NewsUCIPEM n. 769 – 1 settembre 2019

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02 ABORTO VOLONTARIO                           Come fronteggiare l’aborto «dilatato»

05 ADOZIONE                                                   L’incontro su la ricerca delle origini. Una sfida per tutta la famiglia

05                                                                          La domanda da dove vengo non regge senza quella dove vado

02                                                                          Giovani adottati si interrogano sul vuoto del loro passato ma con…

03                                                                          Il commovente intervento nell’ambito del raduno nazionale

AFFIDI                                                                 Serve l’affido, non le ideologie

03 AFFIDO CONDIVISO                                 Trasferimento ex coniuge e affidamento figli: ultime sentenze

ASSEGNO MANTENIMENTO PER FIGLI Figli, il mantenimento non è per sempre

01 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                               AICCeF. Giornata di studio

04 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 31, 28 agosto5 2019.

08 CHIESA CATTOLICA                                  Se ai cattolici italiani ancora manca una fede adulta

12                                                                          Cristiani antidoto al sovranismo, ma anche alla realtà semplificata

CITAZIONI                                                         In principio non era così

CONSULTORI UCIPEM                                  Mantova. Etica, salute e famiglia. Settembre 2019

Un’esperienza di gruppo per adolescenti presso il consultorio

COUSELING                                                      La consulenza educativa

16 DALLA NAVATA                                         XXII Domenica del tempo ordinario – Anno C – 1 settembre 2019

16                                                                          Mettersi all’ultimo posto: quello di Dio

16 DEMOGRAFIA                                            La bomba demografica. Pensioni e figli, l’Italia è in tilt.

DIRITTI DELLE DONNE                                    Le donne come soggetti di diritto in Italia, nell’UE e nella DUD

27 GENITORI                                                     Sindrome del nido vuoto: cos’è e come affrontarla

MEDICINA                                                         Il matrimonio riduce il rischio di demenza legata all’età

OMOFILIA                                                         Non esiste il ‘gene gay’, omosessualità mix Dna-ambiente

WELFARE                                                           Bonus per le famiglie con almeno tre figli.

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ABORTO VOLONTARIO

Come fronteggiare l’aborto «dilatato»

Il processo di legalizzazione dell’aborto, che possiede ormai, e da tempo, rilievo planetario, sta per conoscere un ’ulteriore dilatazione, geograficamente limitata, ma simbolicamente rilevante. Entro l’estate dovrebbero cadere i limiti giuridici alle pratiche abortive ancora esistenti nel più rilevante stato della Confederazione australiana, il Nuovo Galles del Sud (lo Stato dove insiste la città di Sydney) e nel Principato di Monaco, che attualmente consente l’aborto solo nei casi di malformazioni del feto, di rischi per la salute della donna e di stupro.

            L’unico limite legale che dovrebbe rimanere è quello temporale, che consentirebbe l’interruzione della gravidanza solo nei primi mesi di gestazione. Le proteste della Chiesa cattolica e dei movimenti pro life non si sono fatte attendere, anche se è prevedibile che non riusciranno ad avere effetti concreti, come si può desumere dalla limitatissima rilevanza mediatica della notizia nei Paesi interessati e a livello internazionale e dal sostanziale consenso che essa ha riscosso in gran parte dell’opinione pubblica. Che tipo di commento meritano queste notizie? Fisserei l’attenzione su tre punti.

  1. Primo punto: dobbiamo, con un grande – davvero grande – sforzo di onestà intellettuale, riconoscere il totale fallimento del pluridecennale impegno ontologico contro l’aborto, quello incentrato sul riconoscimento del nascituro come ‘uno di noi’ e sul conseguente dovere di rispettarne la vita. Parlo di impegno, non di argomento: che la vita del nascituro sia autentica vita umana nessuno oggi ha più il coraggio di negarlo. Ma, culturalmente, questo argomento ha ceduto di fronte all’opposto argomento che riconosce alla madre, alla sua salute e perfino ai suoi interessi un primato sulla vita del figlio prima della sua nascita. Per chi, come il sottoscritto, per anni e anni si è impegnato in una querelle ontologica è giunto il momento di riconoscere la sconfitta: una sconfitta, si badi, non ideale, non teoretica e meno che mai spirituale, ma una sconfitta storica.
  2. Secondo punto: la fattuale legalizzazione planetaria dell’aborto ha sancito (sempre sul piano della storia) la marginalizzazione della figura del padre, cui è precluso ogni intervento in merito alla decisione abortiva della donna con cui ha generato un figlio. La simmetria uomo-donna permane nelle dinamiche generative solo a livello biologico, ma appare a livello sociale radicalmente misconosciuta. Di qui conseguenze facilmente intuibili a carico del matrimonio e della famiglia, che appaiono destrutturati, anche se sembrano conservare la loro identità storica.
  3. Terzo punto: a fronte della drammatica crisi antropologica di cui la pratica dell’aborto è il segnale più evidente, ciò che si impone, oggi, è una completa riformulazione dell’impegno cristiano. Per quanto – ahimè – sconfitto sul piano storico-sociale (sul piano, cioè, della rigorosissima delimitazione giuridica dell’aborto) all’impegno cristiano resta uno spazio di azione pressoché sconfinato: quello chiamato a riproporre il primato dello spirituale sul sociale.

Le iniziative di aiuto materiale alla vita nascente sono nobilissime e non vanno abbandonate, ma non colgono più il centro del problema, che non è anche economico e giuridico, ma soprattutto antropologico. E la questione antropologica non va affidata o fatta gestire ai cultori di scienze sociali, ma a chi è in grado di predicare a testa alta il Vangelo, incarnandolo sino a dire sempre e comunque ‘sì alla vita’. Il sì alla vita è molto più che un sì a un comandamento (‘non uccidere!’) è un sì al primato del bene sul male, di cui oggi sembra che quasi solo i cristiani – come Paola Bonzi, animatrice da decenni del Cav milanese della Clinica Mangiagalli, che stiamo ancora piangendo dopo l’improvvisa morte – siano i testimoni.

Francesco d’Agostino Avvenire        31 agosto 2019

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ADOZIONE

L’incontro con la ricerca delle origini. Una sfida per tutta la famiglia

Ha preso il via a Casino di Terra, Pisa, nell’ambito della XXVIII settimana di incontro e formazione per le famiglie adottive e affidatarie di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, che terminerà sabato 31 agosto, il seminario sul complesso tema della ricerca delle origini da parte dei figli adottivi. Durante il seminario si è tenuto l’intervento di Francesco Belletti, direttore del CISF – Centro Internazionale Studi Famiglia. Un intervento basato soprattutto sui materiali raccolti nei mesi scorsi da tanti genitori, con oltre 60 storie personali, e che ha voluto dare voce al peso che la questione “origini” ha nella vita quotidiana di bambini e famiglie.

            Oltre a una prospettiva “intra-familiare”, tuttavia, non è stata negata la rilevanza degli elementi esterni; il modo in cui le norme, le leggi, le culture regolano la genitorialità, la filiazione, ovviamente decisivo, in una stretta interazione tra “extra-familiare” e micro relazionalità familiare. In effetti, le leggi e l’attenzione pubblica (cultura, pregiudizi, dibattito sui media, cultura dei servizi) interagiscono continuamente con il vissuto familiare più privato. In premessa è stata pertanto proposta una breve ricognizione del quadro normativo, anche evidenziando la forte differenziazione tra nazione e nazione.

            Si è poi specificato che percorsi diversi generano domande diverse: quando l’adozione è nei primissimi giorni, quando l’adozione avviene dopo lunghi anni, quando si ricorda il volto dei genitori, quando nella famiglia arriva un altro bambino.

            Altro tema affrontato è poi quello di cosa si ricerca nel proprio passato, attraverso alcuni “cerchi concentrici del sé”: un pensiero su se stessi e sulla propria identità personale; la domanda “chi mi ha messo al mondo?” e il desiderio di ritrovare madri e padri; la voglia di ritrovare eventuali fratelli e sorelle; la voglia di conoscere la propria patria, il proprio popolo d’origine.

            Un ulteriore argomento dibattuto è stato quello sui sentimenti della e nella ricerca delle origini: i perché dell’abbandono, la rabbia, la curiosità, la ricerca di pezzi di se stessi, “riprendere le proprie cose” ma anche la turbolenza dell’adolescenza, la rivolta verso i genitori adottivi, la fatica dell’essere accolti e di accogliersi.

            Situazioni che, come illustrato nell’intervento, presentano diverse sfide per i genitori adottivi: accompagnare la domanda del figlio, custodire i tempi e le età, gestire la verità, accogliere dolori e ferite, sapere attendere e insegnare l’attesa

AiBinews        27 agosto 2019

www.aibi.it/ita/lincontro-con-la-ricerca-delle-origini-una-sfida-per-tutta-la-famiglia/

                                 

“La domanda esistenziale ‘da dove vengo’ non regge senza la corrispettiva ‘dove vado’

“Il tema o problema della ricerca delle origini si comprende nell’orizzonte della più ampia e decisiva questione educativa”. Lo sostiene don Massimiliano Sabbadini, consigliere spirituale della associazione “La Pietra Scartata” e membro del Consiglio direttivo di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, intervenendo proprio sul difficile tema della ricerca delle origini da parte dei figli adottivi in occasione della XXVIII settimana di incontro e formazione per le famiglie adottive e affidatarie dell’organizzazione, iniziata sabato 24 agosto 2019 a Casino di Terra (Pisa) e che terminerà sabato 31 agosto.

“La domanda esistenziale ‘da dove vengo’ – ha spiegato don Sabbadini – non regge all’indagine dell’individuo senza la sua corrispettiva ‘dove vado’. Solo dall’attivazione di entrambe le direzioni si genera la continua tensione del conseguimento del ‘chi sono’, come un felice arco voltaico che unisce i catodi da cui è prodotto”.

            “Nella visione antropologica cristiana questo processo – ha proseguito don Sabbadini – con tutte le sue fasi e con la sua dimensione permanente, è ciò che si intende con ‘educazione’. Con un particolare ‘voltaggio’ ben espresso dalla celebre frase di san Giovanni Bosco: ‘Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore e che Dio solo ne è il padrone e noi non potremo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l’arte e non ce ne mette in mano le chiavi’. L’arte dell’educare che Dio ci insegna si può trovare ben sintetizzata nella sorprendente conclusione del Vangelo dell’infanzia secondo Luca. Gesù dodicenne smarrito e ritrovato nel tempio, che risponde ai genitori angosciati: ‘Devo stare nelle cose del Padre mio’, rappresenta il compimento vocazionale di ogni itinerario cristiano. Nel rapporto costante e decisivo con il Padre celeste si acquieta l’ansia di ogni ricerca nel passato e di ogni proiezione nel futuro, mentre si accende il gusto, l’avventura e la gioia di ogni presente vissuto in comunione con Dio per il quale tutti i padri, le madri e i figli si riconoscono ugualmente fratelli e sorelle da amare”.

AiBinews        27 agosto 2019

www.aibi.it/ita/don-sabbadini-ai-bi-al-raduno-nazionale-delle-famiglie-adottive-e-affidatarie-tema-ricerca-origini-si-comprende-con-questione-educativa

 

Giovani adulti adottati si interrogano sul vuoto del loro passato ma con lo sguardo rivolto al futuro

“La vita, a volte, dà una seconda possibilità anche ai bambini meno fortunati”. Lo dice Artiom figlio adottivo, oggi un giovane adulto, intervenuto nell’ambito del seminario sulla ricerca delle origini, organizzato a Casino di Terra (Pisa), nel contesto della XXVIII settimana di incontro e formazione per le famiglie adottive e affidatarie di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, che terminerà sabato 31 agosto2019.

            “Lo fa – ha proseguito Artiom – dando a loro una casa, protezione, affetto e una famiglia che sia in grado di amare il figlio e crescerlo come si merita. Una volta che il fanciullo cresce, si pone delle domande sulle sue origini andando alla ricerca della sua ‘vera’ identità, viene a conoscenza così del suo passato facendone un tesoro per tutta la sua vita. Definirei questi bambini che sono stati adottati, speciali e unici in quanto portano qualcosa dentro di sé che tutti gli altri non hanno, così da essere portatori di una fortuna propulsiva senza eguali”.

            “Quando provo a ricercare ciò che ero, ossia il mio passato – ha concluso Artiom – spesso ci trovo un senso di vuoto, una voragine. Per spirito di autoconservazione tendo a non pensarci molto, a dire la verità non sento nemmeno l’esigenza di ‘indagare’ su ciò che sono stato, poiché ritengo di appartenere ad un disegno in cui sono sia il pittore che l’opera di un quadro che non si limita alla pura e semplice fenotipica cornice. Oscillo tra colori scuri e chiari e ciò che rende il mio quadro così inedito sono appunto i miei colori che rilucano di una brillantezza incontaminata dall’ esperienza”.

            “La ricerca delle origini – ha spiegato ancora Andressa, anche lei figlia adottiva – per me ha un significato importante. Infatti sono sicura, che se dovessi avere l’occasione di partire per il mio Paese d’origine alla ricerca dei miei genitori biologici, andrei a colmare quel vuoto che mi sono costruita nei primi quattro anni di vita. Ritengo quindi, che nonostante mi sia rifatta un’altra vita e sicuramente più agiata e protetta, sia necessaria per una sorta di sicurezza”.

            “Per me la ricerca delle origini – ha aggiunto Cinthia – è riuscire a capire la mia presenza qui, in senso che la maggior parte delle volte, mi sento considerata non uguale agli altri. Questa ricerca mi farebbe riempire quel vuoto che ho dentro e che non riesco a colmare in questo istante con tante difficoltà”.

AiBinews        27 agosto 2019

www.aibi.it/ita/ricerca-delle-origini-la-mia-vita-e-un-disegno-di-cui-sono-sia-il-pittore-che-lopera

 

Il commovente intervento nell’ambito del raduno nazionale delle famiglie di Ai.Bi.

“Il tema della ricerca delle origini in questi ultimi anni è stato al centro di diverse discussioni soprattutto, per quanto mi riguarda, sui social network, che ormai sono il tramite principale per queste cose. Ho avuto modo di ‘conoscere’ ragazzi adottati che si affannano alla ricerca di colei che li ha messi al mondo perché a loro dire sono stati ‘strappati dalle braccia della loro mamma con bugie terribili’“. A raccontare la sua esperienza, nell’ambito del seminario sulla ricerca delle origini da parte di figli adottivi tenutosi a Casino di Terra, nel pisano, nell’ambito della XXVIII settimana di incontro e formazione per le famiglie adottive e affidatarie di Ai.Bi. – Amici dei Bambini è Greta. Per l’appunto, figlia adottiva.

            “In quelle discussioni – ha proseguito Greta nel suo racconto – ero quasi l’unica a sostenere che a me la ricerca delle origini non interessa. Dicendo questo ho alzato un polverone perché ‘non è possibile’. Invece lo è. Non sento la necessità di andare alla ricerca di chi mi ha dato la vita… cosa le potrei dire? Cosa abbiamo in comune? Solo il sangue ci unisce e forse qualche tratto somatico e per il resto? Io sono Greta, questo è il nome che lei ha scelto per me e poi cos’altro c’è? Vedete, forse potrebbe non essere comprensibile per alcuni figli adottivi, ma non abbiamo altro in comune… certamente mi ha tenuto nel suo grembo per nove mesi e per questo la ringrazierò per sempre, perché mi ha fatto un grande dono: la vita. E in questo modo mi ha amato”.

            “Poi – ha continuato Greta – ha fatto una scelta ancora più grande: donarmi ai miei genitori, loro sono mia mamma e mio papà. Sono loro che mi hanno tenuto la mano quando da piccola non riuscivo ad addormentarmi; sono loro che hanno gioito dei miei successi ed hanno pianto insieme a me per le mie sconfitte; sono loro che mi hanno spronato ad andare avanti quando le difficoltà sembravano insormontabili; è la loro mano tesa che mi ha aiutato a rialzarmi dopo ogni caduta. Certamente ho la consapevolezza di non essere stata nel grembo di mia mamma, ma sono stata talmente bene nel suo cuore che spesso penso di non essere mai stata adottata perché io mi sento figlia sua al 100%. Quante volte sono andata a ‘spiare’ la mia cartella sanitaria, nella quale c’è una parte che riguarda il mio passato, per vedere se era vero che non ero nata in quella pancia. E la verità era lì. Sì, perché lì c’era il mio vecchio cognome… e ogni volta stentavo a crederci. Non ci credevo perché mi sono sentita subito ‘figlia’! (…) Non è facile sentirsi figlio perché bisogna essere capaci di abbandonarsi totalmente a quelle persone e a dare loro il nostro bagaglio di sofferenze portato fino a lì da soli; è un po’ come dire: ‘Mi vuoi con te? Benissimo! Prima prendi questo mio zaino pesante sulle tue spalle e guarda cosa c’è dentro; quando avremo condiviso questo potremo camminare insieme’. ‘Quando saremo davvero insieme, allora mi sentirò talmente figlio che alla donna che mi ha messo al mondo potrò dire: grazie per questa vita, grazie per il tuo dono!’ E per questo non c’è bisogno di andare a cercarla, perché lei di sicuro lo sta sentendo nel suo cuore”.

            “La ricerca delle origini – ha concluso Greta – secondo me, è andare a risentire, rivedere, ritoccare la propria terra se si arriva da paesi lontani. Credo non sia giusto ripiombare nella vita di colei che di cui non conosciamo il vissuto. Non possiamo sapere cosa può causare questo nostro ritorno; quali emozioni può scatenare? E se la cerchiamo e lei non ci vuole? Non sarebbe questo il vero abbandono? Come ci potremmo sentire? Penso traditi! Ho vissuto quattro gravidanze, una diversa dall’altra, ma nell’ultima ho provato la difficoltà del rimanere incinta senza aspettarselo (per cinque secondi ovviamente). Scoprirlo è stato un momento di panico. Questo mi ha permesso di calarmi nei panni di quella donna che sola (per fortuna non è il mio caso) ha dovuto scegliere per me. Lei, sola, ha affrontato nove mesi di gravidanza, lei, sola, mi ha voluto bene, lei, sola, mi ha partorito, lei, sola, mi ha donato! E da allora ho capito che è stata davvero coraggiosa perché ha fatto grandi cose per me. Quale è allora la necessità della ricerca delle origini? Nessuna! Nessuna necessità… cosa mi può dare in più quell’incontro? Niente!! Io sono Greta è quello che sono oggi è grazie a Irene e Marco, la mia mamma e il mio papà”

AiBinews        27 agosto 2019

www.aibi.it/ita/ricerca-delle-origini-la-testimonianza-di-una-figlia-adottiva-qual-e-la-necessita-nessuna

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AFFIDI

Serve l’affido, non le ideologie

Il caso di Bibbiano, in terra di Emilia, dove alcuni operatori della Tutela Infantile sono stati arrestati con l’accusa di aver agito per allontanare i figli dai genitori senza motivi reali, anzi con lo scopo di favorire interessi privati, sta creando attenzioni acute e una strumentalizzazione politica incomprensibile e anche disgustosa quanto l’episodio stesso, sul quale peraltro sono ancora in corso le indagini. Cercare mostri non serve a nulla. Senz’altro un mostro non può essere il sindaco di Bibbiano: in queste procedure i sindaci hanno un ruolo molto lontano dai processi decisionali veri e propri che sono sostanzialmente in mano ai tecnici che hanno un potere più significativo e rilevante.

