NewsUCIPEM n. 760 – 30 giugno 2019

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Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, 2019che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Sono così strutturate:

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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

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02 ADDEBITO                                                    Violazione dei diritti nascenti dal matrimonio

02 ADOZIONE                                      Diventa possibile l’adozione per i single

03 ADOZIONE INTERNAZIONALE              Nuovi segnali di apertura

04                                                                          Rapporto 2018: finiamola di chiamarli “special needs”

05 ADOZIONI INTERNAZIONALI                                Bolivia. Cosa cambierà con la nuova legge

06 AFFIDO CONDIVISO                                 La regolamentazione dei primi anni di vita del bambino

07 AFFIDI                                                           Affidi illeciti a Reggio Emilia: serve subito l’avvocato del minore

08 ASSEGNO DIVORZILE                              Conta anche l’addebito della crisi coniugale

09 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 25, 26 giugno 2019.

09 CHIESA CATTOLICA                                  Ampolle e rosari. Così la Lega combatte il Vangelo

11                                                                          Resistere al populismo

12                                                                          Populismo? Vescovi tedeschi: una guida per le comunità cattoliche

13 CITTÀ DEL VATICANO                              Dicastero laici, famiglia, vita: incontro sul tema degli abusi

16 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL.        Lotta agli abusi

17                                                                          Da oggi in vigore le linee guida Cei sulla tutela dei minori

18 CONGRESSI–CONVEGNI–CORSI         La famiglia nel diritto: 17 luglio 2019 a Roma.

19 CORTE COSTITUZIONALE                       La libertà sessuale è un diritto, ma non giustifica il favoreggiamento prostituzione

20                                                                          Prostituzione: dignità umana e autodeterminazione                  

22 DALLA NAVATA                                         XIII Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 30 giugno 2019 

23                                                                          Gesù vuole eliminare il concetto stesso di “nemico”

23 DIVORZIO                                                    Divorzio in Italia secondo il diritto marocchino

24 DONNE NELLA CHIESA                            L’ora del femminismo evangelico

24                                                                          Tutto quello che c’è da sapere per evitare lo scisma del XXI secolo

26                                                                          Se ministero fa rima con mistero

27                                                                          Occhi di donna sulla bibbia

28                                                                          La femmina? Fa ancora paura

30                                                                          Dare corpo alla teologia

32                                                                          La carica delle religiose

33                                                                          All’insegna di Dio-Madre

36                                                                          Cura d’anime al femminile

37 ENTI TERZO SETTORE                               Adeguamento statuti: approvata la proroga al 30 giugno 2020

38                                                                          Statuti Terzo settore: il vademecum per adeguarli bene

38 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    Lavoratrice incinta porta valore sociale, urge cambiamento culturale

39                                                                          Affidi illeciti: chi ha sbagliato paghi ma si rilanci l’istituto dell’affido

39 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA       Avviare processi, non cercare risultati mediatici privi di maturità

41 OMOFILIA                                                    La teologa Cristina Simonelli: “La scrittura può essere riletta”

43 UTERO IN AFFITTO                                No a surrogazione di maternità, un bambino non si prenota. Si ama

44                                                       Associazioni femministe contro l’utero in affitto    

 

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ADDEBITO

Violazione dei diritti nascenti dal matrimonio

Tribunale Bari, seconda sezione civile, sentenza 18 marzo 2019

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/giurisprudenza/archivio/21919.pdf

La violazione dei doveri nascenti dal matrimonio non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma, ove ne sussistano i presupposti secondo le regole generali, può integrare gli estremi di un illecito civile e la relativa azione deve ritenersi del tutto autonoma rispetto alla domanda di separazione e di addebito ed esperibile a prescindere da dette domande, ben potendo la medesima “causa petendi” dare luogo a una pluralità di azioni autonome contrassegnate ciascuna da un diverso ” petitum”.

Ne deriva, inoltre che ove nel giudizio di separazione non sia stato domandato l’addebito, o si sia rinunciato alla pronuncia di addebito, il giudicato si forma, coprendo il dedotto e deducibile, unicamente in relazione al “petitum” azionato e non sussiste pertanto alcuna preclusione all’esperimento dell’azione di risarcimento per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio, così come nessuna preclusione si forma in caso di separazione consensuale.

Angela Farella           Giancarlo Russo Frattasi       Il Caso.it, 21919 -. 21 giugno 2019

Sentenza                         http://mobile.ilcaso.it/sentenze/ultime/21978

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ADOZIONE

Diventa possibile l’adozione per i single

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. n. 17100, 26 giugno 2019,

Cassazione: anche una persona non sposata e anziana da oggi potrà adottare un bambino minorenne.

Da oggi in poi, anche i single potranno adottare i bambini. E non solo. L’età del genitore non sarà più un ostacolo o un criterio di selezione: potranno infatti accedere all’adozione anche le persone che hanno raggiunto una certa “maturità” anagrafica. Né a rilevare sarà il fatto che il minore sia affetto da un grave handicap: le condizioni di salute del piccolo non saranno più un limite per avviare le pratiche.

A sdoganare definitivamente la possibilità per chi non è sposato e per le coppie di fatto di adottare un bambino è la Corte di Cassazione. La vicenda sembra quasi la storia di un film strappalacrime. Un bambino di appena sette anni viene abbandonato dai genitori per via di un grave handicap fisico dal quale era affetto: tetraparesi spastica. Il piccolino veniva così affidato alle cure di una donna di 62 anni. Contro quest’ultima si sono subito scagliati i genitori naturali – sotto la spinta di chissà quale ripensamento – chiedendo la revoca dell’assegnazione del minore. È arrivata la Cassazione però a rigettare il ricorso del padre e della madre.

La signora single aveva instaurato un ottimo rapporto con il minore: tanto è bastato per ritenere corretta l’adozione della donna single ultrasessantenne.

A pesare sull’ago della bilancia, come sempre avviene in questi casi, è stato ovviamente l’interesse preminente del bambino. Resterà dunque pur sempre questo il metro valutativo delle autorità nella scelta dei genitori adottivi. E c’è da aspettarsi quindi che, nelle graduatorie, la coppia giovane composta da padre e madre sarà preferita alle altre. Ma il fatto di essere single o coppie non sposate, e di età avanzata, non potrà essere più, almeno a priori, un motivo ostativo per concedere l’adozione.

Sul punto i Supremi giudici precisano infatti che la legge n. 184 del 1983 integra una clausola di chiusura del sistema, intesa a consentire l’adozione tutte le volte in cui è necessario salvaguardare la continuità affettiva ed educativa della relazione tra adottante e adottando (e non certo tra quest’ultimo ed i genitori naturali), come elemento caratterizzante del concreto interesse del minore a vedere riconosciuti i legami sviluppatisi con altri soggetti che se ne prendono cura. Essa presuppone la constatata impossibilità di affidamento preadottivo, che deve essere intesa come impossibilità di diritto – come nel caso di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante – in quanto, a differenza dell’adozione piena, tale forma di adozione non presuppone necessariamente una situazione di abbandono dell’adottando e può essere disposta allorché si accerti, in concreto, l’interesse del minore al riconoscimento di una relazione affettiva già instaurata e consolidata con chi se ne prende stabilmente cura.

Inoltre, la mancata specificazione di requisiti soggettivi di adottante ed adottando, come pure del limite massimo di differenza di età (prescrivendo la legge solo che l’età dell’adottante deve superare di almeno diciotto anni quella dell’adottando) implica che l’accesso a tale forma di adozione non legittimante è consentito alle persone singole ed alle coppie di fatto, nei limiti di età suindicati e sempre che l’esame delle condizioni e dei requisiti imposti dalla legge, sia in astratto (l’impossibilità dell’affidamento preadottivo) che in concreto (l’indagine sull’interesse del minore), facciano ritenere sussistenti i presupposti per l’adozione speciale.

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Ordinanza                www.laleggepertutti.it/290323_diventa-possibile-ladozione-per-i-single

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Adozioni internazionali, nuovi segnali di apertura

Nonostante il calo, siamo tra i Paesi al mondo con il più alto numero di adozioni internazionali. E le famiglie italiane sono le candidate ideali.

Salvare un bambino dalla strada o da un istituto. Un bambino che vive in un Paese che non tutela l’infanzia come meriterebbe. Diventare genitori così, adottando, resta un gesto coraggioso e un impegno enorme. Pare che in Italia la cultura dell’adozione dia ancora segnali di vita, e che si stiano riaprendo dialoghi interessanti con alcuni Paesi in precedenza più chiusi.

            Un calo delle adozioni non rilevante. Pochi giorni fa la Commissione per le adozioni internazionali ha diffuso il rapporto statistico redatto sui numeri del 2018. Spiega la vicepresidente della Commissione, la dottoressa Laura Laera: «Siamo ancora il secondo Paese al mondo per numero di ingressi di minori, e anche in termini relativi siamo tra le nazioni al mondo con i più alti tassi di adozioni internazionali. Il calo degli ultimi anni sembra essersi fermato e assestato su una soglia limite sotto la quale speriamo di non scendere. Abbiamo registrato una diminuzione, rispetto al 2017, ma è un calo non rilevante. Solo una piccola erosione, in un quadro mondiale che vede prosciugarsi l’adozione internazionale». Per la precisione, ecco i numeri: 1.394 minori entrati in Italia nel 2018 (erano 1.440 nel 2017, pensare che nel 2012 erano stati 3.106). Le coppie che hanno adottato sono calate del 3% appena, dalle 1.163 del 2017 alle 1.130 dell’anno scorso.

Quali le ragioni del calo mondiale degli ultimi anni?

«Non è vero che nel mondo ci sono meno bambini abbandonati o rimasti senza famiglia», spiega la dottoressa Laera. «Piuttosto, il calo globale deriva dalla progressiva chiusura dei Paesi d’origine, che adottano politiche di trattenimento dei bambini sul territorio. Per scelta politica nazionalistica, o per la sempre più diffusa cultura che privilegia i legami di sangue e territoriali». È un bene o un male? «Finché ci sono bambini nel mondo che non trovano famiglia, c’è un problema. Se gli Stati riescono ad organizzare buone politiche di tutela dell’infanzia pur trattenendo i minori entro i propri confini, bene. Se non succede, abbiamo bambini in strada o a riempire gli istituti. Ed è certamente male».

I Paesi più aperti. Torniamo all’Italia. Oltre alla stabilizzazione dei numeri, va registrato lo sviluppo recente dei rapporti con alcuni Paesi. Perché le adozioni internazionali si basano su accordi bilaterali e sulla disponibilità dei governi a far lavorare sul territorio le associazioni. C’è l’apertura della Cambogia, con un pre-accordo che apre all’accreditamento di tutti gli otto enti storicamente operativi nel Paese, dopo una lunga chiusura. «C’è stato un incontro con le autorità congolesi, e anche il Senegal ha mostrato disponibilità», spiega Laera, «ma siamo all’inizio, serve ancora molto lavoro e tempi lunghi perché si accenda la luce». Mentre tengono bene Federazione russa, Colombia, Ungheria, Bielorussia e India, l’Africa è il continente da cui proviene il minor numero di bambini. «È paradossale, perché l’instabilità geopolitica propria di quell’area limita le possibilità, proprio in Paesi con un gran numero di minori abbandonati».

Aumenta l’età dei bambini: quali i problemi?    

Altri numeri evidenziano altre criticità. Una su tutte: l’età media dei minori adottabili sta aumentando, sia in Italia che all’estero. Nel 2018 quasi un bimbo su due aveva tra i 5 e i 9 anni al momento dell’ingresso in Italia. Nel 2000 la fascia di età più rappresentata era quella 1-4 anni. Perché è un potenziale problema? Si legge nel rapporto che «un “bambino grande” è portatore di alcune caratteristiche ricorrenti, come l’avere un legame più forte e radicato con la propria terra d’origine e quindi con gli usi, i costumi ed addirittura con l’alimentazione del proprio Paese, l’aver generalmente vissuto diversi anni in Istituto e quindi l’aver presumibilmente subito le deprivazioni affettive, psicologiche e relazionali tipiche di quella situazione». Tutto questo può dare origine a difficoltà di relazione, incapacità nell’instaurare un nuovo legame affettivo importante, diffidenza verso gli adulti.

Un quadro che allontana le famiglie, più disposte ad accogliere minori in tenera età e più “spaventate” all’idea di adottare un bambino sopra i 5-7 anni. Per sciogliere il nodo del divario tra richieste dei potenziali genitori e bisogni dei bambini, la Commissione auspica un maggiore sforzo per mostrare alle coppie che anche l’adozione di bimbi grandi può avere un’ottima riuscita, se la coppia viene accompagnata correttamente e preparata a gestire le esigenze psicologiche del minore.

Le famiglie italiane candidati ideali. Anche da Marco Griffini, presidente di Ai.Bi – Associazione amici dei bambini, arriva un segnale di ottimismo. Ai.Bi. è uno dei 51 enti accreditati, le associazioni attive nei diversi Paesi dalle quali le coppie che adottano devono passare per completare l’iter e accogliere un bambino. Nel 2018 ha finalizzato 53 adozioni internazionali. «È ricominciato un dialogo costruttivo e la Commissione per le adozioni si è rimessa in movimento, dopo 4 anni di stallo. L’Italia è in alto nella classifica perché i Paesi lavorano volentieri con le famiglie italiane, di solito ben preparate, dagli enti come il nostro, ad affrontare l’adozione. Siamo l’unico Paese che prevede questo sistema, e siamo anche più disponibili ad adottare bambini con i cosiddetti “special needs”. Il problema vero è la disaffezione delle famiglie verso il tema. Un po’ per effetto del disinteresse della politica e dell’opinione pubblica negli ultimi anni: passatemi la provocazione, ma sappiamo quante balene muoiono per la plastica nei mari ogni giorno e quali specie arboree sono in via di estinzione, ma non quanti bambini abbandonati ci sono nel mondo. E poi per le difficoltà burocratiche e l’intasamento dei tribunali che devono emettere i decreti di idoneità. Ma resto ottimista, sempre che questo argomento torni ad essere una priorità della agenda politica».

L’iter dell’adozione internazionale. L’adozione internazionale, nel nostro Paese, è regolata dalla legge 184/1983 poi modificata dalla legge 476/1998 e dalla legge 149/2001. Secondo tali norme la coppia che intende adottare è obbligata all’ottenimento dell’idoneità che deve essere rilasciata dal Tribunale per i minorenni. Si comincia presentando dichiarazione di disponibilità al Tribunale competente in base alla residenza.

Questi i requisiti:

  1. I coniugi devo essere sposati da almeno 3 anni o aver convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di 3 anni.
  2. La differenza di età tra i coniugi e l’adottato deve essere compresa tra i 18 e i 45 anni (sono previste alcune deroghe: per i coniugi che adottano due o più fratelli, se esiste già un figlio naturale minorenne in famiglia o se solo uno dei due coniugi supera il limite massimo di età in misura non superiore a 10 anni).
  3. I coniugi devo essere idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare.

Il Tribunale dei minori dichiara l’idoneità o l’insussistenza dei requisiti dopo aver consultato il parere dei Servizi socio-assistenziali degli enti locali coinvolti. Ottenuto l’ok la coppia ha un anno di tempo per dare mandato a uno degli enti autorizzati dalla Commissione per le adozioni internazionali.

Ernesto Brambilla     Donna moderna         27 giugno 2019

www.donnamoderna.com/news/societa/adozioni-internazionali-italia

www.aibi.it/ita/donna-moderna-adozioni-internazionali-nuovi-segnali-di-apertura-griffini-ai-bi-le-famiglie-italiane-candidate-ideali

 

Rapporto adozione internazionale 2018: finiamola di chiamarli “special needs

Numeri interessanti quelli che emergono dal rapporto annuale della CAI – Commissione Adozioni Internazionali, “Dati e prospettive nelle Adozioni Internazionali”, per l’anno 2018. Il più significativo è il rapporto, rispetto al totale dei minori adottati in Italia, dei bimbi classificati come “special needs” (“bisogni speciali”). Ebbene, cita il documento che “nel 2018 a fronte di 1.394 minori autorizzati all’ingresso in Italia 981 riguardano minorenni portatori di uno o più special needs. Numericamente parlando il fenomeno interessa dunque una netta maggioranza degli ingressi pari al 70% del totale. Nella maggior parte dei casi si tratta di minori adottati in età maggiore di sette anni che incidono sul totale degli special needs per il 60%”.

Sostanzialmente, quindi, ben nove minori ogni 13, tra quelli adottati, rientrano in questa peculiare categoria, e quasi sei sono superiori ai sette anni di età. Cosa significa questo? Alla fine dell’estate del 2009 il Permanent Bureau della conferenza dell’Aja ha pubblicato la “Guida alle buone prassi” e ha dedicato un intero capitolo ai bambini “special needs”. In particolare, anche a causa dell’aumento di bambini che arrivano all’adozione internazionale in situazioni di particolari necessità, sono state elaborate delle Linee Guida che suggeriscono percorsi operativi pensati per facilitare l’adozione dei minori “special needs” e sono stati invitati gli Stati a non alimentare speranze irrealistiche di bambini “sani e molto piccoli”.

Secondo tali Linee Guida, comunque, sono classificati automaticamente come bambini “special needs” tutti quelli che superano i sette anni di età. Allo stesso modo sono considerati i bimbi che fanno parte di “fratrie”, di gruppi di fratelli.

Una situazione che dovrebbe far riflettere. “Non c’è nulla di più sbagliato – commenta il presidente di Ai.Bi. – Amici dei Bambini, Marco Griffini – che l’affibbiare a questi bambini, che dovrebbero essere semplicemente chiamati ‘bambini di sette, otto, nove anni’ o ‘gruppi di fratelli’ e così via, un termine come ‘special needs’. Una forma di ghettizzazione, questa, che non fa altro che contribuire alla formazione di quelli che saranno poi considerati ‘bambini difficili’. Le Linee Guida dell’Aja sono, in tal senso, davvero sciagurate perché creano bambini di serie A e bambini di serie B. Ma va detto che, purtroppo, capita che siano gli stessi tribunali per i minorenni a favorire queste situazioni. Accade infatti di leggere decreti di idoneità conferiti ad aspiranti genitori adottivi con frasi come ‘idoneo ad un minore 0 -3 anni, senza difetti fisici ne traumi di natura psicologica’!”

            Per quanto riguarda gli altri dati emersi dal rapporto, la segnalazione che “tutte le regioni hanno conosciuto nel periodo 2012-2018 una riduzione consistente dei contingenti annui di bambini entrati a scopo adottivo: se la riduzione media nazionale nel periodo è pari al 55%, tutte le regioni – ad eccezione di Friuli-Venezia Giulia (- 25%), Puglia (-34%) e Calabria (-39%) – hanno conosciuto una riduzione che oscilla tra il 40% ed il 70% dei casi”. Sempre a livello di regioni, ve ne sono con performance adottive più alte, come il Friuli Venezia Giulia, la migliore (22,8 minori ogni 100mila residenti sul territorio cui è stato concesso l’ingresso in Italia a scopo adottivo) e altre con risultati più bassi, come la Sardegna, la più bassa in assoluto (6,5 minori ogni 100mila residenti).

            E per quanto riguarda i Paesi di provenienza? Nel 2018 si conferma quale principale Paese di provenienza dei minorenni adottati la Federazione Russa, con complessivamente 200 adozioni pari al 14% del totale delle adozioni internazionali realizzate in Italia. Seguono per numero di minori adottati altre quattro realtà con un numero di adozioni superiore alle 100 unità: Colombia (169), Ungheria (135), Bielorussia (112), India (110). Seguono tre Paesi che contano tra le 50 e le 100 adozioni: Bulgaria, Repubblica Popolare Cinese, Vietnam.

            A livello di coppie adottive, in totale sono state 1.130 ad aver concluso con successo l’iter adottivo e la notizia positiva è che la flessione, che negli anni precedenti era stata maggiore, rispetto al 2017 è solo del 3%. Nel 2018 si innalza ulteriormente l’età delle coppie adottanti alla data del decreto di idoneità, e così “la classe di età a maggiore frequenza per i mariti (41,4%) così come per le mogli (42%) è la 40-44 anni. Un esiguo 0,2% dei mariti e 0,6% delle mogli ha meno di 30 anni, mentre al di sopra dei 50 anni si collocano il 12% dei mariti e il 7% delle mogli. Pertanto l’età media dei mariti, alla data del decreto di idoneità, è stata di 43,8 anni – era di 43,6 anni nel 2017 – e quella delle mogli di 42,4 – era di 41,8 anni nel 2017”.

News Ai. Bi. 26 giugno 2019

www.aibi.it/ita/rapporto-adozione-internazionale-2018-finiamola-di-chiamarli-special-needs

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Bolivia. Cosa cambierà con la nuova legge.

La legge 229 per la “Abreviación Procesal para Garantizar la Restitución del Derecho Humano a la Familia de las Niñas, Niños y Adolescentes”, formata in aprile dal Presidente Evo Morales, entrerà in vigore nel mese di agosto 2019. Le autorità boliviane stanno lavorando sulla definizione del protocollo attuativo della stessa e solo allora sarà possibile capire quali potranno essere le reali implicazioni di questa nuova legge sulle procedure adottive in Bolivia.

            Come riportato nella notizia recentemente da noi pubblicata si tratta di una importante riforma del Codice per la bambina, il bambino e l’adolescente che ha lo scopo primario di accelerare i processi di adozione nel Paese sudamericano. Le principali novità introdotte dalla riforma con riferimento all’adozione (e, in particolare, con riferimento alla adozione internazionale) possono essere così riassunte:

 

  • Il periodo di convivenza pre-adottiva che la coppia deve effettuare in Bolivia non deve essere superiore a un mese (il termine è stato dunque ridotto da due mesi a un mese);
  • Il tempo che intercorre dal deposito della domanda di adozione al giudice fino alla sentenza non potrà essere superiore a due mesi (precedentemente il termine era di quattro mesi);
  • L’omologazione dei certificati medici delle coppie non sarà più effettuata dai SeDeGeS (Servicios Departamental De Gestione Social) bensì dall’equipe dell’Autorità Centrale. Anche questo dovrebbe portare ad una riduzione dei tempi;
  • Viene istituito un registro unico per l’adozione nazionale e internazionale (presso il Tribunale Supremo di Giustizia) con l’elenco dei minori in stato di adottabilità;
  • Come accadeva in passato (prima della ripresa delle adozioni nel 2015), responsabili degli abbinamenti torneranno ad essere i giudici in materia di infanzia e adolescenza. L’abbinamento tornerà ad essere “giudiziario” e non più “amministrativo”;
  • Si riducono i termini per definire lo stato giuridico di un minore istituzionalizzato.

Una riforma, quella boliviana, sicuramente necessaria: secondo stime dell’UNICEF sono più di 8mila i bambini fuori famiglia con una situazione legale non definita. Bambini che, peraltro, rischiano di rimanere vittime dello sfruttamento minorile. Dopo la riapertura alle adozioni internazionali della Bolivia, dal 2016 sono state depositate le prime pratiche e, nonostante la lentezza delle procedure burocratiche, già ad oggi diverse coppie sono riuscite a portare in Italia i loro bambini.

Ai.Bi. – Amici dei Bambini è ente accreditato ad operare nel Paese sudamericano. Chi fosse interessato a saperne di più sulla adozione internazionale in Bolivia, potrà trovare tutte le informazioni sul sito dell’organizzazione.

News Ai. Bi. 24 giugno 2019

www.aibi.it/ita/adozioni-bolivia-con-la-nuova-legge-cosa-cambiera-per-le-coppie-adottive

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AFFIDO CONDIVISO

Affidamento figli: la regolamentazione dei primi anni di vita del bambino

       Come affermato dalla Società italiana scienze forensi, l’affidamento materialmente condiviso è considerato quale migliore realizzazione delle esigenze della prole di usufruire di una equilibrata relazione emotivo-relazionale con le due figure genitoriali.

Il principio di bigenitorialità. In generale l’affidamento condiviso è la regola che disciplina l’affidamento dei figli a seguito della cessazione della relazione affettiva e quindi della convivenza tra i genitori. La giurisprudenza richiama le indicazioni della CEDU secondo cui, affinché il principio in oggetto abbia attuazione, al diritto del figlio a mantenere rapporti con entrambi i genitori (art. 337 ter c.c.) debba corrispondere il diritto di ciascun genitore a mantenere rapporti effettivi con i figli.

Ai sensi degli artt. 147, 315 bis e 316 c.c., nell’interesse del figlio ad una crescita serena il genitore deve essere posto nelle condizioni di esercitare la responsabilità genitoriale che gli compete.

Orientamenti delle corti di merito

Allorché si tratti di individuare le concrete modalità di esercizio e attuazione del diritto del genitore a mantenere i rapporti con i figli, si deve tuttavia sempre tenere conto delle particolarità di ogni caso.

Un primo particolare che è di fondamentale importanza è l’età anagrafica del minore. Anche la CEDU affermerebbe che la coercizione per il raggiungimento dell’obiettivo di mantenimento del legame familiare deve essere sempre usata con estrema prudenza, tenendo conto in particolare dell’interesse superiore del minore.

Eventuali provvedimenti impositivi di alcuni rapporti, visite ecc. possono effettivamente non corrispondere a quello che deve essere sempre perseguito come obiettivo nel diritto di famiglia, ovvero l’interesse esclusivo del minore. Se infatti le modalità sono imposte e non frutto dell’elaborazione spontanea delle relazioni affettive genitoriali, esse finirebbero per risultare controproducenti e pregiudicanti il rapporto padre-figlio oltre che il bene del figlio stesso.

Il caso del tribunale di Roma. Le parti depositavano ricorso al fine di ottenere provvedimenti che riguardassero l’affidamento e il mantenimento del figlio di appena due anni, nato dalla relazione di convivenza intrattenuta e poi terminata tra i genitori.

La madre in particolare si allontanava dall’abitazione familiare in cerca di lavoro nonché a causa del comportamento disinteressato del padre. Pertanto quest’ultima chiedeva l’affidamento condiviso del figlio minore, con collocamento prevalente presso la propria abitazione e con conseguente disciplina di frequentazione padre-figlio nelle seguenti modalità:

– un giorno di visita a settimana, una domenica ogni due settimane, senza pernottamento;

– periodi di festività senza pernotto fino al compimento del terzo anno di età del figlio.

Ella domandava altresì la corresponsione di un assegno mensile pari ad Euro 700 a titolo di mantenimento, nonché il 50% delle spese straordinarie necessarie al minore.

            Il padre si costituiva chiedendo differenti modalità di frequentazione e visita, in particolare:

– per una settimana, il venerdì dalle 15.30 alle 19.30;

– per una settimana mercoledì e domenica agli stessi orari;

– giorno di Natale o Capodanno, Pasqua o Lunedì dell’Angelo;

– a partire dal compimento del terzo anno di età del figlio, un pomeriggio a settimana dalle 15.30 alle 19.30 e, a fine settimana alternati, dalle 10 del sabato alle 19 della domenica; oltre a 15 giorni anche non consecutivi durante le vacanze estive.

A titolo di mantenimento chiedeva la riduzione della metà dell’assegno rispetto alla richiesta della madre.

La decisione del collegio. Il Tribunale di Roma, con decreto 5 maggio 2017, osservava che la naturale decisione da prendere ruotava attorno all’orbita del c.d. affidamento condiviso. Esso è previsto appunto come regola dal novellato art. 337 ter c.c., comportando l’esercizio congiunto della responsabilità genitoriale e la condivisione delle decisioni sulle questioni di maggiore interesse del minore.

Quanto tuttavia alle modalità di frequentazione padre-figlio, il Collegio ha disposto che il padre possa vedere e tenere con sé il minore, fino al compimento del terzo anno di età, un pomeriggio a settimana e a fine settimana alternati, anche la domenica con i medesimi orari ma sempre senza pernotto.

