NewsUCIPEM n. 744 – 10 marzo 2019

NewsUCIPEM n. 744 – 10 marzo 2019

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

News gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, 2019che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Sono così strutturate:

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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.

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02 ABUSI                                                            Non ci sono più intoccabili

03 ADDEBITO                                                    Abbandono del domicilio e interruzione dei contributi economici

03 ADOZIONI INTERNAZIONALI                               Il crollo? Anche colpa dei decreti vincolati.

04 AFFIDO CONDIVISO                                 Figlio diviso al 50% tra i genitori: il giudice ordina tempi paritetici.

05 AFFIDAMENTO ESCLUSIVO                   Affido esclusivo: presupposti.

07 AMORIS LÆTIZIA                                      Le parole e il silenzio: una lettera a Giulio Meiattini.

09                                                                          Le parole e il silenzio (02): risposta di Giulio Meiattini, con postilla.

11 ASSEGNO di MANTENIMENTO FIGLI               Reddito medio fatale all’avvocato: confermato l’obbligo.

11 ASSEGNO DIVORZILE                              La convivenza con un altro anche se venuta meno lo esclude.

12                                                                          No a donna che non s’era sacrificata x l’incremento del patrimonio

12                                                                          Assegno divorzile addio se peggiorano i redditi dell’obbligato.

13                                                                          L’evoluzione dell’espressione “mancanza dei mezzi adeguati”.

15                                                                          Come dimostrare che l’ex moglie convive.

17                                                                          La Corte conferma la statuizione.

17                                                       Il divario economico rilevante tra le parti non è sufficiente.

18 AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI  La mediazione penale nel procedimento penale minorile.

18 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA   Newsletter CISF – n. 9, 6 marzo 2019

20 CHIESA CATTOLICA                                  Il tempo di un sinodo nazionale

23                                                                          “E se sul celibato dei preti si esprimessero le singole comunità?”

24                                                                          Quasi un miliardo e mezzo i cattolici nel mondo.

24                                                                          Donne nella Chiesa: poco ascoltate, ma la cultura farà la differenza

25 CHIESE RIFORMATE                                 Chiesa d’Inghilterra, 25 anni fa le prime donne sacerdote.

26                                                                          Il futuro è una chiesa «scapigliata».

27 CONSULTORI ISPIRAZ. CRISTIANA     Le trasformazioni statutarie dei consultori familiari.

28 CONGRESSI CONVEGNI SEMINARI   Percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile.

28                                                                          Il CoLAP rilancia: economia, sviluppo, competenza ed eccellenza!

29                                                                          Programma di educazione affettiva e sessuale.

29                                                                          Giudice e psicologo con le famiglie in tribunale.

29                                                                          XXI Settimana di studi sulla spiritualità coniugale e familiare.

29 DALLA NAVATA                                         1° Domenica di Quaresima – Anno C – 10 marzo 2019.

29                                                                          Dal deserto al giardino, cammino verso la vita.

30 DEMOGRAFIA                                            Pochi passeggini, l’Europa invecchia. In Italia primo figlio a 31 anni.

31 DIRITTO DI FAMIGLIA                             Parere su affido di minori Autorità garante infanzia adolescenza.

36                                                                          Donne per la Chiesa: il DDL Pillon non ha nulla di cattolico.

37 ENTI TERZO SETTORE                               Forum del Terzo settore entra nella cabina di regia di Palazzo Chigi

38                                                                          Più tempo per gli statuti: le richieste di Uneba.

39                                                                          Uneba: “La riforma rischia di penalizzare i nostri assistiti”.

40                                                                          Terzo settore, definiti i limiti per i ricavi da “attività diverse”.

41 FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI    Reddito di cittadinanza”Così com’è non è una misura per famiglie”

42 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA       Sei anni con Papa Francesco nel contesto del Vaticano II.

43                                                                          Il piccolo decalogo di papa Francesco

45 PARLAMENTO                                            Senato della Repubblica–Commissione Giustizia–Affido dei minori.

46 PROFESSIONI                                             Responsabilità dello psicologo.

47 PROSTITUZIONE                                       La Consulta “salva” la legge Merlin.

48                                                                          La legge Merlin tutela la dignità personale.

48                                                                          Case chiuse? In Italia è impossibile riaprirle.

49 SALUTE                                                         Presentato dal Ministero della Salute lo Studio sulla fertilità.

50                                                                          Videomessaggi da EpiCentro, sito dell’Istituto Superiore di Sanità.

50                                                                          2 geni e una capanna, nel Dna il segreto del matrimonio felice.45151                                                                              Salute mentale: “Si costruisce dal concepimento.

52                                                                          Via libera al «farmaco gender»

53                                                                          L’identità sessuale adolescenti nelle mani dell’Agenzia del farmaco

54 VOLONTARIATO                                        L’Agenzia delle entrate regala computer.

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ABUSI

Non ci sono più intoccabili

Fine degli intoccabili. I sei mesi di carcere con sospensione inflitti al cardinale Barbarin, arcivescovo di Lione, condannato per omissione di soccorso davanti agli abusi di padre Bernard Preynat, assistente e molestatore degli scout fra il 1986 e il 1996, dicono questo: fine degli intoccabili. Nessuno può più sperare che la giustizia rinunci a denunciare gli abusi di potere (quelli di cui era accusato Mc-Carrick), gli abusi sessuali (quelli di cui era accusato Pell) e il favoreggiamento degli uni e degli altri delitti (di cui è accusato Barbarin) per riguardo ad una dignità ecclesiastica o alla porpora cardinalizia.

È la conclusione di un ciclo storico assai lungo, che per i cardinali era iniziato nel 1577. Allora quando il potere politico e quello giudiziario erano nelle mani del sovrano pontefice, Sisto IV, stabilì che i cardinali erano esonerati da tutte le norme penali che non li menzionavano esplicitamente, perché solo il Papa avrebbe potuto giudicarli. Un privilegio che li metteva al riparo della curia e che, violato una sola volta in oltre quattro secoli, era diventato quasi un istinto. Gli ecclesiastici che grazie al cardinalato diventavano parte del clero romano e guadagnavano il diritto di eleggerne il vescovo, sapevano di essere stati scelti per una funzione altissima, che implicava in loro un surplus di rigore e di virtù. Ma avevano anche assorbito l’idea che quel collegio di porpore godeva di diritti: e quando il Papa negava la porpora a un potente (si pensi a monsignor Marcinkus) era per tenerlo a una distanza eloquente.

La fine del potere temporale, ovviamente, ha fatto cadere la azionabilità dei privilegi cardinalizi. Ma non ha cancellato per tutti una mentalità che oggi finisce definitivamente: grazie all’azione dei magistrati e alla decisione del Papa di lasciare che i tribunali agiscano indipendentemente e se possibile prima che le procedure canoniche regolino le conseguenze delle sentenze emesse in nome dello Stato. Di questo esito di dolorose purificazioni, e a rischio di possibili errori giudiziari, papa Francesco si è fatto motore e garante: ed era necessario. Tutti ricordano che il cardinale Law, l’arcivescovo di Boston che spostava preti pedofili seriali da una parrocchia all’altra, venuto a Roma per proteggersi ed entrato senza problemi nel conclave del 2005 (mentre il cardinale O’Brien sotto accusa in Irlanda nel 2013 rinunziò al suo diritto). Tutti hanno visto che il cardinale McCarrick, pur consapevole di abusi che è difficile credere siano tutti montature, si è tenuto la porpora finché papa Francesco non gliel’ha tolta d’imperio. E il cardinale Pell, rimandato dal pontefice in Australia per il processo e condannato per una serie di aggressioni sessuali (di cui si proclama innocente), non ha ancora deciso cosa fare della sua berretta cardinalizia: anche se è difficile che i suoi accusatori, come quelli del cardinale Bernardin di Chicago, confessino di essere stati pagati per denunciarlo.

Barbarin, che è uomo teologicamente più fine degli altri, ha già annunciato le sue dimissioni dalla guida della diocesi, e si vedrà cosa farà della porpora. In ogni caso la condanna di Barbarin e di altri cinque preti lionesi apre però una fase nuova per molti vescovi, in tutto il mondo. Se è sopra lo zero, il numero di preti che si sono macchiati di abusi sui bambini è sempre troppo grande.

Ma è evidente che quelli colpevoli – anche quando sono centinaia come in Italia – sono una piccola percentuale rispetto ad un clero sano. Invece la percentuale di vescovi che nella loro carriera hanno avuto contezza di abusi sessuali, di coscienza o di potere (per usare la formula di Bergoglio) commessi da preti, e che davanti a questi delitti hanno creduto di poter attendere e rifiutato l’amore dovuto alle vittime, quella è una percentuale tutta da scoprire: e non è detto che sia piccola. Qualunque sia il loro numero, tutti loro sanno che di intoccabili non ce n’è più.

Alberto Melloni                     “la Repubblica” 8 marzo 2019

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2019/03/08/non-ci-sono-piu-intoccabili34.html?ref=search

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ADDEBITO

Abbandono del domicilio coniugale connesso alla interruzione dell’erogazione dei contributi economici

Corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 3877, 8 febbraio 2019

Ai fini della pronuncia di addebito, non è sufficiente la sola violazione dei doveri previsti a carico dei coniugi dall’art. 143 c.c., ma occorre verificare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale. Tale presupposto è configurabile in presenza di una congiunta valutazione dell’abbandono della casa coniugale da parte del marito e della contestuale interruzione del mantenimento familiare.

            Studio Elena Jaccheri            1 marzo 2019 ordinanza

www.studiolegalejaccheri.it/2019/03/01/l-abbandono-del-domicilio-coniugale-connesso-alla-interruzione-della-erogazione-dei-contributi-economici-per-la-famiglia-comporta-laddebito-della-separazione

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Il crollo delle adozioni internazionali? Anche colpa dei decreti vincolati

“I coniugi sono idonei all’adozione di un minorenne di nazionalità straniera di età non superiore a 5 anni”. Così un Tribunale per i minorenni dichiara per una coppia di aspiranti genitori adottivi nati nel 1975. Il Tribunale precisa che questa limitazione deriva “dalle indagini svolte dai servizi e dalle dichiarazioni della coppia.“ E in effetti nella relazione dei servizi socio territoriali di zona, si legge che “i coniugi hanno definito che si sentono in grado di accogliere un solo bambino che abbia al massimo 5 anni”.

            E’ solo un esempio di una bizzarra prassi – che va avanti ormai da molti anni – di emettere decreti nei quali viene introdotta una limitazione relativa all’età del bambino che la coppia potrebbe accogliere, in netto contrasto con numerosi principi di diritto internazionale oltre che con la realtà di fatto esistente nei Paesi stranieri, cioè con i bambini concretamente in attesa di una famiglia.

            Il problema di fondo dei decreti vincolati è proprio che essi si rivelano, in molti casi, inutilizzabili all’estero, o comportano comunque difficoltà operative e rallentamenti nelle procedure, che si ripercuotono inevitabilmente sui bambini che attendono una famiglia e sul buon esito del progetto adottivo della coppia, che non viene accompagnata all’incontro con il bambino reale.

Con riferimento all’età dei bambini, ad esempio, “In realtà, l’età media dei bambini che entrano in adozione internazionale è di circa 8 anni.“ A dirlo sono i report statistici recentemente pubblicati dalla stessa Commissione per le adozioni internazionali relativi alle adozioni internazionali realizzate negli anni 2016 e 2017.

            I limiti di età indicati in alcuni decreti vincolati sono altresì ristrettivi rispetto a quelli previsti dalla legge 184/4 maggio 1983: “L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e di non più di quarantacinque anni l’età dell’adottando” (articolo 6, comma 3). Inoltre la legge giustifica in casi specifici delle deroghe in favore dei bambini ma non il contrario.

            La prassi dei Decreti vincolanti riporta in auge il principio di non discriminazione. In risposta ad un esposto di Ai.Bi. alla Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, che denunciava una “palese discriminazione sulla base delle condizioni personali, e in particolare sullo stato di salute, nei confronti dei minori non perfettamente sani”, ben più di 8 anni fa, nel giugno del 2010, la Corte di Cassazione, pronunciando a Sezioni Unite la sentenza n. 13332/1 giugno 2010, aveva affermato l’importante principio di diritto secondo cui sono illegittimi i decreti di idoneità all’adozione internazionale vincolati con il riferimento a caratteristiche del minore.          www.miolegale.it/sentenze/cassazione-civile-sezioni-unite-13332-2010

Nonostante la chiarezza delle fonti sia nazionali sia internazionali, la prassi dei decreti vincolati purtroppo continua, sotto gli occhi di tutti, a sopravvivere in molti Tribunali, contribuendo di fatto al crollo delle adozioni internazionali.

            Sicuramente il recepimento da parte dei Tribunali dei desideri di coppie che si avvicinano al mondo dell’adozione senza conoscerne i bisogni e le caratteristiche è ben lontano dalla idea di “formazione” che le stesse linee guida dell’Aia delineano.

            Per questo Ai.Bi. attende che le competenti autorità si pronuncino ancora una volta per stabilire se sia corretto o meno che l’art. 30 comma 2 della legge 184/1983 (“Il decreto di idoneità ad adottare … contiene anche indicazioni per favorire il migliore incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare”) venga usato da alcuni Tribunali per i minorenni per derogare in via permanente ai limiti sull’età previsti per legge in senso sfavorevole ai bambini adottabili e per celare – o quanto meno recepire – discriminazioni, oltre che sull’età, anche su altre condizioni dei bambini in attesa di famiglia.

News Ai. Bi     6 marzo 2019

www.aibi.it/ita/il-crollo-delle-adozioni-internazionali-anche-colpa-dei-decreti-vincolati

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AFFIDO CONDIVISO

Figlio diviso al 50% tra i genitori: il giudice ordina tempi paritetici

Tribunale di Catanzaro, prima sezione civile, decreto n. 443/2019           28 febbraio 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_33798_1.pdf

Rivoluzionario provvedimento del Tribunale di Catanzaro che prende posizione a favore della parental sharing [beneficio per la condivisione dei genitori], chiarendo che non si tratta di una soluzione da preferire in assoluto

Da qualche anno ormai, in materia di separazione e divorzio si sente sempre più spesso parlare di parental sharing, ovverosia di suddivisione paritetica della frequentazione tra genitori separati e figli minori, in luogo del collocamento prevalente presso il padre o presso la madre.

            Di recente, la questione è stata trattata in maniera articolata dal Tribunale di Catanzaro che, con il provvedimento in esame allegato, ha ampiamente ripercorso il tema della responsabilità genitoriale paritetica, non ancora largamente applicata dalla giurisprudenza italiana, ma pienamente aderente a quanto disposto dall‘articolo 337-ter del codice civile, “che non pare riferirsi esclusivamente all’affidamento legale condiviso, ma anche alla custodia fisica condivisa”.

Provvedimenti sul collocamento paritario. In primo luogo, il Tribunale di Catanzaro ha ripercorso lo stato dell’arte in materia di collocamento paritario, citando, sebbene solo di sfuggita, il Ddl Pillon e soffermandosi, più approfonditamente, sulla Risoluzione del Consiglio d’Europa numero 2079/2015 e sulla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, ratificata dall’Italia con la legge numero 176/1991.

            Nella prima, in particolare, si auspica l’adozione di misure che assicurino, oltre che una responsabilità genitoriale condivisa, una parità di ruoli tra padri e madri nei procedimenti di separazione personale, che passi anche attraverso la cd. shared residence [forma di affidamento in cui i figli dopo la separazione della coppia genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre”.].

La Convenzione di New York, invece, riconosce il diritto dei fanciulli di intrattenere rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori anche in caso di separazione e sancisce il principio secondo il quale sia la madre che il padre sono responsabili dell’educazione e dello sviluppo dei figli. Tutti argomenti poi ripresi anche dalla Carta di Nizza.

            Il provvedimento in commento, nel ricostruire l’evoluzione del collocamento paritario non omette di segnalare i protocolli e le linee guida adottati da alcuni Tribunali italiani, come quelli di Perugia, Salerno e Brindisi.

Gli effetti della parental sharing. Il Tribunale di Catanzaro si è poi soffermato sugli effetti della parental sharing sullo sviluppo del minore, rilevando che non esiste un’adeguata letteratura scientifica in Italia in proposito.

            Di contro, sussiste un’ampia letteratura scientifica americana che dà atto che negli USA e in molti paesi europei la shared custody è utilizzata in maniera sempre crescente e che il figlio che vede la figura paterna coinvolta nella propria crescita grazie a una frequentazione fisica costante trae dei benefici a livello psicologico rispetto al figlio che frequenta il padre solo per poche ore a settimana o nel fine settimana.

            Del resto, ricorda il giudice, la letteratura scientifica è sostanzialmente allineata nel ritenere che, per aversi relazioni durature e consolidate tra genitori e figli, è necessario che il tempo trascorso insieme sia cospicuo e che, se ciò non avviene, è difficile ricostruire un rapporto compromesso.

La giurisprudenza e la legislazione italiana sulla joint custody. Dopo aver esaminato i provvedimenti sul collocamento paritario dei minori e la letteratura scientifica sul tema, il Tribunale di Catanzaro si è occupato di ripercorrere il percorso della legislazione e della giurisprudenza italiana in materia di joint custody [affidamento congiunto)].

            In particolare, il decreto dà conto del fatto che, nonostante le modifiche apportate dalla legge n. 56/8 febbraio 2006 alla disciplina dell’affidamento dei figli, la giurisprudenza degli ultimi dieci anni ha effettivamente preferito un affido condiviso della prole, tuttavia con una tendenza a prevedere il collocamento prevalente presso una delle due figure genitoriali, di fatto quasi vanificando la portata innovativa della riforma.

            In sostanza, per i giudici, nel nostro paese “a fronte di una shared legal custody permane una sole physical custody, vale a dire che solo legalmente i minori sono affidati in maniera condivisa tra i due genitori, mentre la custodia fisica resta affidata prevalentemente ad uno dei genitori”.

            La conseguenza principale di ciò sta nel fatto che il dato relativo ai provvedimenti giudiziali collegati alla decisione sull’affidamento dei figli – quali quelli sull’assegnazione della casa familiare o sulla previsione e sull’ammontare di un assegno di mantenimento del minore a carico del genitore non collocatario – è restato sostanzialmente invariato rispetto a quello antecedente alla riforma del 2006. E, con riferimento all’affidamento dei minori nei giudizi di separazione dei coniugi, spesso è accaduto che l’Italia subisse sanzioni da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo, che pone “degli obblighi positivi inerenti al «rispetto» effettivo della vita famigliare”.

Quando i tempi paritetici sono da preferire. Tutta questa ricostruzione è servita al Tribunale di Catanzaro non tanto per affermare che il collocamento dei figli presso entrambi i genitori con tempi paritetici sia assolutamente da preferire, quanto per chiarire che lo stesso è preferibile “laddove ve ne siano le condizioni di fattibilità e, quindi, tenendo sempre in considerazione le caratteristiche del caso concreto”.

            Il che vuol dire che la shared custody va esclusa, ad esempio, quando ci sono figli molto piccoli o quando gli impegni lavorativi dei genitori o le abitazioni delle quali dispongono non la rendono la soluzione migliore. Del resto, al contrario di quanto avviene in altri paesi (specie del nord Europa), in Italia la parità di ruoli all’interno di una coppia genitoriale si scontra ancora oggi con molteplici ostacoli sia economici che sociali.

Nel caso di specie, le specificità del caso concreto hanno reso la previsione di tempi paritetici priva di ostacoli e, in quanto tale, assolutamente preferibile per il giudice. Il bambino, infatti, ha quasi 6 anni e ha sempre vissuto nella casa familiare in cui al momento vive il padre. Non sono state ravvisate esigenze per cui non potrebbe distaccarsi dalla madre per lungo tempo o di notte né circostanze che renderebbero la permanenza presso l’abitazione del padre una scelta pregiudizievole.

            I tempi che trascorrerà con il padre e quelli che trascorrerà con la madre sono stati quindi stabiliti in misura paritetica.

Segnalazione del dr Marco Pingitore

Valeria Zeppilli                      Studio Cataldi                       08 marzo 2019 –

www.studiocataldi.it/articoli/33798-figlio-diviso-al-50-tra-i-genitori-il-giudice-ordina-tempi-paritetici.asp

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AFFIDAMENTO ESCLUSIVO

Affido esclusivo: presupposti

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 6535, 6 marzo 2019

Quando scatta l’affidamento condiviso e quando quello esclusivo: i casi, le sentenze e gli esempi.

Tuo marito ti ha lasciato sul più bello. È andato a vivere altrove, probabilmente con un’altra donna. È un irresponsabile e incapace, a tuo avviso, di badare a vostro figlio. Perciò, con la separazione, vorresti chiedere al giudice l’affido esclusivo.

            Tua moglie ha problemi psichici: è per colpa sua che il matrimonio è finito. Più volte si è mostrata indifferente ai bisogni dei vostri bambini; la sua abitudine a gridare e a “dare di nervi” hanno messo a repentaglio la loro serenità. Vuoi sapere dunque quali sono i presupposti per l’affido esclusivo in modo da sottrarle la gestione dei minori e tenerli in casa con te.

Sono questi alcuni dei numerosi esempi in cui, nell’ambito dei conflitti familiari, si consumano le lotte tra ex coniugi sull’affidamento dei bambini. Riconoscere l’affidamento a un genitore piuttosto che a un altro significa attribuire a questi, dal giorno successivo alla separazione, la possibilità di adottare le scelte più importanti per il figlio senza bisogno di consultare l’ex e, quindi, anche in disaccordo con questi. Tuttavia la legge, in ragione della responsabilità che deve gravare su entrambi i genitori e del fatto che ogni bambino ha diritto a vivere sia col padre che con la madre, prevede come regola l’affidamento congiunto (o affido congiunto) e solo, in casi eccezionali, l’affidamento esclusivo (o affido esclusivo). In buona sostanza l’ordinamento attribuisce naturalmente ai genitori un pari ruolo nei processi decisionali relativi alla crescita, educazione, formazione e salute dei figli.

            Ma quali sono i presupposti per l’affidamento esclusivo se è vero che si tratta solo di un’eccezione? A fornire i chiarimenti è stata più volte la giurisprudenza. Da ultimo la Cassazione è tornata sull’argomento analizzando il caso di un padre che non aveva più fatto ritorno a casa. I rapporti con la moglie erano diventati talmente litigiosi da far presumere che tale situazione potesse ledere i minori, creando situazioni di stallo nell’assunzione delle decisioni, dalle più banali alle più importanti. Ecco cos’è stato detto in questa occasione.

Cosa si intende per affidamento? In generale ogni figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. In caso di separazione e divorzio dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cure, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (cosiddetto diritto alla bigenitorialità).

            Pertanto quando si parla di affidamento non ci si riferisce al luogo ove il figlio andrà materialmente a vivere e dove sposterà la propria residenza dal momento in cui i genitori saranno separati (di solito la madre); tale concetto infatti viene definito con il termine “collocazione del minore”. Piuttosto l’affidamento consiste nel potere/dovere del genitore di assumere le decisioni più importanti per l’interesse del minore finché questi non è in grado di farlo autonomamente. L’affidamento è quindi la natural sostituzione della volontà del minore – in quanto incapace di intendere e volere – con quella del genitore. Queste decisioni, dunque, spettano in pari misura sia al padre che alla madre. Ragion per cui, come vedremo, la separazione non interrompe quest’obbligo per i genitori, conservando questi pari diritti e doveri sui figli. Salvo alcune eccezioni.

Per chi vale l’affidamento? Il problema dell’affidamento si pone solo per i figli minorenni. Quindi, se una coppia ha figli che hanno già superato i 18 anni, benché non ancora indipendenti dal punto di vista economico, non ha più senso e ragione parlare di “affidamento”, essendo questi ormai capaci di intendere e volere e avendo piena responsabilità delle proprie azioni. Essi quindi possono liberamente scegliere con chi vivere.

Non si ritengono neanche applicabili le norme sull’affidamento neanche per i figli maggiorenni con handicap grave per i quali vigono le forme di tutela dell’amministratore di sostegno, del tutore o del curatore.

Quando l’affidamento condiviso? L’affidamento condiviso è dunque la regola cui si può derogare solo per validi e gravi motivi. Anche in caso di separazione i figli hanno infatti diritto di conservare un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore, di ricevere da entrambi cura, educazione e istruzione nel rispetto delle esigenze e delle richieste dei figli stessi.

L’affidamento condiviso comporta l’esercizio della responsabilità genitoriale da parte di entrambi e una condivisione delle scelte di maggior importanza relative all’educazione, all’istruzione, alla salute, alle attività extrascolastiche o altre riguardanti il figlio minore.

            In caso di separazione consensuale, saranno i genitori a inserire nelle condizioni della separazione l’affidamento condiviso; nel caso di separazione giudiziale è invece il giudice che lo dispone con la sentenza finale del giudizio.

            L’affidamento condiviso comporta l’esercizio della responsabilità genitoriale da parte di entrambi i genitori e una condivisione delle decisioni di maggiore importanza. In termini pratici questo significa che le decisioni meno importanti, quelle relative alla quotidianità (il cibo da mangiare, gli abiti da indossare, gli impegni pomeridiani, ecc.) vengono decisi unilateralmente dal “genitore collocatario” (quello cioè con cui il minore vive nella maggior parte del tempo) e quelle invece di particolare rilievo (ad esempio il tipo di studi da intraprendere, il doposcuola, le attività extrascolastiche, le gite e i viaggi, ecc.) sono scelti di comune accordo dai genitori.

            Tale accordo deve essere di norma preventivo rispetto alla decisione: padre e madre devono cioè consultarsi prima che uno dei due adotti la decisione. Solo nel caso di decisioni particolarmente urgenti e necessarie, come ad esempio una importante visita medica che non si può né procrastinare né evitare, il genitore collocatario può procedere diversamente, dandone poi notizia all’ex.

            L’affidamento condiviso deve essere sempre la scelta preferibile, a meno che la conflittualità tra i genitori, oltre ad essere insanabile, rechi pregiudizio ai figli oppure nel caso in cui uno dei genitori si mostri manifestamente incapace o inidoneo alla loro educazione; in questi casi si deve optare per l’affidamento esclusivo o per altre soluzioni previste dalla legge.

            Nella sentenza in commento la Cassazione ha spiegato che l’affidamento condiviso non è escluso neanche dal fatto che i genitori vivono in Stati diversi. In tal caso viene disposta la collocazione prevalente del minore presso il genitore che gli assicuri la permanenza nell’ambito culturale, parentale e territoriale a lui consueto. Il trasferimento all’estero, con conseguente distacco dall’ambiente del minore, potrebbe costituire un trauma, avendo il minore diritto di conservare le proprie relazioni sociali e familiari, assunte come elementi integranti della loro identità.

Quando l’affidamento esclusivo? Alla regola dell’affidamento condiviso dei figli può derogarsi solo quando la sua applicazione sia pregiudizievole per lo sviluppo psico-fisico del minore. Se il giudice opta per l’affidamento esclusivo deve motivare tale scelta spiegando le ragioni dell’inidoneità educativa di un genitore. L’affidamento esclusivo costituisce pertanto un’eccezione alla regola generale dell’affidamento condiviso. Di solito viene disposto nell’ambito delle separazioni giudiziali ma nulla vieta ai genitori di concordarlo con una separazione consensuale (sempre con il successivo vaglio del tribunale).

In particolare l’affido esclusivo scatta in due ipotesi:

  1. quando l’affidamento condiviso risulterebbe oggettivamente pregiudizievole per il minore;
  2. quando risulta che un genitore è manifestamente incapace o non idoneo ad assumere il compito di curare ed educare il minore. Questo presupposto ricorre in caso di grave inidoneità educativa, di condotta di vita anomala e pericolosa o ancora in caso di rifiuto categorico del minore di avere rapporti con un genitore.

I continui litigi tra genitori non ostano all’affido condiviso. Del resto l’affidamento esclusivo indurrebbe il genitore affidatario ad escludere del tutto l’altro dalle scelte di vita, di educazione, istruzione e cura del minore, fino a sminuire talmente tale figura genitoriale da pregiudicare definitivamente il figlio nel suo diritto di mantenere un equilibrato rapporto continuativo e di ricevere affetto e cure da entrambi i genitori.

            Si dispone per l’affido esclusivo se il conflitto reca grave pregiudizio ai figli o se uno dei genitori si mostra manifestamente incapace o inidoneo alla loro educazione.

            Il semplice fatto che il padre non versi il mantenimento per i figli non implica la perdita automatica dell’affidamento salvo che questo comportamento sia dovuto a totale disinteresse e carenze affettive.

            Non c’è affidamento esclusivo quando un padre ha scarse relazioni con i figli seppur non è né incapace, né pericoloso. L’affidamento condiviso diventa per lui un modo per partecipare maggiormente alla crescita del minore.

            Ecco altri casi in cui si procede con l’affido esclusivo:

  • se c’è violenza nei confronti dei figli;
  • se c’è imposizione di un credo religioso con modalità pregiudizievoli;
  • quando un genitore ostacola il rapporto del figlio con l’altro genitore ponendo in essere tentativi volti ad impedirne la frequentazione;
  • quando un genitore è dedito costantemente all’uso di alcol e droghe tanto da renderlo instabile e incapace. Per la giurisprudenza maggioritaria, però, la condizione di tossicodipendente del genitore non è di per sé ostativa del riconoscimento di tenere presso di sé il figlio per periodi determinati di tempo;
  • in caso di accertata e perdurante tendenza all’aggressività di uno dei coniugi, che costituisce possibile fonte di pregiudizio dei figli;
  • se un genitore si trova in precarie condizioni di salute mentale tali da poter determinare un pregiudizio al minore;
  • se il genitore è agli arresti per reati molto gravi come l’omicidio.

Rita Nola        La legge per tutti       10 marzo 2019

Sentenza                                            https://www.laleggepertutti.it/277620_affido-esclusivo-presupposti

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AMORIS LÆTITIA

Le parole e il silenzio (01): una lettera a Giulio Meiattini

La riedizione del testo “Amoris Lætitia? I sacramenti ridotti a morale” di Giulio Meiattini [monaco dell’Abbazia benedettina Madonna della Scala (Noci)] presenta una nuova Introduzione, che è stata offerta integralmente in lettura da parte di un blog

(www.aldomariavalli.it/2019/03/04/dalladulterio-allomosessualita-genesi-e-scopo-della-strategia-del-silenzio-nella-chiesa-in-uscita).  Poiché l’autore è professore a S. Anselmo e mio collega, ritengo opportuno scrivere alcune riflessioni, in dialogo con lui, in modo che si possa vedere la grande libertà di confronto che l’Ateneo anselmiano presenta al suo interno e che offre anche alla formazione critica e argomentata dei propri studenti. Sul giudizio intorno al pontificato di Francesco e in particolare su AL questo blog ha già presentato discussioni critiche, nelle quali lo stesso Giulio Meiattini è direttamente intervenuto. Ecco allora il contesto nel quale inserisco anche questa lettera al mio collega.