            La domanda da porsi è questa: cosa fare quando una comunità, una collettività e un’istituzione pubblica, con tutti i suoi servizi, acquisiscono l’informazione, ovviamente da verificare, che una famiglia – o dei genitori, al limite anche uno solo – non sta funzionando per i propri figli e può risultare pericolosa e dannosa? Anzitutto, se la situazione è questa, è sbagliato lasciare semplicemente i figli, tanto più i bambini, ai genitori. Sono i genitori stessi i primi che hanno la necessità di un intervento che può salvare la vita ai bambini, ma anche ai genitori. In seconda battuta, penso che occorra definitivamente uscire dall’idea che si possa scorporare la questione dei figli da quella dei genitori. Sui diritti dei bambini la nostra società è giustamente sensibilissima perché sono soggetti estremamente fragili.

            Ritengo comunque che si salvano e sostengono i bambini se si salvano e si sostengono i loro genitori. E che quindi un intervento ideologico unicamente volto a separare i figli dai genitori appare privo di efficacia, oltre che di fondamenta scientifiche. In Italia, comunque, la sensibilità verso i bambini è più teorica che reale. Il nostro è uno dei pochissimi Paesi europei a non aver ancora una legge contro le punizioni fisiche, letteralmente corporali, in famiglia. Esiste solo, ne ho parlato tantissimo anche nei miei libri – specie ‘Punire non serve a nulla’ (Bur-Rizzoli) -, il reato di maltrattamento.

            Ma per agire nella logica del maltrattamento bisogna che il genitore compia qualcosa di veramente molto grave ed eclatante. Mentre la pura e semplice punizione fisica viene rubricata come un atto educativo erroneo, ma comunque possibile. È una situazione grottesca in quanto se una maestra di Asilo nido o di Scuola materna urla, incalza minacciosamente i bambini, li strattona, li butta sul lettino e dà uno scapaccione, anche se c’è un pannolino a proteggerli, tutto questo viene considerato un reato, le telecamere lo registrano e la maestra va nei guai.

            Ma se la stessa cosa, anzi in forma più grave, succede in famiglia non è reato. Occorre uscire dalla retorica del ‘salviamo i bambini’ e chiedersi se veramente abbiamo in Italia le leggi giuste e adeguate che permettono, non tanto di criminalizzare i genitori, ma di creare un semaforo rosso. E quindi di aiutare il genitore a capire che sta sbagliando e che in quel modo rovina i suoi figli piuttosto che educarli. E che se questo genitore a sua volta è stato cresciuto a mazze e panelle [bastoni e pagnotte], come dicono in alcune parti d’Italia dove un proverbio recita ‘mazze e panelle fanno le figlie belle’, non c’è bisogno che replichi questa coercizione e questa nefandezza all’infinito.

            Può essere che agisca in questo modo per disinformazione, forse perché non ha mai incontrato nessuno sulla sua strada che gli abbia fatto capire che non è questo il modo per tirar su i bambini. L’approccio giusto è quello di aiutare i genitori. Poi ci sono situazioni in cui da sempre, in ogni comunità, si sono create le cosiddette uscite di sicurezza. Quando una mamma stava male, c’era una zia o qualcuno che se ne occupava. Quando i genitori dovevano andare a lavorare lontano, il bambino veniva affidato a un parente. Sono situazioni normali.

            Diciamo che l’istituzione dell’affidamento, che anch’io ritengo estremamente importante, positiva e da difendere a tutti i costi, è proprio il corrispettivo istituzionale di quella che era una prassi in uso nelle società tradizionali dove la solidarietà inter-famigliare creava le condizioni per cui un bambino potesse essere ospitato e gestito dai parenti. Operazione che anch’io ricordo tante volte realizzata fino agli anni Sessanta-Settanta dai miei genitori rispetto ad alcuni loro parenti. È una soluzione utile per i bambini, a fronte di genitori fragili che non ce la fanno. Ricordo di aver seguito recentemente un affidamento nel primo anno di vita di una neonata di una ragazzina di 15 anni che, ovviamente, non ce la faceva.

            Quel primo anno di vita è stato gestito in affidamento famigliare e a un anno e due mesi la bimba è stata restituita alla mamma inesperta ma più cresciuta e preparata, in ottime condizioni. Se la mamma l’avesse tenuta nel primo anno di vita sarebbe stato un disastro. La possibilità di avere queste uscite di sicurezza è importantissima. Il caso di Bibbiano ci dice di uscire dalle ideologie, dai luoghi comuni e da alcune tecniche che appaiono equivoche, come quella di ascoltare i bambini come se fossero adulti.

            Si rischia di prendere lucciole per lanterne, quante volte è già successo? Ho avuto la possibilità di seguire e di aiutare gli insegnanti di Rignano Flaminio (Roma) che erano stati ingiustamente accusati di seviziare sessualmente i loro bambini di Scuola materna sulla base di colloqui estremamente equivoci fatti ai bambini stessi. Sono cose che dal punto di vista scientifico conosciamo da tempo immemorabile: al bambino piccolo, attraverso domande tendenziose, puoi far dire anche quello non pensa. Ci vuole altro per capire se siamo in presenza di violenza nei confronti dell’infanzia.

            Occorre cercare nuovi sistemi e dispositivi che non siano unicamente basati sul dover ricavare le informazioni dai figli stessi. In quante Ctu i figli vengono vergognosamente manipolati in modo da liberarsi dell’altro genitore? Abbiamo bisogno di istituzioni che sappiano individuare immediatamente i problemi, ma non per criminalizzare i genitori, bensì per fare in modo che ci possa essere un’occasione di riscatto, sempre che il genitore lo voglia. Se, ad esempio, un genitore è alcolizzato e non si cura, non è in grado, ovviamente, di occuparsi dei figli. Personalmente, mi sono ritrovato a difendere bambini da padri pedofili che non venivano riconosciuti come tali. Nemmeno dalle istituzioni preposte. È sempre molto complicato, ma se usciamo da un’idea puramente giudiziaria ed entriamo in un’idea educativa, forse ce la possiamo fare.

Daniele Novara, pedagogista             Avvenire         29 agosto 2019

www.avvenire.it/opinioni/pagine/bibbiano-e-oltre-necessario-laffido-non-le-ideologie

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AFFIDO CONDIVISO

Trasferimento ex coniuge e affidamento figli: ultime sentenze

Se l’ex coniuge trasferisce la propria residenza, con chi vanno a stare i figli? A chi vengono affidati? In caso di coppia separata o divorziata e successivo trasferimento di residenza della madre, quali conseguenze questa scelta può sulle modalità di affidamento del figlio?

        I.            Sì affidamento all’ex coniuge che si trasferisce. Il coniuge separato che intende trasferire la residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde l’idoneità ad avere in affidamento, o in prevalente collocazione presso di sé, i figli minori, sicché il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario.

Corte di cassazione, sezione I civile, ordinanza 18 luglio 2019 n. 119455

     II.            Condizioni per il nulla osta al trasferimento del figlio minore in altra città di residenza. Il trasferimento del figlio minore in altra città può essere disposto a condizione che la madre, presso cui il figlio abbia residenza prevalente, stipuli un contratto di locazione di appartamento che il padre potrà e dovrà occupare nei periodi in cui starà con il figlio.

Corte appello Venezia sez. III, 28/07/2018, n.147

   III.            Preferenza affidamento madre anche se si allontana. In un affidamento congiunto i figli restano collocati presso la madre anche se questa, vinto il concorso in magistratura, sceglie una sede lontanissima. Per la Cassazione la decisione di trasferirsi non può essere condizionata e resta al giudice valutare l’interesse del minore. Nel caso esaminato il giudice respinge la tesi del padre sui danni dall’eccessivo pendolarismo e sulle ripercussioni negative nel rapporto con il genitore lontano.

Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 14 maggio 2016 n. 18087

  IV.            Il trasferimento è un diritto. Posto che ciascun coniuge separato ha il diritto, di rango costituzionale, di trasferire liberamente la propria residenza e luogo lavorativo, anche lontano da quella dell’altro coniuge, senza che ciò ne comporti di per sé l’inidoneità all’affidamento e al collocamento dei figli minori, il giudice provvede su tale collocamento tenendo solo conto dell’interesse dei figli medesimi, prescindendo dall’incidenza negativa della decisione sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario/collocatario (sulla base di tale principio la Suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva collocato in via prevalente due minori, ancora in tenera età, presso la madre, modificando le condizioni di separazione consensuale, che prevedevano una ripartizione paritaria dei tempi di permanenza presso i genitori, in ragione del trasferimento della donna, per ragioni di lavoro, in una città molto distante da quella originaria di residenza, e tenuto conto che il criterio ordinariamente seguito è appunto quello di collocare in via prevalente i bambini in età più tenera presso la madre, se idonea).

Pertanto il trasferimento del coniuge separato non comporta di per sé l’inidoneità all’affidamento dei figli minori. Il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o a esserne collocatario poiché stabilimento e trasferimento della propria residenza e sede lavorativa costituiscono oggetto di libera e non conculcabile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sulla scorta di tali principi il giudice deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario.

Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 14 maggio 2016 n. 18087

Di fronte alle scelte insindacabili sulla propria residenza compiute dai coniugi separati, i quali non perdono, per il solo fatto che intendono trasferire la propria residenza lontano da quella dell’altro coniuge, l’idoneità a essere collocatari dei figli minori, il giudice ha esclusivamente il dovere di valutare se sia più funzionale al preminente interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò incida negativamente sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non collocatario: conseguenza, questa, comunque ineluttabile, sia nel caso di collocamento presso il genitore che si trasferisce, sia nel caso di collocamento presso il genitore che resta.

Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 12 maggio 2015 n. 9633

     V.            Conflitto genitoriale e residenza del minore. Allorché sussista conflitto genitoriale e il giudice sia chiamato a stabilire il luogo in cui i minori debbano fissare la propria residenza, deve in particolare tenersi conto del tempo trascorso dall’eventuale avvenuto trasferimento, dell’acquisito delle nuove abitudini di vita, di cui è sconsigliabile il repentino mutamento, a maggior ragione se questo debba comportare un distacco dall’uno dei genitori con cui sia pregressa la convivenza stabile.

Tribunale Milano sez. IX, 19/10/2016

  VI.            Trasferimento di residenza della madre e affidamento del minore a settimane alterne. Nel caso in cui la madre si trasferisca in un comune diverso da quello in cui si trova la casa familiare — presso la quale il figlio minore ha sempre vissuto, nei cui pressi frequenta la scuola, le sue amicizie e si dedica allo sport — l’affidamento a settimane alterne a ciascun genitore potrebbe non rivelarsi la soluzione più conforme all’interesse del minore stesso, là dove detta modalità di affidamento dovesse avere come conseguenza tempi di spostamento troppo lunghi per frequentare la scuola e difficoltà nella pratica dello sport da parte di quest’ultimo, pratica che, se gradita, deve essere incentivata, per i suoi effetti positivi sulla stato di salute e sull’interazione sociale del minorenne che la conduce.

Tribunale Civitavecchia, 09/04/2018

  1. Collocazione dei figli e criterio della maternal preference. Il trasferimento della residenza costituisce oggetto di libera e non coercibile opzione dell’individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell’altro coniuge non perde perciò l’idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario, sicché il giudice, ove il primo aspetto non sia in discussione, deve esclusivamente valutare se sia più funzionale all’interesse della prole il collocamento presso l’uno o l’altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non affidatario. Ai fini della decisione il giudice può fare riferimento al criterio della c.d. maternal preference, specie in mancanza di contestazioni sulla valenza scientifica di esso.

Cassazione civile sez. I, 14/09/2016, n.18087

  1. Separazione tra coniugi di nazionalità diversa e affidamento del minore trasferito all’estero: riparto di giurisdizione. In caso di matrimonio celebrato in Italia tra un cittadino italiano e uno britannico con successivo trasferimento della moglie con il figlio in Inghilterra, per le questioni legate alla separazione personale è competente il giudice ordinario, mentre per le questioni che concernono l’affidamento e il mantenimento del figlio minorenne sussiste difetto di giurisdizione del giudice italiano. A dichiararlo sono le sezioni Unite che interpretano così il Regolamento Ce 2201/2003.

Cassazione civile Sezioni unite, 07/09/2016, n.17676

https://www.studiocataldi.it/articoli/35683-figli-il-mantenimento-non-e-per-sempre.aspLa Legge per tutti       28 Agosto 2019

                www.laleggepertutti.it/298554_trasferimento-ex-coniuge-e-affidamento-figli-ultime-sentenze

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI

Figli, il mantenimento non è per sempre

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 19696, 22 luglio 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35683_1.pdf

La Cassazione fa chiarezza sull’obbligo di mantenimento gravante sui genitori e sui criteri per stabilire il raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte dei figli. Se il figlio maggiorenne e vaccinato ha un lavoro, seppur temporaneo e mal retribuito, e poi lo perde, il genitore è obbligato a continuare a mantenerlo? A fare chiarezza in materia è una recente ordinanza della Cassazione.

Nella vicenda trattata dalla Corte, il tribunale di Avellino pronunciando la separazione personale dei coniugi revocava l’obbligo di mantenimento a favore dei figli gravante sul padre, rilevando che entrambi ormai maggiorenni avevano iniziato a lavorare e avevano dimostrato la capacità di produrre reddito. L’ex moglie non ci stava e proponeva appello lamentando che il percepimento di reddito per un certo periodo da parte del figlio minore non giustificava la revoca dell’assegno di mantenimento dato che negli anni successivi egli aveva percepito guadagni molto inferiori o praticamente inesistenti. Quanto al figlio maggiore, la donna sosteneva che lo stesso non aveva ancora completato la sua formazione professionale e che lo svolgimento di attività lavorativa occasionale non poteva considerarsi circostanza idonea al raggiungimento di una situazione di autosufficienza economica.

Le doglianze della donna venivano accolte in appello e il padre adiva dunque la Cassazione. Per la sesta sezione civile, il ricordo dell’uomo è fondato.

L’obbligo del mantenimento. La sentenza della Corte di appello fa consistere l’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli maggiorenni nel sostegno economico cui sono tenuti i genitori sino al raggiungimento e al mantenimento della loro indipendenza economica. Inoltre pone sostanzialmente a carico del genitore la prova della effettiva e stabile autosufficienza o della responsabilità del figlio per la mancata acquisizione di una occupazione che lo renda indipendente.

Tale linea interpretativa, per la S.C. “non è coerente con la giurisprudenza di legittimità e non è condivisa da questo Collegio”. L’obbligo del mantenimento dei genitori consiste infatti, ricordano dal Palazzaccio, “nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente”.

L’onere della prova. La prova del raggiungimento di un sufficiente grado di capacità lavorativa è ricavabile anche in via presuntiva dalla formazione acquisita e dalla esistenza di un mercato del lavoro in cui essa sia spendibile. La prova contraria non può che gravare sul figlio maggiorenne che pur avendo completato il proprio percorso formativo non riesca ad ottenere, per fattori estranei alla sua responsabilità, una sufficiente remunerazione della propria capacità lavorativa.

Tuttavia anche in questa ipotesi vanno valutati, sottolineano i giudici, “una serie di fattori quali la distanza temporale dal completamento della formazione, l’età raggiunta, ovvero gli altri fattori e circostanze che incidano comunque sul tenore di vita del figlio maggiorenne e che di fatto lo rendano non più dipendente dal contributo proveniente dai genitori. Inoltre l’ingresso effettivo nel mondo del lavoro con la percezione di una retribuzione sia pure modesta ma che prelude a una successiva spendita dalla capacità lavorativa a rendimenti crescenti segna la fine dell’obbligo di contribuzione da parte del genitore e la successiva l’eventuale perdita dell’occupazione o il negativo andamento della stessa non comporta la reviviscenza dell’obbligo del genitore al mantenimento” (cfr. tra le altre Cass. n. 6509/2017).

La decisione. Nel caso di specie, il giudice di merito non ha correttamente valutato “la conclusione da parte del figlio del percorso formativo i cui frutti egli utilizza in una attività a carattere professionale, e che secondo una valutazione presuntiva ben potrebbe costituire una fonte di reddito idonea a garantire l’autosufficienza economica a chi la presta”. Quanto al secondo figlio, invece, la corte d’appello non ha valutato “la circostanza dell’acquisizione di una capacità lavorativa tale da assicurargli una retribuzione stabile nell’arco di due anni”.

Da qui l’accoglimento del ricorso e la cassazione della decisione impugnata. La parola passa al giudice del rinvio che dovrà decidere applicando la giurisprudenza di legittimità richiamata.

Newsletter giuridica  Studiocataldi.it –26 agosto 2019 –

www.studiocataldi.it/articoli/35683-figli-il-mantenimento-non-e-per-sempre.asp

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ASSOCIAZIONI       MOVIMENTI

Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari. Giornata di studio

Il consulente familiare e l’adultescenza digitale

Per il ciclo le relazioni al tempo dei social

20 ottobre 2019, ore 8,30-17,30       Bologna, Zanhotel Europa, via Cesare Boldrini 11

L’“adultescenza”, uno tra i problemi emergenti nel tempo dei social, è un neologismo che si applica a tutti coloro che, pur avendo raggiunto biologicamente l’età adulta, presentano un’identità con tratti adolescenziali. In questa Giornata ne analizzeremo le implicazioni relazionali nella coppia, nella famiglia e nella società.                           

v  Assemblea ordinaria dei Soci. Relazioni della Presidente, del Segretario e dei Revisori dei Conti.

v  Le nuove relazioni familiari nell’era digitale, intervento di Francesco Belletti, sociologo, direttore del CISF e dal 2018 Direttore Scientifico del Family International Monitor, Osservatorio Internazionale sulla famiglia                                          http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/chi-siamo.aspx

v  Laboratori prima parte

v  Laboratori seconda parte

v  Feed-back dei gruppi in plenaria

v  Conclusioni e saluti

Laboratori       L’adultescenza Digitale

1 nelle relazioni di coppia. Sinigaglia e Siccardi: Io # te sull’isola che non c’è…l’età adulta fuori!

2 nelle relazioni genitori-figli Margiotta e Rossi: Amò, filiamo dalla discoteca…ho visto mà e pà!

3 nelle relazioni famiglia-società Feretti e Monti: Adultescenti alla carica…quale futuro ci aspetta?

Il Consulente familiare a supporto della società che cambia.

4. nelle relazioni tra consulenti e nell’équipe officina locale dei Consulenti dell’Emilia e Romagna:

Ehi Consulente: come usi il digitale?

