NewsUCIPEM n. 758 – 16 giugno 2019

NewsUCIPEM n. 758 – 16 giugno 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

ucipem@istitutolacasa.it                                           www.ucipem.com

“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, 2019che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Sono così strutturate:

ü  Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

ü  Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

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01 ABUSI                                                            Contro la guerra ai bambini
04 ALIENAZIONE PARENTALE                    La Cassazione torna su alienazione genitoriale e ascolto dei figli

06 ASSOCIAZIONI-MOVIMENTI                                AICCeF. Le relazioni al tempo dei social,n 2Il consulente familiare

06 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 23, 12 giugno 2019

09 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA     Disforie di Genere: supporto al percorso di transizione

09 CHIESA CATTOLICA                                  Kasper sui ministeri ordinati

10                                                                          Clericalismo malattia della chiesa

12                                                                          La liturgia a 60 anni dal primo annuncio del Vaticano II

18 CITTÀ DEL VATICANO                              Documento sul gender: sì al dialogo sugli studi, no all’ideologia

19                                                                          Cominciamo ad ascoltare davvero

21 COMM.ADOZIONI INTERNAZ.             Incontro la delegazione della Repubblica Democratica del Congo

22                                                                          Adozioni internazionali, qualcosa si muove

23 CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI  CFC. Statuto per cambiamento con radici nelle ispirazioni fondative

24 DALLA NAVATA                                         Santissima Trinità – Anno C – 16 giugno 2019                     

24                                                                          La Trinità comunione d’amore, flusso di vita divina

25 DONNE NELLA CHIESA                            Tra inverno e primavera, aspettando Maria di Magdala

28 GOVERNO                                                   Via libera al Fondo per le politiche della famiglia 2019

28 MATRIMONIO                                           In crescita le coppie miste. Due religioni un problema?

30 OMOFILIA                                                    Quando un figlio è omosessuale. Genitori sempre

32 SESSUOLOGIA                                            Perché mio marito non mi desidera più?

35                                                                          Gender. No all’ideologia, sì al dialogo sulla differenza sessuale

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ABUSI

Contro la guerra ai bambini

            Quanto abbiamo visto accadere nella Chiesa di Roma in questi giorni di febbraio colpisce profondamente. Assistere ad una liturgia penitenziale nei Palazzi del “potere” terreno e celeste del Vaticano, celebrata verso sé stessi da chi ne è normalmente ministro per il popolo di Dio, è affatto inusuale. Sacerdoti posti dalla parte dei penitenti, come i laici, come i peccatori. Un fatto che assume un valore di portata storica. Dalle stanze dirigenti e docenti del Vaticano, spesso, in passato, velate o chiuse, esce un ossigeno di libertà, un’aria profumata di verità. Non di una verità dogmatica, che scende dalle cattedre di cui i Vescovi sono titolari, ma che viene dalla realtà, dai “piedi” della Chiesa, dalla voce di chi non ha voce e che vede riconosciuto al suo immenso silenzio il diritto alla parola e all’ascolto.

L’immagine evangelica che splendidamente esprime questo rapporto è quella della peccatrice di Luca (cf Lc 7,36-50). Mentre il Fariseo la vede e la ignora e giudica – per la condanna – sia lei, sia Gesù; Gesù la indica come la vera maestra della legge e dell’amore, costringendo Simone a guardarla e ad imparare dai suoi gesti e dalle sue lacrime. Noi non sappiamo se il Fariseo si fosse, poi, convertito, ma abbiamo visto che i Padri assembleari di questi giorni, rappresentanti di tutti i Vescovi del mondo, l’hanno fatto. Con la mitezza di un orecchio attento e di un cuore nudo; con l’umiltà dell’accoglienza della verità, con il silenzio della vergogna e la pena delle lacrime

Per noi, laici cattolici, è stata la prima volta in cui abbiamo assistito ad un clero contrito, non impegnato, innanzitutto, nell’esercizio dei suoi munera, ma dentro l’atto della fede proprio di ogni semplice battezzato: l’ascolto, la conversione e l’“eccomi”. Fondamento, del resto, di ogni credibile ministero e magistero; condizione per evitare di essere dei meri “funzionari” delle strutture religiose, o amministratori del sacro e proprietari dei suoi profitti. Per questo quanto è accaduto non è solo una “pietra miliare” nella vita della Chiesa, (Jerry O’Connor) ma anche una grande festa.

            C’è un secondo aspetto di non minore importanza, quello del metodo: la celebrazione pubblica di questa “liturgia penitenziale”. La Comunità cristiana intera ne è stata informata e testimone. Le pubbliche relazioni dei lavori dell’assemblea hanno coinvolto i cristiani, in modo che potessero parteciparvi; del resto la Chiesa è la famiglia di tutti, alla cui salute tutti debbono collaborare condividendo le responsabilità, le fatiche, il peccato, la grazia e la sapienza delle analisi e delle decisioni. Certo, l’attore principale è stato ancora una volta il clero, ma un clero che presenta sé stesso al cospetto della “rabbia” di Dio, espressa dalle vittime – com’ha detto il Papa – e che rinuncia a difendersi corporativamente, ma si espone al giudizio e al confronto. Un clero che “accusa sé stesso” mostrando così timor di Dio, invece di accusare gli altri, sempre secondo le parole di Francesco. La trasparenza dell’assemblea fa di questa riunione una pagina degli Atti degli Apostoli, dove pubblicamente e in assemblea plenaria si discuteva sulle questioni essenziali della fede evangelica.

            Il terzo grande merito di questa assemblea è il rapporto che ha voluto stabilire con le società civili di ogni nazione in cui la Chiesa è attendata. L’alleanza è, innanzitutto, con chi lotta contro gli abusi sui minori e si impegna, in vario modo, contro ogni violenza di tal genere. È così che l’atto penitenziale celebrato si trasforma in vera conversione, vale a dire non solo nel proponimento di cambiare rotta, ma nel diventare parte della soluzione. Vuol dire prendere impegni precisi e tassativi su cosa fare nel presente- futuro contro la “guerra” che, in tutto il mondo, viene portata, ogni giorno, ai bambini e ai ragazzi, alle donne e ai più deboli.

            Una conversione che è, del resto, un tutt’uno con la vocazione cristiana, la cui pura identità è dettata da Gesù: “Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha inviato a portare il vangelo ai poveri, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4,18). Proprio dai piccoli, dagli inermi, dagli esclusi, Gesù ha avuto la gioia più grande, poiché a loro il Padre ha rivelato il mistero del Regno dei cieli. Se la Chiesa non fosse leale nell’annuncio al mondo di questa Buona Notizia, non solo non resisterebbe, ma non avrebbe neppure ragione di esistere.

Per questi ed altri aspetti qualcuno ha parlato di inizio di Riforma della Chiesa cattolica. Noi ci speriamo e ci crediamo fermamente.

            La potenza del male. Nel suo discorso conclusivo Papa Francesco ha definito gli abusi sui bambini il segno tangibile del male. Criticando la debolezza dell’ermeneutica positivistica, ha affermato con forza che per una simile mostruosità non c’è spiegazione, né, tanto meno, giustificazione “umana”, poiché l’orrore supera l’uomo, al punto che dobbiamo ricorrere all’opera di Satana. Per chi avesse visto concretamente la devastazione degli abusi sulla carne dei piccoli questa idea non sarebbe affatto peregrina. Vedere neonati di un mese sfregiati con coltelli da cucina sull’inguine, o bruciati da mozziconi di sigarette spenti sulle parti più delicate e sensibili del corpo; bambini di meno di un anno letteralmente scotennati con geometrica cura; piccoli di quattro o cinque anni costretti a ingoiare pastiglie per fare cose che mai potrebbero fare, in condizioni di normalità, sul corpo del carnefice; beh queste e altre migliaia di fantasie del genere non possono davvero venire che dal Maligno. Tanto sembrano superare un livello di male compatibile col termine: “umano”. La pedofilia, o l’infantofilia, – e quanto è terribile l’equivoco linguistico! – non è fatta – ahimè! – di carezze, ma di violenza inaudita, mortifera, diabolica davvero, nel suo calcolo, nella sua programmazione, nella sua reiterazione, nel suo compiacimento della repressione e della sofferenza della vittima, nella malvagità del veder distruggere il germoglio dell’umano. Vale a dire di sé stessi! Quanto rende inevitabile l’interrogazione a Dio: com’è possibile che l’uomo sia capace di tanto?

            Una pagina della Bibbia risponde: “Io pongo dinanzi a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30,15). Dio ha dato all’uomo, in effetti, la facoltà di fare il bene, così come di fare il male. L’essere umano può volere e fare il male. Proprio per questo Gesù dirà sulla Croce: “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Non conoscono la potenza del male, lo sfregio sul corpo degli innocenti, che Gesù ha conosciuto. Per questo la guarigione dal male dei pedofili potrà venire non dalla loro eventuale, riscoperta virtù, ma dalla grazia delle loro vittime.

            Vittime e carnefici. Ciò che sorprende nel fenomeno della pedofilia è, ancora, l’elemento degli ambienti nei quali si consuma: la famiglia, innanzitutto, poi la scuola, la palestra e la chiesa. I luoghi in cui non solo i bambini, ma tutti noi viviamo e i nostri figli crescono fidandosi e affidandosi. E qui si impone il tema delle donne e delle madri. Com’è possibile che le madri non vedano o non sappiano, non si accorgano, o non denuncino, non sottraggano i loro figli ai mariti e padri, agli zii e nonni? Che succede alle madri? Se pure le cinghiale diventano aggressive e capaci di sbranare chiunque si accosti ai loro neonati, perché le madri dei bambini violati, anche fin da piccolissimi, non sempre si rivoltano ai loro congiunti o agli altri che ne approfittassero? In quali condizioni versano le madri dei bambini e dei ragazzi che subiscono stupri o violenze pedofile? Spesso violentate esse stesse, vivono nel terrore. Ricattate e senza lavoro, non possono pensare di liberarsi dai loro uomini feroci. Spesso private da ragioni antiche di consapevolezza, di forza interiore, sottomesse nelle coscienze al potere maschile ed ai suoi arbìtri. Sole e senza dignità, né parola, né alcuna facoltà di agire.

            Ho conosciuto donne nate da stupri – consumati da uomini vecchi su membra poco più che bambine – stigmatizzate e isolate – anche fisicamente – nelle scuole religiose come “figlie del peccato”. Un fatto che appartiene al passato, quando nessuno denunciava simili cose, ma che ci fa capire come sia verosimile che il crimine del pedofilo diventi, paradossalmente, l’origine del senso di colpa che schiaccerà il cuore della vittima.

            Il pensiero delle donne. Accanto a queste povere donne e madri, ci sono state, però, e ci sono in numero sempre crescente, le donne che gridano contro queste mostruosità, che denunciano, che mettono in pieno il loro impegno, la loro forza e il loro coraggio, la loro cura per trarre dal magma dell’orrore, sia i figli, sia le madri; sia le bambine, sia le donne.

            Statisticamente, nella famiglia, come nella Chiesa, così come in altri ambiti della società civile, la pedofilìa è praticata in grandissima parte da uomini per cui, oltre alla conversione degli stessi – di cui vediamo, oggi, promettenti esempi – dovranno essere le donne a far da muro critico e di protezione tra padri e figli/e, tra vecchi e bambine/i; tra neonati di ogni sesso e maschi adulti malati o in cerca di affermare la loro smania di potere.

            Un “muro” che si traduca in una strada per fare esperienza di relazioni sane e mature; che assuma parole e compiti di educazione e formazione della persona, affinché si diventi capaci, tutti insieme, di autentici rapporti umani, che non possono prescindere dall’affettività, dalla moralità e dalla spiritualità. Che porti a reclamare la paternità degli uomini, sempre più spesso disertata o rifiutata dagli stessi, attratti dal mito di un’eterna adolescenza. Il delitto della pedofilia è il delitto dei padri che rapinano la vita ai propri figli, e, nella Chiesa, il peccato che rende il mondo orfano di Dio e sospetta anche la Sua paternità.

            Noi donne di ogni fede e cultura, non dobbiamo renderci complici dell’omertà, ma dobbiamo combatterla con decisione e radicalità; dobbiamo superare la paura maturata in secoli di sottomissione, ricatto, violenza e dipendenza che ci hanno fatto “snaturare” persino l’identità femminile e materna, al punto di indurci, talvolta, anche a una tragica e passiva connivenza.

A proposito della pedofilia nella Chiesa, lo storico Alberto Melloni ha dato un’origine molto chiara, ponendola, proprio, nel silenzio delle donne che venne loro imposto, pochi anni dopo la nascita del Cristianesimo, contro la logica evangelica (cf Repubblica 20 febbraio 2019).

            Papa Francesco ha pronunciato parole preziose a proposito della donna, dopo la relazione di Linda Ghisoni: “dare più funzioni alla donna è buono, ma dobbiamo valorizzare il suo pensiero”, ha detto. Sì la Chiesa cattolica ha bisogno di un “pensiero femminile” che aiuti a liberare e promuovere un fecondo pensiero maschile, così da farsi interprete, con esso, di quel “pros tò simpheron” “quel bene di tutti” che è la costruzione del “corpo” della Chiesa (cf. 1Cor 12,7).

            L’integrità e la comunione della Chiesa è, infatti, l’unica, autentica testimonianza del Corpo del Signore: insultato, violato, flagellato, ucciso, come tante delle nostre povere creature, ma poi Risorto. E proprio ai fini della testimonianza della Resurrezione, indispensabile è il pensiero e l’esserci appieno della donna, sentinella che veglia nella notte, sospingendo la luce sull’alba del Risorto, proprio come hanno fatto le donne dei Vangeli.

Rosanna Virgili, biblista

          www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/contro-la-guerra-ai-bambini

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ALIENAZIONE PARENTALE

La Cassazione torna su alienazione genitoriale e ascolto dei figli

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 13274, 16 maggio 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_34666_1.pdf

La sentenza 13274 della Corte di Cassazione è stata salutata con entusiasmo da quanti da tempo vorrebbero che fosse abolita ogni sanzione nei confronti di chi manipola i figli allo scopo di indurre in essi il rifiuto dell’altro genitore; a volte, purtroppo riuscendoci.

Alienazione parentale: le tesi negazioniste. Traspare in questo gruppo di opinione il convincimento – anche se non sempre espresso esplicitamente – che se c’è rifiuto questo è conseguenza di abuso o maltrattamento; sistematicamente. Gli argomenti tipicamente utilizzati dai negazionisti attengono alla personalità – indubbiamente discutibile – di chi ha introdotto i relativi concetti (l’americano Richard Gardner) nonché ad altre tesi dal medesimo sostenute su altre questioni. Altro centrale spunto è costituito dal termine con cui a suo tempo venne definita la fenomenologia: “Parental Alienation Syndrome”, PAS. Poiché a livello accademico è stato (prevalentemente e provvisoriamente) considerato improprio parlare di “Sindrome”, ovvero di patologia, molti, anche assai titolati e con largo seguito, se ne sono fatti forti per concludere che “non ha senso discutere di qualcosa che non esiste”; evidentemente confondendo il comportamento, oggettivo e innegabile, con il termine con il quale può essere definito, del tutto opinabile e modificabile.

Adesso la Cassazione sembra dare ragione a tale folto gruppo nel momento in cui scrive “«La Corte d’appello ha dato risalto alla diagnosi di sindrome da alienazione parentale formulata dai consulenti tecnici», mentre «qualora la consulenza tecnica presenti devianze dalla scienza medica ufficiale come avviene nell’ipotesi in cui sia formulata la diagnosi di sussistenza della PAS, non essendovi certezze nell’ambito scientifico al riguardo il Giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass. n. 11440/1997) oppure avvalendosi di idonei esperti, è comunque tenuto a verificarne il fondamento (Cass. 1652/2012.». E in effetti il provvedimento che la Corte assume conferma l’interpretazione di una bocciatura della “PAS” e del ragionare attorno ad essa. Ma una più attenta lettura induce a pensare che la questione sia notevolmente più complessa.

            Anzitutto, quanto la stessa Cassazione riporta del provvedimento della CA in nessun passaggio classifica la vicenda come rappresentativa di una “sindrome”, avendo solo affermato che: “il comportamento materno aveva inciso nella diagnosi di alienazione parentale del figlio nei confronti del padre, avendo la R., come rilevato dal Tribunale, attuato “un progetto di esclusione del genitore alienato, mediante la sostituzione del padre biologico di I. con il nonno materno”. Naturalmente è indubbio che AP (Alienazione Parentale) è solo un nome diverso dato alla stessa cosa. Solo che questa non è un’obiezione, visto che la scienza non ha mai negato la fenomenologia – con tutte le sue drammatiche conseguenze – ma ha solo contestato la sua classificazione. Se ne trova evidenza nel Manifesto Psicoforense, firmato da 64 esperti nazionali della materia, dove si legge nel sottotitolo: “La comunità scientifica risponde a chi nega il diritto-dovere di sanzionare le manipolazioni. “Pas” un disturbo della relazione genitori-figlio non una malattia individuale.” E nella sequenza dei vari argomenti si afferma: “10. Si può discutere se a questo fenomeno sia opportuno dare un nome specifico … 11. Come per il maltrattamento, riteniamo che negare il fenomeno del rifiuto immotivato e persistente di un genitore significhi commettere un errore grossolano e fuorviante”.

Quindi, visto che “sindrome” e “PAS” non sono termini utilizzati dalla Corte di Appello e/o dai periti incaricati, tutta la tesi si smonta. Né questa posizione è prevalente solo nella comunità scientifica italiana. Uno studio internazionale di recentissima pubblicazione (J.J. Harman, E.Kruk, D.A. Hines, “Parental alienating behaviors: An unacknowledged form of family violence; USA e Canada, dicembre 2018) sostiene che “Despite affecting millions of families around the world, parental alienation has been largely unacknowledged or denied by legal and health professionals as a form of family violence. … The result of this review highlights how the societal denial of parental alienation has been like the historical social and political denial or other forms of abuse in many parts of the world (e.g., child abuse a century ago)”.

            I contraddittori posizionamenti della Cassazione sulla PAS. L’aspetto più curioso, tuttavia, può essere visto negli stessi precedenti che la Suprema Corte cita e sottolinea con enfasi. In particolare, dopo aver fatto riferimento al sopra riportato provvedimento del 2012 rinvia alla più recente pronuncia n. 6919 del 2016, nella quale si legge che “questa Corte ha affermato il seguente principio di diritto, con riguardo ad un’ipotesi di alienazione parentale: “in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”. Dopo di che rammenta che “Nella specie, i giudici di merito hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte del figlio ed hanno dato rilevo ad alcuni comportamenti della madre, ritenuti come unicamente volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore”. Appunto.

Rileggendo i motivi (1, 2, 4, 6 e 7) accolti dalla Suprema Corte, che tutti vertono sulla “contestata decisione di sottrarre un bambino all’ambiente materno, con il quale il rapporto – indipendentemente dalla ritenuta condotta “alienante” – non presentava altre controindicazioni, per collocarlo, per un semestre, non potendo stabilire un immediato inserimento nell’ambiente familiare paterno, a causa della forte avversione manifestata al riguardo dal minore, in una struttura educativa terza”, visto che il problema è il rifiuto, se questo è stato indotto da qualcuno non si vede come il giudice di merito avrebbe potuto ragionare e provvedere considerando tale fatto un dettaglio pressoché irrilevante e fare a meno di proteggere il figlio da quei condizionamenti con provvedimento diverso dal togliere potere al soggetto condizionante. A meno che non si ritenga che l’allontanamento (temporaneo!) dal genitore collocatario sia intollerabile, mentre quello permanente e consolidato dal non collocatario sia solo un difettuccio, una mera “controindicazione”, del tutto trascurabile se non ci sono altri appunti da muovere. Ovviamente non considerando che allontanare la fonte di un danno, la causa di un malessere, è il più ovvio e il più efficace strumento per soccorrere chi lo subisce.

            Un altro caso di “maternal preference”? Il vero motivo, quindi, per la bocciatura della decisione di Appello sembra risiedere nel trasparente orientamento ideologico della Suprema Corte che si muove a sostegno della madre, con la quale esplicitamente simpatizza perfino nel suo scontro con le istituzioni, ritenendola danneggiata da una presunta ostilità dei Servizi Sociali. In altre parole, la Suprema Corte interviene nella polemica tra i Servizi e una delle parti, che aveva ufficialmente proclamato di non voler collaborare, schierandosi senza alcun concreto riscontro al fianco della parte: “…emerge altresì dagli atti che la signora R., la quale ha sicuramente delle difficoltà psicologiche e caratteriali, è profondamente legata al figlio”, (certamente, visto che il problema è la manipolazione); e concludendo: “Emerge altresì un rapporto conflittuale tra la stessa R. ed i consulenti tecnici nominati in primo grado, i quali sono stati con lei rigidi e severi, non offrendole il necessario sostegno (calibrato sulla situazione psicologica della medesima).” Concetto ribadito poco oltre, come sostanzialmente fondante: “La sentenza di appello non sviluppa adeguate e convincenti argomentazioni sull’inidoneità della madre all’affidamento, in una situazione di forte criticità dei rapporti tra la R. ed i Servizi sociali; in un tale contesto, la rinnovata richiesta di una consulenza tecnica è stata dalla corte territoriale respinta, stante la sufficienza della relazione svolta dai consulenti tecnici nominati e l’atteggiamento non collaborativo tenuto dalla R. La decisione impugnata non spiega dunque per quale ragione l’affidamento in via esclusiva al padre, previo collocamento temporaneo dello stesso in una comunità o casa – famiglia, costituirebbe l’unico strumento utile ad evitare al minore un più grave pregiudizio ed ad assicurare al medesimo assistenza e stabilità affettiva”.

            Ora, se si riflette sul fatto che le consulenze tecniche psicologiche erano già state addirittura due, è evidente che la Cassazione – Corte di Legittimità – articola e motiva la propria decisione con valutazioni essenzialmente di merito che – è pressoché superfluo osservarlo – a parti invertite sarebbero state giudicate “non ammissibili”.

Valenza e obbligatorietà dell’ascolto e aspetti “monodirezionali”. D’altra parte, per rafforzare la propria decisione la Corte depreca che non fosse stato nuovamente sentito il figlio. ” il minore I. ha compiuto 13 anni nel corso del giudizio di primo grado (ed oggi ha 15 anni) ed è stato sentito dai consulenti tecnici nominati, su delega del Tribunale, in particolare da un neuropsichiatra infantile.”. A tale scopo si dilunga sull’obbligatorietà dell’ascolto, finendo per appellarsi all’art. 337-octies c.c. (“il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto interessato è fonte di nullità della sentenza”), che tuttavia non pare coerente con ciò che la Corte intende dedurne, visto che il condizionamento subito – dal giudice di merito assunto esistente – realizza per quel figlio esattamente la condizione di ascolto deviato e fuorviante, per gravi limiti alla facoltà di discernimento. La richiesta della ricorrente null’altro, difatti, intendeva ottenere che la conferma di quella stessa anomala condizione psicologica del figlio che stava alla base de procedimento. Così che il problema si sarebbe morso la coda.