 

Caro Don Giulio, se ipotizzi che quei ponti ecclesiali e culturali – che papa Francesco costruisce ormai da 6 anni – siano destinati ad essere un nuovo “ponte Morandi” e se vuoi considerare te stesso come un “ingegnere” che “non vuol tacere” i rischi di questa costruzione pontificale, a tuo avviso destinata alla rovina, come tu stesso scrivi alla fine della nuova introduzione, questa mi pare una piega apocalittica e direi catastrofica del tuo pensiero, che non avevo letto con tanta pesantezza nel tuo testo in prima edizione. Questo esito, a tuo avviso, dipenderebbe da una “strategia del silenzio”, con cui di fatto si “chiamerebbe bene il male e male il bene”. E questo sarebbe, a tuo avviso, il “dato obiettivo” segnalato dal silenzio piombato improvvisamente su due “parole-chiave” della identità cattolica circa il peccato, ossia “adulterio” e “omosessualità”.

            Ebbene, io trovo che la tua analisi suoni profondamente unilaterale e senza vero contatto con quella realtà, umana ed ecclesiale, di cui intendi parlare. Per di più ciò avviene sotto il “titolo” di una presunta denuncia della riduzione dei sacramenti alla morale, che tu imputi apertamente al magistero di Francesco. Come avevo già scritto in un nostro dialogo precedente, dedicato alla prima edizione del tuo libro, a me pare che sia proprio il tuo approccio – non quello magisteriale – a non vedere più la differenza del sacramento dalla morale e a confondere il primo con la seconda. Ciò che AL ha fatto, e ciò che continua a fare il magistero di Francesco anche dopo AL, sta proprio nel segnare, direi quasi nel “marcare”, la differenza tra domanda morale e normativa ed esperienza sacramentale.

            Provo a dirlo con altre parole: tu vedi una “strategia del silenzio” nel non far uso dei termini “adulterio” e “omosessualità” da parte del magistero recente. Ma tu sei proprio sicuro che, continuando ad usare quelle parole, proprio come fai tu, si riesca davvero a parlare della realtà umana ed ecclesiale, antropologica e teologica, che abbiamo davanti a noi e nella quale viviamo? Sei certo che il termine “adulterio” si possa usare oggi esattamente come 100, 500 o 1.500 anni fa e indifferentemente per situazioni tanto diverse? Sei sicuro che le questioni che riguardano gli “abusi su minori” possano essere affrontate non con la critica della formazione, del clericalismo e della rappresentazione di sé, ma solo con il riferimento severo al peccato di omosessualità? E addirittura tu pensi davvero che le “aperture sui divorziati risposati” volute da AL siano l’inizio del “piano inclinato” che travolgerà tutto e tutti, solo perché separerebbe per la prima volta esercizio della sessualità e istituzione matrimoniale? In quale considerazione tieni il fatto che la “sessualità” stessa è non solo una parola nuova, ma una esperienza nuova, di cui la tradizione è del tutto priva prima del XIX secolo?

            Queste domande, che ora ho voluto rivolgerti, sono reali, non sono domande retoriche. Io davvero non capisco come tu possa pensare che “adulterio” e “omosessualità” possano essere considerati semplicemente dei “peccati”, come avviene in una società chiusa, e non indichino anche “fatiche” e “ferite” con cui i soggetti, in una società aperta, possono certo vivere e fare il male, ma anche possono trovare, in modo complesso e non lineare, una via verso il bene. Proprio qui, a me pare, vorrei sentire che cosa pensi. Perché di questo, in fondo, tu non parli mai. E non sembri sensibile alle trasformazioni con cui la storia, in cui gli uomini e Dio sono coinvolti, cambia le nozioni e le pratiche, mentre scopre nuove vie. Come fai a non tener conto del fatto che “adulterio” è anche una nozione morale e giuridica, sottoposta a profonde trasformazioni morali e normative da parte delle forme di vita di un mondo che sperimenta il rapporto tra libertà e autorità in modo tanto nuovo?

Ciò che ha scritto J.-P. Vesco [domenicano, vescovo di Orano, avvocato, vocazione adulta], a proposito del mutamento del concetto giuridico di adulterio – da reato permanente e a reato istantaneo – come fa a non incidere sul modo con cui tu valuti, del tutto aprioristicamente, la evoluzione del linguaggio del magistero sotto la guida di Francesco? Qui io trovo che il tuo giudizio si faccia talmente severo e rigido, e così privo di aperture, da vedere in tutta questa elaborazione semplicemente una perdita, una corruzione, una confusione, una decadenza, una morte. Tu la leggi solo come un disastro, come un ponte che crolla. Su questo sento di dissentire profondamente da te, anzitutto a motivo della convinzione secondo cui la tradizione può vivere solo se sa ancora tradursi, se osa fare ponti, piuttosto che rinunciare a camminare. E se, nel farli, accetta di avere, oltre che molto da insegnare, anche molto da imparare, da quelli che per primo Giovanni XXIII ha chiamato “segni dei tempi”. Se invece la tradizione, nella sua pretesa completezza, resta abbarbicata soltanto al passato, quando viene il bene, non se ne accorge. Pensa di difendere il Vangelo, e difende invece solo l’assetto medievale, tridentino o ottocentesco con cui il matrimonio e la vita sessuale venivano compresi, orientati e disciplinati, in una società chiusa, senza libertà dei soggetti e senza autodeterminazione delle coscienze.

            La nostalgia per un “magistero che non tace”, mi sembra troppo simile alla paura di fronte ad un mondo complesso, ma non perduto, complicato, ma non abbandonato. A mio avviso è proprio il magistero precedente a Francesco che spesso taceva e restava fermo alle formulazioni classiche, senza comprendere le cose nuove, ma difendendo soltanto lo “status quo”. Dove tu trovi silenzio, io vedo parola e profezia; dove tu sentivi risuonare una parola autorevole, io colgo spesso paura e chiusura diffidente.

            E’ invece proprio il sacramento, quando non si riduce a confermare una morale o un assetto istituzionale, a mantenere aperto escatologicamente il giudizio sulle vite, facendo spazio alla volontà di Dio, che non è mai riducibile alla obbedienza ad una legge.  Io non vorrei che la difesa del cattolicesimo, che tu proponi con tanto vigore, diventasse, anche per te, la difesa di un “assetto istituzionale cattolico”, della morale e del diritto, rispetto a cui il sacramento ha invece il compito di illuminare la realtà e anche di contestarla. La confusione tra questi livelli mi sembra molto rischiosa. E la lettura catastrofica che ne trai risponde certo a criteri astratti, ma non alla realtà concreta di relazioni sentimentali e sessuali, che non possiamo catalogare semplicemente con le nozioni di un mondo del passato che, così come emerge dalle tue parole, non esiste più. E tuttavia la fine di un mondo non è né la fine della vita incontenibile di uomini e donne, né la fine della fresca missione della Chiesa. Forse proprio qui sta o cade la tua analisi troppo amara. Non si tratta di “parole sparite”, né di censure opportunistiche, né di cancellazione di peccati, ma di riconsiderazioni accurate e opportune del rapporto tra Vangelo e cultura umana e civile.

            Papa Francesco sa bene che, se non si affronta, anche linguisticamente, questa sfida nuova e urgente, non si riuscirà ad annunciare il Vangelo in modo davvero efficace. La sua non è una operazione al ribasso, come tu tendi a presentarla con tanta severità, ma una preziosa mediazione tra epoche diverse, che parlano lingue diverse e che pensano con categorie diverse. Tutto questo avviene solo al servizio di una continuità ecclesiale non monumentale o documentale, ma esistenziale ed istituzionale. Per assicurare la quale, però, tanto le parole, quanto le istituzioni, devono essere disposte a convertirsi.

            Non un silenzio impaurito intorno a parole-chiave, ma una elaborazione urgente di parole nuove, chiede anche ai teologi una partecipazione appassionata, rigorosa e critica, piuttosto che una liquidazione nostalgica e catastrofica della questione in gioco. Ma capisco che, proprio qui, noi due, come tanti altri, giudichiamo le cose con metri molto diversi e reagiamo, alle stesse parole, uno col riso o l’altro con il pianto.  Tuttavia resto convinto che, se sapremo farci carico di questa differenza di linguaggi e di prospettive, senza cadere nella trappola di squalificare l’altro, riusciremo a contribuire al commino comune, per una Chiesa che sappia evitare di confondere il sacramento con la morale, la morale con la legge e la legge con la volontà di Dio.             Ti saluto cordialmente            Andrea

Come se non Blog di Andrea Grillo  9 marzo 2019

www.cittadellaeditrice.com/munera/amoris-laetitia-le-parole-e-il-silenzio-una-lettera-a-giulio-meiattini

 

Le parole e il silenzio (02): risposta di Giulio Meiattini, con postilla

            Come già è accaduto in altri casi, alla mia lettera e ai miei interrogativi Giulio Meiattini ha inviato la sua risposta, che qui pubblico volentieri. Poiché nella sua riposta egli formula, a sua volta, alcune domande, aggiungo in calce alcune righe, come postilla, cercando solo di indicare la via di una diversa parola possibile.

 

Caro Andrea,             ti ringrazio della tua rinnovata attenzione. Potrai capire che su molti punti avrei puntualizzazioni da fare. Mi limito però solo a qualche domanda a partire da una delle tue domande. Tu mi chiedi, fra l’altro: «Pensi davvero che le “aperture sui divorziati risposati” volute da AL siano l’inizio del “piano inclinato” che travolgerà tutto e tutti, solo perché separerebbe per la prima volta esercizio della sessualità e istituzione matrimoniale?». Chi legge il mio contributo ha già capito cosa penso in merito e dunque non sto a ripetermi.

Ma da queste tue parole sono io a non capire se tu ritieni che AL abbia suggerito o affermato davvero “per la prima volta” tale separazione fra esercizio della sessualità e matrimonio oppure no. E cosa pensi tu di una loro eventuale separazione? Perché ovviamente dalla risposta a questa domanda cruciale dipende, mi sembra, anche il significato nuovo o diverso, come dici tu, che potrebbero assumere le parole “adulterio” e “omosessualità” in una “società aperta”.

In ogni caso sono ben disposto ad apprendere, come tu li chiami, i nuovi significati di questi due termini, proprio perché vorrei capire bene e in modo esplicito quali essi siano effettivamente. Resto in attesa di chiarimenti, poiché il silenzio su queste due parole, sul quale ho richiamato l’attenzione, è innegabile e impedisce chiaramente proprio di capire quale sia la loro nuova semantica e la diversa e “più complessa” valutazione che secondo te meriterebbero queste realtà. E’ evidente che se invece di ridefinire le parole si smette di adoperarle, è un po’ difficile capire il loro presunto e nuovo contenuto. In compenso, al silenzio verbale corrisponde una fervida attività pratica!

Tu mi domandi ancora: “Ma tu sei proprio sicuro che, continuando ad usare quelle parole, proprio come fai tu, si riesca davvero a parlare della realtà umana ed ecclesiale, antropologica e teologica, che abbiamo davanti a noi e nella quale viviamo?”. E io chiedo ancora una volta: quale sarebbe il modo giusto, nuovo e diverso “dal mio” (ma che non io ho inventato!), di intendere queste parole?

Intendi forse dire che una relazione omosessuale a determinate condizioni è conforme a un’antropologia cristiana? O che due persone dello stesso sesso possano instaurare una convivenza buona e santificante, anche se “non equiparabile al matrimonio”? Oppure che la considerazione dell’adulterio non come “reato permanente” ma come “reato istantaneo” (che alcuni suggeriscono, ma che fino ad ora non trovo recepita da parte dell’insegnamento magisteriale) potrebbe rendere alla fine pienamente legittime altre unioni dopo l’unica sacramentale?

Se la tua risposta a queste domande è affermativa, allora non dovrebbe allarmarti se io riconosco nell’attuale corso proprio il tentativo di legittimare queste idee, visto che tu le condividi. Come teologo dovrebbe preoccuparti, semmai, il fatto che questa legittimazione non avviene attraverso una discussione aperta e teologicamente fondata, ma ricorrendo a metodi indiretti, alla strategia del silenzio che ho segnalato. A dire il vero mi sembra che anche tu in fondo resti “in silenzio” rispetto alla domanda che il mio scritto pone, visto che consideri il mio modo di usare queste parole come superato, ma non dici in quale altro modo “positivo” dobbiamo comprenderle in una “società aperta”. Che adulterio e relazioni omosessuali non siano “solo peccati” lo capisco bene, ma mi sembra che quello che non si dice più è che sono e rimangono “ancora peccati”. Sai, ci sono persone che sostengono che in una Open Society anche la pedofilia possa essere permessa.

Insomma, vedo molte domande e suggestioni nella tua lettera, ma mi manca una explicatio terminorum. Nel frattempo prassi e gesti contrastanti si affermano nella Chiesa senza essere verbalizzati e chiariti, ma riducendo la questione (come fa il card. Cupich da me citato) a semplice discrezionalità “politica”. Come ho detto e scritto altre volte, non basta avviare processi, nei fatti: bisogna anche comprenderne il senso e il significato e sapere verso quale mèta portino o intendano portare.

Infine lascio agli storici del pensiero (non solo cristiano), del costume e della spiritualità di valutare la tua asserzione piuttosto drastica: «la “sessualità” stessa è non solo una parola nuova, ma una esperienza nuova, di cui la tradizione è del tutto priva prima del XIX secolo». Non trovi questa affermazione, appunto, molto dipendente dal XIX secolo?

Un fraterno saluto.                  d. Giulio Meiattini OSB

 

Postilla di risposta.       Caro Don Giulio, alle questioni che a tua volta sollevi posso rispondere solo per cenni, rimandando ad altri testi nei quali sono stato già molto più esplicito. Sulla separazione tra sessualità e matrimonio, questa non è solo e anzitutto una “dottrina ecclesiale”, ma è un “fatto”.

La dottrina che pensa il matrimonio come “unico ambito di esercizio della sessualità” guarda alla realtà umana nella sua dimensione di pienezza escatologica. Storicamente, questo, deve essere considerato come un “ideale”, che però non deve essere idealizzato, senza correre i rischi di cadere in una “aggressione” della realtà. Così anche tutta la riflessione civile e canonica sulla “sanzione” potrebbe essere utile, a tutti noi, per considerare quanto progresso possa fare la dottrina teologica sull’adulterio, purché non ritenga di poter pensare solo “de lege condita” e di vedersi impedita, quasi per principio, ogni riflessione “de lege condenda”.

Nessuno dice che l’adulterio non sia un peccato, almeno tra i teologi. Qualcuno (come Mons. Vesco) propone invece di ripensare il modo di pensare la “sanzione” di questo peccato. Questo non solo è possibile, ma doveroso. A meno che tu non ritenga che si neghi il peccato di omicidio solo perché si è superata la pena di morte – persino correggendo il Catechismo! A questa esagerazione mi sembra far pensare la tua battuta su di un presunto rapporto tra “società aperta” e “giustificazione della pedofilia”, che mi pare del tutto fuori posto, perché sembra dimostrare una totale indisponibilità a considerare seriamente i “segni dei tempi”.

Inoltre, per quanto riguarda la “nascita della sessualità” – che è una delle ragioni fondamentali della tensione tra matrimonio ed atto sessuale – non credo che si debbano aspettare gli storici e che si possano ignorare i testi di Luhmann, Foucault e Giddens e tanti altri, per discutere sul fondamento di quanto ho affermato. Penso che non possa essere accusato di “restare in silenzio” solo chi esula dalle proprie bibliografie e usa altre fonti. In altri termini, senza una adeguata comprensione antropologica, sociologica e culturale del cambiamento del ruolo del sesso nella definizione della identità personale avvenuto nel XIX e XX secolo, credo che tutto il discorso cristiano su matrimonio ed etica sessuale rischi di diventare un “flatus vocis”.

Infine, tu mi chiedi, un poco scandalizzato, se io ritenga che una diversa concezione dell’adulterio possa considerare legittime unioni ulteriori rispetto all’unica sacramentale. Io ti rispondo di restare un poco scandalizzato dal tuo scandalo: perché la teologia non deve argomentare sulla eventuale possibilità di ciò che già è reale. Deve invece darsi le categorie idonee a riconoscere la realtà di “nuovi inizi”, che mettono in crisi le nozioni classiche, le quali non riescono più a servire il vangelo. Quella che tu consideri come la pericolosa confusione del magistero di Francesco io la ritengo una preziosa profezia ecclesiale, già inaugurata dai testi del Vaticano II. Ma anche questa differenza, almeno in spe, non mi pare insuperabile.

Come se non Blog di Andrea Grillo  10 marzo 2019

www.cittadellaeditrice.com/munera/amoris-laetitia-le-parole-e-il-silenzio2-risposta-di-g-meiattini-con-postilla

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI

Reddito medio fatale all’avvocato: confermato l’obbligo del mantenimento per i figli

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 5449, 25 febbraio 2019

Respinto il ricorso proposto da un legale nei confronti della decisione che l’ha onerato di un assegno mensile di 1.000 € a favore dei figli nati dal legame con l’ex compagna. Decisivo per i Giudici il richiamo ai suoi redditi e alla prospettiva di un loro incremento.

Il professionista avvocato è tenuto al mantenimento della prole potendo fare affidamento su redditi in continua evoluzione e suscettibili di incremento.

La caratteristica precipua del reddito dei liberi professionisti è che questo sarebbe passibile di continuo incremento ed evoluzione secondo la Suprema Corte. Infatti nel caso di specie la Corte rigetta il ricorso proposto avverso provvedimento che stabiliva obbligo di un padre di tre figli, giovane avvocato amministrativista, di versare la somma di euro 1.000 alla ex compagna per il mantenimento dei figli avuti dalla stessa. La Corte valuta che le dichiarazioni dei redditi del professionista essendo di natura autodichiarativa vadano considerate con “ragionevole prudenza” e valuta la media netta degli introiti dichiarati dal ricorrente ed anche dall’obbligo del mantenimento di un altro figlio minore avuto da una precedente relazione al fine di fissare la somma da versarsi.

Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia                     8 marzo 2019

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17508098/il-professionista-avvocato-%C3%A8-tenuto-al-mantenimento-della-prole-potendo-fare-aff.html

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ASSEGNO DIVORZILE

La convivenza con un altro anche se venuta meno esclude l’assegno

Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 5974, 28 febbraio 2019

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2019/03/Cassazione-Civile-28.02.2019-n.-5974.pdf

L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia di fatto fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile, non assumendo rilievo l’eventuale successiva cessazione della convivenza intrapresa. La Corte di Cassazione è tornata a ribadire l’incompatibilità tra la scelta di intraprendere una nuova convivenza dopo il matrimonio e la spettanza dell’assegno divorzile.

In particolare, nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva ritenuto che il marito non avesse provato un fatto sopravvenuto legittimante il venir meno del diritto dell’ex moglie all’assegno divorzile in quanto la convivenza di fatto da quest’ultima instaurata non aveva influito in melius sulle condizioni economiche della stessa.

L’uomo ha presentato ricorso in Cassazione avverso la predetta sentenza lamentando l’erronea considerazione da parte della Corte d’Appello della convivenza intrapresa dall’ex moglie quale presupposto – a detta del ricorrente -per l’esclusione del diritto all’assegno.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo del ricorso fondato allineandosi ad un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato secondo il quale “la formazione di una famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post matrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo”.

La Cassazione ha altresì evidenziato come l’eventuale successiva cessazione della convivenza intrapresa non possa influire sul principio anzidetto, sicché il diritto all’assegno non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2019/03/Cassazione-Civile-28.02.2019-n.-5974.pdf

 

www.studiofronzonidemattia.it/la-convivenza-un-altro-anche-venuta-meno-esclude-lassegno

 

Negato alla donna che non si sia sacrificata per l’incremento del patrimonio della famiglia.

Tribunale di Treviso, 8 gennaio 2019.

Secondo l’orientamento indicato dalle Sezioni Unite del 2018, il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, co. 6, della l. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

Sono dunque, elementi dirimenti la durata del matrimonio e l’incidenza del contributo, foriero di compressioni personali, alla formazione del patrimonio del coniuge, di cui si richiede una prova rigorosa, al fine di pervenire ad un regime economico post- coniugale, perfettamente equilibrato, in cui la valutazione della non adeguatezza dei mezzi si misura con i criteri di cui all’art. 5, Legge 898/1970. Nel caso di specie, in relazione all’ulteriore funzione dell’assegno perequativo-compensativa, la resistente nulla ha allegato in merito al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate, non essendo spiegato neppure quale sia stato il contributo dato alla formazione del patrimonio della famiglia ed a quello personale dell’ex coniuge. Inoltre, il solo invio di curricula da parte della moglie, non è sufficiente a provare l’impossibilità di reperire un impiego.

Segnalazione dell’avv. Silvia Manildo del Foro di Treviso.

Il Tribunale trevigiano nel formulare la complessiva valutazione delle emergenze probatorie e privilegiando i principi elaborati dalle Sezioni Unite del 2018, ha ritenuto possibile per la donna di potersi reinserire nel mercato del lavoro ravvisandosi una sua inerzia colpevole nel reperire un’occupazione, negandole pertanto l’assegno divorzile.

Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia                     8 marzo 2019

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17508095/negato-assegno-divorzile-alla-donna-che-non-si-sia-sacrificata-per-l-incremento-.html

www.studiocataldi.it/articoli/33886-divorzio-niente-assegno-all-ex-moglie-scansafatiche.asp

 

Assegno divorzile addio se peggiorano i redditi dell’obbligato

Corte di Cassazione, prima sezione civile, nella sentenza n. 6386, 5 marzo 2019

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_33817_1.pdf

La “rivoluzionaria” pronuncia con cui le Sezioni Unite hanno chiarito i parametri dell’assegno divorzile inizia a mietere le prime “vittime”. Deve ritenersi, infatti, che il contributo non spetti più al coniuge debole qualora le condizioni dell’onerato peggiorino, mentre l’altro è anche in grado di mantenersi autonomamente.

            Lo ha chiarito la Corte di Cassazione. I giudici di merito avevano disposto la cessazione dell’obbligo dell’ex marito di corrispondere l’assegno divorzile alla moglie poiché la situazione reddituale dell’uomo era mutata, dopo il pensionamento, riducendo i suoi introiti.

La revisione delle condizioni economiche tra gli ex. In Cassazione, le contestazioni della ex moglie, scontenta della decisione dei giudici, si risolvono in un nulla di fatto. La Corte rammenta come, ai sensi dell’art. 9 della L. n. 898/1970, le sentenze di divorzio passano in cosa giudicata “rebus sic stantibus“, rimanendo suscettibili di modifica quanto ai rapporti economici o all’affidamento dei figli in relazione alla sopravvenienza di fatti nuovi.

            Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto fossero intervenute le sopravvenienze legittimanti la revisione delle condizioni economiche tra gli ex coniugi, per effetto del sopravvenuto pensionamento del marito.

Assegno divorzile e capacità reddituale del coniuge obbligato. Per gli Ermellini risulta necessario ribadire quanto stabilito dalle Sezioni Unite (sent. n. 18287/2018) secondo cui il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.

            Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.

            La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

Addio assegno se peggiora il reddito dell’onerato. Nel caso di specie, correttamente la Corte d’Appello ha ritenuto integrati i presupposti per la cessazione dell’obbligo di corrispondere un assegno, avente natura essenzialmente assistenziale, di mantenimento all’ex coniuge, essendo sopravvenuta una riduzione della capacità reddituale del coniuge obbligato, conseguente al suo pensionamento (cfr. Cass. 8754/2011; Cass. 17030/2014).

            Inoltre, la signora era risultata del tutto autosufficiente economicamente, in quanto titolare di reddito medio di € 3.000,00 mensili, con eliminazione del divario che in passato aveva giustificato l’attribuzione alla stessa dell’assegno divorzile.

            In relazione all’ulteriore funzione dell’assegno perequativo­-compensativa, quale enucleata dalle Sezioni Unite nel recente pronunciamento, la ricorrente nulla ha dedotto o allegato in merito alla necessità di raggiungimento in concerto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare.

Lucia Izzo      studio Cataldi 10 marzo 2019

www.studiocataldi.it/articoli/33817-assegno-divorzile-addio-se-peggiorano-i-redditi-dell-obbligato.asp

 

Divorzio: l’evoluzione dell’espressione “mancanza dei mezzi adeguati”

L’istituto del divorzio, introdotto nell’ordinamento giuridico italiano con la legge n. 898/1 dicembre 1970, rappresenta una delle cause di scioglimento del matrimonio e determina la fine del rapporto matrimoniale con effetti ex nunc. In particolare, l’art. 1 della legge divorzile prevede che il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio quando “accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3”.

Emessa la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale vengono meno, come effetti personali, i doveri elencati nell’art. 143 c.c., l’impedimento a contrarre nuove nozze (art. 86 c.c.) e la moglie perde la possibilità di usare il cognome del marito, a meno che la donna non ottenga un’autorizzazione giudiziale all’utilizzo del cognome maritale, quando abbia un interesse meritevole di tutela a tale utilizzo.

Riguardo, invece, gli effetti patrimoniali, il coniuge perde i diritti successori nei confronti dell’altro dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.

Al contempo, però, la legge riconosce numerosi diritti patrimoniali al coniuge, come quello di percepire un assegno divorzile, quando non abbia i mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive. In merito a quest’ultimo diritto è opportuno analizzare l’evoluzione giurisprudenziale che ha subito l’assegno divorziale negli ultimi anni.

Partendo dal dato normativo, art. 5, c.6, l. n. 898/1970, si evince che il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare un assegno periodico a favore dell’altro. La norma precisa, però, che solo il coniuge che non possiede i mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive ha diritto ad ottenere l’assegno divorzile.

Secondo l’orientamento tradizionale formulato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sentenza n.11490\29 novembre 1990, poiché l’assegno periodico ha carattere esclusivamente assistenziale, l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge deve intendersi come “insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità di cui possa disporre, a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza cioè che sia necessario uno stato di bisogno, e rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in pendenza di divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate, per ristabilire un certo equilibrio”.

www.fglaw.it/system/files/u4/su90_11490%20(assegno%20divorzile).pdf

Il fondamento del suddetto principio di diritto risiede nella principale funzione cui assolve l’assegno divorzile, ossia funzione solidaristica, c.d. solidarietà post-coniugale, espressione del generale dovere di solidarietà economico-sociale sancito all’art. 2 Cost., che trova la propria giustificazione nella doverosità della prestazione all’interno dell’art. 23 Cost.

Inoltre, dalla funzione solidaristica sorge l’obbligo di corrispondere un assegno periodico a favore dell’ex coniuge privo di mezzi adeguati, nonché di riparare allo squilibrio economico derivante dal divorzio, in piena conformità al valore del matrimonio come indicato dall’art. 29 Cost. Difatti, alla funzione solidaristica si affiancano quella risarcitoria e compensativa, ed è per questo che il diritto all’assegno divorzile viene meno se il beneficiario contrae nuove nozze.

Oltre a ciò, un secondo fondamento a sostegno del diritto all’assegno per mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, lo si ricava dal procedimento seguito dall’organo giudicante per capire se il richiedente ha realmente diritto ad ottenere l’assegno divorzile.

Nello specifico, durante la prima fase, il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso. Nella seconda fase, invece, il giudice competente procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.

Infine, un ultimo argomento lo si ricava dall’assonanza tra l’art. 5, c.1, L. 898/1970 e l’art. 156, c.1, c.c. (interpretazione letterale-sistematica), poiché quest’ultima norma stabilisce che in caso di separazione, il coniuge cui non sia addebitabile la separazione ha diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Tale mantenimento consiste nella prestazione di tutto quanto è necessario per la conservazione del tenore di vita corrispondente alla posizione economico sociale dei coniugi, nei limiti dell’inadeguatezza dei propri redditi e in proporzione alle sostanze dell’obbligato.

Viceversa, un recente indirizzo giurisprudenziale, Cass., prima sezione civile. sentenza n. 11504/10 maggio 2017, ha stabilito che in caso di divorzio, il mantenimento non va riconosciuto a chi è indipendente economicamente. Il motivo per cui la Corte di Cassazione ha ribaltato il proprio precedente risiede nel prendere in considerazione il criterio dell’indipendenza o dell’autosufficienza economica del coniuge che richiede l’assegno (criterio interpretativo – evolutivo). Fondamentalmente, tale orientamento è perfettamente in linea con l’interpretazione letterale dell’art. 5, c.6, l. n. 898/1970, poiché la norma in esame stabilisce che ha diritto ad ottenere l’assegno divorzile solo il coniuge che non possiede i mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.

Riguardo gli indici necessari per valutare l’indipendenza economica di un ex coniuge ritenuto debole e, quindi, escludere la “mancanza dei mezzi adeguati” ex art. 5, c.6, L. n. 898/1970, vengono presi in considerazione il possesso di redditi e di patrimonio mobiliare e immobiliare, le capacità e possibilità effettive di lavoro personale e la stabile disponibilità di un’abitazione.

Inoltre, il principio di diritto in esame si considera coerente con il carattere esclusivamente assistenziale dell’assegno periodico, il cui fondamento costituzionale risiede nel dovere inderogabile della solidarietà economica, ex artt. 2 e 23 Cost.

Per di più, come anticipato precedentemente, con la sentenza di divorzio, il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sia sul piano dello status personale dei coniugi, sia dei loro rapporti economico-patrimoniale e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale ex art. 143, c.2, c.c., fermo restando, in presenza dei figli, l’esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi (artt. 317, c.2, e da 337 bis a 337 octies, c.c.).

Al fine di dirimere il predetto contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 18287\11 luglio 2018 che hanno affermato il seguente principio di diritto: l’assegno di divorzio ha natura assistenziale, compensativa e perequativa.

www.altalex.com/documents/altalex/massimario/cassazione-civile/2018/18287/matrimonio-e-divorzio-divorzio-assegno-di-divorzio

In altre parole, tale decisione non si basa solo su una funzione assistenziale dell’assegno divorzile, ma considera anche quanto dal coniuge richiedente è stato sacrificato, o meglio investito, nella gestione e nella vita familiare, indi considerando in egual modo una funzione compensativa e perequativa. Non a caso, nel corpo della pronuncia de qua, si assume come punto di partenza il profilo assistenziale, valorizzando l’elemento testuale dell’adeguatezza dei mezzi e della capacità (incapacità) di procurarseli.