Dal compimento dei tre anni scatterà il pernotto nel fine settimana (sabato-domenica) di spettanza, mentre dal compimento dei sei anni il padre potrà vedere e tenere con sé il figlio un pomeriggio a settimana e durante il fine settimana alternato dal Venerdì sera alla Domenica sera.

In relazione ai periodi di vacanza, anche in questo caso l’età del bambino impone l’introduzione graduale dei pernotti continuativi. Per le vacanze estive a partire dall’anno successivo all’accordo, si possono inserire alcuni pernottamenti, così come per le vacanze invernali (si rinvia al provvedimento per i dettagli).

In merito invece alla domanda di determinazione dell’onere da porre a carico del padre quale contributo al mantenimento del figlio, si deve aver riguardo alla situazione patrimoniale netta, in questo caso pari ad Euro 1.200 netti.

Il Tribunale ha deciso di considerare quale contributo perequativo mensile per il figlio la somma di Euro 400 a titolo di mantenimento ordinario, aggiornato automaticamente ogni anno secondo gli indici ISTAT, oltre alle spese straordinarie che sono minuziosamente descritte nel provvedimento.

Il Tribunale di Roma trae pertanto le seguenti considerazioni:

  • Gradualità del pernotto: in materia di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, con riguardo alla determinazione delle modalità di frequentazione del figlio in tenera età con il genitore non collocatario, il giudice può statuire l’introduzione graduale di pernotti continuativi. Nei primi anni di vita del bambino, infatti, l’universo conoscitivo si identifica prevalentemente con un referente, in genere costituito dalla figura materna (o comunque dall’adulto di riferimento) con il quale soltanto il figlio è in grado di relazionarsi, gradualmente estendendo poi il percorso conoscitivo ad altri adulti.
  • Questo esclude che le figure genitoriali possano avere nei primi anni di vita del bambino pari rilevanza.
  • A partire dal compimento del terzo anno di vita del minore si può introdurre il pernottamento consecutivo specie in relazioni ai periodi vacanza estivi ed alle festività, introducendo gradualmente ulteriori pernottamenti.
  • È solo con la frequentazione del ciclo scolastico elementare che il bambino acquisisce il senso del tempo, dunque può essere introdotto un regime “ordinario” di frequentazione.

Tale considerazione deve naturalmente essere letta con riferimento al caso concreto, poiché ogni situazione porta con sé particolarità relative e pertanto può accadere certamente che il Giudice motivi diversamente una decisione che, appunto, potrebbe essere differente da quella indicata nel caso posto ad esempio.

Tuttavia il principio che governa il diritto di famiglia è immutato e tende sempre all’interesse superiore del minore, quindi alla difesa del suo diritto ad avere entrambi i genitori secondo meccanismi graduali e graduati.

La prospettiva è considerare pertanto sempre prevalente il diritto del minore ad avere le figure genitoriali, non il diritto di uno dei genitori ad imporre le proprie condizioni in tema di responsabilità genitoriale.

Avv. Filippo Antonelli                       Studio Cataldi            21 giugno 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34977-affidamento-figli-la-regolamentazione-dei-primi-anni-di-vita-del-bambino.asp

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AFFIDI

Affidi illeciti a Reggio Emilia: Griffini (Aibi), “serve subito l’avvocato del minore”

            “L’indagine ‘Angeli e Demoni’ ha gettato davvero nello sconforto chiunque abbia a cuore l’infanzia. Perché, se già può essere triste il dover tutelare, alle volte, i minori dai propri genitori è decisamente angosciante il pensiero di doverli tutelare anche da chi, in teoria, dovrebbe esercitare la tutela”. A parlare è Marco Griffini, presidente di Aibi (Amici dei bambini), affrontando il tema della tutela dei più piccoli dagli abusi istituzionali, al centro dell’attenzione in questi giorni per l’indagine in Emilia Romagna.

“Come si può garantire che il sistema funzioni ancora? – chiede Griffini – Come si può fare in modo che non tramonti la grande bellezza di quell’importante gesto di accoglienza che è l’affido? La risposta, chiaramente, rimanda alla necessità di nuove ed ulteriori tutele, che proteggano quell’essere indifeso che è il minore in maniera rigorosa e ferrea da qualsiasi possibile abuso, di qualsiasi natura”. Da qui la proposta di istituire una nuova figura, quella dell’avvocato del minore, “che potrebbe finalmente portare a una piena attuazione delle normative vigenti in materia di affido”. “Il minorenne – aggiunge Griffini – non può nominare un proprio avvocato, quindi deve essere la legge a prevederne la nomina. L’avvocato potrebbe e dovrebbe monitorare l’andamento del collocamento dei minorenni in affidamento familiare o in comunità familiari e studiare tutta la situazione pre-durante e post collocamento di ogni minore “fuori famiglia”, così da promuovere ogni azione a protezione dei suoi interessi e diritti”.

Agenzia SIR   28 giugno 2019

https://agensir.it/quotidiano/2019/6/28/affidi-illeciti-a-reggio-emilia-griffini-aibi-serve-subito-lavvocato-del-minore

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio: conta anche l’addebito della crisi coniugale

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 16796, 1 giugno 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_35070_1.pdf

Nella determinazione dell’assegno divorzile pesano anche la durata del matrimonio e l’addebito della crisi coniugale al coniuge. Si tratta di accertamenti coerenti con i principi sanciti dalle Sezioni Unite che hanno enfatizzato la funzione assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno.

Tanto si desume dall’ordinanza della Corte di Cassazione. I giudici si pronunciano sulla vicenda di un uomo in capo al quale i giudici di merito hanno posto l’obbligo di versare, a favore della ex moglie, un assegno divorzile di 400 euro mensili.

            In Cassazione, il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale non abbia tenuto conto della circostanza che la ex, oltre a essere titolare del diritto di usufrutto su di un appartamento donato alla figlia, fosse proprietaria di un’altra unità immobiliare ristrutturata e ampliata fino a sette vani durante il matrimonio, e che la medesima avesse diritto anche a un assegno sociale INPS.

Funzione assistenziale, compensativa e perequativa dell’assegno divorzile. Gli Ermellini richiamano sul punto i principi formulati dalle Sezioni Unite (sent. n. 18287/11 luglio 2018) in materia, secondo cui l’assegno divorzile ha funzione assistenziale, compensativa e perequativa.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_31379_1.pdf

Pertanto, l’assegno dovrà essere determinato alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.

Si tratta di criteri che vanno tenuti presenti sia nella attribuzione che nella quantificazione dell’assegno. Inoltre, si ribadisce che la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

Valutate anche durata matrimonio e addebito crisi coniugale. Nel caso di specie, con motivazione sintetica, ma ritenuta esauriente dalla Cassazione, i giudici a quo hanno operato una comparazione dei redditi dei due coniugi, accertando che la ex percepiva una pensione mensile e risultava titolare del solo diritto di usufrutto su di un immobile, mentre il marito percepiva redditi lordi annui per circa 24mila euro.

La Corte territoriale ha, inoltre, tenuto conto, nella determinazione dell’assegno divorzile, della durata del matrimonio (oltre 40 anni) e dell’addebitabilità della crisi coniugale al marito, in considerazione del comportamento da questi tenuto in costanza di matrimonio.

            Per gli Ermellini si tratta di accertamenti in fatto coerenti con i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Cassazione, mentre il ricorso introduce questioni che non risultano dedotte nel giudizio di merito e si traduce in una sostanziale richiesta di rivisitazione del giudizio. Il ricorso viene dunque respinto.

Lucia Izzo                  Studio Cataldi 25 giugno 2019

www.studiocataldi.it/articoli/35070-assegno-di-divorzio-conta-anche-l-addebito-della-crisi-coniugale.asp

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                        CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – Speciale Migrazioni – n. 25, 26 giugno 2019

Persone, famiglie, migrazioni: una sfida epocale. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato (20 giugno 2019) e in vista del prossimo convegno organizzato dal Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia) e dall’ICCFR (International Commission on Couple and Family Relations), “Famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà” (Roma, 15-16 novembre 2019).

Dedichiamo questa newsletter ad un tema che investe l’intero mondo, e che esige riflessività, senso morale e concretezza, senza ideologie né fondamentalismi. Ci sta poi profondamente a cuore la dimensione familiare, risorsa di resilienza per i migranti, ma anche generatrice di accoglienza nei Paesi di destinazione, come già ricordava il Rapporto Cisf 2014 “potrebbe venire un giorno in cui le identità familiari (a partire da quelle di padre, madre, figlio) potrebbero diventare più importanti delle identità nazionali, di appartenenza ad uno Stato-nazione, e quindi potrebbero attraversare i confini della cittadinanza statuale. Quel giorno, forse, una nuova alleanza fra le famiglie, attraverso generazioni “cosmopolitiche” (non nel senso astratto della modernità, ma della universalità contenuta in ogni appartenenza), potrebbe dare ai cittadini di tutto il mondo le capacità e la forza di creare azioni collettive in cui la famiglia, lungi dall’essere considerata un residuo culturale del passato, diventa il motivo e l’emblema di una società mondiale più solidaristica” (Pier Paolo Donati, Rapporto Cisf 2014, p. 57).

Prosegue la preparazione della Conferenza Internazionale ICCFR-CISF

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2519_allegato1.pdf

Per favorire una più ampia partecipazione alla Conferenza Internazionale ICCFR-CISF il termine di presentazione delle proposte di workshop è stato prorogato (in via definitiva) a lunedì 15 luglio 2019. Le proposte possono essere inviate via email (anche in italiano) a: opencall@iccfr.org
Il Board ICCFR esaminerà tutte le proposte ricevute entro il 29 luglio 2019. Tutti i proponenti verranno informati dell’esito della loro proposta.

Giornata mondiale del rifugiato – 20 giugno 2019.

Global Trends: Rapporto ONU 2018 sui rifugiati

www.unhcr.it/news/numero-persone-fuga-nel-mondo-supera-70-milioni-lalto-commissario-delle-nazioni-unite-rifugiati-chiede-maggiore-solidarieta.html

“Nel 2018, Il numero di persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha superato i 70 milioni. Si tratta del livello più alto registrato dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in quasi 70 anni di attività […].

La cifra è composta da tre gruppi principali:

1)      Il primo è quello dei rifugiati, ovvero persone costrette a fuggire dal proprio Paese a causa di conflitti, guerre o persecuzioni. Nel 2018 il numero di rifugiati ha raggiunto 25,9 milioni su scala mondiale, 500.000 in più del 2017. Inclusi in tale dato sono i 5,5 milioni di rifugiati palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations Relief and Works Agency/UNRWA).

2)      Il secondo gruppo è composto dai richiedenti asilo, persone che si trovano al di fuori del proprio Paese di origine e che ricevono protezione internazionale, in attesa dell’esito della domanda di asilo. Alla fine del 2018 il numero di richiedenti asilo nel mondo era di 3,5 milioni.

3)   Infine, il gruppo più numeroso, con 41,3 milioni di persone, è quello che include gli sfollati in aree interne al proprio Paese di origine, una categoria alla quale normalmente si fa riferimento con la dicitura sfollati interni (Internally Displaced People/IDP) […].

www.unhcr.org/statistics/unhcrstats/5d08d7ee7/unhcr-global-trends-2018.html

 

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CHIESA CATTOLICA

Ampolle e rosari. Così la Lega combatte il Vangelo

A chi volesse cominciare a orientarsi sulle dinamiche che innervano lo scontro tra il Capo della Lega e il Vescovo di Roma, suggerisco l’attenta lettura di due immagini chiarificatrici.

La prima la troviamo nelle pagine iniziali dei quotidiani del 6 giugno 2019 scorso. A corredo di articoli, che segnalano «il peso crescente dei voti cattolici a favore della Lega nelle ultime elezioni europee e comunali», essa ci presenta il bel faccione di Salvini che, al culmine di un affollatissimo comizio romano, sta in posa col rosario in mano. Lo porta alla bocca e bacia, con compiaciuta protervia, la piccola croce di legno, doverosamente liberata dal corpo martoriato del Cristo morto.

La seconda non è, come viene subito da ipotizzare, quella del nuovo Papa che, a inizio aprile, tenta di indurre alla pace i “Ras” sud-sudanesi in guerra, prostrandosi ai loro piedi. Non è questa, anche se è ad essa che Salvini intende contrapporre la sua per farci pensare che mentre il Capo della Chiesa bacia piedi islamici e umilia la religione cattolico-romana, il Ministro degli Interni, baciando la croce della Madonna del Rosario, che ha condotto la flotta della Lega Santa alla gloriosa vittoria di Lepanto sui Turchi (1571), esalta il simbolo stesso della supremazia religiosa, civile, culturale, militare ed economica dell’Europa cristiana.

            La seconda immagine, più prosaicamente, è un’immagine, altrettanto costruita e studiata, ma più spaesata che inquietante, dell’intronizzazione di un fiume a Dio della Padania (pubblicata per es. sul «Corriere della Sera-Bergamo» 20-9-2016). Tra i volti divertiti di due bambini e di tre anzianotti, persi chissà dove, ci mostra Umberto Bossi che, in maglione da montagna, occhiali dorati e fede al dito, con aria perplessa, offre agli sguardi di una rada folla dispersa per il Pian del re, una fiala non grande («la sacra ampolla») con l’acqua sorgiva del Po, Padre della Padania e del suo popolo operoso, fiero e felice, che anela alla liberazione da «Roma ladrona» e dal tricolore della schiavitù.

            Si tratta di due immagini che, per quanto separate tra loro da più di vent’anni e relative a Segretari della Lega molto diversi, che oggi non si amano e sembrano muoversi verso fini politici apparentemente opposti, hanno in comune ben più di singoli rimandi a rituali religiosi. Mettono in scena l’elemento costitutivo di quel segno di identità ideologica, che proprio per la sua estemporaneità paradossale, caratterizza il sogno leghista di una facile vittoria.

«Parigi val ben un rosario». Tutti in fondo ci siamo chiesti perché mai, nella buona e nella cattiva sorte, Bossi, abbia trascinato fino al 2015 i suoi fedelissimi dai piedi del Monviso ai canali di Venezia per celebrare una «Festa dei popoli padani», dedicata a un «Dio Po» in cui nessun popolo se l’è mai sentita di riconoscersi e a cui neppure lui ha mai dato il minimo segno di credere. Nel citato articolo commemorativo del ventennio del rito, Davide Ferrario lo spiega così: «La fortuna politica e culturale della Lega è sempre stata basata su un forte senso di identità collettiva. E l’identità collettiva ha bisogno di miti e di riti: inventandosi la Padania e la cerimonia alle sorgenti del Po, Bossi l’ha perfettamente capito. Solo che Bossi e i suoi erano e sono uomini del momento presente, mentre il rito ha bisogno di una lunga storia, di tradizione e mistero» («Corriere della sera-Bergamo», 20-9-2016).

Proprio quello che lì mancava e che Salvini, l’emulo infedele, constatato l’esito infelice dell’improntitudine di Bossi e la bocciatura referendaria della proposta secessionista, si è guardato intorno. Ha annusato l’aria e constatato che i campioni della religione ritualista, necessaria per l’affermarsi della politica leghista, già erano presenti e operanti tra i rappresentanti del tradizionalismo cattolico: coperti avversari del Vaticano II e aperti nostalgici dei labari crociati di costantiniana memoria. Ha buttato il cavolo del regionalismo assoluto e di un paganesimo d’accatto e deciso di provare a salvare la capra dell’assoluto sovranismo. Fatta, quindi, la sua «marcia su Roma», ha sposato l’Italia in tricolore con la benedizione della potentissima lobby dei Mariologi vaticani, polacchi e financo moscoviti, da oltre un secolo a caccia di divini attributi per le Madonne dei loro santuari. Il tutto, sia ben chiaro, a spese di Maria di Nazareth. Questa sì vera donna del popolo.

Salvini dunque crede nella Madonna, quanto e forse più che nel Figlio Gesù, detto il Cristo? Ci crede tanto quanto Bossi credeva nella divinità del Po. Alla Lega piace il rito, perché tranquillizza le coscienze, conferma il risaputo e si attaglia ai benpensanti, ben più della fede, delle opere di misericordia e delle speranze. Piace a molti curiali, chierici di diverso grado. Piace ai teologi di professione, protetti da seminaristiche corazze, ai vescovi cultori della religione di Stato e di ogni forma di totalitarismo, che compri il consenso della loro confessione religiosa concedendo privilegi economici, riconoscimento di autorità etica e diritto di interferenza legislativa.

            Fare di potere politico, potere economico, potere giudiziario, potere militare, potere culturale e potere religioso un tutt’uno, almeno nella forma vulgata di culo e camicia, è il sogno di ogni totalitarismo, anche del più secolarizzato. Infatti la cosiddetta «secolarizzazione» non si limita a negare l’esistenza del Dio del monoteismo cristiano, ma ripristina quel vuoto celeste che consente a ogni potente o aggregato di potenti di costruirsi un panteon a proprio uso e consumo, compreso quello di un monoteismo imperiale o nazionale. Nel nostro caso sia quel monoteismo anti-universalista e sovranista che i profeti biblici e Gesù condannano quando attaccano il ritualismo del sacerdozio templare di Gerusalemme, sia quello imperialista e che gli apologeti cristiani ritroveranno caratterizzare il paganesimo greco e romano dell’età post-augustea, per la propensione a divinizzare ogni nuovo sovrano pur di garantire, con l’istituto dell’«adozione», la sovrapposizione tra potere mondano storico e autorità religiosa eterna.

Un sasso nello stagno. Non credo sia puro avventurismo ipotizzare la presenza di venature di neo-paganesimo incipiente nel dibattito che oggi divide i cattolici tra sostenitori della Chiesa dell’ultimo Papa e quella del facente funzione di «Capo effettivo» del Governo. Ne sono un indice le parole durissime con cui il cardinal Müller, successore di Ratzinger a guida della Congregazione della Dottrina della fede, respinge le critiche, mosse a Salvini dal cardinal Bassetti, per la sua politica dei «porti chiusi ai migranti». Mentre il Presidente della Cei, nominato da papa Francesco, dichiara, infatti, che «non può essere un vero cristiano chi rifiuta di concedere lo sbarco a quanti, fuggendo da guerre e miseria, rischiano di affogare nel Mediterraneo», Müller coi suoi sostenitori, afferma che «dichiarare non cristiano uno che è stato regolarmente battezzato e cresimato, è una bestialità teologica» e che «a fronte di Paesi che vogliono scristianizzare l’Italia e l’Europa, Salvini, che invoca i Santi Patroni dell’Unione Europea ed evoca le sue radici cristiane, è da preferire».

            È lecito non cogliere in tali affermazioni l’auspicio di una ricostantinizzazione della Chiesa? Ammetto che tale domanda suona al più come il tonfo di un sasso buttato in uno stagno, già bersagliato da troppi sassi. La mia speranza è che qualcuno abbia la forza e la pazienza di seguire e decriptare i percorsi dei cerchi che, sulle acque di tale stagno, questi sassi vanno e andranno disegnando.

                                    Aldo Bodrato                        Il Foglio Torino n. 463                      giugno 2019

www.ilfoglio.info/default.asp?id=6&ACT=5&content=786&mnu=6

 

Resistere al populismo

È stato pubblicato uno strumento di lavoro per affrontare a livello ecclesiale le tendenze populiste di destra. Con il titolo Resistere al populismo, la Conferenza episcopale tedesca (DBK) ha pubblicato oggi (25 giugno 2019) a Berlino uno strumento di lavoro per affrontare a livello ecclesiale le tendenze populiste di destra. Il documento, nato come testo di esperti con la collaborazione della Commissione migrazioni e della Commissione pastorale della DBK, oltre che della Commissione tedesca giustizia e pace, è stato presentato dai rispettivi presidenti di commissione, l’arcivescovo Stefan Hesse, il vescovo Franz-Josef Bode e il vescovo Stephan Ackermann.

Nell’introduzione allo strumento di lavoro, i tre vescovi hanno descritto le attuali tendenze populiste di destra come sfida per la Chiesa e la società: “Il populismo che ci sfida mostra quotidianamente il suo volto minaccioso, perché spinge ad una visione semplicistica (tutto è bianco o nero) e meschina, sia nella società che nella Chiesa. In realtà il mondo diventa sempre più complesso, ed è innegabile che tale complessità vada al di là delle capacità di alcune persone. Ma il populismo promette risposte semplici”.

Con decisione i vescovi rifiutano qualsiasi tentativo di strumentalizzare il cristianesimo a scopi populistici: “Siamo convinti che la nostra fede e la nostra tradizione cattolica come Chiesa universale siano in contrasto con i caratteri specifici del populismo. Pensiamo alla assoluta uguaglianza di tutti gli esseri umani come creature di Dio. Pensiamo al comandamento fondamentale dell’amore del prossimo che è rivolto anche a chi è forse più lontano da noi, che però per il suo stato di necessità diventa per noi il prossimo”. Secondo la valutazione dei vescovi i movimenti populisti si accompagnano generalmente alla paura del declino sociale. A questo riguardo, per la Chiesa determinante è la dimensione della speranza: “La nostra fede è per la fiducia in un Dio che non diffonde paura e spavento, ma ferma speranza: quella ferma speranza per cui nella soluzione dei problemi del nostro tempo non deve diffondersi alcuna ossessione basata sulle paure”. Compito della pastorale è rivolgersi anche a quelle persone che simpatizzano con le tendenze populiste: “Il nostro impegno sta nell’entrare in dialogo con tutti, anche con coloro che hanno una concezione totalmente diversa”.

L’arcivescovo Stefan Hesse (Amburgo) ha ricordato in occasione della presentazione dello strumento di lavoro le vittime dell’odio e dell’emarginazione: “Come presidente della Commissione delle migrazioni e incaricato speciale per i problemi dei rifugiati, negli anni scorsi ho constatato ripetutamente che le tendenze populiste di destra non sono un fenomeno puramente astratto. Vengono invece percepite come una minaccia molto concreta: dalle persone che sono fuggite da situazioni di violenza e che cercano qui difesa, e dai volontari che si impegnano accanto ai rifugiati sostenendoli in ogni modo. Da qualche parte viene favorito un clima di ostilità che impedisce le relazioni umane e avvelena i rapporti sociali”. In questa difficile situazione le comunità ecclesiali e le iniziative ecclesiali di base si aspettano che i vescovi “diano loro sostegno dal punto di vista spirituale e argomentativo”.

Il presidente della Commissione pastorale, vescovo Franz-Josef Bode (Osnabrück) ha affermato che “all’interno della Chiesa c’è bisogno di dialogo e di chiarimenti”. “Infatti ci sono anche coloro che alimentano paure in comunità e gruppi ecclesiali e che amplificano il rifiuto degli stranieri e di ciò che è straniero. Ci sono anche coloro che strumentalizzano la preoccupazione della perdita di una identità cristiana soprattutto per attivarsi contro i musulmani e contro le persone che hanno visioni diverse o contro immagini moderne di famiglia e cambiamenti di ruoli nella società o contro gli omosessuali e le persone con identità sessuali diverse”. Questo rappresenta una sfida per la pastorale. Al contempo gli esempi documentati nello strumento di lavoro devono stimolare ad “agire contro le opinioni populiste e il clima populista nella società e nella Chiesa”.

Il vescovo Stefan Ackermann (Treviri), presidente della Commissione tedesca giustizia e pace, ha descritto il contributo della Chiesa a favore dei diritti umani come elemento centrale per la giustizia e la pace. Il carattere universale dei diritti umani viene messo in discussione negli ambienti populisti di destra e i diritti umani vengono liquidati “come inaccettabile limitazione della sovranità popolare”. “Il rispetto della dignità della persona umana può essere assicurato solo in una comunità democratica – così come anche la nostra moderna democrazia è pensabile solo in una comunità orientata al rispetto della dignità di ogni singola persona”. “Rafforzare i diritti umani e così rendere visibile il reale pluralismo della comunità significa vivere la democrazia”.

L’elaborazione dello strumento di lavoro è stata effettuata da un gruppo di esperti sotto la direzione del Prof. Dr. Andreas Lob-Hüdepohl (Istituto superiore cattolico per assistenza sociale, Berlino). Il documento offre indicazioni per discussioni e attività, trasmette argomenti e informazioni di base e presenta a titolo di esempio iniziative ecclesiali e suggerimenti pastorali. Il confronto con le tendenze populiste di destra dal punto di vista dei contenuti si fonda su sei elementi tematici:

  1. Quale popolo? Approcci a fenomeni del populismo,
  2. Strategie e contenuti di movimenti populisti di destra,
  3. Fuga e asilo,
  4. Islam e ostilità all’islam,
  5. Immagini di famiglia, immagini di donna, rapporti di genere,
  6. Identità e patria.

Conferenza episcopale tedesca         “www.dbk.de” 25 giugno 2019

 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190630conferenzaepiscopaletedesca.pdf

 

Populismo? No, grazie. Dai vescovi tedeschi una guida per le comunità cattoliche

Contro strumentalizzazioni e paure rinfocolate ad arte, la Conferenza episcopale tedesca mette a disposizione delle parrocchie e dei cittadini uno “strumento di lavoro” di 70 pagine per rispondere alla necessità di rafforzare le comunità che, come sottolinea il vescovo di Amburgo Stefan Hesse, vivono in un “clima che alimenta l’ostilità, condiziona gli incontri interpersonali e avvelena la convivenza sociale”.

Per aiutare le parrocchie e le comunità cattoliche in Germania a “resistere al populismo” è a loro disposizione da oggi uno “strumento di lavoro” preparato da un gruppo di esperti incaricato dalla Conferenza episcopale tedesca (Dbk). Questo libretto di 70 pagine vuole rispondere alla necessità di rafforzare le comunità che vivono in un “clima che alimenta l’ostilità, condiziona gli incontri interpersonali e avvelena la convivenza sociale” ha detto il vescovo di Amburgo Stefan Hesse (presidente Commissione per le migrazioni, DBK), alla presentazione del documento, avvenuta a Berlino il 25 giugno. Il testo intende però anche offrire risposte “al bisogno di chiarezza che si respira nella Chiesa”, ha continuato il vescovo Franz-Josef Bode, di Osnabrück, che presiede la Commissione pastorale, “perché c’è chi alimenta le paure anche all’interno della Chiesa” o “strumentalizza il timore di perdere l’identità cristiana” e “fa campagne contro i musulmani o chi la pensa diversamente, o contro le famiglie di oggi e i cambiamenti di ruolo nella società o contro gli omosessuali e le persone con diverse identità sessuali”. È di fatto messa in discussione dal pensiero populista di destra “la validità dei diritti umani”, considerati come “inaccettabile limitazione della sovranità popolare”, ha evidenziato il vescovo Stefan Ackermann (presidente della commissione Giustizia e pace), presente anche lui a Berlino. Rafforzare i diritti umani e quindi “rendere visibile la reale pluralità della comunità significa vivere la democrazia”, sempre mons. Ackermann.

 “Il populismo, con cui siamo confrontati, mostra ogni giorno il suo volto minaccioso, quando in nome di una tradizione viva della cultura tedesca o di una difesa delle tradizioni regionali si concentra sull’esclusività e quindi sull’esclusione di tutti coloro che non sono parte di noi da sempre”, scrivono i tre vescovi nella lunga introduzione al testo. Se è vero che “non ci sono società senza conflitti” e fa parte “della natura delle società libere articolare apertamente la propria disapprovazione” a preoccupare oggi è “la durezza violenta, a volte l’odio costante, e le ferite che il populismo infligge a chi è debole ed emarginato”. Questa tendenza si registra anche nei partiti che tradizionalmente si collocano al centro dello spettro politico, così come nella Chiesa, in Germania ma anche in Europa e in tutto il mondo. Insieme alla “preoccupazione”, scrivono i vescovi, c’è la fiducia che nasce dal “grande impegno con cui i cristiani, insieme a molte persone di buona volontà, si dedicano alla convivenza e a contrastare le minacce populiste”.