            Si può dunque concludere che la decisione 13274/2019 sembra poggiare su una logica giuridica e pratica che lascia perplessi. E sicuramente non appare giustificato l’entusiasmo di chi sulla base di tale sentenza nega che i figli possano essere indotti a rifiutare uno dei genitori senza altra spiegazione che l’avversione dell’altro e il suo desiderio di vendetta o di ripartenza da zero, prescindendo dai diritti della prole.

Di non minore interesse è osservare come l’ascolto dei figli venga sempre invocato quando uno di essi vuole limitare i contatti con il “genitore non collocatario” ma, curiosamente, il problema del diritto del minore ad autodeterminarsi non viene mai posto nella situazione inversa: quando cioè – ben più frequentemente – non riuscendo a comprendere lo squilibrio nella frequentazione (“perché non posso vederti tanto quanto vedo …?”) un figlio vorrebbe ampliare tale contatto, andando contro le preferenze monogenitoriali del sistema legale. Ovvero manifesti le stesse aspirazioni paritetiche che attraverso la loro associazione “Figli con i figli”, questi hanno espresso recentemente in audizione in Senato. In definitiva, pare che la sensibilità verso l’interesse e i diritti dei minorenni sia a senso unico, come una sorta di carità pelosa.

Marino Maglietta 10 giugno 2019

www.studiocataldi.it/articoli/34927-la-cassazione-torna-su-alienazione-genitoriale-e-ascolto-dei-figli.asp

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ASSOCIAZIONI       MOVIMENTI

AICCeF. Le relazioni al tempo dei social e il consulente familiare n. 2

Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari – Salerno del 5 maggio 2019

Le relazioni al tempo dei social: effetto della socialità virtuale sulle relazioni

Nel secondo numero 2019 della Rivista Il Consulente familiare abbiamo pubblicato il resoconto principale della Giornata di studio, con la relazione della Presidente Stefania Sinigaglia e quella del prof. Paolo Benanti, che è stato il principale attore di questo approfondimento sull’età digitale e sulla sua influenza sulle relazioni umane e familiari.

Invece i resoconti dei 5 Laboratori, per questioni di spazio, sono stati pubblicati in modo sintetico, rimandando al sito Aiccef una più completa panoramica degli atti e degli audiovisivi che sono stati proiettati durante i lavori.

 Sul sito web, infatti, abbiamo la possibilità di pubblicare i video e le slide che sono stati proiettati in aula e nei Laboratori, e in più le foto digitali a colori dell’evento.

Per gli atti completi della Giornata di studio di domenica 5 maggio       https://ilconsulente41.blogspot.com

Atti del Laboratorio 1 di Sinigaglia e Siccardi              https://ilconsulente41.blogspot.com/2019/06/7.html

Atti del Laboratorio 2 di Margiotta                        https://ilconsulente41.blogspot.com/2019/06/6.html

Atti del Laboratorio 3 di Feretti e Roberto                  https://ilconsulente41.blogspot.com/2019/06/5.html

Atti del Laboratorio 4 di Ferrone, Bocchetti e Faicchia       https://ilconsulente41.blogspot.com/2019/06/4.html

Atti del Laboratorio 5 di Hawker e Qualiano               https://ilconsulente41.blogspot.com/2019/06/3.html

Il secondo numero 2019 della Rivista Il Consulente familiare tratta inoltre:

  • Lettera della Presidente Stefania Sinigaglia.
  • La giornata di studio a Salerno.
  • I laboratori della giornata.
  • A proposito di famiglia. Il “Codice rosso” tutela? Ivana De Leonardis
  • Essere Consulenti familiari. La lanterna del consulente.  Arianna Siccardi   
  •                                           La cultura della privacy. Riccardo Benedetti
  • Letto per voi.Vita da social. Comunicazione e relazioni ai tempi di internet Agostino Picicco. Rita Roberto
  • Visto per voi. Lei (Her) film di Spike Jonze. Davide Monaci
  • AICCeF notizie. Roma, Grosseto, Brescia, Milano, Campobasso, Roma,       
  • Beppe Sivelli. Attraversare la vita. Dalla libertà di perdonarsi alla liberta di sbagliarsi.

Gabriela Moschioni            

www.aiccef.it/it/news/tutto-su-salerno.html

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

                                                Newsletter CISF – n. 23, 12 giugno 2019

Dal condominio ai confini della nazione. “non sono problemi nostri”. Breve, stimolante e provocatoria video/metafora de “I Sansoni” sul tema dell’accoglienza e sul “voltare la testa dall’altra parte”. Per discutere e riflettere, con la giusta dose di ironia.   www.youtube.com/watch?v=T38TVnpq4fs

v  Il video si collega direttamente alla prossima Conferenza ICCFR-CISF che si terrà a Roma dal 15 al 17 novembre 2019, su “Famiglie e minori rifugiati e migranti. Proteggere la vita familiare nelle difficoltà” [Refugee and migrant children and families: Preserving family life through hard challenges]. E’ ancora possibile proporre workshop su esperienze innovative, modelli virtuosi di intervento, buone pratiche e nuove fonti di ricerca. La scadenza per la presentazione delle proposte di workshop è il 30 giugno 2019.

https://iccfr.org/iccfr-conference-2019-in-rome-italy-migrant-families-and-children/call-presenters-rome

Berlino (7 giugno 2019). Expert meeting sulla genitorialità dopo separazione/divorzio in alcuni paesi europei. Il Direttore del Cisf (Francesco Belletti) è intervenuto all’expert meeting organizzato da AGF (rete nazionale di associazioni familiari che operano in Germania) su “Parenting Arrangements during Partnership and after Separation in Europe – Social Plurality and Legal Framing” (Soluzioni genitoriali nelle coppie e dopo la separazione in Europa – pluralizzazione sociale e sistemi normativi), dove sono state presentate le situazioni di Germania, Spagna, Finlandia, Estonia, Francia, Ungheria, Croazia, Repubblica Ceca e Italia. Sono emerse fortissime differenze tra diversi Paesi, soprattutto rispetto alla possibilità di percorsi extra-giudiziali (prima del tribunale, come ad esempio in Finlandia), ma anche una forte omogeneità nella “mappa delle criticità”: tra le altre difficile gestione delle situazioni di conflittualità permanente nella coppia, fatiche negli accordi economici, necessità dell’ascolto dei minori e sue modalità più appropriate, residenzialità del minore presso un genitore prevalente o “alternate care” (doppia residenzialità paritetica).                                                                      www.ag-familie.de/home/index.html?en

L’intervento sul contesto italiano si è concentrato sul dibattito recentemente innescato dal Ddl 735/agosto 2018 [il cosiddetto Dd Pillon – vai al dossier completo degli atti parlamentari, con testo del decreto e iter parlamentare, www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/comm/50388_comm.htm], che ha generato un incandescente dibattito in Parlamento e nel Paese. Vedi ad esempio le oltre 75 audizioni presso la Commissione Giustizia del Senato di associazioni, gruppi professionali, parti sociali ed esperti [vai al sito parlamentare per i testi integrali].            www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/documenti/50388_documenti.htm

In merito si segnala il primo commento di F. Belletti [13 settembre 2018, sul sito di Famiglia Cristiana], che già metteva a tema i principali nodi critici, confermati dal successivo dibattito.

www.famigliacristiana.it/articolo/divorzio-e-affido-dei-figli-una-nuova-legge-perche-la-vecchia-ha-fallito.aspx

Dalle case editrici

  • EMI, A casa nostra, I nuovi ragazzi della famiglia Calò, Ferrara N.
  • San Paolo, Un amore in più. La gravidanza e il tempo dell’attesa, Pace P.
  • Raffaello Cortina, Lo sviluppo delle relazioni. Infanzia, intersoggettività, attaccamento, Seligman S.
  • Barazzetta Elena, Genitori al lavoro. Il lavoro dei genitori. Innovare la conciliazione verso un equilibrio tra vita, lavoro, aziende e territorio, Edizioni Este, Milano, 2019, pp. 193, € 15,00.

Diventare genitori stravolge la vita in tutti i suoi aspetti, privati e pubblici. Modifica l’equilibrio in famiglia e il modo in cui si affronta il proprio ruolo di lavoratori […] Può la genitorialità essere vissuta come occasione di rinnovamento del processo organizzativo aziendale? Questo volume intende inquadrare proprio il tema della conciliazione vita-lavoro nella sua complessità indagando il nesso tra azienda e genitorialità con ricchezza di analisi e di dati non solo italiani, e con il contributo del racconto di alcune esperienze di neogenitori.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2319_allegatolibri.pdf

USA. American family survey 2018. 3.000 interviste su famiglia, valori, orientamenti politici e stili relazionali. Di estremo interesse i dati presentati nel rapporto di ricerca [vai al testo – in inglese, 114 pp. – English text] su un’indagine realizzata a fine 2018 su un campione statisticamente rappresentativo della popolazione adulta degli Stati Uniti. Vengono evidenziate, con ricca documentazione statistica, le correlazioni tra orientamenti politici e scelte familiari, valori e gruppi etnici, qualità delle relazioni familiari e comportamenti pro-sociali.

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf2319_allegato1.pdf

Sono presenti anche i rapporti di altri anni precedenti.              http://csed.byu.edu/american-family-survey

Costi e bisogni per la non autosufficienza. Dati aggiornati. A quanto ammontano oggi le risorse investite d al nostro sistema di welfare nell’assistenza continuativa e di lunga durata delle persone non autosufficienti, in particolare degli anziani? La spesa è cresciuta o diminuita negli ultimi anni? La sua composizione nel corso degli anni è cambiata? Un pregevole studio, pubblicato sul portale I luoghi della cura tenta di rispondere a queste cruciali domande, con un’analisi attenta dei dati istituzionali più recenti. Le conclusioni sono allarmanti: mentre il numero di anziani fragili cresce, la spesa complessiva per LTC (Long Term Care) rispetto al Pil risulta in contrazione nell’ultimo quinquennio (da 1,74% a 1,7%). Inoltre, a fronte di un aumento della parte sanitaria di detta spesa a carico del sistema pubblico dello 0,9% medio annuo tra il 2012 e il 2017, il finanziamento a carico delle famiglie è aumentato nello stesso periodo del 2,8%. Sembra dunque che il leggero rafforzamento delle risorse pubbliche per la parte sanitaria della spesa per la LTC non riesca a stare al passo con l’aumento dei bisogni di salute delle persone non autosufficienti, con conseguente spostamento degli oneri sulle famiglie. Diventa quindi urgente chiedersi: fino a quando le famiglie italiane reggeranno a questo carico?

www.luoghicura.it/sistema/finanziamento-e-spesa/2019/04/il-quadro-delle-risorse-per-la-long-term-care-a-partire-dai-principali-rapporti-di-settore

Remida famiglia. Un sistema informatico di consulenza giuridica per il calcolo degli assegni di mantenimento del coniuge e dei figli. Interessante presentazione ad Agosta (Roma) di Remida Famiglia, realizzato da Gianfranco D’Aietti, già Presidente del Tribunale di Sondrio e giudice della trasmissione televisiva Forum (in onda sulle reti Mediaset). Sono intervenuti diversi rappresentanti di associazioni, enti locali e operatori del sistema giudiziario.

www.aracne.tv/video/remida-famiglia-1.html?s=fbmicso&e=868

Alba film festival: giugno 2019. Collegato al Festival Biblico-Alba appena concluso e con il Festival Mirabilia, il Centro Culturale San Paolo di Alba ha promosso un interessante ciclo di film, tra Alba, Busca e Torino, che intercettano diverse sensibilità e temi (dalla Polis alla bellezza della musica, passando per le memorie del crollo del Muro di Berlino dell’imperdibile Goodbye Lenin).

www.albafilmfestival.org/appuntamenti/item/378-alba-film-festival-2019-le-giornate-del-cinema

Capodarco L’Altro Festival – Premio L’anello debole 2019.  Voci e immagini per il sociale e l’ambiente. Quest’anno il Festival (giunto alla XIII edizione) si terrà come sempre a Capodarco di Fermo (Marche) dal 24 al 29 giugno 2019. Le opere in concorso sono state divise in quattro sezioni: Audio cortometraggi (da 3′ a 25′), Video cortometraggi della realtà e Video cortometraggi di fiction (da 3′ a 25′), Video cortissimi (fino a 3′). La premiazione avverrà il 28 giugno 2019.

www.capodarcolaltrofestival.it/edizione-2019.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_12_06_2019

Webinar. L’azzardo e le nuove dipendenze. Il 26 giugno 2019, dalle ore 15 alle 17, si terrà il quinto Corso online di Formazione permanente specifica a cura dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Conferenza Episcopale Italiana. Relatori: Gabriele Mandolesi e Simone Feder – Campagna Slotmob per il contrasto all’azzardo in Italia. La partecipazione al Corso è gratuita ma è necessario iscriversi online.     https://salute.chiesacattolica.it/webinar-5-lazzardo-e-le-nuove-dipendenze

USA. AFCC. Negotiation Strategies for Family Law Professionals (Strategie di negoziazione per i professionisti del diritto di famiglia).  Questo webinar (in Inglese/English spoken) è proposto da Andrea Schneider, esperta di mediazione/gestione dei conflitti e autrice di diversi volumi sul contesto statunitense. Il webinar partirà dalle tecniche usate dagli avvocati, per poi interpellare tutte le altre professioni coinvolte. Particolare attenzione sarà dedicata alle strategie e alle tecniche per affrontare i comportamenti più aggressivi e sleali.

www.afccnet.org/Conferences-Training/Webinars/ctl/ViewConference/ConferenceID/291/mid/772

L’inclusione scolastica per gli alunni e studenti con disabilità. Anffas Nazionale, in collaborazione con il Consorzio “La rosa blu”, organizza un corso di formazione distanza (FAD), “che consentirà a tutto il personale del comparto scuola ed ai familiari di sapere “cosa fare, quando farlo e come farlo” per garantire il pieno diritto all’inclusione scolastica, a partire dal primo giorno di scuola. Il tutto assume particolare rilevo anche alla luce delle novità introdotte dal decreto legislativo n. 66/2017 e dal suo correttivo. Il corso riporterà uno specifico approfondimento anche sulle ulteriori modifiche in via di approvazione proprio in questi giorni” iniziativa accreditata al MIUR sulla piattaforma Sofia (id iniziativa 31716 – id edizione 45894) e prevede un contributo economico a carico dei partecipanti (è possibile utilizzare anche la “carta del docente”).

www.formazioneanffas.net/home/46-2a-edizione-iniziativa-formativa-l-inclusione-scolastica-per-gli-alunni-con-disabilita.html

Sarà possibile accedere alla piattaforma 24 ore su 24 da qualsiasi dispositivo mobile (pc, tablet e smartphone) e scaricare il materiale didattico visualizzato durante le video lezioni. Iscrizioni dal 10 al 30 giugno 2019.

 

Iscrizione                  http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio        http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/giugno2019/5128/index.html

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CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA

Disforie di Genere: supporto al percorso di transizione

Il corso intende fornire conoscenze e strumenti di intervento per affrontare il supporto alla transizione di genere nelle sue varie dimensioni (psicologiche, fisiche, sociali e giuridiche) e attuare interventi specifici.

Istituto di cultura italo tedesco, via dei Borromeo, 16, 35137, Padova

www.cisonline.net/eventi

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CHIESA CATTOLICA

Kasper sui ministeri ordinati

Il card. Walter Kasper, con la chiarezza e l’equilibrio teologico che lo caratterizzano, in un intervento sul Frankfurter Rundschau del 4 giugno 2019 scorso ha spiegato perché il sacerdozio ordinato alle donne non è possibile. Ha criticato anche lo sciopero di “Maria 2.0”, quale strumento inadeguato per promuovere le riforme nella Chiesa. Sulla questione dell’ordinazione dei “viri probati” non vede invece un ostacolo insuperabile in quanto non si tratta di un problema di fede, né il celibato è un dogma. Ha aggiunto, inoltre, di pensarla diversamente dal card. Müller sul problema dei tribunali amministrativi ecclesiastici, presieduti da laici, in quanto non giudicano la persona del vescovo ma alcune sue decisioni.

            Per quanto riguarda il ministero sacerdotale – ha affermato Kasper – «in base al Nuovo Testamento esiste una tradizione ininterrotta non solo nella Chiesa cattolica, ma in tutte le Chiese del primo millennio», secondo cui l’ordinazione sacerdotale e, di conseguenza, la consacrazione episcopale sono riservate agli uomini». «Questa tradizione è stata applicata anche nelle Chiese luterane e in quelle anglicane fino a circa l’ultimo terzo del secolo 20°».

Nella discussione sull’ordinazione delle diaconesse – ha aggiunto – «attualmente c’è poco movimento». L’interpretazione delle testimonianze storiche tra gli esperti qualificati è diversificata. Il papa a questo scopo aveva istituito una commissione che però non ha prodotto alcun chiaro risultato.

«Le donne fanno oggi molto di più delle diaconesse di un tempo». Non tutti i compiti di leadership nella Chiesa richiedono tuttavia la consacrazione, ha sottolineato Kasper: «Più importante mi sembra notare che già oggi le donne possono fare dieci volte di più come referenti pastorali di comunità, come ministre straordinarie dell’eucaristia e come lettrici, nella Caritas e catechesi, in teologia e nell’amministrazione, di quanto le diaconesse di un tempo abbiano mai fatto». Ogni diocesi e ogni parrocchia senza questo servizio delle donne «collasserebbe già domani», sostiene il cardinale. «Sarebbe importante rendere visibile liturgicamente questo servizio e riconoscerlo pubblicamente».

            Il cardinale ha espresso preoccupazione per le manifestazioni di protesta come «Maria 2.0» o il Tag der Diakonin (Giornata della diaconessa) con cui le donne cattoliche hanno dimostrato per l’ammissione agli ordini sacri. Ha detto di dubitare che uno sciopero nella Chiesa rappresenti un metodo appropriato: «In tutti i casi, non bisogna strumentalizzare la Madre di Dio». Ciò non esclude «che si debbano affrontare le domande che vengono poste e compiere al più presto i passi che sono possibili».

Kasper ha quindi sottolineato: «Santa Caterina da Siena non era né diaconessa né sacerdote, tuttavia ha fatto di gran lunga molto più di tutti i cardinali dell’epoca». Santa Ildegarda di Bingen ha letto delle prediche, pubblicamente, davanti al clero di Colonia e altrove, il libro dei Leviti in modo tale che oggi nessun vescovo e nessun papa potrebbe permettere. «Di donne così coraggiose, piene di Spirito Santo, ci si può servire anche oggi».

            Kasper si è detto curioso di vedere i possibili risultati del dibattito sulla riforma annunciata dai vescovi tedeschi. Nelle stesso tempo, si è mostrato scettico circa la capacità decisionale su problemi di portata universale nel contesto del «percorso sinodale» che, tra l’altro, non è ancora stato chiaramente definito. Decisioni vincolanti possono essere prese solo da un sinodo «su un chiaro fondamento canonico».

            Per esempio, ciò potrebbe avvenire nel sinodo per l’Amazzonia convocato da papa Francesco in autunno. «In quella regione ci sono otto conferenze episcopali competenti». Nel caso, per esempio, che i vescovi, di comune accordo, chiedessero di ordinare sacerdoti uomini sposati – i cosiddetti “viri probati” – «a mio modo di vedere, il papa sarebbe in linea di principio disposto a farlo».

            Alla rinnovata domanda secondo cui i problemi di fede devono essere decisi unitariamente sul piano della Chiesa universale, Kasper ha risposto che i “viri probati” non costituiscono un problema di fede. «Il celibato dei ministri ordinati ha un intimo rapporto con l’ordinazione, ma non è un dogma, non è una prassi immutabile. Io sono del tutto favorevole al celibato in quanto forma legata alla donazione totale di sé per la causa di Cristo. Ma ciò non esclude che, in situazioni particolari, anche degli sposati possano assumere il servizio sacerdotale».

Un’opinione diversa dal card. Müller. Nella lotta contro gli abusi nella Chiesa l’imperativo del momento è – secondo Kasper – «trattamento e prevenzione». È stato importante creare «spazi di apertura», ha affermato, «spazi, in cui le vittime possono parlare liberamente, dove trovano ascolto e dove poi vengono tirate le conseguenze in tutta apertura».

Il vescovo emerito di Rottenburg-Stuttgart ha spiegato che già allora aveva avuto il problema di trattare dei casi sospetti, ma le famiglie delle vittime si erano opposte facendo «massicciamente» muro. «Volevano ad ogni costo impedire che l’accaduto diventasse di dominio pubblico. Come vescovo avevo le mani alquanto legate riguardo alle possibilità giudiziarie di quel tempo. Perciò, la sensibilizzazione è l’alfa e l’omega».

            Diversamente dal suo collega, il card. Gerhard Ludwig Müller, Kasper si è dichiarato favorevole ai tribunali amministrativi ecclesiastici quali istanze a cui potersi appellare. Müller aveva esortato a considerare inopportuno che i laici potessero sedere in tribunale per giudicare i vescovi. «Io la penso diversamente» ha affermato Kasper. «Non si tratta di un giudizio sulle persone, ma sulle loro decisioni. Gli atti amministrativi della Chiesa devono corrispondere alle norme della Chiesa. Ciò dovrebbe essere una cosa ovvia e un presupposto dell’agire dei vescovi».

Inoltre, un tribunale amministrativo non emana nessuna legge, ma verifica soltanto il rispetto di quelle esistenti. «Se è avvenuto qualcosa nella Chiesa, ciò rafforzerebbe il significato di ogni vescovo in materia di legalità e di rispetto della legge. Chiedere a un vescovo che osservi le sue leggi o quelle di Roma non è ingiusto né lo limita indebitamente. Non toglierebbe nulla alla sua autorità in senso teologico, al contrario, la rafforzerebbe, contribuendo ad una maggiore trasparenza e credibilità.