5 Come fare per …essere liberi & i professionisti Hawker e Qualiano: Come ti gestisco l’azzeccagarbugli.

Presentazione in sintesi dei contenuti dei Laboratori

https://ilconsulente42.blogspot.com/2019/08/sintesi-dei-laboratori-del-20-ottobre-19.html

                                                           Informazioni, dettagli, prenotazioni 

www.aiccef.it/it/news/la-giornata-di-studio-a-bologna.html

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 31, 28 agosto 2019

People are like garbage trucks. Certe persone sono come un camion della spazzatura. Un vero e proprio calmante, questo breve video, che aiuta a reagire positivamente anche ad offese, insulti e arroganza. Un buon consiglio, al rientro dalle vacanze, per ricominciare con il piede giusto un anno intenso, e per provare a bonificare il linguaggio del dibattito pubblico

www.facebook.com/SimoneMauroShine/videos/1642679309197010

Reddito delle famiglie: Italia Cenerentola del mondo. Gli ultimi dati pubblicati dall’Ocse sono eloquenti: negli ultimi 2 anni il reddito delle famiglie nel nostro Paese è cresciuto solo del 2% rendendoci così fanalino di coda dell’Unione Europea. L’appello di Pietro Boffi (Cisf): «Al centro dei provvedimenti economici del prossimo governo, qualunque esso sia, deve esserci la famiglia. È attorno al potere di acquisto che si gioca buone parte del futuro della nostra economia»

www.famigliacristiana.it/articolo/reddito-delle-famiglie-italia-cenerentola-del-mondo-.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_28_08_2019

Europa. Capable – Enhancing Capabilities? Rethinking Work-life Policies and their Impact from a New Perspective (Rafforzare le capacità/capabilities? Una nuova prospettiva per ripensare le politiche lavorative nell’arco della vita e il loro impatto). Si tratta di un vasto progetto internazionale, avviato nel dicembre 2018 fino a novembre 2023. Esso produrrà una migliore conoscenza sull’impatto delle politiche di conciliazione vita-lavoro rispetto alle capacità e potenzialità (capabilities) di uomini e donne, con specifica attenzione alla dimensione comunitaria

https://worklifecapabilities.com/about/

Tratta e prostituzione a Bergamo e Provincia, Rapporto 2019. A cura della Fondazione GEDAMA . “Offriamo ad amici, volontari, Istituzioni del territorio di Bergamo, Associazioni in rete un semplice Report 2019 sulla tratta e prostituzione a Bergamo e Provincia. Non abbiamo alcuna pretesa di completezza nella descrizione di quanto avviene; semplicemente raccontiamo quello che vediamo e incontriamo in strada”

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf3119_allegato1.pdf

v   Save the date

  • Nord: Ribaltare la scuola. Generare alleanze educative e di cittadinanza, convegno nazionale promosso da Edizioni Meridiana, Mestre (VE), 13 settembre 2019.

www.edizionilameridiana.it/wp-content/uploads/2019/06/13-settembre_programma.pdf

Nord: La missione della famiglia, chiesa domestica nella Scrittura e nel Magistero, Giornata diocesana della Famiglia, promossa dall’Ufficio diocesano per la pastorale della famiglia, Ferrara, 8 settembre 2019.

https://arcidiocesiferraracomacchio.org/pag_evento.php?leggi_tutto=214

  • Centro: Più anziani e più sani: una sfida da realizzare attraverso un SSN moderno e sostenibile, XII Congresso Nazionale della SIMM (Società Italiana Medici Manager), Ancona, 12-13 settembre 2019.

www.medici-manager.it/brochures/brochure-20190912.pdf

  • Sud: 12.o Pellegrinaggio nazionale delle famiglie per la famiglia, promosso da Rinnovamento nello Spirito Santo in collaborazione con altre realtà ecclesiali, Scafati-Pompei, 14 settembre 2019.

www.rns-italia.it/NuovoSito/page/standard/mop_all.php?p_id=426

  • Estero: Integrating Research into Practice and Policy: The Impact on Families and Children (Integrare la ricerca nella pratica e nelle politiche: l’impatto sulle famiglie e sui bambini), convegno autunnale promosso da AFCC (Association of Family and Conciliation Courts), Pittsburg (Usa), 31 ottobre-2 novembre 2019.

www.afccnet.org/Portals/0/Conferences/Conference%20Brochure.pdf?ver=2019-07-11-142432-793

Iscrizione                  http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio        http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

            newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/agosto2019/5136/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Se ai cattolici italiani ancora manca una fede adulta

Mi chiedo quanto ancora abbia senso parlare del “ruolo” dei cattolici nella politica. A scanso di equivoci dico subito che è proprio dell’essere cattolici la dimensione politica: una fede che non si incarna nelle pieghe più drammatiche e complesse della vicenda umana e non si traduce in progetto di liberazione, si riduce a mera ideologia, a religione civile. Perde la sua sostanza teologica ed escatologica: ci è stato insegnato infatti che il cristianesimo è prendere parte, a partire dalla parte migliore che è l’ascolto della Parola. Dall’ascolto discende la lettura dei segni dei tempi, l’invito a scendere da cavallo e a chinarsi sull’uomo ferito, derubato, scartato, la rottura degli ormeggi del formalismo religioso e del tradizionalismo bigotto, l’apertura all’altro, la scommessa sulla vita di tutti, l’adesione ad una prospettiva paradossale: si è nella storia ma non si è della storia, si è segno di contraddizione per cui non c’è mai uno status quo insuperabile, un limite invalicabile, un confine irresistibile.

Proprio una fede paradossale dovrebbe spingere il cattolico non solo a disertare i fronti politici in cui il primato non è della persona ma di un fantomatico popolo (quale popolo in una crescente globalizzazione?), di una malintesa nazione, di un bieco sovranismo fondato sull’odio e sulla discriminazione, ma anche a non immaginarsi all’interno di un fronte compatto. C’è un retro pensiero non detto dietro il tema del ruolo dei cattolici in politica: il ritorno a forme di presenza ormai superate della storia: la Democrazia Cristiana di De Gasperi, di Dossetti e di Moro aveva, grazie alla influenza esercitata da Montini, il mondo cattolico pressoché unanime quale proprio retroterra elettorale, reso ancora più granitico a causa del pericolo comunista. Il crollo del muro di Berlino, oltre alla fine del maggior competitore della Dc, ha prodotto la fine dell’unità politica dei cattolici.

Oggi non è più Maritain, il filosofo francese che ha dato sostanza culturale ai vari partiti d’ispirazione cristiana in Europa, ma semmai un altro filosofo francese, tra i fondatori del personalismo comunitario, Mounier, che aiuta a cogliere le nuove modalità in cui può prendere corpo l’impegno politico del cristiano: una responsabilità esercitata in proprio senza nessun coinvolgimento della comunità ecclesiale; in autonomia, cioè laicamente, senza alcun richiamo a simboli religiosi e a legittimazioni clericali.

La questione, a questo punto, si esprime nella seguente domanda: ci sono cattolici che incarnano questa spiritualità? E prima ancora: ci sono cattolici che sono stati formati a scommettere la propria responsabilità politica nella dimensione escatologica dell’essere segno di contraddizione?

È del tutto evidente che in questo momento storico si assiste ad uno iato crescente tra la pastorale evangelica di Papa Francesco e la maggioranza dei battezzati. Non è una novità. Anche negli anni del nazionalismo fascista la maggioranza dei cattolici aderiva entusiasticamente ai proclami del “capitano” di allora. La stessa gerarchia garantiva una certa copertura ecclesiastica al regime, forte del sostegno vaticano. Oggi l’episcopato italiano fa difficoltà a recepire le linee del magistero del Papa: non è un caso che lo stesso pontefice abbia insistito di recente sullo stato di ricezione delle indicazioni pastorali contenute nel discorso pronunciato in occasione del convegno ecclesiale di Firenze del 2015. Chi si ricorda le parole del Papa? Quanti sono i Vescovi che nelle rispettive diocesi hanno abbozzato qualche orientamento pastorale nella direzione del cambiamento auspicata da Francesco? Quanti sono i Pastori animati dalla stessa passione di riforma della Chiesa? Ciò che sconcerta non sono quei pochi che hanno il coraggio di dissentire e che servendosi abilmente dei moderni canali di comunicazione rumoreggiano come se fossero intere schiere di oppositori. Sconcerta invece la massa dorotea dei Vescovi, quel corpaccione dell’episcopato adagiato sul “si è fatto sempre così”, non attrezzato culturalmente alla sfida, abituato a immaginarsi esclusivamente come potere, impegnato a “sopire, troncare” proprio come il padre provinciale nei Promessi Sposi, in attesa che arrivino tempi più tranquilli, in cui il loro comodo amministrare non sia messo in discussione.

“Più la chiesa si riforma e si conforma al Cristo Signore – osserva Enzo Bianchi – meno nella chiesa si sta quieti, ma emergono la divisione, la contrapposizione, la contraddizione…Cristiani che si dicono tali e si pongono quali difensori dell’identità confessionale, ma poi restano sordi alla voce del Vangelo; e d’altra parte cristiani che, dando il primato al Vangelo e non alle tradizioni religiose umane, sono disprezzati, giudicati ingenui, buonisti o addirittura vigliacchi: cristiani del campanile e cristiani del Vangelo!”. I primi, nonostante l’insegnamento di Francesco sembrano prevalere. Non può essere diversamente fino a quando la religione, come insieme di abitudini e di consuetudini, non cederà il passo ad una fede adulta, fatta più di ascolto che di prediche.

A tal fine un ruolo importante possono avere alcuni luoghi di pensiero come le scuole di formazione politica promosse sul territorio da diocesi e associazioni laicali, dalla stessa Università Cattolica. Ma non basta. Tanto per iniziare, forse, ci vorrebbe un Sinodo della Chiesa italiana, occasione privilegiata per aprire le finestre e far cambiare l’aria, in cui con franchezza e coraggio si cominci davvero a creare un’opinione pubblica nella Chiesa.

E pazienza se poi dal confronto schietto e trasparente si esca divisi: o sinceramente “lievito e sale” o sinceramente “mondani”. Sul piano politico: o sinceramente conservatori o sinceramente democratici. Solo a questo punto si potrà parlare del ruolo dei cattolici nel dibattito politico, non a partire da un’etichetta astratta ma dalle soluzioni concrete alle questioni riguardanti la vita delle persone e delle comunità.

Luigi Lochi     23 agosto 2019

www.c3dem.it/se-ai-cattolici-italiani-ancora-manca-una-fede-adulta

 

«Cristiani antidoto al sovranismo, ma anche alla realtà semplificata»

L’arcivescovo di Bologna al seminario del Movimento Cristiano Lavoratori a Senigallia riprende l’analisi del presidente Carlo Costalli: la vera minaccia è la delegittimazione dei corpi intermedi. Associazioni e movimenti devono mettersi in gioco

            I cattolici sono meno divisi di un tempo in politica e a ricompattarli è l’insofferenza per populisti e sovranisti. Parola di don Matteo: «I populismi seminano il sospetto e creano una post-verità in cui tutto sembra uguale ed invece non lo è. Semplificano la realtà dell’economia, delle famiglie, della povertà, che invece è complessa. Ridicolizzano le istituzioni e conducono al plebiscitarismo…» L’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi – che i fedeli chiamano “don Matteo” da quand’era parroco in Trastevere, prima di diventare vescovo ausiliare di Roma – tra qualche settimana sarà creato cardinale e nella sua prima uscita pubblica dopo la nomina ha descritto l’associazionismo cattolico come una rete alternativa al populismo e al sovranismo.

«Ha ragione Costalli quando dice che la vera minaccia è la delegittimazione dei corpi intermedi, che fanno la fatica di collegare i pezzi dei problemi e cercano di rammendare un Paese lacerato», ha spiegato intervenendo al secondo giorno del seminario del Movimento cristiano lavoratori a Senigallia. Poco prima, e dopo i saluti del vescovo di Senigallia Francesco Manenti e del nuovo assistente nazionale Mcl don Francesco Poli, era intervenuto infatti il presidente di Mcl Carlo Costalli, il quale aveva dichiarato che «negli ultimi anni, con Renzi e fino all’ultimo governo, i corpi intermedi sono finiti sotto tiro, la disintermediazione ha colpito al cuore anche un Paese come l’Italia che ha sempre potuto vantare una presenza e una vivacità della società civile.

            La grande trasformazione in cui siamo immersi ha riproposto in modo nuovo la contraddizione della prima modernità, con la destrutturazione dei corpi intermedi verso l’utopia di un mondo interconnesso e disintermediato. I poli di riferimento non sono più lo Stato e il cittadino, ma lo spazio dei flussi e le moltitudini di utenti/clienti. La grande questione dell’essere corpo intermedio nella società liquida, dove massima è la potenza dei mezzi e scarsi sono gli obiettivi, è che senza un forte pensiero di libertà e senza una critica matura verso le promesse di una società accelerata e dell’innovazione come fine, non sarà facile fare i conti con la frammentazione sociale».

            L’arcivescovo ha detto che «l’antidoto al populismo, come ci insegna papa Francesco, è l’umanesimo cristiano e la ricostruzione di reti è l’unico modo per affrontare la grande solitudine del nostro tempo. Certo, i corpi intermedi devono ridisegnarsi e imparare ad abbassarsi, come Cristo». Quindi, ha constatato che «oggi nel mondo cattolico si avverte questa esigenza e certi antagonismi del passato sono diventati molto relativi: questa è una grande opportunità che si presenta ad associazioni e movimenti, che, pur senza perdere la loro soggettività, devono cercare questa collaborazione».

        Zuppi ha contrapposto la visione dell’umanesimo cristiano a quella dei sovranismi che «cedono alla tentazione di amplificare il piccolo» e ha chiarito che «la testimonianza non basta», esortando movimenti e associazioni a «non farsi fregare, a non accontentarsi delle frattaglie, mettendosi al servizio, di fatto dei sovranismi». I corpi intermedi, cui è dedicato il seminario di Senigallia, sono invece uno strumento per cogliere la complessità dei problemi dei giovani e delle famiglie, «per le quali le istituzioni fanno troppo poco».

            Quindi, parlando dell’Europa, l’arcivescovo ha spiegato che «indipendenza e sovranità vengono confuse: gli Stati possono essere formalmente indipendenti e non essere sovrani perché le decisioni si prendono altrove; invece, limitando l’indipendenza degli Stati europei con l’interdipendenza di una moneta, un esercito, un fisco comuni, si garantisce la difesa della loro sovranità. L’alternativa è dunque andare a libro paga di potenze straniere o fare dell’Europa un museo». Il futuro porporato è convinto che a livello europeo si possano affermare le proprie ragioni, ma che il sovranismo sia sterile: «Va bene dare una spallata ma poi quelli sono i tuoi interlocutori: i sovranisti sono indipendentisti che non fanno il bene del loro Paese», ha concluso.

Paolo Viana    Avvenire         7 settembre 2019

www.avvenire.it/attualita/pagine/cristiani-antidoto-a-sovranismo

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CITAZIONI

                                                             In principio non era così                       

La questione dei divorziati risposati nella chiesa –della possibilità della loro ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia e, in termini più ampi, del riconoscimento del loro secondo matrimonio –esige, per essere affrontata correttamente, che si pervenga, da un lato, a una corretta interpretazione del messaggio neotestamentario circa l’indissolubilità e che non si rinunci nello stesso tempo a tenere, dall’altro, in seria considerazione le difficoltà che, in molti casi, si incontrano a vivere una scelta, come quella matrimoniale, quale scelta per la vita (e per la morte). A questi due versanti in apparenza non strettamente tra loro connessi (ma in realtà, come si vedrà, convergenti) sono dedicate le riflessioni che vengono qui proposte, che intendono, anzitutto, fornire una chiave di lettura teologico-morale dei testi del Nuovo Testamento relativi all’indissolubilità (I); per affrontare, in seguito, in una prospettiva antropologico-etica, la questione della fedeltà per la vita o, più precisamente il tema delle cosiddette decisioni irrevocabili, e definirne il vero significato (II).

  1. Il significato teologico-morale dell’indissolubilità Le parole di Gesù sull’indissolubilità sono riportate, con leggere varianti, che non ne modificano la sostanza, in quattro passi dei vangeli (Mt 5, 31; 19, 3-39; Mc 10, 2-12; Lc 16,18) e in un passo della prima lettera ai Corinzi (7, 10-11). Mentre tuttavia Luca fa semplicemente un rapido accenno, Marco e Matteo offrono una versione più ampia pur con alcune differenze dovute alle diverse sensibilità delle comunità cui si rivolgono. Matteo ha infatti come referente la comunità giudeo-cristiana e Marco le comunità provenienti dal mondo pagano. Senza trascurare gli altri testi, privilegiamo qui il loghion [detto di Gesù] di Matteo 19 perché sembra la versione più vicina all’originale. In esso si legge:

3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4 Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5 Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? 6 Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi». 7 Gli obiettarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?». 8 Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. 9 Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio».                 

Il contesto è quello di una disputa di Gesù con i farisei che lo interrogano “per metterlo alla prova”. Per comprendere tuttavia le ragioni della domanda e il senso della risposta è necessario tenere in considerazione la prassi veterotestamentaria sul ripudio esposta nel testo di Dt 24, 1-4. La genericità dei motivi addotti per ricorrervi – “ha trovato in lei qualcosa di vergognoso” (o di “indecente”) –ha dato luogo all’affermarsi di una disputa serrata con interpretazioni diverse tra le scuole rabbiniche. Al tempo di Gesù due di esse si contendevano il campo: la scuola di Shammai rigorista, che ammetteva il ripudio solo nel caso di adulterio, e la scuola di Hillel, più permissiva, che lo permetteva anche per motivi molto banali (quest’ultima tesi aveva la prevalenza).

La domanda dei farisei è, dunque, incentrata su quel “per qualsiasi motivo”; essi intendono capire cioè se Gesù fa sua la posizione più permissiva o quella più rigorista. Ma la risposta di Gesù scavalca la domanda in modo perentorio: nessuna ragione giustifica il ripudio! E ai farisei che obiettano scandalizzati che la legge mosaica lo ammette, egli replica che tale ammissione è dovuta alla “durezza di cuore” (sklerocardia), ma che “in principio non era così” (v. 8). La regolazione introdotta dalla legislazione mosaica è una forma di mediazione, che fa proprio il criterio del male minore, in una situazione compromessa dalla presenza del peccato.

La condizione nuova creatasi con l’ingresso di Gesù nella storia e la venuta del regno di Dio rende possibile l’adesione all’ordine creazionale. Grazie alla redenzione, l’amore umano gode di una nuova condizione di grazia; è reso partecipe –come già ricordato –dell’agape divina. La situazione escatologica è tuttavia, nello stesso tempo, più e meno dello stato protologico; è più perché la redenzione pone l’uomo in uno status di piena figliolanza divina, figli nel Figlio; è meno perché le cicatrici del peccato sono ancora presenti, e la liberazione è data all’uomo come inizio e caparra. Il ritorno all’in principio, al paradigma originario, va dunque letto nella prospettiva del “già” e del “non ancora”, come qualcosa con cui si ha già a che fare fin d’ora, ma che costituisce anche il fine cui tendere, qualcosa dunque che avrà il suo pieno compimento solo nel futuro assoluto.