Così l’intenzione di questo libretto è di suscitare una discussione per “capire” che cosa sta avvenendo nella società e nella politica tedesca. Ma capire non significa automaticamente accettare: “I populisti a volte affermano che le loro posizioni coincidono con le posizioni della Chiesa, ad esempio sui temi della protezione della vita, del rispetto della famiglia, dell’importanza del cristianesimo nella nostra società o della stima per la patria. Ma le apparenze ingannano: non siamo d’accordo”. Perché la Chiesa difende ogni vita, a prescindere dal colore della pelle, “ogni famiglia, non solo quelle tedesche”. Così il testo muove innanzitutto dalla analisi del “fenomeno del populismo” (di destra e di sinistra, in relazione alla democrazia, nel rapporto tra “sovranità popolare e diritti umani”) e del significato di “popolo” anche in relazione al “popolo di Dio”.

Quindi nel secondo capitolo analizza le “strategie e i contenuti del movimento populista di destra”, elencando le “caratteristiche e i pericoli” di questo stile politico, per poi mostrare come la “democrazia vissuta sia un modello alternativo” al populismo. Esamina quindi le “paure e le difese del proprio stile di vita” cavalcate dal populismo, e che innescano meccanismi di esclusione e di rifiuto della solidarietà. In tutto questo c’è una “responsabilità della Chiesa” che è quella di “contribuire a stimolare e promuovere processi di negoziazione politica sulle principali questioni del futuro” con la “volontà di cercare soluzioni responsabili che non neghino a nessun essere umano il diritto di vivere in dignità, libertà, sicurezza e prosperità”. Il testo si sofferma un momento anche a parlare di antisemitismo alla luce dei rigurgiti che si registrano in Germania.

Un intero capitolo è dedicato alle “migrazioni, caratteristica del nostro tempo”: se ne analizzano alcuni dati di fondo, per mettere in discussione l’uso dell’espressione “crisi dei rifugiati”, come “formula semplice per un disagio complesso”. Dopo aver descritto i doveri sanciti nella giurisprudenza internazionale, si descrivono le peculiarità della “sensibilità cristiana” in questo ambito, che ha origini nella Bibbia e nella vicenda del popolo ebraico, per poi tratteggiare “il pericolo di strumentalizzazione xenofoba di motivi cristiani”.

Un intero capitolo è dedicato invece all’Islam e all’ostilità verso questo credo, spesso considerato una minaccia per “l’occidente cristiano”. Il volumetto invece spiega quale visione ha in realtà il cristianesimo sull’Islam; allo stesso modo prende in esame altri temi spesso manipolati dalla “retorica populistica” (la famiglia, la parità di genere, l’identità e la patria) per mostrando quale sia in realtà la distanza rispetto al pensiero cristiano.

In conclusione il testo offre degli “impulsi pastorali”: la Chiesa in tutte le sue espressioni e con ogni mezzo sostenga coloro che si impegnano “per la difesa delle persone in cerca di protezione, per la coesione sociale, per la convivenza e contro l’esclusione”; bisogna favorire il dialogo ma anche, bisogna saper “fare distinzioni”: “prendere sul serio l’altro significa invitarlo al confronto e sottolineare contraddizioni o conseguenze problematiche delle sue opinioni, sapendo che essere aperti non significa approvare tutto”. “Imparare a gestire le emozioni negative” è il quarto suggerimento, in riferimento alle emozioni negative che in vario modo il discorso populista spesso porta con sé.

Tutto il testo è impreziosito con il racconto di 19 esperienze concrete, vissute in luoghi e contesti diversi della Germania e con sottolineature differenti e che, direttamente o indirettamente, manifestano l’impegno di persone di buona volontà e di cristiani per una società inclusiva.

Sarah Numico                        agenziaSIR     28 giugno 2019

www.agensir.it/europa/2019/06/28/populismo-no-grazie-dai-vescovi-tedeschi-una-guida-per-le-comunita-cattoliche

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CITTÀ DEL VATICANO

Dicastero laici, famiglia, vita: incontro sul tema degli abusi

Dedicato al tema degli abusi sessuali l’incontro annuale del Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita con associazioni e movimenti ecclesiali.

Eleonora, Susan, Renate. Dietro questi tre nomi fittizi si nascondono — forse sarebbe meglio dire: si rivelano — tre persone concrete, tre storie tremendamente vere, tre dolori profondi che, grazie alla forza delle vittime, dopo anni di sofferenza sono emersi squarciando il velo del silenzio. Tre donne che, appartenenti a diverse associazioni cattoliche di fedeli, proprio lì dove credevano di trovare e vivere la salvezza, sono state vittime di abusi di potere, di coscienza, sessuali. «In queste esperienze di abuso — spiega una di loro — posso dire che è stato seminato nella mia anima e nella mia persona intera qualcosa che è dell’ordine della morte».

Il confronto con questa tragica realtà ha segnato con la sua dura e cruda concretezza l’incontro annuale del Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita con le associazioni e i movimenti ecclesiali, che si è svolto lo scorso 13 giugno 2019 presso la Curia generalizia dei gesuiti. Il Dicastero infatti, ha detto il cardinale prefetto Kevin Farrell, ottemperando al proprio ruolo di vigilanza e accompagnamento, si è fatto «interprete della premura e urgenza secondo cui il Santo Padre, Papa Francesco, ci chiede di agire, in tutti i contesti sociali, ecclesiali, uscendo allo scoperto, guardando in faccia la realtà in modo onesto, chiamandola per nome con parresia, procedendo alla necessaria purificazione e predisponendo un’adeguata prevenzione». E per questo ha convocato oltre un centinaio tra moderatori, responsabili e delegati dei movimenti ecclesiali e delle associazioni internazionali riconosciute dalla Santa Sede per riflettere sul tema: «Prevenzione degli abusi sessuali: l’impegno delle associazioni e dei movimenti ecclesiali». Il tema, ha sottolineato il porporato all’inizio dei lavori, «raccoglie una sfida che la Chiesa e la società civile, dovunque nel mondo, si trovano a dover fronteggiare».

Fondamentali anzitutto, ha spiegato il cardinale Farrell, sono l’esercizio della verità, la conoscenza e la consapevolezza di «un crimine storicamente diffuso in maniera trasversale in tutte le culture e società», e la volontà di superare la pericolosa tentazione della sottovalutazione. «Solo affrontando questo fenomeno, studiandolo, si sta operando un cambiamento della mentalità e della sensibilità nell’opinione pubblica»: infatti «fino a poco tempo fa esso era considerato un tabù e ancora oggi lo è per molte persone, per molti cattolici, uomini e donne di Chiesa». Un tabù che, nella Chiesa, «ha fatto sì che molti sapessero» ma «nessuno parlasse». E così, ha spiegato il prefetto, si è aggiunto dolore a dolore, ingiustizia a ingiustizia: «Si è operato un duplice abuso: agli abusi perpetrati si aggiungeva infatti un silenzio che, inevitabilmente, si è fatto complice dei crimini e ha consentito che essi si moltiplicassero indisturbati». Tanto che gli stessi dati statistici non riescono a restituire la reale entità del fenomeno, ma sono solo «la punta di un iceberg».

Soprattutto va sempre ricordato, ha aggiunto il porporato, che dietro i numeri e le tabelle che descrivono il fenomeno ci sono le persone: «le persone coinvolte, le vittime e i loro abusatori, hanno un nome e un cognome, un volto, una storia personale e familiare, sociale ed ecclesiale, hanno ferite impresse nella mente, nel cuore, nella carne».

In occasione di questo incontro annuale, il cardinale ha voluto coinvolgere direttamente le realtà convocate, ricordando loro come la piaga degli abusi sessuali non risparmi le associazioni di fedeli e i movimenti ecclesiali e invitandoli a farsi carico della corresponsabilità ecclesiale che è loro propria e che li invia a essere protagonisti e testimoni di «quella necessaria conversione, che non distoglie lo sguardo, ma affronta e previene questi gravi crimini che sono gli abusi sessuali». E ha dato delle indicazioni precise: «anzitutto occorre che purifichiate le relazioni che vivete tra voi, come anche con i destinatari del vostro impegno evangelizzatore». È poi necessario stabilire «relazioni sane in ambienti sani, in cui sarà difficile che si insinuino dominio, asservimento, dipendenza, violazione della libertà, violazione della coscienza, abuso di potere, abuso sessuale». Occorre, infine, «coltivare la necessaria formazione umana, morale, intellettuale e spirituale».

Il prefetto facendo riferimento alla lettera inviata dal Dicastero nel maggio 2018 alle associazioni e ai movimenti in cui si chiedeva di redigere regole e procedure volte alla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, ha spronato i presenti: «Occorre che vi attrezziate adeguatamente e, senza perdere tempo, assumiate le responsabilità che vi competono, rendendo conto di quanto vi è affidato, senza distogliere lo sguardo dalle piaghe inferte al Corpo di Cristo che è la Chiesa nei nostri fratelli, prendendovi cura delle persone ferite e operando affinché gli abusi non abbiano più a verificarsi».

La consapevolezza della responsabilità condivisa, come membra del corpo della Chiesa, in forza del battesimo e dell’impegno proprio dei movimenti ecclesiali, ha caratterizzato l’intervento di Linda Ghisoni, sotto-segretario del Dicastero. È nelle sue parole che hanno trovato spazio le testimonianze di Eleonora, Susan e Renate, dalle quali è emersa con evidenza la stretta interconnessione esistente tra abusi di potere, di coscienza e sessuali.

Ghisoni ha innanzitutto richiamato l’incontro svoltosi lo scorso febbraio in Vaticano e dedicato alla protezione dei minori nella Chiesa: occasione importante per alimentare una consapevolezza che è purtroppo ancora insufficiente e che fa riflettere. «Con quale coraggio — ha detto — una vittima, che si fa mille remore prima di parlare, si rivolgerà a uomini di Chiesa che negano a priori?». Il metodo per affrontare il problema è quello indicato in quell’occasione e parte necessariamente da un atteggiamento di ascolto delle vittime. Ascoltare le vittime permette di superare l’approccio “perbenista” che tende solo a considerare il “fenomeno” e dimentica la vita concreta delle persone.

E come è accaduto nell’incontro di febbraio, il confronto diretto con le parole delle vittime ha scosso le coscienze. Il sottosegretario ha condiviso con i presenti le confidenze delle vittime, le «manipolazioni psicologico-spirituali» alle quali sono state sottoposte da alcuni sacerdoti con il fine di imporre loro la violenza. Agghiacciante il passaggio in cui Eleonora spiega: «Mi ripeteva che faceva questo solo per il mio bene…».

Ghisoni ha quindi invocato la necessaria distinzione tra ambito della coscienza e ambito di governo nelle aggregazioni ecclesiali, illustrando i rischi che si annidano in relazioni non libere a causa di contesti sovrastrutturati o sottostrutturati. Riferendosi alle vittime citate, ha concluso: «Eleonora, Susan, Renate: sono donne di tre diverse associazioni di fedeli. Donne che, come tutte le vittime di abuso di potere, di coscienza, sessuale, hanno vissuto il Golgota, protratto talora per anni, un Golgota non a cielo aperto, ma rinserrato in quattro mura, spesso a luce fioca, consumato nei ricatti, per comprare quel loro silenzio che le ha pervase di sensi di colpa. Gli abusi le hanno inchiodate a una croce che nessuno poteva vedere, proprio perché innalzata in un Golgota segreto. E talvolta anche i terzi che sapevano o immaginavano erano a loro volta vittime o complici, elevando in tal modo a sistema gli abusi fisici, morali, psicologici, spirituali. Scoperchiamo questi Golgota bui. Il Dicastero è al vostro fianco nel consigliarvi e sostenervi in questa responsabilità ecclesiale condivisa».

E ha proseguito: «Questa è la profezia che, in virtù del battesimo e del nostro essere membra vive della Chiesa, ci è consegnata. Agiamo come Chiesa, come madre, che non prostituisce i propri figli, non allestisce nuovi Golgota, ma previene, con consapevolezza, con prudenza, investendo in una adeguata formazione. Ce lo chiedono donne come Susan, che ha nel frattempo intrapreso un lungo percorso di guarigione, come esprime in una recente lettera: “Se è vero che le ferite non vanno in prescrizione, è anche vero che credo, per fede, che Gesù Risorto è capace di trasfigurarle e di renderle gloriose come le sue. Più che ‘vittima’ ora mi sento una ‘sopravvissuta’ al potere della morte, perché nel mio orizzonte c’è una pietra rotolata e una tomba vuota. In quel giardino incontro Gesù Risorto, il mio Maestro e Signore, che ogni giorno mi chiama teneramente per nome”».

Non è mancata, nella mattinata, una dettagliata illustrazione degli strumenti giuridici di cui la Chiesa dispone per far fronte ai casi di abuso sessuale sui minori e sulle persone vulnerabili, curata da Philip Milligan, responsabile dell’Ufficio giuridico del Dicastero, che si è soffermato in particolare sul recente motu proprio Vos estis lux mundi  spiegandone la definizione di “persona vulnerabile”, nella quale è ricompresa ogni persona che, anche occasionalmente, è privata di fatto della libertà personale ed è limitata nella propria capacità di resistere all’offesa.  

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20190507_vos-estis-lux-mundi.html

Le numerose domande poste dai presenti ai relatori hanno rivelato l’interesse, la partecipazione e l’urgenza della tematica affrontata.

Nel pomeriggio è stato il gesuita Hans Zollner, presidente del Centre for Child Protection della Pontificia università Gregoriana, a esortare i presenti a raccogliere la sfida educativa per una prevenzione adeguata, che consenta di proteggere i più piccoli e vulnerabili evitando i crimini degli abusi sessuali. Parlando della «condizione sistemica» che attanaglia le nostre società, una condizione che non si può sottacere e che pone sotto scrutinio la Chiesa, Zollner ha altresì insistito nel non ripetere errori già commessi da altri, come a volte accade: ha esortato, pertanto, a imparare gli uni dagli altri, facendo tesoro dei percorsi altrui, sia quanto alla prevenzione degli abusi di ogni genere, sia per affrontare adeguatamente quelli già commessi.

Non sono mancate le coraggiose e molto apprezzate testimonianze di due responsabili di altrettante associazioni di fedeli che si sono trovate a dover affrontare casi di abuso sessuale al loro interno.

La giornata è stata moderata da don Giovanni Buontempo, responsabile del Dicastero per i rapporti con i movimenti e le associazioni, che ha esortato i presenti a sentirsi parte attiva nel processo di consapevolezza che deve coinvolgere tutto il popolo dei fedeli, approfittando soprattutto della rete di relazioni tra gruppi e famiglie che si instaura all’interno dei movimenti, al fine di informare, formare e prevenire.

Nella sessione conclusiva il cardinale Farrell ha rivolto ai presenti un accorato appello ad agire con responsabilità, dotandosi di ogni mezzo, così come richiesto e indicato dal Dicastero mediante l’apposita lettera circolare del maggio 2018, per riconoscere gli abusi, contrastarli e prevenirli, facendo leva sul potenziale formativo che è un compito proprio delle associazioni e dei movimenti ecclesiali. Il prefetto ha assicurato ai presenti: «La Santa Sede vi accompagna, è al vostro fianco in questa rinnovata chiamata a essere profetici, affinché nelle famiglie, nella società, nei luoghi ricreativi, nei contesti ecclesiali non abbiano più a insinuarsi e tantomeno a coprirsi comportamenti abusivi di alcun genere e si stabiliscano relazioni autenticamente evangeliche. Per adempiere a questa sfida educativa, non possiamo accontentarci di buone intenzioni. Occorre che ciascuna delle vostre associazioni riconosciute dalla Santa Sede predisponga gli strumenti necessari, formi persone idonee, competenti, costituisca un ufficio apposito, che sia reso noto a tutti, e di cui sia informato il Dicastero, affinché vi sia chi è in grado di ricevere le eventuali segnalazioni di abuso, di ascoltare le vittime, di indirizzare opportunamente ogni domanda, con la dovuta riservatezza, libertà e competenza».

L’Osservatore Romano         24 giugno 2019

www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-06/dicastero-laici-famiglia-vita-incontro-abusi-sessuali.html

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Lotta agli abusi

Tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Ecco le Linee guida Cei e Cism

www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2019/06/27/Linee-guida-per-la-tutela-dei-minori-e-delle-persone-vulnerabili.pdf

Pubblicato il 24 giugno 2019 il testo delle Linee Guida approvate dall’Assemblea generale dei vescovi italiani nel maggio scorso e che si applicano a tutti coloro che operano, a qualsiasi titolo, individuale o associato, all’interno delle comunità ecclesiali in Italia e a tutti gli Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica. Forte l’impegno della Chiesa italiana: “Qualsiasi abuso sui fanciulli e sui più vulnerabili – scrivono i vescovi -, ancor prima di essere un delitto, è un peccato gravissimo, ancor più se coinvolge coloro ai quali è affidata in modo particolare la cura dei più piccoli”.

Rinnovamento ecclesiale; protezione e tutela dei minori e delle persone vulnerabili; ascolto, accoglienza e accompagnamento delle vittime; responsabilizzazione comunitaria e formazione degli operatori pastorali; formazione dei candidati agli ordini sacri e alla vita consacrata; giustizia e verità; collaborazione con la società e le autorità civili; trasparenza e comunicazione. Sono questi i principi guida in cui la Chiesa italiana si riconosce per l’elaborazione delle Linee Guida per la Tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Conferenza episcopale italiana e della Conferenza italiana dei superiori maggiori.

Il testo, pubblicato oggi, è stato approvato nel corso dei lavori dell’ultima Assemblea generale della Cei (20-23 maggio 2019) ed è composto da una Premessa, dove si elencano e si analizzano i principi guida, da dettagliate indicazioni operative e una serie di allegati. Le Linee guida, si legge, si applicano “a tutti coloro che operano, a qualsiasi titolo, individuale o associato, all’interno delle comunità ecclesiali in Italia” e “compatibilmente al diritto proprio e alla normativa canonica, a tutti gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita apostolica, nella misura in cui questi non dispongano di proprie Linee guida”.

“Qualsiasi abuso sui fanciulli e sui più vulnerabili, ancor prima di essere un delitto, è un peccato gravissimo, ancor più se coinvolge coloro ai quali è affidata in modo particolare la cura dei più piccoli”, scrivono i vescovi nella Premessa. Per questo motivo “la Chiesa cattolica in Italia intende contrastare e prevenire questo triste fenomeno con assoluta determinazione”.

Il primo principio di base, il rinnovamento ecclesiale, prende le mosse dalla “Lettera al popolo di Dio” di papa Francesco del 20 agosto 2018 e ribadisce che “tutta la comunità è coinvolta nel rispondere alla piaga degli abusi non perché tutta la comunità sia colpevole, ma perché di tutta la comunità è il prendersi cura dei più piccoli”.  Per questo, “è richiesto un rinnovamento comunitario, che sappia mettere al centro la cura e la protezione dei più piccoli e vulnerabili come valori supremi da tutelare”.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2018/documents/papa-francesco_20180820_lettera-popolo-didio.html

È necessario “dare il giusto e dovuto ascolto alle persone che hanno subito un abuso e trovato il coraggio di denunciare”, in tal senso “la vittima va riconosciuta come persona gravemente ferita e ascoltata con empatia, rispettando la sua dignità”. Una priorità che “è già un primo atto di prevenzione perché solo l’ascolto vero del dolore delle persone che hanno sofferto questo crimine ci apre alla solidarietà e ci interpella a fare tutto il possibile perché l’abuso non si ripeta”. Un processo cui è chiamata e responsabilizzata tutta la comunità, una “missione”, in cui “ciascuno può e deve fare la sua parte”.

Per quanto riguarda il cammino formativo e alla professione religiosa di seminaristi e candidati alla vita presbiterale e consacrata, è richiesta “una grande prudenza nei criteri di ammissione” con “grande attenzione” anche per la formazione permanente. Sicuramente, poiché “la Chiesa ricerca la verità e mira al ristabilimento della giustizia”, “nessun silenzio o occultamento può essere accettato in tema di abusi”.

Per queste ragioni, prosegue il testo, “le procedure canoniche vanno rigorosamente rispettate: esse non hanno lo scopo di sostituirsi all’autorità civile, bensì quello di perseguire l’accertamento della verità e il ristabilimento della giustizia all’interno della comunità ecclesiale anche, in quei casi in cui determinati comportamenti non siano considerati reati per la legge dello Stato, ma lo sono per la normativa canonica”.

Accanto alla “collaborazione con l’autorità civile”, si inserisce il valore della trasparenza nelle comunicazioni e “di un’informazione corrispondente alla verità, che sappia evitare strumentalizzazioni e parzialità”.

Le indicazioni operative delle Linee guida si soffermano sui diversi aspetti procedurali e concreti, che partono dall’ascolto, accoglienza e accompagnamento delle vittime e affrontano il problema della selezione, formazione e accompagnamento degli operatori pastorali e del clero.

Il capitolo 5 è quindi interamente dedicato alla trattazione delle segnalazioni di presunti abusi sessuali nei confronti di un minore o di una persona vulnerabile, commessi in ambito ecclesiale da chierici o membri di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica. La norma è dirimente: “chiunque abbia notizia della presunta commissione in ambito ecclesiale di abusi sessuali nei confronti di minori o persone vulnerabili è chiamato a segnalare tempestivamente i fatti di sua conoscenza alla competente autorità ecclesiastica, a tutela dei minori e delle persone vulnerabili, della ricerca della verità e del ristabilimento della giustizia, se lesa”. La segnalazione va presentata e accolta dall’Ordinario. E ancora: “La segnalazione non solo non esclude, ma neppure intende ostacolare la presentazione di denuncia alla competente autorità dello Stato, che anzi viene incoraggiata”.

Per quanto riguarda le procedure canoniche in caso di presunto abuso sessuale commesso da parte di chierici nei confronti di minori, la descrizione delle procedure è dettagliata e parte dal principio che “nel suo discernimento il Vescovo o il Superiore competente terrà presente il primario interesse della sicurezza e tutela del minore”. A tal fine, “ferma restando la presunzione di innocenza dell’accusato fino alla condanna definitiva e la valutazione di ogni singolo caso concreto, il Vescovo o il Superiore competente, per prevenire gli scandali, tutelare la libertà dei testi e garantire il corso della giustizia, possono proibire all’accusato l’esercizio del ministero e di ogni attività pastorale con minori, allontanare l’accusato dal ministero sacro o da un ufficio e compito ecclesiastico, imporgli o proibirgli la dimora in un determinato luogo”.

Il chierico ritenuto colpevole degli abusi sarà comunque “accompagnato nel suo cammino di responsabilizzazione, richiesta di perdono e riconciliazione, riparazione, cura psicologica e sostegno spirituale”.

Nei rapporti con le autorità civili viene introdotto il principio secondo cui “l’autorità ecclesiastica ha l’obbligo morale di procedere all’inoltro dell’esposto all’autorità civile”. Non si procederà però a presentare l’esposto “nel caso di espressa opposizione” da parte della vittima (se nel frattempo divenuta maggiorenne), dei suoi genitori o dei tutori legali.

Per quanto riguarda informazione e comunicazione, l’istituzione ecclesiale è invitata a diventare “protagonista della comunicazione, assumendola con convinzione, attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni, senza ritardi o silenzi incomprensibili”.

Importante e fondamentale il ruolo dei Servizi ecclesiali a tutela dei minori – nazionale, diocesano e interdiocesano – per “aiutare a diffondere una cultura della prevenzione, strumenti di formazione e informazione, oltre che protocolli procedurali”.

Redazione Agenzia SIR 27 giugno 2019

https://agensir.it/chiesa/2019/06/27/tutela-dei-minori-e-delle-persone-vulnerabili-ecco-le-linee-guida-cei-e-cism

 

Da oggi in vigore le linee guida Cei sulla tutela dei minori

            Le linee guida per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili della Conferenza Episcopale Italia e della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori da oggi diventano operative, dopo essere state limate e pubblicate sul sito internet della Cei.

www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2019/07/16/Linee-guida-per-la-tutela-dei-minori-e-delle-persone-vulnerabili.pdf

 I principi che ispirano il documento, approvato nel maggio scorso dall’assemblea generale dei vescovi, sono nove:

  1. Rinnovamento ecclesiale,
  2. Protezione e tutela dei minori e delle persone vulnerabili,
  3. Ascolto, accoglienza ed accompagnamento delle vittime,
  4.  Responsabilizzazione comunitaria e formazione degli operatori pastorali,
  5.  Formazione dei candidati agli ordini sacri e alla vita consacrata,
  6. Giustizia e verità,
  7. Collaborazione con la società e le autorità civili,
  8.  Trasparenza e comunicazione,
  9. Strutture e servizi sempre più innovativi.

Un gesto coraggioso. Don Gianluca Marchetti, membro del consiglio di presidenza del Servizio Nazionale di Tutela dei Minori, definisce coraggioso il varo del provvedimento. Rispetto alle precedenti linee guida del 2014, la prospettiva si amplia, spiega: “Si dilata anche grazie alle indicazioni di Papa Francesco e agli studi compiuti dalla Chiesa universale. Ora al centro non ci sono più soltanto alcune procedure canoniche ma la tutela globale del minore e della persona vulnerabile”.

L’ascolto delle vittime: primo passo. Dare ascolto e credibilità a chi denuncia un abuso è il primo passo da compiersi. Le linee guida sono chiare: “Chi afferma di essere stato vittima di un abuso sessuale in ambito ecclesiale, come pure i suoi familiari, hanno diritto ad essere accolti, ascoltati ed accompagnati: il vescovo ed il superiore competente devono essere sempre disposti ad accogliere ed ascoltare queste persone sia personalmente sia attraverso un proprio esperto in materia”. Don Marchetti ci vede qui un cambio netto di rotta: “Molte vittime quando raccontano la loro esperienza mostrano soprattutto un dolore: non essere state ascoltate e credute. Ma adesso si cambia. Dovrà essere il cuore della comunità ecclesiale a mettersi in ascolto per aiutare e sostenere”.

Ascolta l’intervista a don Gianluca Marchetti

La denuncia alle autorità civili, obbligo morale. Denunciare alle autorità civili un abuso diventa impegno di coscienza. Al punto 8 delle indicazioni operative si legge che l’autorità ecclesiastica ha come obbligo morale di procedere all’inoltro dell’esposto all’autorità civile una volta appurato che ci sia un fondato sospetto del delitto. Di più: lo stesso punto 8, sottolinea come, aperto un procedimento penale secondo il diritto dello Stato, sia doveroso, da parte dell’autorità ecclesiastica, mantenere viva e costante la collaborazione con le autorità civili. “E’ una novità radicale – fa notare don Marchetti -. E nasce da un principio: la collaborazione con le autorità civili. Entrambe hanno il fine di tutelare i minori. Proprio perché le finalità sono le medesime, non dobbiamo aver timore di collaborare. Non ci deve essere una visione conflittuale, non si deve proteggere qualcosa o qualcuno, ma ricercare la verità e la giustizia”.

Maggiore attenzione alla selezione del clero. Altro imperativo è la selezione, la formazione e l’accompagnamento dei candidati all’ordine sacro e alla vita consacrata. “I vescovi ed i superiori maggiori non vi ammettano persone che non abbiano dimostrato un profondo e strutturato equilibrio personale e spirituale. E ai futuri chierici e religiosi deve essere garantita una sana formazione umana, psicologico-affettiva e spirituale”, recita il punto 4 delle indicazioni operative. Don Marchetti, entrando nel dettaglio, specifica che per la Chiesa, tutto questo non è una novità: da secoli è attenta alla formazione dei suoi membri. Ma la novità va vista “nella rete da tessere con le scienze umane, come, ad esempio, la psicologia. Bisogna mettere in piedi queste alleanze, senza avere paura del confronto”.