TMG – KNA   13 giugno 2019/

www.settimananews.it/chiesa/kasper-sui-ministeri-ordinati

 

Clericalismo malattia della chiesa

Nell’ultimo articolo abbiamo ricordato le severe riflessioni di papa Francesco sugli abusi commessi da ecclesiastici, e in particolare sulla loro radice, da lui riconosciuta nel clericalismo. La cura additata, al di là dei provvedimenti da adottare caso per caso, è in primo luogo un sincero impegno di coscientizzazione su questa vera e propria malattia della chiesa, affiorante purtroppo anche in persone innocenti e insospettabili. Non intendiamo relativizzare i casi di abuso, solo ricordare che non sono tutto. Sarebbe evasivo curare solo le manifestazioni prescindendo dalle cause, o ricondurre tutto il problema al peccato e alla debolezza di singole persone. Dal clericalismo derivano l’abuso di potere e di coscienza e l’abitudine all’insincerità: possono sfociare nel crimine dell’abuso sessuale, ma anche in abusi di altro genere, meno riconoscibili e perseguibili – perché non sempre si configurano come reati –, ma non meno gravi. La riflessione è spesso scoraggiata dal suo essere una malattia antica, in cui le responsabilità sono a volte inestricabili. Si potrebbe definire il clericalismo in molti modi; per ora basti dire che è quell’abitudine mentale per cui negli ambienti e nelle strutture di chiesa, in linea di principio, il peggiore dei preti vale/conta sempre più del migliore dei laici quanto a credibilità, rappresentatività e forza decisionale.

Dopo aver preso le mosse dalle recenti dichiarazioni del papa, occorre tornare indietro e chiedersi come è possibile che questa malattia del clericalismo («… una perversione nella vita della Chiesa…, in quanto perverte quella che è la natura della Chiesa, del santo popolo fedele di Dio», dice papa Francesco, riconoscendola endemica nella vita consacrata, e tuttavia presente anche in molti che chierici non sono), abbia potuto mettere radici nella comunità dei credenti in Gesù di Nazaret.

Qui gettiamo uno sguardo sugli inizi della separazione dicotomizzante tra clero e laici. Agli inizi la dicotomia non c’è. Perché non c’è ‘clero’, e non ci sono quelli che chiamiamo laici, nemmeno come idea. La differenza di fondo è tra essere e non essere cristiano: una scelta forte, che di per sé basta a configurare la fisionomia della persona e a fondare una vita ‘altra’. I ministeri ci sono, e gradualmente prendono forma assumendo una fisionomia stabile nella Chiesa, ma non sono ancora sacralizzati.

Una digressione su ministri e ministre. Si sa che la parola ministro (minister) deriva da minus, che significa ‘meno’ (come ‘maestro’, magister, da magis, ‘più’). Ma le parole non hanno solo un significato e un’etimologia: hanno una pluralità di significati, hanno una storia e delle risonanze. Dopo la fine dell’antichità, e anche prima, minister comincia a evolversi: dal significato di servo a quello di ‘maggiordomo’, di amministratore di fiducia, di collaboratore più influente, più autorevole di chi comanda…, fino a diventare ‘uno che comanda’ semplicemente. In latino minister – finché significa semplicemente servo ed esprime un ‘meno’ – ha il suo femminile, regolarissimo: ministra. Poi, via via che il ministro non è più uno che obbedisce ma, sempre più, uno che ha potere, la parola perde il femminile: ministra scompare dall’uso. Quando poi viene ripescata, e siamo ormai nei nostri tempi e la parola appunto include l’idea di un potere, sembra che sia ‘strana’, che suoni male. (Come mai non suonava affatto così male, quando significava serva?). Nel linguaggio dell’informazione la parola viene reintrodotta negli anni ’80-’90, all’inizio però in modo critico, leggermente caricaturale. Solo di recente ha riconquistato la sua neutralità di messaggio; forse nemmeno del tutto. Così anche le (non moltissime) donne che ricoprono la carica di ministro tuttora preferiscono, di solito, venire indicate con il termine al maschile, come se fosse più rispettoso nei loro confronti o più serio e affidabile, e pazienza se dovesse succedere di sentir dire «il marito del ministro» – e succede! – dove non si tratta di una coppia omosessuale.

Padri maestri guide Ovviamente nella chiesa ci sono persone diverse, e quindi differenti carismi, capacità, funzioni; in ogni organismo complesso c’è chi deve assumersi delle responsabilità per tutti. Il pericolo si delinea quando vi entra lo spirito di potere, e soprattutto quando la funzione viene sacralizzata. In prospettiva cristiana, l’unica differenza tra le persone, è data dalla pienezza di risposta allo Spirito: che guida ogni persona e le chiese e la storia, senza sovrapporsi alle scelte umane, senza svuotarle…Ma anche la risposta allo Spirito è una realtà incompleta e dinamica in cammino di trasformazione, non può etichettare nessuno. Un passo del vangelo di Matteo (23,8-10), tanto famoso quanto apparentemente ininfluente nel vissuto ecclesiale, ricorda per bocca di Gesù a quelli che credono in lui di non chiamare «padre» nessuno sulla terra, e nemmeno «maestro» o guida. Ovviamente ciò non nega la paternità nel senso familiare e affettivo, e nemmeno l’importanza di una continuità e delle radici, del resto necessarie per poter andare oltre; non nega che dei maestri veri ci siano, per fortuna (e dei testimoni, in quanto tali superiori ai maestri, come ricordava Paolo VI); ma ricorda che queste figure non vanno assolutizzate e che nessuno resta o dovrebbe restare dipendente da padri o maestri per sempre – per quanto grandi e autentici possano essere affetto e riconoscenza ed eredità spirituale. Ed essere padre o maestro di qualcuno, pur se è importante e necessario, non fonda nessun primato.

Nella comunità dei discepoli di Gesù l’unico primato è quello del servizio. Nessuno l’ha negato mai, a parole. Ma sappiamo che di rado questa grande verità è stata visibile e riconoscibile, soprattutto quando dagli individui si passa alle realtà istituzionali, che maggiormente fanno e segnano la storia. Non si può dire in senso forte «siamo/ siete padri», «siamo/siete maestri», nemmeno quando si esercita davvero una paternità, con amore e per amore, o quando si insegna qualcosa a qualcuno sia pure molto bene. Anche perché chi è maestro in un campo, di solito, in altri campi ha bisogno di maestri; del resto anche nel proprio ne ha bisogno, se non vuole isterilirsi o essere una vox clamans in deserto. Nel senso forte semmai si può dire solo «siamo fratelli/sorelle», e comportarsi di conseguenza.

Vivere da cristiani ha bisogno di una riduzione dei ‘padri’ intesi come principio di autorità, di una valorizzazione dell’atteggiamento materno anche da parte degli uomini e delle istituzioni, e soprattutto di un incremento di fratelli e sorelle. (Non dimentichiamo mai di esplicitare il femminile, per favore! È pericoloso considerarlo contenuto nel maschile: a forza di esser contenuto viene assorbito…, alla fine sparisce).

Chierici/laici: da dove la dicotomia? Nel Primo Testamento la parola sacerdote, come il ruolo, è molto presente e importante, anche se singole figure sacerdotali non sempre compaiono in luce positiva; e comunque nell’Alleanza il ruolo del sacerdote è molto inferiore a quello del profeta – pensiamo ai due fratelli Aronne e Mosè. Nel Nuovo però le cose cambiano. La parola hierèus, sacerdote (connessa con hieròs, ‘sacro’) viene usata in un senso diverso. A volte può ancora indicare le ben note figure sacrali giudaiche o pagane, quasi sempre però in modo critico se non negativo. Si può dire che l’unico sacerdote proprio ‘buono’ offerto dai vangeli sia Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Anche lui teologicamente non esente da qualche ombra, come si vede nella sua relativa esitazione iniziale ad aprirsi al nuovo di Dio: a causa di questa esitazione dovrà restare muto fino alla nascita del figlio, perché chi non ascolta con cuore aperto non è in grado di annunciare. Nella parabola del buon Samaritano, in cui il laico-irregolare-samaritano è figura di Gesù, i due ‘uomini del sacro’, sacerdote e levita, proprio a causa del culto e dell’obbligo di purità non possono perder tempo a soccorrere un ferito mezzo morto – che, chissà, potrebbe anche essere morto del tutto, perciò contaminante per chi lo tocca… –, e rappresentano un completo fallimento nella ‘prossimità’. I sacerdoti di Gerusalemme poi (influenti, ricchi, sadducei negatori della risurrezione finale e, per opportunismo, un po’ collaborazionisti dei romani) sono presentati come nemici di Gesù, attivi nel volere la sua morte. Luca nel libro degli Atti dirà che nella primissima comunità cristiana di Gerusalemme «anche molti sacerdoti si accostavano alla fede» (At 6,7): compiaciuto e un po’ sorpreso, come chi racconta un miracolo della Parola.

La parola sacerdote nel NT è usata con senso pieno solo in riferimento a Cristo e a tutto il popolo cristiano. Per i ministeri ecclesiali, quando cominciano a esserci (apostolo profeta e maestro, nelle comunità paoline; episcopo presbitero e diacono a partire dalla fine del I secolo), i primi cristiani adottano termini non sacrali, presi dal linguaggio corrente e dall’amministrazione civile: apostolo è l’inviato, chiunque lo invii; l’episcopo è il sovrintendente, il presbitero, mutuato dal giudaismo sinagogale, è l’‘anziano’, diacono significa servitore – e il servizio, diakonìa, diventa un valore centrale nel vissuto cristiano. Per le funzioni ecclesiali si evita con ogni cura, senza eccezioni, il termine ‘sacerdote’ proprio del regime del sacro. È un regime che Gesù ha delegittimato per sempre. Le cose cambiano soprattutto quando da un cristianesimo di élite, eroico e almeno implicitamente critico verso il mondo circostante, si passa a un cristianesimo di massa. Non tutti hanno scelto di essere cristiani, non tutti si comportano di conseguenza, non tutti sono testimoni… Allora sorge il monachesimo, per il bisogno di ricordare le esigenze della vita nuova in Cristo. All’inizio non ha a che fare con il sacerdozio: nemmeno nel senso di Ordine sacro. Dopo il Mille però la chiesa comincerà a ordinare quasi tutti i monaci e a ‘monasticizzare’ i preti, con pesanti conseguenze.

Duo sunt genera christianorum. Il monaco camaldolese Graziano, autore verso il 1140 di un Decretum molto famoso (che influisce per secoli nella legislazione ecclesiastica, visibilmente almeno fino al Codice di diritto canonico del 1917), appare, se non come l’iniziatore, come il codificatore dei ministeri sacralizzati. E il passo più famoso del Decretum Gratiani è quello che comincia con l’espressione famosa e lapidaria: Duo sunt genera christianorum. Duo genera: due tipi, due categorie, due classi, due ‘caste’. Ci sono gli «uomini sacri» per definizione; e ci sono i laici, non considerati sacri da nessuno (certo nemmeno da loro stessi), anche se battezzati.

«Ci sono due classi di cristiani. Una è quella che, assegnata al servizio divino e dedita alla contemplazione e alla preghiera, conviene si astenga da ogni stordimento di cose temporali; e questi sono i chierici e i votati a Dio, come i conversi. Infatti klèros in greco corrisponde a sors in latino: perciò uomini di tal sorta si chiamano clerici, cioè eletti per sorteggio. Tutti loro infatti Dio li ha scelti per suoi…». E quegli altri, invece, a chi appartengono? A parte il fatto che Graziano, il quale è monaco, considera nella prima classe, anzi in business, solo i monaci – le cose che dice infatti non sembrano interamente riferibili ai preti – dire che Dio ha scelto per sé i chierici trasmette l’idea che tutti gli altri siano ‘massa’ non solo indifferenziata ma profana, siano estranei alle cose di Dio… (no, non diciamo un po’ antipatici a Dio, ma ci manca poco). «E questi in effetti sono re, cioè governano se stessi e gli altri nelle virtù. E così hanno il regno in Dio: e questo esprime la corona [dei capelli] sul loro capo. Hanno questa corona secondo l’uso della chiesa romana come segno del regno che si attende in Cristo. La rasatura del capo inoltre esprime la rinuncia a tutte le cose temporali. Essi, accontentandosi di avere da mangiare e da vestirsi, senza avere alcuna proprietà fra loro, devono avere tutte le cose in comune». E poi… ecco i laici: «C’è però un’altra classe di cristiani, e questi sono i laici. Infatti laos in greco è populus in latino. A questi è consentito possedere beni terreni, ma solo per uso […]. A questi è concesso prendere moglie, coltivare la terra, giudicare fra uomo e uomo, sbrigare i processi, mettere le offerte sugli altari, pagare le decime; e così potranno salvarsi, purché abbiano evitato i vizi operando il bene». La loro fisionomia di cristiani si riduce a una modestissima serie di concessioni e di obblighi, in cui l’essere cristiani non sembra neppure determinante. Ecclesialmente parlando, possono solo mettere le offerte sugli altari e pagare le decime. La santità non è per loro; e tuttavia «potranno salvarsi», grazie, purché si comportino bene, il che significa in sostanza obbedire alle direttive degli uomini di prima classe. E, soprattutto, pagare. Sappiamo che nonostante l’affinamento del linguaggio ecclesiale dopo il Concilio, nonostante il diffondersi di un concetto biblico importante qual è quello di popolo di Dio, continua ad essere ben difficile per chiunque dare della parola laico una definizione che non sia in negativo, fondata su ciò che non è, su ciò che non può fare.

Un’altra cosa va sottolineata, perché non a tutti è nota. Per noi oggi risulta naturale, dicendo laici, intendere uomini e donne, anzi, sembra che le donne siano laiche proprio per loro natura ‘cromosomica’, e non possano essere altro; invece nei primi secoli della chiesa, con nostro stupore, quando si parla di laici sembra di trovarsi dinanzi a una categoria particolare all’interno dell’insieme dei cristiani, caratterizzata (almeno nella chiesa di Roma) da certi diritti/doveri e prerogative. In breve, i laici hanno il dovere di pagare le decime, e il diritto di accedere «se ne saranno degni» alle cariche ecclesiastiche. Il fatto che vi possano accedere finisce col collocarli praticamente al primissimo livello o livello zero della gerarchia ecclesiastica: un livello indifferenziato e potenziale, da cui comunque sono escluse le donne. Anche perché di solito non sono libere di disporre di sé e dei propri beni, e non pagano nemmeno le decime alla chiesa: sono proprio fuori-casta. Escluse insieme ai minorenni, ai malati di mente e alle persone di condizione servile. (2- continua)

Lilia Sebastiani          “Rocca” n. 12, 15 giugno 2019

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201906/190614sebastiani.pdf

 

La liturgia a 60 anni dal primo annuncio del Vaticano II: pietre miliari, sfide e prospettive

Da un mese è uscito in Brasile un “Quaderno di teologia pubblica” che riprende una delle relazioni da me tenute al Convegno su papa Francesco, svoltosi a Porto Alegre nel maggio dell’anno scorso. Il testo è direttamente e integralmente accessibile.

www.ihu.unisinos.br/images/stories/cadernos/teopublica/140cadernosteologiapublica.pdf

Vorrei riprendere quel testo in italiano, con alcune piccole modifiche. Può essere una buona occasione per riflettere sulla liturgia, a 60 anni dall’annuncio del Concilio Vaticano II.

La liturgia a 60 anni dal primo annuncio del concilio vaticano II: pietre miliari, sfide e prospettive

“Magnum principium a Concilio Œcumenico Vaticano II confirmatum, ex quo precatio liturgica, ad populi captum accommodata, intellegi queat” (Magnum Principium, 1)

Per comprendere la condizione della liturgia a 60 anni dal primo annuncio del Concilio Vaticano II dobbiamo considerare, anzitutto, se davvero abbiamo compreso non solo “che cosa” sia avvenuto, ma “se” sia avvenuto qualcosa al Vaticano II. Come hanno detto, con il vantaggio di osservare gli eventi romani da 10.000 Km di distanza, sia J. O’Malley, sia G. Routhier, al Vaticano II è avvenuto un “evento linguistico” e un “cambio di paradigma” che nessuna ossessione per la continuità potrà mai negare o alterare. Il Vaticano II ci ha condotti a “rileggere la tradizione” con un altro approccio, con uno sguardo nuovo e diverso. Non anzitutto “dottrinale” o “disciplinare”, ma come narrazione e azione, come Parola e Sacramento. Il Concilio Vaticano II è un atto di fedeltà alla tradizione, che la libera dagli irrigidimenti dottrinali e disciplinari, e che esige di riconsiderare le “fonti” della tradizione. Tra le fonti non vi è né la dottrina, né la disciplina, ma, piuttosto la esperienza di parola rivelata ed ecclesialmente vissuta (Dei Verbum e Lumen Gentium), la esperienza della azione del culto rituale e della relazione al mondo come luogo dello Spirito (Sacrosantum Concilium e Gaudium et Spes), che poi, solo in seconda istanza, elaborano giuste dottrine e necessarie discipline.

            Il Concilio Vaticano II si è autointerpretato – tanto nelle parole di Giovanni XXIII quanto in quelle di Paolo VI – come “concilio pastorale”. Il fraintendimento di questa “indole pastorale” del Concilio ha spesso profondamente compromesso la comprensione corretta della riscoperta della liturgia come fons e del progetto di “riforma liturgica” che da questa scoperta è derivato.

Vorrei pertanto presentare, in ordine, i seguenti punti della mia argomentazione: anzitutto presenterei il senso della “indole pastorale” del Concilio Vaticano II (§.1) al cui interno prende senso, in primis, la riscoperta della liturgia come “azione elementare e originaria” della esperienza ecclesiale, che conduce alla Riforma (§.2) in vista della acquisizione di una “actuosa participatio” che è la forma di partecipazione coerente con la nuova natura che si era scoperta della liturgia, non come “cerimonia esteriore”, ma come “linguaggio elementare della rivelazione e della fede”.

Ma il cammino della Riforma Liturgica aveva, in sé, il progetto di una “riforma ecclesiale”. Il vero oggetto della riforma non è, infatti, la liturgia, ma la Chiesa. Per questo la resistenza alla riforma della Chiesa è emersa, anzitutto, come resistenza alla riforma della liturgia: esplicitamente tutto questo inizia dal 1988, che è la apertura della “terza fase” del ML (§.3). Negli ultimi tempi abbiamo assistito al concentrarsi della resistenza alla Riforma della Chiesa su due versanti principali, sui quali vorrei fare brevemente due esempi: da un lato la questione del “parallelismo” che dal 2007 vediamo ricomparire tra Vetus Ordo e Novus Ordo (§.4); dall’altro la resistenza contro la Riforma dei testi, che inizia nel 2001, con la approvazione di LA e di fatto il blocco della relazione vitale tra latino e lingue nazionali, con l’attribuzione al latino di un valore normativo sulla espressione in lingua diversa (§.5). Negli ultimi 6 anni, anche in campo liturgico, il Concilio Vaticano II è tornato a parlare e a ispirare. Le prospettive di maggiore momento vanno nella direzione di un rapporto tra “liturgia e cultura” non bloccato da schemi nostalgici, da parallelismi ipocriti o dalla sopravvivenza di schemi di interpretazione di tipo spudoratamente antimodernistico.

  1. Indole pastorale del Vaticano II: “sostanza di antica dottrina e formulazione del rivestimento”

Alla radice del Concilio Vaticano II sta una intuizione teorica e una profezia storica di prima qualità. Giovanni XXIII la formula durante il suo discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre del 1962, secondo la nota definizione che troviamo nel discorso Gaudet mater ecclesia pronunciato da Giovanni XXIII il 11 ottobre 1962 in apertura del Concilio Vaticano II, imposta una relazione tra “sostanza della antica dottrina del depositum fidei” e “formulazione del suo rivestimento”. Ciò non va compreso, come talvolta accade, nei termini di una “relativizzazione” della forma rispetto al contenuto, ma piuttosto come ha mostrato assai bene Giuseppe Ruggieri nel suo studio sulla “teologia di Giovanni XXIII”, al contrario, come recupero di una “mediazione storica” per un accesso “nutriente” alla tradizione: la “sostanza” dell’antica dottrina è ciò che nutre e fa fiorire la tradizione della chiesa, in forme sempre necessariamente nuove. Già per questo testo di apertura del Vaticano II dovremmo applicare il criterio filologico: l’originale è italiano, non latino, e tanto meno un italiano – o un portoghese – che è traduttor dei traduttor d’Omero!

            Ma anche Paolo VI, quando apre la II sessione del Concilio, meno di un anno dopo, in seguito alla morte di Giovanni XXIII e alla sua elezione, precisa che il Concilio si trova su una soglia decisiva:  «E’ venuta l’ora, a noi sembra, in cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé» (Paolo VI, 29/09/1963, Apertura II Sessione Concilio Vaticano II).

Se mettiamo insieme queste due affermazioni vediamo bene comparire la “differenza” – o “discontinuità” – che il Concilio Vaticano II rappresenta nella tradizione della Chiesa. Per assicurare una continuità, deve introdurre una discontinuità. Che possiamo tradurre in due principi:

  • Secondo la espressione di Giovanni XXIII non si tratta di considerare l’essenziale nel mutare dei rivestimenti, come potrebbe far pensare una lettura distratta. Si tratta, piuttosto del contrario: occorre assumere un “accesso complesso” al valore nutriente della tradizione. Sono le “diverse formulazioni del rivestimento” che di volta in volta fanno accedere le diverse epoche a ciò che della tradizione è nutriente e sostanzioso!
  • Secondo la espressione di Paolo VI, perché la Chiesa possa “meglio dichiarare ciò che pensa di sé” occorre che “esplori, ordini ed esprima” la verità con dichiarazioni diverse dalla dottrina e dalla disciplina che tradizionalmente aveva preso le forme, eminenti, di dichiarazioni dogmatiche e di canoni di condanna.

Un nuovo esercizio del magistero, più esplicito e autorevole – “cariare et graviore magisterio” – è in gioco per cogliere quelle dimensioni di fondo della esperienza cristiana che diventeranno, nei mesi e anni successivi a questi discorsi, Sacrosanctum concilium, Dei Verbum, Lumen Gentium, Gaudium et Spes. Con mirabile inclusione, a questi discorsi sulla “indole pastorale” seguiranno documenti che, in forma più o meno esplicita e coerente, daranno corpo a questo progetto, recuperando la “azione rituale”, la “parola rivelata”, la “relazione ecclesiale” e la “correlazione al mondo” come “esperienze del mistero”.

2. La liturgia come “azione originaria” (fons) e “azione comune” (per ritus et preces). In questo ambito, e con il vantaggio di un terreno già dissodato dal lavoro di due generazioni – ma anche con il vantaggio di un “pregiudizio cerimonialistico” che non identificava nella liturgia un “terreno delicato” nel dibattito teologico – Sacrosanctum Concilium propone una rilettura della azione rituale come “continuazione della storia della salvezza” di cui mette in rilievo, in una maniera davvero nuova, anche rispetto a Mediator Dei di Pio XII (1947) due aspetti della liturgia che diventeranno decisivi per gli sviluppi successivi:

  1. L’azione rituale è non solo “espressione esterna”, ma “esperienza originaria” di tutta la azione della Chiesa.
  2. L’azione rituale è azione comune a tutto il popolo di Dio, che è “comunità sacerdotale”.

