dell’ora. Ci sarebbero sicuramente non pochi candidati che si mettono in questione se non si insiste nell’avere solo un percorso per arrivare al sacerdozio.

     La terza è lo sguardo ai criteri presenti nelle Lettere pastorali paoline. Cosa consente a una persona di essere presentata al vescovo come possibile sacerdote per una comunità che si sta estinguendo? Deve essere in grado di saper guidare bene la propria famiglia, deve godere di buona reputazione e deve aver dato buona prova nella vita e nel lavoro (cf. 1Tim 3,1-7; Tit 1,6-9). E tali uomini esistono. Lo dico e lo ha detto il sinodo per l’Amazzonia: i diaconi permanenti costituiscono un laboratorio di questo tipo. Essere diacono è certamente una vocazione vera e particolare, ma non in vista del presbiterato. È pensabile, tuttavia, che le comunità dicano che questo diacono ha dato così buona prova di sé tanto che il vescovo potrebbe ordinarlo sacerdote? L’ipotesi non è fuori luogo.

     Nel periodo preparatorio al sinodo, alcuni hanno chiesto un’apertura al ministero sacerdotale per le personæ probatæ e, come primo passo, hanno proposto il diaconato delle donne. Papa Francesco ha detto chiaramente che per lui l’ordinazione delle donne è fuori discussione. Egli ha anche costituito nel 2016 una commissione di studio per chiarire il problema. La crescente inquietudine nei riguardi di questo problema indica che il posto della donna nella Chiesa è in tensione con il discorso della parità nella società moderna. Il documento finale del sinodo, nonostante iniziative occasionali, è stato tuttavia piuttosto cauto e il problema di un possibile diaconato femminile è stato rimandato a una nuova commissione di studio per ulteriori ricerche. Cosa c’è dietro a ciò?

     Il problema del diaconato alle donne non è dottrinalmente deciso. Ci sono state delle diaconesse, esiste un antico rito di ordinazione per la diaconessa nelle cosiddette Costituzioni Apostoliche (IV secolo). Ma queste diaconesse hanno ricevuto il sacramento dell’ordine nel senso attuale? Sono paragonabili ai diaconi di oggi? Secondo gli insegnamenti del concilio Vaticano II, il diaconato è all’interno dell’unico sacramento dell’ordine di grado non sacerdotale; i diaconi sono ordinati «non per il sacerdozio, ma per il servizio» (LG 29). A questo riguardo, credo, ci sia ancora bisogno di un chiarimento teologico e magisteriale. Nel dopo-sinodo ci sono già voci che parlano di un “effetto domino” delle norme eccezionali, e in effetti una petizione lanciata on-line da Paul Zulehner [*1939 prete teologo cattolico, docente Università di Vienna] chiede di introdurre molto presto anche da noi le raccomandazioni del sinodo per l’Amazzonia.

https://translate.google.com/translate?hl=it&sl=de&u=http://www.zulehner.org/&prev=search

     Cosa pensa al riguardo?

     Anzitutto, il sinodo non ha deciso nulla, ma ha sottoposto delle proposte al papa, come fanno sempre i sinodi. Papa Francesco ha annunciato che, spera di emanare il documento postsinodale entro Natale. Io dico, poco diplomaticamente, che sono indignato per questo abuso del sinodo per l’Amazzonia. Innanzitutto, dobbiamo prendere sul serio il messaggio di questo sinodo. Per noi, ciò significa innanzitutto una conversione ecologica.

    Se, nei nostri interventi, copriamo tutto con l’unica questione dei viri probati, allora ignoriamo completamente il messaggio di questa assemblea sinodale. Questo sinodo è un grido di angoscia! Un grido che riguarda tutto il mondo – e papa Francesco nel suo discorso conclusivo ha chiesto familiarmente ai partecipanti: «Per favore, dite ai giornalisti e in questo caso anche ai teologi e alle persone di Chiesa che lanciano queste iniziative, non parlate delle cosette, ma della cosa». Si tratta di qualcosa di terribilmente serio in questo sinodo. Riguarda i popoli, gli abitanti di questa regione che sono fortemente minacciati, riguarda il clima del nostro mondo, riguarda una sfida globale ecologica che dobbiamo affrontare. I problemi interni alla Chiesa possono e debbono essere messi da parte dando spazio alle urgenze che riguardano tutti gli abitanti di questa terra e non solo ai nostri problemi.

Jan-Heiner Tück (a cura) teologo dogmatico Vienna            Settimana news          20 novembre 2019

www.settimananews.it/chiesa/schonborn-unampia-rilettura-del-sinodo

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