Si precisa, inoltre, che tale criterio deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale, specie se di lunga durata e specie se caratterizzata da uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale fuori del nucleo familiare.

Infine, alla luce del nuovo indirizzo giurisprudenziale, si può affermare che le Sezioni Unite hanno valorizzato la funzione compensativa senza trascurare la sua naturale funzione assistenziale, dando al coniuge un concreto riconoscimento del suo contributo alla realizzazione della vita familiare.

Per di più, l’attribuzione dell’assegno non dipende più dall’accertamento di uno stato di bisogno, ma assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni caratterizzate da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare.

Per concludere appare corretto affermare che, con tale pronuncia, la Suprema Corte ha garantito una protezione più marcata al coniuge debole, diminuendo il rischio che le scelte e i sacrifici compiuti insieme dagli ex coniugi possano rimanere privi di effetti.

Maria Concetta Lucia La Grassa    Altalex, 6 marzo 2019

www.altalex.com/documents/news/2019/03/06/divorzio-l-evoluzione-dell-espressione-mancanza-dei-mezzi-adeguati

 

Come dimostrare che l’ex moglie convive

La nuova convivenza more uxorio cancella il diritto all’assegno di mantenimento: conta la nascita di una famiglia di fatto. In tema di mantenimento all’ex moglie la Cassazione ha ormai sposato una linea interpretativa chiara: se la donna che percepisce l’assegno divorzile subisce un miglioramento delle proprie condizioni economiche – può trattarsi, ad esempio, di un lavoro, di una promozione o di un lascito ereditario – l’ex marito può rivolgersi al tribunale per chiedere una riduzione dell’importo precedentemente fissato o la sua definitiva cancellazione.

Se però la donna va a vivere con un’altra persona e con questa forma una famiglia di fatto (cosiddetta “convivenza more uxorio”), il diritto al mantenimento cessa per sempre, a prescindere dalle condizioni economiche del nuovo partner. Né la fine della storia può determinare la riesumazione del precedente mantenimento in quanto questo è ormai “morto e sepolto”. A ribadire questi concetti, già di per sé abbastanza chiari, è una ordinanza della Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza. n. 5974, 28 febbraio 2019.                                                         www.neldiritto.it/public/pdf/cass.%20ord.%205974_2019.pdf

Il problema, a questo punto, si sposta su un altro fronte: come dimostrare che l’ex moglie convive?

Nuova convivenza: niente mantenimento. L’orientamento della Cassazione, dicevamo, è intransigente: scatta la definitiva perdita dell’assegno divorzile tutte le volte in cui l’ex moglie instaura una convivenza more uxorio, cioè stabile. La cancellazione del sussidio a carico dell’uomo non richiede la prova di una modifica “in meglio” della condizione economica del coniuge cui veniva versato l’assegno di divorzio. Se anche questa decide di andare a convivere con un disoccupato, che non ha la possibilità di provvedere alle esigenze economiche del nuovo nucleo familiare, perde comunque ed automaticamente il diritto al mantenimento. Questo perché è ormai pacifica l’equiparazione tra famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio.

Il punto focale di tale interpretazione è proprio «l’automatismo» che c’è tra la cessazione del diritto al mantenimento e la nuova convivenza, a prescindere dal reddito del nuovo compagno. L’inizio di una relazione, anche se non fondata sul matrimonio, e quindi la formazione di una famiglia di fatto è scelta libera e consapevole; essa implica sempre l’assunzione di un rischio che non può certo ricadere sul precedente coniuge. La donna decide con chi andare a vivere e, in base a un principio di autoresponsabilità, ne accetta anche tutte le conseguenze.

Se la nuova convivenza finisce: torna il mantenimento? Se è vero che la creazione di una nuova famiglia fa cessare l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento, cosa succede quando la relazione finisce? La donna può bussare alle porte dell’ex marito e chiedere che questi torni a versare l’assegno di divorzio? La risposta è ovviamente negativa. Secondo la Cassazione, se la convivenza si recide, l’assegno divorzile non può mai più risorgere. Infatti, a detta dei giudici supremi, con l’instaurazione di una coppia di fatto «il diritto [a percepire il mantenimento] non entra in uno stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso».

Cosa deve fare l’ex marito se la donna va a convivere? Attenzione però: l’ex marito non può interrompere da sé il versamento dell’assegno anche se ha conoscenza del fatto che la donna è andata a convivere con un altro uomo. Se così facesse potrebbe anche essere querelato per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Egli, al contrario, deve sempre rivolgersi prima al giudice, deve cioè ricorrere in tribunale affinché sia quest’ultimo a revocare la precedente sentenza esonerandolo dal precedente obbligo di versamento dell’assegno mensile. In tale causa l’ex marito dovrà solo dimostrare che l’ex moglie convive (non anche – come detto – la sua autosufficienza economica ossia la disponibilità di un reddito sufficiente a vivere). Già, ma questo è il punto più complicato: il passaggio dalla teoria alla pratica. Come fare a provare che l’ex ha creato una nuova famiglia di fatto basata sulla convivenza more uxorio?

Come dimostrare che l’ex moglie convive. La prima cosa da fare è recarsi in Comune e verificare il certificato di residenza dei due partner. Ad esempio, se l’ex moglie si è trasferita a casa del nuovo compagno, potrebbe già bastare questo indizio per far ritenere che la convivenza sia stabile atteso che la residenza deve per forza coincidere con l’abituale dimora, ossia con il luogo ove, per gran parte dell’anno, si vive. E di sicuro la dichiarazione fatta all’ufficio anagrafe dal diretto interessato è già una mezza confessione di stabile convivenza.

Sempre al Comune è possibile chiedere uno stato di famiglia dell’ex moglie e verificare se questa si è registrata nello stesso nucleo familiare del nuovo partner convivente. È una prerogativa che la legge consente di fare (anche in alternativa ai contratti di convivenza) per ottenere una serie di riconoscimenti alla coppia di fatto che attualmente sono previsti per le coppie sposate (ad esempio i permessi della legge 104).

La giurisprudenza [Cass. Sent. n. 6009/8 marzo 2017] non richiede la dimostrazione di una «relazione amorosa» tra l’ex moglie e il nuovo convivente, potendo bastare anche un rapporto platonico. Una pronuncia del 2017 stabilisce infatti che la semplice coabitazione con un uomo da parte dell’ex moglie fa perdere a quest’ultima il diritto all’assegno anche se lei dichiara che si tratta di affettuosa amicizia e non di convivenza “di fatto” (cosiddetta convivenza more uxorio). Non si può infatti porre a carico dell’ex marito l’onere di dimostrare il grado di intimità tra i due. Leggi, per un approfondimento, l’articolo

www.laleggepertutti.it/153667_mantenimento-allex-moglie-non-dovuto-se-coabita-con-un-amico

Il mezzo tradizionale di acquisizione della prova della nuova convivenza è quello della testimonianza diretta: chi conosce la donna, saprà quali sono le sue abitudini, le frequentazioni, i rapporti personali; il testimone potrà essere citato in tribunale affinché dichiari tutto ciò che ha visto con i propri occhi o che gli è stato riferito dalla donna.

Le fotografie possono essere un boomerang. Difatti, esse sono considerate prove documentali solo se non contestate in giudizio dalla controparte. Non basta però una contestazione generica. L’ex moglie, che è stata fotografata dal precedente coniuge mentre entra ed esce dalla casa del nuovo compagno (o viceversa), dovrà spiegare perché tali scatti non possono considerarsi attendibili e insinuare il dubbio al giudice che essi non siano affidabili (ad esempio, quando non è possibile risalire alla data in cui sono stati effettuati).

Attenzione però: per non cadere in un reato di interferenze nella vita privata, le foto non possono essere fatte all’interno dell’abitazione (magari arrampicandosi su un albero).

C’è chi si avvale di detective privati: le agenzie investigative sono in grado di pedinare l’ex coniuge per verificarne gli spostamenti e con chi vive. Così potrebbe risultare che questi condividano lo stesso appartamento.

Fino a poco tempo fa, la Corte di Cassazione riteneva che, per potersi parlare di famiglia di fatto e, quindi, poter revocare l’assegno di mantenimento, non era sufficiente provare in causa la semplice convivenza occasionale dell’ex coniuge con un’altra persona, bensì era necessario dimostrare la formazione di un nuovo nucleo familiare stabile e duraturo. Questo orientamento si è fatto più morbido e, con una sentenza del 2017 [Cass. Sent. 6009/8 marzo 2017] la Corte ha detto che basta la prova del semplice trasferimento a casa di un altro uomo (o viceversa) a far perdere il diritto all’assegno, pur in mancanza della prova di una vera e propria convivenza di fatto; non può addossarsi sul marito dell’onere di provare anche il grado di intimità tra l’ex moglie ed il convivente. Sicuramente questa nuova prospettiva alleggerisce il rischio del giudizio a carico del marito.

In buona sostanza, il marito che vuole ottenere la revoca dell’assegno di mantenimento (dopo la separazione) o di quello divorzile (dopo il divorzio) dovrà dimostrare solo che l’ex moglie coabita con un’altra persona in modo stabile (ossia da un lasso di tempo apprezzabile); sarà poi quest’ultima semmai, per difendersi, a dover dimostrare che non si tratta di una convivenza more uxorio ma di una semplice amicizia.

Ma la Cassazione è andata anche oltre. Prevenendo i possibili tentativi di aggirare la normativa ai danni dell’ex marito, ha detto in una recentissima sentenza [Cass. Sent. n. 2732/5 febbraio 2018.] che la prova della coabitazione non è essenziale per dimostrare la nascita di una famiglia di fatto.

www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2018/02/Corte-di-Cassazione-05.02.2018-n.-2732.pdf

I due potrebbero vivere anche in luoghi diversi, come spesso succede per motivi di lavoro. È vero che la perdita dell’assegno è tale solo in presenza di una nuova relazione stabile e continuativa ma non è necessaria la convivenza sotto lo stesso tetto al fine di potersi definire coppia. Ciò che conta, affermano i Giudici della Suprema Corte, è l’esistenza di un nuovo legame, di un progetto comune, al di là della coabitazione che potrebbe essere impedita dalle più svariate ragioni di lavoro o (calcoli) personali. Infatti «può esistere una famiglia di fatto o una stabile convivenza, intesa come comunanza di vita e di affetti, in un luogo diverso rispetto a quello in cui uno dei due conviventi lavori o debba, per suoi impegni di cura e assistenza, o per suoi interessi personali o patrimoniali, trascorrere gran parte della settimana o del mese, senza che per questo venga meno la famiglia». Anche in tali casi quindi si perde l’assegno di mantenimento.

Sulla stessa lunghezza d’onda è anche il Tribunale di Como [ordinanza 12 aprile 2018] che, di recente, ha affermato che «va revocato il mantenimento del coniuge che nelle more della separazione personale dall’altro ha formato una nuova famiglia di fatto con un nuovo partner anche senza instaurare una stabile convivenza con quest’ultimo, posto che la formazione di una famiglia di fatto costituisce espressione di una scelta di vita consapevole, con assunzione del rischio della cessazione del rapporto, rescindendo ogni collegamento con il tenore ed il modello di vita legati al coniugio (unione matrimoniale) e quindi escludendo la solidarietà post-matrimoniale dell’altro coniuge, laddove il dovere di coabitazione ben può essere derogato per accordo tra i coniugi e quindi non si vede perché detta facoltà non debba essere esercitabile anche da parte delle coppie non sposate».                                  http://mobile.ilcaso.it/sentenze/ultime/19800

www.laleggepertutti.it/276666_come-dimostrare-che-lex-moglie-convive#Come_dimostrare_che_lex_moglie_convive

 

La Corte conferma la statuizione

Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 4523, 14 febbraio 2019

La Corte conferma la statuizione secondo cui il tenore di vita goduto durante il matrimonio, unitamente ad altri aspetti ovvero l’età avanzata, l’assenza di attività lavorativa ed altri redditi, unitamente alla mancanza di prospettive lavorative, incidono sulla determinazione dell’assegno

Elena Jaccheri                                      1 marzo 2019 Ordinanza

www.studiolegalejaccheri.it/2019/03/01/la-corte-conferma-la-statuizione-secondo-cui-il-tenore-di-vita-goduto-durante-il-matrimonio-unitamente-ad-altri-aspetti-ovvero-leta-avanzata-lassenza-di-attivita-lavorativa-ed-altri-redditi-uni/

 

Il divario economico rilevante tra le parti non è sufficiente per il riconoscimento dell’assegno divorzile

Tribunale Treviso, prima Sezione civile, 08 Gennaio 2019.

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/21325.pdf

Per stabilire se attribuire o meno l’assegno divorzile, il giudice deve verificare innanzitutto se sussista un divario rilevante nella situazione economica dei coniugi, con l’esercizio di eventuali poteri istruttori d’ufficio. Se non vi è uno squilibrio, non c’è alcun diritto al percepimento, mentre, in caso contrario, si deve comprendere quale ne siano le ragioni. Solo se il divario è conseguenza anche dei sacrifici del richiedente per la famiglia, questi ha diritto all’assegno, stante la rilevanza centrale della funzione compensativa. Vanno poi valutati tutti gli altri parametri dell’art. 5, comma sesto, l. div., con particolare riguardo alla durata del matrimonio.

La natura composita dell’assegno e l’emergere della natura assistenziale portano a riconoscere il diritto quando il richiedente non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli. In tal caso la quantificazione sarà sostanzialmente “alimentare”, assumendo così nuova rilevanza la funzione solidaristica dell’istituto, senza che si formino redditi di posizione.

Come evidenziato delle Sezioni Unite, deve altresì porsi attenzione al metodo comparatistico e soprattutto alla funzione di welfare dello Stato di riferimento. In Italia, essendo il sistema del welfare e del reinserimento lavorativo molto ridotto, la corresponsione di un assegno deve essere valorizzata anche quale strumento che consente al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.

Giulia Travan          Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 21325 – 05 marzo 2019

Sentenza                                                    http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/21325/divorzio

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AUTORITÀ GARANTE PER I MINORI

La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile.

Giovedì 21 marzo 2019, dalle ore 9, nella Sala della Lupa alla Camera dei Deputati, sarà presentato il documento “La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile”.

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/programma-convegno-mediazione-penale-agia-pub.pdf

In tale occasione saranno esposte le raccomandazioni che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano rivolge al legislatore e alle istituzioni.

Tra i partecipanti la vice presidente della Camera Mara Carfagna, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (in attesa di conferma), il vice presidente del CSM David Ermini, la presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza Licia Ronzulli e il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin.

In programma contributi dei professori Claudia Mazzucato (Università cattolica di Milano) e Pasquale Bronzo (Università “La Sapienza” di Roma) e di Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità.

Prevista, inoltre, l’illustrazione di esperienze di giustizia riparativa in Italia con Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna, Elena Buccoliero (Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati), Annina Sardara (Centro per la mediazione pacifica dei conflitti di Sassari), Giovanni Ghibaudi (Centro di mediazione penale di Torino) e Alessandra Mercantini (Servizio di giustizia riparativa e mediazione penale di Catanzaro). Interverrà l’attore Andrea Amato, che darà voce ai ragazzi.

Modera la giornalista del Tg1 – Rai Nadia Zicoschi.

www.garanteinfanzia.org/news/mediazione-penale-e-giustizia-riparativa-convegno-agia-alla-camera

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 9, 6 marzo 2019

Specializzarsi per la famiglia. Corso FAD (Formazione a Distanza) gratuito:Internet e adolescenti: I.A.D. e cyberbullismo”

https://cyberbullismo.wordpress.com/2018/03/03/corso-fad-formazione-a-distanza-gratuito-internet-e-adolescenti-i-a-d-e-cyberbullismo

Come distinguere l’adolescente appassionato di nuove tecnologie da chi ha sviluppato una vera e propria web-addiction disorder? [dipendenza da internet] il corso FAD (Formazione a Distanza) del provider ECM 2506 Sanità in-Formazione “Internet e adolescenti: I.A.D. e cyberbullismo”, fruibile gratuitamente anche da parte di pazienti, insegnanti e genitori su www.sconnessiday.it, è possibile scoprire i campanelli d’allarme dell’internet-dipendenza. Responsabile scientifico del corso, lo psichiatra David Martinelli, del Centro Pediatrico Interdipartimentale Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma. Ecco i sette campanelli di allarme.

  1. L’uso del tempo. Il tempo trascorso in rete è sicuramente un elemento fondamentale per ravvisare un uso eccessivo del web. (…) Un significativo segnale d’allarme è l’alterazione del ritmo sonno-veglia.
  2. Il mondo della scuola. Oltre a valutare il rendimento scolastico, è necessario prestare dovuta attenzione ai rapporti con i compagni (…)
  3. Le amicizie offline [al di fuori dei collegamenti]. È importante il numero di relazioni reali di amicizia ma anche la qualità e la profondità di questi rapporti, gli interessi condivisi, il tempo trascorso insieme e il livello di confidenza.
  4. Gli interessi nella vita reale. (…) interrogarsi su quanto siano vari e profondi, e in che relazione siano tra loro, gli interessi nella vita reale dell’adolescente (…)
  5. L’affettività. Una dimensione che appare spesso appiattita, considerata come un elemento poco significativo per la propria vita.
  6. La presenza in famiglia. Attenzione a quanto l’adolescente è presente in casa, alla sua partecipazione attiva alla vita familiare. È importante anche valutare il tipo di relazioni familiari (…)
  7. L’aggressività da s-connessione. Se costretto ad interrompere la connessione internet, l’adolescente può incorrere in manifestazioni di rabbia esplosive ed incontrollate, sia verso gli oggetti che verso le persone (…)

sempre utile, su questi temi, il Rapporto Cisf 2017, Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali, soprattutto con i dati di una indagine su un campione nazionale di famiglie (3.708 interviste).

www.sanpaolostore.it/relazioni-familiari-nell-era-delle-reti-digitali-nuovo-rapporto-cisf-2017-9788892213289.aspx?Referral=newsletter_cisf_20190306

                                                                                         

Roma: family international monitor. Osservatorio internazionale sulla famiglia. Presentazione del progetto (con l’intervento di Francesco Belletti, direttore Cisf – ente partner del progetto insieme al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II e all’Università Cattolica di Murcia). “L’Osservatorio nasce per rispondere all’invito di Papa Francesco a investire in un’attenzione specifica al vissuto concreto delle famiglie, alla “situazione attuale delle famiglie, in ordine a tenere i piedi per terra” (AL 6; AL 32-49). Senza immaginare un “ideale astratto di famiglia”, è indispensabile rileggere la vita quotidiana delle famiglie – nei differenti contesti geografici e sociali del nostro mondo – per apprezzarne la ricchezza, senza nascondersi le difficoltà e i fattori di crisi, lasciando emergere il lieto annuncio che Dio offre a ognuna. L’Osservatorio è un prezioso strumento per tenere i piedi per terra e così servire con più forza, energia e passione evangelica l’alleanza tra l’uomo e la donna, cui è affidato il senso della storia e il destino del creato”. Roma, 21 marzo 2019

www.istitutogp2.it/wp/wp-content/uploads/2019/02/Presentazione-Osservatorio-Locandina-2019.02.08.pdf

Il matrimonio può attendere… I perché di una crisi. Anche qui lo spread dell’Italia è deficitario: e se provassimo a sistemare prima lo spread delle famiglie, della natalità, della tenuta della coppia? Se riparte la famiglia, riparte il Paese.

http://m.famigliacristiana.it/articolo/il-matrimonio-puo-attendere-i-perche-di-una-crisi.htm?fbclid=IwAR3osLSoNmin4_xBn-ZTiiuHx14midoN617GH5UWE4hoqn6mkFetTufXZEQ

                                                                   

USA: la convivenza di coppia. Dati recenti dagli Stati Uniti. Mentre anche in Italia la convivenza è sempre più diffusa e accettata, sia come passaggio verso il matrimonio che come equivalente dello stesso, è convinzione diffusa che effettivamente per i partner che vi sono implicati non vi siano grandi differenze qualitative. In Italia in realtà la questione è poco studiata, ma un recente studio americano dell’Università della Virginia e della Brigham Young University dimostra che vi sono sensibili differenze, tra sposati e conviventi, rispetto alla soddisfazione per la relazione, il grado di impegno reciproco e la stabilità. Gli sposati, mediamente, presentano punteggi dal 12 al 26% superiori ai conviventi rispetto alla riuscita della loro relazione

Europa. Guida pratica per la migliore tutela degli interessi del minore nelle procedure (di richiesta) di asilo, a cura dell’Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo. (Practical guide on the best interests of the child in asylum procedures. EASO, European Asylum Support Office).

www.easo.europa.eu/sites/default/files/publications/EASO-Brochure-EN%20_0.pdf

Preziosa, questa agile Guida per gli operatori e le istituzioni a sostegno dei processi di accoglienza per minori richiedenti asilo in Unione Europea, realizzata da EASO (European Asylum Support Office – vedi la brochure) un’Agenzia di emanazione UE (sede delle attività: Malta) che da diversi anni opera anche nei Paesi mediterranei (Italia e Grecia)

www.easo.europa.eu/sites/default/files/Practical-Guide-Best-Interests-Child-EN.pdf

Un’esperienza interessante di reti di accoglienza. Anche per le famiglie. Fare sistema oltre l’accoglienza “agisce attraverso la creazione di una vera e propria rete nazionale, fatta di famiglie, aziende, associazioni ed anche istituzioni. Ma soprattutto fatta di persone, di attori sociali, che possano interagire, cooperare e facilitare l’inserimento dei più deboli all’interno della nostra società. Nell’idea che l’inclusione sia un’esperienza di reciprocità cui siamo tutti chiamati a partecipare”. Un progetto interessante, perché offre a diversi soggetti e istituzioni la possibilità di vivere direttamente una cittadinanza attiva e solidale. Nel sito si trovano anche le modalità con cui i vari soggetti possono aderire ed agire; significativa la specifica possibilità per le famiglie di mettersi a disposizione come risorse di accoglienza per le persone in stato di bisogno.           www.faresistemaoltrelaccoglienza.it

Miserunderstandings. Fraintendimenti. Rapporto sulla sanità. Il 23 gennaio 2019 il Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (C.R.E.A. Sanità) dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” ha presentato a Roma il 14° Rapporto Sanità”. Il Rapporto è strutturato in 4 parti: un’analisi economico-statistica del contesto in cui muove la Sanità e delle Performance (finanziamento, spesa ed equità) del sistema; le analisi per tipologia di assistenza: prevenzione, ospedaliera, residenziale, specialistica, farmaceutica, ambulatoriale di base, domiciliare, provvidenze economiche in denaro per la non-autosufficienza; segue un focus sulla Sanità quale settore industriale; chiude una raccolta delle analisi effettuate dagli Osservatori di C.R.E.A. Sanità.

Indice pag. 8 (10)  www.creasanita.it/images/rapportosanita/14/14%20RapportoSanita.pdf

Dalle case editrici

  • Vittorio Cigoli, Eugenia Scabini, Marialuisa Gennari, Giancarlo Tamanza, Legami generazionali: strumenti di assessment clinico. Edra, Milano 2018, pp. 160, €. 19,90.

Si può fare esperienza del corpo familiare in azione esplorando sentimenti e intenzioni consce e inconsce dei suoi membri? Per far questo occorre disporre di un modello di riferimento e di strumenti che coinvolgano i membri familiari nell’incontro con il ricercatore e/o con il clinico. È questo l’obiettivo di questo prezioso e agile volume che, dopo una sintetica presentazione del Modello Relazionale-Simbolico, espone analiticamente e secondo una rigorosa metodologia coerente col modello tre strumenti di assessment atti a cogliere il corpo familiare in azione: il Disegno Congiunto della Famiglia, il Family Life Space e l’Intervista Clinica Generazionale. Di essi vengono forniti le procedure di somministrazione, i criteri di analisi e di codifica, così come esempi di utilizzo.

Save the date

  • Nord: équipe interdisciplinari: un ponte possibile fra i diversi ambiti e settori di intervento, giornata di studio (con crediti formativi ECM) promossa da CROAS (Consiglio Regionale Assistenti Sociali della Lombardia), CIPRA (Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione d’Aiuto) e Co.Me.Te. (Associazione Culturale Consulenza Mediazione Terapia – Bergamo Brescia) in collaborazione con AssoCounseling, A.I.M.S., A.I.C.C.e F. e AIAF Lombardia, Brescia, 22 marzo 2019.

www.cipraweb.it/cms/images/Programma_evento_CROAS-CIPRA-Co.Me.Te._22_marzo_2019_def.pdf

  • Nord: Madonna, Madre, Matrigna. La maternità tra idealizzazione e demonizzazione, incontro promosso da associazione Famiglie per la famiglia, Comune di Verona, ufficio di pastorale familiare diocesano, Verona, 23 marzo 2019.

www.famiglieperlafamiglia.it/news/prossimi-eventi/la-maternita-fra-idealizzazione-e-demonizzazione

  • Nord: Le sfide dell’adolescenza: il fenomeno degli Hikikomori, ciclo di incontri promosso dalla Istituzione Gian Franco Minguzzi in collaborazione con altri enti del territorio, Bologna, 6 e 26 marzo, 9 aprile 2019.

www.minguzzi.cittametropolitana.bo.it/Engine/RAServeFile.php/f/Home/Programma_Hilikomori.pdf

  • Centro: Gaudete et Exsultate nell’Amoris lætitia, XXI settimana nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare, promosso dall’Ufficio nazionale per la pastorale della famiglia della Conferenza Episcopale Italiana, Assisi, 25-28 aprile 2019.

https://famiglia.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/23/2019/02/01/XXI-settimana-naz-studi-internet.pdf

  • Centro: La famiglia e il sacramento della creazione, VI Colloquio di Teologia Sacramentaria, Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, Roma, 5 aprile 2019.

www.istitutogp2.it/wp/wp-content/uploads/2019/02/Famiglia-e-Creazione-Locandina-2019.02.08-DEFINITIVO.pdf

  • Sud: Devianza minorile e disagio famigliare, convegno promosso da Comune di Matino altri enti territoriali (richiesti crediti ECM per assistenti sociali), Matino (BA), 15 marzo 2019.

www.cnoas.it/cgi-bin/cnoas/vfile.cgi?i=XXTXAXMTHGCXGXBMDANDDV&t=brochure&e=.pdf

  • Estero: Intervención socioeducativa con familias e infancia en situación de vulnerabilidad (Interventi socio-educativi con famiglie e minori in situazioni di vulnerabilità), 1.o Congresso internazionale, promosso dalla Fondazione Pere Tarrés, Barcellona, 1-2 aprile 2019.

www.peretarres.org/es/congreso-familias/programa

Iscrizione                http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio        http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

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CHIESA CATTOLICA

Il tempo di un sinodo nazionale                    Estratto

Perché abbiamo chiesto e chiediamo un sinodo nazionale della Chiesa italiana? Di fronte allo sbandamento del paese, alle difficoltà non solo economiche ma anche sociali, culturali e morali, la Chiesa non può tacere. La Chiesa non è altrove. Esclusa ogni ripresa di partito cattolico o d’intervento politico diretto, sconsigliato il primo dalla storia e sbagliato per la Chiesa il secondo dal punto di vista dottrinale, serve tuttavia una grande mobilitazione nazionale di tutto il popolo di Dio su un piano propriamente ecclesiale. Dopo essere intervenuti già nel 2015 in occasione del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, indicando nello strumento di un sinodo nazionale della durata di almeno un biennio lo strumento più adeguato per recepire i criteri pastorali del pontificato di papa Francesco e ricollegarsi al paese sempre più separato, la rivista Il Regno ribadisce come quella proposta si sia fatta oggi necessaria, anzi urgente. Un sinodo nazionale non si è mai fatto. Il pontificato di papa Francesco apre a questa possibilità pastorale; l’emergenza del paese lo esige. Un sinodo della Chiesa aperto a tutti, che affronti i grandi nodi culturali ed ecclesiali che oggi s’impongono di fronte alla perdita di un ethos collettivo, all’emergere di pulsioni disgregative della società, alla svolta antropologica in atto.

(…)

Una situazione inedita. Quanto il cambio d’epoca sia profondo, a livello mondiale e non solo in Italia, appare sempre più evidente. Il lungo processo di secolarizzazione che ha attraversato, determinandola, l’intera modernità, e che da oltre mezzo secolo informa quella che con insufficiente definizione chiamiamo postmodernità, è giunto alle forme più radicali con il processo d’individualizzazione del soggetto, accelerato dalla nuova rivoluzione comunicativa, soprattutto tra le nuove generazioni, mostrando un io ipertrofico e frammentato, vitalistico e fragile a un tempo, che obbedisce al comandamento: io, qui, ora. Vengono meno sia la relazione col prossimo sia la dimensione del tempo futuro. È l’affermazione di una libertà che se non ritrova il senso della gratuità e della relazione finisce per consumare il soggetto e autodistruggersi. «Il pensare postmoderno – ricordava il card. Martini ancora nel 2008 – è lontano dal precedente modo cristiano platonico di giudicare la realtà.  In cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità”. Questo è il mondo – proseguiva Martini – «nel quale prevale la sensibilità, l’emozione, l’attimo. L’esistenza umana diventa un luogo e uno spazio nel quale tutto il possibile è immediatamente reale.  E tutto è legittimo. È una reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, la musica e le nuove scienze umane rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare”. Si tratta di una svolta antropologica che fa mostra di nuove forme di relativismo, come ha ripetuta-mente argomentato Benedetto XVI, e che fa seguito, anche causalmente, al precedente tempo delle ideologie totalitarie, con la loro assoluta pretesa veritativa: dal progressismo positivista, al liberismo economico, ai fascismi, al comunismo, e le cui contraddizioni irrisolte, tuttavia, rimangono ancora pesantemente dentro la nostra storia. Non ne è seguita solo la perdita di modelli narrativi condivisi e il frantumarsi delle diverse concezioni. Non c’è stata solo una reazione relativistica all’assolutismo precedente. C’è stata una perdita di storicità della storia. C’è stata una crescente reazione a ogni forma vincolante e di legittimazione. C’è stata la critica aprioristica verso ogni forma di autorità, si trattasse della scuola, della scienza, della medicina, delle istituzioni politiche. I grandi cambiamenti geopolitici hanno fatto il resto. La perdita progressiva della supremazia statunitense (non adeguatamente sostituita dagli stessi Stati Uniti con una diversa struttura istituzionale condivisa); la mancata evoluzione politica dell’integrazione europea (oggi posta in questione da nazionalismi, secessionismi e isolazionismi vari) hanno mancato al compito storico di offrire una guida equa e un tentativo di regolamentazione al processo di globalizzazione. Si pensi al processo di finanziarizzazione dell’economia, al monopolio della ricerca tecnologica e al grave incremento delle disuguaglianze e della povertà. Ne è scaturita una crisi profonda della democrazia social-liberale, che sembra non reggere l’urto dei conseguenti cambiamenti geopolitici e della globalizzazione. Assistiamo alla fine di quella intrinseca interdipendenza fra democrazia e libero mercato.  Non a caso il modello totalitario cinese viene considerato da molti, soprattutto nelle aree più povere, come il più efficace e di fatto come sostitutivo della democrazia politica. Si potrebbe sintetizzare dicendo che il processo di globalizzazione, ridotto nella pura forma del neo-liberismo finanziario, ha fallito la possibilità di una guida democratica, consumando gli Stati Uniti e l’Europa proprio nelle ragioni fondamentali della loro egemonia culturale. L’Italia non è altrove. Essa attraversa una delle fasi più difficili della sua storia, contrassegnata su un piano istituzionale dalla crisi del modello democratico e del sistema politico; su un piano economico dall’impoverimento di fasce significative di popolazione, soprattutto i giovani, soprattutto al Sud e nelle periferie (urbane e geografiche); su un piano sociale dalla demoralizzazione e dall’aumento della sfiducia che disgrega la società, le sue forme associative e i suoi corpi intermedi; su un piano antropologico dal cambio culturale in atto che celebra il presente come assoluto.