Questi due principi riprendono una antica tradizione, che il primo millennio aveva ben conosciuto, ma che il secondo millennio latino aveva gradualmente appannato, fino a perderlo.

            Tutta questa novità della nozione di “azione rituale” diventa decisiva nel modo di impostare la “partecipazione del popolo”: tutti partecipano alla azione rituale. La “actuosa participatio” significa proprio questo. La liturgia non è dei chierici, ma della assemblea radunata, cui i chierici prestano servizio, come “umili servi nella vigna del Signore”.

L’emergere di questa nozione di “actuosa participatio”, per la quale tutti, mediante i “ritus et preces” possono “intelligere” il mistero pasquale, determina il sorgere di una esigenza di “riforma”. La riforma sarà lo strumento per poter trasformare il Vetus Ordo Missæ, le forme rituali tridentine, in una struttura rituale capace non solo di ospitare, ma di suscitare e di accompagnare la partecipazione dell’intero popolo di Dio alla azione liturgica. Il lavoro che inizia subito dopo la approvazione di Sacrosanctum Concilium, già dal 1964, porterà, nel giro di 25 anni, ad un totale rinnovamento degli “ordines” liturgici, con un lavoro accuratissimo di traduzione, adattamento, riformulazione.

 3. Una periodizzazione del ML per capire il nostro tempo: generatio æquivoca. Per capire che cosa è avvenuto dopo il 1988, dobbiamo ora fare un piccolo passo indietro. Perché uno dei vizi con cui spesso leggiamo la vicenda della liturgia “dopo il Concilio” è di non tener conto di ciò che vi è stato prima. In modo sintetico voglio ricordare che:

  1. Il Movimento Liturgico non è ciò che precede il Concilio Vaticano II, ma qualcosa di molto più ampio e complesso, e che arriva fino a noi. Inizia con premesse nel XIX secolo, poi ufficialmente agli inizi del XX secolo e arriva in una sua prima fase fino a MD, nel 1948;
  2. Dopo il 1948, quando si conclude la sua “fase profetica”, inizia una lunga fase, che arriverà fino al 1988, che possiamo definire “fase della riforma”. In effetti le riforme iniziano poco dopo il 1947, con la riforma della Veglia Pasquale e poi della Settimana Santa e tanti progetti già prima del Concilio. E arriva, come abbiamo detto fino al 1988.
  3. Nel 1988 accadono tre fatti epocali: 25 anni da Sacrosanctum Concilium, lo scisma lefebvriano e la approvazione del primo rito “inculturato” (Messale Romano per la Chiesa zairese). La riforma è compiuta e occorre “cambiare passo”, recuperando la priorità vera, che non è la riforma, ma la “actuosa participatio”. Il Concilio vuole la Riforma come strumento, ma la “partecipazione attiva” come fine.

In questa schematica ricostruzione iniziano due percorsi. Uno di graduale “assimilazione” dei riti riformati come “linguaggio rituale” della Chiesa. Dall’altro la resistenza della “societas perfecta” contro le nuove forme rituali. Gli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II sono lo spazio di un grande fenomeno di “resistenza”, che si esprime poi con ancora più forza durante il pontificato di Benedetto XVI. Da questa “resistenza ad oltranza” nascono anche autentici “mostri”, fondati su argomentazioni prive di fondamento, su forzature e su forme autoreferenziali di giustificazione davvero impressionanti, se guardate con gli occhi di soli 10 o 20 anni dopo. Esaminiamo i due principali “monstra” che sono stati generati dal “sonno della ragione liturgica” in questo periodo.

4. “Monstrum primum”: una teoria del “parallelismo universale” tra Vetus Ordo e Novus Ordo. Di punto in bianco, con argomentazioni senza alcun fondamento, nel luglio del 2007, papa Benedetto XVI ripropone la “vigenza” dei riti precedenti dal riforma liturgica, in parallelo con quelli riformati. Non solo per l’eucaristia, ma per tutti e 7 i sacramenti ed anche per anno liturgico, liturgia delle ore e sacramentali vari, tutto il repertorio di “Ordines” vigenti prima del 1969 viene riportato in vigore, sottraendo al potere episcopale ogni possibile controllo della liturgia diocesana e riservandone la competenza alla Commissione romana Ecclesia Dei. Si è trattato di una operazione spregiudicata sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista teologico, che ha introdotto gravi forme di distorsione nella pratica rituale ecclesiale, contagiando potenzialmente ogni parrocchia di un possibile dualismo che dal piano celebrativo passava, inevitabilmente, al piano ecclesiale, spirituale, etico, dottrinale. Un vero “vulnus” alla tradizione liturgica, una forma “irresponsabile” di perdita di controllo e di attribuzione di “autorità” a tutte le forme di passatismo, tradizionalismo nella Chiesa. Dando rilievo e sostegno a qualche “caso umano” e a non pochi “casi clinici”. Una chiesa che, dopo aver fatto una grande e accurata riforma, rimette in vigore, parallelamente, gli ordines precedenti, è sicuramente disorientata e rischia di diventare disorientante. In questo caso la “sfiducia nella Riforma” arriva al punto di legittimare ufficialmente la sua contraddizione, ipocritamente concessa “solo nella misura in cui accetti i riti riformati”.

5. “Monstrum alterum”: una teoria della traduzione “senza destinatario”. Il secondo “mostro”, invece, qualche anno prima, era stato introdotto all’interno della logica della riforma liturgica. La storia del “grave compito” di tradurre i testi liturgici aveva conosciuto diverse fasi dopo il Concilio, ma con la Istruzione “Liturgiam authenticam” (2001) veniva imposto un principio assoluto di “traduzione letterale”, come garanzia della fedeltà al testo latino, che aveva reso di fatto impossibile ogni buona traduzione. Le Conferenze Episcopali si trovavano pressate da una tensione irresolubile: o obbedivano alla normativa della Istruzione, e traducevano in modo incomprensibile per il loro popolo; oppure traducevano in modo comprensibile, ma non vedevano approvate le traduzioni da parte della Congregazione romana. Dal 2001 il disagio era sempre più cresciuto, fino alle proteste esplicite che negli ultimi anni erano arrivate dagli episcopati tedeschi, francesi, statunitensi, canadesi, italiani… In realtà il “blocco istituzionale” dipendeva da un duplice blocco teorico, che pretendeva di garantire la fedeltà secondo due principi troppo drastici: si imponeva di tradurre letteralmente e di tradurre senza interpretare. Un latino idealizzato era soltanto lo schermo di una invincibile paura della riforma liturgica e della forma di Chiesa che da essa sarebbe scaturita. Ed è assai significativo che anche in questo “secondo mostro”, come nel “primo”, la logica portante fosse quella di “sottrarre autorità” agli episcopati locali, sia in rapporto all’uso del Vetus Ordo, sia in rapporto alla determinazione delle lingue di traduzione. Sia in un caso, come nell’altro, la idealizzazione nostalgica di una “liturgia ridotta al passato” diventava la facile ideologia in cui spesso si spacciava come “liturgia di sempre” quelli che erano diventati i vizi e le abitudini reazionarie di settori della Curia romana, facilmente esportabili con il sigillo del potere ecclesiastico.

6. Dopo il marzo 2013: una provvidenziale ripresa della continuità con il Concilio Vaticano II. Con maggiore ampiezza ritengo ora di poter sondare il “cambio di passo” – per non dire di paradigma – che abbiamo ritrovato con la elezione di papa Francesco sul piano liturgico. Anche in questo caso vale la condizione favorevole di un Vescovo di Roma che è “nato ecclesialmente con il Concilio”. Non è certo un liturgista, né un – presunto o reale – esperto liturgista. Ma questa esperienza pratica e questa assenza di precomprensioni ideologiche gli ha permesso di dire e di fare alcune cose che sono rimaste come “pietre miliari” in questi 5 anni:

6.1. Il Concilio è irreversibile. Più volte ha detto, esplicitamente, la irreversibilità del Concilio Vaticano II. In fondo i due “monstra” si possono frenare e combattere solo se è chiara e univoca la “direzione comune di marcia”. Finché l’autorità più alta non è chiara su questo – se indica il Novum Ordo, ma anche il Vetus Ordo; se permette le traduzioni, ma solo se sono il “calco del latino – si genera inevitabilmente nell’unica Chiesa una divisione e una incomprensione sempre più grave. Levare ogni illusione a quei pochi – ma potenti – che sperano in una “reversibilità del Concilio liturgico” è stato finora un merito obiettivo del papato di Francesco.

6.2. Il “grande principio” riaffermato e sancito. Su questo punto, Francesco è intervenuto con un Motu proprio che assume un valore assai grande. Il titolo del documento si rifà al “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, ossia alla “comprensione dei testi liturgici” da parte del popolo di Dio, per assicurare la partecipazione all’azione celebrativa come “culmine e fonte” di tutta la azione della Chiesa.

Pur nella sua stringatezza di due sole paginette, che intervengono soltanto su un articolo del Codex Juris Canonici, il documento papale non rinuncia ad uno spazio di “argomentazione teologica” nel quale troviamo affermati almeno quattro principi che non ascoltavamo con tanta chiarezza da quasi 50 anni:

  1. Il “grande principio” della esigenza di comprensione della preghiera liturgica da parte del popolo.
  2. Il principio per cui la “parola” è mistero, ma ciò non dipende dalla “incomprensione”, bensì dalla profondità inesauribile del suo significato.
  3. In terzo principio è la “competenza episcopale sulle traduzioni”, che viene ribadita con forza, come eredità conciliare e come esigenza intrinseca al rinnovamento della vita liturgica del popolo di Dio. La composizione tra esigenze degli Episcopati ed esigenze della Santa Sede trova, con la riforma del Codice, più facile e felice correlazione.
  4. Il quarto principio è una “teoria della traduzione”, bene espressa nella frase: “fideliter communicandum est certo populo per eiusdem linguam id, quod Ecclesia alii populo per Latinam linguam communicare voluit.” ossia “bisogna comunicare ad un certo popolo nella sua lingua ciò che la Chiesa ha voluto comunicare ad un altro popolo con la lingua latina”.

Questa formulazione indica bene la importanza di tradurre non parola per parola, ma da cultura a cultura. Ciò che deve essere comunicato – la parola della salvezza – deve trovare espressione diversa quando entra in lingue e culture diverse. La corrispondenza tra lingue non è statica, ma dinamica. Irrigidire il “contenuto” in parole fisse conduce, irreparabilmente, a traduzioni incapaci di comunicare. La esigenza di un “glossario comune” non contraddice, ma giustifica questa scelta ordinaria.

Una delle conseguenze di questo documento è una preziosa riflessione sul tema della “fedeltà”. Che cosa significa, infatti, essere “fedeli al testo”? Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà, non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale. La logica del Motu Proprio è quella di una “riconsiderazione della periferia”: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo. Questo possono farlo non anzitutto funzionari romani, ma Vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare lingua. Possiamo vedere qui una ripresa del grande testo di Giovanni XXIII: la formulazione del rivestimento permette l’accesso alla sostanza della antica dottrina!

Un secondo aspetto, che dobbiamo considerare nel documento, è il superamento della illusione che si possa tradurre senza interpretare. Dietro alla distinzione tra “recognitio” e “confirmatio”, introdotta dal documento, sta, in fondo, la consapevolezza che non è possibile un atto di traduzione reale ed efficace, che non si cali nella particolare interpretazione che ogni lingua “diversa” offre del testo latino. Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche una interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale. Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda tra procedure, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia, poiché restituisce autorità alle Conferenze Episcopali locali. Una teologia della liturgia partecipata e una ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E la unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo.

            Il Motu Proprio sblocca la vita della Chiesa che celebra, ma rivela anche un grande desiderio di nuove motivazioni: tale desiderio dovrà essere colmato da una Nuova Istruzione, che sappia uscire dalle secche – non solo procedurali, ma argomentative – in cui ci aveva condotto Liturgiam Authenticam. Forse la stessa commissione che ha elaborato questo “provvedimento d’urgenza” potrà occuparsi di stendere una nuova Istruzione, che consideri accuratamente, serenamente e distesamente tutto lo sviluppo della Riforma già compiuto, nonché quello ricco e fecondo che resta ancora da compiere. Se Motu Proprio  ha riaperto un grande spazio ecclesiale di recezione della Riforma Liturgica, tale spazio, tuttavia, appare nel nuovo documento come una “foto in negativo”. Ossia dischiude competenze che devono prendere forma, carne e sangue. E devono farlo localmente. Senza poter mai escludere che la lingua nazionale sia vissuta non solo come “lingua di arrivo”, ma anche come “lingua di partenza” dell’atto di culto.

Per intendere bene questo passaggio storico, torna assai utile la riflessione più generale proposta di recente da Marcello Neri, sulla rivista on-line “Settimananews”, sotto il titolo “Il respiro corto delle Chiese locali”, da cui traggo questa bella immagine.

www.settimananews.it/lettere-interventi/il-respiro-corto-delle-chiese-locali

Essa affrontava con lucidità la difficoltà di una “imitazione di Francesco” che rischia sempre di approdare ad una retorica inefficace: “Detta in una battuta: la retorica cerca di imitare l’ispirazione ariosa di Francesco; la pratica approda a un immaginario ecclesiale lontanissimo da essa. Ossia, il desiderio sincero è quello di ritradurre in loco la realtà di Chiesa che egli vuole inculcare nei nostri cuori, ma alla fine pressiamo il tutto in un corsetto che non ha nulla a che fare con essa. E, si badi bene, lo facciamo noi che di Francesco siamo convinti estimatori, mica quelli che si oppongono in tutti i modi al suo corso.”

Questa osservazione vale, evidentemente, per tutto il complesso delle forme pastorali di una Diocesi o di un Chiesa nazionale. Ma si applica anche, in modo sorprendentemente efficace, anche alla recente storia della “recezione della Riforma Liturgica”. La quale, a partire da Liturgiam Authenticam ha ricevuto, dal centro, un messaggio forte e chiaro: il corsetto doveva essere così stretto che non si riusciva più neppure a respirare. Ora, a partire dal 1 ottobre 2017, con MP si è aperto esplicitamente uno spazio istituzionale per cambiare stile e prospettiva e muovere speditamente non solo “sulle orme del Concilio di Trento e del Vaticano I”, ma anzitutto su quelle del Concilio Vaticano II.

6.3. La Riforma è necessaria, ma non sufficiente. In conclusione possiamo identificare due linee di tentazione della recezione del Concilio Vaticano II e della sua “indole pastorale” sul piano della azione liturgica:

  1. La prima tentazione è quella che si illude che la Riforma Liturgica non sia necessaria e che il regime rituale della Chiesa cattolica possa, legittimamente, continuare come se il Concilio non ci fosse stato. Forse oggi anche il Prefetto della Congregazione del Culto è sottoposto in modo drammatico a questa tentazione. Tutti coloro che pensano in questo modo cadono facilmente in un gravissimo errore di valutazione: scambiano la causa con l’effetto e ritengono che la “questione liturgica” sia iniziata con il Concilio Vaticano II o comunque con le “riforma” introdotte già negli anni 50. In realtà l’atto riformatore è la risposta ad una “crisi” che lucidamente Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini Serbati e Prosper-Louis-Pascal Guéranger riconoscevano presente già prima del 1850!
  2. Il secondo fronte di tentazione, che è reciproco al primo, ma molto più insidioso perché molto più diffuso, ritiene che la Riforma sia necessaria, ma pensa che sia anche “sufficiente”. Ossia che sia bastevole “difendere” i nuovi ordines perché la liturgia possa prosperare. Ora qui deve essere molto chiaro che la difesa dei nuovi ordines, che sicuramente è un atto dovuto e necessario, non è affatto sufficiente per dare risposta alla “questione liturgica”. Solo una recezione capillare e di base della “forma rituale” introdotta dai Novum Ordo potrà affrontare la crisi e risolverla.

Dunque, la soluzione della “questione liturgica”, alla quale il Concilio e la Riforma hanno tentato di dare risposta, può trovare la sua via solo con una riscoperta della liturgia come “fons” per la identità cristiana. Anche qui, il carattere di “fonte” significa che, per tutti i battezzati, l’atto di culto liturgico sta all’inizio della loro identità ecclesiale e spirituale. Come è evidente questo recupero della “actuosa participatio” deve svolgersi mediante la maturazione di una nuova “ars celebrandi”, che valorizzi ciò che la tradizione chiamava “rubriche” e che oggi devono essere riconosciute come “linguaggi non verbali”. Per dire così, con le parole belle di Paul De Clerck, la cultura liturgica era passata “dal rosso al nero”, per scoprire il senso teologico della liturgia. Ora deve ritornare “dal nero al rosso”, per riscoprire la potenza dei linguaggi non verbali, su cui l’azione rituale non solo esprime, ma fa esperienza del mistero pasquale. Questa grande conversione ad una “razionalità più ampia” di quella semplicemente verbale è la via obbligata con cui la Chiesa cattolica riscopre la propria identità di popolo di Dio, di corpo di Cristo e di tempio dello Spirito Santo.

            Il “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, dunque, comporta una “intelligenza del mistero per ritus et preces” che implica non soltanto la “traduzione delle lingue”, ma anche la “iniziazione ai linguaggi non verbali”. Affermare la prima parte della “intelligenza” non significa affatto negare la seconda. Così, in modo plastico, la tradizione viene tradotta non solo se ci si rende finalmente conto che una “lingua africana” può dire cose che il latino “non riesce ad esprimere” – e quindi se avremo finalmente la coscienza che anche il latino, come tutte le lingue di Babele, ha punti ciechi e zone d’ombra, ma anche se un Papa, sotto la pressione di una nuova comprensione del Vangelo e della missione della Chiesa, compie il “gesto della lavanda dei piedi” della Messa in cœna domini in un carcere, con piedi di donne, condannate da tribunali e non cristiane. Il gesto rituale, così risignificato, dice nella immediatezza di un linguaggio non verbale, una identità periferica della rivelazione fede e un volto non autoreferenziale della Chiesa e dei cristiani. Anche su questo aspetto del necessario sviluppo liturgico in molti casi Francesco appare come “il miglior teologo”.

Andrea Grillo blog: Come se non     16 giugno 2019

www.cittadellaeditrice.com/munera/la-liturgia-a-60-anni-dal-primo-annuncio-del-vaticano-ii-pietre-miliari-sfide-e-prospettive

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CITTÀ DEL VATICANO

Documento vaticano sul gender: sì al dialogo sugli studi, no all’ideologia

Uno strumento per affrontare il dibattito sulla sessualità umana e le sfide che emergono dall’ideologia gender, in un tempo di emergenza educativa. Questo vuol essere il documento “Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione” a firma del cardinale Giuseppe Versaldi, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica, e dell’arcivescovo Vincenzo Zani, segretario del Dicastero.                         www.educatio.va/content/dam/cec/Documenti/19_0996_ITA.pdf

 

www.educatio.va/content/cec/it/congregazione-per-l-educazione-cattolica/attivita/-maschio-e-femmina-li-creo–per-una-via-di-dialogo-sulla-questio.html

L’obiettivo del documento “Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione” è di sostenere quanti sono impegnati nell’educazione delle nuove generazioni ad affrontare “con metodo” le questioni oggi più dibattute sulla sessualità umana, alla luce del più ampio orizzonte dell’educazione all’amore. In particolare è diretto alle comunità educative delle scuole cattoliche e a quanti, animati da una visione cristiana, operano nelle altre scuole, a genitori, alunni, personale ma anche a vescovi, a sacerdoti e religiosi, a movimenti ecclesiali e associazioni di fedeli.

La Congregazione per l’Educazione Cattolica, che ha preparato il testo, parla di “un’emergenza educativa”, in particolare sui temi dell’affettività e della sessualità davanti alla sfida che emerge da “varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la reciprocità e le differenze tra uomo e donna, “considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale”. L’identità verrebbe, quindi, consegnata ad “un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo”. Si parla di “disorientamento antropologico” che caratterizza il clima culturale del nostro tempo, contribuendo anche a destrutturare la famiglia. Un’ideologia che, tra l’altro, “induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina”, si evidenzia citando Amoris lætitia. Questo il contesto in cui si colloca il Documento che vuole promuovere, appunto, una “metodologia articolata nei tre atteggiamenti dell’ascoltare, del ragionare e del proporre”.

Un testo che si ispira al documento “Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale” del 1983 ed è anche arricchito da citazioni di Papa Francesco, Benedetto XVI, San Giovanni Paolo II, ma anche del Concilio Vaticano II, della Congregazione per la Dottrina della Fede e di altri documenti.

Dialogo con ascolto, ragionamento e proposta. Nell’intraprendere la via del dialogo sulla questione del gender nell’educazione, il Documento opera una distinzione fra “l’ideologia del gender e le diverse ricerche sul gender portate avanti dalle scienze umane”, notando che l’ideologia “pretende, come riscontra Papa Francesco, di ‘rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili’ ma cerca ‘di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini’ e quindi preclude l’incontro”, mentre non mancano delle ricerche sul gender che cercano di approfondire adeguatamente il modo in cui si vive nelle diverse culture la differenza sessuale tra uomo e donna. Il Documento specifica quindi che “è in relazione con queste ricerche che è possibile aprirsi all’ascolto, al ragionamento e alla proposta”.

Nel breve excursus storico sull’avvento delle concezioni gender nel XX secolo, si rileva come all’inizio degli anni ’90 si sia arrivati perfino a “teorizzare una radicale separazione fra genere (gender) e sex (sesso), con la priorità del primo sul secondo. Tale traguardo viene visto come una tappa importante dell’evoluzione dell’umanità, nella quale ‘si prospetta una società senza differenze di sesso’”. E in “una crescente contrapposizione fra natura e cultura”, le proposte gender confluiscono nel “queer”, cioè in una “dimensione fluida”, “al punto da sostenere la completa emancipazione dell’individuo da ogni definizione sessuale data a priori, con la conseguente scomparsa di classificazioni considerate rigide”.

Punti di incontro e criticità. Quindi, il Documento individua “alcuni possibili punti di incontro per crescere nella comprensione reciproca” nel quadro delle ricerche sul gender. Si apprezza l’esigenza di educare i bambini a rispettare ogni persona nella sua peculiare e differente condizione in modo che “nessuno, a causa delle proprie condizioni personali (disabilità, razza, religione, tendenze affettive, ecc.), possa diventare oggetto di bullismo, violenze, insulti e discriminazioni ingiuste”. Si sottolinea che un altro punto di crescita nella comprensione antropologica sono “i valori della femminilità, che sono stati evidenziati nella riflessione sul gender”. Si rileva l’immensa disponibilità delle donne a spendersi nei rapporti umani, specie a vantaggio dei più deboli: le donne realizzano “una forma di maternità affettiva, culturale e spirituale, dal valore veramente inestimabile, per l’incidenza che ha sullo sviluppo della persona e il futuro della società”.