Chiesa, casa di vetro. La preoccupazione dei vescovi italiani è anche trasformare la Chiesa in una casa di vetro, dove non poter nascondere nulla. “E’ importante – si legge nel decimo punto delle indicazioni operative delle linee guida – che la comunità ecclesiale, nelle modalità più opportune, sia informata e resa consapevole di ciò che avviene in essa e che necessariamente la coinvolge; deve, inoltre, essere motivata per divenire protagonista dell’azione, prevenzione e protezione al suo interno e nella società”. Su questo, don Marchetti non ha dubbi: è essenziale divenire trasparenti. “Perché – aggiunge – ci rendiamo conto quanto facilmente l’informazione può essere manipolata. Tante volte si fa fatica a comunicare ciò che fa la Chiesa. Ma la Chiesa non deve avere paura di raccontare ciò che capita in essa. Così facendo si fa anche vera formazione”.

Federico Piana – Vaticannews          27 giugno 2019

www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2019-06/abusi-tutela-minori-linee-guida-cei-vescovi-italia.html

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CONGRESSI – CONVEGNI – CORSI – SEMINARI

La famiglia nel diritto: 17 luglio 2019 a Roma.

Organizzato da Studio Cataldi.it e Immediata-Adr con la partecipazione dell’Aiga. Tra i relatori il presidente Ami, Gian Ettore Gassani e il consigliere del Coa di Roma, Matteo Santini.

Si parlerà della famiglia a tutto tondo: tra problematiche esistenti e nuove esigenze di riforme nel convegno promosso da StudioCataldi.it – Il diritto quotidiano e Immediata-Adr.

Per iscrizioni e prenotazioni compila il form in questa pagina oppure scrivi a info@immediata-adr.it

La famiglia nel diritto: profili normativi e operativi. Un tema più attuale che mai “La Famiglia nel Diritto: profili normativi e operativi” quello che animerà il convegno a Roma, il prossimo 17 luglio, presso il centro Congressi del Palazzetto delle Carte Geografiche di via Napoli.

A portare i saluti istituzionali saranno l’on. avv. Roberto Cataldi, membro della commissione giustizia alla Camera, Federica Paniccia, avvocato e presidente di Immediata Adr e Romina Lanza, avvocato e presidente Aiga sezione Roma. Modererà l’evento, Ylli Pace, avvocato e vicepresidente di Immediata Adr.

Il programma prevede la trattazione dei seguenti temi:

1. “Problematiche e aspetti processuali nel diritto di famiglia – La Tutela penale della famiglia” – Dott. Valerio de Gioia Magistrato Tribunale Penale di Roma Sez. I Penale

2. “Danni endofamiliari nella più recente giurisprudenza” – Paolo Maria Storani Avvocato, Consulente parlamentare

3. “Ordine protettivo e ordine di allontanamento differenze fra misure preventive, cautelari e processuali” – Antonella Sotira Avvocato – Presidente fondatore dell’Associazione IUsdisputando & Iusgustando

4. “Le indagini richieste dal Giudice: i limiti e le competenze dell’investigatore privato” – Giuseppe Rabita, Tenente dei Carabinieri, Presidente Ass. Professionisti settore Investigazioni e Sicurezza

            5. “I profili deontologici nella corrispondenza tra Colleghi nel diritto di famiglia” – Alessandro Graziani Avvocato, Consigliere Ordine Avvocati di Roma

6. “La privacy nel diritto di famiglia” – Matteo Santini Avvocato, Consigliere Ordine Avvocati di Roma e Coordinatore Commissione filiazione e responsabilità genitoriale

7. “Gli aspetti patrimoniali del diritto di famiglia” – Gian Ettore Gassani Avvocato, Presidente nazionale e fondatore dell’AMI (Associazione Avvocati matrimonialisti Italiani per la tutela delle Persone, dei Minorenni e della Famiglia)

8. “L’inquadramento fiscale della famiglia” – Ilaria Corridoni, Avvocato tributarista

9. “La delibazione della sentenza ecclesiastica. Effetti nel caso di secondo matrimonio sopravvenuto” Laura Corona, Avvocato esperto in diritto minorile/Famiglia nonché Avvocato della Rota Romana e dello Stato Città del Vaticano

            10. “I metodi adr nella gestione del conflitto familiare: realtà e prospettive europee” – Federica Paniccia Avvocato e Presidente di Immediata- ADR La mediazione familiare, sviluppo e tecniche – Ylli Pace Avvocato e Vice Presidente di ImmediataADR

            11. “La negoziazione assistita” – Paolo Accoti, Avvocato e Articolista giuridico

12. “Il sostegno alla famiglia come divulgatrice intergenerazionale del valore della legalità” – Dott.ssa Monica Testa Assistente sociale e Social worker

L’evento è gratuito ed è in fase di accreditamento per il riconoscimento di crediti formativi per gli avvocati da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma. Per iscrizioni e prenotazioni: compilare il form a questa pagina oppure scrivere a info@immediata-adr.it

Locandina                                      https://www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34919_1.pdf

Redazione Studio Cataldi     

www.studiocataldi.it/articoli/34919-la-famiglia-nel-diritto-il-convegno-di-studiocataldiit-a-roma.asp

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CORTE COSTITUZIONALE

La libertà sessuale è un diritto, ma non giustifica il favoreggiamento della prostituzione

Sentenza n. 141, 7 giugno 2019

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Anche nell’attuale momento storico, e al di là dei casi di “prostituzione forzata”, la scelta di “vendere sesso” è quasi sempre determinata da fattori –di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale –che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo. In questa materia, lo stesso confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono è spesso labile e sfumato.

È, questo, uno dei passaggi della motivazione con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bari sulle disposizioni della “legge Merlin” che puniscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione (articoli 3, primo comma, numeri 4, prima parte e 8 della legge 20 febbraio 1958 n. 75). Con la sentenza n. 141depositata oggi (relatore Franco Modugno) la Corte spiega che queste incriminazioni mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana. Una tutela che si fa carico dei pericoli insiti nella prostituzione, anche quando la scelta di prostituirsi appare inizialmente libera: pericoli connessi, in particolare, all’ingresso in un circuito dal quale sarà difficile uscire volontariamente e ai rischi per l’integrità fisica e la salute cui ci si espone nel momento in cui ci si trova a contatto con il cliente. È dunque il legislatore, quale interprete del comune sentire in un determinato momento storico, che ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un’attività che degrada e svilisce la persona.

La Corte d’appello di Bari aveva sostenuto che l’attuale realtà sociale è diversa da quella dell’epoca in cui le norme incriminatrici furono introdotte: accanto alla prostituzione “coattiva” e a quella “per bisogno”, oggi vi sarebbe infatti una prostituzione per scelta libera, volontaria, qual’è quella delle “escort” (accompagnatrici retribuite, disponibili anche a prestazioni sessuali). Una simile scelta costituirebbe espressione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’articolo 2 della Costituzione: libertà che verrebbe lesa dalla punibilità di terzi che si limitino a mettere in contatto la “escort” con i clienti (reclutamento) o ad agevolare la sua attività (favoreggiamento).

Al contrario, la Corte costituzionale ha osservato che l’articolo 2 della Costituzione, nel riconoscere e garantire i «diritti inviolabili dell’uomo», si pone in stretta connessione con il successivo articolo 3, secondo comma, che, al fine di rendere effettivi questi diritti, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali al «pieno sviluppo della persona umana». I diritti di libertà –tra i quali indubbiamente rientra anche la libertà sessuale –sono, dunque, riconosciuti dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona, e di una persona inserita in relazioni sociali.

La prostituzione, però, non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica. In questo caso, infatti, la sessualità non è che una “prestazione di servizio” per conseguire un profitto. Né vale obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo. L’argomento prova troppo: in questo modo, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, se collegata a una libertà costituzionalmente garantita, diventerebbe un diritto inviolabile, nella misura in cui richiede l’esercizio di libertà costituzionalmente garantite.

Né, secondo la Corte costituzionale, viene violata la libertà di iniziativa economica privata per il fatto di impedire la collaborazione di terzi all’esercizio della prostituzione in modo organizzato o imprenditoriale. Tale libertà è infatti protetta dall’articolo 41 della Costituzione solo in quanto non comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Le disposizioni incriminatrici contenute nella legge Merlin si connettono a questi valori. Il fatto che il legislatore individui nella persona che si prostituisce il soggetto debole del rapporto spiega, inoltre, la scelta di non punirla, a differenza di quanto avviene per i terzi che si intromettono nella sua attività.

La Consulta ha anche escluso la violazione del principio di offensività. L’individuazione dei fatti punibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore, nel limite della non manifesta irragionevolezza, poiché implica valutazioni tipicamente politiche: e ciò tanto più rispetto alla prostituzione, che, come rivela l’analisi storica e comparatistica, si presta a diverse strategie di intervento. Resta comunque ferma, rispetto alla disciplina vigente, l’operatività del principio di offensività “in concreto”, che impone al giudice di escludere il reato quando la condotta risulti, per le specifiche circostanze, concretamente priva di ogni attitudine lesiva. La   Corte   esclude, infine, che   la   norma   incriminatrice   del   favoreggiamento   della prostituzione sia in contrasto con i principi di determinatezza e tassatività perché l’eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella fisiologia dell’interpretazione giurisprudenziale.

Roma, 7 giugno2019 Palazzo della Consulta, Piazza del Quirinale 41

Ufficio Stampa della Corte costituzionale Comunicato del 7 Giugno 2019

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Prostituzione: dignità umana e autodeterminazione

Con la sentenza n. 141 del 7 giugno 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Bari con riferimento alla L. 20 febbraio 1958, n. 75, sulla prostituzione. In particolare, nel corso del giudizio d’appello contro la sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato quattro imputati colpevoli dei delitti di reclutamento di persone ai fini della prostituzione e di favoreggiamento della stessa, il dubbio di costituzionalità era stato posto, con l’ord. 6 febbraio 2018, sull’art. 3, comma 1 (n. 4, prima parte, e n. 8) della Legge n. 75 del 1958, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 Cost., nella parte in cui configurano “come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».

www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=1958-03-04&atto.codiceRedazionale=058U0075&elenco30giorni=false

Per il giudice che ha sollevato l’eccezione “il fenomeno sociale della prostituzione professionale delle escort” costituirebbe un elemento di novità non prevedibile all’epoca di scrittura della legge. Accanto alla prostituzione “per bisogno” e a quella “coattiva”, vi sarebbe oggi una prostituzione scelta liberamente e volontariamente ed è alla luce di questa nuova realtà sociale che andrebbe verificata la legittimità delle soluzioni normative adottate in precedenza.

La libertà di esercitare la prostituzione, concepita dal legislatore del 1958 come esigenza di tutelare la donna dallo sfruttamento altrui, avrebbe oggi bisogno di una “connotazione ben più positiva e piena”: la scelta di prostituirsi sarebbe una “modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità” verso la dazione di diverse utilità. La scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo costituirebbe per la Corte remittente una forma di manifestazione della libertà di autodeterminazione sessuale, garantita dall’art. 2 Cost. come diritto inviolabile dell’uomo, ma anche una espressione della libertà di iniziativa economica privata tutelata dall’art. 41 Cost. Non solo. Le norme censurate sarebbero in contrasto con il principio di offensività, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27 Cost.: dal momento che il bene protetto dalla legge n. 75 del 1958 non sarebbe più la morale pubblica e il buon costume, ma la libera autodeterminazione della persona, a dire del Giudice di Bari, le condotte di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, liberamente esercitata, risulterebbero inoffensive: esse sarebbero produttive di un vantaggio (e non di un danno) per lo stesso interesse tutelato.

La sola fattispecie del favoreggiamento sarebbe poi lesiva anche dei principi di tassatività e determinatezza dell’illecito penale, ex art. 25, comma 2, Cost., dal momento che la formula descrittiva utilizzata – “chiunque, in qualsiasi modo, favorisca…” – risulterebbe eccessivamente generica.

            La Corte costituzionale prima di decidere nel merito le questioni di legittimità ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, ricordando come il fenomeno della prostituzione volontaria rappresenta “un tema fra i più problematici per il legislatore penale”, vista “l’amplissima gamma di risposte differenziate circa l’an e il quomodo dell’impiego della sanzione penale”.

Alla base delle diverse soluzioni normative la Corte rileva una preliminare opzione tra due visioni alternative.

  1. In base alla prima, la prostituzione sarebbe da considerare “una scelta attinente all’autodeterminazione in materia sessuale dell’individuo” (visione, tra l’altro, fatta propria dalla Corte remittente): tale scelta darebbe luogo ad un’attività economica legale e lo Stato dovrebbe limitarsi a regolare l’esercizio dell’attività per far fronte ai possibili pericoli.
  2. L’altra visione alla quale fa riferimento la Corte costituzionale considera la prostituzione come un fenomeno da contrastare per una pluralità di ragioni: la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili; la protezione della dignità umana “intesa in una accezione oggettiva, ossia come principio che si impone a prescindere dalla volontà e dalle convinzioni del singolo individuo”; la difesa della salute, individuale e collettiva; motivi di ordine pubblico. Lo Stato, in questa prospettiva, dovrebbe prevedere una disciplina di sfavore e stabilire diverse ipotesi punitive.

            Dopo l’excursus, anche storico, della legislazione in materia, la Corte costituzionale entra nel merito del giudizio di legittimità costituzionale.

In relazione alla presunta violazione dell’art. 2 Cost. e, pertanto, del presunto diritto inviolabile alla libertà di autodeterminazione sessuale, la Corte dichiara la questione infondata giacché l’art. 2 Cost. costituisce “un parametro non conferente rispetto all’(intromissione di terzi nell’) esercizio dell’attività di prostituzione”.

La volontaria e libera scelta di offrire prestazioni sessuali verso corrispettivo “non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana”, contemplato dall’art. 2 Cost., “ma costituisce – molto più semplicemente – una particolare forma di attività economica”. Tanto più che l’incidente di costituzionalità mirava a tutelare non tanto la persona che si prostituisce, “ma, in prima battuta – e soprattutto – i terzi che si intromettono nell’attività o che cooperano con essa”.

Pertinente è, invece, per la Corte il riferimento all’art. 41 Cost, ma anche in questo caso la questione risulta infondata: la libertà di iniziativa economica è tutelata dalla Carta ma “a condizione che non comprometta altri valori che la Costituzione considera preminenti”, tra i quali la dignità umana.

            Sono due i passaggi importanti nella riflessione che fa il giudice delle leggi: l’impossibilità di tracciare una “linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono” – essendo questa linea fluida già sul piano teorico (e ancor di più su quello di verifica processuale) visti i “fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali” (fattori di ordine economico, di disagio sul piano affettivo o sociale) – e il riferimento alla tutela della dignità umana, intesa nella cornice dell’art. 41 Cost., comma 2, in senso oggettivo.

Per la Corte, infatti, non si può far riferimento alla “dignità soggettiva”, “quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore” e la discrezionalità del Parlamento in materia a tutela del “soggetto debole” è piena (e dunque legittima la scelta di non intervenire penalmente nei confronti di quest’ultimo ma solo nei confronti dei terzi che “interagiscono con la prostituzione”).

È il legislatore che ravvisa nella prostituzione anche volontaria “una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.

Proprio rispetto alla discrezionalità del Parlamento in materia viene dichiarata infondata anche la questione di legittimità rispetto al principio di offensività del reato: “l’individuazione dei fatti punibili, così come la determinatezza della pena per ciascuno di essi, costituisce materia affidata alla discrezionalità del legislatore”, giacché “gli apprezzamenti in ordine alla ‘meritevolezza’ e al ‘bisogno di pena’ ..sono … per loro natura tipicamente politici”.

Mentre la Corte d’appello di Bari affermava la legittimità del reclutamento delle libere prostitute professionali all’interno “del libero incontro sul mercato del sesso tra domanda e offerta”, la Corte ribadisce un principio antichissimo – anche se oggi non più così scontato (si pensi, ad esempio, alla possibilità in ordinamenti diversi da quello italiano di “offrire” a pagamento gli ovociti a fini riproduttivi) – quello della non commerciabilità del corpo umano, in virtù della tutela della dignità umana.

Nella sentenza la dignità umana viene tutelata pienamente dalla Corte costituzionale, attraverso il riconoscimento del carattere oggettivo della stessa, non dipendente dalla percezione individuale o dagli interessi del singolo: una dignità non relegata esclusivamente sul piano soggettivo, ma in grado di proteggere valori superiori rispetto agli interessi economici e che arriva a porsi come limite, in questa sua accezione oggettiva, anche all’autodeterminazione personale.

In questo caso, pertanto, la Corte non soltanto riconosce la distinzione tra dignità e autodeterminazione – che sempre più spesso oggi sembrano confondersi l’una con l’altra – ma afferma anche la necessità di non limitarsi ad una concezione assoluta, fredda e tirannica dell’autodeterminazione, ma di riconoscere il suo carattere “fluido”, condizionabile da molteplici fattori (economici, famigliari, affettivi, sociali…) che vanno a  ridurre, “drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali”.

Non ogni volontà espressa sotto forma di diritto all’autodeterminazione personale può essere garantita come diritto inviolabile ex art. 2 Cost. Il giudice delle leggi ricorda come i diritti inviolabili riconosciuti e garantiti ex art. 2 Cost. sono sempre in connessione a quanto previsto dal successivo art. 3 Cost., comma 2, “che al fine di rendere effettivi tali diritti, impegna altresì la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il ‘pieno sviluppo della persona umana’”. L’art. 2 Cost. “collega, dunque, i diritti inviolabili al valore della persona e al principio di solidarietà”: “tale valore fa riferimento non all’individuo isolato, ma a una persona titolare di diritti e doveri e, come tale, inserita in relazioni sociali”.

Per la Corte “è il collegamento con lo sviluppo della persona a qualificare la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost.”, con la conseguenza che non tutte le espressioni di volontà partecipano alla natura di diritto inviolabile.

            I principi affermati nella sent. n.141 del 2019 costituiscono le basi a fondamento del principio personalistico nell’ordinamento italiano.

Stupisce come possano essere diametralmente opposti, a quelli contenuti nell’ordinanza n. 207 del 2018 della stessa Corte in tema di fine vita, nel caso Dj Fabo. E ciò in riferimento al riconoscimento di un’accezione (anche) oggettiva insita nella tutela della dignità umana; all’individuazione di limiti (anche impliciti!) all’autodeterminazione personale; alla lettura data all’art. 2 Cost. sia per quanto riguarda i diritti inviolabili che i doveri di solidarietà (lettura che non abbandona l’individuo, ma ne tutela il valore all’interno di relazioni umane); alla discrezionalità piena lasciata al Parlamento in ambito d’individuazione dei fatti punibili e di determinazione della pena (in quanto scelte politiche).

È vero, la materia è differente. Nella sentenza n. 141 si parla di autodeterminazione nella sfera sessuale, di prostituzione (più o meno) volontaria, e si discute sulla legittimità costituzionale delle norme di legge che puniscono le attività che ne favoriscono l’esercizio; nell’ord. 207 si affronta il tema delicato della morte, del suicidio assistito, e si discute sulla legittimità costituzionale delle norme del codice penale che puniscono chi aiuta o agevola il suicidio di persone che si sono autodeterminate in tal senso. Il soggetto debole nella prima questione è la prostituta, nella seconda il malato che ritiene la sua vita non più degna di essere vissuta.

Tuttavia, non è possibile che la dignità umana possa avere una tutela diversa in relazione alla materia trattata; che in Costituzione siano contemplate varie dignità a seconda degli interessi e beni regolati dai singoli articoli; che, a seconda della fattispecie concreta, l’autodeterminazione incontri o meno il limite della dignità della persona.

Francesca Piergentili, dottore di ricerca in Categorie giuridiche UniversitàEuropea di Roma

Centro Studi Rosario Livatino         24 giugno 2019

www.centrostudilivatino.it/prostituzione-dignita-umana-e-autodeterminazione-nella-sentenza-n-141-2019-della-corte-costituzionale

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DALLA NAVATA

XIII Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 30 giugno 2019

1 Re                19, 16. In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto»

Salmo              15, 11. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.

Galati              05, 18. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.

Luca                09, 51. Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme.

 

Gesù vuole eliminare il concetto stesso di «nemico»

Vuoi che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? La reazione di Giacomo e Giovanni al rifiuto dei Samaritani è logica e umana: farla pagare, occhio per occhio. Gesù si voltò, li rimproverò e si avviò verso un altro villaggio. Nella concisione di queste parole si staglia la grandezza di Gesù. Uno che difende perfino la libertà di chi non la pensa come lui. La logica umana dice: i nemici si combattono e si eliminano. Gesù invece vuole eliminare il concetto stesso di nemico.

E si avviò verso un altro villaggio. C’è sempre un nuovo paese, con altri malati da guarire, altri cuori da fasciare, altre case dove annunciare pace.

Gesù non cova risentimenti, lui custodisce sentieri verso il cuore dell’uomo, conosce la beatitudine del salmo: beato l’uomo che ha sentieri nel cuore (Salmo 84,6). E il Vangelo diventa viaggio, via da percorrere, spazio aperto. E invita il nostro cristianesimo a non recriminare sul passato, ma ad iniziare percorsi.

Come accade anche ai tre nuovi discepoli che entrano in scena nella seconda parte del Vangelo: le volpi hanno tane, gli uccelli nidi, ma io non ho dove posare il capo. Eppure non era esattamente così. Gesù aveva cento case di amici e amiche felici di accoglierlo a condividere pane e sogni. Con la metafora delle volpi e degli uccelli Gesù traccia il ritratto della sua esistenza minacciata dal potere religioso e politico, sottoposta a rischio, senza sicurezza. Chi vuole vivere tranquillo e in pace nel suo nido sicuro non potrà essere suo discepolo.

Noi siamo abituati a sentire la fede come conforto e sostegno, pane buono che nutre, e gioia. Ma questo Vangelo ci mostra che la fede è anche altro: un progetto da cui si sprigiona la gioiosa fatica di aprire strade nuove, la certezza di appartenere ad un sistema aperto e non chiuso.

Il cristiano corre rischio di essere rifiutato e perseguitato, perché, come scriveva Leonardo Sciascia, «accarezza spesso il mondo in contropelo», mai omologato al pensiero dominante. Vive la beatitudine degli oppositori, smonta il presente e vi semina futuro.

Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Una frase durissima che non contesta gli affetti umani, ma che si chiarisce con ciò che segue: Tu va e annunzia il Regno di Dio. Tu fa cose nuove. Se ti fermi all’esistente, al già visto, al già pensato, non vivi in pienezza («Non pensate pensieri già pensati da altri», scriveva padre Giovanni Vannucci OSM). Noi abbiamo bisogno di freschezza e il Signore ha bisogno di gente viva.

Di gente che, come chi ha posto mano all’aratro, non guardi indietro a sbagli, incoerenze, fallimenti, ma guardi avanti, ai grandi campi del mondo, dove i solchi dell’aratro sono ferite che però si riempiono di vita.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=37588

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DIVORZIO

Divorzio in Italia secondo il diritto marocchino

Tribunale di Bergamo, prima Sezione civile, sentenza n. 300, 04 febbraio 2019

Il Tribunale di Bergamo ha pronunciato il divorzio tra due coniugi applicando il diritto marocchino.

In Italia è possibile applicare la legge di uno Stato estero, purché non sia contraria a norme imperative o di ordine pubblico.

Nel caso in questione, due coniugi marocchini avevano contratto matrimonio a Milano presso il Consolato del Marocco. Dall’unione coniugale sono nati tre figli, ancora minori. I coniugi hanno poi deciso di sciogliere il loro matrimonio chiedendo l’applicazione del diritto marocchino, ai sensi dell’art. 5 del Regolamento UE 1259/2010 (c.d. Roma III).

https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:343:0010:0016:IT:PDF

Il diritto di famiglia del Marocco non prevede l’istituto della separazione ma solo quello del divorzio e sono previste delle forme di tutela che non sono contemplate nel nostro ordinamento. La donna con il divorzio può ottenere il Mout’a che rappresenta una somma a titolo di “consolazione” (calcolata in base alla durata del matrimonio e alla situazione finanziaria del coniuge) ma anche il Sadaq, una sorta di indennizzo per il periodo di vedovanza (dopo il divorzio) pari a tre cicli mestruali.

L’art. 114 del Mudawwana (2003), il codice di famiglia marocchino, consente ai coniugi di presentare una richiesta di divorzio “per mutuo consenso” con o senza condizioni purché le stesse non danneggino gli interessi dei figli e non siano contrarie al codice marocchino.

https://it.wikipedia.org/wiki/Mudawwana_(Marocco)

https://web.archive.org/web/20090117083435/http://justice.gov.ma/MOUDAWANA/Codefamille.pdf)

Il Tribunale di Bergamo, dopo aver constatato che la comunione materiale e spirituale dei coniugi non poteva più essere ricostituita, ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio. Sono state prese alla base della decisione le condizioni concordate tra i coniugi.

La Hadana, cioè la custodia dei minori, è stata affidata in primo luogo alla madre e poi anche al padre; il padre sarà tenuto a versare una somma per il mantenimento dei figli con riferimento al cibo, all’abbigliamento, alle cure mediche e sarà tenuto a versare alla moglie una somma dovuta per la custodia dei figli e per le spese ad essa relative. La somma che l’uomo dovrà versare mensilmente alla moglie è di 500 euro mensili.

Tale decisione segue quella del 2017 del Tribunale di Padova, che ha riconosciuto per la prima volta in Italia il divorzio marocchino. Il collegio padovano aveva accolto la richiesta applicando un articolo del regolamento europeo che contempla che “i coniugi possano designare di comune accordo la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale purché si tratti della legge dello Stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell’accordo”.

La novità delle due decisioni sta nel fatto che i giudici hanno esteso l’applicazione della legge marocchina anche ai rapporti patrimoniali.

Redazione Brocardi.it                       28 giugno 2019

www.brocardi.it/notizie-giuridiche/divorzio-italia-secondo-diritto-marocchino/1877.html?utm_source=Brocardo+Giorno&utm_medium=email&utm_content=news_big_famiglia&utm_campaign=2019-06-28

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DONNE NELLA CHIESA

L’ora del femminismo evangelico

Ritorniamo alla forza dirompente del vangelo

Questo numero è dedicato in gran parte al tema “Donne e Chiesa”, con interventi di teologhe ed esperte. Il titolo di copertina e quello dell’articolo introduttivo esprimono due prospettive complementari. All’interno c’è un’espressione provocatoria: “Tutto quello che c’è da sapere per evitare lo scisma del XXI secolo”. Mentre nella cover abbiamo scelto una prospettiva di soluzione: “L’ora del femminismo evangelico”.

Il primo punto di vista è ben espresso dal teologo Armando Matteo nel suo libro La Chiesa che manca (San Paolo, 2018): «Ci troviamo davanti all’emergere di una generazione di donne che inizia a rompere quel-la che è sempre stata una tradizionale alleanza del genere femminile con la realtà della Chiesa».

La seconda visione la puntualizza bene il teologo Piero Coda: «Il ruolo che la donna ha avuto nella missione di Gesù e nella comunità apostolica è stato in seguito oscurato da una pratica ecclesiale e da una concezione della novità cristiana fortemente influenzata da moduli culturali maschilisti e gerarchici».

Faccio mie anche queste altre parole di Coda: è importante che «non schiacciamo la donna su moduli maschili, che sono poi maschilisti, ma ritroviamo una reciprocità che permetta di valorizzare appieno l’uno e l’altro».