Per un riorientamento della Chiesa. Quello che si è consumato negli ultimi trent’anni è la crisi profonda delle élite e il fallimento del processo di formazione di una nuova classe dirigente. Ogni forma di autorità, non solo politica, è stata messa in discussione Ma questo fallimento si è consumato sia sul piano del governo dei tecnici, sia sul piano della definizione politica di un centro-sinistra postcomunista. La crisi delle élite si è consumata nel campo culturalmente egemone del centro-sinistra, trascinando con sé le forme politiche che esso aveva assunto. Il fallimento di quel tentativo riformista ha come logorato ogni ipotesi di riformismo. Il che ha lasciato spazio, di fronte all’offerta politica di nuovi soggetti, pronti a cavalcare e a generare paure (veri imprenditori della sfiducia) e a promettere l’irrealtà, alla crescita di una fase irrazionale e reazionaria che mina il paese in sé stesso e il suo ruolo internazionale. Senza un disegno di riforme istituzionali e politi-che adeguate, senza opposizione democratica, senza soggetti alternativi, la crisi politica e istituzionale in atto diverrà crisi sociale e di valori, oltre che economica. E’ a rischio l’etica civile del nostro paese. La Chiesa italiana non può rimanere assente o in disparte. La Chiesa non può tacere. Ha una responsabilità storica quanto all’annuncio, all’educazione, all’edificazione della fede cristiana e alla promozione umana. Senza entrare direttamente in politica o formulare opzioni di parte o creare direttamente o indiretta-mente un proprio strumento partitico (il che non fu mai fatto, neppure con la DC), perché quel tempo è storicamente finito, non vi è lo spazio politico e non vi sono i soggetti adeguati, essa può chiamare a raccolta tutte le coscienze, innanzitutto quelle dei credenti, invitandoli a una nuova stagione di responsabilità personale attorno ad alcuni valori comuni. Si tratta di ricreare anzitutto un ethos condiviso. È nel compito e nella libertà della Chiesa quello d’intervenire sul piano dell’edificazione della coscienza del singolo, della diaconia della carità e della cura culturale della fede. In questo alla Chiesa spetta, per differenza evangelica, di esprimersi dal centro dell’esperienza comune degli uomini in me-rito alle forme dell’oggettività sociale, alla censura nei confronti delle libertà, in difesa dei valori fondamentali. Se la figura della Chiesa rispetto alla politica è quella di una alterità amante, che mantenendo la propria distinzione tuttavia non solo non può essere indifferente, ma non può fare a meno di condividere le sorti delle persone, quella del singolo cristiano (anche attraverso gli strumenti che esso intende liberamente e autonomamente animare) è quella di una partecipazione critica alla vita della città democratica. Se non è più tempo di un partito cattolico (non vi sono ragioni né religiose, né ideologiche, né storiche per farlo) è certamente tempo di una nuova stagione d’impegno. Molte sono le modalità. Dalla partecipazione riconosciuta e riconoscibile dei cattolici nell’ordine politico, all’interno dei diversi soggetti politici, alla costruzione di reti di comunicazione, di luoghi di analisi, di discussione tra gruppi, movimenti e associazioni di cattolici che agiscono singolarmente e in modo organizzato nell’ordine sociale, alla costituzione di strumenti d’intervento culturale. Occorre ripartire come Chiesa e come cattolici dalla società civile, costruendo nuove presenze organizzate là dove si presentano nuove emergenze e nuovi problemi. Un nuovo impegno politico dei cattolici, una nuova presenza civile è possibile, anche al di fuori dello strumento del partito cristiano. Strumento di popolo Ci si può legittimamente chiedere se lo strumento-to sinodale sia quello più idoneo e pertinente per affrontare il tema del futuro della Chiesa in Italia. Circa la sua idoneità siamo incoraggiati dal lungo approfondimento dottrinale che è stato fatto sullo strumento sinodale, sia sul piano del suo statuto, sia sul piano del metodo. Come ribadito recentemente dalla Commissione teologica internazionale, papa Francesco, «nel solco tracciato dal Vaticano II e percorso dai suoi predecessori, sottolinea che la sinodalità esprime la figura di Chiesa che scaturisce dal Vangelo di Gesù e che è chiamata a incarnarsi oggi nella storia, in fedeltà creativa alla Tradizione”. Inoltre, «in conformità all’insegnamento della Lumen gentium, papa Francesco rimarca in particolare che la sinodalità “ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico” e che, in base alla dottrina del sensus fidei fidelium, tutti i membri della Chiesa sono soggetti attivi di evangelizzazione. Ne consegue che la messa in atto di una Chiesa sinodale è presupposto indispensabile per un nuovo slancio missionario che coinvolga l’intero popolo di Dio». Sempre la Commissione teologica al n. 22 ricorda come l’apostolo Paolo, alla luce della sinassi eucaristica, evochi l’immagine della Chiesa quale corpo di Cristo, a esprimere sia l’unità dell’organismo sia la diversità delle sue membra. Come infatti nel corpo umano tutte le membra sono necessarie nella loro specificità, così nella Chiesa tutti godono della stessa dignità in virtù del battesimo (cf. Galati 3,28; 1Corinzi 12,13) e tutti devono portare il loro contributo per adempiere il disegno della salvezza «a misura del dono di Cristo» (Efesini 4,7). «Tutti, dunque, sono corresponsabili della vita e della missione della comunità e tutti sono chiamati a operare secondo la legge della mutua solidarietà nel rispetto degli specifici ministeri e carismi, in quanto ognuno di essi attinge la sua energia dall’unico Signore (cf. 1Corinzi 15,45)». La stessa Commissione porta i convegni nazionali della CEI quali esempi di processo di sinodalità delle Conferenze episcopali (cf. n. 90). Più recentemente anche la costituzione apostolica sul sinodo dei vescovi, Episcopalis communio, accoglie il tema della consultazione del popolo di Dio (cf. art. 6, § 1 del Regolamento), sia attraverso gli istituti tradizionali emersi nella storia della Chiesa, sia aprendo ad altre iniziative ritenute opportune.

Ricostituire un legame. Circa l’idoneità, le modalità e l’efficacia di un tale strumento, credo che si possa assumere la lezione metodologica sia delle Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano, sia quella della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (mi riferisco agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso), quando per la stessa costruzione dei programmi e dei documenti pastorali avevano individuato lo strumento del dibattito interno alla comunità ecclesiale e poi l’esposizione pubblica, costruendo in tal modo in una forma para-sinodale i contenuti e il consenso sui contenuti stessi di ogni singolo progetto, all’inter-no e all’esterno della comunità. Credo che impegnare le comunità cristiane in un dialogo aperto a tutti, a cominciare dai quartieri e dalle parrocchie, dalle associazioni ai movimenti, passando poi alle diocesi e infine a una grande assemblea nazionale, lungo un biennio di svolgimento, consenta di creare anzitutto un processo di auto-evangelizzazione e di condivisione tra i credenti dei punti centrali della fede e dei valori evangelici; di ri-costituire un legame, in parte spezzato, tra istituzione-ne ecclesiastica e popolo di Dio; di riattivare e attivare forze vecchie e nuove del nostro cattolicesimo che oggi sono in parte sopite; di aprire, anzi, spalancare le porte delle nostre Chiese per accogliere nuovamente parti del popolo di Dio che oggi sono distanti; di andare noi lungo le strade, ai crocicchi, e avviare una nuova stagione di consapevolezza, di responsabilità e di testimonianza cristiana nel nostro paese. Ciò che è importante in un tale processo non è solo il suo esito finale, ma la cosa in sé, la mobilita-zione (che si fa testimonianza attiva) del più ampio grado possibile di energie, attorno a contenuti che vengono riannunciati e ricompresi. Un percorso d’evangelizzazione (interno ed esterno) che si fa testimonianza e dialogo sociale sui valori fondamentali inderogabili. Nella sua allocuzione del 17 ottobre 2015, nel 50° di istituzione del Sinodo dei vescovi, papa Francesco aveva affermato: «Una Chiesa sinodale è come un vessillo innalzato tra le nazioni (cf. Isaia 11,12) (…) come Chiesa che cammina insieme agli uomini, partecipe dei travagli della storia» (EV 31/1676). Il tema dovrebbe recare con sé la sapienza biblica, la forza impegnativa della Parola ed evocare l’urgenza della responsabilità, secondo l’ammonimento di Pietro: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (cf. 1Pietro 3,15). Gli effetti educativi (auto-educativi e d’annuncio), il riapprendimento dottrinale di quanti saranno coinvolti è il primo guadagno, poi la conoscenza dei nuovi problemi e delle nuove questioni che oggi sono divenute urgenti, infine l’effetto di consenso complessivo: tutte queste cose possono recare un rilancio di testimonianza e presenza della Chiesa in Italia. Su un piano nazionale la sintesi locale va assunta e ricompresa fino a un lavoro di condivisione finale. In capo a un’assemblea nazionale più ampia e impegnativa di quelle sin qui conosciute. Da uno sviluppo come questo, da una partecipazione nuova e diffusa di tutto il popolo di Dio in un momento difficile per la Chiesa e il paese potrebbero scaturire per la prima volta gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il prossimo decennio.

Gianfranco Brunelli   Il Regno attualità n. 4, pag. 119 Studio del mese

www.c3dem.it/wp-content/uploads/2019/03/il-tempo-di-un-sinodo-nazionale-gf-brunelli.pdf

 

Don Franco Barbero: “E se sul celibato dei preti si esprimessero le singole comunità?”

Pubblichiamo la lettera che don Franco Barbero, prete a Pinerolo (To), teologo e da decenni animatore del movimento delle Comunità di Base italiane, ha scritto al quindicinale Rocca, sulla questione del celibato obbligatorio per i presbiteri cattolici di rito latino.

La lettera è stata pubblicata sul n. 5 del periodico edito dalla Cittadella di Assisi.

            Cara redazione, esprimo una mia opinione rispetto alla questione del celibato obbligatorio oppure opzionale dei presbiteri. Intanto sono sicuro che Papa Francesco è a conoscenza della situazione reale in cui i presbiteri vivono rispetto al celibato. Sondaggi, studi documentazioni, “narrate” parlano non solo di molte situazioni disagiate, che coinvolgono presbiteri e donne, ma di molte coppie che hanno scelto una relazione più o meno clandestina.

Alla mia bella età di ottant’anni, che compio proprio in questi giorni, conosco in Italia e all’estero molte donne e numerosi presbiteri che hanno scelto questa strada in disaccordo con la disciplina canonica. Hanno deciso, dopo un’attenta riflessione, di mettere al primo posto la coscienza e l’accoglienza dell’amore e etero o omo come dono di Dio. E’ comprensibile che tale scelta comporti, in parecchi contesti, un disagio e spesso una sofferenza.

            Sono convinto che solo il celibato opzionale permette di valorizzare sia il dono del celibato stesso, sia il dono dell’amore, sia la responsabilità e la felicità delle persone.

            Con un po’ di fatica riesco a capire che il Papa, anche per il vespaio vaticano che lo stringe da ogni parte, non trovi il coraggio e la convinzione di promuovere il celibato opzionale.

            Però, in una comunità ecclesiale che valorizzi le singole chiese locali e le ritenga autentici laboratori di collegialità si potrebbe aprire un sentiero diverso. Siccome le chiese locali e i loro pastori esprimono da tempo sensibilità e opzioni diverse, perché non promuovere la loro libertà e la loro responsabilità affinché in appositi sinodi, discutano e decidano in loco le scelte da compiere o da non compiere?

            La valorizzazione delle differenze che le varie chiese locali potrebbero esprimere, metterebbero anche in atto una concezione ecclesiologica antropologicamente dinamica e promuoverebbe il volto e la struttura di una comunità che, nell’unità di fede, apprezza e promuove la pluralità dei linguaggi e delle possibilità ministeriali.

            E’ mia opinione che nelle comunità locali lo Spirito ci aiuterebbe ad accogliere le divergenze e a far nascere delle gioiose sorprese. E’ dal basso, dal territorio delle differenze che sono sempre spuntati i fiori più belli nella storia delle chiese cristiane.

            Prego Dio che mi aiuti e ci aiuti a inoltrarci oltre le nostre paure, sperando che le chiese locali non si considerino soltanto esecutrici di ordini superiori, ma comunità creative, capaci di mettere in atto cammini nuovi.

Buon lavoro a voi, cari amici e amiche della Redazione di Rocca e un saluto ai lettori e alle lettrici.

Franco Barbero Pinerolo     http://donfrancobarbero.blogspot.com/2019/02/celibato-obbligatorio.html

 

Quasi un miliardo e mezzo i cattolici nel mondo

La Chiesa si “racconta” attraverso i numeri. La Sala stampa vaticana rende noto che sono in distribuzione in questi giorni l’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2017 e l‘Annuario Pontificio 2019, curati dall’Ufficio Centrale di statistica della Chiesa ed editi dalla Tipografia Vaticana.

1.313 milioni: questo il numero dei cattolici battezzati, pari al 17,7% della popolazione mondiale (7.408 milioni); il 48,5% è in America, il 21,8% in Europa, il 17,8% in Africa, l’11,1% in Asia e lo 0,8% in Oceania. Numeri e percentuali in crescita in tutte le ripartizioni territoriale, in rapporto al 2016; solo l’Europa registra un trend quasi nullo (+0,1%) mentre per l’America il tasso di crescita (+0,96%) si attesta al di sotto di quello mondiale. La lettura dei dati per continente evidenzia come la presenza dei cattolici sia differenziata nelle varie aree geografiche: si va da un 63,8% di cattolici presenti nella popolazione americana al 39,7% in quella europea, al 19,2% in quella africana fino al 3,3% in quella asiatica. Molto differenziata al suo interno l’area americana, dal 24,7% dei cattolici nel Nord all’84,6% nel Centro e nelle Antille, fino all’86,6% nel Sud, dove la presenza dei cattolici è ben più cospicua.

            Il complesso delle forze di apostolato ammonta a fine 2017 a 4.666.073 unità, con una crescita dello 0,5% rispetto al 2016. La ripartizione tra le diverse componenti è abbastanza difforme da continente a continente. Nella media mondiale, il rapporto percentuale tra l’insieme dei chierici e il totale degli operatori pastorali risulta alla fine del 2017 del 10,4%, con i valori inferiori in Africa (6,4%) e in America (8,4%) mentre con i valori superiori in Europa (19,3%) e in Oceania (18,2%). In Asia la percentuale è prossima a quella mondiale. Dal confronto con la situazione numerica del 2016 risalta per la prima volta dal 2010 una diminuzione dei sacerdoti, passati da 414.969 nel 2016 a 414.582 nel 2017. Risultano, invece, in crescita i vescovi, i diaconi permanenti, i missionari laici e i catechisti.

I candidati al sacerdozio nel pianeta passano da 116.160 nel 2016 a 115.328 nel 2017, con un calo di 0,7 per cento. Il quadro dei flussi continentali appare soddisfacente nella Chiesa africana e asiatica, mentre in Europa e in America la diminuzione appare molto evidente. La distribuzione dei seminaristi maggiori per continente rimane sostanzialmente stabile negli ultimi due anni. Con riferimento all’anno 2017 si osserva che l’Europa contribuisce per il 14,9% al totale mondiale, l’America per il 27,3%, l’Asia per il 29,8% e l’Africa per il 27,1%.

            Redazione online        Romasette       6 marzo 2019

www.romasette.it/quasi-un-miliardo-e-mezzo-i-cattolici-nel-mondo/

 

«Donne nella Chiesa: poco ascoltate, ma la cultura farà la differenza»

Il 5 marzo 2019 è uscito, in Francia e Germania, un drammatico documentario sugli abusi ai quali molto spesso – troppo spesso – sono sottoposte le religiose da parte di uomini di Chiesa. E questo accade, è accaduto, non solo in Paesi del mondo che a noi sembrano remoti, come Africa o Asia, ma anche qui, in contesti occidentali dove le donne nella società laica sono emancipate e la loro condizione si avvicina alla parità con quella degli uomini. Su questo scandalo il silenzio è ancora pesante, anche se papa Francesco ha avuto il coraggio di ammetterlo e di promettere che si sarebbero avviate iniziative volte a punire queste violenze.

            Molte di queste vittime hanno denunciato senza ricevere alcuna risposta, ma forse sono ancora di più quelle che non hanno avuto il coraggio, la forza, di denunciare.

            Questa situazione è la punta di diamante, drammatica e troppo a lungo ignorata, di una condizione femminile gravemente subalterna: nella Chiesa le donne, e in primo luogo le religiose che hanno donato la loro vita a essa, sono considerate membri di seconda classe, non vengono mai ascoltate né consultate, devono solo obbedire. Una condizione molto più simile alla servitù che al servizio, come aveva giustamente denunciato papa Francesco.

            Non c’è da stupirsi allora che le vocazioni femminili – soprattutto quelle all’impegno attivo – stiano precipitando e stia diminuendo drasticamente anche la presenza delle giovani nella vita della Chiesa. Cosa succederà quando non ci saranno più catechiste a sostituire quelle di oggi, che stanno invecchiando? Quando non ci saranno più suore a tenere in piedi le missioni, a inventare nuove iniziative coraggiose, a testimoniare il servizio radicale verso i poveri e i sofferenti, cioè il nocciolo della missione cristiana?

            Ancora oggi le gerarchie ecclesiastiche sono convinte che le donne non contino niente, che non sia il caso di consultarle quando si prendono decisioni – piccole o grandi – sul futuro della Chiesa, quando si decidono le nomine di nuovi vescovi. Tanto per salvarsi la faccia, sono state aggiunte delle donne – poche – nei ruoli importanti delle gerarchie dei Consigli pontifici, sempre scelte dall’alto fra le più obbedienti. Sarebbe indispensabile invece dare voce alle donne che fanno parte delle associazioni femminili in cui le dirigenti vengono elette dal basso, cioè dalle donne stesse. Come le dirigenti dell’Uisg, Unione internazionale delle superiori generali, che raccoglie l’80% delle religiose di vita attiva e svolge un ruolo propositivo e creativo nella vita della Chiesa.

            Una delle ragioni per cui le donne sono selezionate così di rado per le cariche che contano è il loro basso livello di preparazione culturale: in generale, il periodo di preparazione delle religiose prima dei voti è lungo la metà di quello di religiosi maschi e sacerdoti, e quindi partono già svantaggiate. Per fortuna sono sempre più numerose le religiose che studiano (magari mentre per vivere svolgono servizi casalinghi) e parlano, con coraggio e ad alta voce. Le denunce degli abusi fanno capire che tutto sta cambiando.

Lucetta Scaraffia       Famiglia cristiana      online 7 marzo 2019

www.famigliacristiana.it/articolo/lucetta-scaraffia-donne-nella-chiesa-poco-ascoltate-ma-la-cultura-fara-la-differenza.aspx

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CHIESE RIFORMATE

Chiesa d’Inghilterra, 25 anni fa le prime donne sacerdote

Una cerimonia speciale per celebrare i 25 anni trascorsi dalle prime ordinazioni femminili al sacerdozio nella Chiesa d’Inghilterra si è svolta il primo di marzo al Lambeth Palace di Londra, la residenza dell’arcivescovo di Canterbury.

            Tra gli ospiti c’erano molte di quelle donne che furono tra le prime ad essere ordinate nel 1994, alcuni fra i laici che più si sono spesi in questa battaglia e una fitta rappresentanza delle donne ordinate in questi anni, compresa la reverenda Angela Berners-Wilson, la prima in assoluto.

            La predicazione è stata tenuta dalla reverenda Isabelle Hamley, cappellana dell’Arcivescovo di Canterbury. Cinque vescove hanno partecipato al servizio: la vescova di Derby Libby Lane; di Sherborne, Karen Gorham; di Ripon, Helen-Ann Hartley; di Penrith, Emma Ineson; di Dorking, Jo Bailey Wells.

            L’arcivescovo Justin Welby ha dato il benvenuto agli ospiti. Nel suo sermone la reverenda Hamley ha riflettuto sul dono di Gesù che Maria e Giuseppe hanno ricevuto, e sui rischi e le responsabilità di coltivare tale dono. «Facciamo tesoro di questo dono sia nel pubblico che nel privato. Insieme, possiamo testimoniare il dono che vive in noi e il Dio che ci ha chiamati a seguirlo».

            Parlando durante la cerimonia, l’arcivescovo Welby ha detto: «Molti di coloro che sono qui oggi sono stati pionieri nel capire cosa significa essere e avere una donna ordinata nella Chiesa d’Inghilterra – non solo per se stessi e le loro comunità, ma per tutto il Corpo di Cristo. Oggi rendiamo testimonianza a coloro che hanno aperto la strada nel 1994, oltre a sostenere coloro a cui è stata aperta da allora la via per il ministero».

            Il primo gruppo di donne venne ordinato nella cattedrale di Bristol il 12 marzo 1994. Il vescovo Barry Rogerson, che ha presieduto l’ordinazione, ha inviato un messaggio che è stato letto durante un momento conviviale che ha seguito la cerimonia: «Negli ultimi 25 anni ho osservato il dono del ministero delle donne nelle parrocchie, ma anche nelle cappellanie; ospedali e ospizi, scuole, università e carceri, e ho potuto vedere quale contributo innovativo e positivo hanno dato alla nostra chiesa. Forse oggi potremmo mandare un pensiero a tutte quelle donne, in tutto il mondo, le cui vocazioni al sacerdozio non sono state ancora riconosciute e testate».

            Berners-Wilson ha aggiunto: «È stata una cosa incredibile essere – per pochi secondi – la prima donna ad essere ordinata al sacerdozio nella Chiesa d’Inghilterra. Oggi ho pensato con grande gratitudine a quelle altre donne che erano al mio fianco allora e a tutte quelle che lo sono oggi in un percorso simile al nostro. Da 25 anni è stato il più grande privilegio poter finalmente vivere la mia vocazione, dopo un periodo di prova di 15 anni come diaconessa. Oggi è un giorno per celebrare tutte le donne sacerdote che sono state messe in grado di crescere nella pienezza di chi Dio le ha chiamate ad essere portatrici della buona novella di Cristo per il mondo»

Redazione       Riforma.it                  04 marzo 2019

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Il futuro è una chiesa «scapigliata»

A Brescia, l’VIII forum del secondo Distretto ha parlato di nuovi modi di trasmettere la fede ai più giovani in una prospettiva anticonvenzionale, partendo dalla Messy Church.

Sono giovani, spesso molto giovani, e il loro parlare ha le inflessioni di Genova, Milano, Brescia, Verona, Udine. Normale, visto che ci troviamo al Forum del II distretto, che raggruppa le chiese metodiste e valdesi di tutto il nord Italia. Ma il fatto significativo è che i loro volti rivelano origini ghanesi, indonesiane, latinoamericane, e queste hanno arricchito le loro esperienze nella scuola domenicale o nei gruppi giovanili. Sono le figlie e i figli di «Essere chiesa insieme», la cui «identità ibrida», sottolinea Anna da Udine, è ancora poco analizzata e di cui le chiese non hanno piena coscienza. L’immagine di una chiesa sfaccettata emerge anche dalle altre testimonianze della giornata: c’è chi ha un passato cattolico o una nonna valdese, chi è letteralmente nato nella chiesa, chi ha cominciato a parteciparvi attraverso la Fgei, Federazione giovanile evangelica in Italia.

            Proprio questo contesto eterogeneo potrebbe essere l’humus ideale per la sperimentazione del metodo «Messy Church», il tema clou della giornata di Brescia di sabato 2 marzo 2019, presentato dalla pastora Alison Walker, tornata in Inghilterra dopo l’esperienza pastorale nella chiesa metodista di Firenze, che ne ha raccontato l’applicazione nelle comunità di cui ha cura, nella zona di Cambridge. Comunità piuttosto piccole, con poche decine di adulti, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, la cui esiguità deriva anche dalla crisi che sta attraversando la Chiesa metodista inglese. Una situazione che ce la rende ancora più vicina.

            Nata nella chiesa anglicana nel 2004, la Messy Church si è ormai diffusa in 30 paesi in tutto il mondo e in 20 denominazioni per un totale di più di 3.900 chiese, cattoliche, pentecostali, riformate, luterane, avventiste. L’idea centrale, introdotta dal pastore Winfrid Pfannkuche all’inizio della giornata (ne avevamo parlato qui) è di (ri)mettere al centro della vita delle chiese le famiglie, cioè da un lato la generazione di genitori che spesso è la meno coinvolta (per vari motivi, impegni di lavoro, timore di portare i figli in chiesa “perché disturbano”, disinteresse per una realtà vista come distante dal proprio modo di essere…), dall’altro il soggetto “famiglia”, essenziale nella trasmissione della fede ai più giovani.

            Questo è stato uno dei passaggi fondamentali della giornata, emerso dalla relazione della pastora Walker, dalle testimonianze di genitori e monitori e dalla meditazione biblica della pastora Ulrike Jourdan, che ha sottolineato come molti genitori oggi siano frenati dal timore di dire cose inadatte o di urtare il coniuge di diversa confessione o non credente: «Non importa, non dobbiamo indottrinare i bambini, ma condividere con loro qualcosa di autentico, riscoprendo la naturalezza della trasmissione della fede». Occorre pertanto rafforzare e in alcuni casi ripristinare un collegamento che oggi pare labile e sul quale, ha ricordato Pfannkuche, si fonda la teologia protestante, i cui catechismi erano destinati proprio alle famiglie, non ai sacerdoti.

            Come farlo? La «Messy Church» potrebbe essere un’idea, con modulazioni da definire in ogni comunità: una domenica al mese, un pomeriggio in settimana, con pranzo, merenda o cena (magari preparati dai partecipanti), e una forte componente di manualità. Non dobbiamo avere paura di sporcarci le mani, o di mettere in mano ai più piccoli chiodi e martello, ha sottolineato Alison… Ognuno può contribuire alla riuscita dell’incontro, anche “dietro le quinte”, tenendo sempre presente (ha insistito la pastora) lo scopo, che non è l’attività in sé ma la costruzione di relazioni, la condivisione alla luce della Parola.

            Ingredienti fondamentali di questa pratica sono quindi intergenerazionalità, creatività/manualità, accoglienza/apertura alle domande e ai dubbi (questo è lo spazio che accoglie anche persone non frequentanti, che non conoscono la Bibbia), per una celebrazione della Parola anticonvenzionale. Due le parole chiave emerse nel forum, fiducia e familiarità: sentirsi accolti ma anche prendere confidenza con gli elementi costitutivi della vita cristiana, la preghiera, la Parola, i canti.

            Una buona premessa per l’applicazione anche in Italia è stato il grande coinvolgimento dei partecipanti alla giornata e al laboratorio in cui, con cartoncini, colori e forbici, si sono messi in gioco per preparare cartelloni e disegni per l’animazione successiva.

            Se proprio bisogna trovare un rischio, peraltro comune a molte attività già presenti nelle chiese (gruppi giovanili, corali…), è la creazione di una «chiesa nella chiesa». Ma, commenta Alison, «se questo ci consente di avvicinare persone che probabilmente non frequenteranno mai un culto normale, merita provarci».

            Non resta quindi che tentare, ricordando che una «Messy Church», letteralmente disordinata, caotica, è anche creativa, anticonformista, spontanea, coraggiosa, non convenzionale, sorprendente. Una chiesa «scapigliata», potremmo dire, destinata a trovare un nuovo ordine, ma solo dopo (come ha detto Winfrid Pfannkuche aprendo la giornata) «una bella rimescolata

Sara Tourn     riforma.it        04 marzo 2019

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CONSULTORI D’ISPIRAZIONE CRISTIANA

Le trasformazioni statutarie dei consultori familiari di ispirazione cristiana

Convegno nazionale venerdì 22 marzo 2019, ore 9,30 17,00 Centro congressi UCSC sala Italia-Roma

La riforma del terzo settore avviata nel 2016 e ora in fase di attuazione prevede l’uscita di scena del regime fiscale agevolato previsto per le organizzazioni non lucrative (Dlgs 460/1997) e il debutto di nuovi regimi fiscali.

Per il completamento della riforma si attende il via libera della Commissione europea sui nuovi regimi forfettari di tassazione per gli enti del terzo settore e la creazione del Registro unico nazionale del terzo settore, prevista per il 2019.

            Questo è dunque un anno di transizione, nel quale le Onlus devono decidere a quale delle sette sezioni del Registro unico iscriversi, in base alla loro organizzazione e in base alla tipologia e consistenza delle loro entrate. Iscriversi non è obbligatorio ma le organizzazioni che non lo faranno rinunceranno ai nuovi regimi fiscali agevolati e all’attribuzione del cinque‰ dell’Irpef.

            Il Registro unico del terzo settore (Runts) prevede sette sezioni fra le quali scegliere (organizzazione di volontariato, associazione di promozione sociale, ente filantropico, impresa sociale (incluse le cooperative sociali), rete associativa, società di mutuo soccorso, altro ente del terzo settore).

A ciascuna tipologia, corrisponderà uno specifico trattamento fiscale. Sono comuni a quasi tutte le categorie gli incentivi potenziati per i donatori (detrazioni e deduzioni).

            Il venir meno della disciplina delle Onlus impone agli enti che hanno questa qualifica di verificare i propri settori di attività per valutare come ricollocarsi all’interno del Terzo settore, individuando le eventuali modifiche statutarie e/o gestionali da adottare.