In merito alle criticità che si presentano nella vita reale, si evidenzia che le teorie gender – specialmente le più radicali – portano ad un allontanamento dalla natura: “identità sessuale e famiglia” divengono fondate su “una malintesa libertà del sentire e del volere”. Il Documento si sofferma, poi, sugli argomenti razionali che chiariscono la centralità del corpo come “elemento integrante dell’identità personale e dei rapporti familiari”: “il corpo è soggettività che comunica l’identità dell’essere”. Il dimorfismo sessuale, cioè la differenza sessuale fra uomo e donna, è infatti comprovato dalle scienze, ad esempio dai cromosomi. Si rileva anche “il processo di identificazione è ostacolato dalla costruzione fittizia di un ‘genere neutro’ o ‘terzo genere’”. Ci si richiama poi ad alcuni esempi di analisi filosofica. La formazione dell’identità si basa proprio sull’alterità: nel confronto con il “tu”, si riconosce il proprio “io”. Ad assicurare la procreazione è proprio la complementarietà fisiologica, basata sulla differenza sessuale, mentre il ricorso a tecnologie riproduttive può consentire la generazione ma comporta “manipolazioni di embrioni umani”, mercificazione del corpo umano, riduzione del bambino a “oggetto di una tecnologia scientifica”. Ricordata anche l’importante prospettiva di un dialogo fra fede e ragione.

Proporre l’antropologia cristiana- Il terzo punto è l’offerta della proposta che nasce dall’antropologia cristiana. Il primo passo consiste nel riconoscere che l’uomo possiede una natura che non può manipolare a piacere. Questo è il fulcro dell’ecologia integrale dell’uomo. Si ricorda, quindi il “maschio e femmina li creò” della Genesi e che la natura umana è da comprendere alla luce dell’unità di anima e corpo, in cui si integra la dimensione orizzontale della comunione interpersonale e quella verticale della comunione con Dio. In merito all’educazione si sottolinea, quindi, che il diritto-dovere educativo della famiglia non può essere totalmente delegato né usurpato da altri, che il bambino ha diritto a crescere con una mamma e un papà e che proprio all’interno della famiglia possa essere educato a riconoscere la bellezza della differenza sessuale. Da parte sua la scuola è chiamata a interagire con la famiglia in modo sussidiario e a dialogare rispettandone la cultura. In questo processo educativo, centrale è a anche ricostruire un’alleanza fra scuola, famiglia e società, che possono articolare “percorsi di educazione all’affettività e alla sessualità finalizzati al rispetto del corpo altrui”, per accompagnare i ragazzi in maniera sana e responsabile. In questo senso si mette in luce l’importanza che i docenti cattolici ricevano una preparazione adeguata sui diversi aspetti della questione del gender e siano informati sulle leggi in vigore e in discussione nei propri Paesi.

Via del dialogo percorso per trasformare incomprensioni in risorse. Nelle conclusioni si ribadisce che “la via del dialogo – che ascolta, ragiona e propone – appare come il percorso più efficace per una trasformazione positiva delle inquietudini e delle incomprensioni in una risorsa per lo sviluppo di un ambiente relazionale più aperto e umano” mentre “l’approccio ideologizzato alle delicate questioni del genere, pur dichiarando il rispetto delle diversità, rischia di considerare le differenze stesse in modo statico, lasciandole isolate e impermeabili l’una dall’altra”. Si ricorda anche che lo Stato democratico non può ridurre la proposta educativa a pensiero unico, sottolineando la legittima aspirazione delle scuole cattoliche a mantenere la propria visione della sessualità umana. Infine, si ricorda anche, per i centri educativi cattolici, l’importanza di “un percorso di accompagnamento discreto e riservato”, con cui si vada incontro anche “a chi si trova a vivere una situazione complessa e dolorosa”. La scuola deve, quindi, proporsi come un ambiente di fiducia, “specialmente in quei casi che necessitano tempo e discernimento” e creare “le condizioni per un ascolto paziente e comprensivo, lungi da ingiuste discriminazioni”.

Debora Donnini – Città del Vaticano Vaticannews   10 giugno 2019

www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-06/doender-congregazione-educazione-cattolica.html

 

Cominciamo ad ascoltare davvero

Negli ultimi anni il Vaticano (papi, congregazioni e dicasteri) ha espresso diverse volte preoccupazione per la “teoria” e l’”ideologia gender”. L’ultimo documento della Congregazione per l’educazione cattolica, intitolato Maschio e femmina li creò, è il documento più completo sul tema apparso finora. Secondo il vaticanista del [nostro settimanale] America, Gerard O’Connell, il testo è frutto del lavoro della Congregazione e non è firmato da papa Francesco, perciò non va considerato la “risposta definitiva” al problema.

            Come sappiamo, teoria gender è un termine sfuggente. In senso lato, si riferisce agli studi sul genere e la sessualità e su come queste due realtà siano determinate dalla natura (e quindi dalla biologia) e/o dalla società (e quindi dalla cultura). Solitamente la teoria gender include gli studi sulle esperienze di gay, lesbiche, bisessuali, transgender e di tutti coloro che si considerano “queer”, altro termine sovente ambiguo che spesso (ma non sempre) implica la decisione di considerarsi al di fuori di categorie come maschio o femmina, omosessuale o eterosessuale.

Alcuni ritengono che la teoria gender rappresenti anche un’“ideologia” che tenta di imporsi sulle persone, “incoraggiando” o “obbligando” alcuni, specie i giovani, a mettere in discussione e a rielaborare la propria sessualità e il proprio genere. In alcuni ambienti cattolici, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, la teoria gender viene sovente collegata a una sorta di “colonialismo ideologico” che cerca di imporre a questi Paesi idee tipicamente occidentali, cosa su cui papa Francesco ha diverse volte messo in guardia.

Questo nuovo documento invita, molto giustamente, all’“ascolto” e al “dialogo”. Il sottotitolo è importante: Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione. È un esplicito invito al dialogo, che dovrebbe essere accolto da tutti. Parla di un “cammino”, il che indica che la Chiesa non ha ancora raggiunto la destinazione. Si concentra sulla “questione” della teoria gender nell’ambito educativo (il che lascia in qualche modo la porta aperta per quanto riguarda altri ambiti), ed è quindi indirizzato primariamente agli educatori e ai “formatori”, inclusi i responsabili della formazione dei sacerdoti e dei religiosi.

Un altro aspetto positivo del documento è il forte appello a “rispettare ogni persona nella sua peculiare e differente condizione” e la sua opposizione a “bullismo, violenze, insulti e discriminazioni ingiuste”; viene invece lodata la capacità di accogliere con rispetto “tutte le espressioni legittime della persona”.

            La conclusione del documento afferma il cammino del dialogo, che include “l’ascolto, il ragionamento e la proposta”, lasciando la porta aperta per ulteriori sviluppi ed evitando il duro linguaggio di altri pronunciamenti vaticani sulla sessualità, e in particolare sull’omosessualità.

            Permettetemi dunque di iniziare quel dialogo rispettoso a cui il documento invita, con la mia esperienza nel ministero per le persone LGBT.

            Cosa propone la Congregazione? In fondo (e non è una sorpresa) il documento non fa che ribadire la tradizionale visione cattolica della sessualità: uomini e donne sono creati eterosessuali e con ruoli sessuali e di genere fissi. Questa opinione, tuttavia, è contraddetta dalla comprensione attuale della maggior parte dei biologi e degli psicologi. I progressi contemporanei nello studio della sessualità umana e del genere vengono messi da parte dalla Congregazione in favore di una visione binaria della sessualità; persino l’espressione “orientamento sessuale” viene messa tra virgolette, come a voler mettere in discussione il concetto stesso.

La fallacia dell’argomentazione proposta sta in questa comprensione del genere: “Da questa separazione [del genere dal sesso] consegue la distinzione di diversi ‘orientamenti sessuali’ che non vengono più definiti dalla differenza sessuale tra maschio e femmina, ma possono assumere altre forme, determinate solo dall’individuo radicalmente autonomo”.

            Un’obiezione a tale affermazione è che ignora l’esperienza viva e reale delle persone LGBT; in effetti, i principali partecipanti al dialogo paiono essere filosofi, teologi, documenti e dichiarazioni pontificie, non biologi e scienziati, psichiatri e psicologi, le persone LGBT e le loro famiglie. Se queste persone fossero state ammesse alla discussione, la Congregazione avrebbe probabilmente trovato spazio per un concetto oggi largamente accettato, e cioè che la sessualità non è una scelta dell’individuo, ma parte integrante del modo in cui è stata creata.

            In effetti, per essere documento profondamente (sebbene implicitamente) radicato nella legge naturale, ignora ciò che oggi sappiamo sul mondo naturale, nel quale vediamo uomini e donne attratti dallo stesso sesso, uomini e donne che vivono tutta una varietà di sensazioni sessuali nel corso della vita, e uomini e donne che, nell’ambito della sessualità e a volte anche del genere, si pongono lungo un continuum più che in un punto fisso.

            La Congregazione suggerisce che l’identità di genere implichi una scelta deliberata da parte dell’individuo, ma le persone transgender raccontano di non aver scelto la loro identità, bensì di averla scoperta attraverso la loro esperienza di esseri umani in società.

            Il documento trascura inoltre le nuove scoperte e paradigmi scientifici sul genere, e si basa largamente sulla convinzione che il genere sia determinato esclusivamente dai genitali visibili: la scienza contemporanea ha invece dimostrato quanto sia scorretto (e a volte perfino pericoloso) questo modo di etichettare le persone. Il genere è determinato anche dalla biologia, dalla genetica, dagli ormoni e dalla chimica cerebrale: tutte cose non visibili alla nascita. Il documento fa largo uso di categorie “maschio” e “femmina” elaborate secoli fa, più che di metodi scientifici accurati.

            Si fa anche riferimento al concetto di “complementarietà”: in base al genere maschile e femminile, uomini e donne hanno ruoli separati. Scrive la Congregazione, in modo davvero sorprendente: «La donna è in grado di comprendere la realtà in modo unico: [sa] resistere alle avversità…»: e l’uomo no? Idee come questa rafforzano gli stereotipi e impediscono sia agli uomini che alle donne proprio di elevarsi al di sopra di quei costrutti culturali spesso (e a ragione) biasimati dal Vaticano.

            Il lato più infelice del documento è il modo in cui tratta le persone transgender. (È molto strano come, in un testo che parla di genere e sessualità, siano assenti le parole “omosessuale” e “omosessualità”.) Leggiamo questo passaggio: «Questa oscillazione tra maschio e femmina diventa, alla fine, una esposizione solo ‘provocatoria’ contro i cosiddetti ‘schemi tradizionali’ che non tiene conto delle sofferenze di coloro che vivono in una condizione indeterminata. Una simile concezione cerca di annientare la natura (tutto ciò che abbiamo ricevuto come fondamento previo del nostro essere e di ogni nostro agire nel mondo), mentre la si riafferma implicitamente».

            Secondo la Congregazione, le persone transgender sono “provocatorie” e cercano, più o meno consciamente, di “annientare il concetto di ‘natura’”. Gli amici e i familiari che sono rimasti accanto a una persona transgender che ha tentato più volte il suicidio, nella sua disperazione nel non riuscire a integrarsi nella società, o anche nella sua accettazione del fatto che Dio la ama, troveranno questa frase sconcertante, quando non offensiva.

            Forse la migliore risposta a queste frasi ci viene da un diacono cattolico, Ray Dever, che ha una figlia transgender e ha raccontato l’esperienza della sua famiglia sul mensile U.S. Catholic: «Chiunque abbia una sia pur minima esperienza con le persone transgender non può che rimanere perplesso di fronte all’idea che esse siano in qualche modo il frutto di un’ideologia: è un fatto storico che, molto prima che esistessero gli studi di genere e che venisse coniata l’espressione ‘ideologia del gender’, le persone transgender esistevano ed erano riconosciute positivamente in alcune culture».

            Il risultato a breve termine più probabile di Maschio e femmina li creò sarà il fornire argomenti ai cattolici che negano la realtà dell’esperienza transgender, che etichettano le persone transgender come dei meri ideologi e negano la loro esperienza viva e reale. Il documento contribuirà probabilmente a isolare ancora di più le persone transgender, ad aumentare la loro vergogna e ad emarginarle ulteriormente, loro che già sono emarginate nella loro Chiesa.

            Torniamo all’aspetto più positivo del testo, che mi auguro a lungo termine: l’invito all’ascolto e al dialogo. È un invito che sembra sincero. La Chiesa, come il resto della società, sta ancora imparando le complessità della sessualità umana e del genere. Il prossimo magari potrebbe essere ascoltare le risposte delle persone più interessate e coinvolte dal documento: le persone LGBT.

P. James Martin SJ   settimanale cattolico America (USA) 11 giugno 2019

Traduzione di Giacomo Tessaro       14 giugno 2019

www.gionata.org/il-documento-sul-gender-del-vaticano-cominciamo-ad-ascoltare-davvero-le-persone-lgbt

www.settimananews.it/lettere-interventi/cominciamo-ad-ascoltare-davvero

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 COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

VP Laera incontra la delegazione della Repubblica Democratica del Congo

Il 5 giugno 2019 a Roma, il Vice Presidente Laera ha incontrato una delegazione composta da alti funzionari ministeriali della Repubblica Democratica del Congo per riprendere la collaborazione interrotta negli ultimi anni a causa del blocco alle adozioni imposto dallo Stato africano. L’incontro, che si è svolto in un clima di viva cordialità, ha visto la partecipazione dei Commissari Guerrieri e Bardini e dei rappresentati degli Enti autorizzati ad operare sul territorio congolese, intervenuti nella seconda fase dell’incontro. 

Andre Kalenga Ka Ngoy, Capo Delegazione e Direttore del Gabinetto del Ministro della Giustizia, ha riferito sulla situazione delle adozioni internazionali nel Paese che sono, al momento, sospese in attesa di dare attuazione all’applicazione del nuovo Codice della Famiglia emanato nel 2016, nel quale è previsto che un organismo pubblico, non ancora costituito, gestisca le attività relative all’adozione internazionale.

Nelle intenzioni del legislatore congolese, questo nuovo organismo, ispirato ai principi della Convenzione de l’Aja, sostituirà la precedente struttura interministeriale rendendo il procedimento adottivo più organico e trasparente. Il Capo Delegazione, pur non essendosi espresso sui tempi di realizzazione di questo nuovo organismo, si è mostrato fiducioso sui tempi di realizzazione.

 Nel corso dell’incontro, il Vice Presidente Laera ha presentato una prima bozza di accordo bilaterale che la Repubblica Democratica del Congo riceverà a breve anche per via diplomatica, per dare avvio a una costruttiva collaborazione tra i due Paesi. Infine, la Delegazione congolese ha tenuto a sottolineare che la nuova legislazione dedicherà’ una maggiore attenzione al post-adozione ed ha invitato gli Enti Accreditati a produrre relazioni sui minori adottati dalle famiglie italiane. La visita in Italia della delegazione ha previsto diversi incontri con le famiglie che hanno concretizzato il loro progetto adottivo nella Repubblica Democratica del Congo utili a verificare il felice inserimento dei minori.

Comunicato stampa 10 giugno 2019

www.commissioneadozioni.it/notizie/vp-laera-incontra-la-delegazione-della-repubblica-democratica-del-congo

Adozioni internazionali, qualcosa si muove

Un accordo bilaterale con la Cambogia, la Slovacchia che riapre le adozioni, un incontro con la Repubblica Democratica del Congo… dalla Commissione Adozioni Internazionali arrivano notizie della ripresa di incontri con i Paesi d’origine. «È importante ma ancora non è abbastanza», dice la vicepresidente Laura Laera. Che da pochi giorni è in pensione ma proseguirà il suo incarico «fino alla sua scadenza naturale, nel maggio 2020»

Qualcosa (finalmente) si muove. Nell’ultimo mese sul sito della Commissione Adozioni Internazionali sono apparse diverse comunicazioni che riferivano di visite e incontri con delegazioni di alcuni Paesi d’origine: il Vietnam che ha presentato il nuovo decreto governativo sulle adozioni internazionali del marzo 2019, la Cambogia che ha riavviato la cooperazione bilaterale con l’Italia, la Slovacchia con cui abbiamo firmato un nuovo protocollo d’intesa e che riapre le adozioni chiuse nel 2012, ora un primissimo incontro con la Repubblica Democratica del Congo… Timidi segnali positivi. Ne parliamo con Laura Laera, vicepresidente della CAI.

Quanto è importante aver ripreso i contatti con i Paesi d’origine?

È evidentemente molto importante se vogliamo andare avanti con l’adozione internazionale. È importante ma ancora non è abbastanza, bisogna proseguire. Anche se ho capito che i tempi sono lunghissimi, mi piacerebbe fossero diversi ma non è così. Occorre proseguire e anche augurarsi che nei Paesi che hanno alle spalle un passato di scarsa trasparenza nelle adozioni, i nodi siano stati risolti. Per questo, per le riaperture, il mio invito è di muoversi con molta cautela.

Parliamo della Cambogia, da cui in passato sono stati adottati moltissimi bambini. L’accordo che avete firmato non è ancora una “riapertura” delle adozioni, ma una premessa importante. Fra l’altro un anno fa si parlava di una riapertura con soli due enti autorizzati, mentre la Cambogia ha confermato l’accreditamento per tutti gli otto enti italiani storicamente operativi nel Paese.

Questa è stata una sorpresa, perché negli accordi che si erano sviluppati nel corso dell’anno, per emendare l’accordo in vigore, la Cambogia aveva sempre chiesto che gli enti operativi nel Paese fossero solo due. Ora la Cambogia si è detta disponibile a far lavorare tutti gli 8 enti, ma parla di “raggruppamenti” e “cordate” e questo punto non è ancora ben definito. Quel che voglio dire è che l’Italia sarà il primo Paese ad adottare in Cambogia, si tratta di un Paese che riparte dopo una chiusura dovuta a problemi seri, con un nuovo sistema e nuove procedure… dovrà essere considerato come se fosse un Paese nuovo, la cautela è d’obbligo. Inizialmente ci saranno dei limiti in modo da poter seguire da vicino ogni pratica adottiva. Non possiamo pensare di partire con grandi numeri, l’inizio inevitabilmente sarà controllato.

È di pochi giorni fa la notizia di un incontro, a Roma, con una delegazione di funzionari della Repubblica Democratica del Congo per riprendere la collaborazione. Anche la RDC riapre?

Si tratta di una fase molto iniziale delle trattative, un po’ come eravamo un anno fa con la Cambogia. Il Paese si è dotato nel 2016 di un nuovo Codice della famiglia che prevede l’istituzione di una autorità centrale per le adozioni internazionali, che però non c’è ancora. Bisognerà anche qui capire quando istituiranno l’autorità centrale e come si potrà lavorare, ci vorrà tempo. Noi abbiamo già predisposto e presentato alla delegazione una prima bozza di accordo bilaterale, ora la invieremo anche per via diplomatica, con l’auspicio di dare avvio a una costruttiva collaborazione.

Si era parlato anche di contatti con il Sudafrica.

Per il momento non sono interessanti. Il Nepal, anch’esso, deve ancora istituire la sua autorità centrale… ci sono molti paesi in fase di rinnovamento, che è positivo. Purtroppo i tempi sono lenti. Il mondo in definitiva è piccolo, anche se di bambini in stato di abbandono ce ne sono tanti. Francamente penso che qualche Paese che sta chiudendo le adozioni internazionali dovrà riaprirle, ma non saprei dire quando e come.

E l’Etiopia?

È chiusa, silenzio totale. Torneremo fra un po’.

Alcune famiglie ancora di recente ci hanno scritto per chiedere maggiore supporto istituzionale.

Si tratta di coppie istradate, non c’erano abbinamenti.

Gira voce di un suo pensionamento a giugno.

Sono in pensione dalla Giustizia dall’8 giugno, ma il Presidente del Consiglio a novembre ha confermato il mio mandato fino alla sua scadenza naturale, che sarà il 9 maggio 2020. Il mio incarico quindi prosegue, solo non retribuito.

Sara De Carli             Vita.it  11 giugno 2019

www.vita.it/it/article/2019/06/11/adozioni-internazionali-qualcosa-si-muove/151859

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CONSULTORI FAMILIARI CATTOLICI

CFC – Un nuovo statuto per il cambiamento d’epoca con le radici nelle ispirazioni fondative

    Nelle giornate da venerdì 31 maggio a domenica 2 giugno 2019 si è tenuta a Siracusa una riunione del Consiglio Direttivo della Confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana. Oltre ai membri del consiglio direttivo hanno partecipato anche alcuni presidenti di federazione regionale, tra i quali la nuova Presidente della Federazione Sicilia, Dottoressa Barbara Crupi, allargando così il confronto e la condivisione della lettera e dello spirito di un Atto molto importante per la Confederazione. Oggetto centrale e primario della riunione è stato, infatti, l’adeguamento dello Statuto della Confederazione alle nuove norme scaturite dal riassetto del Terzo Settore.

In verità il lavoro di questi giorni è consistito nella limatura di un testo, punto di arrivo di un lavoro che ha visto la Confederazione impegnata su vari fronti e a vari livelli sul tema del Terzo Settore e che ha coinvolto specialisti delle materie giuridiche e amministrative interessate, le Commissioni interne alla Confederazione, le Federazioni regionali e i singoli consultori. Mentre i convegni di Milano nel maggio 2018 “I consultori familiari di fronte alla riforma del terzo settore” e quello ultimo di Roma nel marzo 2019 “Le trasformazioni statutarie dei consultori familiari”, caratterizzati da densità di contenuti e di partecipazione, hanno posto le basi culturali e tecniche della normativa di adeguamento, la stesura dello Statuto della Confederazione, con il suo aggiornamento, ha visto la traduzione pratica di tale normativa. In questa operazione è stato diretto il coinvolgimento della Commissione Giuridica, con l’apporto esperienziale e dottrinario del suo Presidente, il Professore Avvocato Raffaele Cananzi e del Dottor Paolo Pesticcio, specialista giuridico nella vasta area del Terzo Settore, il quale ha materialmente redatto le parti dello statuto inerenti a quest’ultimo.