  1. Una norma escatologico-profetica. Letta in quest’ottica, la radicalità del messaggio di Gesù sull’indissolubilità non ha il carattere di una norma giuridica, ma ha piuttosto il significato di un imperativo profetico, di un ideale di perfezione. Considerare il pronunciamento sull’indissolubilità come una nuova codificazione legale –ha scritto Giuseppe Barbaglio –equivarrebbe a misconoscere il vero significato di un’affermazione profetica. L’indissolubilità più che una clausola giuridica del matrimonio è l’esigenza inderogabile con cui gli sposi devono confrontarsi, è una vocazione radicale d’amore a cui la fede nel regno di Dio chiama i credenti. L’interpretazione di Barbaglio (e di molti altri biblisti) trova peraltro conferma nell’ambito della teologia morale, dove si distinguono due tipologie di norme: le norme precetto, che sono norme chiuse, le quali esigono un’adesione totale e incondizionata (senza eccezioni) –tali sono, ad esempio, i precetti della seconda tavola del Decalogo espressi peraltro in forma imperativo-negativa –e le norme escatologico-profetiche, che sono invece norme aperte, finalistiche, che rinviano ad un ideale di perfezione –tali sono le “beatitudini” e i “ma io vi dico” del discorso della montagna –e che conferiscono pertanto all’esistenza cristiana i connotati di un cammino di permanente conversione. Anche in quest’ultimo caso non va eluso il carattere normativo –non si tratta, infatti, di pii consigli per una casta di eletti ma di veri e propri riferimenti obbliganti per chi vuole porsi alla sequela di Gesù -; ma la normatività è nel tendere costantemente verso, facendo spazio ad inevitabili forme di mediazione dettate dalle situazioni particolari.

L’indissolubilità del matrimonio proclamata da Gesù andrebbe dunque interpretata non nella prospettiva di una norma-precetto che vincola in assoluto il presente, pur potendo (e dovendo) già essere in esso perseguita, ma come profezia del futuro escatologico. Essa acquisterebbe così il significato di un’indicazione circa la volontà e il progetto di Dio; un ideale a cui tendere dunque, che si realizzerà pienamente soltanto alla fine dei tempi. Così considerata l’indissolubilità non può certo tradursi immediatamente in legge o in disciplina ecclesiastica, ma ha bisogno, per diventare tale, di un’opera di mediazione o di adattamento, che non può prescindere dall’attenzione alle condizioni concrete in cui l’esperienza umana si sviluppa, e deve in particolare tener in conto la debolezza umana.

2. Le eccezioni neotestamentarie. A fare da supporto a questa interpretazione concorrono una serie di fatti significativi che meritano di essere segnalati. Il primo è costituito dalla considerazione che la proposta di Gesù è inserita da Matteo, oltre che nel contesto della disputa con i farisei, anche nell’ambito del discorso della montagna: Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5, 31-32).

Si tratta del discorso morale per eccellenza del Nuovo Testamento, le cui norme, lungi dall’essere norme-precetto, sono norme escatologico-profetiche, che hanno come obiettivo ultimo il “siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Ciò a cui alludono è dunque una direzione verso cui andare; un cammino da intraprendere verso una meta che sta sempre davanti e oltre.

Il secondo fatto si riferisce, invece, alla presenza nei testi neotestamentari di alcune eccezioni alla radicalità del messaggio di Gesù. Significativo è, anzitutto, a tale riguardo, il famoso inciso del vangelo di Matteo, che si trova in ambedue i passi citati (Mt 5, 32; 19, 9) e che viene normalmente ritenuto un’aggiunta dell’evangelista, il quale tenderebbe a realizzare una sorta di adattamento dell’insegnamento di Gesù alla situazione particolare della sua chiesa, composta da giudeo-cristiani particolarmente sensibili all’esigenza di salvaguardare la continuità con la tradizione mosaica. Comunque s’intenda il termine porneia –la traduzione ancor oggi più corretta sembra essere “adulterio” (le chiese ortodosse lo hanno sempre inteso così) –ciò che appare evidente è l’ammissione di una deroga da parte di Matteo al rigore dell’indissolubilità evangelica.

Analogo significato va attribuito al cosiddetto “privilegio paolino” (1 Cor 7, 12-16), dove viene affrontato il caso dei matrimoni, in cui uno dei due coniugi abbraccia in seguito la fede cristiana. La posizione che l’apostolo assume, attribuendola esclusivamente a se stesso (“Agli altri dico io, non il Signore”, v. 12), prevede, nel caso in cui il coniuge non convertito accetti la situazione, il mantenimento del legame –il coniuge non credente e i figli vengono infatti santificati dal coniuge credente –; ma riconosce, laddove si creino delle serie difficoltà di coabitazione, la piena libertà di separarsi (secondo alcuni anche di adire a nuove nozze). Siamo anche qui di fronte a una certa relativizzazione del valore dell’indissolubilità in favore della fede; indissolubilità che più che un valore umano appare come un’istanza evangelica che può essere compresa soltanto all’interno di una prospettiva di fede, e che non può pertanto essere ridotta a mero fatto etico-giuridico.

Le questioni sollevate da ambedue i casi sono senz’altro complesse e vanno viste, per essere correttamente interpretate, nel particolare contesto delle primitive comunità cristiane e in riferimento ai problemi in esse emergenti. E’ quanto osserva giustamente G. Dianin, il quale scrive:

“L’inciso di Matteo e il cosiddetto privilegio paolino sembrano riguardare un piano più operativo riferito alle problematiche delle primitive comunità cristiane. Hoffmann sintetizza i diversi elementi del problema riconoscendo le difficoltà, a livello esegetico, di arrivare a una interpretazione univoca della questione. L’uso molteplice della parola porneia non permette alcuna conclusione in forza dei soli reperti filologici, perciò è necessario chiamare in causa il contesto. Le prime comunità avevano bisogno di precetti chiari e il Nuovo Testamento testimonia che ciò avvenne in modi molto diversi; la richiesta di Gesù, che rimaneva generale, venne interpretata ora come insegnamento etico, ora come prescrizione legale. “La comunità cristiana, pur mantenendosi legata alla parola di Gesù, non la considerò in alcun modo come legge, ma come imperativo che richiede una sempre nuova interpretazione” (P. Hoffmann, Le parole di Gesù sul divorzio e la loro interpretazione neotestamentaria, in: Concilium, 6/1970, p. 849). E mentre Marco evidenzia l’insopprimibile unità del matrimonio, motivandola con il richiamo all’opera creatrice di Dio, Matteo segue la medesima strada, ma ammette il divorzio in caso di adulterio, riconoscendo che, in questo caso, l’unità del matrimonio non esiste più de facto. E’ difficile contestare che quella di Matteo sia proprio un’eccezione pensata per la sua comunità all’interno della controversia tra le scuole di Shammaie di Hillel. Paolo si trova di fronte al problema nuovo del matrimonio tra un pagano e un convertito al cristianesimo e se, in linea generale, questo non dovrebbe essere un problema, in casi particolari potrebbe diventarlo; allora il matrimonio può essere sciolto in favore della fede, dopo aver preso atto della chiusura totale della parte pagana”

Ciò che emerge con chiarezza da ambedue i testi ricordati è un’interpretazione non legalistica della posizione di Gesù e l’esigenza conseguente della primitiva comunità cristiana -esigenza di cui si sono fatti carico sia Matteo che Paolo –di mettere in atto, sul terreno pastorale, una mediazione, che ne renda possibile l’adesione entro i limiti della debolezza della condizione umana.

L’interpretazione dell’indissolubilità come norma escatologico-profetica risulta, dunque, nei due casi evidente. [Un’altra eccezione alla radicalità evangelica dell’indissolubilità (peraltro da sempre accettata, senza esitazione, dalla chiesa cattolica) è la possibilità per le vedove di passare alle seconde nozze: “Una donna è legata per tutto il tempo in cui vive suo marito; ma quando il marito è morto, è libera di sposarsi con chi vuole, solo nel Signore” (1 Cor 7, 39). Paolo si assume, anche in questo caso, la responsabilità diretta della presa di posizione, suggerendo la casta vedovanza come la soluzione migliore, ma riconoscendo la libertà della vedova, perciò il diritto che ha di risposarsi. Di per sé la radicalità evangelica dell’indissolubilità supporrebbe che il vincolo matrimoniale non possa cessare neppure con la morte di uno dei due coniugi.]

II. La fedeltà per la vita: il limite delle scelte irrevocabili. L’altro versante della riflessione di ordine antropologico-etico riguarda l’idea di fedeltà per la vita (e per la morte) e, conseguentemente, il valore e il limite delle cosiddette “scelte irrevocabili”, le scelte che riguardano cioè gli stati di vita. L’indissolubilità è infatti la ricaduta, sul piano istituzionale, di una fedeltà assoluta e incondizionata, senza alcuna limitazione.

  1. 1.      La fedeltà come fattore costitutivo dell’amore coniugale. Ora è indubbio che l’amore coniugale, che sta a fondamento del matrimonio (come lo si intende oggi in un’accezione personalista), in quanto incontro di persone che tendono a una comunione totale attraverso il dono reciproco, porta connaturata dentro di sé l’esigenza di una fedeltà radicale. La fedeltà non può che essere il contesto entro il quale l’amore coniugale si sviluppa e la legge fondamentale del suo stesso sviluppo. L’amore autentico implica infatti, da un lato, il darsi all’altro in modo totale e definitivo; e comporta, dall’altro, un crescere gradualmente, superando costantemente se stessi. La conferma viene dall’esperienza dell’innamoramento. Le espressioni che i fidanzati si scambiano quando giungono seriamente a decidersi per il matrimonio sono contrassegnate dalla tensione all’unicità del rapporto e allo scavalcamento del tempo: “Amo te solo (a), amo te sempre”. Questo sta ad indicare che all’inizio di ogni esperienza d’amore genuino è presente (e non può non esserlo) l’aspirazione a una comunione che si protende nel tempo fino a proiettarsi verso l’eterno.

Si deve aggiungere che il dono reciproco tra i coniugi si incarna spesso in una terza persona, il figlio: esso è la realtà, divenuta oggettiva, del dono di vita che uomo e donna si sono scambiati e il compimento di tale dono. La procreazione, quando è atto pienamente umano, esige continuità e stabilità di rapporto. Deve, infatti, essere preparata nell’amore, vissuta nell’amore, portata a compimento nell’amore. Il figlio mentre, infatti, conferisce, da un lato, al rapporto una dimensione di stabilità, necessita a sua volta, dall’altro, di uno stato di fedeltà, che è condizione perché possa sviluppare positivamente la propria identità personale.

La fedeltà nell’amore ha, poi, una ragione ulteriore; risponde all’esigenza di essere fedeli a se stessi; un’esigenza irrinunciabile, perché rappresenta l’unico modo per potersi realizzare. La scelta matrimoniale, come tutte le altre scelte di vita che incidono sulla strutturazione profonda dell’esistenza, implica un particolare coinvolgimento di sé, capace di far sentire chi la vive come custode e artefice dell’unità della propria vita. L’irrevocabilità è perciò legata tanto all’irripetibilità della persona quanto alla peculiarità della scelta che coinvolge l’esistenza nella sua globalità.

La fedeltà corrisponde, dunque, all’intima dinamica dell’amore coniugale, tendenzialmente unico e destinato a durare nel tempo. Essa è, ce lo ricorda Thomas Mann,

“Il grande vantaggio dell’amore comandato dalla natura, dell’amore generante, possibile nel matrimonio… In realtà il matrimonio è tanto un effetto e un prodotto dell’istinto di fedeltà, quanto il suo generatore, la sua scuola, il suo terreno, il suo custode. L’uno e l’altra formano una cosa sola: è impossibile dire chi sia nato prima, il matrimonio o la fedeltà.”

  1. 2.      La questione del tempo. A mettere in difficoltà la fedeltà è il complesso rapporto dell’uomo con il tempo. L’amore coniugale ha in sé la tensione a superare il tempo, ma deve contemporaneamente fare i conti con esso; deve accettarne la sfida. Si inserisce qui il tema delle cosiddette “scelte irrevocabili” che riguardano l’ingresso nei diversi stati di vita. La domanda che inevitabilmente affiora è la seguente: è possibile contrarre in un tempo cronologico particolare la scelta di legarsi per sempre a uno stato di vita, ritenendosi vincolati in coscienza per tutta la vita? In altre parole, è possibile decidere, in termini radicali, ora per allora (nunc pro tunc), scavalcando la distanza che sussiste tra presente e futuro?

Già, a suo tempo, Tommaso d’Aquino, affrontando la questione di tali scelte, asseriva che si tratta di “scelte nelle quali l’uomo intende decidere di tutto se stesso, ma non decide mai totalmente” (de se ipso toto, sed non totaliter). In esse si esprime infatti la volontà dell’uomo di coinvolgere l’intera esistenza, ma attuandosi in uno spazio e in un tempo circoscritti nei quali non è possibile conoscere e tanto meno padroneggiare quanto accadrà in futuro in contesti nuovi e diversi, esse non possono che avere un carattere limitato e parziale. La immutabilità radicale della scelta presupporrebbe una contrazione del matrimonio in ascolto del tempo sul presente, e non invece il suo dispiegarsi in momenti successivi i quali fanno sì che il futuro non possa che rimanere una realtà velata ed incognita.

Ha origine così la possibilità che anche le scelte matrimoniali, fatte con le migliori intenzioni e con la più grande serietà, vengano messe in discussione attraverso un processo di graduale deterioramento e allentamento, fino a venir meno. L’amore coniugale è una realtà fragile, che va custodita con cura: le situazioni nuove cambiano infatti le persone e modificano le modalità e il senso dei rapporti, con l’insorgere talora di difficoltà insormontabili, che hanno come esito l’impossibilità di una convivenza serena e feconda.

  1. 3.       Il senso autentico della fedeltà. Questa visione realistica delle scelte di vita ci aiuta infine a definire, in termini più corretti, il significato autentico della fedeltà. La vera fedeltà non è passiva e ripetitiva, ma attiva e creativa; esige il costante sforzo di integrare all’interno dell’impegno assunto i cambiamenti che inevitabilmente sopraggiungono. La scelta iniziale va pertanto di continuo rinnovata, superando i momenti difficili e le conflittualità della vita quotidiana, con la tensione ad aprirsi permanentemente al futuro. La fedeltà è, come ha scritto J. De Finance, “una fedeltà che risulta da una scelta insieme definitiva e perpetuamente rinnovata: definitiva perché fondata su valori eterni; perpetuamente rinnovata, perché essendo il soggetto e l’ambiente entro il quale si sviluppa inseriti nel tempo, non potrà mantenersi che al prezzo di un incessante sforzo di adattamento e di creazione”.

La vita a due è dunque una vita di costante adattamento e riadattamento, che si sviluppa attraverso un progressivo dialogo, una crescente comunicazione. Il tempo è la condizione di questo sviluppo; esso consente all’amore di approfondirsi, fino a raggiungere la piena maturità umana. La fedeltà non è perciò una realtà conseguita una volta per tutte, ma un compito da perseguire mediante un rinnovamento continuo del rapporto. Essa è –come si è già ricordato –la capacità di vincere le resistenze che vengono da situazioni nuove e impreviste, piegandole positivamente alle esigenze della propria scelta originaria. E’ la capacità di riscegliere ogni giorno, in modo nuovo e diverso, sulla scorta della scelta compiuta una volta per tutte. La dispersione dello spazio e del tempo –osserva acutamente M.  Navoncelle –è certo una condizione della fedeltà terrestre. Se la vita non ci sparpagliasse, la fedeltà non dovrebbe precedere con la fede il termine che essa afferma e al quale si consacra. Ma il ruolo della fedeltà è precisamente quello di invertire il tempo per compiere la persona. Al movimento di deriva che ci impone la natura, essa sostituisce la continuità eterna e l’iniziativa insostituibile che la nostra vocazione ci propone.  O piuttosto trasforma i ritmi. Da un avvenimento che ci travolge, essa trae un ricordo che dimora; di un ostacolo che ci arresta, essa fa un trampolino che ci eleva. Ha la funzione, insomma, di salvare l’incontro spaziale nella nostra durata e, in tal senso, di tempora lizzare lo spazio e di eternizzare così il tempo.

Concludendo, interpretazione teologico-morale dell’indissolubilità evangelica come norma escatologico-profetica o ideale di perfezione e attenzione realistica alla condizione umana e ai suoi limiti convergono nel mettere in evidenza la necessità di una mediazione pastorale e giuridica dell’istanza della fedeltà per la vita di fronte a situazioni divenute incompatibili con il perseguimento dell’ideale evangelico. Sembra essere questa un’esigenza che prende corpo in una forma di giustizia, la quale ha la sua espressione più alta e più vera nella misericordia.

Relazione al convegno: Separati, divorziati, risposati Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio Bologna 13 settembre 2014

            Giannino Piana          Matrimonio in ascolto delle relazioni d’amore -n. 4/2014

https://rivista-matrimonio.org/images/filespdf/Quaderni/Quaderno_27%204-2014-Piana.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

                                        Mantova. Etica, salute e famiglia. Settembre 2019

  • Suicido assistito, l’apertura del Comitato Nazionale di Bioetica. Nessuna raccomandazione favorevole, ma solo un parere                                                                                         Armando Savignano
  • Tu chiamale (se vuoi) emozioni: un’esperienza di gruppo per adolescenti presso il consultorio

Paolo Breviglieri

  • Le cure palliative pediatriche. La presa in carico del bambino con malattia inguaribile      Aldo Basso
  • Le catene invisibili. Convegno diocesano sulle nuove dipendenze                Stefano Menegola
  • Esami a “Scuola senza frontiere”                                                              Anna Orlandi Pincella
  • Attività del consultorio. Ciclo di incontri per genitori di adolescenti                     C. Cometa, G. Cesa
  • La sindrome del bambino scosso, se ne parla ancora troppo poco                     Alessandra Venegoni       

Un’esperienza di gruppo per adolescenti presso il consultorio

Nel presente contributo si intende illustrare un’esperienza che dal 2017 si sta conducendo presso il consultorio familiare di Suzzara (ASST Provincia di Mantova); si tratta di un gruppo con scopi preventivi e di supporto psicologico rivolto ad adolescenti nella fascia d’età 15-20 anni. L’idea e la motivazione ad intraprendere tale intervento nasce dalla frequenza con cui le consulenze psicologiche rivolte agli adolescenti intercettano un’area di fragilità che non si configura come franca psicopatologia ma come una sorta di arresto o di incompiuto processo di maturazione di alcune funzioni fondamentali nella vita sociale e psichica. Tra queste ricorre senza dubbio la difficile gestione emotiva sia sul versante dell’impulsività che dell’inibizione e la fatica a costruire relazioni e comunicazioni non aggressive o passive nei contesti familiari e amicali. Per lavorare su queste aree di sviluppo mi sono reso conto che poteva essere appropriato, accanto ad una presa in carico individuale e familiare, anche un intervento gruppale che potesse sfruttare meccanismi di confronto, rispecchiamento, mutuo aiuto e soprattutto accrescere la percezione di autoefficacia e di resilienza rispetto alle situazioni problematiche.