La Confederazione italiana dei consultori familiari di ispirazione cristiana in collaborazione con altri enti competenti in materia propone una presentazione articolata di alcune sezioni del Runts e delle modifiche statutarie più appropriate alla natura degli enti gestori, in relazione agli ambiti specifici di attività dei consultori familiari di ispirazione cristiana.

Obiettivo principale del Convegno nazionale è di favorire la transizione consapevole e motivata verso la sezione del Runts più appropriata per l’attività tipica dei consultori familiari regolati dalla L. 405/1975 e più espressiva dell’ispirazione cristiana che caratterizza i consultori familiari della CFC.

            Nel programma

  • Tutela dei minori, una priorità pastorale. Quale collaborazione dai Consultori familiari di ispirazione cristiana? mons. Lorenzo Ghizzoni, presidente del “Servizio Nazionale Tutela Minori” della CEI.
  • Le sfide gestionali dei consultori familiari di ispirazione cristiana e la riforma del terzo settore prof. Marco Grumo.
  • Presentazione della situazione degli enti gestori di consultori familiari di ispirazione cristiana ing. Antonio Adorno.
  • La natura giuridica, la qualifica fiscale, l’appartenenza e l’ambito di attività degli enti gestori di consultori familiari. Le condizioni per entrare nel Terzo Settore rag. Patrizia Clementi.
  • Associazioni, Fondazioni ed Organizzazioni di Volontariato. Quali trasformazioni statutarie? dott. Paolo Pesticcio.
  • Il ramo ETS dell’ente Ecclesiastico come ente gestore di consultorio familiare di ispirazione cristiana don Lorenzo Simonelli.
  • Le responsabilità del presidente e dei consiglieri degli enti gestori di consultori familiari di ispirazione cristiana avv. Lorenzo Pilon.
  • Le forme di finanziamento dei consultori familiari. Conseguenze operative dott. Stefano Peruzzotti
  • Domande dei partecipanti.
  • Indicazioni operative di supporto ai consultori familiari don Edoardo Algeri
  • Conclusioni prof. Andrea Bettetini

Brochure   www.cfc-italia.it/cfc/materiale/CFC-Pieghevole_Convegno_22_03_2019.pdf

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CONGRESSI CONVEGNI SEMINARI

La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile

Giovedì 21 marzo 2019, dalle ore 9, nella Sala della Lupa alla Camera dei Deputati, sarà presentato il documento “La mediazione penale e altri percorsi di giustizia riparativa nel procedimento penale minorile”.  In tale occasione saranno esposte le raccomandazioni che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano rivolge al legislatore e alle istituzioni.

Tra i partecipanti la vice presidente della Camera Mara Carfagna, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (in attesa di conferma), il vice presidente del CSM David Ermini, la presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza Licia Ronzulli e il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin.

In programma contributi dei professori Claudia Mazzucato (Università cattolica di Milano) e Pasquale Bronzo (Università “La Sapienza” di Roma) e di Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità.

Prevista, inoltre, l’illustrazione di esperienze di giustizia riparativa in Italia con Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna, Elena Buccoliero (Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati), Annina Sardara (Centro per la mediazione pacifica dei conflitti di Sassari), Giovanni Ghibaudi (Centro di mediazione penale di Torino) e Alessandra Mercantini (Servizio di giustizia riparativa e mediazione penale di Catanzaro). Interverrà l’attore Andrea Amato, che darà voce ai ragazzi.

Modera la giornalista del Tg1 – Rai Nadia Zicoschi.

Il programma        del convegno “Incontrare la giustizia, incontrarsi nella giustizia”

www.garanteinfanzia.org/news/mediazione-penale-e-giustizia-riparativa-convegno-agia-alla-camera

 

Il CoLAP rilancia: economia, sviluppo, competenza ed eccellenza!

Il COLAP (Coordinamento Libere Associazioni Professionali) a Roma rilancia l’edizione 2019 di Ccresce. I professionisti associativi si incontrano a Roma. L’appuntamento è per il prossimo 4 aprile 2019, dalle 10:00 alle 13:00, a piazza della Minerva 38, presso la sala capitolare del chiostro del convento di Santa Maria sopra Minerva.                                          www.colap.eu/documenti/schede/brochure_2019_colap.pdf

            Legge 4/2013, occupazione, previdenza, fisco, compensi, turismo, beni culturali… sono solo alcuni dei temi che verranno trattati durante l’evento “Ccresce”. L’incontro sarà l’occasione per presentare le proposte Ccresce alla presenza delle forze governative, politiche ed istituzionali.

            La giornata si apre con il lancio di un video riepilogativo dell’evento. Alle 11 l’incontro con i rappresentanti istituzionali. La chiusura dei lavori con l’intervento della presidente Emiliana Alessandrucci. Coordinerà i lavori Michele Damiani, giornalista di ItaliaOggi.                Ingresso gratuito a numero chiuso.

                                   www.aiccef.it/it/news/il-colap-a-roma-rilancia-l-edizione-2019-di-ccresce.html

 

Programma di educazione affettiva e sessuale

Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia. Corso base per tutor del programma Teen STAR

Programma di educazione affettiva e sessuale, dal 3 al 7 maggio 2019 a Milano.

https://centridiateneo.unicatt.it/famiglia-TEEN_STAR_BASE_2019_brochure.pdf

Il corso di formazione si rivolge a insegnanti, educatori e professionisti di area sociale, psicologica e sanitaria, impegnati nell’educazione e nella formazione dei giovani.

Obiettivo del corso è offrire una formazione di base al programma per l’educazione affettivo-sessuale Teen STAR, fornendo strumenti e metodi per sviluppare con i ragazzi il percorso educativo.

Il programma Teen STAR per l’educazione sessuale nelle scuole. Teen STAR (Sexuality Teaching in the context of Adult Responsibility) Educazione Sessuale in un contesto di Responsabilità Adulta, è un efficace metodo di formazione applicato in 56 Paesi. Ideato negli anni ’80 dalla dott.ssa Hanna Klaus docente presso la George Washington University e attualmente diretto dalla Prof.ssa Pilar Vigil ginecologa e biologa docente della Pontificia Università Cattolica del Cile.

Le iscrizioni sono aperte fino al 26 aprile 2019 ed è possibile iscriversi online.

Direzione scientifica: Prof. Raffaella Iafrate, Psicologa, Ordinario di Psicologia Sociale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Staff: Prof. Pilar Vigil, Ginecologa, Facoltà di Scienze Biologiche Pontificia Università Cattolica del Cile;

Prof. Marina Mombelli, Psicologa, Psicoterapeuta, Psicologia Giuridica Facoltà di Psicologia dell’UCSC

https://centridiateneo.unicatt.it/famiglia-notizie-corso-base-per-tutor-del-programma-teen-star-11286

 

Giudice e psicologo con le famiglie in tribunale

Mercoledì 20 marzo 2019 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in aula SA.016 (Via S. Agnese 2, Milano), si terrà il seminario dal titolo Giudice e psicologo con le famiglie in tribunale, promosso dal Dipartimento di Psicologia, in collaborazione con il Servizio di Psicologia clinica per la coppia e la famiglia e il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia.

Introdurrà l’incontro Marina Mombelli (docente di Psicologia giuridica presso la Facoltà di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, CTU presso il Tribunale Ordinario di Milano), interverranno Paola Ortolan (giudice presso il Tribunale per i Minorenni di Milano, già giudice presso la sezione IX Famiglia del Tribunale Ordinario di Milano) e Giancarlo Tamanza (docente di Psicologia clinica dei legami famigliari presso la Facoltà di Psicologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, CTU presso il Tribunale di Brescia). Nel corso del seminario verrà presentato il volume di Paola Ortolan, La toga addosso, Edizioni San Paolo.                 centridiateneo.unicatt.it/famiglia-Giudice_e_psicologo_con_le_famiglie_in_tribunale.jpg

centridiateneo.unicatt.it/famiglia-notizie-giudice-e-psicologo-con-le-famiglie-in-tribunale

 

XXI Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare

Si svolgerà ad Assisi dal 25 al 28 aprile 2019 la XXI edizione della Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare e avrà per tema: Gaudete et exultate nell’Amoris lætitia: vie di santità coniugale e familiare.

  • Dal 11 maggio al 12 maggio 2019 Consulta Nazionale di pastorale familiare
  • Dal 07 luglio al 21 luglio 2019 Corso di alta formazione in consulenza familiare con specializzazione pastorale.

Il corso è aperto a sposi, sacerdoti e seminaristi, religiosi/e, anche se non in possesso di una laurea, docili nell’accogliere «vino nuovo in otri nuovi» (Mc 2,22). È destinato a formare i formatori e si rivolge a coloro che, sotto la guida dei propri Pastori, desiderano nella più piena gratuità mettersi al servizio di una «Chiesa in uscita» (cfr. EG  24), animando sul proprio territorio l’annuncio del Vangelo del matrimonio e della famiglia. Per partecipare, occorre rendersi disponibili ad una pastorale dell’orecchio accompagnando le persone e le coppie nei loro legami familiari, curando le fragilità che si incontreranno e portando il balsamo della divina misericordia.

https://famiglia.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/23/2018/11/12/ALTA-FORMAZIONE2019.pdf

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DALLA NAVATA

1° Domenica di Quaresima – Anno C – 10 marzo 2019

Deuteronomio            26, 07. (Mosè parlò al popolo e disse:) «Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione».

Salmo              90, 02. Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido».

Romani           10, 11. Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».

Luca               04, 01. Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo.

 

Dal deserto al giardino, cammino verso la vita

            Dal deserto al giardino: dal deserto di pietre e tentazioni al giardino del sepolcro vuoto, fresco e risplendente nell’alba, mentre fuori è primavera: è questo il percorso della Quaresima. Non penitenziale, quindi, ma vitale. Dalle ceneri sul capo, alla luce che «fa risplendere la vita» (2Tm 1,10). Deserto e giardino sono immagini bibliche che accompagnano la storia e i sogni di Israele, che contengono un progetto di salvezza integrale che avvolgerà e trasfigurerà ogni cosa esistente, umanità e creature tutte, che insieme compongono l’arazzo della creazione.

Con la Quaresima non ci avviamo lungo un percorso di penitenza, ma di immensa comunione; non di sacrifici ma di germogli. L’uomo non è polvere o cenere, ma figlio di Dio e simile a un angelo (Eb 2,7) e la cenere posta sul capo non è segno di tristezza ma di nuovo inizio: la ripartenza della creazione e della fecondità, sempre e comunque, anche partendo dal quasi niente che rimane fra le mani. Le tentazioni di Gesù nel deserto costituiscono la prova cui è sottoposto il suo progetto di mondo e di uomo, il suo modello di Messia, inedito e stravolgente, e il suo stesso Dio.

La tentazione è sempre una scelta tra due amori. Di’ a questa pietra che diventi pane. Trasforma le cose in beni di consumo, riduci a merce anche i sassi, tutto metti a servizio del profitto. Le parole del Nemico disegnano in filigrana un essere umano che può a suo piacimento usare e abusare di tutto ciò che esiste. E così facendo, distrugge anziché «coltivare e custodire» (Gen 2,15). Ognuno tentato di ridurre i sogni a denaro, di trasformare tutto, anche la terra e la bellezza, in cose da consumare. Ti darò tutto il potere, tutto sarà tuo. Il paradigma del potere che ha sedotto e distrutto regni e persone, falsi messia e nuovi profeti, è messo davanti a Gesù come il massimo dei sogni.

Ma Gesù non vuole potere su nessuno, lui è mendicante d’amore. E chi diventa come lui non si inginocchierà davanti a nessuno, eppure sarà servitore di tutti. Buttati giù, e Dio manderà i suoi angeli a portarti. Mostra a tutti un Dio immaginario che smonta e rimonta la natura e le sue leggi, a piacimento, come fosse il suo giocattolo; che è una assicurazione contro gli infortuni della vita, che salva da ogni problema, che ti protegge dalla fatica di avanzare passo passo, e talvolta nel buio. Gesù risponde che non gli angeli, ma «la Parola opera in voi che credete» (1Ts 2,13).

Che Dio interviene con il miracolo umile e tenace della sua Parola: lampada ai miei passi; pane alla mia fame; mutazione delle radici del cuore perché germoglino relazioni nuove con me stesso e con il creato, con gli altri e con Dio.

Padre Ermes Ronchi, OSM

www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=45349

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DEMOGRAFIA

Pochi passeggini, l’Europa invecchia. In Italia primo figlio a 31 anni

I numeri di Eurostat confermano una diffusa preoccupazione: l’Europa invecchia sempre di più e sempre più velocemente, mentre cala ancora il numero delle nascite. Una nuova raccolta di dati Eurostat replica una fotografia conosciuta: nel 2017, nell’Ue sono nati 5 milioni e 75mila bambini contro i 5 milioni e 148mila del 2016, l’anno con meno nascite se si considera il decennio 2006-2016.

La Francia è in testa. L’indicatore congiunturale di fecondità, cioè il numero medio di bambini nati da una donna durante la sua vita, dice che l’Europa ha registrato la media di 1,59 parti per donna nel 2017, dato in calo rispetto al 1,60 del 2016. L’indicatore di fecondità più elevato lo ha registrato la Francia (con 1,90 parti per donna). Seguono Svezia (1,78), Irlanda (1,77), Danimarca (1,75) e Regno Unito (1,74). Al fondo della graduatoria Malta (1,26 nascite per donna), Spagna (1,31), Cipro (1,32), Grecia (1,35), Portogallo (1,38) e Lussemburgo (1,39). L’Italia è tra i Paesi ben sotto la media, associata all’1,32 di Cipro.

Mamme giovanissime… e un po’ meno. Oltre a fare meno figli, i bebè arrivano quando le mamme sono più “mature”. Sale infatti l’età media delle donne che mettono al mondo il primo figlio: le mamme al primo parto nel 2017 avevano 29,1 anni contro i 28,7 nel 2013. Le più giovani al primo parto sono le mamme di Bulgaria, Romania e Lettonia (tra i 26 e i 27 anni); le più avanti d’età le mamme di Irlanda, Grecia, Spagna, Lussemburgo (tra i 30 e i 31 anni). L’Italia batte tutti con una media superiore a 31,1 anni al primo figlio.

Nel 2017 il 5% di mamme al primo parto aveva meno di 20 anni; sono le cosiddette “mamme adolescenti”. In Romania e Bulgaria rispettivamente il 13,9 e 13,8% delle mamme al primo figlio aveva meno di vent’anni; tante mamme giovani sono anche in Ungheria (9,9%), Slovacchia (9,5%), Lettonia (6,7%) e Regno Unito (6,1%). Sono invece relativamente poche in Danimarca (1,5%), Italia e Slovenia (1,6% ciascuna), nei Paesi Bassi (1,7%), in Lussemburgo (1,9%) e in Svezia (2,0%).

Per contro il 3% delle mamme ha avuto il primo figlio quando aveva già superato i 40 anni. Hanno il primato in questa classifica la Spagna, con il 7,4% di mamme che hanno più di 40 anni quando iniziano a spingere la carrozzina, e l’Italia (7,3%), seguite da Grecia (5,6%), Lussemburgo (4,9%), Irlanda (4,8%) e Portogallo (4,3%).

In Finlandia più fratellini e sorelline. Nell’Unione europea, degli oltre 5 milioni di bambini e bambine nati nel 2017, il 45% erano primogeniti, il 36% secondi figli, mentre le nascite di terzi figli hanno rappresentato il 12,5% del totale. Solo il 6% dei neonati aveva già tre fratelli o sorelle. Negli Stati membri dell’Ue, la percentuale più alta di madri che hanno dato alla luce il loro quarto figlio o figlia (o magari anche il quinto) abita in Finlandia (10,3%), tante anche in Irlanda (9,0%), Regno Unito (8,8%), Slovacchia (8,1%) e Belgio (8,0%).

                                                                     Sarah Numico   Agenzia SIR 13 marzo 2019

https://agensir.it/europa/2019/03/13/pochi-passeggini-leuropa-invecchia-in-italia-primo-figlio-a-31-anni

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DIRITTO DI FAMIGLIA

Parere in materia di affido di minori dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.

Audizione del 7 marzo 2019 sull’esame dei disegni di legge nn. 45,118,735, 768 e 837 in materia di affido di minori: parere dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.   Estratto

L’Autorità garante assolve ai compiti che le sono attribuiti attraverso l’ascolto istituzionale, che non è l’ascolto dell’amico o del familiare, né l’ascolto di un professionista, ma l’ascolto di un’istituzione che intercetta le richieste e i bisogni delle persone di minore età, li traduce in diritti e individua le modalità per renderli esigibili, portando le loro istanze davanti alle istituzioni competenti. Nel corso del 2017, con questo intento, l’Autorità garante ha avvertito l’esigenza di “prendersi cura” dei bambini e degli adolescenti che hanno vissuto l’esperienza della separazione ––attraverso la promozione del progetto de “I gruppi di parola: una risorsa per la cura dei legami dei figli di genitori separati”. I gruppi di parola si articolano in incontri in cui i bambini e i ragazzi possono parlare tra pari, condividere pensieri ed emozioni attraverso il gioco, il disegno e altre attività, con l’aiuto di professionisti specializzati, che li aiutano ad attraversare il periodo della separazione dei genitori.

L’Autorità garante ha altresì realizzato la Carta dei diritti dei figli dei genitori separati, i cui principi sono ispirati alla Convenzione di New York. La Carta, che impiega un linguaggio semplice perché è indirizzata prima di tutto ai bambini e ai ragazzi, enuncia diritti e principi volti a promuovere la centralità dei figli nel momento della crisi della coppia e ha lo scopo di renderli consapevoli, contribuendo al contempo alla crescita culturale dei genitori e, in generale, della società.

Per realizzarla, l’Autorità garante ha costituito una commissione che, per esaminare la questione sotto ogni punto di vista, si è avvalsa anche di esperti appartenenti alla sfera giuridica, sociale, psicologica e pedagogica, che sono stati sentiti nell’ambito di un ciclo di audizioni. Tali audizioni sono risultate utili anche per la stesura del presente parere, per il quale abbiamo ascoltato la voce dei figli attraverso la Consulta dei ragazzi, organo consultivo dell’Autorità garante composto da ragazzi e ragazze di età compresa tra i tra i 13 e i 17 anni, che ha anche contribuito alla realizzazione della Carta sopra citata. Dopo un lungo e partecipato confronto, i ragazzi della Consulta hanno evidenziato che i genitori dovrebbero trovare un accordo che tenga conto delle esigenze del figlio, che gli consenta di stare con entrambi in modo adeguato. Ma nella realtà si verificano situazioni diverse e la legge non può dettare regole troppo rigide, deve tener conto delle mutevoli esigenze del figlio e dello stesso nucleo familiare. Sono emerse diverse ipotesi: il caso di un genitore che si trasferisce altrove, in un’altra città o addirittura in un altro Paese, in cui i figli dovrebbero poter decidere dove stare; il caso dell’inserimento di un nuovo partner nel rapporto di convivenza tra genitore e figlio, in cui i figli potrebbero anche chiedere di trasferirsi dall’altro genitore. Le variabili sono molteplici: l’età dei figli, la distanza fra le abitazioni dei genitori, la situazione lavorativa degli stessi.

I ragazzi riescono sempre a pensare a 360 gradi, a regalare agli adulti la loro spontaneità e limpidezza. Hanno persino detto che i figli possono fare dei sacrifici per stare con i genitori, ma si aspettano che questi non stravolgano la loro vita, che consentano loro di mantenere inalterate, per quanto possibile, le loro abitudini. I ragazzi hanno concordato tutti sulla necessità che il legislatore dia la possibilità di valutare ogni singola situazione: ogni famiglia ha un proprio assetto, con abitudini ed equilibri propri e la legge non può standardizzarle. Deve essere il giudice a verificare che l’accordo dei genitori sia adeguato. Il giudice dovrebbe ascoltare i figli, a porte chiuse, e non dovrebbe mai chiedere chi preferiscono tra l’uno e l’altro genitore; dovrebbe fare raccontare ai genitori le proprie abitudini prima della separazione, cogliendo nelle parole e nei comportamenti i segnali che possano aiutarlo a prendere la decisione migliore, facendosi anche orientare da un esperto.

In sintesi questo è quanto emerso dall’attività di ascolto istituzionale svolto da questa Autorità.

  1. Il superiore interesse del minore: la necessità di un approccio “caso per caso”. Per i figli minorenni, la separazione è un cambiamento radicale, spesso traumatico, che racchiude articolate dinamiche affettive e psicologiche; la separazione è una rottura di continuità che non deve essere data per scontata, non è essa stessa un processo, bensì un evento che inaugura un processo, una nuova fase affettiva e relazionale. Ogni separazione ha una storia a sé e l’interesse superiore del minore deve essere valutato volta per volta e perseguito con attenzione a tutti gli elementi del caso di specie. È per questo che le norme a tutela dei figli minori nel contesto della separazione dei genitori devono sì tracciare un quadro saldo di riferimento, ma al contempo garantire la giusta flessibilità, tenendo conto della concreta situazione e salvaguardando l’ascolto della persona di minore età, uno dei principi cardine della Convenzione di New York. Va altresì considerato che le relazioni familiari si evolvono nelle varie fasi della crescita: l’approccio “caso per caso” consente di valutare anche la mutevolezza delle situazioni e di realizzare il superiore interesse del minore. Così, quando si affronta la riorganizzazione conseguente alla separazione, anche in fase di adozione delle norme, è necessario:
  • Mettere al centro dell’attenzione prima i figli e dopo le esigenze dei genitori;
  • Tenere presente che la famiglia non si dissolve, ma si ricompone assumendo un diverso assetto e che si rimane genitori per sempre;
  • Considerare che l’assetto delle relazioni genitori-figli è mutevole e risente di tanti fattori: età e numero dei figli, condizione dei genitori (lavorativa, personale, di salute, residenza),
  • Organizzazione della vita familiare al momento della separazione, eventuale ingresso di nuovi partner, con o senza figli, ed eventuale nascita di altri figli;
  • Considerare il concetto di “tempo” come “tempo di qualità”, piuttosto che come “quantità di tempo”. Per il figlio, “tempo di qualità” significa essere al centro della vita dei genitori e, per il genitore, essere il faro che indirizza la vita del figlio, il punto di riferimento, la prima persona a cui il figlio pensa di rivolgersi in caso di difficoltà e con cui condividere i momenti di gioia ed entusiasmo.
  1. Le tematiche centrali

2.1 Il diritto alla bi-genitorialità e l’affido condiviso. Il valore da tutelare in materia di separazione familiare è la bi-genitorialità, principio fondamentale per assicurare una serena crescita dei figli e in linea con la Convenzione di New York. La bi-genitorialità è il diritto del figlio di godere di una relazione piena, armoniosa, prevedibile e costante con entrambi i genitori, anche nella fase patologica del rapporto tra questi. La bi-genitorialità è responsabilità, cura e attenzione alle reali esigenze dei figli in crescita; è essere genitori insieme senza pretese di esclusività; è impegnarsi a facilitare concretamente l’accesso anche all’altro genitore, in primo luogo da un punto di vista emotivo; è la condivisione dei doveri e la collaborazione per il bene e nell’interesse dei figli, piuttosto che il diritto degli adulti di essere presenti in eguale misura nella vita dei figli anche dopo la separazione. L’amore si misura con la cura e l’attenzione, non solo con il tempo, riuscendo reciprocamente a riconoscere una capacità genitoriale per accompagnare i figli nella crescita, condividendo le scelte che li riguardano, sostenendoli nelle difficoltà, permettendo loro di esprimere i propri sentimenti, spesso di rabbia e frustrazione, concedendo il tempo di elaborare il “lutto”, rispettando i loro tempi anche nell’eventuale introduzione di un nuovo partner, consentendo di vivere appieno il rapporto genitoriale con entrambi, anche di cambiare abitazione, quando le esigenze della crescita lo richiedano. Nella mente dei bambini e degli adolescenti la pari importanza dei genitori si sviluppa attraverso l’acquisizione della consapevolezza che i genitori agiscono nel loro interesse e nel rispetto dei loro mutevoli bisogni.

E, dunque, il tempo è il tempo dei figli, non quello dei genitori. Una suddivisione paritetica dei tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore potrebbe non corrispondere all’interesse del minore, se materialmente gli impedisce di crescere in un ambiente domestico stabile, stravolgendo le sue abitudini pregresse e la continuità della sua vita di relazione. La previsione aprioristica di una bi-genitorialità “perfetta”, eccessivamente rigida, potrebbe rispondere, piuttosto, a ragioni di ordine “logistico”, incentrate sugli interessi degli adulti: una bi-genitorialità ottimale rispetto a una specifica situazione rappresenta l’obiettivo cui l’ordinamento dovrebbe tendere con attenzione al sopramenzionato approccio “caso per caso”. Devono essere gli adulti ad adeguarsi ai ritmi di vita dei bambini e occorre valutare nel concreto ciascuna realtà familiare. Si pensi al disagio per i figli relativo alla perdita di riferimenti stabili e al conseguente disorientamento; alla difficoltà nel duplicare le relazioni esterne; agli spostamenti specie in una grande città, dove la scuola rimane comunque una sola, alla difficoltà materiale in presenza di talune situazioni (bambini piccolissimi, bambini con disabilità etc.). Si pensi poi ai casi di genitori che vivono in luoghi lontani delle grandi città, e di famiglie transnazionali, sempre più frequenti, dove i genitori potrebbero non solo vivere in città diverse, ma anche in Paesi diversi. I figli hanno bisogno di punti di riferimento anche per continuare a mantenere le abitudini antecedenti la separazione. Per aiutare i figli, bisogna renderli consapevoli che nel cuore e nella testa di ciascun genitore c’è un posto solo per loro. Sul piano pratico, il pendolarismo continuo tra realtà familiari distanti, e talvolta anche conflittuali, potrebbe risultare in contrasto con la tutela del minore e con il suo diritto di conservare un centro stabile di interessi personali e familiari (la continuità delle abitudini), rendendo eccessivamente gravoso, fin dalla prima infanzia, il vivere quotidiano. Per il bene dei figli, bisogna coniugare il loro diritto alla bi-genitorialità –e più in generale alla continuità affettiva –con l’esigenza di stabilità dei bambini: il punto di incontro deve essere declinato in riferimento ai reali bisogni della singola persona di minore età. In riferimento poi al rifiuto del figlio minorenne di uno dei due genitori ne vanno indagate le motivazioni, che possono anche molte complesse. Torna la necessità di una valutazione caso per caso che tenga anche conto del superiore interesse della persona di minore età.

Quanto al doppio domicilio (o più correttamente la doppia residenza anagrafica) presso entrambi i genitori, si evidenzia che il domicilio è definito all’art. 43 cc come il luogo in cui la persona ha stabilito la “sede principale dei suoi affari e interessi”. Posto che la sede principale degli interessi di una persona –proprio perché principale –non può che essere unica, l’individuazione di due luoghi distinti crea problemi di livello pratico non indifferenti: quale domicilio si userà, ad esempio, per l’iscrizione a scuola? Ovvero per la individuazione dei servizi sociali competenti? Ovvero per la scelta del medico?

L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (COE), nella risoluzione 2079 del 2015 ha raccomandato agli Stati parte di introdurre il principio della shared residence. Tale principio, come specificato nel documento 13870 del 14 settembre 2015, adottato dalla stessa Assemblea parlamentare, non si traduce nel principio della doppia residenza o del doppio domicilio dei figli in caso di separazione, ma piuttosto evidenzia la necessità di calcolare la “quantità del tempo” tra genitori e figli con attenzione alle concrete esigenze e gli interessi di questi ultimi (“being adjusted according to the child’s needs and interests”).

Quanto all’attenzione posta agli ascendenti, va ricordato come la casistica denoti che se è vero che i nonni sono una risorsa insostituibile nelle situazioni fisiologiche, in quelle critiche essi possono rappresentare uno dei maggiori fattori di inasprimento del conflitto. Assolutamente condivisibile che la giurisprudenza (interna nonché della Corte EDU e della Corte di giustizia dell’UE) –con attenzione a tutti gli elementi specifici del caso concreto –attribuisca diritto di visita ai nonni (ad esempio v. Corte di giustizia dell’UE, sentenza 31 maggio 2018, causa C-335/17) e altro è che una norma preveda a monte l’intervento volontario degli ascendenti in un procedimento relativo ai nipoti: il rischio è l’aumento della conflittualità, un complesso proliferare di parti, l’allungamento dei tempi del processo.

2.2  Sul mantenimento in forma diretta, il piano genitoriale, l’ascolto del minore e la pratica della videoregistrazione. La previsione di un assegno di mantenimento per i figli da un genitore all’altro garantisce il soddisfacimento delle esigenze dei figli e una maggiore effettività in caso di inadempimento. Il mantenimento c.d. “diretto”, in luogo dell’assegno, evidenzia la disparità di posizione: il genitore con più disponibilità economiche potrà infatti provvedere in modo più adeguato dell’altro alle esigenze del figlio. La disparità economica tra le due figure genitoriali sarà più evidente nei periodi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro, con inevitabile ripercussione sulla esistenza del figlio e sulla qualità della relazione genitoriale. Questa conseguenza è particolarmente evidente con riferimento al pagamento delle spese ordinarie: si pensi alla spesa alimentare, ai vestiti e alle utenze domestiche, che potrebbero essere “ricche” in un contesto e non essere garantite nell’altro.

Come si realizza il mantenimento diretto in misura proporzionale al reddito per le spese ordinarie, in presenza di tempi paritetici di permanenza dei figli presso entrambi i genitori? Il genitore più “ricco” porterà materialmente la spesa a casa del più “povero” nei giorni di permanenza del figlio presso di lui? Come ulteriore conseguenza, alcune scelte potranno essere operate solo in uno dei periodi di frequentazione, quello con il genitore più abbiente (“il genitore di serie A”) e non con l’altro (il genitore “di serie B”). Solo con il genitore di serie A, ad esempio, il figlio potrà andare al cinema oppure mangiare i suoi cibi preferiti e comprare il capo di abbigliamento che più desidera. La situazione auspicabile è quella di genitori con pari reddito, pari tempo libero e parimenti presenti nella vita dei figli, ma non può non tenersi conto dei dati ISTAT, aggiornati al luglio 2018, che mostrano come il tasso di disoccupazione femminile sia al 55%.