Un supporto a latere non di poco conto e di evidente portata per la lettura della realtà, è stato quello offerto dai dati risultanti dal censimento dei consultori della Confederazione coordinato ed elaborato dal Presidente della Commissione Organizzativa, il Dottor Antonio Adorno. Tale censimento ha rilevato la grande varietà dei consultori della Confederazione i quali, benché unitariamente orientati al servizio alla famiglia, traducono questo servizio secondo le esigenze e le risorse presenti sul territorio, la cui comunità li genera con la sensibilità e la presa incarico delle problematiche familiari emergenti.

In questa revisione non si è trattato soltanto di norme, di dati numerici e di salvaguardie od altri aspetti a carattere legale. Queste cose, opportune e necessarie, e per certi versi ineludibili sono soltanto il mezzo, lo strumento, le condizioni sociali per obbedire al dettato primario, principale e fondativo della Confederazione che è la promozione dei consultori familiari, tramite le rispettive federazioni regionali, e perciò in ultima analisi della promozione della famiglia come ragione sociale e civile e delle famiglie, nella loro peculiarità esistenziale, come ragione immediatamente personale e di coppia. Il tutto alla luce dell’ispirazione cristiana, come ragione della salvaguardia dell’umanesimo integrale che, di suo, è orientato alla trascendenza. Vivere la realtà storica sociale e civile, anche attraverso l’interpretazione legislativa, con lo spirito della democrazia partecipativa e della sussidiarietà è già un fatto di per sé nobile e di alta assunzione di responsabilità, da ottemperare con scienza e coscienza. Se, inoltre, tale fatto è assunto nell’ambito di un credo religioso esso si riveste di maggiore responsabilità per essere orientato oltre che all’uomo anche al principio creativo della sua esistenza. Ispirazione cristiana che infonde umiltà al servizio e gioia per il grande progetto che Dio ha per l’Uomo. Così dai primi articoli del medesimo Statuto.

Che è uno statuto che guarda al presente con una visione rivolta all’avvenire, ai tempi nuovi, radicandosi nell’esperienza maturata. Che a ben vedere è una modalità che ha caratterizzato sin dall’inizio l’avvicendarsi degli statuti della Confederazione, che negli anni si è data gli strumenti più opportuni per operare per il bene della famiglia. Si tratta quindi di un aggiornamento rinnovativo nella continuità che, rispettando l’idea originaria ed ottemperando al preciso mandato affidatole, la stessa Confederazione trae il meglio dall’azione compiuta, dall’esperienza elaborata, dalla cultura prodotta, dalla storia vissuta, lungo la sua  più che quarantennale attività sociale svolta per il bene dei consultori, attraverso la loro diffusione nella diversità sociale e territoriale, la formazione dei loro operatori, l’assistenza tecnica giuridica e organizzativa, la loro promozione presso i rappresentanti della società civile e religiosa.

Per inciso, possiamo anche qui osservare, nel caso ce ne fosse bisogno, che non sono stati celebrati invano i due Sinodi per la Famiglia e che non è venuta invano l’Esortazione Apostolica Amoris Lætitia. Non c’è in ballo, infatti, soltanto il fattore Terzo Settore. Entra di dovere e di diritto il cambiamento d’epoca, più volte allertata da Papa Francesco nella sua instancabile attività pastorale. Cambiamento d’epoca nel quale sono chiamati ad operare i consultori familiari e, perciò, anche la Confederazione, in tutte le componenti della sua compagine del sapere e del fare, poiché le famiglie stanno vivendo questo cambiamento nella concretezza del quotidiano, negli interstizi delle proprie relazioni e in rapporto con gli eventi grandi e piccoli dell’umanità, come possiamo facilmente osservare con i nostri occhi. I nostri consultori stanno già affrontando questa sfida e lo Statuto della Confederazione ne è testimonianza.

Ci troviamo davanti ad un prodotto ben strutturato nelle sue parti, non soltanto capace di produrre efficienza, efficacia e appropriatezza, ma anche di generare stimolazione ideale e valoriale, adeguato ai Tempi che viviamo, all’Umanità che viviamo. Queste dimensioni, riversate nel testo, trasparivano dal senso di responsabilità, intesa, partecipazione, collaborazione ed intenzionalità nel confronto aperto, franco e motivato dei presenti al Consiglio Direttivo di Siracusa e di quanti, impossibilitati a partecipare, avevano inviato per iscritto i loro contributi integrativi e correttivi.

Accanto a questo contesto umano degli ultimi revisori dello Statuto, che sarà tecnicamente sottoposto all’approvazione finale dell’Assemblea della Confederazione che si terrà a Roma venerdì 28 giugno 2019, diviene significativo evidenziare alcuni elementi e condizioni ambientali, che seppure nella loro materialità possono essere colti come realtà che custodiscono ed esprimono contenuti ideali, secondo il principio dell’interazione tra persona, comunità e territorio.                  (…)

Tornando al Consiglio Direttivo di Siracusa è doveroso rivolgere un vivo ringraziamento a quanti hanno contribuito alla stesura ottimale dello Statuto, che sarà riferimento per la Confederazione nei prossimi anni, per l’impegno profuso, il confronto condiviso, la corresponsabilità assunta, la lungimiranza manifestata. Un grazie sentito va rivolto al Presidente, Don Edoardo Algeri, che ha fortemente voluto questo Consiglio Direttivo perché lo Statuto fosse il prodotto di un lavoro collegiale il più partecipato possibile. Un altro vivo ringraziamento va a coloro che hanno contribuito all’apprezzata riuscita della riunione del Consiglio Direttivo in tutte le sue fasi. Soprattutto ad Agata Pisana, Presidente del consultorio familiare di Ragusa, Vicepresidente della Federazione Sicilia e, tra altro, Coordinatore didattico e docente Master socio-educativo e familiare Istituto “Nino Trapani” di Siracusa, per il tempo, l’accuratezza, la disponibilità, la gentilezza e l’attenzione infaticabile di cui tutti e ciascuno siamo stati fatti oggetto. Ci porteremo per un po’ di tempo l’accoglienza e l’ospitalità e la sollecitudine onnipresente, che lei ci ha brindato e di cui abbiamo largamente fruito. Congediamo questo scritto salutando la Federazione Sicilia, auspicando per i suoi consultori un rinnovato vigore ed una crescita rigogliosa.

Pantaleo Nestola        12 giugno 2019

www.cfc-italia.it/cfc/index.php/2-non-categorizzato/446-cfc-un-nuovo-statuto-per-il-cambiamento-d-epoca-con-le-radici-nelle-ispirazioni-fondative

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DALLA NAVATA

Santissima Trinità – Anno C – 16 giugno 2019

Proverbi         08, 22. Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine.

Salmo              08, 05. Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi

Romani           05, 05. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Giovanni         16, 13. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.

 

La Trinità comunione d’amore, flusso di vita divina

Verrà lo Spirito e vi annuncerà le cose future. Lo Spirito permette ai miei occhi, chini sul presente, di vedere lontano, di anticipare la rosa che oggi è in boccio, di intuire già colore e profumo là dove ora non c’è che un germoglio.

            Lo Spirito è la vedetta sulla prua della mia nave. Annuncia terre che io ancora non vedo. Io gli do ascolto e punto verso di esse il timone, e posso agire certo che ciò che tarda verrà, comportarmi come se la rosa fosse già fiorita, come se il Regno fosse già venuto.

            Lo Spirito prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio. In questa scambio di doni cominciamo a intravedere il segreto della Trinità: non un circuito chiuso, ma un flusso aperto che riversa amore, verità, intelligenza oltre sé, effusione ardente di vita divina.

            Nel dogma della Trinità c’è racchiuso il sogno per noi. Se Dio è Dio solo in questa comunione, allora anche l’uomo sarà uomo solo in una analoga relazione d’amore.

            Quando in principio il Creatore dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26), se guardiamo bene, vediamo che Adamo non è fatto a immagine del Dio che crea; non a immagine dello Spirito che si librava sulle acque degli abissi, non a immagine del Verbo che era da principio presso Dio.

            Molto di più, Adamo ed Eva sono fatti a immagine della Trinità, a somiglianza quindi di quella comunione, del loro legame d’amore, della condivisione. Qui sta la nostra identità più profonda, il cromosoma divino in noi. In principio, è posta la relazione. In principio a tutto, il legame.

            Al termine di una giornata puoi anche non aver mai pensato a Dio, mai pronunciato il suo nome. Ma se hai creato legami, se hai procurato gioia a qualcuno, se hai portato il tuo mattone di comunione, tu hai fatto la più bella professione di fede nella Trinità.

            Il vero ateo è chi non lavora a creare legami, comunione, accoglienza. Chi diffonde gelo attorno a sé. Chi non entra nella danza delle relazioni non è ancora entrato in Dio, il Dio che è Trinità, che non è una complicata formula matematica in cui l’uno e il tre dovrebbero coincidere: «Se vedi l’amore, vedi la Trinità» (sant’Agostino).

            Allora capisco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura: perché è contro la mia natura. Allora capisco perché quando sono con chi mi vuole bene, quando accolgo e sono accolto da qualcuno, sto così bene: perché realizzo la mia vocazione.

Tutto circola nell’universo: pianeti, astri, sangue, fiumi, vento e uccelli migratori… È la legge della vita, che si ammala se si ferma, che si spegne se non si dona. La legge della chiesa che, se si chiude, si ammala (papa Francesco).

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=37337

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DONNE NELLA CHIESA.

Tra inverno e primavera, aspettando Maria di Magdala

Primavera atmosferica bizzarra, quest’anno, con squarci felici di estate e improvvise gelate invernali; e così – per stare nel paragone – ci sembra l’attuale stagione della Chiesa cattolica romana, attraversata da accadimenti luminosi ma, anche, frenata da resistenze, o da pusillanimità, nella via della conversione al Vangelo e dell’attuazione sostanziale del Concilio Vaticano II. Senza pretendere di essere esaustivi, riportiamo qui e commentiamo alcuni dati che, ci pare, confermano il nostro barometro.

La Commissione teologica internazionale (Cti) – istituita da Paolo VI nel 1969, attualmente composta da una trentina di teologi/e, e guidata dal cardinale Francisco Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede – negli anni 2014-18, prima attraverso una sottocommissione di dieci suoi membri, e poi nella plenaria della stessa Cti, ha affrontato, e quindi approvato a maggioranza, il tema La libertà religiosa per il bene di tutti.

www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20190426_liberta-religiosa_it.html

Approccio teologico alle sfide contemporanee. Infine, il 19 marzo 2019 il papa ha autorizzato la pubblicazione del testo, uscito poi in aprile. Il corposo documento (150mila battute) esamina la dottrina cattolica in merito: prima del Vaticano II, poi la dichiarazione Dignitatis humanæ (Dh) del Concilio; quindi gli sviluppi successivi, in un mondo profondamente cambiato. Il testo costituisce uno strumento assai utile per chi voglia approfondire la problematica esaminata.

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decl_19651207_dignitatis-humanae_it.html

Tuttavia – a nostro modesto parere – esso è reticente quando ripercorre i secoli in cui la Chiesa romana, iniziando dal papato, non ammetteva il principio della libertà religiosa, e con estrema durezza puniva i dissidenti.

Afferma: «Dignitatis Humanæ rivela una maturazione del pensiero del Magistero sulla natura propria della Chiesa in connessione con la forma giuridica dello Stato. La storia del documento dimostra il rilievo essenziale di questa correlazione per l’evoluzione omogenea della dottrina, a motivo di sostanziali mutamenti del contesto politico e sociale in cui si trasforma la concezione dello Stato e del suo rapporto con le tradizioni religiose, con la cultura civile, con l’ordine giuridico, con la persona umana. Dh attesta un sostanziale progresso nella comprensione ecclesiale di questi rapporti dovuto a una più approfondita intelligenza della fede, che permette di riconoscere la necessità di un progresso nell’esposizione della dottrina» [n. 14].«Una certa configurazione ideologica dello Stato, che aveva interpretato la modernità della sfera pubblica come emancipazione dalla sfera religiosa, aveva provocato il Magistero di allora alla condanna della libertà di coscienza, intesa come legittima indifferenza e arbitrio soggettivo nei confronti della verità etica e religiosa… La prima reazione della Chiesa si spiega a partire da quel contesto storico in cui il cristianesimo rappresentava la religione di Stato e la religione di fatto dominante nella società occidentale» [15].

Scrivendo così si fotografa come era la situazione, quasi legittimando le condanne di Gregorio XVI e Pio IX che nell’Ottocento definirono deliramentum (pazzia) l’idea di quanti, dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, sostenevano il diritto alla libertà religiosa. Eppure già allora, anche nel seno della Chiesa romana, vi erano dei pensatori che ritenevano giuste le affermazioni condannate dal magistero; ma i papi li ignorarono. Inoltre, allargando il discorso, ci chiediamo: perché il testo del 2019, cinquant’anni dopo il Vaticano II – il quale, in merito, ammise il minimo indispensabile – non osa nominare gli orrori dei roghi appiccati contro gli “eretici”, partendo dal presupposto implicito che «la verità [quella stabilita dalle autorità della Chiesa] ha tutti i diritti, l’errore nessuno?». Certo, non possiamo oggi giudicare il passato con le nostre categorie; eppure, dopo che nella Ginevra di Giovanni Calvino, il 27 agosto 1553 lo spagnolo Miguel Serveto, accusato di negare il dogma trinitario, fu mandato al rogo, il teologo riformato Sébastien Castellion protestò: «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo».

Parole analoghe dissero, rispetto all’Inquisizione, pensatori già cattolici. Dunque, anche a “quei tempi” vi era chi capiva. Ma il potere ecclesiastico ignorò i profeti. Certamente, vi sono casi in cui i cambiamenti, anche dottrinali, sono frutto di un “omogeneo sviluppo”. Ma la Cti ribadisce un “dogma” dell’apologetica cattolica: nel magistero vi è sempre stato “sviluppo coerente”, e mai errore, rottura o salto sostanziale. Eppure tra il rogo e il rispetto della libertà di coscienza vi è invalicabile abisso. Quando, nel marzo 1976, la giunta militare prese il potere a Buenos Aires con lo scopo dichiarato di combattere il pericolo del comunismo, molti vescovi argentini accolsero con favore il golpe; altri prudentemente tacquero; altri ancora, in gran silenzio, cercarono di aiutare i prigionieri politici; pochi assai si opposero davvero. Allora la diocesi di La Rioja era guidata da monsignor Enrique Angel Angelelli, conosciuto per l’impegno nella difesa dei diritti sociali della sua gente: per questo, una delle prime decisioni della dittatura fu di eliminare quel prelato “sovversivo” – con un agguato, compiuto nell’agosto 1976, fatto però passare come   d’auto. Ma, dopo che nel 1983 il regime cadde e tornò la legalità, il “caso Angelelli” fu riaperto, e un tribunale condannò all’ergastolo i killer del vescovo. Francesco ha affrettato la beatificazione di Angelelli (e di tre suoi amici che subirono analoga crudele sorte): e così il 27 aprile scorso il prefetto della Congregazione per le cause dei santi, cardinale Giovanni Angelo Becciu, a La Rioja ha presieduto il rito ad hoc. Ma la decisione papale, bene accolta dalla maggioranza dell’episcopato argentino, è stata contestata da alcuni vescovi, a suo tempo favorevoli alla giunta militare (la quale –come molti sanno, ma non lo sanno tutti i vescovi argentini – organizzò, tra l’altro, l’eliminazione fisica di trentamila persone desaparecidas). In vista della beatificazione, l’ex vicario castrense argentino, monsignor Antonio Baseotto, ha detto: «Se Angelelli fosse stato ucciso dai militari, non lo sarebbe stato per la sua fede, ma per il suo impegno a favore delle forze di sinistra”. Ed Héctor Aguer, arcivescovo emerito di La Plata: «Non capisco come sia possibile dichiarare “martire” e beatificare Angelelli, del quale non si sa con scienza certa come morì, mentre non si fa lo stesso con il filosofo Carlos Sacheri, ucciso in un attentato – all’uscita dalla messa – perché denunciava l’infiltrazione marxista nella Chiesa». (NB: è stata la magistratura argentina, non la Chiesa, a stabilire che Angelelli fu ucciso; Sacheri, cattolico conservatore, fu assassinato nel 1974 da esponenti dell’Erp – Ejercito revolucionario del pueblo). In tale contesto – anche i cattolici argentini, in merito, sono divisi – il papa ha compiuto una scelta forte e chiara. Al Regina cœli del 28 aprile ha ricordato il vescovo e gli altri tre: «Questi martiri della fede sono stati perseguitati per causa della giustizia e della carità evangelica. Il loro esempio e la loro intercessione sostengano in particolare quanti lavorano per una società più giusta e solidale. Facciamo un applauso ai nuovi Beati».

«Vostre Eminenze, Vostre Beatitudini, Vostre Eccellenze, per mezzo di questa lettera ci rivolgiamo a Voi con due obiettivi: il primo è quello di accusare Papa Francesco del delitto canonico di eresia; il secondo, quello di sollecitarVi ad assumere le misure necessarie per affrontare la grave situazione che implica la presenza di un papa eretico… misure che hanno generato una delle peggiori crisi nella storia della Chiesa cattolica». S’apre così la lettera aperta che diciannove cattolici – due donne e diciassette uomini – di vari paesi, per lo più esperti di teologia, il 30 aprile 2019, festa di santa Caterina da Siena, hanno rivolto all’intero episcopato cattolico. Perché il papa sarebbe “eretico”? Perché ha condiviso tesi di Martin Lutero; e perché nell’esortazione apostolica postsinodale Amoris lætitia (2016) si oppone – sentenziano – al magistero della Chiesa, al Concilio di Trento e all’insegnamento dei papi Wojtyla e Ratzinger. L’appello ha avuto – secondo noi – un’eco esagerata. Infatti, esso era stato in pratica già “anticipato” da iniziative similari, in parte balenanti l’accusa di “eresia”. Il 19 settembre 2016 quattro cardinali [Walter Brandmüller, Raymond Burke, Carlo Caffarra, Joachim Meisner] avevano espresso al pontefice dei dubia (dubbi) che, senza parlare di eresia, ritenevano però inconciliabile con il precedente magistero la possibilità, emergente dal testo del 2016, di ammettere all’Eucaristia, caso per caso e dopo attento discernimento, persone divorziate e risposate civilmente (dette d&r). Poi, nel 2017 tre vescovi del Kazakhstan affermavano: «L’ipotesi del papa rappresenta un’alterazione sostanziale della bimillenaria disciplina sacramentale della Chiesa. Inoltre, una disciplina sostanzialmente alterata comporterà col tempo anche un’alterazione nella corrispondente dottrina». Sempre nel 2017, in aprile, un convegno romano dedicato a “Fare chiarezza su Amoris lætitia” adombrava l’accusa di “eresia” a Francesco; poi, in luglio, una quarantina di laici cattolici rivolgevano al papa una Correctio filialis de hæresibus propagatis (correzione filiale a causa della propagazione delle eresie), che poi raggiungerà le duecentocinquanta firme. L’iniziativa del 2019 si inserisce in questo filone.

Il leitmotiv è sempre quello [a chi volesse approfondire mi permetto di suggerire un mio libro – vedi pag. 45]: Francesco dice “sì” là dove tutti i 42 papi che si sono succeduti da Pio IV, che chiuse il Concilio di Trento, a Benedetto XVI, hanno detto “no”. Bene, riteniamo, ha agito il papa gaucho, imprimendo una virata teologicamente e pastoralmente onesta seppur clamorosa, perché nella linea del Vangelo (e del Concilio di Nicea, che però egli mai cita espressamente). Però meraviglia che quasi l’intera mailing list del mondo teologico italiano non evidenzi l’impressionante “discontinuità” tra lui e i suoi immediati predecessori. Siamo convinti anche noi che, quanti/e accusano il papa regnante di propagare “eresie”, affastellino considerazioni ragionevoli con distorcimenti capziosi, semplificazioni storiche, cortocircuiti teologici e mire politiche ”reazionarie”. E, dunque, condividiamo le critiche sferzanti che il teologo Giuseppe Ruggieri [ha insegnato presso l’Università Gregoriana di Roma e presso la facoltà di Teologia cattolica di Tubinga] rivolge loro (Repubblica, 11 maggio 2019).

https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2019/05/10/news/chi_chiama_eretico_il_papa-225963573

www.c3dem.it/wp-content/uploads/2019/05/chi-chiama-eretico-il-papa-g.-ruggieri-rep.pdf

 È saggio, tuttavia, tacere del grandioso cambiamento compiuto da Francesco che, in nome del Vangelo, ha scavalcato ribadite norme dottrinali/pastorali magisteriali che Lo contraddicevano? Un tale imbarazzato silenzio, forse scelto per indorare una pillola amara per i “tradizionalisti”, finisce per rafforzare l’ostinazione dei moderni crociati, e fortifica la loro voglia di scisma e di distruzione dell’anima stessa del Vaticano II. Questi signori affermano: «Tra lo stabilire (Wojtyla + Ratzinger) che d&r possono convivere, per il bene dei figli, ma come fratello e sorella e, invece (Bergoglio), l’adombrare che essi, caso per caso, possono vivere sponsalmente, e accostarsi all’Eucaristia, non vi è “omogeneo sviluppo”, ma insuperabile divergenza». Dicono il vero. Infatti, si è di fronte – se le parole hanno un senso – ad una insuperabile contraddizione del magistero che, infine, si converte all’Evangelo. Perché, dunque, sottacere la lieta notizia?

Parlando in generale, il teologo tedesco Michael Seewald su Concilium (1/2019) critica un magistero «incapsulato nella ideologia della continuità», la quale… «ha due strategie: o un’innovazione è negata come innovazione e si suggerisce che da sempre si è insegnato ciò che si insegna oggi, oppure una posizione non più sostenibile viene lasciata cadere in silenzio, nella speranza che nessuno se ne accorga». Un mese fa (5-7 maggio) il papa ha visitato Bulgaria e Macedonia del Nord. Nella consueta conferenza stampa nel viaggio di ritorno, ha parlato della donna-diacono; tema che ha meglio approfondito incontrando il 10 del mese più di ottocento superiore generali di congregazioni religiose (Uisg). Nel 2016, proprio su suggerimento di quel cartello, aveva costituito una commissione di studio – sei donne e sei uomini – sul diaconato delle donne, «soprattutto riguardo ai primi tempi della Chiesa». Adesso, sull’aereo e poi rispondendo ad una suora dell’Uisg, ha detto che i/le componenti della commissione per ora non hanno trovato un accordo su un quesito decisivo: nei primi secoli, le “diaconesse” ricevevano una ordinazione sacramentale, analoga a quella prevista per i maschi, oppure no? Precisando: «Nel caso del diaconato dobbiamo cercare cosa c’era all’inizio della Rivelazione, e se c’era qualcosa, farla crescere e che arrivi… Se non c’era qualcosa, se il Signore non ha voluto il ministero, il ministero sacramentale per le donne, non va». Fallita la commissione del 2016, sarà un’altra a risolvere l’enigma? Arduo sperare che si possa uscire, così, da un vicolo cieco.