Aggiungo solo un’altra considerazione, prendendo spunto dal libro di Alberto Maggi Le cipolle di Marta (Cittadella, 2002). Le parole di Gesù, che rimprovera Marta ed elogia Maria, sono straordinarie, uno dei passi evangelici femministi in seguito oscurati. Per Gesù, infatti, Maria ha pieno diritto di sedersi ad ascoltare il Maestro come gli altri discepoli. Marta, invece, vorrebbe che la sorella rientrasse “al suo posto”, quello che le assegnavano la tradizione, le regole, le consuetudini, e cioè in cucina e a servire gli ospiti. Marta vorrebbe che Maria tornasse alla schiavitù, come gli ebrei desideravano riavere la sicurezza delle “cipolle d’Egitto”. C’è bisogno di tornare al Vangelo e al suo messaggio dirompente, ma serve anche una presa di coscienza da parte delle donne dei loro diritti, del loro valore e della loro unicità.

don Antonio Rizzolo, direttore di Famiglia cristiana “Jesus” n. 6, giugno 2019    

www.jesusonline.it/sommario-n-6-2019.html

 

Tutto quello che c’è da sapere per evitare lo scisma del XXI secolo

Se a Hollywood il me too [movimentofemminista contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne] si è stagliato come l’ultima frontiera del femminismo mondiale, nella galassia cattolica la denuncia degli abusi disvela, o addirittura risveglia, l’emancipazione femminile in seno a Santa Romana Chiesa. Il ruolo delle donne cattoliche non è certo un tema nuovo, il concilio Vaticano II ha aperto una nuova stagione per la teologia femminile, non c’è Papa che non tributi riconoscimenti al «genio femminile». Ma negli ultimi mesi qualcosa è cambiato. Saranno le aspettative suscitate dal riformismo di papa Francesco, sarà che la leadership maschile della Chiesa ha mostrato i suoi limiti, sarà che il mondo non è più lo stesso, fatto sta che fioccano denunce e rivendicazioni.

Già alla fine degli anni ’90 due religiose, suor Maura O’Donohue e suor Marie McDonald, denunciarono centinaia di casi di abusi di cui erano vittime le religiose, ma i loro rapporti finirono presto nell’ombra. Negli ultimi mesi le denunce e le inchieste si sono moltiplicate, dall’India all’America, dove è spuntato l’hastag #nunstoo: dalla televisione franco-tedesca Arte, che ha raccontato «l’altro scandalo della Chiesa», all’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg), che ha invitato a denunciare chi abusa «alle autorità ecclesiali e civili competenti»; dagli abusi sessuali — in Italia spicca il lavoro di Anna Deodato delle Ausiliarie diocesane di Milano —, alle suore (accade anche a Roma, come ha raccontato l’inserto femminile dell’Osservatore Romano) trattate alla stregua di sguattere. Vicende che emergono ora che il Papa ha promesso di promuovere la presenza femminile «proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».

 Non abbastanza, per qualcuno: la Chiesa è «a un bivio», ha detto a un incontro organizzato per il 1° maggio dal gruppo di donne cattoliche Voices of Faith l’x presidente irlandese Mary McAleese. Le donne «si aspettano un ruolo maggiore ed è incredibile che così tanti anni dopo il Concilio Vaticano II e la dichiarazione dei diritti dell’uomo ancora non lo si faccia. Non siamo la fragola sulla torta», ha aggiunto la politica irlandese, «siamo il lievito nel pane: senza di esso la torta della Chiesa si sgonfia. Molte donne se ne stanno andando, non da Cristo né dal Vangelo, ma da una Chiesa maschile».

I segni di un fortissimo disagio femminile, in effetti, ci sono tutti: in Germania ad esempio, le donne cattoliche riunite nel gruppo “Maria 2.0” hanno proclamato uno “sciopero ecclesiale” dall’11 al 18 maggio2019: per una settimana non metteranno più piede in nessuna chiesa, niente liturgie né servizio pastorale in parrocchie e istituzioni ecclesiali per protestare con la disparità di genere nella Chiesa. Le statistiche, poi, confermano che la presenza femminile non è affatto assicurata. Sebbene in termini assoluti siano una potenza, negli ultimi decenni le vocazioni alla vita consacrata sono calate in vari Paesi e l’età media è aumentata. Le chiese sono sempre più frequentate da donne anziane e, con l’avanzare delle generazioni, diminuisce — tra le donne esattamente come tra gli uomini — la frequentazione della Messa domenicale o la scelta di sposarsi in chiesa.

«Ci troviamo davanti all’emergere di una generazione di donne che inizia a rompere quella che è sempre stata una tradizionale alleanza del genere femminile con la realtà della Chiesa», scrive il teologo Armando Matteo nel volume La Chiesa che manca (San Paolo, 2018): «Un’alleanza che ha sicuramente giovato a entrambi i partner, ma che ora chiede di essere nuovamente rinegoziata». La gerarchia ecclesiastica fatica a riconoscerlo. Gli interventi più forti al summit vaticano di febbraio sugli abusi sessuali sui minori sono stati quelli di tre donne: la suora nigeriana Veronica Openibo, la giornalista messicana Valentina Alazraki e la sottosegretaria del dicastero per i laici, Linda Ghisoni. Molto apprezzato da Francesco, proprio quest’ultimo intervento aveva sollecitato il Papa a dire la sua: «Non si tratta di dare più funzioni alla donna nella Chiesa, si tratta di integrare la donna come figura della Chiesa nel nostro pensiero. E pensare anche la Chiesa con le categorie di una donna». Questa espressione, dice il teologo Piero Coda, preside dell’Istituto Sofia e membro della Commissione teologica internazionale e di quella sul diaconato femminile, esprime «la mens del Papa, perché la Chiesa assuma sempre di più quel volto radicalmente femminile, che viene oscurato dalla forma di Chiesa fortemente maschile, gerarchica e clericale».

 Già vent’anni fa Coda aveva scritto della necessità di dare la parola alle donne all’interno dei Sinodi e nel collegio cardinalizio. Le parole del Papa, ora, possono significare «una presenza qualificata della donna a tutti i livelli della gestione della vita ecclesiale, dove di per sé non è necessario un riferimento al ministero ordinato nella forma che la tradizione della Chiesa prevede», afferma Coda. Che ricorda come la stessa Commissione teologica internazionale «ha chiesto che nella gestione dei Sinodi a livello locale o universale si qualifichi, potenzi e promuova la presenza di tutti i componenti il popolo di Dio».

Proprio all’assemblea sinodale sui giovani di ottobre, per la prima volta si è affacciata la proposta che votassero anche le superiore religiose presenti. L’ipotesi, che alla fine non si è concretizzata, si inserisce sulla scia del voto ormai concesso ai superiori religiosi non vescovi, dunque — che partecipano ai Sinodi. Le religiose non demordono: «Noi speriamo che un giorno si arrivi al diritto di voto», ha detto la presidente dell’Uisg, suor Carmen Sammut, «sebbene non sappiamo quando». È ormai evidente, comunque, che ci sia bisogno di un cambiamento. Lo scandalo degli abusi, dice Coda, «ha evidenziato l’emergere di una situazione che deriva da una concezione della Chiesa e da una formazione del clero non più sostenibili. Il ruolo che la donna ha avuto nella missione di Gesù e nella comunità apostolica è stato in seguito oscurato da una pratica ecclesiale e da una concezione della novità cristiana fortemente influenzata da moduli culturali maschilisti e gerarchici». L’importante è che «non schiacciamo la donna su moduli maschili, che sono poi maschilisti, ma ritroviamo una reciprocità che permetta di valorizzare appieno l’uno e l’altro, cambiando il linguaggio ecclesiale, la preghiera, la liturgia, la teologia, dove la presenza del femminile sia non solo attiva, ma abbia anche una funzione di orientamento e di spinta».

Vittoria Prisciandaro e Iacopo Scaramuzzi “Jesus” n. 6   giugno 2019

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Se ministero fa rima con mistero

Nel cristianesimo delle origini il diaconato era un ordine autonomo ed esistevano le donne diacono. Nella Lettera ai Romani san Paolo parla di una donna, Febe,diaconos” della comunità di Cencre. Nel IV secolo Olimpia viene ordinata con l’imposizione delle mani da parte di Giovanni Crisostomo. Codici della tradizione greca-bizantina e siriaca citano casi fino al Medioevo. Nel corso del tempo, però, i sacerdoti assorbirono i compiti dei diaconi, quali la gestione delle finanze, il diaconato divenne un grado del cursus honorum per diventare preti. E sempre meno donne vennero ordinate diaconi, soprattutto nella Chiesa d’Occidente, fino a scomparire.

Episcopato, presbiterato e diaconato, perciò, si sono configurati sempre più come gradi diversi dell’unico ordine sacro. Venendo a tempi più recenti, Paolo VI, recependo le istanze del concilio Vaticano II (Lumen gentium, 29), ristabilì il diaconato come grado “proprio e permanente” della gerarchia (Sacrum diaconatus, 1967). Nella ricostruzione di Phyllis Zagano, professoressa della Hofstra University (Usa) e membro della Commissione voluta da papa Francesco, papa Montini chiese a Cipriano Vagaggini di approfondire la questione e il teologo giunse alla conclusione che era possibile ordinare donne diacono. Orientamento confermato da una sottocommissione della Commissione teologica internazionale (1992-1997), le cui conclusioni, però, non vennero pubblicate poiché l’allora prefetto, il cardinale Joseph Ratzinger, si rifiutò di firmarle. Nel 2002, la Commissione affermò che le diaconesse “non sono puramente e semplicemente assimilabili ai diaconi” e che la decisione circa l’ordinazione spettava al Pontefice.

E proprio Benedetto XVI, nel 2006, si limitò ad affermare che “è giusto chiedersi se anche nel servizio ministeriale… non si possa offrire più spazio, più posizioni di responsabilità alle donne”. Nel 2009, poi, il Pontificio consiglio per i testi legislativi modificò il Codice di diritto canonico con il motu proprio Omnium in mentem, per distinguere la figura di vescovi e presbiteri, che “ricevono la missione e la facoltà di agire nella persona di Cristo”, da quella dei diaconi, che “vengono abilitati a servire il popolo di Dio”. Il tema era dunque tutt’altro che nuovo quando, a maggio del 2016, una suora dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) chiese a papa Francesco – che più volte si era detto impegnato a dare più spazio alle donne anche in ruoli decisionali – “cosa impedisce alla Chiesa di includere le donne tra i diaconi permanenti” e “perché non costituire una commissione”. Suggerimento subito accolto da Jorge Mario Bergoglio, che il 2 agosto creò la Commissione, con sei uomini e sei donne di retroterra e orientamento molto diversi.

Da subito, il Papa ha parlato di diacone che, in particolare nell’area della Siria, avevano un ruolo nel battesimo delle donne o nell’accertamento dei lividi sul loro corpo nelle cause matrimoniali. La Commissione, molto discretamente, si è riunita cinque o sei volte, sino al giugno del 2018. A quella data, il presidente, il cardinale Luis Ladaria, ha reso noto che il lavoro era in dirittura d’arrivo, precisando che il Pontefice aveva chiesto di rispondere ad alcune domande sul diaconato femminile nella Chiesa antica (“Era la stessa cosa dei diaconi? Era una realtà molto estesa o piuttosto locale?”) e non “di studiare se le donne possono essere o no diaconesse”.

La questione sta accendendo gli animi. E rischia di intrecciarsi con l’altro dibattito, in realtà distinto, del sacerdozio femminile. Dando voce alla cautela, Karl-Heinz Menke, membro della Commissione pontificia e professore emerito di Teologia dogmatica a Bonn, ha caldeggiato l’idea di affidare alle “diaconesse” compiti che non implicano l’ordine sacro, come la celebrazione dei funerali e dei matrimoni.

A maggio scorso, in occasione di una nuova udienza all’Uisg, il Papa ha pubblicamente consegnato alla presidente, suor Carmen Sammut, le conclusioni, sottolineando che i commissari sono giunti a concordare su “poco” ed egli non può “fare un decreto sacramentale senza fondamento teologico-storico”. Il nodo rimane se per le antiche donne diacono “c’era ordinazione sacramentale o no”, ha spiegato Francesco, e bisogna “cercare” meglio “cosa c’era all’inizio della rivelazione: se c’era qualcosa, farla crescere”, se invece “il Signore non ha voluto il ministero sacramentale per le donne, non va”, perché vero è che la “coscienza della fede” si sviluppa nel tempo, ma non si può “andare oltre la rivelazione e l’esplicitazione dogmatica”. Per non pochi osservatori, il Papa ha così archiviato il diaconato femminile. Per Phyllis Zagano, invece, Francesco “sta cercando di sollecitare il dibattito”. Magari già al prossimo sinodo sull’Amazzonia. La porta, insomma, si è appena aperta.

Iacopo Scaramuzzi    “Jesus” n. 6 giugno 2019

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Occhi di donna sulla bibbia

La Scrittura «è stata per le donne occasione di nutrimento e di liberazione, e non poche volte le presenta come  protagoniste  positive  della  storia  sacra»:  è il  risultato  del  lavoro  di  scavo,  quasi  di dissotterramento, al quale giunge l’esegesi «femminile» della Bibbia, che, sviluppatasi dall’epoca del concilio Vaticano II, ha permesso di arrivare a una «sempre maggiore conoscenza dei contesti culturali nei quali sono nati i testi sacri» nonché a «una più corretta interpretazione di alcuni passi usati nel passato per sminuire o emarginare le donne».

 Lo spiega Adriana Valerio, storica e teologa, docente di Storia del cristianesimo e delle Chiese all’Università degli Studi di Napoli Federico II, autrice di opere quali Il potere delle donne nella Chiesa (Laterza 2016) e Maria di Nazaret. Storia, tradizioni, dogmi (Il Mulino 2017).

È corretto considerare la Bibbia intrinsecamente maschilista? Un testo scritto da maschi, espressione di un’epoca e di una cultura patriarcale, che relega le donne a ruoli subalterni?

«Anche la Bibbia, composta da numerosi libri, differenti per origine e composizione, tramandati e scritti nell’arco di circa mille anni (dal X secolo a.C. al I secolo d.C.), ha utilizzato codici antropologici e linguistici legati a specifici contesti culturali che rispecchiavano la visione androcentrica delle società antiche, fondate su strutture patriarcali e gerarchiche. Inoltre, il testo sacro è stato vittima di una cattiva esegesi per cui, erroneamente interpretato, è stato impiegato per legittimare la subalternità femminile discriminando le donne, tenute lontane da compiti di responsabilità perché considerate inferiori, impure e inadeguate. Va anche aggiunto, però, che, nonostante questo quadro di riferimento legato ai limiti dell’orizzonte culturale segnato dal patriarcato, la Scrittura è stata per le donne occasione di nutrimento e di liberazione, e non poche volte le presenta come protagoniste positive della storia sacra. Pensiamo al ruolo esercitato dalle matriarche, fondatrici d’Israele (Sara, Rebecca, Rachele, Lia e Tamar); all’influenza esercitata sul popolo da condottiere, profetesse, sagge e liberatrici (Debora, Miriam, Rut, Ester, Giuditta...); all’importanza delle discepole e apostole nella vita di Gesù (la Maddalena, Marta e Maria di Betania, la Samaritana…); all’impegno svolto da missionarie, diaconesse e collaboratrici nelle comunità paoline (Febe, Giunia, Priscilla…)».

E i Vangeli? Lei ha scritto di Maria come di una donna «dalla forte carica eversiva», descrizione che non coincide perfettamente con una certa sensibilità devozionale…

«Nei Vangeli emerge ancora di più il ruolo delle donne. Gesù è riuscito a entrare in un dialogo empatico con loro, offrendo ascolto, partecipazione affettiva e spazi di azione; a loro ha rivolto messaggi di speranza superando molti pregiudizi dell’epoca; ha annunciato le esigenze del regno di Dio chiedendo loro scelte radicali, non considerandole mai una categoria a parte o secondaria. Non dimentichiamo, inoltre, che un numero imprecisato di donne lo ha seguito dagli inizi della sua missione in Galilea fin sotto la croce ed è stato garante della sua risurrezione. La stessa figura di Maria deve essere valorizzata nella sua umanità e riletta alla luce dei fili, seppur esili, della storia, per liberarla dalle sovraccariche interpretazioni dogmatiche e devozionali».

Parliamo ora della interpretazione e della ricezione della Bibbia: c’è un’esegesi biblica femminile, se non femminista? Che strumenti usa? Quali risultati ha ottenuto?

«La teologia femminista, sorta negli Stati Uniti intorno agli anni Sessanta del ‘900 e affermatasi in Europa alla fine del decennio successivo, ha avviato in maniera sistematica un processo di revisione sia dell’esegesi biblica sia della tradizione ecclesiale che hanno giustificato la diversità e la subordinazione femminile. L’esegesi, in particolare, messa in atto dalle teologhe attente all’uso dei più sofisticati metodi messi a disposizione oggi dalle scienze bibliche, legge la Scrittura, da una parte evidenziando le categorie patriarcali presenti nei testi, da un’altra mettendo in luce la presenza significativa delle donne che sono state, assieme agli uomini, soggetti della storia sacra e della Tradizione, in un divenire storico di mutuo arricchimento. I risultati riguardano una sempre maggiore conoscenza dei contesti culturali nei quali sono nati i testi sacri e una più corretta interpretazione di alcuni passi usati nel passato per sminuire o emarginare le donne: dalla creazione alla caduta, dal ruolo della Maddalena, apostola e non certo prostituta, alle donne di cui parla Paolo, attive e dinamiche e non certo silenziose e sottomesse, così come ha voluto far credere un’esegesi poco attenta ai ruoli femminili svolti nella realtà in quelle comunità».

Può raccontarci dell’opera che lei cura insieme ad altre autrici?

            «La novità del progetto di collaborazione internazionale La Bibbia e le Donne: Esegesi, Storia e Cultura, nato nel 2006 da un’idea mia e della biblista austriaca Irmtraud Fischer, è dovuta non solo dalla sua impostazione interconfessionale e interreligiosa, ma anche dalla messa a confronto del metodo esegetico con l’approccio storico. L’opera, pubblicata in quattro lingue (italiano, tedesco, inglese, spagnolo), si articola, infatti, in venti volumi (a tutt’oggi ne sono usciti 10 con l’editore Il Pozzo di Giacobbe di Trapani) e attraversa tanto i testi sacri quanto la storia dell’Occidente, per individuare i rapporti (complessi, conflittuali o liberatori) intercorsi tra l’interpretazione del testo sacro e la condizione femminile. Grande spazio viene riservato all’elaborazione fatta dalle donne stesse: che rapporto hanno avuto con il testo sacro e come lo hanno interpretato? La storia dell’esegesi femminile che sta venendo fuori da questi studi ha iniziato a dare risposte significative e inedite».

Esegesi, teologia ed ecclesiologia: quali energie può liberare, per le donne nella Chiesa, una diversa lettura biblica? E quali limiti invece incontra, o non può oltrepassare?

«Negli studi non ci sono limiti che non si possano oltrepassare. Le teologhe, coscienza critica dell’universo religioso, hanno introdotto quadri interpretativi nuovi che propongono legittimità di pluralità di letture che possono arricchire o modificare il patrimonio religioso nei suoi articolati e svariati settori: dall’interpretazione dei sacri testi, alle   questioni   dogmatiche, morali, sacramentarie, liturgiche e spirituali. Le nuove indagini riaprono infatti tematiche nodali che investono le scienze teologiche: il rapporto tra rivelazione e storia; il ruolo degli uomini e delle donne all’interno delle comunità di fede; il linguaggio liturgico inclusivo e, dunque, più rispettoso dei generi; le delicate questioni etiche e pastorali, che devono considerare l’apporto femminile finora trascurato e, infine, le stesse modalità di narrare Dio, non più come un Sovrano maschio potente, ma piuttosto Padre-materno compassionevole, alla luce della uguale dignità del maschile e del femminile creati a sua immagine».

Come valuta la «questione femminile» nella Chiesa in questo esatto momento nel pontificato di Francesco? Quale futuro prossimo vede per le donne nella Chiesa?

«Papa Francesco ha espresso in più occasioni la necessità di un rinnovamento della vita ecclesiale uscendo dalle “logiche di dominio escludenti” per sperimentare nuove modalità di autorità feconda, creativa e condivisa, aperta anche alle donne. Solo un processo di declericalizzazione con il conseguente superamento dell’egemonia del clero può offrire in futuro spazi per una diversa e più significativa presenza femminile nella realtà ecclesiale. È un auspicio che incontra però ancora molte opposizioni da parte di chi vuole difendere poteri e privilegi, ma credo sia l’unica strada per garantire un futuro significativo a una Chiesa di comunione e di corresponsabilità e che riconosca alle donne dignità e visibilità in tutti i suoi organismi».

Intervista a Adriana Valerio di Iacopo Scaramuzzi “Jesus” n. 6 giugno 2019

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La femmina? Fa ancora paura

Forse qualcosa si muoverà, ma l’importante è che non si imbocchi «la via più facile: alcune donne scelte secondo un’accettabilità che viene sancita all’interno di una struttura che non si modifica». Serena Noceti su donna e ministero lavora sin dalla sua prima tesi. Vicepresidente dell’Associazione teologica italiana (Ati), tra le fondatrici del Coordinamento teologhe italiane (Cti), in diverse facoltà pontificie tiene corsi su teologia di genere, ecclesiologia e ministeri, collabora con l’ufficio catechistico nazionale e per 13 anni, fino al 2011, a Firenze è stata responsabile diocesana per la catechesi degli adulti.

«La Chiesa», dice, «è fatta di uomini e di donne, vive di dinamiche comunicative dell’annuncio della fede che devono essere plurali, e va pensata valorizzando l’apporto specifico di ciascuno e di ciascuna, e non solo di alcune, cooptate perché più o meno convergenti con le logiche del sistema. Tutto questo richiede un cambiamento strutturale».

Al momento, quindi, la Chiesa è un luogo inospitale per le donne?

«Per alcuni tratti è anche luogo ospitale, dove c’è la possibilità di realizzare una soggettualità di cristiane che possono partecipare e offrire un contributo. Evidentemente con differenze tra Nord e Sud del mondo, e tra America latina, Africa e Asia. Nella Chiesa però non siamo ospiti, dovremmo sentirci a casa, anche se in tanti luoghi non accade. Siamo in una fase di transizione».

Qual è la transizione che stiamo attraversando?

«Da un lato il Vaticano II ha aperto potenzialità nuove, le donne hanno acquisito una parola autorevole, competente e pubblica nella Chiesa. Cioè una parola offerta per garantire azione formativa, che si fa azione nei servizi pastorali e sta trovando spazi anche teologici. Dipende però dai livelli. La base vede una significativa e dinamica partecipazione. A livello intermedio dipende dal percorso che ha fatto la Chiesa nazionale e quella locale: per esempio in Germania o in America latina sono numerose le donne che coordinano esperienze pastorali, mentre in Italia siamo ancora arretrati. Il vero problema è il cosiddetto glass ceiling [soffitto di cristallo]: quando si arriva ai livelli dei quadri, laddove si può dare un contributo che incida sui processi complessivi, nelle strutture di decisione e di orientamento strategico, le donne diminuiscono o non ci sono per nulla. Esiste un gender gap [divario di genere] che non è tematizzato».

Eppure non ci sarebbero problemi teologici, sarebbe solo questione di competenza. Come mai anche livelli di responsabilità intermedi sono affidati prevalentemente a uomini?

«Perché la cultura di fondo rimane patriarcale, c’è una struttura complessiva delle relazioni ecclesiali in cui il processo è più di concessione di spazi che di assunzione di responsabilità riconosciute paritarie. Questa logica porta con sé un paternalismo diffuso e stereotipi di genere, ed è figlia di una mancata rivisitazione dell’antropologia teologica che rimane androcentrica, dove c’è l’uno che decide. La vera opposizione a una Chiesa androcentrica è una Chiesa sinodale, Insomma le donne contribuiscono all’apostolicità di fede attraverso la loro esperienza, ma poi il processo di assunzione e di rappresentanza pubblica di parola è esclusivamente maschile. Parlo di consigli, direzioni di uffici, dei sinodi diocesani».

Eppure il Vaticano II aveva disegnato un modello di Chiesa diverso. Perché è così difficile questo passaggio?

«C’è disgiunzione tra teoria e prassi. La visione ecclesiologica che abbiamo dal Vaticano II è di una Chiesa popolo di Dio, di fratelli e sorelle; anche papa Francesco, in Evangelii gaudium 103, dice che la Chiesa deve ascoltare le giuste rivendicazioni delle donne perché portano domande sull’identità ecclesiale. Un’ecclesiologia che parte dal principio dell’annuncio e non dall’autorità ha una forza trasformativa che modifica il processo interpretativo complessivo. Per questo motivo dobbiamo evitare il rischio di porre un’eccessiva enfasi sulla metafora femminile della Chiesa madre, che rischia di riportare all’eterno femminino, in cui le caratteristiche sono sempre quelle che decidono gli uomini senza tenere presente i percorsi soggettivi delle donne. L’idea di Chiesa popolo di Dio è presente, ma non abbiamo ancora saputo delineare processi di vita ecclesiale, né ci siamo dotati di istituti e di istituzioni che le dessero vita. Invece questo è accaduto per la riforma liturgica, dove si è attuato un processo che ha permesso di avere una nuova liturgia, con una nuova forma suffragata da nuove strutture celebrative. Popolo di Dio, rinnovamento del ministero ordinato e laici sono i capitoli di Lumen gentium su cui non si sono attivati processi: non è cambiata la struttura parrocchia, né la formazione del clero, né le strutture di elaborazione pastorale».

Il riconoscimento del diaconato femminile non potrebbe rivelarsi un’ennesima gabbia?

«Questione centrale del dibattito sul diaconato femminile è se nell’antichità sia stato un ministero ordinato o se si sia trattato di un ministero “istituito” battesimale e quali conseguenze trarre dal confronto con la storia per una scelta nella Chiesa di oggi. Ci sono studi che orientano verso il ministero ordinato (posizione che io condivido) e contributi che vanno nel secondo senso, come quello del cardinale Kasper alla Conferenza episcopale tedesca, dove auspicava un ministero istituito femminile di cura e di assistenza: una riproposizione di quegli stereotipi che riportano le donne alle relazioni di cura e alle dinamiche educative. Se è un ministero istituito di sole donne, in chiave di assistenza, meglio non averlo. Perché questo non aiuterebbe né per la custodia dell’apostolicità della fede, né per quelle dinamiche di vita di Chiesa — penso all’America latina, al Belgio, alla Germania — in cui le donne animano le comunità pastorali, o le équipe ministeriali, o guidano le celebrazioni domenicali in assenza di presbitero. Riconoscere un ministero ordinato per le donne sarebbe un passo che cambia il volto di Chiesa, ma che va pensato in una riforma complessiva: le donne, insieme ad altri soggetti, ministeriali, che sono i diaconi, i presbiteri, i vescovi. La questione è una soggettualità ministeriale partecipata.  Questa è la sfida su cui possiamo e dobbiamo lavorare».

Rispetto al capitolo diacone, qual è il suo pensiero?

«Non solo è possibile, ma è necessario. Possibile grazie alla teologia del ministero espressa dal Vaticano II, perché secondo Lumen gentium 29 il diaconato è un ministero ordinato non sacerdotale. In Ad gentes 16, per auspicare la restituzione del diaconato permanente maschile, i padri consiliari sono partiti dal rilevare la presenza di “servizi veramente diaconali”: annunciare il Vangelo, promuovere percorsi di catechesi, vivere un servizio di carità ai più poveri e governare comunità lontane dal vescovo e dal prete, e hanno poi affermato che giovava alla Chiesa l’ordinazione diaconale di questi uomini. Questi servizi sono esattamente quelli che fanno oggi tante donne, laiche e religiose, in America latina e in altre parti del mondo. Fermo restando che il ministero ordinato è costitutivo nella vita della Chiesa, va però ricordato che le figure ministeriali sono cambiate tante volte, che è cambiata la forma di esercizio del ministero e la sua interpretazione. Nei primi secoli ci sono state diacone, profetesse e altri ministeri esercitati da donne. Data la possibilità teologica; viste le testimonianze del Nuovo Testamento e quelle storiche, che dicono che fino al VII-IX secolo ci sono state diacone; considerata la necessità pastorale, direi che è giunto il tempo di fare coraggiosamente questo passo».