Norme sul mantenimento dei figli informate ad una logica automatica e predeterminata di calcolo (ad esempio, ad una “diretta proporzionalità” rispetto al reddito) potrebbero comportare come conseguenza un controllo di un genitore nei confronti dell’altro con l’inevitabile mortificazione del genitore meno abbiente e della qualità della sua relazione con il figlio. Tali norme diverrebbero altresì un deterrente alla separazione, per esclusive logiche economiche, con la conseguenza di perpetuare situazioni di alta conflittualità; si pensi poi alle conseguenze nei casi, ad esempio, di maltrattamento familiare e violenza domestica. Inoltre, la previsione di un assegno di mantenimento garantisce il soddisfacimento delle esigenze dei figli e una maggiore effettività in caso di inadempimento (art. 156 cc). Un accordo tra genitori volto a disciplinare tutti gli aspetti della separazione (anche le spese ordinarie e straordinarie, le utenze, gli alimenti…) è auspicabile e lo strumento del piano genitoriale (parenting plan), già diffuso nella prassi, è importante. Si accoglie con favore il potenziamento di questo strumento, ma renderlo obbligatorio potrebbe svuotarlo di significato, frustrandone la logica fondata sul consenso volontario. Bisognerebbe dunque incentivarne l’utilizzo; le parti nella fase di separazione dovrebbero essere obbligatoriamente informate della evidente nei periodi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro, con inevitabile ripercussione sulla esistenza del figlio e sulla qualità della relazione genitoriale. Questa conseguenza è particolarmente evidente con riferimento al pagamento delle spese ordinarie: si pensi alla spesa alimentare, ai vestiti e alle utenze domestiche, che potrebbero essere “ricche” in un contesto e non essere garantite nell’altro. Come si realizza il mantenimento diretto in misura proporzionale al reddito per le spese ordinarie, in presenza di tempi paritetici di permanenza dei figli presso entrambi i genitori? Il genitore più “ricco” porterà materialmente la spesa a casa del più “povero” nei giorni di permanenza del figlio presso di lui? Come ulteriore conseguenza, alcune scelte potranno essere operate solo in uno dei periodi di frequentazione, quello con il genitore più abbiente (“il genitore di serie A”) e non con l’altro (il genitore “di serie B”). Solo con il genitore di serie A, ad esempio, il figlio potrà andare al cinema oppure mangiare i suoi cibi preferiti e comprare il capo di abbigliamento che più desidera. La situazione auspicabile è quella di genitori con pari reddito, pari tempo libero e parimenti presenti nella vita dei figli, ma non può non tenersi conto dei dati ISTAT, aggiornati al luglio 2018, che mostrano come il tasso di disoccupazione femminile sia al 55%.Norme sul mantenimento dei figli informate ad una logica automatica e predeterminata di calcolo (ad esempio, ad una “diretta proporzionalità” rispetto al reddito) potrebbero comportare come conseguenza un controllo di un genitore nei confronti dell’altro con l’inevitabile mortificazione del genitore meno abbiente e della qualità della sua relazione con il figlio. Tali norme diverrebbero altresì un deterrente alla separazione, per esclusive logiche economiche, con la conseguenza di perpetuare situazioni di alta conflittualità; si pensi poi alle conseguenze nei casi, ad esempio, di maltrattamento familiare e violenza domestica. Inoltre, la previsione di un assegno di mantenimento garantisce il soddisfacimento delle esigenze dei figli e una maggiore effettività in caso di inadempimento (art. 156 cc). Un accordo tra genitori volto a disciplinare tutti gli aspetti della separazione (anche le spese ordinarie e straordinarie, le utenze, gli alimenti…) è auspicabile e lo strumento del piano genitoriale (parenting plan), già diffuso nella prassi, è importante. Si accoglie con favore il potenziamento di questo strumento, ma renderlo obbligatorio potrebbe svuotarlo di significato, frustrandone la logica fondata sul consenso volontario. Bisognerebbe dunque incentivarne l’utilizzo; le parti nella fase di separazione dovrebbero essere obbligatoriamente informate della possibilità di ricorrere a questo strumento.

Inoltre, affinché possa essere uno strumento realmente efficace, dovrebbe essere flessibile, facilmente modificabile in funzione delle mutevoli esigenze della famiglia e disciplinato da procedure snelle, chiare e definite. L’ascolto del minore deve essere libero da condizionamenti e pressioni. Con l’introduzione della videoregistrazione obbligatoria si potrebbe minare l’equilibrio personale e affettivo, sapere di essere ascoltato dai genitori potrebbe generare resistenze ad esprimersi per la paura di offendere, deludere o tradire la fiducia di uno o dell’altro genitore. La videoregistrazione dell’audizione rischia di sovraccaricare il minore di responsabilità che non gli competono, nel momento in cui viene utilizzata come mezzo di prova, e potrebbe divenire fonte di conflitto con i genitori che si ritengano rifiutati o feriti da quanto riferito dal figlio al giudice.

Quanto alla casa familiare, il venir meno del provvedimento di assegnazione della stessa può comportare per il genitore non proprietario né detentore di reddito la difficoltà a fare fronte alle spese di abitazione -convivenza con il figlio. L’interesse del minore –che si concretizza anche nella possibilità di convivere con il genitore che ha più possibilità o capacità di cura e di accudimento (ma che potrebbe essere meno abbiente) –non deve essere sacrificato da una “logica di mercato”, dovendosi salvaguardare il principio di bi-genitorialità. L’habitat domestico è a tutela dell’interesse del minore.

Bisogna inoltre considerare la realtà delle coppie non coniugate: il genitore che non lavora, in mancanza di un assegno per sé, in presenza di un obbligo di mantenimento diretto, non sarebbe in grado di prendersi materialmente cura del figlio, compromettendo così il rapporto affettivo e la garanzia della bi-genitorialità. Gli aspetti di tutela della proprietà e di salvaguardia del principio di autonomia reddituale informate ad una logica di automatismo non devono prevalere sull’effettiva valutazione dell’interesse del minore e sulla garanzia di mantenere rapporti significativi con entrambi i genitori. In conclusione, anche negli aspetti economici dell’affidamento è imprescindibile tenere conto del valore della sfera affettiva.

2.3 La mediazione familiare e la coordinazione genitoriale. La sistemazione organica della mediazione familiare e la regolamentazione della professione del mediatore familiare (istituzione dell’albo, precisa indicazione delle categorie professionali, disciplina del procedimento di mediazione –tempi, riservatezza, assistenza legale anche rinunciabile) è necessaria e opportuna.

“Mediare” significa prendersi una pausa all’interno di una contesa e iniziare a meditare sulla crisi che si sta attraversando, per poi arrivare a risolverla. Per l’Autorità garante che presiedo, l’istituto della mediazione ha un’importanza fondamentale: la propria legge istitutiva le attribuisce invero una competenza specifica, volta proprio a favorire lo sviluppo della cultura della mediazione (art. 3, co. 1, lett. o) della L. n. 112/12 luglio 2011). Sul piano del Consiglio d’Europa (CoE), la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata dall’Italia ai sensi della legge n. 77 del 2003 promuove il ricorso alla mediazione. Il CoE ha di nuovo invitato gli Stati ad introdurre la mediazione familiare o a rafforzare quella esistente (raccomandazione n. R(98)) e, a livello dell’Unione europea, il regolamento (CE) n. 2201/2003 sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale (c.d. “Bruxelles II bis”) dispone che le autorità centrali provvedano a facilitare un accordo tra i titolari della responsabilità genitoriale “ricorrendo alla mediazione o con altri mezzi” (art. 55). La previsione del ricorso alla mediazione familiare è rafforzata altresì nella proposta di rifusione del regolamento Bruxelles II bis attualmente in discussione.

La mediazione familiare è un percorso libero, partecipato, riservato, intimo, È uno strumento efficace che insegna a gestire il conflitto attraverso la cultura del rispetto dell’altro, principio che dovrebbe governare tutte le relazioni umane. La mediazione familiare serve anche a costruire un opportuno cambiamento di mentalità e di approccio: imparare a gestire la trasformazione delle relazioni e risolvere i conflitti. Tuttavia la mediazione familiare, come strumento per realizzare una separazione nell’interesse superiore del figlio minore d’età, può essere efficace soltanto laddove le parti prestino il proprio consenso liberamente. La mediazione familiare è un istituto ma anche un prerequisito culturale: per ricorrere alla mediazione, dunque, bisogna conoscerla ed esserne consapevoli. Se è positivo l’intento di assicurare la sistemazione organica dell’istituto, perplessità comporta la configurazione della mediazione familiare come condizione di procedibilità della causa separativa. Il carattere obbligatorio e la procedimentalizzazione della fase di mediazione familiare non attengono alla ratio dell’istituto e appaiono in contrasto con il requisito di volontarietà del ricorso alla mediazione, da cui deriva la possibilità di successo e di spontanea adesione e accettazione alle soluzioni raggiunte dalle parti.

La previsione della condizione di procedibilità, inoltre, renderebbe più lungo, complesso e costoso il procedimento di separazione e di divorzio giudiziale. La situazione di decozione in cui versano i servizi specialistici territoriali e le strutture pubbliche collegate, inoltre, renderebbe inevitabile il ricorso a strutture private con aumento di costi e pregiudizio per la parte meno abbiente; la previsione della triade mediazione/udienza presidenziale/mediazione renderebbe estremamente lungo il periodo tra il deposito del ricorso e la emissione dell’ordinanza presidenziale mentre è indispensabile agire con celerità, soprattutto nelle situazioni a più alta conflittualità, a tutela dei figli.

Nell’ottica della promozione dell’istituto nonché della costruzione di una “cultura della mediazione”, si potrebbe prevedere l’obbligatorietà di un incontro informativo sull’istituto in presenza dello stesso mediatore che ne possa spiegare le finalità. In ogni caso, in questa stessa ottica e per incentivarne il ricorso e consentirne a tutti l’accesso, il primo incontro informativo e, in una condizione ottimale, l’intera mediazione, dovrebbero essere assicurati in forma gratuita. Altra attività professionale di rilievo nella gestione della separazione, è rappresentata dal coordinatore genitoriale –già utilizzato in talune prassi processuali. Tale attività, considerata la delicatezza dei compiti, richiede di essere dettagliatamente disciplinata (ad es. nei requisiti di professionalità, esperienza, profili di incompatibilità) così come devono essere specificate le fasi giudiziali ed extra-giudiziali in cui potrebbe intervenire.

Conclusioni

  1. Ogni separazione ha una storia a sé e l’interesse superiore del minorenne deve essere valutato volta per volta. L’approccio “caso per caso” consente di valutare anche i cambiamenti delle relazioni familiari nelle varie fasi della crescita e di realizzare il superiore interesse del minore, sempre considerando la necessità di:
  • mettere al centro dell’attenzione prima i figli e dopo le esigenze dei genitori;
  • tenere presente che la famiglia non si dissolve, ma si ricompone assumendo un diverso assetto e che si rimane genitori per sempre;
  • considerare che l’assetto delle relazioni genitori-figli è mutevole e risente di tanti fattori: età e numero dei figli, condizione dei genitori (lavorativa, personale, di salute, residenza), organizzazione della vita familiare al momento della separazione, eventuale ingresso di nuovi partner, con o senza figli, ed eventuale nascita di altri figli;
  • considerare il concetto di “tempo” come “tempo di qualità” piuttosto che “quantità di tempo”. Per il figlio il tempo di qualità significa essere al centro della vita dei genitori e, per il genitore, significa essere il faro che indirizza la vita del figlio, il punto di riferimento, la prima persona a cui il figlio pensa di rivolgersi in caso di difficoltà e con cui condividere i momenti di gioia ed entusiasmo.
  1. La bi-genitorialità, fondamentale per assicurare una serena crescita dei figli, è il diritto del figlio di godere di una relazione piena, armoniosa, prevedibile e costante con entrambi i genitori, anche nella fase patologica del rapporto tra questi. La bi-genitorialità è responsabilità, cura e attenzione alle reali esigenze dei figli in crescita; è essere genitori insieme senza pretese di esclusività; è impegnarsi a facilitare concretamente l’accesso anche all’altro genitore, in primo luogo da un punto di vista emotivo; è la condivisione dei doveri e la collaborazione per il bene e nell’interesse dei figli.

In caso di rifiuto da parte del figlio di uno dei due genitori occorre indagarne le motivazioni, che possono anche molto complesse. Torna la necessità di una valutazione caso per caso che tenga anche conto del superiore interesse della persona di minore età.

Il doppio domicilio crea problemi di livello pratico, posto che è la sede principale degli interessi di una persona (art. 43 cc), e in quanto principale, non può che essere unica.

L’amore si misura con la cura e l’attenzione, non solo con il tempo.

Una bi-genitorialità ottimale rispetto a una specifica situazione rappresenta l’obiettivo cui l’ordinamento dovrebbe tendere con attenzione a tutti gli elementi concreti della realtà familiare, secondo un approccio “caso per caso”.

  1. La previsione di un assegno di mantenimento per i figli da un genitore all’altro garantisce il soddisfacimento delle esigenze dei figli e una maggiore effettività in caso di inadempimento. In presenza di un mantenimento c.d. “diretto”, la disparità economica tra le due figure genitoriali sarà evidente nei periodi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro, con inevitabile ripercussione sulla esistenza del figlio e sulla qualità della relazione genitoriale.

Il piano genitoriale può essere uno strumento utile. Le parti nella separazione dovrebbero essere informate della possibilità di ricorrervi. Per essere realmente efficace, dovrebbe essere non obbligatorio, facilmente modificabile in funzione delle mutevoli esigenze della famiglia, disciplinato da procedure snelle, chiare e definite.

La previsione della videoregistrazione obbligatoria dell’audizione del figlio può non essere rispondente al suo superiore interesse, può destabilizzarne l’equilibrio personale e affettivo e rischia di sovraccaricare il minore di responsabilità che non gli competono. L’ascolto del minore deve essere libero da condizionamenti e pressioni.

4.La sistemazione organica della mediazione familiare e la regolamentazione della professione del mediatore familiare (istituzione dell’albo, precisa indicazione delle categorie professionali, disciplina del procedimento di mediazione –tempi, riservatezza, assistenza legale anche rinunciabile) è necessaria e opportuna. La mediazione familiare è un percorso libero, partecipato, riservato, intimo, è uno strumento efficace che insegna a gestire il conflitto attraverso la cultura del rispetto dell’altro: bisogna promuoverne la conoscenza, nella direzione di una vera e propria “cultura della mediazione”, attuando le raccomandazioni del Consiglio d’Europa nonché del legislatore dell’UE. La mediazione familiare, come strumento per realizzare una separazione nell’interesse superiore del figlio minore d’età può essere efficace soltanto laddove i genitori prestino il proprio consenso liberamente. Si potrebbe prevedere l’obbligatorietà di un incontro informativo sull’istituto, in presenza dello stesso mediatore che ne possa spiegare le finalità. In ogni caso, in questa stessa ottica, per incentivarne il ricorso e consentirne a tutti l’accesso, il primo incontro informativo e, in una condizione ottimale, l’intera mediazione, dovrebbero essere assicurati in forma gratuita.

magistrato dr Filomena Albano, Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza dal 28 aprile 2016.

www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/affido-condiviso-testo-parere-audizione-07-03-2019.pdf

 

Donne per la Chiesa: il DDL Pillon non ha nulla di cattolico

Con questo documento vogliamo espressamente occuparci del Ddl 735 (Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità) presentato dal Sen. Pillon al Senato il 1 agosto 2018, che sta sollevando molte discussioni e generalizzate critiche da parte del mondo psicologico-giuridico e del diritto. Il DDL si compone di 24 articoli e, nell’ottica di chi lo ha elaborato, dovrebbe garantire al figlio minorenne di coppie separate una più corretta applicazione della legge 54/8 febbraio 2006 sul cosiddetto affidamento condiviso, attraverso una serie di passaggi di una certa rilevanza, sulla scorta di un rigido principio di bigenitorialità.

            Lasciamo a operatori più esperti e competenti i profili di critica agli aspetti psicologici, processuali, del diritto e della tutela effettiva delle parti più deboli del rapporto familiare. In quanto donne e credenti ci interessa sottolineare un altro aspetto che attiene alle premesse culturali della riforma, più che alla regolamentazione che essa propone.

            I proponenti (a partire dal senatore Pillon, eletto nelle file della Lega Nord) hanno in più occasioni ribadito le proprie radici culturali come cristiane ed in particolare cattoliche e hanno di conseguenza proposto e reclamizzato la propria azione politica, con ciò esprimendo una visione integralista sia della religione che del suo rapporto con la politica. Questo fatto ci trova profondamente contrarie e ci induce a intervenire nel dibattito per contrastare con forza un atteggiamento che piega e riduce un pensiero ed una tradizione secolari e complessi alle idee di pochi, a poche idee, a idee che in gran parte appaiono in contrasto con il messaggio rivoluzionario e di misericordia che ci ha fatto innamorare ed iniziare un cammino che chiamiamo fede cristiana.

            Prendiamo parola convinte che la nostra autorevolezza e il rispetto che pretendiamo derivino innanzitutto dall’essere donne. Donne  che vivono  nel mondo, donne con figli e con mariti, donne senza figli e senza mariti, religiose, donne che hanno generato non fisicamente ma  nell’amore e nella dedizione agli altri o al proprio lavoro, donne che sono state sposate e non lo sono più, donne che hanno sposato  uomini che venivano da altri matrimoni o altre storie, donne che si sono a loro volta risposate; pensiamo che la nostra credibilità  venga non solo da quello che diciamo, ma dal fatto che siamo donne reali, donne che hanno vissuto  sul proprio corpo cosa significa generare un figlio o scegliere di non generarlo,  stare accanto ad un uomo che ti ama e stare accanto ad un uomo che non ti ama più, siamo o abbiamo amiche sposate, single, divorziate, separate.

            Abbiamo l’urgenza e la forza, poi, dell’assertività che viene dall’essere donne di fede. Fede vissuta, cammini iniziati, interrotti, ripresi, cadute e nuovi inizi, dubbi, domande, critiche, preghiera, ascolto, nessuna certezza ma anche impegno in piccole e grandi realtà parrocchiali e comunitarie, in mille forme di volontariato, nella carità delle piccole cose e delle grandi fatiche silenziose, fede che ci accompagna nella educazione dei nostri figli e nelle Chiese sempre più vuote e nelle Messe in cui vediamo, a dire il vero, molti pochi di quegli uomini che  invece si fanno forti sbandierando “valori cristiani” sulle pubbliche piazze.

            Il substrato culturale del decreto parte innanzitutto da una immagine del tutto stereotipata della donna e dalla volontà di confinarla nel ruolo di madre e di moglie. Noi crediamo, invece, che ogni essere umano sia chiamato ad una sua personalissima realizzazione (che è la tensione verso il divino presente in ognuno di noi) che si compie nell’amore per Dio e per i fratelli e le sorelle, ma che in ciascuno può trovare i modi e le manifestazioni più diverse: porre ostacoli alla vocazione di un essere umano, anche in nome del “valore della famiglia” significa frapporsi tra un’anima e il suo Creatore.

            Invochiamo con forza la necessità di liberare il messaggio cristiano dai limiti culturali  del contesto in cui  avvenne la predicazione di Gesù e soprattutto denunciamo, con ancor più forza,  l’utilizzo  della religione come strumento di potere, nel nostro caso di  potere patriarcale che ha buon gioco nell’estrapolare e strumentalizzare alcuni  passi delle scritture per legittimare una condizione di inferiorità femminile che non può riferirsi al messaggio evangelico, ma che si ha estremo interesse a mantenere immutata.

            Altro aspetto fondamentale è quello del rapporto tra uomini e donne nel matrimonio. Troppo spesso il profondo e sacro legame che nelle Scritture si auspica esistere tra uomo e donna (Marco 10, 6-9) viene interpretato non come unità, ma come proprietà l’uno dell’altro. La conseguenza è che valori come la fedeltà e l’indissolubilità vengono a valere a senso unico e lungi dall’essere, come dovrebbero, i segni esteriori dell’amore unitario, diventano unicamente mezzi per l’esercizio di un potere, in un legame matrimoniale che non vede la dignità di un rapporto fra pari, ma egoismo, umiliazione e controllo.

            Per quanto riguarda le proposte del decreto riguardo ai figli è evidente l’errore di prospettiva, adultocentrica, del prevedere obbligatori tempi di paritetica spartizione del figlio nel più totale oblio del suo vero interesse. Noi donne credenti sentiamo l’urgenza di manifestare la nostra contrarietà a questa visione che ferisce per la totale mancanza di rispetto per i figli, tramite la sottrazione della loro soggettività e riducendo la loro libertà di esseri che sono già persona in pienezza, ancorché bambini. Se perdiamo di vista questo valore, tradiamo la visione cristiana del rapporto di filiazione, e in generale dell’attenzione verso i più deboli oltre a valori etici che vengono ancora prima e attengono alla dignità e ai diritti della persona umana.

            In conclusione se il pensiero cristiano, nella storia, si è reso colpevole di aver tramandato un ideale di femminilità fatto di docilità e passività, asseriamo con forza che non è questo il progetto di Dio sull’uomo e sulla donna, per come Gesù Cristo lo ha proposto nel suo Vangelo. La Chiesa ha troppo spesso scelto di mantenere il silenzio sulla violenza domestica, sull’abuso e sulla sottomissione, per preservare lo status quo, ma oggi che sta uscendo finalmente allo scoperto con una importante azione di verità sulle proprie colpe, non possiamo accettare che la società civile -che si appella ai principi cristiani- vada nella direzione opposta, riproponendo un modello familiare fatto di predominio maschile e subordinazione femminile.

Redazione       Donne per la chiesa   08 marzo 2019

www.donneperlachiesa.it/2019/03/08/donne-per-la-chiesa-il-ddl-pillon-non-ha-nulla-di-cattolico

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ENTI TERZO SETTORE

Il Forum del Terzo settore entra nella cabina di regia di Palazzo Chigi

La portavoce nazionale: “soddisfatti per questo risultato. Il terzo settore contribuirà all’applicazione e al monitoraggio della riforma”.

“Il DPCM della Presidenza del Consiglio integra la Cabina di regia prevedendo la presenza del Portavoce del Forum nel principale strumento di governance della riforma. A nome di tutto il Forum del Terzo settore voglio esprimere la soddisfazione per questa scelta” così Claudia Fiaschi, commenta l’ingresso nell’organismo di Palazzo Chigi che dovrà concretamente monitorare l’applicazione della legge di riforma e i suoi decreti attuativi.

La prima convocazione è già stata fissata per il 7 marzo 2019. “Una convocazione molto attesa da tutto il terzo settore italiano e che avevamo posto all’attenzione del premier Giuseppe Conte e del sottosegretario Claudio Durigon. Attendono l’approvazione della Cabina di regia alcuni provvedimenti ormai urgenti: la definizione delle attività secondarie, di cui all’art.6 del CTS, e le linee guida al bilancio sociale – spiega Fiaschi – indispensabili anche per definire in modo consapevole le modifiche statutarie che gli Enti di Terzo settore sono chiamati a fare tra breve e per attuare le previsioni di rendicontazione sociale introdotte dalla riforma“.

Forum Terzo Settore 2 marzo 2019

www.forumterzosettore.it/2019/03/02/terzo-settore-il-forum-entra-nella-cabina-di-regia-di-palazzo-chigi

 

Più tempo per gli statuti: le richieste di Uneba

            Presentato il vademecum sulla riforma del terzo settore per guidare soprattutto gli Enti che si occupano di assistenza. Lombardi: “Si potrà modificare lo statuto anche dopo la scadenza del 3 agosto 2019, ma con la maggioranza dell’assemblea straordinaria”

“Il codice del terzo settore non cambia l’impianto generale dei controlli ma ne introduce un gruppo relativo all’iscrizione al registro unico nazionale del terzo settore, su cui potranno vigilare per la prima volta soggetti privati autorizzati, nello specifico le reti associative nazionali e, nei casi delle realtà di minori dimensioni, i centri di servizio per il volontariato”. Lo ha ribadito stamattina Alessandro Lombardi, direttore generale dell’ufficio Terzo settore del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali durante la conferenza stampa di presentazione del vademecum realizzato da Uneba a Roma. Il tema è quello della responsabilizzazione degli enti di terzo settore su uno dei nodi caldi dell’impianto normativo, quello della trasparenza e dei controlli. “Non abbiamo voluto fare passi indietro su questo – precisa ancora Lombardi – perché crediamo sia importante difendere la reputazione dell’intero sistema”.

Durante la presentazione del “Vademecum Riforma Terzo settore”, 130 pagine che fanno da guida ai cambiamenti dettati dalla riforma, il direttore generale ha poi voluto precisare con un passaggio un nodo importante rispetto alla scadenza sulla modifica degli statuti. “Il 3 agosto 2019 non è una data da considerare come un obbligo ma solo un onere per chi vuole stare nel recinto del terzo settore e farlo avvalendosi del percorso alleggerito dell’assemblea ordinaria. Chi vorrà adeguarsi dopo, potrà sempre farlo ma con le maggioranze previste dall’assemblea straordinaria”.

            La difficoltà, infatti, riguarda ancora l’assenza del registro unico nazionale del terzo settore, la cui attivazione è prevista entro la fine dell’anno. Si tratta di uno scollamento temporale che – come ha sottolineato Marco Petrillo, vicepresidente di Uneba Lombardia e curatore del vademecum – scoraggia gli enti, in particolare le Onlus, perché porterebbe ad avere due statuti, uno in vigore transitoriamente e l’altro deliberato ma sospeso da un punto di vista giuridico.

            “La nostra proposta – ha spiegato Franco Massi, presidente nazionale di Uneba – è che venga ancorato l’obbligo di adeguamento degli statuti all’entrata in funzione del Runts [Registro Unico nazionale del Terzo settore].                                                             https://csvpadova.org/il-registro-unico-del-terzo-settore

Gli Enti – ha ribadito Massi – hanno bisogno di semplificazione, di chiarezza, di certezze”. La principale preoccupazione sollevata durante l’incontro, però, riguarda l’aumento dell’Iva al 22% (ad oggi è a 0%) su assistenza domiciliare e ricovero in case di cura, che rischia di portare un aumento dei costi per i cittadini. La denuncia di Uneba, infatti, è che le nuove norme in materia di Iva penalizzino le fondazioni ex ipab che svolgono questi servizi.

La presentazione è avvenuta 6 febbraio 2019a Palazzo Chigi, cui parteciperà per la prima volta anche il Forum Nazionale del Terzo settore. “Iniziative come il vademecum di Uneba – ha detto Claudia Fiaschi, portavoce del Forum – servono a costruire la condivisione sull’interpretazione della norma, perché è l’interpretazione nella pratica a condividere la definizione della norma”. Tra i meriti della riforma, così come ha sottolineato Giuseppe Guzzetti, presidente di Acri, c’è quello di “dare stabilità, certezza e futuro all’opera dei Csv”.

            Il vademecum è stato realizzato da un team multidisciplinare costituito da giuristi, fiscalisti, consulenti del lavoro ed esperti del terzo settore. L’obiettivo è di spiegare agli enti – anzitutto quelli dediti ai servizi ad anziani, persone con disabilità, minori fragili – a quali condizioni e con quali modalità trasformarsi in ente del terzo settore o impresa sociale come previsto dalla riforma; altri approfondimenti riguardano gli enti religiosi, la fiscalità, gli aspetti contabili e di bilancio, il mondo del lavoro. Tra i nomi che hanno collaborato alla stesura del vademecum, Maurizio Giordano, Luca Degani, Giancarlo Cantamessa, Enrica Favaro, Ellis Bottazzo, Anna Ricceri, Venerando Marano, Bassano Baroni, Lauro Montanelli, Massimo Piscetta, Alessandro Baccelli e Marco Petrillo.

Lara Esposito            CSVnet                       06 marzo 2019

www.csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3244-piu-tempo-per-gli-statuti-le-richieste-di-uneba?Itemid=893

 

Uneba lancia l’allarme: “La riforma rischia di penalizzare i nostri assistiti”

            No all’aumento dell’Iva alle fondazioni. Più tempo per l’adeguamento degli statuti. Sono le richieste di Uneba, associazione di categoria del non profit, che ha presentato a Roma il suo “Vademecum riforma Terzo settore”.

            Come cambierà nei prossimi mesi la vita quotidiana di realtà che, grazie al lavoro di decine di migliaia di dipendenti, sono un pilastro del sistema sociosanitario italiano? Il 3 agosto 2017 è entrato in vigore il Codice del Terzo settore (Cts), che con il decreto correttivo con modifiche e integrazioni entrato in vigore l’11 settembre 2018 riordina tutta la normativa in materia e istituisce, tra l’altro, il Registro unico nazionale del Terzo settore (Runts) presso il ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Entro il 3 agosto di quest’anno 2019 gli Enti non profit dovranno adeguare i propri statuti al Cts. Ma Uneba (Unione nazionale istituzioni e iniziative di assistenza sociale), la più rappresentativa e radicata organizzazione di categoria del settore sociosanitario, assistenziale e educativo, che raccoglie sul territorio nazionale circa 900 enti prevalentemente non profit di ispirazione cristiana, lancia un allarme: la riforma del Terzo settore rischia di penalizzare chi riceve assistenza domiciliare.

            Il timore è un aumento dei costi per i cittadini, perché le nuove norme in materia di Iva penalizzano le ex Ipab (Istituti pubblici di assistenza e beneficenza, ndr) che svolgono questi servizi e che, oggi fondazioni o enti privati, con la riforma potranno diventare enti del Terzo settore o imprese sociali.

            “Guardiamo con favore a questa riforma e alla sua attuazione, che abbiamo seguito fin dai suoi primi passi – afferma il presidente di Uneba Franco Massi, in occasione della presentazione, oggi nella sede dell’Acri a Roma, di un Vademecum sulla riforma del Terzo settore realizzato dall’associazione -. Abbiamo rilevato nel tempo alcune criticità che abbiamo risolto attraverso l’interlocuzione con le forze politiche e con i governi, attuali e precedenti. Ad esempio un primo impegno è stato quello per la revisione dell’aumento dell’Ires, per il quale si è mobilitato un ampio fronte del Terzo settore e che è momentaneamente risolto, o per l’estensione alle ex Ipab privatizzate della possibilità di trasformarsi in impresa sociale”. “Chiediamo e chiederemo ancora al governo semplificazione, chiarezza e certezze delle norme”, conclude Massi esprimendo preoccupazione per la questione Ires, non ancora risolta in maniera definitiva, e annunciando due nodi ancora da sciogliere.

            Il primo, dice Marco Petrillo, vicepresidente Uneba Lombardia e curatore del vademecum, “è l’aumento dell’Iva al 22% per le fondazioni che svolgono attività come l’assistenza domiciliare, che penalizza le persone che beneficiano del servizio e gli enti rispetto alle cooperative. Di qui la richiesta di esenzione Iva per tutti gli enti che saranno iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore.