Eppure nel Vangelo vi sono indizi che il corpo vivo della Chiesa potrebbe ritenere fondamento adeguato, non tanto per le “diaconesse”, ma per ammettere le donne a tutti i ministeri nella Chiesa, nessuno escluso, superando la radicata concezione del “sacerdozio” (estranea, sostengono moltissimi esegeti, al pensiero di Gesù). E il fondamento è il mandato di Gesù Risorto a Maria di Magdala, la quale gli era stata accanto quando era morente sulla croce: «Annuncia ai discepoli la mia risurrezione». Non è dunque con la ricerca storica sulla “diaconesse” (pur utilissima – come il riferimento a Febe, in Romani 16,1 – ma, spesso, inadeguata) che si risolve il problema Chiesa/donna; occorre scavare l’input evangelico che potrebbe dare luce nuova alla questione, e far fare alla Chiesa romana il grande balzo. Infatti, è mai pensabile che chi ha da Gesù il mandato di annunziare a tutti/e la Resurrezione, non possa presiedere la celebrazione della Cena del Signore? Non una commissione, e nemmeno un papa da solo potrà ardire tanto. Sta al popolo di Dio osare, anche se vi sarà chi, legato alle idee di Benedetto, vescovo di Roma emerito (della cui strategia ostruzionista abbiamo parlato nel numero scorso di Confronti) si opporrà strenuamente a questa nuova prassi. Ma… no pasaran.

Spetterà infine ad un Concilio – con “padri” e “madri” – mettere il sigillo su questa rivoluzione evangelica.L’11 maggio 2019, il cardinale elemosiniere, Konrad Krajewski, a Roma ha rotto i sigilli – pur apposti, il 6 del mese, dalle legittime autorità comunali a utenti ritenuti “morosi” per 319mila euro – che impedivano ai contatori di illuminare il palazzo dello Spin Time Labs, occupato da 450 persone, di cui 98 bambini. Il porporato si è detto disposto ad accettare tutte le conseguenze della sua azione. È il segnale che Francesco manda per casi analoghi ovunque? Il Vaticano, però, non ha applaudito un’altra gioiosa iniziativa. Maria 2.0, è un sito cattolico, all’apparenza di carattere devozionistico, in realtà luogo virtuale di raccordo, e di sprone, lanciato da gruppi di donne tedesche che hanno proposto “lo sciopero della messa” tra le domeniche 12 e 18 maggio. La Lega delle donne cattoliche tedesche (Kdfb) e la Comunità delle donne cattoliche della Germania (Kfd) hanno sollecitato l’episcopato del loro paese a non ignorare “l’importante segnale”. «Senza di noi la Chiesa chiude» è stato un altro slogan della manifestazione: essa prevedeva che in quella settimana le donne interrompessero ogni servizio volontario per le attività parrocchiali e che, vestite di bianco, la domenica se ne stessero sul sagrato della chiesa. Hanno lanciato, anche, parole d’ordine precise (ben viste perfino da alcuni vescovi): stroncatura decisissima delle violenze sessuali del clero contro le donne, e «ammissione delle donne a tutti i ministeri ecclesiali». La Germania non è il mondo, e quelle gentili proteste oggi sono elitarie; tuttavia, ritenere quanto là accaduto solamente una rondine che non fa primavera, significherebbe ignorare un’onda che rischia, allargandosi, di diventare uno tsunami. Ma ci piace sperare che l’incombente, prossima stagione ecclesiale sia un’estate ricca di messi. Caratterizzata dalla ri-scoperta di Maria di Magdala.

Luigi Sandri “Confronti” del giugno 2019

http://confronti.net/2019/06/tra-inverno-e-primavera-aspettando-maria-di-magdala/

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GOVERNO.

Via libera al Fondo per le politiche della famiglia 2019

Le risorse del Fondo per le politiche della famiglia per l’anno 2019 ammontano complessivamente a 94.000.000,00 di euro e sono destinate alla realizzazione di attività di competenza statale, regionale e degli enti locali.

Con il Decreto di riparto tra Stato ed enti territoriali dette risorse sono destinate, nella misura di 79.000.000,00 euro, a compiti ed attività di competenza statale con particolare riferimento a iniziative di conciliazione del tempo di vita e di lavoro nonché di promozione del welfare familiare aziendale e alle attività relative all’istituzione e alla promozione della Carta famiglia.

            15.000.000,00 di euro sono, invece, le risorse finanziarie che lo stesso Decreto ha destinato alla realizzazione di interventi di competenza regionale e degli enti locali volti al supporto delle attività svolte dai Centri per le famiglie a sostegno della natalità nonché a supporto della genitorialità.

Il Decreto di riparto è stato registrato dalla Corte dei conti ed entro il 9 agosto 2019 le Regioni potranno presentare la richiesta di trasferimento delle risorse.

            Decreto di riparto fondo politiche della famiglia 2019

http://www.politichefamiglia.it/media/1533/decreto-fondo-riparto-famiglia-2019.pdf

www.politichefamiglia.it/it/notizie/notizie/notizie/via-libera-al-fondo-per-le-politiche-della-famiglia-2019

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                                                                      MATRIMONIO

In crescita le coppie miste. Due religioni un problema?

Secondo «Amoris lætitia», sono matrimoni con «speciali difficoltà» ma anche «luogo privilegiato di dialogo». Sono 28mila attualmente le unioni in Italia, previste a 35mila nel 2030. Identificate nella ricerca la ‘strategia dimissionaria’, la ‘strategia dell’armadio’, quella ‘della conversione’ e quella ‘spirituale’ La progressiva globalizzazione dell’amore sta tracciando scenari inesplorati che non possiamo permetterci di ignorare. La ricerca del sociologo Cerchiaro: oggi quattro stili di relazione in base alla fede. Occorre un impegno pastorale modellato sulle richieste delle nuove situazioni

Niente di esoterico. È la classificazione scelta da Francesco Cerchiaro, ricercatore dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio, per inquadrare i metodi di sopravvivenza delle coppie miste che vivono in Italia. La lente d’ingrandimento dell’esperto si è posata sulla scelta d’amore più complicata, che già qualche anno fa la sociologa Chiara Saraceno aveva definito ‘la coppia più mista che ci sia’, quella cioè formata da un’italiana e da un africano islamico, proprio perché le differenze obiettive tra i partner – religione, provenienza, cultura, colore della pelle – si sommano all’immaginario stigmatizzante dello scontro di civiltà. Se è vero che tra mondo islamico e Occidente, almeno secondo una certa vulgata, ci sono ristretti margini di dialogo, per quale ragione due giovani dovrebbero avventurarsi su un terreno tanto scivoloso? E, una volta fatto il primo passo, come possono resistere alle tante sollecitazioni centrifughe che finiscono con l’incombere sulla loro storia? Domandarselo è tutt’altro che stravagante dato che, in un panorama generale che vede i matrimoni complessivamente in forte calo da almeno un decennio, quelli formati da coppie miste non smettono di crescere e, in futuro, saliranno ancora. Dalle circa 28mila di oggi alle oltre 35mila del 2030. Punta avanzata di una realtà che servirà a misurare il tasso di integrazione e la rapidità dei cambiamenti connessi alle dinamiche migratorie. E che, soprattutto, nessun provvedimento legislativo, nessun sovranismo riuscirà a rallentare. Perché le relazioni del cuore non si fermano davanti alle strategie politiche, neppure a quelle più difensive e reazionarie.

            Se n’è parlato qualche giorno fa a Milano, in occasione della presentazione di uno studio curato da Mara Tognetti Bordogna sui ‘Matrimoni misti nel nuovo millennio. Legami familiari tra costruzione sociale e regolamentazione amministrativa’ (Franco Angeli) a cui hanno collaborato vari studiosi. Nel dossier, che affronta un problema vastissimo da prospettive sociologiche, geopolitiche, psicosociali e di politica immigratoria, il saggio di Cerchiaro ha il pregio di andare al cuore della questione più rilevante, quella interreligiosa, perché nulla come il dialogo tra le fedi può qualificare un’identità, segnare un’appartenenza, sottolineare una vicinanza. Tanto più se questo rapporto si intreccia alle dinamiche più intime ed esclusive, quelle coniugali e familiari dove per la diversità, anche quella più radicale, non si danno alternative. O si armonizza nell’incontro che diventa passaggio generazionale e storia di coppia, o si trasforma in combustibile che alimenta l’inconciliabilità. La ricerca non ha obiettivi irenici, non vuole edulcorare nulla e non nasconde i problemi. Se fare famiglia è difficile per tutti, costruirne una partendo da culture e religioni differenti lo è obiettivamente ancora di più.

E, tra una donna cristiana e un uomo musulmano i problemi si amplificano. La ricerca ricorda opportunamente il Documento Cei del 2005, ‘I matrimoni tra cattolici e musulmani in Italia‘ per dire che la Chiesa, sulla base dell’esperienza maturata negli ultimi anni, «induce, in linea generale, a sconsigliare o, comunque, non incoraggiare questi matrimoni, secondo una linea di pensiero peraltro condivisa anche dai musulmani». Tutto vero, anche considerando che, secondo il Corano, un uomo musulmano può sposare una “donna del Libro” (cioè cristiana o ebrea) mentre una musulmana non può sposare un “politeista” (Corano 5, 5) o un “miscredente” (Corano 2, 221), categorie all’interno delle quali sono annoverati anche cristiani ed ebrei. A meno che cristiani ed ebrei siano disposti a sottoscrivere la “shahada”, cioè la dichiarazione di fede islamica. Non si tratta di una semplice formalità ma di un autentico atto di apostasia della fede cattolica e di adesione formale alla fede islamica con tutte le conseguenze anche civili collegate.

            Tutto ben noto. La ricerca però non prende in esame gli “Orientamenti per la preparazione al matrimonio e alla famiglia” (2012) che dedicano al problema un lungo paragrafo e, soprattutto, quanto dice papa Francesco in Amoris lætitia che, come su tanti altri fronti pastorali, rappresenta una svolta anche per quanto riguarda i matrimoni misti. L’Esortazione postsinodale spiega che le unioni con disparità di culto, pur presentando alcune «speciali difficoltà», sono in crescita sia nei territori di missione sia nei Paesi di lunga tradizione cristiana, ma «rappresentano un luogo privilegiato di dialogo interreligioso» e sollecitano «l’urgenza di provvedere ad una cura pastorale differenziata secondo diversi contesti sociali e culturali» (248).

            Considerazioni che, in vista di un approfondimento specifico per tradursi in prassi, sembrano segnare comunque nuovi confini nella logica dell’accoglienza e dell’incontro che Francesco non si stanca di indicare. Nell’attesa rimangono le difficoltà ordinarie delle coppie miste, quelle che il grande passo oltre le diversità e i pregiudizi l’hanno già fatto. E hanno accettato di raccontare nel dossier come ci sono riuscite. Con venti lunghe interviste ad altrettante coppie islamo-cristiane che vivono nel Nord Italia, il ricercatore costruisce così uno schema, come detto, con quattro declinazioni.

  1. Quello della ‘strategia dimissionaria’ riguarda le coppie in cui uno dei due partner rinuncia alla costruzione di una dimensione religiosa condivisa. Di fronte alle scelte rappresentate dall’educazione religiosa dei figli – per tutti lo scoglio più impegnativo – uno dei due decide di presentare dimissioni simboliche dalla propria identità con l’obiettivo di preservare l’armonia familiare. E non si tratta sempre di una prevalenza della parte islamica. Anzi, nelle interviste sono numerose le sottolineature di mariti musulmani che accompagnano i figli in Chiesa e al catechismo perché, «visto che viviamo qui è meglio che si inseriscano qui… poi da grandi vedranno che religione abbracciare».
  2. Un po’ diversa è la seconda tipologia, che Cerchiaro chiama ‘la strategia dell’armadio‘, in cui la coppia decide di escludere del tutto la religione dalle dinamiche familiari. È una pace fondata su una neutralità alla fede che rischia però di diventare indifferenza. I figli crescono lontani sia dalla tradizionale cristiana sia da quella islamica. La moglie accetta di non frequentare la Messa e di non battezzare i figli, il marito congela la sua identità musulmana. Succede spesso, ma c’è da chiedersi quanto giovi ai figli una pace familiare fondata sul vuoto religioso.
  3. Più radicale e altrettanto problematica, la ‘strategia della conversione’. Per aggirare i rischi di conflittualità permanente uno dei due accetta di convertirsi alla religione dell’altro. «Ho intrapreso un cammino verso l’islam di mio marito», racconta Elena. Mentre Bashir, turco convertito al cattolicesimo, dichiara con semplicità: «Non volevo problemi per la mia famiglia. Loro devono stare bene qui, in Italia». Scelte comunque sempre conflittuali, con un sottofondo che parla talvolta di nostalgia.
  4. Ancora più complessa l’ultima strategia presa in esame, quella del primato spirituale. Le coppie che l’hanno scelta si attestano su una frontiera avanzata che parla di ‘religiosità senza confessionalità’ in nome di un primato spirituale al di là dei diversi dogmatismi. «Abbiamo trovato che è possibile parlare di religione ai bambini, nutrire l’aspetto spirituale, senza scegliere necessariamente una religione». E un’altra coppia ha raccontato: «Pregano in entrambi i modi, fanno esperienza di entrambe le religioni ma in un modo nuovo forse… oltre le religioni ma sempre verso Dio». Qui il rischio, al di là delle dichiarazioni delle coppie che vanno inquadrate in una comprensibile logica difensiva, è quello di annacquare il messaggio o di avviarsi verso un sincretismo dagli esiti tutt’altro che chiari. E torna allora urgente l’auspicio di Amoris lætitia per un impegno pastorale modellato sulle richieste, spesso implicite, delle nuove coppie miste. Ma occorre fare presto. La globalizzazione dell’amore sta tracciando scenari inesplorati ma che non possiamo ignorare.

Luciano Moia             Avvenire         15 giugno 2019

www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-crescita-le-coppie-miste-due-religioni-un-problema

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OMOFILIA

Quando un figlio è omosessuale. Genitori sempre

            I genitori rappresentano la prima ed irrinunciabile risorsa nella crescita del figlio, con l’obiettivo di renderlo una persona libera, responsabile, autonoma, competente ma soprattutto umanamente realizzata. L’ambiente familiare rappresenta un luogo educativo imprescindibile e necessario per lo svolgersi di un processo educativo che accompagni la persona alla maturità. Questo è senz’altro il cammino di ogni genitore che però, nel caso dell’omosessualità, si trova a fronteggiare un compito educativo differente.

Non perché il figlio sia da considerarsi “diverso” ma perché portatore di un vissuto particolare carico di sofferenze, dubbi, paure e perché posto di fronte ad una società ancora fortemente stigmatizzante. A sua volta il genitore che si scopre omosessuale ha il compito di ridefinire, oltre che il suo rapporto coniugale, anche l’agire educativo verso il figlio in quanto chiamato ad una verità e autenticità che spesso provoca rotture e sofferenze.

Davanti all’omosessualità il genitore viene fortemente interpellato non solo come guida ma anche come persona: è chiamato a compiere un cammino di consapevolezza di sé, delle proprie convinzioni, dei pregiudizi che magari pensa di non possedere, e a mettere in gioco risorse differenti per fronteggiare una realtà fino a quel momento sconosciuta o approcciata solo da lontano.

Per rimodellare il suo ruolo di educatore deve compiere un cammino di autoeducazione in cui proprio il figlio risulta essere quella pietra di paragone che spinge ad interrogarsi profondamente e ad acquisire strumenti educativi del tutto nuovi e peculiari.

Lo strumento pedagogico per eccellenza è l’amore concreto dei genitori attraverso il quale potrà essere possibile una corretta crescita e un sano sviluppo della persona in tutte le sue dimensioni compresa quella di un’affettività che inizialmente non si riesce a comprendere e accettare. In un clima di amore la consapevolezza di essere importanti per qualcuno rende la famiglia il luogo del riconoscimento del valore della persona e del rispetto dei figli così come sono. L’educazione all’interno della famiglia si fa «rispettosa delle dignità personali, attenta alle parità e alle diversità, all’identità e alla differenza» [G. QuinziL. Pace], compito ancora più difficile per un genitore che, sprovvisto di strumenti interpretativi ed operativi, si trova a fronteggiare la “diversità” del figlio.

Un obiettivo estremamente importante è l’educazione alla pazienza intesa come accettazione di ciò che si è, con pregi e limiti, con capacità e incompetenze, con potenzialità e piccole disfunzionalità. [G. QuinziL. Pace]. La pazienza porta con sé la capacità di giudicarsi positivamente e serenamente. Con un figlio omosessuale si è chiamati ad attutire e contraddire il giudizio negativo e stigmatizzante che viene dall’esterno incoraggiando la persona a concentrarsi sulle sue ricchezze e peculiarità e a sviluppare interamente i suoi compiti esistenziali.

Ulteriore sfumatura di tale compito è educare alla pazienza verso gli altri intendendo, nel caso dell’omosessualità, un mondo non ancora pronto ad accogliere la “diversità” e a valorizzarne i contenuti. E’ inclusa anche la famiglia che fatica a trovare strade alternative, ad elaborare le proprie paure, a fronteggiare il senso di un presunto fallimento. In questo caso sono spesso i figli ad “incoraggiare i genitori” ad esprimere ciò che sentono attendendo i loro tempi di elaborazione e accettazione.

Nello spazio educativo familiare, un requisito fondamentale è rappresentato dal dialogo, strumento capace di connettere vissuti e di agevolare lo scambio di emozioni, sentimenti, percezioni, pensieri. Il dialogo tra genitori e figli permette di uscire allo scoperto e di eliminare uno stato confusionale ed angoscioso prodotto dal silenzio o dalla menzogna. La necessità del dialogo mobilita il genitore a fare chiarezza in sé e nei propri sentimenti, ad elaborare le emozioni per essere pronto poi ad accogliere, gestire e contenere quelle del figlio. Si tratta di educarsi ed educare all’emotivo e alla capacità di esprimerlo in un clima di accettazione incondizionata. [A. Di Luoffo].

Per realizzare tale clima è necessario che i genitori apprendano e donino ai figli un ascolto di tipo empatico capace di sintonizzarsi sul vissuto dell’altro e immedesimarsi nel suo processo vitale. Empatia è uscire da sé per comprendere l’altro, mantenendo il focus sul proprio mondo interiore senza cadere in un ascolto simbiotico. [R. Mucchielli] Il genitore è invitato a leggere e comprendere le cose come appaiono al figlio cercando di fare proprio il problema che vive senza perdere i propri confini relazionali.

Risulta chiaro come l’ascolto empatico potrebbe essere una risorsa fondamentale davanti ad un figlio omosessuale che fatica a rendersi consapevole delle proprie istanze profonde, a comunicare ciò che sente e a manifestare apertamente le proprie paure. Ascoltare in modo attivo significa accettare i sentimenti del figlio e dargli riconoscimento senza negarli, in quanto ha bisogno di sentirsi dire che ciò che prova è normale e non fonte di giudizio. [V.M. Borella]. Il genitore potrebbe diventare una sorta di “cassa di risonanza” di un vissuto travagliato e difficile da esprimere guidando il figlio ad una maggiore chiarezza di sé.

Occorre accennare all’importanza dell’educazione all’affettività come cura della capacità del figlio di creare e mantenere nel tempo delle relazioni significative e costruire un progetto di vita stabile e duraturo. Anche in questo caso il genitore è chiamato a compiere un percorso non facile che spesso culmina con l’accoglienza delle relazioni omoaffettive del proprio figlio, del suo progetto di vivere un legame stabile, tuttora non riconosciuto dal diritto del nostro Paese, o addirittura di perseguire un desiderio di paternità o maternità.

Risulta necessario non lasciare la persona omosessuale in balia delle proprie tensioni affettive aiutandola, invece, ad elaborare un differente progetto di vita, di non facile realizzazione, ma che merita rispetto e sostegno per essere portato a compimento.

Occorre tenere presente che l’autenticità, in educazione, è un valore fondamentale. Come abbiamo visto, la rivelazione è un percorso familiare. Il figlio, nel suo sforzo di uscire allo scoperto, nel suo tentativo di essere autentico chiede autenticità, verità e coerenza: l’educazione diventa un processo circolare.

Per il presente lavoro si è consultata una tesi sostenuta all’Università di Cagliari il cui titolo è molto significativo. “Genitori di figli orfani”. Purtroppo anche questa può essere una realtà nel momento in cui la rivelazione del figlio, la sua affettività, il suo progetto di vita, non viene riconosciuto e accettato dalla famiglia: i genitori, cessando di essere delle figure di riferimento, di fatto lasciano il figlio “orfano” in balia delle sue paure e difficoltà.

Da ciò risulta estremamente chiaro che il primo compito di un genitore-educatore che rimane sempre tale è proprio l’esserci, lo stare accanto al figlio nel suo percorso di identificazione e nella sua entrata in società con tutti i rischi che questo comporta sia per lui che per l’immagine del genitore stesso. La presenza risulta il primo requisito fondamentale per permettere al figlio di “esistere” così come sta scoprendo di essere. E’ più facile uscire allo scoperto in una famiglia in cui le cose si dicono apertamente, in cui si possono esprimere sentimenti ed emozioni.

Al contrario, se i membri della famiglia non hanno l’abitudine di condividere ciò che provano, pensano e sentono, l’omosessuale sarà condannato in partenza ad una vita di omissioni o mezze verità. [M. Castañeda]. Per fornire un valido apporto educativo il genitore è chiamato ad elaborare il senso di colpa di aver generato un figlio “sbagliato” o di avere fallito nel proprio compito di guida. Colpevolizzarsi e dipingersi come figure negative rappresenta un’esperienza dolorosa e negativa per un figlio che già sente di aver turbato profondamente l’equilibrio familiare e di aver generato dolore e sofferenza [C. Chiari – L. Borghi].

Come educatore il genitore dovrebbe curare la creazione di un’alleanza positiva con il coniuge e con il figlio operando insieme come squadra, sostenendosi reciprocamente e mantenendo il contatto emotivo capace di mediare conflitti e divergenze. Le alleanze più funzionali sono quelle caratterizzate dalla collaborazione, dalla condivisione e dalla negoziazione dei conflitti prima che generino rotture insanabili. [L. Fruggeri].

Nel caso dell’omosessualità risulta necessaria la cooperazione tra i genitori, il far fronte comune dividendo il peso di qualcosa che non si prevedeva accadesse e che, per il bene dell’intera famiglia, va rinegoziato aprendosi ad una “diversità” che può trasformarsi in ricchezza.