Cosa fa paura di questo cambiamento?

«Una nuova forma di vita ecclesiale richiederebbe un cambiamento molto grande, a livello di mentalità, di rapporti, di prassi, e c’è sempre paura del nuovo, soprattutto in persone che non sono più giovanissime, come i vescovi, ai quali tocca decidere. Così come intimorisce il dover ridefinire i propri poteri e il proprio ruolo».

Intervista a Serena Noceti a cura di Vittoria Prisciandaro   “Jesus” n. 6, giugno 2019

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Dare corpo alla teologia

Maria Clara Lucchetti Bingemer, laica settantenne, sposata e madre di tre figli, è docente di teologia alla Pontificia università Cattolica di Rio de Janeiro e membro del Comitato scientifico della rivista Concilium. È considerata una delle pioniere della teologia femminista latinoamericana, avendo pubblicato molti libri sul ruolo della donna nella Chiesa ed essendo stata consulente della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile.

Che cos’è la teologia femminista?

«È un movimento che riconsidera le tradizioni, le pratiche, gli scritti e le teologie cristiane da una prospettiva femminista. Essa persegue, tra l’altro, una presenza maggiore delle donne nel clero e nelle autorità religiose, una reinterpretazione dell’immaginario e del linguaggio maschilista su Dio, una definizione del posto delle donne in relazione al lavoro e alla maternità, e l’approfondimento del ruolo delle donne nei testi sacri. La teologia femminista mette in discussione il modo in cui la teologia è strutturata e il linguaggio da essa usato, nonché l’organizzazione della Chiesa e l’esclusione delle donne dai ministeri ordinati. Ci sono teologhe che considerano positivamente la teologia femminista, ma non aderiscono a tutte le sue proposte. Sebbene accompagnino la teologia femminista nella rivendicazione della fine del patriarcato nell’immaginario e nel linguaggio teologico e chiedano che si dia uno spazio maggiore alle donne nella Chiesa, desiderano fare la loro teologia all’interno della Chiesa piuttosto che al di fuori di essa. Queste teologhe sono spesso criticate dalle correnti più radicali del femminismo, specie statunitense, mentre sono più in linea col femminismo europeo. La teologia femminista latinoamericana appartiene a quest’ultima categoria».

Perché la teologia femminista è una teologia “ortodossa” e non eretica?

«La teologia femminista nelle sue proposte rivendica qualcosa di perfettamente legittimo, cioè l’inclusione delle donne a tutti i livelli nella vita della Chiesa e nel linguaggio teologico per pensare e parlare di Dio. Lo giustifica con argomentazioni scritturali, come i nuclei semantici della Bibbia ebraica in cui Dio è chiamato con appellativi femminili: la ruah [soffio dello Spirito] del racconto della Creazione, la Sapienza. Si fonda anche sui testi della Bibbia cristiana in cui Gesù valorizza le donne e le include nel discepolato del suo ministero pubblico, nonché su quelli della Chiesa primitiva che mostrano le donne che ricoprono incarichi nella comunità come profetesse, diaconesse, ecc. Pertanto, è qualcosa di aderente alla Bibbia e alla tradizione più autentica della Chiesa, e non può essere eretica o eterodossa».

Perché la teologia femminista è una teologia “diversa” da quella maschile?

«Perché la donna è diversa dall’uomo e quindi l’esperienza di Dio che fa nel suo corpo di donna sarà necessariamente diversa da quella dell’uomo. Ella infatti sente, pensa e dice Dio in un altro modo, a partire da altre esperienze vitali che l’uomo non ha. Per fare solo un esempio: la maternità. È un’esperienza che l’uomo non ha e che è inscritta nella corporeità di ogni donna, anche in quelle che non sono madri biologiche».

La teologia femminista latinoamericana ha ormai 30 anni e appare molto vitale…

«Io non sarei così ottimista. In questi 30 anni c’è stata effettivamente una crescita, con nuove teologhe che hanno ottenuto titoli accademici, ma si preferisce assumere professori maschi e preti. E per sopravvivere, alcune teologhe devono insegnare più materie in più istituti. Certo, oggi chi organizza un congresso di teologia e cura un libro invita le donne a partecipare o a scrivere, ma gratis. Se vuole inserire laici e donne, la Chiesa deve trovare il modo per garantire loro di che vivere».

Ciò è dovuto a un timore verso quanto le donne scrivono?

«Ci sono temi che, se affrontati, sono garanzia di allontanamento, per esempio l’aborto e i diritti riproduttivi. Il vescovo controlla direttamente un prete, ma controlla meno un laico o una laica, per cui evita di assumerli per non avere problemi».

Quali sono negli ultimi anni le ricerche che hanno caratterizzato la teologia delle studiose latinoamericane?

«Il tema del genere è fondamentale e ora non comprende solo le donne, ma anche le persone Lgbt. Un altro è l’ecologia, con la teologia ecofemminista. Poi la mistica, della quale io mi occupo in particolare, perché ho approfondito le figure di “sante eterodosse” come Simone Weil, Etty Hillesum e Dorothy Day. Ci sono teologhe che lavorano anche su temi più tradizionali, perché c’è stato un periodo in cui dovevamo parlare solo di donne, soprattutto di Maria. A un certo punto io ho rifiutato questa ghettizzazione e ho deciso di parlare di ciò che insegno: teologia fondamentale, trinitaria, ecc. Oggi sto realizzando una ricerca sulla mistica e il genere femminile, attingendo alla riflessione della psicologa franco-bulgara Julia Kristeva, che ha scritto su santa Teresa d’Avila, per vedere le differenze tra l’esperienza mistica di un uomo e di una donna, approfondendo pure la figura di Thomas Merton, che si innamorò della giovane infermiera, anche se poi scelse di restare monaco. Sto studiando molto la categoria della maternità, eclissatasi con la secolarizzazione, che ha un po’ esiliato il discorso sulla vergine Maria. Le femministe hanno mentito alle donne dicendo loro che la maternità è un peso intollerabile e va privilegiata la carriera professionale, per cui poi non riescono ad avere figli, e ricorrono all’inseminazione artificiale… Oggi molte si sono rese conto che la maggioranza delle donne desidera essere madre. Altro è rinunciarvi per una consacrazione religiosa, perché allora si vive la maternità in un altro modo. Questo al di là dell’orientamento sessuale: ci sono lesbiche che vivono in coppia, desiderano avere figli e ricorrono all’inseminazione artificiale. La maternità è tanto radicata nella biologia!».

La produzione teologica delle donne latinoamericane ha avuto un impatto?

«Nella pratica pastorale sì, perché oggi è più facile per una teologa essere invitata a tenere un ritiro per religiose, a predicare gli esercizi spirituali al clero di una diocesi o a fornire consulenza ai vescovi. Sul piano dei contenuti dottrinali invece credo di no. Per esempio, i vescovi di diocesi povere, molto grandi e con poco clero sanno che c’è una contraddizione tra la proclamazione dell’eucaristia come vertice della vita cristiana e l’impossibilità di celebrarla di frequente. In Brasile, sulla carta il Paese più cattolico del mondo, il 70% dei fedeli non ha la celebrazione domenicale dell’eucaristia perché manca il prete. La stragrande maggioranza delle comunità sono dirette da donne e, per me, le liturgie guidate da queste donne sono pienamente eucaristiche e la gente lo intuisce quando parla “Messa della suora” e “Messa del prete”, magari preferendo la prima. È assurdo che un prete possa celebrare da solo l’eucaristia guardando la parete e un’intera comunità no! Però anche i vescovi più aperti sul piano sociale faticano ad accettarlo».

C’è un problema col corpo femminile?

«Sì, e forse risale a quando 1’ebreo non si poteva sedere insieme alla donna mestruata, perché era impura. Certo, la tradizione ebraica valorizza la madre, ma il corpo della donna è minaccioso perché attraverso di lei il peccato è entrato nel mondo.

Eppur Gesù toccava le donne, persino quella che aveva perdite di sangue, massimamente impura. È stata la sua maggiore rivoluzione, ma non fu esplorata a fondo dalla Chiesa primitiva, che poi assunse la vecchia logica vetero-testamentaria, per cui la donna non potrebbe neppure salire sul presbiterio a leggere e costituisce sempre una minaccia al celibato del clero, è la seduttrice, sede del peccato, ecc.

Questo è ancora molto radicato e genera verso le donne un atteggiamento di chiusura. Ma il calo numerico del clero apre nuovi spazi. Al Sinodo panamazzonico riemergerà il tema dell’ordinazione presbiterale di uomini sposati e la sua autorizzazione sarà un passo importante. Quella delle donne arriverà, ma neppure i miei nipoti la vedranno».

Quali sono i temi su cui le teologhe femministe stanno più riflettendo oggi nel mondo?

«I temi più ricorrenti nella teologia femminista sono i diritti del corpo, la decolonialità, la questione dei ministeri ordinati e il linguaggio su Dio».

Quali temi, secondo lei, dovrebbe approfondire invece la teologia latinoamericana?

«Il tema delle culture, quelle originarie, ma anche le sintesi emerse dall’incontro con quella ispanica, perché tutta la questione postcoloniale è una grande sfida. La povertà, che cresce, mostrando nuovi volti e nuovi soggetti, tra cui le donne. Le migrazioni, perché i venezuelani oggi entrano a centinaia ogni giorno in Brasile (i più poveri), Argentina e Cile (i più colti), e in Amazzonia gli indigeni si spostano nelle città e non hanno lavoro. La tratta delle persone, soprattutto per turismo sessuale, di cui il Papa è molto preoccupato.

 L’ecologia, a maggior ragione per noi che abbiamo nel nostro territorio l’Amazzonia, il polmone del mondo, che stiamo distruggendo. Coraggio richiede la questione dei ministeri ecclesiali, il rinnovamento di quelli antichi e l’apertura a nuovi: ma perché la domenica dobbiamo sopportare la pessima omelia di un prete quando nella comunità c’è una donna molto brava a predicare?

 I ministeri rispondono alle necessità di servizio delle comunità. Invece la Chiesa è ancora piramidale, tutto il potere è nelle mani del clero, che è sempre più screditato. La teologia latinoamericana potrebbe offrire un contributo a partire dal suo contesto: tra i popoli indigeni ci sono belle esperienze ministeriali. Infine tutta la tematica Lgbt, di cui qui non siamo molto consapevoli, e dei diritti degli omosessuali, che nei nostri Paesi spesso vivono nella miseria, per cui hanno una vita molto difficile perché gay, poveri e, magari, neri; il Brasile, infatti, è anche un Paese razzista, dove per la droga e il narcotraffico muoiono decine di migliaia di persone l’anno, in maggioranza giovani e neri»

Intervista a Maria Clara Lucchetti Bingemer a cura di Mauro Castagnaro  “Jesus” n.6, giugno 2019

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La carica delle religiose

«Dobbiamo ammetterlo: la Chiesa non è democratica e nessuno pretende che lo sia. Eppure, noi, in quanto donne, possiamo fare la differenza: trovare il coraggio di parlare, spingere per una maggiore collegialità, aprire dei varchi per far entrare la luce». Ad affermarlo, spaziando con scioltezza dal tema della «resilienza» e libertà femminile alle gerarchie, a quello del diritto di denunciare ogni forma di abuso dentro la Chiesa, sono due madri superiore: Sally Hodgdon, della congregazione delle Suore di San Giuseppe di Chambéry, e suor Veronica Adeshoa Openibo, della Società del Santo Bambino Gesù.

Capiamo fin dalle prime battute d’essere di fronte a due leader navigate, che non hanno timori né peli sulla lingua. In questo ultimo anno e mezzo si sono distinte per il coraggio delle loro denunce. Suor Sally è una moderna suffragetta: sostiene il diritto di voto alle donne (religiose) ai Sinodi dei vescovi; suor Veronica è stata una delle tre invitate (su una quasi totalità di uomini) a intervenire al meeting sulla protezione dei minori in Vaticano. E ha denunciato con coraggio gli abusi sessuali subiti dalle religiose nei conventi e nelle case di formazione in Africa. Il suo invito è ad abbattere il muro di omertà, «a non aver paura, a non coprire le violenze dentro la Chiesa». Perché «subire non è normale»: questa è la chiave per uscire dall’abuso psichico e fisico sulle donne.

Raggiungiamo le due religiose nel quartiere di Monteverde vecchio a Roma, tra glicini e villini liberty, nella nuova sede della Società del Santo Bambino Gesù, tutta vetrate e luce bianca. Suor Veronica ci porta al terzo piano ad ammirare una spettacolare terrazza che domina i tetti di mezza città, dal Vittoriano all’Eur. È un “convento” decisamente non convenzionale questo, non solo per l’arredamento moderno e i quadri alle pareti, ma per quell’aria di libertà che vi si respira. «La Chiesa è un’istituzione antica», esordisce suor Sally, «molto gerarchica e patriarcale, dove i vescovi non sono eletti da nessuna assemblea ma vengono designati dall’alto, e il Papa stesso è scelto da un conclave di cardinali. Per questo non possiamo parlare di democrazia. Però possiamo di certo spingere di più sul tasto della sinodalità».

Come si può contare di più, oggi, come donne, in una Chiesa ancora così maschile e gerarchica?

Suor Sally Hodgdon: «Il nostro impegno è per una sempre maggior circolarità e collegialità delle decisioni all’interno della Chiesa. Noi suore abbiamo una nostra integrità e non possiamo sacrificarla per nessun motivo. Non dobbiamo abdicare ai nostri principi: il che significa essere tenaci e resilienti quando serve. La Chiesa non è democratica, questo è un dato di fatto, ma noi speriamo che papa Francesco possa svolgere il suo servizio il più a lungo possibile, perché sta facendo davvero un grande lavoro per tentare di riportarla allo spirito del Vaticano II e allargare la partecipazione a tutto il popolo di Dio, non solo alle donne».

Suor Veronica Openibo: «La Chiesa chiaramente non è un’istituzione democratica, ma io mi auguro che sia sempre meno gerarchica e più sinodale, ed è per questo che insistiamo nell’essere presenti durante i meeting in Vaticano. Quando incontriamo i cardinali, i vescovi e il Papa stesso, facciamo presente le nostre istanze. Dall’interno noi suore possiamo collaborare per orientare la Chiesa verso una nuova direzione. Quando il Papa è stato eletto, ha subito detto che non avrebbe accettato di indossare un anello d’oro: “Io pensavo di essere stato scelto come successore di un povero pescatore della Galilea”, ha detto Francesco, “non dell’impero romano”. Ecco, la nostra sfida è seguire questo suo insegnamento».

Avete registrato dei cambiamenti in questi ultimi anni, rispetto allo spazio di autonomia delle donne, religiose e non, nella Chiesa?

Suor Sally: «Sì, assolutamente sì. Bisogna ammettere che in questi ultimi nove anni c’è stato un certo progresso. Più ancora dal 2012 a oggi abbiamo notato alcuni miglioramenti: la Chiesa al maschile ascolta maggiormente la nostra voce. Lo possiamo verificare con mano».

Suor Veronica: «Senza dubbio. Sempre di più i laici, le laiche e le religiose sono invitati a dire la loro

durante i meeting internazionali. Questo è avvenuto anche nella Commissione per la protezione dei minori in Vaticano. C’erano persone di grande esperienza, molte donne, laiche e non: è questo il vero volto della Chiesa. Violenza e abuso non sono una cosa normale, non si devono tollerare, ma se l’invito a sentirsi liberi di parlarne parte dall’alto forse è più facile che arrivi alla base».

Suor Sally: «Se però parliamo di potere, allora le donne non ne hanno abbastanza. Il diritto di voto al Sinodo ad esempio per noi non c’è. A quello sui giovani, a cui ho partecipato, non potevo votare. Sono superiora generale di una grande congregazione, i miei confratelli maschi di congregazioni religiose votavano e io no. Loro erano preti e io no. Eppure è la partecipazione che conta: i ragazzi, le ragazze e le suore presenti hanno fatto la differenza per quel che riguarda gli emendamenti al documento finale. Eravamo un piccolo gruppo ma abbiamo dato un grosso contributo. È una questione di consapevolezza: noi religiose abbiamo molte capacità e anche diversi doni, offriamo le nostre risorse per aiutare la Chiesa, ma in cambio vorremmo l’opportunità di sederci ai tavoli. Spesso invece dobbiamo combattere per ottenere un posto».

Quindi progressi reali ce ne sono?

Suor Sally: «Dipende da come misuri il progresso. Ogni cultura ha i suoi parametri. Negli Stati Uniti, ad esempio, vogliamo vedere cambiamenti istantanei, tutto lì si muove velocemente e la tecnologia procede rapidissima. Ma la Chiesa di Roma si muove lentamente, per piccoli varchi. È semplicemente lenta. Però se non ci fossero divergenze e sfide dentro la Chiesa, sarebbe sì un bel sogno, ma anche noioso!».

La violenza dentro la Chiesa ai danni di suore e bambini è stata a lungo rimossa. Oggi qualcosa sta cambiando?

Suor Sally: «Durante l’ultima sessione plenaria dell’Uisg abbiamo parlato anche dei casi di abuso nei confronti di suore e bambini, da parte di alcuni preti. Il nostro obiettivo è quello di costruire un’atmosfera di fiducia, dentro la quale le suore si sentano libere di condividere con le superiori e le consorelle le orribili violazioni subite. Incoraggiamo queste religiose a riferire le violenze ai loro leader, dentro le congregazioni. L’Uisg le sosterrà: l’idea è quella di creare dei circoli di ascolto in varie parti del mondo, dove le suore abusate possano trovare un aiuto professionale e persone valide che le accompagnino lungo tutto il percorso della guarigione».

E voi suore, quanto siete indipendenti dal potere maschile? Quanta autonomia sentite di avere dalle gerarchie ecclesiastiche?

Suor Sally: «Le nostre congregazioni lo sono: abbiamo uno spazio di autonomia pressoché totale dal Vaticano. Certamente esso protegge il patrimonio delle congregazioni religiose, ci sono dei passaggi formali da rispettare, dobbiamo comunicare ogni modifica che apportiamo alla nostra Regola di vita e alle nostre Costituzioni, come anche l’approvazione del capitolo generale, il cui report deve essere inviato al Papa, ecc… Però, per quanto riguarda la vita di ogni giorno non ci sono interferenze. Non dobbiamo chiedere permesso a nessuno per fare quello che facciamo, neanche ai vescovi. Semmai ci coordiniamo con loro. Nelle diocesi abbiamo l’obbligo di informare i vescovi sulle nostre attività, ma ciò non significa essere subordinate. Una volta inserite in una diocesi cerchiamo di lavorare assieme in una maniera circolare. Ma questo, a esser sincere, non sempre funziona. Dipende dai vescovi!».

Suor Veronica: «Spesso questa circolarità non va come dovrebbe andare, perché le donne e gli uomini hanno modelli di riferimento diversi. Però ci sono anche molti vescovi davvero generosi, alcuni sono come fratelli per noi ed è possibile dialogare con loro. È più facile quando stabilisci una relazione di amicizia. Ma comunque, a esser sincera, con i vescovi italiani, qui a Roma, noi madri superiori di una congregazione straniera non abbiamo moltissimi contatti, né particolari occasioni per interagire, se non appunto per le questioni più pratiche».

Che strumenti avete per opporvi a scelte che non condividete?

Suor Sally: «Io credo che la più grande indipendenza che abbiamo è che possiamo sempre dire di no, in qualsiasi momento e andarcene. Ad esempio è accaduto, in uno dei Paesi in cui siamo presenti in missione, che il trattamento di alcuni religiosi nei nostri confronti non era stato rispettoso, così dopo vari tentativi di mediazione ce ne siamo andate. Non vogliamo che le nostre consorelle soffrano o che debbano subire degli abusi di potere, e se questo capita noi andiamo via».

Suor Veronica: «Sì, anche io ritengo che abbiamo una certa libertà di manovra, dipende dal nostro coraggio. Questo vale anche per le violenze: quando vediamo qualcosa che non va dobbiamo parlare, non stare in silenzio».

Per cambiare la Chiesa, come donne, è meglio stare dentro o fuori?

Suor Sally: «C’è spazio per le donne in entrambe le direzioni: fuori e dentro la Chiesa. E abbiamo bisogno di tutti e due i fronti. Quando si è dentro si può tirare fuori il meglio, si possono mettere sul piatto le questioni impellenti. Ho anche notato che su alcuni temi, quando i media parlano di certi argomenti, la loro voce può aiutare a smuovere le cose. Alle volte, invece, chi cerca di cambiare la Chiesa dall’esterno è troppo negativo. La trasformazione avviene quando rompiamo i muri del tunnel ed entra la luce: è una nuova idea che si fa strada…».

Suor Veronica: «Io preferisco lavorare dall’interno, ma penso ci debba essere una convergenza. L’unica cosa certa è che la trasformazione del cuore e della mente riguarda sia gli uomini che le donne. Perché attiene all’essere umano in generale e non riguarda solo la Chiesa. Se l’altro ci tocca nel profondo con le sue idee, con la sua esperienza, può esserci una conversione, una trasformazione».

Intervista a suor Veronica Openibo e a suor Sally Hodgdon  di  Ilaria De Bonis “Jesus” n. 6 giugno 2019

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All’insegna di Dio-Madre

L’eroe è maschile singolare. «Comunità» è femminile e collettivo. Basterebbe la grammatica a introdurre Noi siamo tempesta (Salani), l’ultimo libro di Michela Murgia, scrittrice raffinata nell’uso della parola nelle sue infinite sfumature. Il volume nasce dallo stretto intreccio fra testo scritto e grafica, curata dallo studio di creativi World of Dot, ed è qualcosa di radicalmente diverso da un classico libro di narrativa per adulti. I sedici capitoli raccontano — a volte ri-raccontano, a partire da un’altra prospettiva — altrettante vicende, alcune famosissime e altre sconosciute, che mostrano come i grandi cambiamenti della storia non siano, nella maggioranza dei casi, il risultato dell’azione di un eroe solitario, ma frutto dell’impegno di molti. Così è crollato il muro di Berlino, così è stato per la lotta al razzismo, così è nata Wikipedia.

«Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi», scriveva Bertolt Brecht. Sta di fatto che di eroi o salvatori siamo sempre alla ricerca, fa notare Murgia. Nata a Cabras, in Sardegna, nel 1972, la scrittrice ha vinto premi prestigiosi come il Campiello. E autrice di romanzi, tra cui il primo e autobiografico Il mondo deve sapere (2006) sulla sua esperienza di lavoro in un call center. Si muove a suo agio fra oralità e scrittura. È conduttrice radiofonica e televisiva, legge audiolibri e produce podcast su storielibere.fm con Morgana, una serie in cui racconta storie di donne fuori dagli schemi, «donne che tua madre non avrebbe approvato», precisa nell’introduzione alle puntate. A teatro porta in scena la vita di Grazia Deledda, con lo spettacolo Quasi grazia, tratto dal libro di Marcello Fois. Scrive saggi. Nell’ultimo, Istruzioni per diventare fascisti (2018), critica il populismo con le armi del sarcasmo e dell’ironia.

Un discorso a parte merita Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna del 2011, una riflessione dirompente che   contrappone   la   Maria   dei   Vangeli   all’icona   eterea   che   ha   contribuito   a   scolpire   l’immaginario femminile   nella   Chiesa   e   nell’Occidente   cristiano. Dopo la pubblicazione, il   Coordinamento   delle teologhe italiane ha accolto honoris causa la scrittrice sarda fra le sue socie. La Murgia, del resto, ha studiato teologia ed è diplomata in Scienze religiose. In passato è stata insegnante di religione, oltre che educatrice e animatrice nell’Azione cattolica, di cui è stata referente regionale del settore giovani per la Sardegna.

Quali sono i suoi riferimenti spirituali, oggi?

«Il   Coordinamento   delle   teologhe   italiane   è   forte   motivo   di   ispirazione per me, ma   già   quando facevo parte dell’Azione cattolica c’erano figure che avevano questo valore, come Stella Morra, che per anni ha curato i testi per gli adulti di Ac. Dopo la morte di Adriana Zarra, eremita scomoda e controcorrente che per me è stata un importante riferimento, sono rimaste poche figure. Non sono sedotta dal prete battagliero, anche se apprezzo l’attività di sacerdoti che si espongono su temi specifici, in   particolare   don   Luigi   Ciotti.   Credo, però, che   per   le   donne   il   percorso   debba   passare   dal riconoscimento di figure femminili che hanno un altro modo di guardare a Dio».

Quella femminile è una delle questioni aperte nella Chiesa. Papa Francesco ha istituito una commissione di studio sul diaconato. Crede ci sarà qualche cambiamento?

«Senza che sorga una comunità di donne consapevoli e battagliere, allegre e unite nella Chiesa, non penso sia possibile aspettarci un cambiamento neanche dal migliore degli uomini. Papa Francesco ce la sta mettendo tutta, ma io non mi aspetto che un Papa sia un’attivista femminista, credo abbia altre priorità».

Il suo libro Ave Mary ha venduto quasi 100 mila copie. Come se lo spiega?

«Il fatto che ne abbia vendute così tante, cosa che non mi aspettavo per nulla da un saggio che tratta un tema così specifico, significa che intercetta un’esigenza vera. Che non è quella di abbandonare il cristianesimo come religione patriarcale, ma di far sì che il cristianesimo non sia solo patriarcale. Molte delle persone che l’hanno letto e che poi mi hanno invitata a parlare appartenevano a parrocchie e comunità che non avevano la minima intenzione di uscire dalla Chiesa. Il loro intento era più quello di dare il proprio contributo per un restauro, una ristrutturazione della casa dove abitiamo. Era anche il mio quando ho scritto Ave Mary, che è il libro di una credente critica, non di un’atea mangiapreti».

Torniamo al libro appena uscito, Noi siamo tempesta. È una reazione al mito dell’eccellenza individuale?

«È una reazione all’idea che ci siano al mondo persone che possono avere accesso a un successo eccezionale, e   tante   altre   che   speciali   non   sono, il   cui   unico   compito   è   affidarsi   a   una   persona speciale, di solito per essere salvate, oppure per essere ispirate. Non voglio dire che non esistano persone   con   doti eccezionali, sia   chiaro.   Quello   che   mi   spaventa   è   che   le   uniche   storie   che raccontiamo   siano   le   loro.   Perché   in   realtà   l’umanità   si   è   salvata   e   ha   progredito   grazie   alla collaborazione   fra   persone   che   hanno   riconosciuto   nella   loro   fragilità   un   motivo   per   mettersi insieme.   Le   grandi   rivoluzioni   del   ‘900   sono   partite   tutte   dai margini, cioè   da   gruppi   che   non avevano   alcun   potere   e   nessuna   specialità   da   giocarsi.  Dal femminismo, le donne marginalizzate nella società, ai neri d’America che subivano la discriminazione razziale, al mondo della differenza dell’orientamento sessuale, discriminata e spesso anche perseguitata fisicamente: sono tutti mondi dove potere non ce n’era, c’era solo la forza debole dello stare insieme. E attraverso questo potere debole le persone sono riuscite ad affermare non l’uguaglianza, perché le differenze rimangono — ma una pari dignità, che dovrebbe essere la base per la convivenza di ogni società civile».

Lei va quasi sempre a cercare “l’altra versione della storia”, mette in luce quello che non è mai stato raccontato. Perché?