            Una fondazione ex onlus che svolge anche assistenza domiciliare o di trasporto di persone con disabilità, spiega il curatore del vademecum, oggi beneficia dell’esenzione Iva per queste attività. Con l’entrata in vigore della riforma dovrà trasformarsi in Ets e applicare a queste attività l’Iva del 22%, come prevede il Cts, ma questo aggravio di costi si tradurrà inevitabilmente in aumento di costi per gli utenti. E a subire lo stesso aumento Iva dallo 0% al 22% saranno, aggiunge, prestazioni sanitarie di ricovero e cura erogate da case di cura, ospedali, cliniche e società di muto soccorso; prestazioni educative e didattiche all’infanzia e ai giovani; attività di formazione, aggiornamento e riqualificazione professionale”, mentre le cooperative conservano “il regime Iva agevolato al 5% per le stesse attività”. Insomma, con l’Iva al 22% le fondazioni rischiano di finire fuori mercato.

            Il secondo nodo riguarda invece la richiesta alle Onlus di adeguare i propri statuti alla riforma entro il 3 agosto 2019, quando però non sarà ancora entrato in vigore il Registro unico nazionale. Da Massi e Petrillo la richiesta di ancorare l’obbligo di adeguamento degli statuti all’entrata in funzione del Registro unico.

            “Anche se deve essere completata mediante la pubblicazione dei decreti attuativi ancora mancanti, la riforma ha finalmente razionalizzato le diverse leggi che avevano normato il settore dagli anni ’90 sovrapponendosi in modo non efficace” e “aiuterà ad incamminarsi su un indispensabile percorso di trasparenza e auto rendicontazione”, osserva Giuseppe Guzzetti, presidente Acri, facendo gli onori di casa. La riforma, aggiunge, “è un riconoscimento del ruolo strategico che il Terzo settore svolge nel Paese.

            Siete voi – dice rivolgendosi ai rappresentanti delle realtà presenti in sala – che concretamente presidiate la situazione sociale dando risposte laddove lo Stato non arriva”.

            “La riforma ci mette in gioco rispetto alle grandi sfide sociali del Paese di fronte alle quali il Terzo settore ha sempre svolto ruoli di compensazione” ma “ci pone anche di fronte alla sfida di un welfare e di un modello di sviluppo economico e sociale differente” dandoci “strumenti definitori – chi sta dentro il Terzo settore e chi sta fuori – e strumenti di agevolazione fiscale e accesso alle risorse”, sostiene Claudia Fiaschi, portavoce Forum Terzo settore, che parteciperà per la prima volta alla cabina di regia istituita presso la Presidenza del Consiglio. Importante, chiosa, l’impegno per trasparenza a rendicontazione. In discussione domani a Palazzo Chigi, tra l’altro, “il decreto che disciplina le attività secondarie e le linee guida per il bilancio sociale”. Rimane la preoccupazione sulla questione Ires, “risolta solo temporaneamente”.

            Per Alessandro Lombardi, direttore generale dell’Ufficio Terzo settore del ministero del Lavoro e politiche social, la riforma riconosce il ruolo degli enti degli Ets “non più in posizione subordinata al pubblico, bensì paritetica”, si basa su “un approccio di tipo partecipativo, prevede una forte salvaguardia della libertà dei corpi intermedi e punta sulla responsabilizzazione degli enti. Stiamo creando relazioni di fiducia”.

            Le 130 pagine del vademecum spiegano agli enti – anzitutto a quelli che offrono servizi ad anziani, persone con disabilità, minori fragili – a quali condizioni e con quali modalità trasformarsi in Ets o impresa sociale come richiesto dalla riforma. Ulteriori approfondimenti riguardano enti religiosi, sistema di controlli, fiscalità, aspetti contabili e di bilancio, novità per il mondo del lavoro.

Giovanna Pasqualin Traversa                      AgenziaSir      6 marzo 2019

https://agensir.it/italia/2019/03/06/terzo-settore-uneba-lancia-lallarme-la-riforma-rischia-di-penalizzare-i-nostri-assistiti

 

                              Terzo settore, definiti i limiti per i ricavi da “attività diverse”

            Stabiliti con un decreto discusso nella Cabina di regia i criteri che ne regolano la natura “strumentale”: non si considera l’oggetto ma solo la funzione di sostegno alle finalità istituzionali. Precisate anche le percentuali dei ricavi per qualificarle. Tra i costi, anche quello figurativo dell’azione volontaria. Ecco come funziona.

Dopo mesi di attesa, è stato discusso nella Cabina di regia dello scorso 7 marzo 2019 uno dei decreti attuativi più delicati tra quelli che dovranno dare corpo alla riforma del terzo settore. Si tratta del decreto ministeriale che “individua i criteri e i limiti” che gli enti del terzo settore (Ets) devono seguire nell’esercizio delle “attività diverse da quelle di interesse generale”.

Le attività di interesse generale sono quelle definite dall’articolo 5 del Codice del terzo settore: un elenco (aggiornabile in futuro) di ben 26 tipologie che spaziano dalla sanità all’assistenza, dall’istruzione all’ambiente, dall’housing all’agricoltura sociale e al commercio equo; e che costituiscono una caratteristica essenziale dell’“essere” terzo settore.

Il decreto si riferisce invece alle attività “secondarie e strumentali” (articolo 6) rispetto a quelle di interesse generale ma che, “indipendentemente dal loro oggetto”, gli Ets possono esercitare “per la realizzazione, in via esclusiva, delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite”. Non è, quindi, il tipo di attività a fare la differenza ma solo la loro funzione, che mira a sostenere, supportare, promuovere e agevolare il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente di terzo settore.

Si tratta di un provvedimento importante anche in vista delle modifiche statutarie che molti Ets dovranno fare entro il prossimo 3 agosto 2019. È utile infatti ricordare che le attività secondarie e quelle di interesse generale devono essere definite nello statuto.

Da rilevare inoltre che la pubblicazione del decreto avviene dopo la firma del protocollo d’intesa tra il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e Infocamere, la società telematica delle Camere di commercio, per la gestione del Registro unico nazionale del terzo settore. L’accordo prevede un termine massimo di 18 mesi per rendere operativo il registro.

Ma torniamo ai contenuti del decreto: affinché queste attività diverse siano ritenute secondarie, devono ricorrere almeno una delle due condizioni, entrambe relative ai ricavi dell’attività determinati in ciascun esercizio:

  • non devono superare il 30% delle entrate complessive dell’Ets;
  • non devono superare il 66% dei costi complessivi dell’Ets.

È da sottolineare che per ricavi si intendono le entrate da corrispettivo per beni o servizi ceduti o scambiati dall’Ets. Si considerano entrate complessive, inoltre, quelle derivanti da quote e contributi associativi, da erogazioni liberali e gratuite, da lasciti testamentari, i contributi pubblici senza vincolo di corrispettivo, le attività di raccolta fondi e le somme ricevute tramite il 5‰.

Nel calcolo della percentuale, non devono essere considerati i proventi e gli oneri generati dal distacco del personale degli enti del terzo settore presso enti terzi.

Il criterio scelto – se a) o b) – deve essere definito dall’organo di amministrazione.

Cosa influisce nei costi complessivi di un Ets? Oltre ai ricavi propriamente detti, il decreto introduce un elemento importante e anche in questo caso particolarmente atteso, che determina i “costi complessivi” da scorporare dai ricavi: si tratta di quello figurativo dell’impiego dei volontari iscritti nel registro dedicato previsto dal codice del terzo settore. Il calcolo dipende dall’applicazione alle ore di attività effettivamente svolte della retribuzione oraria lorda prevista per la stessa qualifica dai contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali definiti all’art. 51 del decreto legislativo n. 81 del 15 giugno 2015.

Si considerano costi, inoltre:

  • le erogazioni gratuite di denaro e le cessioni o erogazioni gratuite di beni e servizi per il loro valore normale;
  • la differenza tra il valore normale dei beni o servizi acquistati per lo svolgimento dell’attività statutaria e il loro costo effettivo di acquisto.

Ma cosa succede se l’ente di terzo settore non riesce a rispettare il limite imposto dal decreto? In questo caso, ci sono 30 giorni di tempo dalla data di approvazione del bilancio per inviare un’apposita segnalazione all’ufficio del registro unico nazionale del terzo settore territorialmente competente. In alternativa, si può dare comunicazione alle reti associative di riferimento o ai centri di servizio per il volontariato, in linea con l’attività di auto-controllo a loro demandata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

Se la percentuale di riferimento per le attività secondarie non viene rispettata, l’Ets può “recuperare” nell’esercizio successivo: applicando il criterio massimo di calcolo, il rapporto deve essere inferiore alla soglia massima per una percentuale almeno pari alla misura del superamento dei limiti nell’esercizio precedente. Così come specificato nella relazione illustrativa al decreto, se si sceglie il criterio a) e la percentuale, ad esempio, invece di essere al 30% è del 40%, nell’esercizio successivo l’ente dovrà avere un rapporto non superiore del 20%, in modo da recuperare lo sforamento. Stesso discorso vale per chi definisce le attività secondarie in base al criterio b).

Il rischio per chi supera la percentuale o non segnala l’eventuale sforamento è alto: verrà cancellato dal registro unico nazionale del terzo settore.

Il caso delle organizzazioni di volontariato. Il decreto chiarisce anche che le organizzazioni di volontariato possono svolgere attività di interesse generale remunerate (e non con il solo rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate). Tuttavia, tali attività di interesse generale saranno computate ai fini del raggiungimento della percentuale delle attività secondarie e strumentali (pur essendo, di fatto, attività di interesse generale).

Lara Esposito                                                   CSVnet                   08 marzo 2019

https://www.csvnet.it/component/content/article/144-notizie/3248-terzo-settore-definiti-i-limiti-per-i-ricavi-da-attivita-diverse?Itemid=893

Tutti aggiornamenti sullo stato di avanzamento della riforma del terzo settore su Il cantiere della riforma.

www.csvnet.it/component/content/article/144-notizie/2842-il-cantiere-della-riforma-a-che-punto-sono-gli-atti-per-farla-funzionare?Itemid=893

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Reddito di cittadinanza, De Palo: “Così com’è non è una misura per famiglie”

“Dall’audizione ISTAT di oggi alla Camera arriva la conferma che il reddito di cittadinanza, così com’è strutturato, non può essere considerato una misura di sostegno alle famiglie, tanto meno a quelle con figli. Che anzi, da questa formulazione, vengono per l’ennesima volta discriminate e umiliate. Un figlio minorenne non può essere valutato meno di un terzo di un single che ne fa richiesta; né ci meraviglia che, secondo i calcoli, il 47,9% dei cittadini che potranno accedere a questo sussidio siano single.

Lo avevamo detto, lo ribadiamo ancora: non è in questo modo che s’inverte la pericolosa china dell’inverno demografico che sta portando il nostro Paese verso il rischio di Welfare-default”: così il presidente nazionale del Forum delle Associazioni Familiari, Gigi De Palo, commentando le dichiarazioni del direttore del Dipartimento per la produzione statistica dell’ISTAT, rilasciate oggi in audizione presso le commissioni riunite Lavoro e Affari sociali della Camera.

            Comunicato    5 marzo 2019

www.forumfamiglie.org/2019/03/05/reddito-di-cittadinanza-de-palo-cosi-come-non-e-una-misura-per-famiglie

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Sei anni con Papa Francesco nel contesto del Vaticano II

 

 

Oggi, 13 marzo 2019, Francesco è in preghiera. È noto che egli sta vivendo giorni di esercizi spirituali nella “Casa Divin Maestro” presso Ariccia, nel territorio della diocesi di Albano. Se in questo giorno il Papa prega, penso sia importante anche per noi unirci alla sua preghiera e avere per la sua persona e il suo ministero una intercessione tutta speciale, arricchita dalla gratitudine e dall’augurio.

Comincia, oggi, per Francesco il settimo anno di servizio sulla Cattedra di Pietro. Il numero sette nella tradizione biblica è numero di santità e di benedizione. Questa simbolica coincidenza diventa per noi, figli di Dio nella Chiesa cattolica, invito a lodare il Signore e a ringraziarLo per i sei anni vissuti sino ad oggi con la compagnia e la guida, autorevoli e paterne, di Francesco.

Uno degli aspetti del ministero petrino che si potrebbe sottolineare è quello tradizionalmente suggerito dalla versione latina di Lc 22, 32: conversus, confirma fratres tuos. È un nesso questo, tra ritorno a Dio-conversione e ministero petrino, che oggi emerge in modo tutto particolare. Lo ha sottolineato lo stesso Francesco nella meditazione rivolta al clero romano durante l’incontro del 7 marzo scorso. “Il Signore sta purificando la sua Sposa e ci sta convertendo tutti a sé”, ha detto, aggiungendo: “Ci farà bene prendere oggi il capitolo 16 di Ezechiele. Questa la storia della Chiesa. Questa è la mia storia, può dire ognuno di noi. E alla fine, ma attraverso la tua vergogna, tu continuerai a essere il pastore. Il nostro umile pentimento, che rimane silenzioso tra le lacrime di fronte alla mostruosità del peccato e all’insondabile grandezza del perdono di Dio, questo, questo umile pentimento è l’inizio della nostra santità”.

Se può essere utile ripercorrere, oggi, alcuni eventi che hanno segnato il trascorso sesto anno di episcopato romano di J. M. Bergoglio, non si può affatto trascurare l’Incontro su “la protezione di minori nella Chiesa”, svoltosi in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Un evento sinceramente voluto dal Papa e realizzato seguendo le sue direttive. Chi vi ha personalmente partecipato conserva nel cuore le impressioni, le emozioni e gli ammaestramenti di quell’incontro. Per tre giorni interi Francesco ha ascoltato, mostrando sempre nel volto e negli atteggiamenti quella serenità spirituale da cui indubbiamente derivano le sue scelte.

            Egli ha parlato nel discorso conclusivo, terminata la celebrazione Eucaristica. La rilettura di quel testo permette di intuire la passione apostolica del Papa, la sua parresia (come spesso egli la chiama, per indicare con un termine neotestamentario la franchezza degli apostoli nell’annunciare il Vangelo), l’ampiezza e la perspicacia del suo sguardo nel considerare un dramma che affligge la Chiesa e non soltanto essa giacché – come lo stesso Francesco ha ricordato all’inizio del suo intervento – si tratta di una piaga storicamente diffusa in tutte le culture e società e che oggi, grazie al cambiamento di sensibilità dell’opinione pubblica, è divenuto oggetto di studi sistematici e interventi adeguati. Anche in questo caso rimane vero che solo il contesto rende comprensibile un testo. Questo il Papa lo ha fatto. Egli, però, non è un sociologo, o altro. È una guida spirituale e, per questo, ha puntato il dito su quella che, nella prospettiva di un credente, è l’ultima spiegazione per situazioni umane talmente dolorose, da diventare umanamente incomprensibili: “Siamo davanti a una manifestazione del male, sfacciata, aggressiva distruttiva. Dietro e dentro questo c’è lo spirito del male il quale nel suo orgoglio e nella sua superbia si sente il padrone del mondo e pensa di aver vinto. E questo vorrei dirvelo con l’autorità di fratello e di padre, certo piccolo e peccatore, ma che è il pastore della Chiesa che presiede nella carità”. Riappare qui l’evangelico e petrino conversus, confirma fratres tuos.

Nell’anno trascorso, ovviamente, non c’è stato solo questo. Ci sono stati i viaggi ecumenici a Ginevra, lo scorso mese di giugno per il 70° di fondazione del Consiglio ecumenico delle Chiese, e a Bari, il luglio successivo, per l’incontro con i Capi delle Chiese e Comunità cristiane del Medio Oriente in favore della pace. Ci sono stati i viaggi a Dublino per l’Incontro mondiale delle famiglie, nell’agosto 2018 e poi, nel gennaio 2019, a Panama per la 34ª Gmg: un raduno mondiale compiuto sulla scia della XV Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. La presentazione dell’esortazione apostolica relativa a questo Sinodo è stata annunciata per i prossimi giorni: a Loreto il 25 marzo 2019, perché sia offerta alla Vergine Maria.

Pur con questi e altri eventi, quello che fra tutti emerge, insieme con l’incontro per “la protezione dei minori”, è il viaggio negli Emirati Arabi Uniti del 3-5 febbraio 2019, con la firma del documento sulla “Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” e la celebrazione della Santa Messa davanti a 180.000 persone: evento unico in assoluto nella penisola araba. Lo stesso Francesco, nell’udienza del 6 febbraio ne ha spiegato il significato: “In un’epoca come la nostra, in cui è forte la tentazione di vedere in atto uno scontro tra le civiltà cristiana e quella islamica, e anche di considerare le religioni come fonti di conflitto, abbiamo voluto dare un ulteriore segno, chiaro e deciso, che invece è possibile incontrarsi, è possibile rispettarsi e dialogare, e che, pur nella diversità delle culture e delle tradizioni, il mondo cristiano e quello islamico apprezzano e tutelano valori comuni: la vita, la famiglia, il senso religioso, l’onore per gli anziani, l’educazione dei giovani, e altri ancora”.

            Questo evento è un ulteriore segno di come il Papa voglia inserire il suo ministero del contesto del Vaticano II. Ecumenismo e Dialogo interreligioso sono, indubbiamente, punti fondamentali e cruciali di quel Concilio. Sono solo esempi, tuttavia. Suggerirei di rileggere alcuni passaggi – importanti proprio perché, per molti aspetti, confidenziali – della conversazione avuta da Francesco con i gesuiti del Cile e del Perù il 16 gennaio 2018, durante il viaggio apostolico in quelle Nazioni. In quella circostanza egli parlò del Concilio, della sua importanza anche nella sua storia personale e pure delle resistenze al riguardo esclamando con ottimismo cristiano: “Gli storici dicono che ci vuole un secolo prima che un Concilio metta radici. Siamo a metà strada”. In quell’incontro tornano altre tematiche a lui care, come il discernimento, e rilievi fortemente critici sulla mondanità spirituale e il clericalismo. Istanze del Vaticano II sono evidentemente pure le sottolineature del Popolo di Dio, che Francesco da buon discepolo di sant’Ignazio ama sempre indicare come santo e fedele, e le istanze collegate al tema della sinodalità, emerso nell’importante discorso del 17 ottobre 2015, dove indicò la sinodalità “come dimensione costitutiva della Chiesa [che] offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”.

            Oggi, 13 marzo 2019, Francesco è in preghiera. È noto che egli sta vivendo giorni di esercizi spirituali nella “Casa Divin Maestro” presso Ariccia, nel territorio della diocesi di Albano. Se in questo giorno il Papa prega, penso sia importante anche per noi unirci alla sua preghiera e avere per la sua persona e il suo ministero una intercessione tutta speciale, arricchita dalla gratitudine e dall’augurio.

Marcello Semeraro, vescovo di Albano – segretario del Consiglio dei cardinali

Agenzia SIR   13 marzo 2019

https://agensir.it/chiesa/2019/03/13/sei-anni-con-papa-francesco-nel-contesto-del-vaticano-ii

 

Il piccolo decalogo di papa Francesco

Mercoledì prossimo, 13 marzo 2019, saranno trascorsi sei anni dall’elezione di Bergoglio come successore del dimissionario Ratzinger. Mercoledì scorso, 6 marzo, la Chiesa cattolica è entrata nel periodo liturgico della Quaresima, caro al Pontefice-confessore. Abbiamo provato a ricostruire la predicazione dell’ex arcivescovo di Buenos Aires sui peccati. Perché una cosa è chiara: ha rottamato i manuali di morale (per esempio sul sesso). E un’altra anche: si comporta come un parroco. Le critiche vanno a Bergoglio come le mosche al miele e una delle più insistenti dice: questo Papa svaluta il peccato e offre una misericordia a costo zero. I sostenitori negano che faccia questo ma non possono negare che la predicazione di Francesco sul peccato sia nuova. Tre sono le novità più vistose.

  1. La prima novità riguarda il linguaggio: Francesco — che è stato eletto 266° Papa il 13 marzo di sei anni fa — ha rottamato quello dei manuali di morale. Non distingue i peccati in veniali, mortali, contro natura, che gridano vendetta. Parla come il parroco che dice a chi incontra per via: «Vieni a confessarti».
  2. La seconda novità è nel rovesciamento della classifica per gravità rispetto ai moralisti d’antan: quelli consideravano come primi tra i peccati quelli sessuali, che invece Francesco considera come i più lievi.
  3. La terza novità, la più interessante per chi osserva da fuori, è nella proposta di una fitta casistica di peccati quotidiani, cioè della vita d’ogni giorno, sui quali i confessori mai facevano domande. Qui a fianco ne proponiamo dieci, di questi peccati quotidiani, formulandoli con le parole con cui li indica il Papa: dal chiudere la porta ai bisognosi e fare i bulli con i deboli, a gettare il cibo avanzato e «venerare la dea lamentela». In mezzo ci sono molte fattispecie peccaminose: scartare l’anziano, litigare davanti ai figli, accettare bustarelle, spennare il prossimo (cioè sparlare di chi ci vive accanto), fare finta d’essere cristiani, andare dalla cartomante.

La chiave per interpretare la predicazione bergogliana sul peccato va cercata nella sua passione per la confessione. Confessa e si confessa in San Pietro nelle celebrazioni penitenziali della Quaresima, periodo liturgico nel quale la Chiesa cattolica è entrata mercoledì 6 (oggi, domenica 10 marzo, per il rito ambrosiano). Gli ultimi Papi confessavano, ma Francesco è l’unico che si confessa davanti al popolo. Si considera un peccatore e l’ha detto già quando dovette rispondere alla domanda se accettava l’elezione a Papa: «Sono peccatore, ma confidando nella misericordia e nell’infinita pazienza di Nostro Signore Gesù Cristo e in spirito di penitenza accetto». Francesco appare sincero quando nelle interviste — riconosce di avere «tanti difetti» e di «prendere cantonate». «Prego di non fare delle stupidaggini e ne faccio», ha detto una volta. A chi lo interroga sulle incomprensioni di cui è vittima risponde: «Penso che a causa dei miei peccati dovrei essere capito anche meno».

Non abbiamo dunque soltanto un Papa che predica sul «mistero del peccato», ma anche un confessore che prima di chiamarci a penitenza s’inginocchia lui e per primo confessa i suoi peccati. «Il miglior confessore è di solito quello che si confessa meglio», ha detto una volta ai preti di Roma. «Nelle cose dell’amore non si dà materia lieve», sentenziavano i moralisti: «In re venerea non datur parvitas materiæ». Ma Papa Bergoglio scombina la classifica e dice a Dominique Wolton (nel volume Dio è un poeta, Rizzoli, 20i8, a pagina 154) che «i peccati più lievi sono quelli della carne». Questa è la spiegazione che Francesco offre di quel suo rovesciamento: «I peccati della carne non sono necessariamente (sempre) i più gravi. Perché la carne è debole. I peccati più pericolosi sono quelli dello spirito: l’orgoglio, la vanità».

Nell’enciclica Laudato si’ così segnala le colpe capitali dell’umanità contemporanea: «Oggi il peccato si manifesta con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili, negli attacchi contro la natura». Il concetto M «peccato contro la creazione» Francesco lo prende dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo che da anni va conducendo una creativa predicazione biblica sulla «salvaguardia del Creato». Nell’enciclica «sulla cura della casa comune» Francesco fa molti riferimenti a Bartolomeo, il «caro Patriarca ecumenico con il quale condividiamo la speranza nella piena comunione ecclesiale». In particolare ne riporta, approvandola, quest’affermazione a modo di sommario: «Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati».

Francesco nell’enciclica fa sua anche quest’altra parola di Bartolomeo, che ha una più diretta valenza dottrinale: «Un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio». Quella di Papa Bergoglio non è una predicazione che tende a fare sistema e il suo — come dice egli stesso — è un «pensiero incompleto», cioè aperto, in ricerca. Succede così che egli sia vittima di ogni possibile conflitto interpretativo. Basta staccare un tema dal contesto e tralasciare il resto per farne un traditore — poniamo — della tradizione cattolica. I tradizionalisti infatti l’accusano di banalizzare il «delitto d’aborto» eppure ha affermazioni durissime sull’aborto. «E ho pensato all’abitudine di mandare via i bambini prima della nascita, questo crimine orrendo: li mandano via perché è meglio così, perché sei più comodo, è una responsabilità grande — è un peccato gravissimo, no? — è una responsabilità grande»: così ha parlato una volta in un’intervista a TV2000. Più recentemente ha parlato così alla folla di piazza San Pietro: «È giusto far fuori una vita umana per risolvere un problema? Non è giusto far fuori un essere umano, benché piccolo, per risolvere un problema. È come affittare un sicario». Tra queste due uscite ha evocato addirittura le pratiche eugenetiche del Terzo Reich: «Il secolo scorso tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi: è di moda, abituale, quando in gravidanza si vede che forse il bambino non sta bene: la prima offerta è “lo mandiamo via?”. L’omicidio dei bambini».

Lo stesso si può dire dell’eutanasia e di altri «principi non negoziabili» della tradizione cattolica: non usa mai questa espressione, che era cara al cardinale Ruini e che fu usata anche da Papa Ratzinger, ma il precetto della difesa della vita lo fa valere con forza. Solo che gli mette alla pari la difesa della vita in ogni altro momento dell’esistenza: vuole che il cristiano difenda il feto come l’immigrato, l’embrione come il condannato a morte.

Un peccato che aveva buona piazza nella morale tradizionale e che Bergoglio non riconosce, tanto da citarlo solo per confutarlo, è quello della trasgressione dei precetti ecclesiastici riguardanti i modi di assolvere al dovere della messa domenicale, o le regole del digiuno e simili. Per esempio: la messa del sabato vale per la domenica? In una delle omelie del mattino alla Casa Santa Marta che sono il momento in cui meglio parla da parroco — ne ha trattato ricordando quando, «tanti anni fa», gli si avvicinò una signora dicendogli: «Padre, devo fare una domanda perché non so se devo confessarmi o no. Sabato scorso siamo andati alle nozze di amici e c’era la messa lì e abbiamo detto, con mio marito: ma sta bene, questa messa, sabato sera? Sa, padre, che le letture non erano quelle della domenica, erano quelle delle nozze e io non so se questo era valido o io ho peccato mortalmente perché non sono andata domenica all’altra messa».

Nel porre quella questione, ha osservato Francesco, «quella donna soffriva». Allora — ha continuato — le ho detto: il Signore la ama tanto: lei è andata lì, ha ricevuto la comunione, è stata con Gesù: stia tranquilla, il Signore non è un commerciante».

Peccato dei peccati per Francesco, preso con tutta la sua Chiesa nello tsunami dello scandalo pedofilia, è l’abuso dei chierici sui minori. Una volta l’aveva paragonato alle «messe nere», cioè al sacrilegio delle cose sacre. Della più sacra: l’Eucarestia. Come non gli bastasse, a conclusione del summit episcopale di febbraio ha detto che dietro gli abusi c’è Satana e ha fatto quell’affermazione facendo appello alla sua autorità di Vescovo di Roma: «Fratelli e sorelle, oggi siamo davanti a una manifestazione del male, sfacciata, aggressiva e distruttiva. E questo vorrei dirvelo con l’autorità di fratello e di padre, certo piccolo e peccatore, ma che è il pastore della Chiesa che presiede nella carità: in questi casi dolorosi vedo la mano del male che non risparmia neanche l’innocenza dei piccoli. Dietro a questo c’è Satana».

Ma è destino che un Papa, qualsiasi Papa, quando evoca Satana sia comunque irriso dai media: succede regolarmente in quest’epoca smagata, da Paolo VI a oggi. Se fosse ancora qua Vittorio Gorresio potrebbe aggiornare il libello Il Papa e il diavolo (Rizzoli, 1973) con cui si prese gioco di Montini, il Papa riformatore, quando ritenne di dover confermare la fede cristiana nell’Avversario.

Il coro di critiche verso Francesco è stato largo, modulato sulla nota: «Non è Satana colui che violenta bambini, sono i preti». «Pedofilia: incriminando Satana, il Papa indebolisce il suo discorso», è stato un titolo del francese «Le Monde». Il britannico «The Guardian»: «Il Papa incolpa Satana per gli abusi del clero mentre gli attivisti liquidano il suo discorso come una trovata pubblicitaria».

L’incomprensione è stata totale. Francesco evocando Satana voleva dire che quella degli abusatori era la colpa più grave: un atto diabolico. I critici hanno inteso che volesse minimizzarla. Se parlare del peccato all’umanità postmoderna è un azzardo, mettere nella stessa frase Satana e il peccato è decisamente troppo.

Luigi Accattoli     “la Lettura”   supplemento del Corsera       10 marzo 2019          

www.luigiaccattoli.it/blog/articoli-del-corriere-della-sera/panoramica-della-predicazione-di-francesco-sul-peccato

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PARLAMENTO

Senato della Repubblica – Commissione Giustizia – Affido dei minori

7 marzo 2019. L’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, ha svolto alcune audizioni informali di Associazioni nell’ambito dell’esame dei Disegni di legge nn. 45, 118, 735, 768 e 837, in materia di affido di minori.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=18&id=1105819&part=doc_dc

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?          

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PROFESSIONI

Responsabilità dello psicologo

Sempre più persone ricorrono allo psicologo per curare alcune problematiche nei confronti delle quali la medicina tradizionale sembra non sortire effetti. Lo psicologo è un professionista che, durante il suo percorso universitario, ha approfondito lo studio delle patologie psicologiche, cioè di quei disturbi mentali che possono essere curati senza l’assunzione di famaci. In estrema sintesi, lo psicologo cura i disagi che, a lungo andare, possono causare problemi di salute anche molto seri. Al pari della professione medica, lo psicologo abilitato dallo Stato e iscritto all’Ordine esercita una professione con finalità sanitarie di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Per molti, la professione dello psicologo risulta “fumosa”, cioè incerta, non inquadrabile precisamente all’interno di un’attività ben precisa. Questo discorso emerge soprattutto in punto di responsabilità dello psicologo: cosa accade se il paziente non mostra alcun miglioramento o, addirittura, sembra peggiorare? Si può fare causa ad uno psicologo che non ha fatto bene il proprio lavoro? Lo psicologo può violare l’obbligo di riservatezza?

Psicologo: responsabilità civile. Parliamo della responsabilità dello psicologo cominciando dai profili civilistici. Si può chiedere il risarcimento allo psicologo che ha cagionato un danno al proprio assistito? Ebbene, quello dello psicologo è un lavoro come un altro e, pertanto, è sicuramente soggetto a responsabilità. Nello specifico, lo psicologo è un professionista sanitario e, in quanto tale, può sicuramente incorrere in responsabilità.