Il titolo “Tu chiamale (se vuoi) emozioni”, introduce già alcuni temi del lavoro proposto ai ragazzi: il “chiamare” fa riferimento al presupposto fondamentale che consiste nel creare uno spazio di consapevolezza di sé che permetta al ragazzo di riconoscere e nominare le emozioni e anche i pensieri che lo attraversano in un dato momento. Il termine “se vuoi” si riferisce ad un’assunzione di responsabilità rispetto ai propri stati mentali. Questo elemento è importante perché è ciò che costantemente viene proposto nel gruppo dopo una certa analisi del problema con le domande: “che cosa si può fare per…”, “cosa decidi di fare…”, “come puoi reagire a…”. Il termine “emozione” indica l’area centrale di cui ci occupiamo che per i ragazzi costituisce quel grande universo spesso indomabile e indefinito che li fa agire e reagire in preda a forze che sentono spesso troppo potenti. Riuscire a definire questo universo emotivo acquisendo anche un modello semplificato del suo funzionamento, comprendere l’origine funzionale di queste reazioni, il loro valore in qualche misura adattivo, le modalità di regolazione dello stesso, costituisce un punto importante del percorso che abbiamo proposto.

Tra gli ingredienti di questo lavoro vi è anche una componente psicoeducativa che è illustrata dalla seguente metafora: per saper guidare meglio la macchina è utile sapere come funziona e perché risponde in un certo modo. Formazione del gruppo e caratteristiche dei partecipanti Come anticipato, i ragazzi vengono invitati dopo una serie di colloqui di consulenza psicologica che talvolta continua parallelamente al gruppo stesso, mentre altre volte si sospende. In alcuni casi i ragazzi hanno invitato un loro amico\a. E’ stata sempre data la possibilità di coinvolgere dei compagni interessati previo un breve colloquio di conoscenza.

Complessivamente dal 2017 ad oggi sono stati coinvolti nel gruppo 25 ragazzi con un’età media di 16-18 anni. Le problematiche presentate sono piuttosto articolate ma si possono focalizzare attorno ai seguenti nuclei:

  • Comportamenti di rabbia esplosiva, di gesti impulsivi autolesivi, di rotture relazionali drastiche (per due soggetti ciò si è tradotto in Tentati Suicidio);
  • Comportamenti di inibizione sociale, ritiro, reazioni a situazioni di bullismo (uno dei soggetti presenta una forma di mutismo selettivo);
  • Depressione e rabbia a fronte a conflitti, carenze o rifiuti familiari importanti (in 5 casi un genitore era completamente assente).

Si nota nel gruppo la presenza significativa di ragazzi in adozione (4 ragazzi) e in 4 casi vi è anche una presa in carico di tipo psichiatrico o neuropsichiatrico. Accanto a queste problematiche il gruppo presenta anche potenzialità interessanti ed eterogenee che lo rendono ben adatto anche a sostenere meccanismi di mutuo aiuto e peer education [educazione tra pari] (5 ragazzi sono studenti universitari, 4 frequentano con successo una scuola superiore quinquennale, 2 lavorano stabilmente).

Obiettivi. Il gruppo ha la funzione di costituirsi come ambiente facilitante per realizzare diversi obiettivi comuni ai partecipanti:

  • Riconoscere gli stati emotivi, la loro causa e i loro effetti
  • Riuscire a verbalizzare gli stati emotivi e a condividerne le dinamiche
  • Acquisire strumenti di controllo emotivo
  • Discriminare tra modalità efficaci e meno efficaci di controllo ed espressione emotiva
  • Riconoscere le principali conseguenze di una dinamica emotiva disregolata ed essere quindi in grado di prevenire comportamenti a rischio.

Metodo e modalità di gestione del gruppo. Lo stile di conduzione è attivo e partecipativo, nel senso di favorire l’iniziativa e lo scambio tra i membri del gruppo orientandoli ad un lavoro di consapevolezza e di ricerca di soluzioni psicologiche. La metafora utilizzata è quella della “guida di un mezzo”: le emozioni sono il nostro mezzo e noi per viverle in modo costruttivo dobbiamo guidarle, nel senso di sentirle, dosarle, modularle, esprimerle, ecc.

All’interno di questa metafora si prende coscienza dei diversi componenti del processo emotivo: intensità, velocità, connessione con gli stati corporei, connessione con gli stati mimici ed espressivi, connessioni con le rappresentazioni di sé e le interpretazioni degli eventi, dialogo interno, ecc..

Il gruppo si impegna in un lavoro basato su tre regole fondamentali (contratto):

  1. Libertà di espressione, ascolto e rispetto di ciò che viene detto
  2. Impegno a partecipare una volta data l’adesione
  3. Riservatezza rispetto a ciò che ognuno dice nel gruppo.

Il gruppo non prevede un numero di sedute predefinite, né un numero chiuso di partecipanti, si ritiene utile offrire al gruppo la possibilità di gestire nuovi ingressi e tollerare eventuali abbandoni. La cadenza degli incontri è tri settimanale o mensile. Le tecniche di conduzione comprendono:

  • Momenti ludici per creare un clima giocoso e coinvolgente
  • Momenti espressivi
  • Riflessioni in sottogruppi
  • Simulazioni
  • Acquisizione di tecniche di rilassamento
  • Esercizi o esperienze da svolgere tra una seduta e l’altra

Alcuni esempi di attività

  1. Gli acceleratori delle emozioni: i pensieri che mi fanno “andare giù di testa”. Si tratta di un’attività in cui abbiamo esplorato il nesso tra intensità delle emozioni e i pensieri che le accompagnano (pensieri catastrofici, pensiero assoluto, doverizzazioni, ipotesi malevole “lo ha fatto apposta”, ecc.);
  2. Tutti per uno, uno per tutti. Attività in cui si individua un problema portato da un membro del gruppo e in sottogruppi ci si impegna a trovare tutte le possibili soluzioni o strategie migliorative;
  3. Sentirsi capiti: come reagire, come favorirlo. Lavoro sulla comunicazione assertiva e su come portare all’altro le proprie necessità e il proprio punto di vista senza essere né aggressivi, né sottomessi.
  4. Sull’onda delle emozioni. Attività per discriminare quando un’emozione “ci fa viaggiare” come se fossimo su un surf e quando ci fa “perdere l’equilibrio” e sul modo per regolarne l’intensità.

Considerazioni complessive. L’esperienza svolta sta dimostrando molti aspetti positivi e costruttivi accanto ad alcune criticità, che cerco di sintetizzare. Aspetti positivi:

  • Il gruppo si è rivelato un ottimo strumento di attivazione sia motivazione che di processi di apprendimento sociale; in forma forse anche più netta rispetto al colloquio individuale, il gruppo fa emergere il senso di responsabilità individuale (“tu come rispondi a questo?”), la ricerca di soluzioni nuove, una visione della realtà complessa e multifocale.
  • Il gruppo restituisce un senso globale di normalità e di condivisione di talune problematiche e aiuta a cogliere in ciascun componente sia gli aspetti problematici, che quelli di potenzialità e creatività.
  • L’esperienza di gruppo integra e rafforza la relazione di aiuto psicologico individuale in quanto permette allo psicologo di cogliere una dimensione nuova del suo paziente e nello stesso tempo permette al ragazzo di vedere lo psicologo in un ruolo più libero e attivo.
  • Il gruppo è fondamentale per sostenere quelle operazioni di rispecchiamento identitario e di accrescimento dell’autostima, che vengono veicolate in questa età soprattutto dal rapporto con i pari; il gruppo costituisce una sorta di “utero psicologico” per quella seconda nascita che è propria del processo adolescenziale. Nel gruppo è possibile produrre apprendimenti più incisivi perché mediati dall’identificazione con un soggetto simile a sé (peer education). La soluzione offerta da un compagno ha molta più possibilità di essere recepita e sentita come affidabile rispetto a quello costruita con lo psicologo adulto.

Aspetti di criticità. Il gruppo ha continuato la sua vita pur con un notevole fluttuazione di partecipanti; l’affluenza media è stata di 8/10 persone per incontro. Ciò è dovuto da un lato alla fisiologica instabilità adolescenziale, dall’altro alla presenza nei ragazzi in genere di molti e talvolta imprevedibili impegni. Nel complesso alcuni ragazzi hanno utilizzato il gruppo come un “luogo a cui ritornare” quando erano in difficoltà. Il limite tuttavia più significativo è quello di aver avuto degli invii solo da parte dello psicologo e non essere riusciti a “pubblicizzare” questa opportunità attraverso la scuola, le biblioteche, altri operatori sul territorio. Sarebbe auspicabile quindi rinforzare sul territorio l’offerta di gruppi con questa caratteristica e finalità in modo da rendere più estesa e normale la possibilità per un ragazzo di accedere ad un aiuto che si collochi in una zona intermedia tra un servizio di psicologia clinica e una proposta di tipo educativo. Il gruppo emozioni che abbiamo condotto e costruito rappresenta una realtà di incontro e apprendimento che intende occupare questa “terra di mezzo”.

Breviglieri Paolo, psicologo e psicoterapeuta Consultorio Familiare di Suzzara

Pag   www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/index.php/pubblicazioni/etica-salute-famiglia/151-etica-salute-famiglia-anno-xxiii-n-05-ettembre-2019

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COUNSELING

La consulenza educativa

Il termine consulenza è la traduzione dei termini counseling e/o counselling. Entrambi sono corretti, ma il primo è la dicitura proveniente dagli USA, mentre l’altro fa riferimento alla lingua anglosassone. Il counseling/counselling è, quindi, un intervento psicopedagogico atto a promuovere ed operare sulla normalità (salute) più che sulla patologia e può essere definito come una professione relativamente giovane, soprattutto in Italia. E’ certo che il counseling è ben distinto dalla psicoterapia. L’Istituto Superiore di Sanità (1995) afferma che: “nessuna relazione di tipo professionale può e deve essere confusa con una relazione amicale, dove i limiti dell’ipercoinvolgimento e dell’identificazione sono ovviamente molto sfumati; questo concetto è la base stessa della possibile efficacia di qualsiasi relazione d’aiuto di tipo professionale”.

Esplicativa la metafora utilizzata da E. Giusti: “Se il motore di una macchina è molto mal messo, l’auto deve essere portata in officina ed il motore affidato ad un meccanico; se, invece, il danno è parziale, possiamo farci aiutare da un amico che se ne intende, o fare il lavoro per conto nostro, e quindi fare in modo di rimettere l’auto in carreggiata, senza rifare il motore”. “Parlare di psicoterapia significa riferirsi ad un intervento mirato, fondamentalmente, ad agire in modo terapeutico su disturbi o connotazioni ritenute patologiche o quanto meno necessitanti una ‘terapia’ che possa portare a miglioramento o a ‘guarigione’. Nel   processo di consulenza l’elemento “psicopatologico” non è rilevante come nel processo psicoterapeutico: qualora presente è, infatti, in secondo piano rispetto al problema portato dal cliente o al bisogno colto come centrale nella richiesta di aiuto.

L’obiettivo è far sì che la persona riesca a potenziare le proprie risorse e a creare le condizioni relazionali ed ambientali che contribuiscano al suo benessere.  In altre parole, favorisce la presa di coscienza dei meccanismi interiori che spesso spingono a comportamenti ripetitivi negativi, a processi di paralisi, evitamento, ansia e conflitto. Non mira solo a cercare l’origine delle difficoltà ma anche a far sperimentare a chi ne usufruisce nuove soluzioni, a stimolare un adattamento creativo dell’organismo all’ambiente. Focalizza, quindi, la sua attenzione sulla salute del cliente, differenziandosi dalla psicoterapia che si concentra, invece, sulla patologia. Si può considerare il counseling come una strategia di promozione della salute e di prevenzione della malattia; infatti trascende totalmente la malattia prendendo in considerazione il benessere personale che, nel caso della relazione, passa dalla sufficienza all’ottimali.

La psicoterapia, invece, può essere considerata un intervento di cura e riabilitazione che, dal malessere, cerca di arrivare al benessere dell’individuo. In questi ultimi anni, in Italia, il counseling ha avuto una grande diffusione anche grazie allo sviluppo di organizzazioni che ne tutelano e garantiscono la qualità. Di fondamentale importanza la nascita, nel giugno del 1993, della S.R.C., Società Italiana di Counseling. La ricerca pedagogica solo recentemente ha posto l’attenzione sulla consulenza educativa concepita come    modalità di sostegno alla persona, alla coppia e alla famiglia in difficoltà. L’attività di consulenza è intesa come quel percorso che si prefigge di migliorare le abilità decisionali del soggetto e di rafforzare le sue competenze, aiutandolo a superare i problemi ed a aumentare la consapevolezza circa le proprie responsabilità.

Tale dinamica si fonda sulla comunicazione interpersonale sostenuta da una chiara intenzionalità educativa, finalizzata alla realizzazione o alla revisione di un determinato progetto esistenziale. Nel corso della vita, ogni persona può vivere momenti di difficoltà e confusione non necessariamente legati a fenomeni patologici, ma causati da eventi critici, dovuti al passaggio da una fase all’altra del ciclo di vitale oppure ad avvenimenti inattesi, i quali mettono a dura prova la capacità di adattamento e organizzazione del soggetto.  Utilizzare modalità operative che muovono dalle potenzialità della persona e che mirino ad attivare processi di cambiamento portano ad individuare nella consulenza molti elementi propri delle teorie pedagogiche e delle prassi educative attuali. La consulenza educativa, dunque, può essere definita come un percorso volto ad aiutare il soggetto ad elaborare un progetto educativo su di sé e/o sugli altri. La relazione di aiuto, pedagogicamente intesa, si basa su un rapporto tra due soggetti (il consulente e l’utente), che a sua volta è fondato su processi di scambio efficaci ed efficienti. In tal senso questo tipo di rapporto viene considerato come un’opportunità per stimolare ed incrementare l’empowerment della persona in stato di bisogno (cfr. A. Di Fabio).

L’empowerment indica il processo di ampliamento delle potenzialità del soggetto, in modo da aumentare le abilità personali e la possibilità di controllare attivamente la propria vita (cfr. Piccardo). Educarsi al cambiamento significa quindi impegnarsi attivamente per essere protagonista del proprio divenire. Ecco dunque che la consulenza educativa si presenta come un sostegno offerto alla persona per la sua piena realizzazione, come percorso formativo volto ad aumentare l’autonomia del soggetto attraverso lo sviluppo delle sue potenzialità e capacità. La centralità della persona è un aspetto caratteristico sia della consulenza, sia del processo educativo. Vi è, inoltre, un aspetto maieutico legato al tirare fuori, al fare emergere. Entrambe le esperienze favoriscono un processo di cambiamento attraverso la consapevolezza e l’avvaloramento delle risorse personali.

La consulenza educativa si differenzia dall’educazione, perché è contraddistinta dalla non direttività, dall’uso di modalità relazionali centrate sull’ascolto, sulla comprensione empatica e sull’accettazione dell’altro (cfr. D. Simeone, La consulenza educativa, 2003). Se per consulenza educativa intendiamo un processo di aiuto rivolto al singolo, alla coppia, alla famiglia o alle istituzioni, finalizzato a promuovere le potenzialità educative insite in ogni uomo, essa non può essere identificata come un intervento di tipo riparatorio, basato su un modello descrittivo, interpretativo e curativo tipico dell’approccio psicopatologico.

La consulenza educativa, a differenza di quella psicologica, non nasce da un bisogno predeterminato, bensì da un’esigenza di perfezionamento. A ragione di ciò possiamo fare riferimento alla definizione di relazione di aiuto che, nel 1951, C. Rogers diede, ossia una relazione nella quale almeno uno dei due soggetti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. La consulenza educativa, dunque, innesca un processo di cambiamento, che libera il soggetto dalla situazione di difficoltà, offrendogli nuove opportunità di crescita. Esalta il protagonismo dell’utente, anche quando manifesta conflitti e ambiguità suscettibili di limitarlo nell’esercizio delle sue funzioni. L’obiettivo è quello di aiutare la persona a definire il problema e ad imparare a gestirlo, assumendosi pienamente le responsabilità delle scelte compiute. Si propone alla persona di esplorare, scoprire, chiarire gli schemi di pensiero e di azione, per vivere più coerentemente con se stesso e con gli altri, aumentando il livello di consapevolezza e facendo un migliore uso delle sue risorse. In pratica: aiutandola ad aiutarsi.

La relazione di consulenza può variare a seconda dei bisogni, ma riguarda comunque compiti evolutivi ed è rivolta a risolvere problemi specifici, a far prendere decisioni, a fronteggiare momenti di crisi, a sviluppare    una migliore conoscenza di sé, a migliorare le relazioni con gli altri. Non è dunque un percorso in cui si danno consigli, informazioni, insegnamenti o si fanno azioni dirette. Le abilità principali del consulente sono riferite all’ambito relazionale e implicano capacità di ascolto, osservazione, comprensione, interazione, conduzione del colloquio. Gli obiettivi della consulenza: aumentare la conoscenza di sé e l’autoconsapevolezza; sviluppare le risorse personali; promuovere la crescita personale e sapere rilevare in modo adeguato i  compiti di crescita che i soggetti si trovano ad affrontare in quel preciso stadio del loro ciclo di vita; aiutare l’utente a saper affrontare i momenti di crisi e sostenerlo nella riorganizzazione funzionale di nuovi assetti relazionali; favorire l’autonomia delle persone che chiedono aiuto; incrementare le competenze progettuali e decisionali, che consentono agli individui di essere artefici e protagonisti del proprio futuro. Scrive Buber che l’unica cosa che conta, il punto di Archimede a partire dal quale possiamo da parte nostra sollevare il mondo è la trasformazione di noi stessi. L’atteggiamento di piena accoglienza, accettazione è un sì che permette all’uomo di esistere e che può venirgli solo da un altro uomo. Nella relazione educativa si sostiene la persona o le persone nella progettazione e nella realizzazione di interventi in cui, responsabilmente, il soggetto mette in gioco le proprie risorse e compie scelte consapevoli.

Il percorso di consulenza privilegia l’ideale dell’uomo sempre teso verso l’autonomia e la libertà. Tale concetto riprende quello di tendenza attualizzante elaborato da Rogers che vede nell’auto compimento della persona, l’esplicitarsi di una visione ottimistica dell’uomo e di fiducia nelle sue potenzialità. Il già citato concetto di empowerment indica l’aumento delle capacità, lo sviluppo delle potenzialità che il soggetto può praticare e quindi scegliere e rendere operative. L’intervento educativo, finalizzato all ’empowerment si prefigge di aumentare la libertà e la responsabilità del soggetto, ampliando le sue possibilità di scelta. Ciò implica il passaggio da un intervento centrato sul problema ad uno focalizzato sulle capacità e le competenze personali. Il potere di cui si parla è qui inteso nel senso del potere essere, della progettualità, della relazione, del favorire la fiducia nelle proprie possibilità. La relazione tra consulente educativo ed utente/i, facilitando i processi per acquisire le competenze necessarie nella risoluzione di problemi, non si propone come elargizione di consigli, ma come strumento di libertà teso a incrementare l’autonomia del soggetto. Il fulcro dell’intervento, il punto di Archimede, non è tanto l’attività dell’esperto, quanto nella capacità di reazione della persona/e in difficoltà. La consulenza può essere intesa come un rapporto intenzionalmente strutturato, in virtù del quale ci si prefigge di aiutare il soggetto in condizione di bisogno nel processo di autocomprensione, valutazione delle proprie esperienze, al fine di dare inizio ad un percorso di cambiamento positivo. Il consulente si definisce come un esperto nelle relazioni educative, con competenze specifiche (purtroppo ancora non vi è un riconoscimento legale di tale figura e i corsi di formazione sono prevalentemente offerti da associazioni private).