«La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di una bellissima conferenza che si intitola pericolo di una singola storia, prende le mosse da una frase piuttosto famosa che dovremmo sempre ripeterci: “Non ho paura di chi non ha letto neanche un libro, ma di chi ha letto un libro solo”. Perché quel libro gli ha dato una visione di mondo che, non avendone nessun’altra accanto, diventa   assoluta.   In   realtà   l’aver   letto   un   libro   solo   diventa   la   matrice   del fanatismo, la mono-matrice. Possedere tante storie, coltivare la biblio-diversità è un modo per immaginare più risposte allo stesso mondo, ma anche mondi diversi dove le risposte siano altre. L’idea di raccontare le voci che   non   hanno   avuto   dignità   di   espressione   è   per   me fondamentale, perché restituisce polisemanticità. Dà l’idea che le storie siano materiali con molte prospettive dentro».

A proposito di narrazione per l’infanzia ha avuto successo il libro Storie della buonanotte per bambine ribelli, che raccoglie cento storie di donne eccezionali. Anche qui però si tratta di eroine…

«È un’operazione che non mi ha convinto. Per rispondere a un’esigenza di parità di genere non si mette in discussione il modello di potere, ma si pretende che si ampli anche alle donne. Questa per me è una battaglia a metà. Perché io voglio vedere le donne al potere, ma vorrei vedere un modello di potere dove gli uomini e le donne possano essere più a loro agio, possano anche essere migliori, non ho paura a usare questo termine. Una Chiesa più femminista conviene alle donne, agli uomini, anche a Dio».

In un suo libro recente, L’inferno è una buona memoria, racconta di come la lettura di un libro di letteratura popolare, Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley, comprato per caso in edicola, abbia rappresentato per lei un punto di svolta, anche rispetto al suo percorso di fede. In quel momento aveva 30 anni ed era vicepresidente diocesana dell’Azione cattolica. Cosa ha tenuto delle sue convinzioni di allora e a cosa invece ha rinunciato?

«Quel libro, che molti degli intellettuali che conosco non leggerebbero mai, rovescia la narrazione della leggenda bretone della Tavola partendo dal punto di vista delle donne: Morgana e Ginevra, invece di Merlino e Artù. Ma racconta anche la lotta terrificante fra un mondo politeista, quello dei druidi, e il   monoteismo.   Senza   entrare   nel   merito   di   quello   in   cui   ciascuno   crede, è   inevitabile notare che un mondo politeista offre un potenziale di identificazione molto ampio: include le donne, gli uomini e i bambini; i   giovani   e i vecchi, le   giovani   e   le   vecchie; qualche volta persino   gli animali.

Nel monoteismo c’è, invece, la tendenza a raffigurare la divinità attraverso un solo schema, un solo simbolo. I percorsi iconoclasti hanno cercato di difendersi da questo rischio evitando la rappresentazione del divino. L’Ortodossia si è difesa raffigurando il divino in modo non realistico, che era un modo per dire che non si può comprendere a tutto tondo la realtà di Dio, e addirittura riprodurla con un’intenzione realista, quasi tangibile.

 La Bibbia non consentirebbe questo: al suo interno ci sono “figure” di Dio variegate, che abbiamo smesso di rappresentare perché abbiamo deciso che non ci servivano. Penso alle similitudini con gli animali: Dio solleva su ali d’aquila, protegge come un’orsa madre. Per molto tempo nelle Chiese d’Occidente abbiamo avuto tabernacoli a forma di pellicano. Si pensava che questo volatile, che rimastica il cibo per i suoi piccoli, si squarciasse il petto per nutrirli, ed era diventato immagine del Cristo eucaristico. Cristo-madre pellicano, però, è un’allegoria completamente scomparsa dal nostro immaginario. Per noi l’abbinamento Dio-bestie è diventato una bestemmia.

Nell’arte, Rembrandt fa un tentativo tenerissimo di riprodurre la maternità di Dio dipingendo due mani diverse, femminile e maschile, sulla schiena del figliol prodigo, perché l’immaginario del Dio-padre è troppo povero, non può bastare a un’umanità in cui ci sono anche le donne, le madri. Soprattutto è scorretto nei confronti di Dio, perché ne permette l’identificazione con una finzione, che non è nemmeno il maschile, perché tanti uomini non sono padri. Già Isaia diceva che Dio è anche madre. È già tutto nella Bibbia, il problema è la narrazione. Per rispondere alla sua domanda, quel libro non ha ribaltato la mia idea di Dio, ma mi ha fatto venire voglia di raccontare tutti i volti di Dio che la gerarchia non ha raccontato, andando a cercare le voci che invece l’hanno fatto. Credo che nella Bibbia ci siano abbastanza spunti per la pluralità: non serve il politeismo se racconti un Dio polisemantico, però questo lo puoi fare solo dando spazio a narrazioni diverse da quelle che hanno strutturato il nostro sistema sociale».

Intervista a Michela Murgia   di Emanuela Citterio “Jesus” n. 6, giugno 2019

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Cura d’anime al femminile

Da Macondo (il locale milanese che, seppure attivo per pochi giorni, segnò a suo modo il clima culturale della fine degli anni Settanta) a sant’Ignazio di Loyola, dall’ateismo agli Esercizi spirituali, passando per l’India, il Canada e gli studi di teologia. La ricostruzione dell’itinerario umano e spirituale di Guia Sambonet, 65 anni a novembre, figlia del celebre designer, meriterebbe un lungo racconto. Ma l’aspetto che qui ci interessa è il suo lavoro come guida di Esercizi spirituali, iniziato diversi anni fa e oggi sviluppato anzitutto come collaboratrice dei Gesuiti del Centro San Fedele di Milano.

Ci può aiutare a capire da dove è partita?

«Pur avendo io ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana, la separazione dei miei genitori quando ero ancora bambina mi escluse di fatto dalla comunità cattolica: a quel tempo era ancora vero che “i peccati dei genitori ricadono sui figli”. Dopo il liceo e la militanza nell’estrema sinistra, nel 1977 arrivano i 40 giorni di Macondo, un’esperienza collettiva, una proposta rivolta a tutti e in controtendenza rispetto al clima degli anni di piombo. Finita quella vicenda, partii alla ricerca di un maestro che mi accogliesse a pezzi — e mi insegnasse tutto».

L’ha trovato?

«Sì, in India, dove iniziai il mio cammino spirituale e scoprii la meditazione. Poi, nel 1981, il ritorno nel “mondo” e il percorso per costruirmi una professione. La ricerca spirituale — aperta a varie tradizioni religiose proseguiva in un piccolo gruppo, guidato da una donna. Tramite lei giunse la “chiamata”: un invito ad abbracciare con coraggio la fede cristiana e a studiare la Bibbia. Dopo la morte improvvisa della maestra, nel 2000 volai negli Stati Uniti e, dopo l’11 settembre, mi spostai in Canada. Mi presentai in una casa di ritiri dei Gesuiti in Ontario per un corso di Esercizi spirituali personalmente guidati (cioè basati sulla relazione uno a uno, direttore spirituale-esercitante, ndr), chiarendo che non avevo mai praticato la fede cattolica».

Come andò quel ritiro?

«Servì di fatto a prepararne un altro, il “Mese ignaziano”. Poi mi trasferii alla Facoltà di Teologia di Toronto per conseguire il Master of Divinity, che mi avrebbe permesso di svolgere il lavoro di cappellano in Canada. A pochi esami dalla fine del Master mi venne però negato il permesso di soggiorno: una teologa esperta di Esercizi non è tra gli ospiti più ambiti, soprattutto se non è più giovane e non ha famiglia là. Trasferii i crediti nel più breve Master of Theological Studies e, nel 2009, tornai in Italia, iniziando poco dopo a collaborare con i Gesuiti del San Fedele».

Venendo al suo lavoro attuale, forse è il caso anzitutto di chiarire che cosa si intende per esercizi spirituali, un termine che può avere accezioni diverse...

«Solitamente, almeno in Italia, si intende un tempo di ritiro dedicato alla preghiera, alla relazione personale con Dio, all’approfondimento delle Scritture. Gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola sono uno dei molti modi di “fare” gli esercizi. La modalità più completa è il “Mese”, che corrisponde a un ritiro di 30/40 giorni. Ma gli Esercizi ignaziani possono essere fatti anche in tappe di una settimana ciascuna o nella vita ordinaria (i cosiddetti Evo), sempre con l’accompagnamento di una guida. In anni recenti, la Compagnia di Gesù ha aperto la formazione necessaria per “dare” gli Esercizi anche a donne e uomini laici. In molti istituti religiosi, poi, vi è l’uso di fare una settimana all’anno di esercizi spirituali — non necessariamente ignaziani —sotto la guida di un “predicatore”, scelto in genere dal Superiore provinciale».

Certamente lei non è l’unica donna, in Italia, a guidare gli Esercizi spirituali, ma altrettanto certamente la sua esperienza e quella delle sue compagne è ancora pionieristica. Che cosa deve accadere perché una donna che svolge questo servizio non venga vista come un’eccezione?

«Le domande da porsi, a mio avviso, non riguardano quale spazio hanno o potrebbero avere nella Chiesa le predicatrici o le guide spirituali, ma piuttosto come si esprime oggi la vocazione di una donna ai ministeri che riguardano la “cura delle anime”, come si diceva un tempo. In altre parole: in che modo una donna scopre di aver ricevuto il dono di accompagnare nel cammino di fede altre persone, oltre ai propri figli, nel caso sia madre? E ancora, quali strumenti la aiutano ad alimentare in se stessa un amore a Dio in grado di contagiare altri, nel pieno rispetto per la libertà di ciascuno? Per quanto possa sembrare paradossale, sullo sfondo c’è ancora l’antico interrogativo se le donne abbiano o no un’anima… Perché se le donne hanno un’anima e se, in quanto dotate di anima, sono in grado di sentire attrazione per il regno di Dio, è del tutto naturale che desiderino portare altri a quel regno. Forse nella Chiesa esiste ancora qualcuno che possa contestare alle donne, sia consacrate sia laiche, la sincerità, la profondità e la santità di quel desiderio?».

Nel concreto, come reagiscono di solito le persone, abituate a confrontarsi con un uomo?

«Da parte maschile non ho notato particolari reazioni negative. Per esempio, è stato molto interessante proporre il metodo della contemplazione immaginativa ignaziana — nella veste di predicatrice di esercizi spirituali — ai padri Pavoniani in occasione del loro ritiro dell’estate scorsa. Certo, nessuno ha scritto il proprio nome nella lista dei colloqui personali proposti in parallelo alle mie istruzioni; poi, però, a uno a uno, quasi tutti sono venuti a raccontarmi di sé e della loro esperienza di preghiera sui brani biblici da me suggeriti. Non sarebbe accaduto se non mi avessero ritenuta degna di stima. Non ho sperimentato reazioni negative nemmeno da parte delle religiose: anni fa, in un ritiro personalmente guidato di otto giorni, mi è capitato di guidare tre suore. Ovviamente, si aspettavano un direttore spirituale gesuita, non una laica. Dopo qualche giorno ho visto, e hanno visto loro stesse, la loro anima volare. Con una di queste suore sono tuttora in contatto».

Una donna ha un modo di predicare gli Esercizi diverso da quello di un uomo?

«Neppure tra i Gesuiti esiste un modo standard di dare gli Esercizi. Sono una donna, sono laica e offro a chi pensa di potersene giovare quello che ho imparato da altri/e e con altri/e. Non credo quindi che il punto stia nel fatto che a darli sia un uomo o una donna, ma nella scarsa diffusione della pratica dei ritiri spirituali presso i laici italiani».

Ha citato la «contemplazione immaginativa» con riferimento agli Esercizi spirituali, un tema a cui recentemente ha dedicato un libro. Di che cosa si tratta?

«Ai tempi di sant’Ignazio era un metodo di preghiera noto, praticato e diffuso in Europa dalla devotio moderna. La novità e il genio degli Esercizi stanno nel combinare alla contemplazione immaginativa le istruzioni per il discernimento degli spiriti e per il discernimento della volontà di Dio. Questo libro non è un’interpretazione “femminile” del metodo di preghiera degli Esercizi. Molti padri gesuiti nel mondo e in Italia lo insegnano esattamente nello stesso modo. Quello che a me interessa è aiutare le persone a entrare in una relazione profonda con Gesù, con Dio, tramite gli Esercizi. E lo faccio partendo dalla mia preghiera. Potrebbe forse essere altrimenti? So per esperienza che solo il Vangelo può aiutarci a dipanare le innumerevoli matasse che incontriamo nel nostro percorso di vita. Passare questo strumento ad altri per me è “il” dono».

Il servizio che lei svolge è anche un osservatorio privilegiato sull’effettivo “riconoscimento” della donna nella Chiesa. Qual è la sua valutazione?

«Devo confessare che vedo pochi, faticosi cambiamenti. Leggo molti discorsi e interviste che parlano di apertura alle donne nella Chiesa, ma le posizioni offerte loro sono solo amministrative, seppure magari di alto livello. Il terreno del sacro non si tocca mai.

Nei fatti, almeno fino a oggi, le cose non cambiano. Mi ricorda la metafora che Gesù usa per distinguere la propria predicazione da quella di Giovanni Battista: i due bambini che giocano in una piazza. Il Battista è il bambino che suona a lutto, e nessuno lo ascolta. Gesù è il bambino che suona a lode, e nessuno lo ascolta. La posizione della donna nella Chiesa è simile: nessuno desidera giocare con lei. È come in una relazione sponsale: se la donna che hai accanto non ti diverte, se il fatto che abbia una sensibilità altra rispetto alla tua non ti incuriosisce, non ti stimola, quella relazione non sarà mai generativa».

Intervista a Guia Sambonet    di Stefano Femminis   “Jesus” n. 6 giugno 2019

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ENTI TERZ0 SETTORE

Adeguamento statuti: approvata la proroga al 30 giugno 2020

Con la fiducia del Senato al Decreto “Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi” già approvato dalla Camera dei deputati con voto di fiducia nella seduta di venerdì 21 giugno 2019, diventa ufficiale la proroga al 30 giugno 2020 per l’adeguamento degli statuti per organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e Onlus.

Nel Decreto Legislativo, all’articolo 43 comma 4-bis: leggiamo. “In deroga a quanto previsto dall’articolo 101, comma 2, del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, i termini per l’adeguamento degli statuti delle bande musicali, delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, delle organizzazioni di volontariato, e delle associazioni di promozione sociale sono prorogati al 30 giugno 2020.

Il termine per il medesimo adeguamento da parte delle imprese sociali, in deroga a quanto previsto dall’articolo 17, comma 3, del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, è differito al 30 giugno 2020”.

Nel testo di legge sono quindi comprese anche le “bande musicali” e le “imprese sociali” che nelle precedenti disposizioni non erano contenute.

Passa anche la modifica allo Spazza corrotti che esonera tutti gli Ets dagli obblighi previsti dall’equiparazione ai partiti politici

CSV Padova    21 giugno 2019 

https://csvpadova.org/adeguamento-statuti-approvata-la-proroga-al-30-giugno-2020

 

Statuti Terzo settore: il vademecum per adeguarli bene

Realizzato dal Tavolo tecnico legislativo del Forum Nazionale del Terzo Settore, contiene una serie di indicazioni e suggerimenti per orientarsi tra le clausole da modificare. Una guida utile a supporto del lavoro che ogni ente è chiamato a fare

Gli enti del terzo settore chiamati ad adeguare il proprio statuto alle indicazioni della riforma da oggi hanno uno strumento in più. È online il “Vademecum per le modifiche statutarie” realizzato nell’ambito del Tavolo tecnico legislativo del Forum Nazionale del Terzo Settore e diffuso tra i propri associati. Come specificato nel testo di presentazione, si tratta di una serie di suggerimenti da utilizzare criticamente e non sostituisce il lavoro che ogni ente, eventualmente consigliato dai professionisti che già lo seguono, dovrà fare.

www.cantiereterzosettore.it/images/Documenti/20190531-Forum-Vedemecum-x-adeguamenti-Statuti_sITO.pdf

Come si spiega in un articolo del Cantiere terzo settore, il documento è rivolto alle Organizzazioni di volontariato (Odv),

www.cantiereterzosettore.it/riforma/ets-enti-del-terzo-settore/odv-organizzazioni-di-volontariato

Associazioni di promozione sociale (Aps) e le Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) tenute ad adeguare gli statuti ma anche a qualsiasi altro tipo di ente non profit che prima o poi voglia iscriversi al registro unico nazionale del terzo settore (Runts).

www.cantiereterzosettore.it/riforma/vita-associativa/runts-registro-unico-nazionale-del-terzo-settore

Nonostante la scadenza per la modifica degli statuti per gli enti del terzo settore prorogata a giugno 2020, infatti, molte organizzazioni stanno scegliendo di non proseguire in questa lunga odissea e adeguarsi al più presto alla nuova normativa. Il vademecum fa riferimento soprattutto alla circolare del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali n. 20 del 27 dicembre 2018, in cui si specificano tre possibili tipologie di norma del codice del terzo settore oggetto di adeguamento: inderogabili, derogabili solo attraverso espressa previsione statutaria e norme che attribuiscono all’autonomia statutaria mere facoltà o “consigliate”.

www.cantiereterzosettore.it/images/phocadownload/normativa/Circolare-ministeriale-n-20-del-27122018.pdf
Il vademecum le analizza tutte, specificando se si tratti di clausole vere e proprie o di semplici suggerimenti.

Cosa fare dopo aver modificato il proprio statuto?

Le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale dovranno consegnarlo ai relativi registri territoriali, attivi fino all’avvio del nuovo registro unico nazionale.

Le Onlus dovranno depositarlo presso il proprio registro all’Agenzia delle Entrate.

Le associazioni riconosciute e le fondazioni dovranno adeguare lo statuto con atto pubblico, cioè ricorrendo al notaio.

Gli altri enti non profit che non rientrano nelle categorie già citate, dovranno consegnare il proprio statuto modificato direttamente agli uffici territoriali del registro unico nazionale del terzo settore quando sarà attivo.

www.vita.it/it/article/2019/06/21/statuti-terzo-settore-il-vademecum-per-adeguarli-bene/151985

                                    

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Maternità in Italia: “lavoratrice incinta porta in sé un valore sociale, urge cambiamento culturale”

“Non è possibile, per non perdere il proprio lavoro, dover rischiare la salute del bimbo che si porta in grembo e la propria. Quanto emerso dal caso milanese è purtroppo vero. È un problema culturale: diventare mamma non è più percepito come valore sociale, ma ridotto al rango di bene individuale”. Così la vicepresidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, Emma Ciccarelli, commenta l’episodio che ha visto come protagonista una giovane mamma avvocato di Milano, incinta all’ottavo mese, a cui è stato negato il rinvio di un’udienza in Tribunale nonostante il rischio di parto prematuro. “È una sconfitta della società, ma anche – sottolinea Ciccarelli – un arresto nel processo di valorizzazione della dignità della donna. Saremo a fianco a Monica per aiutarla a sostenere i suoi diritti”.

“La passione per il proprio lavoro – sottolinea Maria Grazia Colombo, altra vicepresidente del Forum famiglie – per una donna non può e non deve essere d’impedimento a fare figli. Anche perché in tutti gli altri Paesi europei la gravidanza non è alternativa al lavoro femminile. Al contrario, l’aumento dell’occupazione femminile coincide con l’aumento della natalità”. “La maternità è una funzione sociale: in quanto tale dev’essere riconosciuta sia per il lavoro dipendente che per l’autonomo. La libera scelta della donna di fare carriera -ammonisce – dev’essere realmente libera. Altrimenti impoverisce tutta la società”

AgenziaSIR                                                28 giugno 2019

https://agensir.it/quotidiano/2019/6/28/maternita-in-italia-forum-famiglie-lavoratrice-incinta-porta-in-se-un-valore-sociale-urge-cambiamento-culturale

 

Affidi illeciti a Reggio Emilia: De Palo “chi ha sbagliato paghi, ma si rilanci a dovere l’istituto dell’affido”

Quanto successo nel Reggiano, con affidi illeciti di minori per i quali sono agli arresti diciotto persone “ci impone di chiarire due cose: innanzitutto, chi ha sbagliato deve pagare e i controlli in questo ambito devono essere ampliati e moltiplicati, per evitare il ripetersi di nefandezze come queste, perché i bambini sono il futuro del nostro Paese e del mondo. Ma, in secondo luogo, un caso come questo non può fermare l’istituto dell’affido familiare, ma deve anzi rilanciare il tema dell’accoglienza, che rappresenta una scelta d’amore, per i bambini accolti e per le famiglie che la compiono”. Così il presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari, Gigi De Palo, ha commentato i fatti di cronaca dell’inchiesta ‘Angeli e demoni’ condotta dai Carabinieri di Reggio Emilia.

“Molte sono le famiglie che, anche con l’aiuto delle associazioni, vivono l’esperienza dell’affido con disponibilità e gratuità – aggiunge Massimo Orselli, delegato all’Affido familiare e adozione del Forum famiglie – in stretto rapporto con i servizi sociali e i Tribunali per i minorenni”. “Per questo – prosegue Orselli –, come Forum ci sentiamo di cogliere questa circostanza nefasta per riaffermare l’importanza e la bellezza dell’affido e promuoverne il valore innanzitutto sociale, chiedendo ad altre famiglie di fare questo passo. Un episodio drammatico non può e non deve fare del male anche alle migliaia di bambini in affido e alle famiglie che in tanti anni si sono dedicate con amore sincero a questi minori”.

AgenziaSIR                                                28 giugno 2019

https://agensir.it/quotidiano/2019/6/28/affidi-illeciti-a-reggio-emilia-de-palo-forum-famiglie-chi-ha-sbagliato-paghi-ma-si-rilanci-a-dovere-listituto-dellaffido-in-italia

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Il Papa alla Chiesa tedesca: avviare processi, non cercare risultati mediatici privi di maturità

Lettera del santo padre Francesco al popolo di Dio che è in cammino in Germania

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2019/documents/papa-francesco_20190629_lettera-fedeligermania.html

Una decina di pagine, tredici punti, per richiamare i vertici della Chiesa in Germania a camminare verso la giusta strada, quella del Vangelo, senza trascendere in derive funzionaliste o riduzionismi ideologici, scientifici o manipolativi che rischierebbero solo di «ridicolizzare» il popolo di Dio. E soprattutto per sollecitare i fedeli a risvegliare una passione in grado di «smascherare la vecchia e nuova schiavitù che colpisce uomini e donne soprattutto oggi che vediamo la rinascita dei discorsi xenofobi e promuovere una cultura basata sull’indifferenza, la reclusione, l’individualismo e l’espulsione».

Nel giorno dei santi patroni di Roma Pietro e Paolo, Papa Francesco invia una lunga lettera alla Chiesa tedesca che, guidata da un episcopato di forte tendenza progressista, non ha mai nascosto l’istinto a procedere “autonomamente” su alcune scelte e posizioni pastorali e dottrinali. È il caso del dibattito sulla intercomunione o il percorso sinodale annunciato dai presuli a marzo per discutere di celibato, morale sessuale, potere clericale. Il Papa richiama dunque all’ordine e, soprattutto, dicendosi cosciente delle problematiche contingenti nel Paese, invita pastori e fedeli della Germania a «mettere in moto processi che ci costruiscono come Popolo di Dio piuttosto che la ricerca di risultati immediati che generano conseguenze rapide e mediatiche ma effimere per mancanza di maturità o perché non rispondono alla vocazione a cui siamo chiamati». «Lo scenario attuale – afferma il Pontefice – non ha il diritto di farci perdere di vista il fatto che la nostra missione non si basa su previsioni, calcoli o indagini ambientali incoraggianti o scoraggianti, né a livello ecclesiale, né a livello politico, economico o sociale, né sui risultati positivi dei nostri piani pastorali».

 Certo, «tutte queste cose sono importanti per valorizzarle, per ascoltarle, per riflettere su di esse ed essere attenti, ma di per sé non esauriscono il nostro essere credenti», ma «senza una nuova e autentica vita evangelica, senza fedeltà della Chiesa alla propria vocazione ogni nuova struttura è corrotta in breve tempo». Bergoglio guarda con gratitudine alla rete capillare di comunità, parrocchie, cappelle, scuole, ospedali, strutture sociali che si sono intrecciate nella storia del Paese e che testimoniano una «fede viva» che ha attraversato «momenti di sofferenza, confronto e tribolazione». Nel presente «le comunità cattoliche tedesche, nella loro diversità e pluralità, sono riconosciute in tutto il mondo per il loro senso di corresponsabilità e generosità» e, nel passato, la Germania ha donato al mondo «numerosi carismi e persone: sacerdoti, religiosi e laici che hanno svolto fedelmente e instancabilmente il loro servizio e la loro missione in situazioni spesso difficili», senza dimenticare i «grandi santi, teologi, ma anche pastori e laici che hanno aiutato l’incontro tra il Vangelo e le culture». Per questo, osserva il Pontefice, è ancor più «doloroso» vedere «la crescente erosione e decadenza della fede con tutto ciò che questo comporta non solo a livello spirituale, ma anche a livello sociale e culturale». Un deterioramento, «certamente sfaccettato e non facile e veloce da risolvere, che richiede un approccio serio e consapevole».

Per affrontare questa situazione i vescovi hanno suggerito un percorso sinodale: cosa significhi e come si svilupperà concretamente è ancora in fase di riflessione. In ogni caso l’idea è buona, sembra dire il Papa, che ricorda come sia lui stesso ad aver incoraggiato una «sinodalità» nella Chiesa. Bisogna però fare attenzione ad avviare tale processo escludendo la dimensione della grazia: ogni percorso sinodale deve essere caratterizzato da una «irruzione dello Spirito Santo», dice, senza di quello è difficile «raggiungere e prendere decisioni in questioni essenziali per la fede e la vita della Chiesa». «Si può cadere in sottili tentazioni alle quali ritengo necessario prestare particolare attenzione e cura, poiché, lungi dall’aiutarci a camminare insieme, ci terranno aggrappati e installati in schemi e meccanismi ricorrenti che finiscono per denaturalizzare o limitare la nostra missione», ammonisce infatti Francesco. «E anche con l’aggravante circostanza che, se non ne siamo a conoscenza, possiamo finire per girare attorno ad un complesso insieme di argomenti, disquisizioni e risoluzioni che ci allontanano solo dal contatto reale e quotidiano del popolo fedele e del Signore». «Assumere e soffrire la situazione attuale non implica passività o rassegnazione e meno negligenza – evidenzia Bergoglio -, bensì un invito a prendere contatto con ciò che in noi e nelle nostre comunità è necrotico e ha bisogno di essere evangelizzato e visitato dal Signore». Ciò richiede «coraggio», perché «quello di cui abbiamo bisogno è molto più di un cambiamento strutturale, organizzativo o funzionale».

Dietro l’angolo, c’è infatti la tentazione del «nuovo pelagianesimo» che porta a riporre la fiducia in «strutture e organizzazioni amministrative perfette». Non è così: «Una centralizzazione eccessiva, invece di aiutarci, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria», rimarca il Papa. È vero che la miglior risposta sembra sempre quella di «riorganizzare le cose», di «apportare cambiamenti» e togliere le «macchie» in modo da «mettere ordine e armonia alla vita della Chiesa, adattandola alla logica attuale o a quella di un particolare gruppo». Con il tempo si eliminerebbero forse le «tensioni», ma si arriverebbe ad «intorpidire e addomesticare il cuore del nostro popolo» e «mettere a tacere la forza vitale ed evangelica che lo Spirito vuole dare».

 «Questo sarebbe il più grande peccato della mondanità e dello spirito antievangelico mondano», afferma perentorio Papa Francesco. «Si avrebbe un buon corpo ecclesiale, ben organizzato e persino “modernizzato” ma senza anima e novità evangelica; vivremmo un cristianesimo “gassoso” senza il mordente evangelico». Quindi attenti, bisogna confidare in Dio e non nei propri sforzi e nelle proprie capacità. La storia lo insegna: «Ogni volta che la comunità ecclesiale ha cercato di uscire dai suoi problemi da sola, confidando e concentrandosi esclusivamente sulle sue forze o metodi, la sua intelligenza, la sua volontà o prestigio, ha finito per aumentare e perpetuare i mali che cercava di risolvere», rammenta il Pontefice. In tal senso, afferma, «lo scenario attuale non ha il diritto di farci perdere di vista il fatto che la nostra missione non si basa su previsioni, calcoli o indagini ambientali incoraggianti o scoraggianti, né a livello ecclesiale, né a livello politico, economico o sociale, né sui risultati positivi dei nostri piani pastorali». Tutte queste cose sono importanti per valorizzarle, per ascoltarle, per riflettere su di esse ed essere attenti, ma «di per sé non esauriscono il nostro essere credenti».