Un interessante compito educativo è educare alla resilienza come capacità di resistere al trauma e di affrontare le situazioni di difficoltà in modo propositivo e costruttivo. La capacità di resilienza dell’adolescente, indipendentemente dal suo orientamento sessuale, dipende dal sostegno della famiglia che fornisce gli strumenti idonei per attivare le capacità di cercare soluzioni alternative e sviluppare fiducia nelle proprie abilità. Il reperimento di tali risorse è più difficile per la persona omosessuale perché inserita in un contesto in cui esistono ben pochi supporti se non addirittura ostilità, derisione, incomprensione ed isolamento. [C. Chiari – L. Borghi].

Il compito del genitore, come educatore, è allora quello di implementare le risorse del figlio, offrirgli strumenti per decodificare le situazioni di difficoltà, aiutarlo a riorganizzare le visioni su se stesso e la relazione con gli altri nonché sostenerlo nell’elaborazione della crisi in chiave di crescita.

Operativamente il genitore può contribuire alla costruzione di un’identità resiliente, all’interno dell’identità omosessuale, aiutando il figlio a sviluppare delle relazioni in cui possa sperimentare sostegno e presenza per lavorare sulle sue positività. Fondamentale è la certezza di poter essere amato ed amare a partire da ciò che è e non “nonostante” ciò che è, incrementando il rispetto per se stesso al di là di quello che possono essere pregiudizi e stigmatizzazioni. [E. Malaguti].

Un compito del tutto peculiare alla realtà omosessuale è l’educazione alla gestione del minority stress, campo spesso del tutto sconosciuto ai genitori. Un numero crescente di ricerche indica il pregiudizio e la discriminazione come fattori rilevanti di stress.

Lo sviluppo psicologico della maggior parte delle persone omosessuali risulta segnato da una dimensione di stress continuativo, micro e macro traumatico, dovuto all’ostilità di ambienti indifferenti se non violenti. La minoranza omosessuale è diversa dalle altre in quanto non sempre trova sostegno nella stessa famiglia e ha poca rilevanza sociale a differenza, per esempio, delle minoranze etniche che possono godere di un grande appoggio e solidarietà all’interno del loro contesto di riferimento e di una politica sociale più attenta alle loro esigenze. [V. Lingiardi].

II genitore è chiamato in questo caso a lavorare inizialmente su se stesso e sul proprio pregiudizio per poi costituire un mediatore protettivo e rassicurante nei confronti del mondo sociale. Può sostenere il figlio nelle inevitabili difficoltà cui potrebbe andare incontro e promuovere iniziative, attività, azioni sociali che, nel tempo, possano contribuire a trasformare l’ambiente di vita.

In sintesi, la famiglia rappresenta un luogo educativo di fondamentale importanza nel processo di costruzione identitaria della persona omosessuale. E’ chiamata a sviluppare strategie di coping [strategia di adattamento] del tutto inedite e a progettare e realizzare nuove vie pedagogiche per un’educazione più funzionale alle peculiari esigenze di crescita del figlio.

Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia-Roma.

Dalla tesi di BaccalaureatoGenitori sempre. Omosessualità e genitorialità”, Pontificia Università Salesiana, Facoltà Scienze dell’educazione, Corso di Pedagogia Sociale, Roma, anno accademico 2012-2013

https://alessandrabialetti.wordpress.com

                                                    Progetto Gionata · 16 giugno 2019

www.gionata.org/quando-un-figlio-e-omosessuale-genitori-sempre

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SESSUOLOGIA

Perché mio marito non mi desidera più?

Sei sposata da anni con il tuo primo amore. Ormai, tra di voi non ci sono più segreti: prevedi le sue mosse, anticipi le sue frasi, ritieni addirittura di conoscerlo più di quanto lui conosca se stesso. Nel momento in cui hai pronunciato il fatidico «sì» sull’altare hai pensato che niente e nessuno avrebbero mai potuto scalfire il vostro amore e il vostro sentimento sarebbe durato per l’eternità.

Sono trascorsi alcuni anni e la stanchezza del rapporto inizia a farsi sentire. Lui non ti riserva più tutte quelle premure di un tempo. Magari pensi che il lavoro, lo stress, i figli, il trasloco possano incidere e pesare sul vostro rapporto. Cerchi di essere comprensiva e giustifichi le sue mancanze. D’altronde, anche tu hai le tue colpe; ti sei spesso lasciata travolgere dal nervosismo e dalle preoccupazioni della quotidianità ed il vostro rapporto non è proprio idilliaco come immaginavi.

Può darsi che tu ti stia chiedendo: perché mio marito non mi desidera più? Le ragioni potrebbero essere molteplici. La crisi di coppia (incomprensioni, litigi e tensioni irrisolte) si ripercuote anche nell’intimità. Come rimediare? Hai pensato di riservargli qualche attenzione in più nella speranza di riaccendere la fiamma e riportare un po’ di serenità nella coppia e tra le lenzuola.

Per ravvivare il rapporto hai preparato una cenetta romantica, hai indossato un vestito da togliere il fiato, avete fatto un viaggio per dedicarvi completamente l’una all’altro, gli hai regalato quel pezzo unico da collezione che cercava da tempo. In quei momenti, la crisi sembra essere superata e pensi che la passione sia di nuovo travolgente come prima. Eppure, qualcosa non va come dovrebbe. Ritornati alla vita di sempre, dopo quelle dolci parentesi, ritorna anche il calo del desiderio. Quali sono le cause? Come capire se tuo marito non ti ama più? Quanto incidono i sentimenti sull’eros? E’ possibile rimediare oppure l’unica soluzione è porre fine al vostro matrimonio?

 

Intervista al dr. Maurizio Cottone, specialista in psicoterapia psicoanalitica.

Disinteresse sessuale: quali sono i campanelli d’allarme?Sappiamo tutti che il primo campanello d’allarme, e diciamo il più evidente, che ufficializza la crisi della coppia è il calo del desiderio sessuale da parte di uno dei due partner, se non di entrambi. La crisi sessuale non arriva mai come un fulmine a ciel sereno, ma è frutto di una crisi che cova strisciante nella coppia, dove uno dei due partner non si sente capito, riconosciuto, in qualche maniera accettato. La sfera intima è molto importante ed è la prima che va in crisi quando c’è incomunicabilità, incapacità a capirsi o a sentirsi capiti.

Il sesso, all’interno della coppia, non significa solo passione e desiderio fisico dell’altro, ma in un rapporto d’amore significa donarsi. Dare sé stesso al proprio partner significa dire: “mi fido di te”.

Un altro segnale è la sensazione che il tempo trascorso insieme sia noiosissimo. E’ come se ci si sentisse “in gabbia”. Questo malessere, che si manifesta subito nel calo del desiderio sessuale, porta anche ad altri malesseri psicologici, quali aumento del peso e uno stato depressivo più o meno importante, con cali di interessi personali e lavorativi.

Come risolvere il problema?La cosa migliore affinché un rapporto proceda in maniera sana e costruttiva, sarebbe quella di parlarsi, chiarirsi e magari andare da uno specialista, qualora si avverta che non c’è una via d’uscita. A volte, non è facile perché i partner sono molto diversi tra loro per cultura, età, storie di vita.

Cosa c’è alla base di un sano rapporto di coppia?Certamente, alla base di un sano rapporto di coppia, e di conseguenza di un sano rapporto sessuale, c’è la fiducia che non può essere data a priori, ma si deve costruire piano piano. Appare fondamentale, quindi, il rispetto reciproco. Nel momento in cui scelgo di stare con te, scelgo di fidarmi di te.

Crisi sessuale: può essere una reazione alle tensioni che ci sono nella coppia?È difficile vivere un desiderio sessuale nel momento in cui non c’è felicità nella coppia, non c’è gioia di vivere, non c’è libertà, non c’è rispetto, non c’è fiducia. In assenza della fiducia, il rapporto sessuale deperisce per forza e, quando presente, assume forme perverse, quali quelle feticiste.

Calo del desiderio: quali sono i casi più frequenti?Ho seguito e seguo spesso casi di persone con calo del desiderio. La mia esperienza mi ha portato a dividere la casistica in due grandi filoni:

  1. Uno in cui c’è la possibilità per la coppia di rigenerarsi nella comprensione e nel cambiamento;
  2. Un altro “infausto”, dove uno dei due partner presenta una “dipendenza affettiva” patologica. Tale dipendenza affettiva è una malattia ed è inserita dal DSM-V nel filone delle altre grandi dipendenze alimentari, da sostanze stupefacenti, alcoliche, sessuali, ecc.

Gelosia: in che modo può danneggiare una relazione?Il sospetto, una gelosia, soprattutto quando immotivata, può portare incomprensioni, anche menzogne del partner accusato per il quieto vivere, quindi l’inizio del tradimento della “fiducia di coppia”.

C’è un caso che vuole condividere con i nostri lettori?

Ho seguito una coppia in crisi e il partner, che rifiutava una terapia, viveva una gelosia patologica per via delle sue profonde fragilità, insicurezze e gravi carenze infantili, con genitori violenti o assenti. Questa persona, affetta da “dipendenza patologica”, necessita di attenzioni continue, vuole che il partner sia tutto per lui e non abbia altro interesse, rimanendo comunque sempre insoddisfatto. È come se avesse una voragine interiore dove ogni attenzione non è mai sufficiente. Anche l’interesse del partner, che può essere una passione non per un uomo o una donna, ma per un hobby, può essere vissuto come un tradimento, perché in quel momento la persona è presa unicamente da quell’interesse, che per il partner incarna “concretamente” il fantasma dell’altro, un fantasma di tradimento.

A volte, è proprio questo fantasma, o questa insicurezza, che rende il rapporto invivibile e può condurre veramente il partner “vittima” a tradire, come se venisse trasmessa questa paura dal partner geloso, a livello molto profondo e in maniera talmente violenta da spingere il partner vessato all’azione.

Dov’è la possibilità di rispettare la libertà altrui, di fidarsi, anche a costo di essere traditi o lasciati dall’altro? Dov’è l’amore? Queste gelosie “possessive” portano ovviamente ad un calo del desiderio, della libido, in uno o in entrambi i partner, per assenza di ossigeno vitale nella coppia.

Calo di desiderio nell’uomo: quali sono le possibili cause?Per approfondire questo discorso racconterò il caso di un paziente che ho seguito. Parlava continuamente di situazioni sempre molto castranti e umilianti, vissute con la fidanzata di allora. Il paziente, per la sua storia personale, subiva l’aggressività di questa donna. Nonostante lo avessi messo in guardia dalla futura sposa “castrante”, lui fissò la data del matrimonio in segreto, cioè senza informarmi, e la comunicò solo quando ormai questo evento era ineluttabile.

Ovviamente, il rapporto con la moglie non ha mai funzionato. In seguito, il paziente è tornato in terapia per cercare di tollerare una situazione assolutamente patologica e infausta. La moglie, per via di una grave dipendenza affettiva, lo costringe tutt’ora a eseguire ordini di vario tipo, umiliandolo nel momento in cui li esegue male, difendendosi da questo suo sentirsi in gabbia con un’ambivalenza che lo porta a fare male i compiti assegnati e, soprattutto, negarsi sessualmente alla compagna, attraverso fenomeni di “impotenza sessuale”.

Non c’è mai un sano rapporto sessuale, o addirittura è proprio assente, quando la coppia è patologica. Alla base della patologia c’è sempre un’inter-dipendenza affettiva dei due partner, dove uno dei due diventa il carceriere di un altro che vuole essere incarcerato, com’è tipico dei rapporti sadomasochisti.

Coppia patologica: cosa consiglia?

In questi casi, più che un percorso di coppia, che solitamente fallisce perché il partner più patologico lo rifiuta, consiglio percorsi individuali che permettano al partner succube di liberarsi da una situazione sadomasochista e perversa.

Come superare una fase di stallo nel rapporto fra marito e moglie?Nei casi di crisi di coppia meno patologici, ma dettati da fatti contingenti (stress lavorativo, economico, familiare, nascita di un figlio, perdita del lavoro, traslochi, morte di una persona cara, ecc..) casi in cui la coppia subisce un blocco della sua spinta evolutiva, nel piacere dallo stare insieme (anche sessualmente), allora la terapia di coppia è consigliabile perché probabilmente il calo del desiderio è dato da uno dei fattori prima espressi che possono creare un momento di stanchezza e una crisi della libido.

Moglie in dolce attesa: perché lui evita il contatto fisico?La nascita di un figlio mette sempre a dura prova la tenuta della coppia, a volte mandandola in crisi. Ci sono uomini che fanno fatica ad avvicinare la moglie quando questa è incinta, perché è come se vivessero l’atto sessuale come un atto violento che potrebbe fare del male al bambino.

Quando nasce il bambino, la mamma solitamente è tutta presa dalla cura del pargoletto. Il compagno può sentirsi trascurato, può essere anche invidioso di queste potenzialità materne della propria compagna, a lui negate. Quindi, anche in questo caso la libido può subire uno stop.

Qual è il segreto per tenere vivo il desiderio in un matrimonio?Una delle cose da non fare quando la coppia va in crisi sessualmente è iniziare a pensare ad altri partner compensatori, passare le nottate su Messenger o iniziare a trattarsi male. Una coppia disfunzionale e non patologica, reggendosi sulla fiducia e sulla libertà individuale e non sulla dipendenza affettiva, può rivedere con impegno le proprie coordinate, correggere rotte disfunzionali, modularsi e attivare un desiderio che prima di tutto è un desiderio di continuare a vivere insieme e poi il desiderio sessuale.

Il rifiuto dei rapporti sessuali nel matrimonio: conseguenze. Dopo aver analizzato gli aspetti psicologici del disinteresse sessuale nell’intervista al dr. Maurizio Cottone, ti parlerò del rifiuto sessuale nella vita matrimoniale e delle possibili conseguenze che possono derivarne. Cosa succede se tuo marito non desidera più fare l’amore con te? Le hai provate proprio tutte, vi siete rivolti persino ad un terapista di coppia, ma la situazione non accenna a migliorare. Il rapporto è irrecuperabile, non c’è più affinità sessuale e la distanza tra di voi è incolmabile. Cosa puoi fare? Se l’attrazione si dissolve col passare del tempo, puoi separarti e divorziare senza incorrere in alcuna responsabilità. La legge non ti impone di amare il coniuge per l’eternità.

Tuttavia, matrimonio e rapporti sessuali sono strettamente collegati, infatti è possibile annullare le nozze quando non sono state consumate.

I coniugi sono obbligati ad avere rapporti sessuali? E’ possibile un matrimonio senza rapporti sessuali?  Sì, se tra i coniugi c’è un accordo (esplicito o implicito), ma nel momento in cui uno dei due desidera avere rapporti e l’altro li rifiuta costantemente e categoricamente, il primo può chiedere la separazione con addebito. Attenzione, questo non significa che il coniuge possa costringere l’altro a fare l’amore se quest’ultimo non lo desidera, altrimenti potrebbe ricevere una denuncia per violenza sessuale. Dunque, chi desidera avere rapporti con il coniuge deve ricevere il suo consenso; in caso di astensione, è possibile procedere per vie legali.

Tra i doveri del matrimonio, il Codice civile contempla quello di reciproca assistenza morale e materiale, tra cui è incluso il “dovere di fare l’amore”. D’altro canto, il marito o la moglie non possono sottrarsi ripetutamente ai rapporti sessuali, a meno che non ricorra una ragione valida (di tipo fisico o psicologico) che potrebbe consistere nel non amare più l’altro coniuge o non esserne più attratto. In tal caso, il rifiuto è giustificato e non può rappresentare una causa di addebito.

Denise Ubbriaco        La legge per tutti       11 giugno 2019

www.laleggepertutti.it/287935_perche-mio-marito-non-mi-desidera-piu

 

Gender. No all’ideologia, sì al dialogo sulla differenza sessuale

Aprirsi al confronto sulla diversità di genere. Sguardo critico su fluidità e indeterminatezza. Ecco il nuovo approccio in un documento della Congregazione per l’Educazione cattolica. Il gender rimane ideologia inaccettabile perché nega “la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna, prospetta una società senza differenza di sesso e svuota la base antropologica della famiglia”.

Tuttavia occorre distinguere tra ideologia e studi di genere. In relazione a queste ricerche è possibile aprirsi all’ascolto, al ragionamento e alle proposte. Esistono elementi “di ragionevole condivisione, come il rispetto di ogni persona nella sua peculiare e differente condizione, affinché nessuno, a causa delle proprie condizioni personali (disabilità, razza, religione, tendenze affettive, ecc.), possa diventare oggetto di bullismo, violenze, insulti e discriminazioni ingiuste”. L’altro punto che dovrebbe indurre a condividere le ricerche sul gender riguarda il ruolo e il valore della donna, come l’approfondimento del modo in cui nelle diverse culture si vive la differenza sessuale tra uomo e donna. Lo scrive il cardinale Giuseppe Versaldi, [studi di psicologia] prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, nella presentazione del documento diffuso stamattina.

            “Maschio e femmina li creò. Per una via di dialogo sulla questione del gender nell’educazione” – questo il titolo del testo a cui hanno collaborato esperti di pedagogia, filosofia, diritto, didattica – segna una svolta importante nell’ormai decennale confronto tra l’antropologia cristiana sulla coppia e sulla famiglia e le teorie del gender. Dopo tanti anatemi e tante semplificazioni che hanno impedito di riconoscere l’opportunità di fare chiarezza in un arcipelago in cui sono presenti rivendicazioni ideologiche quasi paradossali (Judith Butler), chiusure segnate dal più intransigente giuricidismo ma anche riflessioni approfondite e dialoganti nel segno del Vangelo (tra gli altri le studiose italiane Lucia Vantini, Selene Zorzi, Cristina Simonelli, Susy Zanardo), il documento si pone finalmente all’ascolto “delle esigenze dell’altro” e si apre alla comprensione “delle diverse condizioni” con l’obiettivo di proporre “un’educazione cristiana radicata nella fede”.

            Non è naturalmente un banale “contrordine compagni” che spalanca le porte a proposte antropologiche tanto lontane dalla verità della differenza sessuale da risultare inaccettabili eticamente e anche umanamente poco percorribili, ma è un invito al dialogo, al confronto nella logica del discernimento. E, di fronte a ricerche serie, motivate negli obiettivi e condotte con metodo scientifico, “è possibile aprirsi all’ascolto, al ragionamento e alla proposta”. Il documento non è neppure un saggio esaustivo che ha la pretesa di affrontare tutti gli ambiti di una questione enorme e trasversale che tocca tra l’altro antropologia e teologia, pedagogia e medicina, diritto e costume. Anzi, si cercherebbero invano approfondimenti su questioni strettamente connesse al tema trattato, come l’omosessualità su cui si sceglie di non dire nulla, sulle origini dell’orientamento sessuale e sulla transessualità, a cui si accenna soltanto per ricordare le “sofferenze di coloro che vivono in una condizione indeterminata” e si rimanda alla scienza medica il compito di intervenire “con finalità terapeutica”, lasciando sullo sfondo il complesso dibattito sulla cosiddetta riassegnazione sessuale con tutte le implicazioni farmacologiche ma anche umane e quindi educative (caso Triptorelina). Ma sarebbe stato davvero impossibile dire tutto.

            Il testo presentato oggi dalla Congregazione per l’educazione Cattolica, è soprattutto uno spunto preciso e coraggioso per suggerire un nuovo approccio destinato inevitabilmente a integrazioni e sviluppi successivi. Intanto ha il pregio di ricordarci in modo efficace cos’è il gender, ripercorrendone la storia. Da quando, a metà del ‘900, sulla base di una lettura sociologica delle differenziazioni sessuali e sotto la spinta di un’enfasi libertaria, si cominciò a teorizzare “come l’identità sessuale avesse più a che fare con una costruzione sociale che con un dato naturale o biologico”. Per arrivare agli anni Novanta del secolo scorso, quando si punta a proporre “la radicale separazione tra genere (gender) e sesso (sex)” secondo un approccio del tutto soggettivistico alla persona perché “ciò che vale è l’assoluta libertà di autodeterminazione e la scelta circostanziata di ciascun individuo nel contesto di una qualsiasi relazione affettiva”. Difficile dialogare di fronte a un simile impianto ideologico.

            Quando però gli studi di genere “hanno la condivisibile e apprezzabile esigenza di lottare contro ogni espressione di ingiusta discriminazione”, non è difficile trovare punti di incontro. Anche perché queste ricerche sottolineano “ritardi e mancanze” che hanno avuto influsso negativo anche all’interno della Chiesa. Vanno quindi superate “rigidità e fissità che hanno ritardato la necessaria e progressiva inculturazione del genuino messaggio con cui Gesù proclamava la pari dignità tra uomo e donna, dando luogo ad accuse di un certo maschilismo più o meno mascherato da motivazioni religiose”. Superare le discriminazioni ingiuste, rispettare ogni persona al di là del colore della pelle, della religione e della tendenza affettiva, si traduce quindi in “un’educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, in cui tutte le espressioni legittime della persona siano accolte con rispetto”. Come detto, le criticità verso il gender più fluido e oltranzista rimangono intatte, del tutto inconciliabili con quell’ecologia umana integrale di cui spesso ha parlato papa Francesco.

            A questo proposito il documento riafferma la “radice metafisica” della differenza sessuale: uomo e donna, infatti, sono le due modalità in cui si esprime e realizza la realtà ontologica della persona umana”. In questa prospettiva è sbagliato negare la dualità maschio e femmina, perché solo in questa cornice “l’uomo e la donna riconoscono il significato della sessualità e della genitalità in quell’intrinseca intenzionalità relazionale e comunicativa che attraversa la loro corporeità e li rimanda l’un verso l’altra mutuamente”.

            Qui si apre il progetto educativo. Il documento della Congregazione per l’educazione Cattolica passa in rassegna i compiti della famiglia (“proprio all’interno del nucleo familiare il bambino può essere educato a riconoscere il valore e la bellezza della differenza sessuale, della parità e della reciprocità biologica, funzionale, psicologica e sociale”) e della scuola (“aiutare gli alunni” a sviluppare come dice papa Francesco “un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità”), auspicando un’alleanza in cui si possano articolare percorsi di educazione all’affettività e alla sessualità “finalizzati al rispetto del corpo altrui e al rispetto dei tempi della propria maturazione sessuale ed affettiva”. Importantissima quindi la formazione dei formatori, con una preparazione adeguata “sui diversi aspetti della questione gender”, secondo percorsi di accompagnamento che tengano conto anche di chi “si trova a vivere una situazione complessa e dolorosa”. Auspicio importante che ora dovrà trovare modalità originali e progetti davvero percorribili per diventare prassi condivisa.

Luciano Moia Avvenire 10 giugno 2019

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/gender-la-chiesa-apre-al-dialogo

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