Tra i fattori che giovano allo strutturarsi di una buona competenza relazionale vi sono: la complessità cognitiva, intesa come capacità di interpretare e dare un senso a ciò che gli altri dicono o fanno; l’empatia, intesa come condivisione delle emozioni senza immedesimazione; la facilità di relazionarsi e l’assunzione di un ruolo non direttivo nel rapporto comunicativo. Altra caratteristica del consulente è il decentramento cognitivo, ossia la capacità di uscire dai propri schemi di riferimento per riuscire a comprendere l’altro: ciò è però possibile solo in presenza di una solidità emotiva e un’ottima flessibilità cognitiva. Il consulente assume così una funzione maieutica che consente alla persona di diventare ciò che è e disapprendere ad apprendere, ponendosi in un atteggiamento di ascolto, mettendosi al servizio dell’altro, senza mai giudicare. La consulenza educativa può essere rivolta al singolo, alla coppia e alla famiglia in strutture qualificate come i consultori familiari, i centri per le famiglie e i centri di ascolto oppure all’interno di istituzioni come le scuole di ogni ordine e grado, le università, gli ospedali e pure nel mondo del lavoro. La sua importanza è esaltata ai fini della prevenzione del disagio e della promozione del benessere personale e sociale. L’acquisizione di potere e quindi di consapevolezza di sé porta ad una maggiore responsabilizzazione della persona, favorendo in essa un adeguato livello di autostima e la capacità di progettazione esistenziale.

Chiara Sirignano, professore associato di Pedagogia generale e sociale Università di Macerata dal 2006.

http://docenti.unimc.it/chiara.sirignano/teaching/2015/15535/files/consulenza-educativa

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DALLA NAVATA

XXII Domenica del tempo ordinario – Anno C – 1 settembre 2019

Siràcide          03, 19. Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso.

Salmo              67, 04. I giusti si rallegrano, esultano davanti a Dio e cantano di gioia.

Ebrei                          12, 22. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa

Luca               14, 13. «Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

Mettersi all’ultimo posto: quello di Dio

            Il banchetto è un vero protagonista del Vangelo di Luca. Gesù era un rabbi che amava i banchetti, che li prendeva a immagine felice e collaudo del Regno: a tavola, con farisei o peccatori, amici o pubblicani, ha vissuto e trasmesso alcuni tra i suoi insegnamenti più belli. Gesù, uomo armonioso e realizzato, non separava mai vita reale e vita spirituale, le leggi fondamentali sono sempre le stesse. A noi invece, quello che facciamo in chiesa alla domenica o in una cena con gli amici sembrano mondi che non comunicano, parallele che non si incontrano.

Torniamo allora alla sorgente: per i profeti il culto autentico non è al tempio ma nella vita; per Gesù tutto è sillaba della Parola di Dio: il pane e il fiore del campo, il passero e il bambino, un banchetto festoso e una preghiera nella notte. Sedendo a tavola, con Levi, Zaccheo, Simone il fariseo, i cinquemila sulla riva del lago, i dodici nell’ultima sera, faceva del pane condiviso lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico.

Per questo invitare Gesù a pranzo era correre un bel rischio, come hanno imparato a loro spese i farisei. Ogni volta che l’hanno fatto, Gesù gli ha messo sottosopra la cena, mandandoli in crisi, insieme con i loro ospiti. Lo fa anche in questo Vangelo, creando un paradosso e una vertigine. Il paradosso: vai a metterti all’ultimo posto, ma non per umiltà o modestia, non per spirito di sacrificio, ma perché è il posto di Dio, che «comincia sempre dagli ultimi della fila» (don Orione) e non dai cacciatori di poltrone.

Il paradosso dell’ultimo posto, quello del Dio? capovolto? venuto non per essere servito, ma per servire. Il linguaggio dei gesti lo capiscono tutti, bambini e adulti, teologi e illetterati, perché parlano al cuore. E gesti così generano un capovolgimento della nostra scala di valori, del modo di abitare la terra. Creano una vertigine: Quando offri una cena invita poveri, storpi, zoppi, ciechi. Riempiti la casa di quelli che nessuno accoglie, dona generosamente a quelli che non ti possono restituire niente. La vertigine di una tavolata piena di ospiti male in arnese mi parla di un Dio che ama in perdita, ama senza condizioni, senza nulla calcolare, se non una offerta di sole in quelle vite al buio, una fessura che si apre su di un modo più umano di abitare la terra insieme.

E sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Che strano: poveri storpi ciechi zoppi sembrano quattro categorie di persone infelici, che possono solo contagiare tristezza; invece sarai beato, troverai la gioia, la trovi nel volto degli altri, la trovi ogni volta che fai le cose non per interesse, ma per generosità. Sarai beato: perché Dio regala gioia a chi produce amore.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=46532

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DEMOGRAFIA

La bomba demografica. Pensioni e figli, l’Italia è in tilt.

Si parla tanto di famiglia ma si fa poco per sostenerla. L’Italia ha bisogno di riforme urgenti (Ansa). Tra trent’anni l’Italia avrà un problema molto serio: il numero di pensionati sarà uguale, se non superiore, al numero di persone al lavoro. In pratica i bambini nati negli ultimi dieci anni e quelli che verranno alla luce da oggi in avanti possono già mettere in conto di dover “mantenere” almeno un pensionato ciascuno. Non si deve essere esperti di welfare per rendersi conto che si tratterà di una situazione insostenibile. La causa principale di questa bomba a orologeria è demografica, cioè è frutto del basso livello di nascite che caratterizza il nostro Paese da anni. Ma a incidere è anche il fatto che troppe persone si ritirano dal lavoro troppo presto, perché vengono espulse dal sistema produttivo in quanto ritenute anziane, non sono formate a sufficienza, oppure non riescono più a reggere determinati ritmi di lavoro.

            L’allarme è stato rilanciato dall’Ocse, l’organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica, nel rapporto Working Better with Age, presentato a Tokyo dal direttore per l’Occupazione, il lavoro e gli affari sociali, Stefano Scarpetta. Il problema non è solo italiano, anche se riguarda in particolare il nostro Paese.

            Guardando agli attuali schemi pensionistici, entro il 2050 il numero di persone con più di 50 anni fuori dal mercato del lavoro rispetto agli attivi dovrebbe salire del 40% in media nei Paesi sviluppati. Da 42 pensionati ogni 100 lavoratori, si arriverà cioè tra trent’anni a 58 pensionati ogni 100 lavoratori. La crisi demografica rende però la situazione più severa in Italia, Grecia e Polonia, dove si prevede un rapporto di uno a uno, ovvero 100 e più pensionati ogni 100 lavoratori.

            La cosa preoccupante è quanto il tema continui ad essere trascurato dalle agende politiche, che – si pensi a “Quota 100” – hanno spesso favorito l’aumento della spesa previdenziale rispetto ai sostegni alle nascite. «Se non si pone subito rimedio con il rilancio della natalità e il sostegno concreto alle famiglie – ha detto il presidente del Forum delle Famiglie, Gigi De Palo – non andremo da nessuna parte. Confidiamo nel buon senso di un governo concreto, che affronti i problemi reali, dando priorità a provvedimenti come l’assegno per ogni figlio, sul quale si è già registrata grande convergenza tra le forze politiche».

            Misure per la natalità, dunque, ma anche riforma dei tempi e dell’organizzazione del lavoro per promuovere un invecchiamento attivo, suggerisce l’Ocse: «Oggi l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro è addirittura più bassa rispetto a 30 anni fa, non solo per gli scarsi incentivi a continuare a lavorare, ma anche per la riluttanza dei datori di lavoro ad assumere e trattenere lavoratori più anziani». Il rapporto propone di rendere più flessibile l’orario di lavoro per i più anziani e per le donne che rientrano al lavoro dopo la maternità, così da scongiurare forme di precariato, di investire nella formazione degli over-50, ma anche di migliorare le condizioni di lavoro dei giovani, per evitare che cattive condizioni di salute spingano al pensionamento anticipato. Lavorare meglio, per lavorare più a lungo, per avere una famiglia, per avere un futuro

Massimo Calvi Avvenire       31 agosto 2019

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DIRITTI DELLE DONNE

Le donne come soggetti di diritto in Italia, nell’UE e nella Dichiarazione universale dei diritti

“Chi dice donna dice danno” recitava un adagio piuttosto sessista diffuso anni addietro e con buona approssimazione mai stato condiviso dalle dirette interessate, in quanto frutto di una visione maschilista e misogina. Una rivisitazione in chiave moderna e legale potrebbe essere invece “Chi dice donna dice diritto”, infatti mai come negli ultimi anni si sta assistendo ad una rimonta delle leggi a tutela dei diritti delle donne.  Il retaggio storico da cui provengono le donne di tutto il mondo, le ha relegate in una condizione di subalternità rispetto all’uomo, fortunatamente però gli apparati normativi, intendendosi per tali la costituzione della repubblica italiana, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e svariate leggi ad hoc, stanno invertendo la rotta, quantomeno in Italia.

            E’ pur vero però che nonostante i passi compiuti, la donna in gran parte del mondo è ancora lontana dal godere di una effettiva piena parità dei diritti rispetto all’uomo, basti solo pensare al divario tutt’oggi esistente in campo economico, sociale, culturale e politico. Se dunque anche tu, donna o uomo che ci leggi, vuoi saperne di più in fatto di tutela dei diritti delle donne, non mollare proprio ora. Al di là infatti delle tutele notoriamente conosciute, potresti fare delle interessanti scoperte, oltre a conoscere l’origine normativa di certi diritti del gentil sesso, oggi magari dati per scontati ma che in realtà non lo sono affatto. Segui quindi la nostra carrellata normativa che si snoderà sia in ambito nazionale che sovranazionale fino ad arrivare a leggi di recentissima uscita.

  1. La donna nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Uno tra i concetti fondamentali inclusi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è quello che ruota attorno alla libertà di fondare una propria famiglia. E’, infatti, un apposito articolo di legge [Art.16 co.1] a dichiarare che “uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento”. Diritti che la stessa legge circoscrive però all’interno di “un’età adatta”, mettendo quindi subito al bando la pratica diffusa in alcuni paesi del mondo della tristissima vicenda delle “spose bambine”.

Tralasciando queste realtà che per gran parte del mondo costituiscono delle vere e proprie aberrazioni, il focus va posto sulla parità di prerogative sia per l’uomo che per la donna sia in costanza di matrimonio che all’atto del suo scioglimento. Se poi dal piano normativo ci si sposta alla realtà della vita, la strada è ancora lunga e in salita; molte donne dell’universo mondo infatti non possono ancora lavorare, né gestire soldi in autonomia o rivendicare diritti di proprietà.

Il matrimonio, si legge poi in un successivo passaggio del citato articolo [Art.16 co.2], potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. Questa è senza dubbio un’altra disposizione fondamentale per la donna, con la quale si mira a contrastare la pratica diffusa anni addietro, specie tra le famiglie benestanti, di dare in sposa la propria figlia al “partito maritale” reputato migliore, senza tenere in alcuna considerazione le opinioni della futura sposa. Si pensi al caso emblematico dell’amore negato a Giulietta e Romeo.

2          La donna nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Spostando ora l’attenzione in ambito di Unione europea, di sicuro interesse è un articolo [Art.23] contenuto nella carta dei diritti fondamentali dell’Ue dove si legge, in modo molto lapidario, che la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi. Di nuovo, quindi, si è inteso rimarcare il punto della parità uomo-donna senza alcuna distinzione di ambiti e non come mera opzione, ma come un dovere per gli stati da adempiere. Inutile anche qui dire che la realtà della vita di tutti i giorni mette spesso di fronte a disparità, ma comunque è bene conoscere quali sono le leggi esistenti a tutela dei diritti delle donne, perché i grandi cambiamenti della storia, come si sa, partono sempre da una conoscenza e da una consapevolezza; quindi ben vengano questi articoli a cui è possibile appellarsi in caso di necessità.

3                    La donna nella Costituzione della Repubblica italiana. La nostra Costituzione, in svariati articoli, si occupa della tutela delle donna, seppur da angolazioni diverse; vediamo quindi di scorrere i principiali passaggi che riguardano il gentil sesso, tramite la disamina dei singoli articoli che solennemente affermano dei principi assolutamente fondamentali.

4        L’eguaglianza davanti alla legge. In un apposito articolo [art. 3, co. 1], è scritto che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Come ben si può rilevare l’appartenenza al genere femminile non deve, secondo i nostri padri costituenti, essere fonte di discriminazione né davanti alla legge, né in termini di dignità sociale.

5        L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. E’ sempre all’interno della Costituzione che in tema di famiglia, intesa come società naturale fondata sul matrimonio, viene espressamente sancito che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” [Art. 29]. Per cui, se tempi addietro era consentito che i cosiddetti padri e padroni, disponessero non solo della vita dei figli, ma anche delle mogli, oggi questo principio di eguaglianza non solo morale ma anche giuridica, taglia la testa al toro.

6        Protezione della maternità. Con riguardo al delicato tema della donna-madre la costituzione italiana in altro apposito articolo [Art 31] investe la Repubblica del compito di agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Con riguardo poi alla specifica figura della donna, afferma che è sempre dovere della nostra repubblica quello di proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo. Quindi, dopo aver formalmente asserito un riallineamento dei diritti uomo-donna in un’ottica paritaria, il dettato costituzionale fa un passo in più fino a parlare di vera e propria protezione della donna che è anche madre.

7        Parità della donna nell’ambiente di lavoro- Una volta tutelata la maternità, i padri costituenti non potevano non affrontare l’altrettanto nevralgico polo costituito dai diritti delle donne lavoratrici. E, infatti, in un ulteriore articolo di legge [Art 37] vengono affrontati due passaggi molto importanti e cioè che:

  • La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore;
  • Le condizioni del lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale e adeguata protezione.

Come si evince chiaramente da quanto sopra esposto, la norma costituzionale da un canto rimarca il principio della parità con l’uomo, dall’altro, pone in essere un contemperamento del duplice ruolo di lavoratrice e madre/moglie.

8        Parità nella vita politica. Con il diritto di voto riconosciuto anche alle donne, il gentil sesso è entrato a tutti gli effetti nel cosiddetto corpo elettorale sia in veste di elettorato attivo che passivo.

  • Elettorato attivo. Con un apposito articolo sempre della costituzione [Art.48] si dichiara, infatti, che “sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età”. Per cui al taglio del nastro del diciottesimo anno la donna ha il diritto/ dovere civico di esprimere la propria preferenza elettorale, senza più se e senza ma.
  •  Elettorato passivo. Dopo aver espressamente sancito che le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica, la nostra costituzione afferma di promuovere “la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.

9        Parità di accesso alle cariche pubbliche Con un ulteriore articolo la costituzione sancisce che tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso, possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge [Art. 51]. Come si può ben vedere le leggi a tutela dei diritti delle donne ci sono e parlano chiaro, ora quello che urge è rendere sempre più effettivi questi diritti. A tal fine è auspicabile che facciano seguito sviluppi normativi e giurisprudenziali a gogò e che siano capaci di trasferire i diritti esistenti sulla carta nella vita pratica di tutti i giorni.

10    La donna nel diritto di famiglia. Altro tassello fondamentale per inquadrare il corpus di diritti riconosciuti alla donna dal nostro diritto di famiglia è indagare su cosa accade all’interno delle realtà familiari. Se prima della riforma del diritto di famiglia nessuno avrebbe trovato da ridire in presenza di un padre che esagerava con i mezzi di correzione verso i figli minori, oggi la “musica” cambia notevolmente. Infatti, dal cosiddetto pater familias, risalente al diritto romano, si è passati prima al concetto di “potestà genitoriale” e ora a quello di “responsabilità genitoriale”. Un cambiamento terminologico non di poco conto. Infatti, non solo non esiste più la supremazia della figura paterna che un tempo poteva anche coincidere con quella di “padre e padrone”, ma si parla di “responsabilità genitoriale”, che, in un sol colpo, spazza via riferimenti a forme di potere, ridando il giusto peso alla parola “genitore”, senza distinzione di genere maschile o femminile, quantomeno sulla carta. Quindi la donna, moglie e madre, è portatrice di diritti quantomeno paralleli a quelli del coniuge.

11    Ciò detto, laddove poi la realtà familiare dovesse toccare livelli di conflittualità tra coniugi non sanabili e la coppia dovesse optare per la separazione, merita un cenno un orientamento discusso, ma che va prendendo piede nelle aule di giustizia. Il nome da tenere sott’occhio è quello di “maternal preference”, che in italiano si potrebbe tradurre come preferenza della figura materna in caso di affidamento dei figli minori. Con una recente pronuncia al riguardo [Cass. n. 18087, 14.09.2016] gli ermellini hanno sentenziato che “nel caso di affidamento dei figli minori, deve trovare applicazione il criterio della maternal preference”. Con tale criterio, quindi, viene individuata la madre come genitore affidatario presso il quale i figli devono prevalentemente vivere. Questo criterio è talmente forte che, a parere della suprema Corte, la maternal preference dovrà trovare applicazione anche nel caso in cui il padre abbia dimostrato di sapersela cavare egregiamente nei confronti dei figli.

12    Il codice rosso delle donne. Gettando poi uno sguardo tra le ultime novità in materia di legislazione italiana a tutela dei diritti delle donne una menzione merita il codice rosso. Oltre al codice rosso ospedaliero, con cui si contraddistinguono i pazienti con almeno una delle funzioni vitali compromesse e quindi in immediato pericolo di vita, da qualche tempo esiste anche un altro codice rosso riservato alle donne e di matrice giuridica anziché ospedaliera. A partire dall’8 agosto del corrente anno 2019, è in vigore un nuovo corpus di ben ventuno norme [Ddl 1200/2019] che vanno appunto sotto il nome di “Codice Rosso”. Di cosa si tratta? Di una serie di disposizioni di diritto penale e procedurale che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero intervenire a salvaguardare la vita delle donne esposte a violenza di genere. Tra le principali novità introdotte, vi è:

  • Previsione di una corsia preferenziale per lo svolgimento delle indagini, che saranno più rapide;
  • L’inasprimento delle pene per reati commessi in contesti familiari o nell’ambito di rapporti di convivenza;
  • La previsione dei reati di revenge porn, sfregi al viso e matrimoni forzati, con aumenti di pena per i reati di violenza sessuale e stalking. Quanto al revenge porn forse non tutti ancora conoscono che cosa s’intenda con questa espressione inglese che in italiano potrebbe tradursi come “vendetta porno” o “pornovendetta”. Ebbene, laddove si dovesse verificare la condivisione pubblica di immagini o video intimi tramite la rete Internet, senza il previo consenso dei diretti interessati, tutto ciò integra gli estremi di un reato.