Per questo motivo, sottolinea ancora, «la trasformazione da realizzare non può rispondere esclusivamente come reazione a dati o richieste esterne, come il forte calo delle nascite e l’invecchiamento delle comunità che non consentono di rendere visibile un cambio generazionale. Sono cause oggettive e valide, ma viste isolatamente al di fuori del mistero ecclesiale, favorirebbero e stimolerebbero un atteggiamento reazionario (sia positivo che negativo) verso i problemi». Il criterio-guida è «recuperare il primato dell’evangelizzazione», da non vivere però come «tattica di riposizionamento ecclesiale nel mondo di oggi o un atto di conquista, dominio o espansione territoriale», tantomeno come «ritocco» che «adatta la Chiesa allo spirito dei tempi facendole perdere originalità e profezia». La principale preoccupazione, scrive il Papa, dovrebbe essere quella di «condividere questa gioia aprendoci e andando ad incontrare i nostri fratelli soprattutto quelli che si trovano sulle soglie dei nostri templi, per le strade, nelle carceri e negli ospedali, nelle piazze e nelle città». «Le sfide sono lì per essere superate», dice il Papa.

E per farlo serve unità: «Prendiamoci cura gli uni degli altri e siamo attenti alla tentazione del padre della menzogna e della divisione, del maestro della separazione che, spingendo se stesso a cercare un bene apparente o una risposta ad una determinata situazione, finisce infatti per frammentare il corpo del fedele Popolo santo di Dio», esorta il Papa, mettendo in guardia da «antagonismi» e «protagonismi», «risoluzioni sincretistiche di “buon consenso” o risultanti dall’elaborazione di censimenti o indagini su questo o quell’argomento».

Tutto questo non si annulla con la «sinodalità». Serve pregare, digiunare, vegliare; così si fugge dalla «tentazione di rimanere in posizioni protette e confortevoli» e si è spinti ad andare invece «alle periferie per incontrarci e ascoltare meglio il Signore». «Senza questa dimensione – conclude Francesco – corriamo il rischio di partire da noi stessi o dell’ansia di auto-giustificazione e di autoconservazione che ci porterà a fare cambiamenti e accordi ma a metà strada, che, lungi dal risolvere i problemi, finirà per impigliarci in una spirale senza fondo che uccide e soffoca l’annuncio più bello, liberatorio e promettente che abbiamo e che dà senso alla nostra esistenza: Gesù Cristo è il Signore».

Salvatore Cernuzio               “La Stampa Vatican Insider” 29 giugno 2019

www.lastampa.it/vatican-insider/it/2019/06/29/news/il-papa-alla-chiesa-tedesca-avviare-processi-non-cercare-risultati-mediatici-privi-di-maturita-1.36544772

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OMOFILIA

La teologa Cristina Simonelli: “La scrittura può essere riletta”  

Non serve attendere una perfetta conversione ecclesiale prima di promuovere e sostenere un nuovo cammino pastorale. Non saremo “mai pronti” davvero, perché il Vangelo ci precede sempre. Quindi meglio valorizzare quello che già esiste, nella speranza che altri si convincano della necessità di fare altrettanto. E questo vale anche per i percorsi pastorali dedicati alle persone omosessuali. Ne è convinta Cristina Simonelli, presidente del coordinamento delle teologhe italiane, docente di teologia patristica a Milano e a Verona.

La chiesa avviato un difficile percorso per dare concretezza all’invito di Papa Francesco (Amoris Lætitia, 250) a proposito della necessità di accompagnare le persone omosessuali “a realizzare pienamente la volontà di Dio nella propria vita “, nel rispetto della dignità di ciascuno ed evitando ogni discriminazione. A tre anni dalla pubblicazione della esortazione post sinodale qualcosa si è mosso, ma le resistenze sono ancora tante. Crede che la chiesa non sia ancora pronta ad avviare una pastorale davvero inclusiva verso queste persone?

La chiesa, cioè il soggetto collettivo complesso che insieme formiamo, è di per sé su un crinale: non siamo mai “pronti” del tutto, perché il Vangelo ci precede sempre. E tuttavia possiamo e dobbiamo muovere dei passi, senza attendere di essere perfettamente attrezzati. Si sente spesso fare un ragionamento simile per quanto riguarda la componente di fedeli più numerosa nella chiesa, cioè le donne tutte: attendere una perfetta conversione ecclesiale e pastorale può portare solo alla paralisi, procrastinando in maniera intollerabile le questioni che ci riguardano. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, quello che è, già ora, in atto e parte della chiesa: non per essere ottimista a tutti i costi o per parlare banalmente dei soliti livelli dei bicchieri, ma per la convinzione che “quello che si è mosso” è importante e, quello che più conta, inarrestabile. Certamente le resistenze sono qualcosa da non sottovalutare: spesso si pensa di poterle affrontare portando ragioni e argomenti, che sono importanti ma non sufficienti, perché chi si oppone in maniera radicale lo fa spesso sulla base di elementi profondi che si manifestano come idee, ma sono molto di più, almeno desideri, timori e fantasmi.

In uno “Studio del mese” che ho curato ormai 4 anni fa (Donne e teologia. Dire la differenza senza ideologie), Lucia Vantini ha espresso magistralmente la questione (Sentieri interrotti. Le resistenze non riconosciute, Il regno attualità 1/2015, p.58), mostrandone la trasversalità.

Anche nel documento finale del Sinodo dei Vescovi sui giovani si sollecitano attenzione pastorali verso le persone omosessuali, ma finora non esistono “linee guida” per impostare un percorso specifico. Su quali criteri bisognerebbe muoversi?

E’ di estremo interesse il percorso sinodale che ha sintetizzato voce e dibattiti che erano molto più ampi; al di là della contrazione del testo finale (DF), che comprensibile da un certo punto di vista, è significativo osservare che due paragrafi che hanno ricevuto più bassa percentuale di approvazione sono proprio il numero 121, sulla forma sinodale della chiesa, e il numero 150, appunto, che contiene anche riferimento alla sessualità. La bassa adesione, in un modo di procedere che a tratti risulta quasi per acclamazione, dà a pensare e viene …. con quanto appena detto. Pur pure in questo quadro, l’indicazione che ne esce mi sembra quella più opportuna in questo momento: “esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il sinodo raccomanda di favorire tali percorsi “.

  1. Prima di tutto si tratta di “riconoscere”: che nelle comunità ecclesiali e non solo davanti ad esse, ci sono persone omosessuali che esistono già molti percorsi di spiritualità, di preghiera, di accompagnamento, molto di più di quanto si potrebbe pensare guardando solo i banner della pastorale nei siti delle diocesi.
  2. In secondo luogo si tratta di “ascoltare”: in senso immediato, in senso radicale, ascoltare le voci, le esperienze, le sofferenze ad esempio: il portale Gionata (www.gionata.org), portale su Fede e omosessualità è una miniera, con molto spazio anche per AGEDO (www.agedonazionale.org) e 3volteGenitori (www.gionata.org/3voltegenitori).Quest’ultima osservazione potrebbe sembrare “paternalistica”, per il richiamo ai genitori, Ma la ritengo importante per una delle osservazioni che attraversano il mondo ecclesiale: la fobia rispetto al termine “rivendicazione”. Non la condivido, certo, ma ritengo che in questo caso la voce di genitori e nonni che fanno un cammino “per altri” e non per se soltanto, sia particolarmente eloquente.
  3. In terzo luogo chiedere perdono: delle tante discriminazioni, del disprezzo che va dalle battute sarcastiche all’esclusione, ma anche di un disagio nei confronti della sessualità che agisce trasversalmente anche in punti che ora paiono dottrinali, ma che possono essere purificati, migliorati, convertiti in un nuovo elemento di purificazione della memoria.
  4. Infine “camminare insieme” che vuol dire mettersi in un cammino comune, senza unilateralizzazioni e senza forzature. Una persona è molto di più di un’apparenza etnica o di un orientamento sessuale: ovvio, ma non sempre semplice. Proprio per tutti questi motivi comunque ritengo che più che “linee guida”, che potrebbero essere precipitose e stringenti, sia importante attivare questo tipo di processualità, vicina tra l’altro ai criteri di Evangelii Gaudium.

Chi critica la decisione delle diocesi di aprire le porte alle persone omosessuali si muove solitamente su due registri. Gli intolleranti assoluti sostengono che non sia giusto dare spazio a persone “colpevoli” di un peccato che, secondo il catechismo di Pio X, “grida vendetta agli occhi di Dio”. Gli intolleranti mascherati ritengono che non sia giusto “ghettizzare” dal punto di vista pastorale queste persone e che sarebbe sufficiente indirizzarli verso le proposte ordinarie. Cosa risponde a queste critiche?

Inizio della seconda, che si può incontrare anche rispetto a pastorali specifiche di gruppi etnici e che spesso, nella domanda è già suggerito, “maschera” comunque il rifiuto. In primo luogo tuttavia raccoglierei un suggerimento utile: gruppi specifici possono essere importanti proprio perché la pressione è così forte che c’è bisogno di luoghi di riflessione, di approfondimento, di ricerca in cui riconoscersi. Ma queste realtà non devono assolutamente essere dei ghetti, è tutta la comunità, la sua catechesi, la sua liturgia e ogni sua espressione a essere di tutte e di tutti, luogo in cui ognuno possa riconoscersi e sentirsi espresso. Ripeto anche a questo proposito, inoltre, che ogni persona è una realtà complessa, che fra i vari aspetti ha anche quello dell’orientamento affettivo e sessuale, ma nessuno può essere identificato solo per un aspetto.

Aggiungo che conosco anche molte persone, donne uomini e fra questi anche diverse persone che fanno parte del clero, che aumentando la confidenza reciproca, mi dicono anche del loro orientamento non eterosessuale. Sono spesso situazione di sofferenza perché il non detto le/li obbliga a una posizione molto scomoda: ma è importante saperlo, sia perché la loro resistenza a manifestarsi dice del livello di aggressività che le persone omosessuali ancora subiscono, sia perché comunque, come appena detto, nessuno dovrebbe essere costretto a restringere la definizione di se a un elemento solo.

La forma di rifiuto totale, invece, da una parte sta su un livello ormai improponibile sulla dimensione “contro natura” della omosessualità, non più presente nei documenti del Magistero, dall’altra si sposta su un aspetto ancora molto discusso, che è quello che afferma l’accoglienza delle persone, negando però la legittimità della loro vita affettiva e sensuale. Questa seconda posizione tuttavia è, a mio parere, contraddittoria: ritengo dovrebbe avere almeno la forma della quæstio disputata (argomento da discutere).

La diocesi di Torino è stata al centro di forti polemiche per la sua decisione di proporre agli omosessuali credenti un percorso sulla fedeltà. L’incontro, dopo le critiche del 2018 si è tenuto poi nello scorso aprile. Gli attacchi si sono ripetuti nella convinzione che sia incoerente parlare di fedeltà a persone che non dovrebbero essere incoraggiate a rimanere “fedeli al peccato”, ma solo a cambiare vita. Come valuta questi “consigli”?

Come appena detto, c’è una contraddizione nel dire di accogliere le persone, imponendo però loro un celibato coatto. Preferisco parlare di “celibato” (anche se molto maschile, su questo ritorno a breve) più che di castità, perché castità significa anche rapporto rispettoso e fedele: sono d’accordo su questa impostazione, mi sembra seria e capace di accogliere le coppie che già sono formate vivono con profondità il loro amore.
Come sono d’accordo con chi sostiene che gli atti all’interno di una coppia omosessuale dovrebbero essere valutati sulla base dei frutti spirituali che producono. Dobbiamo chiederci: sono ordinati o meno, cioè a costruire il bene della persona?

Papa Francesco parla spesso di inclusività, integrazione, misericordia, accoglienza. Esistono fondamenti biblici per estendere questi atteggiamenti pastorali anche alle persone omosessuali?

Fino a tempi molto recenti non avevo misurato l’uso restrittivo che facciamo di molti passi evangelici che invitano all’accoglienza, al riconoscimento reciproco, alla pienezza della legge riconoscibile nell’Agape, alla benedizione, è infine alla potenza, anche in questo senso, dell’affresco escatologico del capitolo 25 di Matteo: “l’avete fatto a Me “. Devo alla riflessione e alla pastorale LGBT il suggerimento di una lettura inclusiva di questi e di molti altri passi, compreso Atti 11, 17 (“Se Dio ha dato loro lo stesso dono che a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?”), che ho sentito commentare magistralmente da James Allison. Compreso anche il versetto che guidava la giornata contro omofobia di quest’anno (“non temere, perché io ti ho riconosciuto, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni, sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno e io ti amo “, Isaia 43, 1-4); compreso lo starsi difronte nella reciprocità, l’ezer kenegdo (occhi negli occhi) di Genesi 2,18.

Del resto, è noto, abbiamo un rapporto spesso ambiguo con la scrittura, anche se probabilmente in buona fede: alcuni passi il blocchiamo in un rigido letteralismo (ad esempio i codici familiari, i passi sulla sottomissione delle donne), altri li passiamo tranquillamente ha un registro di varie ed eventuali (ad esempio porgere l’altra guancia, non prendere né sacco, né bisaccia). Come avvenuto nel terzo secolo, quando la crisi della comunità dopo la persecuzione ha “obbligato” a rileggere in termini più ampi i passi sul perdono, così può cadere ancora oggi, se la vita delle persone ci aiuta a purificare ed approfondire la nostra lettura. Non “sugli” altri, ma insieme agli altri.

Evangelizzare il mondo gay è davvero possibile? Crede che un atteggiamento diverso da parte della chiesa posso indurre colore che oggi sono decisamente lontani a guardare con maggiore attenzione a un percorso di fede?

Ecco qui mi permetto, come prima cosa, una critica che forse avrei dovuto esprimere subito: posso arrivare a capire che alla sigla lgbt/iq possa venire preferita la lezione “omosessuali/omosessualità”, ritenuta forse meno trasgressiva e immobile. Ma se poi questa si restringe ancora e diventa gay, è unicamente maschile, questo non posso lasciarlo tranquillamente passare.

Un difetto della lingua, una scelta comunicativa? Come quella che in “uomo” ha pensato nei secoli di poter dire, o meglio occultare, tutte le donne? Le parole hanno la loro importanza inviterei a maggior vigilanza. Del resto, nonostante una presenza e una riflessione lesbica importante anche in Italia, sono spesso gli uomini che prendono la parola in questo senso: tutto a posto? Bisognerebbe fare molta attenzione, per non avere in questo caso un’esclusione dell’esperienza femminile, in certo, al quadrato. I movimenti delle donne transfemministi si sono aperti a posizioni molto inclusive di ogni differenza, ma questo richiede una sorta di reciprocità attenta.

Venendo a quello che era il centro della domanda, la reindirizzerei: è possibile che il mondo LGBT possa evangelizzare la chiesa portando a una comprensione migliore del Vangelo? Penso che sia possibile. Inoltre, è possibile che le persone omosessuali che non sono parte della chiesa e magari del suo clero possono fare un percorso con il resto della comunità? Sì, lo penso possibile. Infine, questo ha che vedere anche con le persone che sono parte della chiesa?

Penso che sia comunque un aspetto molto importante, perché essere disprezzati, ferisce comunque, dunque anche a chi non si riconosce più nella chiesa “importa” come ci esprimiamo nei loro confronti.

Da qui nasceranno conversioni? Speriamo le nostre, mi auguro. Per quelle altrui, “non sta a noi conoscere i tempi e i momenti” (Atti 1,7) di un cammino di cui possiamo essere testimoni, non proprietari.

Intervista di Luciano Moia alla teologa Cristina Simonelli

Noi famiglia & vita, supplemento Avvenire 23 giugno 2019, pp.34-37

www.gionata.org/omosessualita-la-teologa-cristina-simonelli-la-scrittura-puo-essere-riletta

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UTERO IN AFFITTO

No alla surrogazione di maternità, un bambino non si prenota. Si ama

      Caro direttore,            in questi giorni è tornato alla ribalta il tema della maternità surrogata e di una sua possibile regolamentazione. È una questione delicata ed importante che anche il sindacato non può non affrontare, sapendo sempre distinguere tra le legittime posizioni individuali dei nostri iscritti e la difesa di princìpi umanitari e morali, sanciti anche dalla nostra Costituzione.

L’utero in affitto è una cosa umanamente inaccettabile sia per le donne che non sono incubatrici ma madri, sia per i bambini. È solo il denaro che determina questo processo, come avviene in California, uno dei principali Stati surrogacy friendly negli Usa, dove i contratti sono scritti per proteggere chi commissiona un bambino, e non la madre o il nascituro. Una vera follia. Ecco perché abbiamo condiviso l’iniziativa dell’Associazione “Se non ora quando-Libere“: dobbiamo dire no allo sfruttamento della donna e alla riduzione del corpo femminile a puro “strumento” e dei bambini a “merce”. Operazioni che, purtroppo, sono sempre connesse alla pratica della maternità surrogata. Non esiste il sex work, un lavoro sessuale da regolamentare nel nostro Paese. Così come (e lo abbiamo detto più volte, sostenendo la campagna e le iniziative dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) non accetteremo mai una prostituzione definitivamente legittimata e mercatizzata. Un bambino non si prenota, affitta o compra. Un bambino si ama, che è una cosa molto diversa. E non si può immaginare di rendere etico e morale quello che non lo è attraverso una legge. Il grembo di una donna non è una provetta. Tra gestante e bambino che nascerà, pur se concepito con gameti “estranei”, si crea un legame psicologico e persino biologico davvero unico.

Si può parlare di “dono” quando si fa nascere un neonato per l’esclusiva volontà di soddisfare un desiderio che naturalmente non potrebbe realizzarsi? Io penso di no. È comprensibile l’aspirazione alla maternità o alla paternità. Ma un bambino non può essere regalato come un oggetto, né scelto, né acquistato, né è un diritto per nessuno, coppia etero od omosessuale o singolo che sia. Ha ragione Antonella Mariani che su Avvenire ha ricordato che un figlio è una persona per sé stessa, ha una sua individualità. Un figlio non può essere solo il realizzarsi a ogni costo di un desiderio, per quanto tenace. Quello che si vuole regolamentare per legge, di fatto, è la separazione di un figlio da colei che l’ha portato in grembo. L’alienazione di una madre. La trasformazione di una donna in strumento di produzione e il neonato in prodotto.

L’adozione non è una scelta equivalente, anzi bisognerebbe rendere più semplice e sicuri questo processo, per offrire amore a chi ne ha più bisogno: i bambini. Così come dovremmo fare di più per sostenere la maternità, favorire le assunzioni di donne e soprattutto una migliore conciliazione tra famiglia e lavoro, questioni importanti sulle quali la Cisl è impegnata da tempo, per colmare i ritardi del nostro Paese rispetto ad altre realtà europee. Sappiamo bene che in Italia l’argine della legge 40/2004 c’è ancora e resta importantissimo, così come quello che impedisce il commercio di seme e ovociti. Tuttavia sappiamo altrettanto bene che entrambi quegli argini vengono spesso aggirati con viaggi all’estero o mascherando i prezzi pagati per l’utero in affitto da “rimborsi”. Tutto questo è anche per noi inaccettabile. L’utero in affitto è vietato, ma chi lo usa per farsi fare figli, sta riuscendo a realizzare per via giudiziaria e amministrativa i propri progetti e a violare senza conseguenze la legge vigente in Italia.

Ecco perché vogliamo rilanciare la proposta lanciata più volte in questi anni dalle colonne di Avvenire: bisognerebbe portare avanti una battaglia a livello mondiale, per uscire da questa disumanizzante deriva. Serve un fronte ampio come fu quello contro la schiavitù, o come quello che oggi è in campo contro la pena di morte. Un fronte davvero plurale, che unisca credenti e laici, gruppi intellettuali, realtà associative, singoli cittadini e cittadine, sindacalisti, politici, giornalisti, che via via con sempre maggiore chiarezza hanno compreso l’importanza della questione, che non è ideologica, ma fondata sulla difesa della persona e sul rispetto della dignità della donna e dei bambini.

Annamaria Furlan, Segretaria generale Cisl Avvenire 25 giugno 2019

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/utero-in-affitto-lettera-di-annamaria-furlan

 

 

 

Associazioni femministe contro l’utero in affitto

Riunite a Roma le esponenti di molte sigle del mondo femminista ribadiscono il no allo sfruttamento delle donne e alla compravendita di bambini. Appello al mondo progressista per vietare la pratica dell’utero in affitto in tutto il mondo.

 “Il corpo delle donne non si affitta e non si compra, i bambini non possono essere oggetto di dono o di mercimonio”. L’appello lanciato oggi dalle associazioni femministe, firmatarie delle lettere aperte indirizzate al segretario della Cgil, Maurizio Landini, è un netto “no” senza equivoci alla barbara pratica dell’utero in affitto, che spezza il legame primigenio tra la madre ed un figlio.

La rete femminista contro la surrogata- Presso la sede della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, a Roma, hanno voluto rimarcare il loro impegno contro la maternità surrogata le rappresentati delle associazioni di un ampio fronte della società civile italiana di cultura laica: Se non ora quando – Libere; Udi-Unione Donne in Italia; ArciLesbica Nazionale; Rua – Resistenza all’utero in affitto; RadFem Italia; Rete Gay contro l’utero in affitto; Se non ora quando – Genova.

La risposta alla Cgil. La conferenza stampa odierna nasce in risposta alla scelta del maggior sindacato italiano, la Cgil, di promuovere un dibattito sulla maternità surrogata, senza coinvolgere nessuna voce contraria e nella cornice del quale sono stati presentati due progetti di legge (ideati in collaborazione con l’associazione Luca Coscioni) per regolamentare la cosiddetta gestazione per altri. Un’iniziativa dalla quale si è dissociato il segretario della Cgil Landini, dopo aver preso atto dell’indignazione manifestata da migliaia di iscritte.

Battaglia trasversale- “Marchiamo il nostro no alla maternità surrogata non solo per reagire alla Cgil ma anche perché abbiamo avvertito il silenzio delle forze progressiste. La nostra è una battaglia di civiltà che non ha a che fare con destra o sinistra e ci aspettiamo che tutti prendano posizione” ha spiegato Francesca Marinaro, membro della Coalizione universale contro la surrogata

La povertà genera sfruttamento. Giovanna Martelli ex deputata di sinistra e attivista femminista ha affermato che serve una discussione nel mondo della politica che “non sarà indolore” ma che chiarirà una volta per tutte che la povertà culturale ed economica è terreno fertile per pratiche di abuso e sfruttamento del corpo delle donne: “La maternità non si può prestare, è impossibile regolamentare i legami affettivi”.

Mercificata la riproduzione umana. Vittoria Tola dell’Unione donne in Italia ha invece sottolineato che “senza alcuna conoscenza del limite, la tecnologia può portare diversi pericoli. “Il neo liberismo – ha proseguito – sta conquistando il campo della riproduzione umana”

L’impegno della politica. Alla conferenza erano presenti anche alcune esponenti del mondo della politica. Silvia Costa ex parlamentare europeo del Pd si è presa l’impegno di portare avanti questa battaglia nel suo contesto politico ed ha parlato anche di due “equivoci”: la scissione totale tra cultura e natura e della relazione tra la madre e il nascituro.

L’ex ministro della Salute e parlamentare Beatrice Lorenzin ha invece puntato il suo intervento sulla questione dei falsi diritti e degli interessi economici che si celano dietro la pratica dell’utero in affitto.

Non c’è dono né autodeterminazione. E sul nuovo linguaggio che presenta la pratica come un atto di dono ha parlato a Vatican News, Serena Sapegno, esponente nazionale di Se non ora quando – Libere.

Intervista a Serena Sapegno. R. – Ci siamo riunite perché il punto è questo: le forze progressiste su queste vicende dell’utero in affitto – così lo voglio chiamare – sono ambivalenti e poco chiare; sono attraversate da posizioni diversi e quindi il risultato è che non riescono ad uscire fuori con un’indicazione chiara, quando sono in ballo questioni di fondo dei diritti umani delle donne e dei bambini.

Si parla di dono, di autodeterminazione. C’è un imbroglio delle parole, come voi avete puntualizzato oggi in questo fenomeno dell’utero in affitto?

R. – Certo che c’è un imbroglio. È molto grave. L’autodeterminazione è un concetto molto caro alle donne: le madri voglio scegliere la maternità per essere responsabili e solo se la scelgono possono essere responsabili. In questo caso invece l’autodeterminazione è diventata il diritto di fare quello che mi pare che io non ho limiti ed ho diritti di ogni genere e quindi ho anche il diritto di schiavizzarmi, di vendere il mio utero. Questa sarebbe l’attuale accezione riduttiva del concetto di autodeterminazione. Per quanto riguarda il dono con la copertura del dono si parla in realtà di qualcosa di terribile che è la cessione dei bambini. I bambini non si possono donare neanche se uno volesse veramente donarli. Non si donano i bambini, di solito si vendono, ma anche nel caso del dono è il concetto stesso che è inaccettabile. Su questo bisogna riflettere.

La vicenda della conferenza stampa che ha visto tra i relatori la Cigl presentare queste proposte di legge per regolamentare l’utero in affitto ha però portato a destare una serie di forze sane della società. C’è un fronte trasversale? Come continuerà questa battaglia?

R.  – C’è un fronte, certamente. Ad esempio la Cisl si è schierata completamente dalla nostra parte contro l’utero in affitto, l’Udi, diverse associazioni di donne, ci sono tantissime firme e noi vogliamo andare avanti, perché facciamo parte già da tempo di una campagna internazionale per il bando universale. È l’unico modo attraverso il quale questa cosa si può sconfiggere, perché altrimenti come si vede le persone viaggiano, tornano e trovano il modo di farsi riconoscere questi bambini comparati come figli loro.

Quindi un impegno che va profuso anche in ambito culturale?

R. – Soprattutto! È un impegno importantissimo perché questi discorsi trattano ormai del rapporto tra la libertà – cos’è la libertà, che cosa si intende per libertà – e tra scienza e libertà, cioè: tutto quello che la scienza ci permette di fare, si può fare? Allora anche la bomba atomica? Vogliamo continuare? C’ è sempre stato questo problema del limite della capacità di scegliere tra libertà e limite. Non c’è libertà senza accettazione dei propri limiti.

Card. Betori: ricostruire il soggetto umano. “Di fronte a noi c’è il compito urgente di ricostruzione del soggetto umano nelle sue dimensioni costitutive” rispetto alla “destrutturazione in atto nella nostra cultura della natura propria della generatività, senza cui non c’è storia per l’umanità. È quanto sta accadendo con i tentativi di legalizzare la cosiddetta ‘gestazione per altri’, come viene definita nella neo-lingua di stampo orwelliano la mostruosa pratica dell’utero in affitto”, così questa mattina a Firenze, nella omelia della Messa per San Giovanni Battista, ha parlato di maternità surrogata anche l’arcivescovo di Firenze cardinale Giuseppe Betori. Un intervento che aggiunge ulteriori elementi di riflessione su un tema che sarà sempre più dirimenti in tema di bioetica e diritti dei soggetti più deboli.

Marco Guerra Vaticannews             24 giugno 2019 

www.vaticannews.va/it/mondo/news/2019-06/associazioni-femministe-rilanciano-impegno-contro-la-surrogata.html

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