Maria Teresa Biscarini         La legge per tutti       29 agosto 2019

www.laleggepertutti.it/298644_diritti-delle-donne

 https://www.laleggepertutti.it/300055_genitori-separati-e-religione-figli

www.avvenire.it/economia/pagine/pensioni-e-figli-italia-in-tilt

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ENTI TERZ0 SETTORE

Necessario ribadire l’importanza del volontariato in Italia come punto di riferimento

“In questo periodo in Italia si sta cercando di attuare la nuova riforma del Terzo Settore nella quale il ‘volontariato’ è stato messo un po’ in secondo piano; nello stesso tempo si sta riscontrando anche un calo del peso sociale delle Organizzazioni di Volontariato ed in particolar modo dei coordinamenti e delle reti”. Lo ha detto il segretario generale di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Ermes Carretta, in occasione della XXVIII settimana di incontro e formazione per le famiglie adottive e affidatarie dell’organizzazione, iniziata sabato 24 agosto a Casino di Terra (Pisa) e che terminerà sabato 31 agosto.

La settimana è promossa, oltre che, ovviamente, da Ai.Bi. – Amici dei Bambini, anche dall’Associazione “La Pietra Scartata” e vede come tema centrale proprio l’affido e l’adozione.

Ai.Bi. proprio attraverso il suo segretario generale, Ermes Carretta, ha deciso di sostenere il rilancio della ConVol – Conferenza delle Associazioni Federazioni e Reti di Volontariato, della quale proprio Amici dei Bambini è stata una delle realtà fondatrici.

Lo scorso 30 marzo 2019 Ermes Carretta è stato nominato presidente della ConVol e dopo un breve periodo di assestamento ora l’Ente è ora pronto per il rilancio e per ritornare punto di riferimento in Italia per le organizzazioni di volontariato.

“L’idea – ha spiegato Ermes Carretta – è quella di ripartire dalla Carta dei Valori del Volontariato presentata la prima volta il 4 dicembre 2001 adeguandola alla situazione attuale, senza perdere i valori fondanti e ribadendone i principi.

www.forumterzosettore.it/multimedia/allegati/cartadeivalori2001.pdf

Sicuramente è necessario ribadire l’importanza del volontariato in Italia come punto di riferimento per uno sviluppo sociale e per la realizzazione di beni comuni”.

Anche Papa Francesco durante l’udienza di mercoledì 21 agosto 2019 ha ricordato l’importanza del volontariato ponendo ai presenti una domanda: “Quanti cristiani – voi, per esempio, qui in Italia – quanti cristiani fanno volontariato! Ma questo è bellissimo! E’ comunione, condividere il mio tempo con gli altri, per aiutare coloro che hanno bisogno. E così il volontariato, le opere di carità, le visite ai malati; bisogna sempre condividere con gli altri, e non cercare soltanto il proprio interesse.

AiBinews                      26 agosto 2019

www.aibi.it/ita/ermes-carretta-al-raduno-nazionale-di-ai-bi-riforma-terzo-settore-volontariato-messo-un-po-in-secondo-piano

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La tradizione di Francesco su matrimonio e famiglia

C’è un’operazione intra ed extra ecclesiale in atto, volta a contrapporre il magistero in tema di matrimonio e famiglia di papa Francesco a quello dei suoi predecessori. In questione è la traditio ecclesiæ, che il Papa – con i due sinodi sul matrimonio e la famiglia e con l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris lætitia – avrebbe addirittura smentito e distorto. Con la reazione uguale e contraria di riformisti entusiasti e plaudenti, spinti a valicare limiti dottrinali e pastorali, e di conservatori irritati e delusi, portati ad alzare muri a difesa dell’ortodossia. Così posta la questione è falsata e fuorviante. Non c’è alcuna sconfessione della tradizione nel magistero in atto. Perché la tradizione non è un corpus dottrinale rigido e inflessibile, avulso dall’oggi, dalle sue sfide e opportunità. Bensì attento al reale, alle questioni e alle domande che pone, ai bisogni di intercettare nuove istanze, di misurarsi con la complessità, di conciliare prospettive e ottiche diverse, di comporre elementi e motivi che concorrono ad attualizzare la verità della fede e della morale e impedire o ricomporre unilateralismi e scompensi.

            Papa Francesco esorta ripetutamente i pastori a volgere lo sguardo alle persone, nella singolarità e non-omologabilità delle loro storie, del cammino di vita di ciascuna. La chiave ermeneutica del suo magistero etico-pastorale è da vedere nel richiamo, variamente ribadito ai pastori, ad «essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione». Francesco lo fa in Amoris lætitia in riferimento a coppie e famiglie segnate da incompiutezze, fragilità e imperfezioni, divorziati risposati in primis, sul cui terreno s’è innescata la contesa. Ma esso vale in ogni settore e ambito della morale. Di qui l’esortazione del Papa a valutare scelte e comportamenti tenendo conto delle circostanze in cui le persone vengono a trovarsi. La teologia morale insegna che i criteri valutativi (le fonti di moralità) di un atto sono il finis operis, vale a dire la bontà o malizia oggettiva espressa dalla legge; le circumstantiæ, ossia le situazioni e condizioni di vita delle persone; e il finis operantis, ovvero l’intenzione del soggetto agente.

            Un legalismo e oggettivismo etico egemone sbilanciava sul finis operis e quindi sulla stima oggettiva della legge il metro di valutazione della morale. Bastava la disapprovazione della legge – valevole indistintamente per tutti: non importa chi – a delegittimare e riprovare un comportamento. Papa Francesco, senza nulla togliere al valore e al ruolo della legge, quel metro lo ha ri-equilibrato sulla persona, richiamando il contributo e il peso delle circostanze e delle intenzioni in cui e con cui il soggetto ha agito o agisce. Di qui il ripetuto appello al discernimento, volto a riconoscerle e ponderarle; e al foro interno: il ‘luogo’ proprio del discernimento, dove la coscienza del soggetto incontra quella del pastore, in ordine al giudizio morale delle scelte compiute o da compiere. Il che porta alla legittimazione soggettiva di scelte non ancora conformi alla legge, in un cammino progressivo di avvicinamento alla piena conformità. Non senza l’aiuto della grazia anche sacramentale, stante il significato e il valore medicinale (curante e sanante) della grazia, piuttosto trascurato, ma che il Papa rievoca e mette in evidenza.

            Tutto questo – il contributo morale di circostanze e intenzioni, il discernimento delle situazioni e condizioni di vita delle persone, il valore e il peso giudiziale del foro interno e, con essi, il ruolo normativo della coscienza, l’efficacia medicinale della grazia – non è alieno alla traditio ecclesiæ, ma le appartiene essenzialmente. Queste componenti del pensare e vivere morale – come tutte le realtà che sono nella storia – possono andare e sono andate incontro a perdite e dimenticanze, sbilanciamenti e offuscamenti. Francesco le ha richiamate, ribilanciate, rimesse in luce e in atto, in quel riassetto assiale della morale – avviato dal Concilio Vaticano II – dal primato della legge al primato effettivo (non meramente teorico) della persona e con essa della grazia. In linea di continuità con la sollecitazione paolina: «Noi non siamo sotto la legge, ma sotto la grazia» (Rm 6,15). Lungo quella iconografia teologica della Chiesa che la vede a un tempo come ‘Maestra di verità’ e ‘Madre di misericordia’. Insomma, il paradigma etico di Amoris lætitia è dentro la tradizione e la prassi dottrinale della Chiesa. Così come a questa tradizione e prassi appartiene l’attenzione alle ‘questioni’ morali che si producono nella storia e che la Chiesa non può eludere. Pensiamo alle grandi questioni sociali – dalla questione operaia, alla questione del sottosviluppo, alla questione ecologica – di cui s’è fatta carico la dottrina sociale della Chiesa. Un problema morale diventa ‘questione’ quando il suo raggio di problematicità umana si amplia ed espande, investendo un numero massivo e crescente di persone. Esso assume una portata sociale e culturale, diventa una sfida dei tempi, che provoca in radice il pensare morale e l’operare pastorale. Tale è diventato in questi ultimi decenni il problema dei divorziati risposati, insieme a quello di battezzati che hanno contratto matrimonio solo civile o che semplicemente convivono.

            La Chiesa non può restare indifferente, trattarli come casi ordinari e meramente individuali, da giudicare secondo la legge, con le sue proibizioni e riprovazioni, e abbandonare così al proprio dramma e lasciare ai margini una moltitudine di suoi figli. Questo è stare fuori del mondo, non percepirne i rivolgimenti e la loro criticità; è rinnegare il principio d’incarnazione, non lasciarsi provocare dalla storia, in cui Cristo è entrato e ha posto la sua Chiesa. Papa Francesco ha avuto la percezione netta del problema delle irregolarità coniugali e familiari come grande questione morale e pastorale e l’ha affrontata come tale. I due sinodi sulla famiglia, l’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris lætitia e i due Motu proprio sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio ne sono la risposta, in linea di continuità e attuazione nell’oggi della traditio ecclesiæ

Mauro Cozzoli, Teologo moralista, Pontificia Università Lateranense Avvenire 29 agosto 2019

www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-tradizione-di-francesco-su-matrimonio-e-famiglia

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GENITORI

Sindrome del nido vuoto: cos’è e come affrontarla

Li hanno definiti “bamboccioni” o “Peter Pan”, ma in entrambi i casi con tali espressioni ci si intende sempre riferire ad uno specifico target di persone, vale a dire quello dei figli ormai grandi ma che, per un motivo o l’altro, non ne vogliono proprio sapere di staccarsi da casa. A farne le spese, in tutti i sensi, i genitori che si ritrovano a dividere le quattro pareti domestiche con figli belli grossi e vaccinati, ma non economicamente o personalmente autosufficienti. Ma se è vero che ogni medaglia ha il suo rovescio, esiste anche un’altra situazione: quella dei genitori che si ritrovano in una casa di famiglia rimasta ormai vuota, perché i figli hanno preso il volo, per cui la casa diventa un “fardello” troppo pesante da sopportare sia in quanto fonte di spese inutili, sia perché colma di ricordi dei bei tempi che furono.

Se, dunque, anche tu sei alle prese con questo vuoto esteriore ed interiore, o semplicemente vuoi solo saperne un po’ di più su questa fase naturale ma impegnativa della vita, sappi che qualcuno si è pure preso la briga di darle un nome. Se, d’ora in avanti, dovessi sentire parlare di “Sindrome del nido vuoto”, sarai consapevole di cosa si sta parlando. Ma tra il dire e il fare, come dice il detto, c’è di mezzo il mare. Sindrome del nido vuoto: cos’è e come affrontarla? In questo approfondimento, potresti trovare dei validi spunti per reagire in modo sano a dei cambiamenti fisiologici di vita. Se, infatti, le novità fanno spesso paura, è pur vero che opporsi ai mutamenti o restare attaccati ai ricordi, non solo non è di nessun aiuto, ma a lungo andare potrebbe rivelarsi pure nocivo. Quindi, basta con gli indugi e continua a seguirci!

Dalla coppia alla famiglia. Se, quindi, anche tu hai sperimentato cosa significa passare dalla vita a due al menage genitori e figli, saprai benissimo che la nascita di un figlio impone un cambio di passo e nuovi equilibri relazionali. Per cui, se nella logica di coppia esiste l’“io-tu”, poi è inevitabile il passaggio alla dinamica “lui-lei-l’altro” dove l’altro non è l’amante ma un tipetto che va avanti per lo più a suon di carillon, ninne nanne e biberon. Una nuova realtà dunque che si riesce a fronteggiare con sufficiente apertura verso l’esterno; vale a dire mettendo da parte, almeno temporaneamente, se stessi, per andare incontro agli stimoli esterni che vengono spesso e volentieri da quella culla che è apparsa d’improvviso in camera matrimoniale. Quasi inutile dire infatti che i nuovi venuti al mondo sono sì piccoli in termini di peso, volume e statura, ma sanno benissimo come catalizzare l’attenzione di tutto il circondario sulle loro esigenze.

Dalla famiglia al nido vuoto. Col passare del tempo quel ritrovato equilibrio che ha fatto sì che la coppia di due individui si tramutasse in una coppia di genitori, è destinato però a cambiare nuovamente. Addirittura, con una vera e propria inversione di passo. Che vuol dire questo nella pratica? Semplicemente che quando i genitori saranno ormai diventati espertissimi nell’espandere se stessi per creare ponti di connessione e condivisione con i propri figli, saranno nuovamente chiamati a fare i conti con se stessi e con il proprio equilibrio di coppia.

Quando, infatti, i figli spiccheranno il volo fuori delle pareti di casa per realizzare i propri progetti di vita, i genitori dovranno fronteggiare lo “spettro” del nido vuoto. Quelle stanze da cui un tempo faceva capolino tanta confusione e da cui fuoriusciva musica a palla, ora tacciono prive di vita. E se questo nuovo status quo sulle prime potrebbe sembrare una sana “liberazione”, nel lungo periodo potrebbe anche riservare delle difficoltà, specie per quel coniuge che più si è identificato nel ruolo del genitore accudente e che ha finito per anteporre la crescita dei figli a se stesso.

Quale dei genitori è più a rischio? Quasi inutile dire che chi nella coppia è più a rischio è la donna e mamma di famiglia che magari, come un’acrobata, è riuscita a barcamenarsi in modo encomiabile tra mille incombenze, facendo quadrare i conti dell’economia domestica, nel rispetto di una tabella di marcia che ha consentito di conciliare lavoro, famiglia, marito, figli e spesso anche anziani. Se dunque, di punto in bianco, questa “wonder woman” [donna prodigio] dei nostri giorni, addestrata a ritmi militareschi, si dovesse trovare con un’intera giornata davanti da riempire, senza però marce forzate, un piccolo crollo emotivo potrebbe anche verificarsi. Per cui, senza drammatizzare troppo, è bene sapere che l’uscita dei figli dalla casa di famiglia potrebbe rappresentare l’inizio di una fase tutt’altro che semplice per i genitori che si ritroveranno ad andare avanti a forza di pane, dolore e nostalgia.

            Come riconoscere l’insorgenza della sindrome? Se ti sei trovato spettatore dell’uscita dei tuoi figli da casa e giorno dopo giorno percepisci come sempre più “assordante” il silenzio della dimora, non più animata dai figli e dagli amici dei tuoi figli, fai bene attenzione a questi primi segnali di allarme. Se, infatti, contrariamente a prima, senti crescere dentro di te: malinconia, senso di vuoto, e stati d’animo depressivi, non sottovalutarli; è il tuo intimo che cerca di richiamare la tua attenzione. Se infatti ti sei identificato troppo nel ruolo genitoriale dimenticandoti di te stesso, in un primo momento potresti avvertire un senso di inutilità.

Perché la nostra società tende ad instillare l’errata convinzione che si vale qualcosa finché si ricoprono dei ruoli, per cui laddove l’allontanamento dei figli dovesse pure coincidere con il ritiro dal mondo del lavoro, si potrebbe andare incontro ad una sorta di crisi d’identità, causa spesso dell’insorgenza di sindromi depressive. Per cui, nonostante gli psicologi tentino di rincuorare i genitori affetti dalla sindrome, di cui in narrativa, dicendo che “se i figli hanno avuto la capacità di prendere il volo è perché i genitori sono stati molto bravi a farli volare”, è pur vero che le parole potrebbero non essere sufficienti.

Come reagire alla sindrome? Arrivati a questo punto è bene sgomberare il campo dall’errata e semplicistica convinzione che sia sufficiente “cambiare abitudini”, per riprendere in mano le redini della propria vita. Si tratta infatti di agire ad un livello un po’ più profondo, e cioè sul proprio assetto identitario. Prima di essere genitori e parti di una coppia è fondamentale realizzare di essere dei singoli individui. Per cui, stando a quello che sostengono i professionisti che si trovano quotidianamente a fianco di persone che chiedono aiuto perché hanno perso la rotta della propria esistenza, proviamo ad individuare dei passaggi chiave per evitare che l’allontanamento dei figli da casa metta in moto dei meccanismi distruttivi per se stessi e per la coppia.

Accettare la situazione. Se il primo impulso che senti nascere dentro dovesse essere quello di remare contro gli eventi, meglio fare mente locale sul fatto che per superare il senso di vuoto un passo saggio è quello di elaborare in modo razionale e obiettivo, il cambiamento e cominciare ad accettare che i figli se ne sono andati.

Ritrovare se stessi. I ritmi serrati dell’esistenza potrebbero averti fatto dimenticare dei vecchi hobby, se questo corrisponde anche al tuo caso, niente paura, basterà riprendere in mano gli “attrezzi del mestiere” e i tuoi ingranaggi interni riprenderanno vita. Così se eri amante della pesca, riprendi in mano una canna, fai un giro di telefonate tra i tuoi amici e vedi chi potrebbe essere disposto a seguirti sul greto di un fiume. Potresti rimanere felicemente sorpreso della facilità con cui quelle vecchie passioni siano ancora lì ad attendere chi è ancora interessato a viverle e condividerle.

Dedicare tempo al partner e agli amici. I tempi più dilatati che hai a disposizione potrebbero poi essere impiegati anche per infondere nuova linfa vitale alla tua coppia. Per cui, se è tanto che state rimandando quel viaggio, perché non cominciate a farvi un giro in agenzia di viaggio? Non avendo più la responsabilità economica di dover provvedere ai figli, ci sarà sicuramente qualche risorsa finanziaria in più in giro per casa, se a questo poi si aggiungono i tempi più maturi, quel sogno rimasto da tempo nel cassetto potrebbe diventare presto realtà!

Fare ricorso alla tecnologia. Se la mancanza dei figli in circolazione per casa dovesse comunque rivelarsi non tollerabile, un escamotage da prendere in considerazione potrebbe essere quello di ricorrere ai mezzi tecnologici. Al giorno d’oggi, è infatti abbastanza banale ed economico rimanere regolarmente in contatto con i propri figli anche se ci si trova a grande distanza. Oltre al telefono, potrai ricorrere alle chat, programmare chiamate via Skype a cadenza più o meno regolare, inviare e ricevere messaggi audio così da verificare con le tue orecchie lo stato d’animo dei tuoi figli, perché se è vero che alla mamma non sfugge mai nulla, se oltre al video si ricorre al sonoro, non ci saranno quasi più segreti, nonostante i chilometri che ti distanziano dai tuoi figli.

Sondare nuove opportunità di vita e lavoro. Se poi, nonostante tutti i tentativi fatti, non dovessi proprio sopportare di vedere le camere dei tuoi figli disabitate, vuote e silenziose e non disdegni ripopolare un po’ la tua casa, una cosa che dovresti passare al vaglio sarebbe quella di tramutarti in un affittacamere. Se, infatti, la tua dimora di famiglia dovesse essere vicina ai poli universitari, sappi che per uno studente che è costretto a trasferirsi fuori sede lontano dalla propria casa, ritrovare una sorta di ambiente familiare vicario, potrebbe essere un toccasana. Se dunque dovessi disporre di spazio sufficiente per te e il tuo consorte, con disponibilità di servizi igienici ben distinti e magari anche ben distanti l’uno dall’altro, tanto da garantire a voi e ad eventuali ospiti, il rispetto di una sana privacy, pensa alle soluzioni che seguono.

Affittacamere. È una soluzione più easy [facile], direbbero gli inglesi rispetto al canonico contratto di affitto, perché ad essere concessi in locazione sono solo la camera da letto e il bagno, con eventuale uso saltuario di una cucina, ma non necessariamente. Un sistema che, in un sol colpo, ti consentirebbe di ridurre il senso di vuoto della casa e di far crescere le finanze. Per saperne di più, basta cliccare qui e ti apparirà un nostro precedente approfondimento.

Bed & Breakfast. Se, invece, oltre ad offrire la disponibilità di un posto letto, ti andasse anche di offrire ai tuoi nuovi ospiti una colazione all’italiana o se sei di più ampie vedute, una international breakfast, vale a dire una colazione che contempli sapori più trasversali oltre al nostro classico pane burro e marmellata, come french toast, uova e bacon, o muesli e yogurt in quantità, allora potresti pensare di dedicarti ad un bed & breakfast. Questa è una soluzione che può tornare utilissima per chi non è intenzionato a condividere i propri spazi con estranei in modo continuativo, ma solo saltuario. Al contempo, il bed & breakfast può rivelarsi una opportunità salvifica in periodi di cosiddetto overbooking [sovraprenotazione] degli hotel, dove è cioè praticamente impossibile trovare da dormire. Nelle località limitrofe alle zone delle fiere o dei festival, se non fosse per l’ospitalità delle location private, si potrebbe davvero rischiare di passare la notte in macchina. Se quindi sei intenzionato a saperne di più qui potrai trovare le regole necessarie per aprire e gestire un Bed & Breakfast [pernottamento e prima colazione].

Se comunque non riuscissi a farti una ragione dell’uscita dei tuoi figli da casa, leggi cosa ha scritto Kahlil Gibran a proposito del rapporto genitori-figli: «I vostri figli non sono figli vostri… sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita. Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono. Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee. Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni. Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri. Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti. L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane. Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo» [Il profeta].

Maria Teresa Biscarini         La legge per tutti       31 agosto 2019

www.laleggepertutti.it/297478_sindrome-del-nido-vuoto-cose-e-come-affrontarla

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LAVORO E FAMIGLIA

Lavoro o famiglia: cosa scegliere?

“Le equilibriste”. Così sono state definite le donne lavoratrici e madri. Una qualifica che la dice lunga sulla quanto mai acrobatica conciliazione tra impegni lavorativi e familiari. Quindi, tra lavoro o famiglia: cosa scegliere? E, inoltre, a chi deve attribuirsi la quanto mai azzeccata trovata terminologica di “equilibriste”? La risposta a quest’ultimo quesito è sicuramente più immediata e, infatti, si può sin da ora affermare che è stato il gruppo di lavoro che sta dietro al secondo Rapporto di “Save The Children” pubblicato nel 2017 ad avere l’idea geniale. Nella sua forma estesa, la titolazione del rapporto recitava: “Le equilibriste: la maternità tra ostacoli e visioni di futuro”. Un equilibrio dunque tra vita lavorativa e carichi familiari che rappresenta la sfida forse più impegnativa in assoluto, almeno per quanto riguarda le donne italiane che scelgono di diventare madri.

Non è, quindi, un caso che l’Italia si sia piazzata al penultimo posto per tasso di occupazione femminile nell’Unione europea. A peggiorare la fotografia, contribuiscono pure i pesanti squilibri territoriali che vedono tra le più “virtuose” alcune regioni del nord Italia, come Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Lombardia e Piemonte, mentre tra i fanalini di coda si collocano Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Cosa ci starà a monte di questo avvilente quadro nazionale? Se, infatti, si parte dal presupposto che il gentil sesso ha ormai fatto ingresso in quasi tutti gli atenei dove le performance “in rosa” non hanno nulla da invidiare a quelle dei colleghi uomini, è facile desumere che lo sbarramento non si crea sui banchi di scuola, bensì nel passaggio al mondo del lavoro.

Se anche tu ti sei trovata di fronte al dilemma di una scelta drastica e radicale tra la dedizione al lavoro o alla famiglia, continua a leggere questo approfondimento. Ci sono in serbo delle novità dal punto di vista delle forme lavorative che potrebbero rappresentare un punto di svolta.

Rapporto tra Pil e lavoro delle donne. Prima d’iniziare nel passare in rassegna i pro e i contro che si celano dietro alla scelta radicale del votarsi in modo esclusivo al lavoro o alla propria famiglia, sarà interessante ricordare l’ultimo richiamo a livello mondiale lanciato da Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo monetario internazionale. Stando ad una sua recente intervista, sembra, infatti, che alcuni paesi potrebbero aumentare il proprio Pil (prodotto interno lordo) fino al 35%, se fosse possibile arrivare ad una effettiva parità di genere nel mondo del lavoro. Come fare per giungere a tanto? Riuscire a rimuovere gli ostacoli di carattere culturale e legale sarebbe di sicuro giovamento visto che:

  • L’88% dei paesi al mondo ha ancora oggi delle restrizioni al lavoro femminile nella costituzione o nelle proprie leggi;
  • In 59 paesi manca ancora una legislazione contro le molestie sul posto di lavoro;
  • In 18 paesi è legalmente consentito impedire alle donne di lavorare.

Attivarsi per sostenere l’aumento delle donne nei posti di lavoro porterebbe, quindi, in parole semplici, ad una maggiore liquidità fatta di stipendi, ma anche di pagamento di tasse e contributi, che in una visione più generale, porterebbe ad una crescita complessiva dell’intero sistema. Se questo è l’obiettivo che è auspicabile raggiungere su scala mondiale, la situazione reale ad oggi, però, è piuttosto diversa.

Donne con le gonne o signorine Rambo. E’ solo di qualche anno fa il testo piuttosto provocatorio di Vecchioni che identifica in una sorta di Rambo in gonnella colei che in ordine successivo fa il “leasing” [contratto di locazione finanziaria], va al “briefing” [riunione operativa], e viene via dal “meeting[incontro], sola come un uomo”. Una donna, dunque, quella che si dedica soltanto al lavoro che sembra dover pagare a caro prezzo questa sua dedizione alla professione piuttosto che al “focolare”. Al contempo, anche la cosiddetta “donna con la gonna”, vale a dire colei che opta per una scelta di vita più tradizionale, dedicandosi “in toto” alla cura della casa, alla crescita dei figli e al rapporto di coppia, non è esente da prezzi da pagare. Perché, quasi inutile ricordarlo, come dice un noto detto “ogni scelta comporta una rinuncia”.

Quindi, tanto le “signorine Rambo” che le “donne con le gonne”, finché non interverranno misure a livello statale in grado di consentire una migliore conciliazione di tempi e ritmi di vita familiare e lavorativa, saranno imprigionate in scelte radicali forse mai pienamente soddisfacenti. Ma seguendo le orme delle regioni italiane più “virtuose” in fatto di lavoro per le donne, cosa sarebbe possibile fare per superare questa situazione di impasse tra famiglia e lavoro e, quindi, aiutare le donne a fare delle scelte più a propria misura? I passaggi che seguono offriranno spunti al riguardo.

Come conciliare figli e lavoro. Un input che merita un po’ di attenzione è quello che viene fornito da Adele Gerardi della provincia autonoma di Trento, autrice di un volume uscito nel 2014 ed intitolato “Figli e lavoro si può”. Tra le chiavi di volta per una conciliazione di esigenze familiari e lavorative devono annoverarsi:

  • Asili nido in ambito aziendale;
  • Asili nido di comunità;
  • Ricorso ad orari lavorativi flessibili;
  • Forme di telelavoro;
  • Lavoro agile.

Accantonando, quantomeno per ora, le questioni legate agli asili nido aziendali in quanto di spettanza dei datori di lavoro, concentriamo invece l’attenzione sulle ultime novità in tema di formule lavorative, contrattabili in fase di accordi tra datore di lavoro e lavoratrice. Infatti, considerato che è sempre più difficile riuscire a vivere in modo dignitoso e, al contempo, mantenere una famiglia potendo contare su un solo stipendio, è giocoforza che entrambi i coniugi compartecipino all’economia familiare. Cosa magari molto più facile a dirsi, che a farsi. Infatti, se il datore di lavoro non dovesse essere favorevole a concedere il part-time alla mamma che lavora, questo potrebbe tradursi in una continua corsa ad ostacoli con conseguenze ben immaginabili sulla qualità di vita. E, come si sa, una moglie e una madre stressata non è di nessun beneficio né a sé né agli altri che le vivono accanto. Quindi, vediamo ora come il telelavoro e il “lavoro agile”, menzionati nel libro anzidetto, potrebbero cambiare in meglio la vita delle mogli e madri di famiglia che lavorano.

Telelavoro. La qualificazione giuridica del telelavoro nel settore privato dipende dalle concrete modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Che vuol dire questo in parole povere? Che colui che lavora in modalità di telelavoro può essere titolare tanto di un rapporto di lavoro autonomo, quanto subordinato, fermo restando che in quest’ultimo caso deve esistere l’assoggettamento del lavoratore al potere di direzione del datore di lavoro. In buona sostanza, nel telelavoro, l’attività lavorativa è eseguita mediante il ricorso alle nuove tecnologie informatiche ed è prestata in un luogo diverso e alle volte pure molto distante dalla sede materiale dell’impresa.

Per cui, quando, ad esempio, nelle offerte di lavoro capita d’imbattersi nella scritta “lavoro da remoto”, ciò sta a significare che è possibile lavorare anche da casa o comunque in una location diversa dalla sede dell’impresa. Ciò accade di frequente, ad esempio, per tipologie di lavoro come quelle legate al giornalismo che consentono ai collaboratori free-lance di lavorare ovunque, a condizione che si abbia la disponibilità di un proprio personal computer e di una connessione alla rete informatica.

Quanto poi alle riunioni di redazione, è possibile ovviare alla presenza congiunta in uno stesso luogo, tramite le cosiddette telefonate in video-conferenza o grazie ai collegamenti skype. Una serie di nuove modalità di espletamento delle mansioni lavorative assegnate che potrebbero far tirare un sospiro di sollievo alle mamme moderne, eternamente in lotta contro il tempo.

Il lavoro agile. Il “lavoro agile” o “smart working” rappresenta una particolare modalità esecutiva del lavoro subordinato e trova la sua disciplina all’interno di una normativa del 2017 [Artt. 18-24 L. 81/22 maggio 2017].

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/06/13/17G00096/sg

L’elemento che più caratterizza questa nuova formula lavorativa è sicuramente la maggiore autonomia riconosciuta al prestatore di lavoro circa:

  • Il tempo della prestazione;
  • Il luogo della prestazione.

La prestazione di lavoro può, quindi, essere resa tanto all’interno che all’esterno dei locali aziendali, senza però una postazione fissa. Questa maggiore libertà di movimento concessa al prestatore di lavoro richiede però un accordo tra datore di lavoro e prestatore di lavoro da stipularsi per iscritto al fine di definire quanto segue:

  • Le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa;
  • Le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro;
  • Le forme di esercizio del potere di controllo del datore di lavoro;
  • I poteri disciplinari del datore di lavoro.

Tutto questo assume una particolare importanza nel caso in cui l’esecuzione della prestazione lavorativa venga svolta all’esterno dei locali aziendali, perché nonostante la maggiore flessibilità nelle modalità di espletamento della mansione lavorativa, si tratta pur sempre di lavoro subordinato.

Lavoro agile e lavoratrici. Essendo il lavoro agile nato e finalizzato ad agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, questo sembra uno strumento particolarmente adatto alle donne che hanno famiglia e che lavorano. Va ricordato, però, che è possibile ricorrere al “lavoro agile” solo nei casi in cui la prestazione di lavoro si svolga per fasi, cicli o anche obiettivi, senza il rispetto di precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. Per cui al lavoratore/lavoratrice è consentito uscire dai locali aziendali, rimanendo però attivo/a e rintracciabile tramite dispositivi mobili, come laptop, cellulare, o tablet. La mancanza di una postazione fissa e la maggiore flessibilità non significa, però, che sia possibile superare i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero stabilito per legge.

Quindi, largo alla flessibilità, ma sempre nel rispetto delle regole.

Maria Teresa Biscarini         La legge per tutti       26 agosto 2019

www.laleggepertutti.it/295348_lavoro-o-famiglia-cosa-scegliere

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MEDICINA

Il matrimonio riduce il rischio di demenza legata all’età

Washington – Il matrimonio fa bene al cervello, eccome. Uno studio della Michigan State University, pubblicato sulla rivista The Journal of Gerontology Series B, ha scoperto che le persone sposate hanno meno probabilità di soffrire di demenza quando invecchiano. Al contrario, le persone divorziate, specialmente gli uomini, hanno circa il doppio delle probabilità rispetto alle persone sposate di sviluppare la demenza. Per arrivare a questi risultati i ricercatori hanno coinvolto sia persone sposate, che celibi, separate, divorziate, conviventi e vedove, per un totale di oltre 2mila soggetti di età superiore ai 52 anni d’età. Tra questi, i divorziati avevano il più alto rischio di demenza.

            “Questa ricerca è importante perché il numero di adulti non sposati negli Stati Uniti continua a crescere, poiché le persone vivono più a lungo e le loro storie coniugali diventano più complesse”, ha detto Hui Liu, che ha coordinato lo studio. “Lo stato civile è un fattore di rischio / fattore di protezione sociale importante ma trascurato per la demenza”, aggiunge. I ricercatori hanno anche scoperto che le diverse risorse economiche spiegano solo in parte il rischio di demenza più elevato tra gli intervistati divorziati, vedovi e non sposati, ma non sono stati in grado di spiegare il perché sembrerebbe esserci un rischio maggiore nei conviventi.

            Inoltre, fattori legati alla salute, come cattive abitudini e condizioni croniche, hanno leggermente influenzato il rischio tra divorziati e sposati, ma non sembrano influenzare altri stati coniugali. “Questi risultati saranno utili per i responsabili delle politiche sanitarie e i professionisti che cercano di identificare meglio le popolazioni vulnerabili e di progettare strategie di intervento efficaci per ridurre il rischio di demenza”, conclude Liu.

La repubblica on line 29 agosto 2019

https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2019/08/29/news/il_matrimonio_riduce_il_rischio_di_demenza_legata_all_eta_-234610107/?ref=RHPPBT-VU-I234643554-C4-P21-S1.4-T2

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OMOFILIA

Non esiste il ‘gene gay’, omosessualità mix Dna-ambiente

Da cosa dipende l’omosessualità? Perché si diventa gay? Si tratta di un vizio, una malattia, di un gusto, una tendenza o di una semplice questione genetica? Quando si parla di gay spesso regna la totale ignoranza, aggravata dal preconcetto e dall’ortodossia. L’omosessualità nasce da un mix di fattori genetici e ambientali. Né più né meno di moltissime altre caratteristiche umane, fisiche o di personalità. In altre parole: “Non esiste un singolo ‘gene gay’, bensì migliaia di varianti genetiche associate al tratto, ognuna con piccoli effetti”. Ha i colori dell’arcobaleno, chiamando in causa un cocktail di elementi che spaziano dal DNA alle influenze esterne, la conclusione di un maxi-studio pubblicato su ‘Science’, come riportato dalla nota stampa di Adnkronos.

La prima firma del lavoro è quella dell’italiano Andrea Ganna, in forze negli Usa al Broad Institute del Mit e di Harvard. Ganna e colleghi hanno esaminato le caratteristiche genetiche di un vasto campione di persone alle quali è stato chiesto se avevano mai avuto una relazione con persone dello stesso sesso. Più precisamente hanno analizzato le risposte ed eseguito studi di associazione sull’intero genoma, indagando complessivamente su dati da oltre 470mila persone della Uk Biobank e della società californiana 23andMe. Ebbene, “le varianti genetiche di una persona – riassumono gli autori – non predicono in modo significativo se avrà comportamenti omosessuali”.

I ricercatori, infatti, non sono riusciti a trovare “nessun modello che permetta, sulla base di varianti genetiche individuali, di prevedere o identificare in maniera affidabile l’orientamento sessuale di un soggetto “. Soltanto 5 varianti genetiche apparivano “significativamente collegate” all’omosessualità, e migliaia risultavano “coinvolte”. Tuttavia, “nel loro insieme queste varianti producevano solo piccoli effetti” e quindi sono “lontane dall’essere predittive”.

Gli scienziati sottolineano come alcune delle varianti genetiche associate al comportamento omosessuale sono collegate a percorsi biologici relativi agli ormoni sessuali e all’olfatto, fornendo perciò indizi sui meccanismi che influenzano l’orientamento gay. “I nostri risultati forniscono approfondimenti sulle basi biologiche del comportamento omosessuale”, affermano gli autori che evidenziano con fermezza “l’importanza di evitare conclusioni semplicistiche” per diverse ragioni: da un lato perché “i fenotipi comportamentali sono complessi” e “le nostre intuizioni genetiche” in materia “sono rudimentali”, dall’altro perché purtroppo “esiste una lunga storia di uso improprio dei risultati genetici a fini sociali”.

In una ‘Perspective’ sull’articolo, Melinda Mills dell’università di Oxford (Gb) commenta: “Sebbene lo studio abbia scoperto particolari loci genetici associati all’omosessualità, quando si combinano i loro effetti tutti insieme in un unico punteggio questo risulta così piccolo (inferiore all’1%) da non poter essere utilizzato in modo affidabile per prevedere il comportamento omosessuale di una persona”. In definitiva, “usare questi risultati per una previsione o un intervento è impossibile. Totalmente e senza riserve”.

AdnKronos Salute     30 agosto 2019

www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=52835

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WELFARE

Bonus per le famiglie con almeno tre figli.

La Carta è uno strumento che consentirà alle famiglie, con almeno tre figli conviventi di età non superiore a 26 anni di età, di accedere a sconti e riduzioni tariffarie sull’acquisto di beni e servizi, che saranno concessi dalle aziende pubbliche e private e dagli operatori economici aderenti. Per l’attuazione della Carta sono previste, per la prima volta, risorse dedicate.

La Carta della famiglia è stata rifinanziata dal 2019 e fino al 2021. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 30 agosto 2019 il decreto che illustra novità, requisiti e regole per richiedere il bonus.

                         www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/08/30/19A05472/sg

Si tratta della carta che consente ai suoi beneficiari di accedere a particolari sconti negli esercizi commerciali convenzionati, ma che a partire dal 2019 potrà essere concessa esclusivamente ai residenti in Italia o in Unione Europea. Ne restano totalmente esclusi gli stranieri extracomunitari.

Le novità riguardano anche i requisiti economici previsti per poter fare domanda: non è più previsto un limite ISEE che, si ricorda, era fissato a 30.000 euro fino allo scorso anno.

La Carta verrà emessa in via telematica, su richiesta degli interessati, dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, mediante una piattaforma digitale articolata in un portale internet e in corrispondenti applicazioni per i principali sistemi operativi di telefonia mobile.

Il decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 agosto 2019 definisce:

  • I criteri per l’individuazione dei beneficiari della Carta della famiglia;
  • Le modalità di rilascio della Carta;
  • Le agevolazioni previste per i titolari della Carta.

www.informazionefiscale.it/IMG/pdf/carta_famiglia.pdf

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