Innanzitutto, la responsabilità civile dello psicologo, così come quella di ogni altro, è subordinata alla prova del pregiudizio patito a seguito dell’attività del professionista: di conseguenza, dovrai dimostrare che dalla terapia te ne sia venuto un danno, oppure tu non abbia affatto tratto giovamento, pur pagando puntualmente la parcella.

Inoltre, profili di responsabilità dello psicologo sorgono anche quando egli viene meno ad alcuni doveri deontologici tipici della sua professione, quale quello di mantenere l’assoluto segreto circa le confidenze fattegli dal paziente durante la terapia. Inoltre, qualora lo psicologo cominciasse a prescrivere farmaci, l’assunzione di questi e le conseguenze negative che ne potrebbero derivare ben legittimerebbero il paziente a chiedere il risarcimento dei danni.

Psicologo: come provare la sua responsabilità. Affinché si integri la responsabilità dello psicologo è quindi necessario dimostrare il nesso causale tra l’attività del professionista e il danno lamentato. Ora, è chiaro che, in un settore particolare come quello di cui parliamo, dimostrare una cosa del genere non è facile: ed infatti, una cosa è provare che, dall’assunzione di un farmaco, sia derivata una conseguenza spiacevole, altra cosa è provare che tale conseguenza derivi da un metodo psicologico sbagliato.

Tuttavia, è sempre possibile dimostrare che lo psicologo abbia dato dei suggerimenti sbagliati: poiché l’attività di questo professionista consiste anche nel consigliare nuovi modi di approcciarsi alla vita e, quindi, di trascorrere le proprie giornate, è ben possibile che una di tali prescrizioni si sia dimostrata altamente deleteria per il paziente, facendogli patire un pregiudizio. Pensa, ad esempio, allo psicologo che persuada il cliente ad abbandonare gli studi, a tagliare i ponti con i genitori, ecc.

Psicologo: responsabilità penale. La responsabilità dello psicologo può essere anche di natura penale, e si integra ogni volta che, dalla propria condotta, può derivare un’ipotesi di reato. A parte l’esempio classico di esercizio abusivo della professione [Art. 348 cod. pen.] (Lo psicologo che si spaccia per tale pur non essendo laureato oppure iscritto all’albo), questo professionista può incorrere in delitto quando non sporga denuncia per i fatti criminosi che ha appreso nell’esercizio delle sue funzioni in qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Psicologo: obbligo di denuncia e di referto. Devi sapere che, in Italia, non esiste un obbligo di sporgere denuncia, se non in casi molto particolari; questo significa che, se assisti ad una rapina, ad un furto oppure ad una violenza fisica, non sei tenuto a recarti dai carabinieri per segnalare l’accaduto. Questa libertà viene meno per i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio: questi, se assistono oppure hanno notizia di un fatto criminoso in ragione del loro servizio, sono tenuti a sporgere denuncia nel minor tempo possibile, pena integrazione del reato di omessa denuncia, che diventa omesso referto nel caso in cui il responsabile sia un esercente una professione sanitaria, quando la propria assistenza è prestata in casi che presentano i connotati del delitto.

In pratica, in deroga alla norma deontologica in base alla quale è tenuto a mantenere il segreto professionale, sullo psicologo può incombere l’obbligo di denuncia ovvero quello di referto, a seconda che egli rivesta o meno la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. E così, avremo le seguenti ipotesi:

  1. Se lo psicologo esercita la propria professione quale dipendente di una struttura ospedaliera pubblica o, comunque, in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, egli acquisirà la veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e, pertanto, sarà obbligato a denunciare i fatti costituenti reato che avrà appreso o a cui avrà assistito nello svolgimento delle sue funzioni (sempreché il reato sia procedibile d’ufficio) [Artt. 361 e 362 cod. pen.]. Ad esempio, se lo psicologo apprende dal suo paziente che il vicino di casa spaccia droga, egli sarà tenuto a farne denuncia;
  2. Se lo psicologo esercita la propria professione nel suo studio privato, allora egli non potrà essere considerato un pubblico ufficiale, ma resterà pur sempre un professionista sanitario, con obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria ogni delitto procedibile d’ufficio che sia desumibile da un caso a cui ha prestato assistenza, a meno che la sua denuncia non esponga a procedimento penale il suo stesso assistito [Art. 365 cod. pen.]. Questo significa che, a differenza dell’ipotesi di cui sopra, lo psicologo dovrà denunciare solamente se il suo assistito è stato vittima di un reato procedibile d’ufficio, come ad esempio una grave violenza fisica oppure una violenza sessuale di gruppo.

Da questa distinzione deriva una conseguenza molto importante: lo psicologo/pubblico ufficiale a cui il proprio paziente dovesse confessare un reato procedibile d’ufficio, è tenuto a farne denuncia all’autorità giudiziaria, pena il rischio di incorrere a propria volta nel reato di omessa denuncia.

Ad ogni modo, il codice deontologico degli psicologi dice che, nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto; nelle altre circostanze, egli valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi [Art. 13 Cod. deontologico degli psicologi italiani].

Psicologo: altri casi di responsabilità penale. La responsabilità penale dello psicologo può estendersi ai casi in cui eserciti una violenza fisica o anche morale sul suo paziente, ad esempio tentando di plagiarlo in maniera del tutto evidente: fornire la prova di tale reato, però, non è facile, considerando anche che il codice penale non prevede un esplicito reato riguardante la manipolazione mentale.

Molto si è discusso della responsabilità dello psicologo nel caso di morte del paziente e, soprattutto, nel caso di suicidio. A mio avviso, se di responsabilità si dovesse trattare, si rientrerebbe più nella sfera civilistica (professionista che non fa bene il proprio lavoro) che in quella penale, a meno che non si ravvisino gli estremi del grave reato di istigazione o aiuto al suicidio, che ricorre quando si determini o si rafforzi in un’altra persona il proposito di togliersi la vita [Art. 580 cod. pen.].

Mariano Acquaviva                                                  La legge per tutti                          25 febbraio 2019

www.laleggepertutti.it/273537_responsabilita-dello-psicologo

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PROSTITUZIONE

La Consulta “salva” la legge Merlin

La Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha deciso le questioni sulla legge Merlin sollevate dalla Corte d’appello di Bari e discusse nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti dalla legge Merlin, sono state dichiarate non fondate. Le questioni erano state sollevate con specifico riferimento all’attività di prostituzione liberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort [accompagnatrice, prostituta di alto bordo che si mette in mostra].

I giudici baresi sostenevano, in particolare, che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarrebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico.

La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino. Inoltre, la Corte ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.

Ufficio Stampa della Corte costituzionale. Comunicato del 6 marzo2019

www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20190306144219.pdf

 

La legge Merlin tutela la dignità personale

La Corte Costituzionale salva la legge che nel 1958 abolì le case di tolleranza, ribadendo che la prostituzione, sempre più legata alla tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, continua a ridurre in schiavitù migliaia di donne.

Oggi è stata una giornata molto importante per quello che si continua a definire, in modo improprio, “il mestiere più antico del mondo”. La Corte costituzionale italiana, pochi giorni prima della “Giornata internazionale della donna”, si è pronunciata: la legge Merlin è conforme alla Costituzione italiana, dove dichiara illegale e punibile il reclutamento e il favoreggiamento anche della prostituzione esercitata volontariamente.

È stata la Corte d’appello di Bari a porne in dubbio la legittimità costituzionale nell’ambito della vicenda processuale che ha coinvolto Silvio Berlusconi per le sue “cene particolari”. Mentre la Corte costituzionale francese, il 1° febbraio 2019, ha riconfermato, in seguito a un analogo ricorso, la costituzionalità della legge del 2016, che vieta l’acquisto di atti sessuali e penalizza i clienti, ritenendo la prostituzione una forma di violenza e di sfruttamento, di sfregio alla dignità delle persone, fino ad oggi in Italia attorno a questa amara realtà continua a esistere un’indifferenza complice.

«Nessuno ha parlato dell’importanza del pronunciamento della Corte costituzionale italiana, mentre la prostituzione, sempre più legata alla tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale, continua a ridurre in schiavitù migliaia di donne. Nei luoghi in cui è esercitata le donne sono maggiormente esposte al sessismo, agli insulti, alle perversioni, agli stupri e anche alle morti», dice Andrea Lebra, fondatore a Novara dell’Associazione “Liberazione e speranza”, che in vent’anni è riuscita ad aiutare centinaia di prostitute a reinserirsi nella vita sociale.

Bisogna anche ricordare che già la risoluzione del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014 esorta ad adottare il “modello nordico” che vieta e criminalizza l’acquisto di servizi sessuali non solo per scoraggiare la domanda, ma per modificare radicalmente lo sguardo dell’intera società su quella che, in realtà, è “la più antica forma di sfruttamento della donna”.

Mariapia Bonanate                                           Famiglia cristiana on line                  6 marzo 2019

www.famigliacristiana.it/articolo/la-legge-merlin-tutela-la-dignita-personale-la-consulta-la-salva-conforme-alla-costituzione.aspx

 

Case chiuse? In Italia è impossibile riaprirle

Rimbombano i titoli sulla dichiarazione del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini “riapriamo le case chiuse”. Le motivazioni che si portano per rimettere l’argomento sul tavolo sono sempre le stesse, risultato di una visione superficiale delle cose: meno criminalità, controllo sanitario, possibilità di azzerare il tasso di sfruttamento, far passare la prostituzione come una scelta consapevole e volontaria da parte di chi decide di vendere il proprio corpo.

Diciamolo: in Italia, in virtù di una convenzione Onu che risale al 1949 è impossibile riaprire le case chiuse. E questa cosa non potrebbe cambiare neanche se si decidesse di abrogare la legge Merlin, quella che nel 1958 abolì la regolamentazione della prostituzione, chiudendo le case di tolleranza e introducendo i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione.

Abbiamo chiesto a Marzia Gotti, responsabile della prossimità territoriale di Lule, l’associazione che, con più di vent’anni di lavoro alle spalle, rappresenta una dei principali soggetti in nord Italia ad occuparsi di lotta al traffico di esseri umani e assistenza alle vittime di tratta, di spiegarci tecnicamente perché la riapertura delle case chiuse in Italia non è possibile, da un punto di vista politico, e soprattutto perché è inutile e priva di significato da un punto di vista umano ed educativo.

È inutile parlare a vuoto, in Italia le case chiuse non possono essere riaperte.

Allo stato dei fatti è impossibile. L’Italia nel 1949 ha firmato una convenzione con le Nazioni Unite a cui aderisce in maniera piena e attiva. Stando alla convenzione deve essere punito qualsiasi soggetto che rapisce, adesca, sfrutta un’altra persona anche se consenziente. L’articolo 2 di questa convenzione, inoltre, sostiene che non si possono gestire case chiuse o bordelli.

Perché non è utile riaprire le case chiuse?

Quello che vediamo dalla nostra esperienza è che il grosso della prostituzione ormai non è più sulla strada. C’è già una parte di prostituzione che si svolge all’interno di strutture chiuse. Il primo esempio sono i centri di massaggi cinese, dove le persone si prostituiscono ma sono assunte con contratto di lavoro di altra natura, come massaggiatrici o operatrici di benessere.

Ma c’è una differenza tra la prostituzione in strada e quella indoor?

La fragilità e la vulnerabilità di queste persone è la stessa. Ed è quella stessa condizione di fragilità che poi le porta a prostituirsi attraverso lo sfruttamento. Io credo che in nessuno dei due casi si possa parlare di una scelta senza condizionamento. Lo stesso vale per quei Paesi dove la prostituzione è legale.

Le organizzazioni

Oggi tutte quelle che gestiscono il giro di prostituzione sono molto grandi e sono legate anche ad altri traffici: come quello di droga o di armi. Quale persona come noi si metterebbe a gestire una casa chiusa? Immagino che a prendere le redini di queste strutture sarebbe comunque un’organizzazione criminale. Non a caso le ragazze che troviamo sulle strade sono le stesse che in altri mesi dell’anno si trovano a prostituirsi nei Paesi dove le case chiuse sono legali. Chi oggi si occupa di sfruttamento è perseguibile penalmente. Avete idea di quello che potrebbe succedere se facessimo cadere il velo legale?

E sulla questione sanitaria?

Un’altra bugia. Se nell’immaginario comune la prostituta che lavora in strada è più soggetta a malattie e quella che lavora “al chiuso” no, e comunque i clienti chiedono di avere rapporti non protetti, non credo le case chiuse possano essere una discriminante per tutelare la salute delle persone.

Anna Spena  Vita.it                                    01 marzo 2019

www.vita.it/it/article/2019/03/01/case-chiuse-in-italia-e-impossibile-riaprirle/150834

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SALUTE

Presentato dal Ministero della Salute lo Studio Nazionale sulla fertilità

È veramente interessante l’indagine “Studio Nazionale Fertilità”, svolta dal ministero della Salute, con decine di migliaia di interviste a ragazzi (15-17 anni), studenti universitari, popolazione adulta e ad un campione di medici (pediatri e medici di famiglia). Viene affrontato un argomento molto sensibile (idee e stili di vita rispetto alla sessualità, atteggiamento verso i figli, progetti di fertilità) sulla base di dati seri ed affidabili.

Sul sito del Ministero della salute è possibile trovare la sintesi della presentazione dello Studio Nazione sulla Fertilità, con tutti gli interventi dei relatori, nonché il rapporto finale del Convegno di presentazione dei risultati dello Studio Nazionale Fertilità tenutosi il 19 febbraio 2019 scorso.

www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=3649

In sintesi sono almeno quattro elementi specifici che emergono dalle risposte.

  1. Chi informa ed educa alla sessualità? “Il dato forse più impressionante (anche se non sorprende gli addetti ai lavori) è – spiega Francesco Belletti, direttore del Cisf di Milano – che oltre l’80% degli intervistati adolescenti trova/ha trovato su Internet informazioni “sulla sessualità e sulla riproduzione”; seguono gli amici, al 40/45%, la famiglia al 25%, la scuola al 20%”. Poi, ancora più in basso, riviste, medici, ecc.
  2. L’esercizio precoce della sessualità. C’è la conferma della elevata percentuale di adolescenti che hanno rapporti sessuali completi; un adolescente su tre dichiara di aver avuto rapporti completi prima dei 17 anni (i maschi nel 35% dei casi, le femmine nel 28%), mentre tra gli universitari l’85% degli intervistati dichiara di aver avuto il primo rapporto completo entro i 19 anni (il 75% entro i 18 anni). Sembra affermarsi una sorta di “rovesciamento”, per cui il rapporto completo è spesso molto precoce, prima ancora che la relazione affettiva si sia chiarita. In tal modo, però, la sessualità diventa come “esterna” al cuore delle persone.
  3. Chi vuole avere figli? Stupiscono poi le risposte rispetto ai progetti di genitorialità: il 78% dei ragazzi (fino a 17 anni) vuole avere figli, nel proprio futuro, e solo il 7% dichiara di non volerli affatto; ma da adulti la percentuale di chi non li vuole avere supera il 40% (anche tra chi non ha ancora figli).
  4. Educare la persona. Il nodo dell’educazione sessuale emerge con forza e ritrova impreviste consonanze anche con i recenti richiami di Papa Francesco.

Sul tema dell’educazione concorda la Ministra della Salute Giulia Grillo. Per lei è tempo di promuovere nelle scuole una corretta educazione ai temi della salute facendo si` che “la salute diventi materia di insegnamento trasversale, in linea con gli insegnamenti dell’Oms e attraverso un’alleanza tra scuola e SSN”. “Ritengo che sia necessaria una fattiva collaborazione tra i diversi livelli politici ed istituzionali – prosegue Grillo – per promuovere una consapevolezza nelle persone e un cambiamento culturale”. “Mi auguro che si possa realizzare appieno la stretta collaborazione con il Miur da poco sancita – sottolinea la ministra – e sono fiduciosa che la collaborazione attiva con i medici di medicina generale, con i pediatri di libera scelta e con gli operatori territoriali dei Consultori familiari possa portare ad una capillare intervento anche in fasce della popolazione più marginali. Le istituzioni deputate alla formazione continua dei professionisti sanitari – ha concluso – dovranno a tal proposito fornire loro gli strumenti più adeguati per lavorare con coscienza e responsabilità”.

Giacinto Bosoni   CFC    5 marzo 2019

www.cfc-italia.it/cfc/index.php/2-non-categorizzato/441-presentato-dal-ministero-della-salute-lo-studio-nazionale-sulla-fertilita

 

Videomessaggi da EpiCentro, sito dell’Istituto Superiore di Sanità

L’8 marzo,Giornata Internazionale della Donna, è un’occasione per ricordare alcuni aspetti di salute che riguardano le donne. Tra questi, i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), hanno identificato tre aspetti su cui porre l’attenzione.

  1. Il ruolo dei consultori familiari per la salute femminile, sia in termini di prevenzione che di cura,

videomessaggio di Laura Lauria (ISS)

  1. Rapporto delle donne con l’allattamento,

videomessaggio di Angela Giusti (ISS)

  1. La salute durante la menopausa.

videomessaggio di Serena Donati (ISS)

www.epicentro.iss.it/politiche_sanitarie/8-marzo-2019

 

Ricerca: 2 geni e una capanna, nel Dna il segreto del matrimonio felice

Le scintille che accendono l’amore fra due persone sono le più varie – stessi interessi, attrazione fisica, valori condivisi – ma il segreto di un matrimonio lungo e felice può semplicemente nascondersi nei loro geni.

            Con buona pace dei terapisti di coppia, è la scienza a suggerire che dove non arrivano le affinità elettive può il codice della vita.

            Per la precisione la doppia elica viene chiamata in causa come ingrediente principale dell”elisir di lungo amore’ da un nuovo studio condotto da ricercatori della Yale School of Public Health americana, pubblicato su ‘Plos One’. Gli scienziati hanno esaminato il ruolo di una variante genetica che interessa quello che è noto al grande pubblico come l”ormone delle coccole’: l’ossitocina, che è stato dimostrato svolgere un ruolo nel legame sociale.

Protagoniste dello studio 178 coppie sposate di età compresa tra i 37 ai 90 anni. Quindi da coniugi freschi di nozze a partner benedetti da un’unione inossidabile durata decenni.

Joan Monin, professore associato e autrice principale del lavoro, con il suo team ha sottoposto ciascun partecipante a un sondaggio sui propri sentimenti, oltre a prelevare un campione di saliva per la genotipizzazione. Il gruppo di ricerca ha così rilevato che, quando almeno un partner aveva una variante genetica nota come ‘genotipo GG’ all’interno del gene per il recettore dell’ossitocina, la coppia riferiva una soddisfazione coniugale significativamente maggiore rispetto ad altre che avevano diversi genotipi.

            E lo stesso discorso si è verificato per il sentimento di sicurezza all’interno del matrimonio.

Geneticamente programmati per la felicità a lungo termine. Il nuovo studio, segnalano gli autori, è ritenuto il primo a esaminare il ruolo giocato nella soddisfazione coniugale dalla variante del recettore dell’ossitocina Oxtr Rs53576, precedentemente studiata e collegata a tratti di personalità come la stabilità emotiva, l’empatia e la socievolezza.

            “Questa ricerca – tira le somme Monin – dimostra che il modo in cui ci sentiamo nelle nostre relazioni più strette è influenzato da qualcosa di più della semplice condivisione di esperienze con i nostri partner nel tempo.

            Nel matrimonio, gli innamorati sono influenzati anche dalle loro predisposizioni genetiche”. I ricercatori hanno anche scoperto che i portatori del genotipo GG mostrano un attaccamento meno ansioso alla propria dolce metà, variabile che favorisce ulteriormente il lieto fine nella favola coniugale. Gli esperti hanno calcolato che la presenza di questo genotipo in una persona e nel proprio partner pesa complessivamente per il 4% della varianza della soddisfazione coniugale.

            Sebbene questa percentuale sia piccola, è un’influenza significativa – puntualizzano gli autori – se si considerano gli altri fattori genetici e ambientali a cui le coppie sono esposte. I risultati dello studio tracciano la strada a ulteriori ricerche future per esaminare come i genotipi delle coppie interagiscano influenzando i risultati di una liaison nel tempo.

            Un altro filone da esplorare, conclude Monin, potrebbe essere quello di esaminare come la variante Oxtr Rs53576 interagisce con specifiche esperienze di relazioni negative e positive e come questo può influenzare la qualità del rapporto nel tempo in un ampio campione rappresentativo di coppie sposate.

            Intanto questa prima scoperta può essere una piccola consolazione per i cuori spezzati: inutile rinfacciarsi colpe e responsabilità per la fine di un amore, se il Dna ci mette lo zampino

News La Salute in pillole       (AdnKronos Salute)   4 marzo 2019

https://www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=50966

 

Salute mentale. Lo psichiatra Alberto Siracusano: “Si costruisce dal concepimento”.

“La salute mentale riguarda il benessere dell’individuo, dal punto di vista psicologico, emotivo, interpersonale. Inizia con il concepimento e dura per tutta la vita. Va promossa e tutelata intervenendo sui fattori di rischio”, avverte Alberto Siracusano, direttore della Cattedra di psichiatria e della Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata e componente del Tavolo sulla salute mentale della Cei. E occorre fare attenzione, aggiunge, alla “povertà vitale

            La psicopatologia moderna ha spostato il suo campo di studio dalla malattia mentale alla salute mentale. Pertanto, una psichiatria al passo con i tempi non può limitarsi a curare la follia, ma deve curare la mente nel suo insieme. E la salute mentale è un concetto complesso, un armonioso equilibrio dell’individuo con se stesso e con la società.

Nei giorni scorsi si è riunito a Roma il Tavolo nazionale sulla salute mentale, istituito dall’ Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei e attivo presso lo stesso Ufficio come gruppo di lavoro in grado di fornire un contributo di alto livello scientifico a sostegno della prassi pastorale, ma anche con funzione di stimolo alla Chiesa stessa. Ne fanno parte alcuni tra i più autorevoli psichiatri italiani. Alberto Siracusano, direttore della Cattedra di psichiatria e della Scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata, è uno di loro.

Professore, che cosa è emerso dal confronto?

La salute mentale costituisce la più importante sfida dal punto di vista medico – sanitario dei prossimi anni. La depressione, la più comune forma di disagio psichico, riguarda circa 4 milioni di persone in Italia, sebbene i numeri siano in continuo aumento.

Nel 2030 la depressione sarà la prima causa di disabilità al mondo. Il Tavolo nazionale sulla salute mentale vede la partecipazione di una componente tecnico – psichiatrica altamente qualificata e di esponenti dell’area cattolica impegnati nel campo della salute mentale. Il loro compito è quello di discutere i dati più aggiornati sulla salute mentale e le diverse richieste della società per promuovere il benessere della mente.

Quali le priorità e le piste di lavoro?

Le priorità sono tante e riguardano in primis la prevenzione. Ad oggi sappiamo con molta chiarezza che il disagio mentale non nasce all’improvviso ma è preceduto da una notevole quantità di segni premonitori, indici di un certo tipo di “funzionamento” emotivo e sociale della persona. La vera sfida non è solo trattare il disagio quando è conclamato, ma rintracciarlo già nelle sue forme più precoci.

            Il prossimo convegno del Tavolo si occuperà di come costruire la salute mentale nell’arco della vita, salute mentale che secondo l’Oms sarà la vera emergenza del futuro. Che cosa si intende per salute mentale, ora che la psichiatria moderna ha spostato il suo campo di azione dalla malattia alla salute mentale includendo anche gli aspetti del benessere e della felicità, tema del precedente convegno?

La salute mentale riguarda il benessere dell’individuo, dal punto di vista psicologico, emotivo, interpersonale, in relazione al contesto di appartenenza. È un ambito complesso, perché non si limita alla mera individuazione della “malattia” o della “disabilità”, ma riguarda l’intero modo di una persona di vivere nel mondo. Il prossimo convegno nazionale del Tavolo si terrà a dicembre 2019 e riguarderà proprio il modo in cui promuovere e tutelare la salute mentale, nell’intero arco della vita, dal concepimento alla morte.

            E’ dunque possibile costruirla. Come?

Attraverso la promozione di una cultura del benessere mentale. In concreto si tratta non solo di curare in modo adeguato la “patologia vera e propria”, ma soprattutto di intervenire sui cosiddetti fattori di rischio, i determinanti psicosociali in grado in incidere sul benessere delle persone: famiglia, status socio-economico, scuola, stile di vita, educazione.

Salute mentale lungo tutto l’arco della vita: dunque dalla gravidanza all’età anziana?

Assolutamente sì.

La salute mentale inizia con il concepimento e dura per tutta la vita. Dati di ricerca clinica e neurobiologica convergono sempre più sul fatto che la gravidanza rappresenti un momento delicatissimo per la futura crescita neuro-evolutiva, e quindi psicologica, del nascituro. In questo senso, il Tavolo presterà particolare attenzione al periodo della gravidanza e alla salute delle donne in età perinatale.

Si tende a ritenere che i bambini non soffrano di patologie mentali, ma che queste esordiscano dall’adolescenza in poi. Vengono forse sottovalutate o non riconosciute?

Molti dei disturbi psichici che si manifestano in età adulta hanno dei segni precursori, magari sfumati, in età evolutiva. A volte capita invece che disturbi conclamati si manifestino già in una fase precocissima della vita. Basti pensare che il suicido rappresenta la seconda causa di morte in adolescenza e che ormai le pratiche di autolesionismo sono estremamente diffuse tra i nostri ragazzi.

Si sta registrando un aumento delle malattie psichiatriche. Tra i fattori, quanto pesa la pressione di una società che chiede a tutti di essere performanti, efficienti, veloci, ad alto rendimento?

La nostra società è diventata sempre più competitiva e soprattutto non tutela abbastanza le fasce più deboli della popolazione. Ci sono dati sempre più robusti sul collegamento tra povertà, disuguaglianza sociale e salute mentale. I tassi di suicidio sono nettamente maggiori tra le fasce più svantaggiate della società.

            E quanto contano la “povertà vitale”, l’impoverimento sociale e la perdita delle relazioni?

La povertà vitale rappresenta un concetto nuovo, che va al di là della mera ristrettezza economica e sociale. Si tratta di un impoverimento più globale, culturale, relazionale, affettivo, valoriale, sempre più diffuso nella nostra società e che rappresenta un substrato favorevole all’interno del quale si sviluppa disagio, senso di smarrimento, difficoltà ad investire nel futuro e a fare progetti.

Secondo lei, il modello aziendale in ambito sanitario che conseguenze può avere su questi pazienti che sono tra i più fragili e a rischio “scarto”? Come garantirne la presa in carico globale?

L’aziendalizzazione sanitaria, se da un lato è necessaria per migliorare l’efficienza del sistema, rischia di perdere di vista il valore della vita e dell’uomo. Non è possibile curare un sintomo, una patologia, senza considerare i risvolti psicologici o familiari che vengono innescati. In questo senso, la collaborazione tra la Cei e il Tavolo è indispensabile per individuare percorsi comuni che tengano conto delle esigenze globali di ogni paziente.

Giovanna Pasqualin Traversa          Agenzia SIR               13 marzo 2019

www.agensir.it/chiesa/2019/03/13/salute-mentale-lo-psichiatra-alberto-siracusano-si-costruisce-dal-concepimento-e-attenzione-alla-poverta-vitale/

 

Via libera al «farmaco gender»

In Gazzetta ufficiale la decisione dell’Aifa: la triptorelina sarà a «totale carico» del Servizio sanitario. La decisione non tiene conto degli allarmi lanciati dagli esperti Nessuno conosce in realtà i rischi derivanti da questa scelta farmacologica che incide a livello ormonale ma anche sul piano cognitivo

            La decisione non tiene conto degli allarmi lanciati dagli esperti Nessuno conosce in realtà i rischi derivanti da questa scelta farmacologica che incide a livello ormonale ma anche sul piano cognitivo

            Tutto inutile. La triptorelina, il potente farmaco antitumorale che ha tra i suoi effetti collaterali quello di sospendere la pubertà, potrà essere prescritto «a totale carico del Servizio sanitario nazionale». La decisione dell’Agenzia italiana del farmaco è stata inserita nella Gazzetta ufficiale del 25 febbraio 2019 scorso. Inutili gli appelli degli esperti a proposito dei rischi sconosciuti. Inutili gli inviti alla cautela arrivati dagli stessi medici che si occupando di un disturbo dalle mille ombre che si chiama disforia di genere. L’Agenzia del farmaco si dice convinta che l’antitumorale si possa utilizzare senza problemi «considerati l’efficacia di triptorelina nel sospendere la pubertà e il profilo di sicurezza del trattamento, il beneficio evidenziato nei diversi aspetti della condizione clinica, e l’assenza di alternative terapeutiche più efficaci e/o sicure».

            Naturalmente non è così. Sull’uso della triptorelina i dubbi esistono eccome. A cominciare dai motivi che consiglierebbero di sospendere lo sviluppo della pubertà a un adolescente in presenza di diagnosi di disforia di genere. Opportuno ricordare che il blocco dello sviluppo puberale si renderebbe necessario in attesa della cosiddetta ‘riassegnazione sessuale’, cioè dell’intervento chirurgico utile a ‘cambiare’ il sesso biologico in presenza di gravi sintomi psicologici altrimenti non trattabili. Succede in un caso ogni novemila persone.

            Ma nessuno può dire, neppure in quel rarissimo caso, che per curare la disforia sia necessario inibire l’ormone dello sviluppo testicolare e ovarico. Anche perché le statistiche riferiscono che la persistenza della disforia di genere è compresa dal 12 al 27% dei casi. Vuol dire che su dieci preadolescenti che manifestano disturbi riferibili alla disforia, almeno 7-8 risolveranno il loro problema al termine dell’età dello sviluppo.

            I falsi allarmi insomma, determinati da cause psico-sociali e dalle influenze negative della cultura della fluidità di genere, sarebbero ben più numerosi dei casi reali. Il decreto dell’Agenzia italiana del farmaco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale prescrive che la diagnosi di disforia venga stilata da un’equipe multidisciplinare «composta da specialista in neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, endocrinologia pediatrica, psicologia dell’età evolutiva e bioetica». Peccato che neppure l’equipe più attrezzata sia in grado di dare risposte alle domande più angoscianti che accompagnano l’uso della triptorelina

È vero che questo farmaco potentissimo, bloccando la pubertà e quindi non consentendo la strutturazione dell’identità sessuale secondo il sesso biologico del soggetto, finisce per compromettere anche la definizione morfologica e funzionale del cervello? Gli esperti che hanno studiato il problema hanno visto che, bloccando lo sviluppo puberale dai 12 ai 18 anni – limite previsto dalla legge per l’intervento chirurgico – si potrebbe determinare farmacologicamente un disallineamento tra sviluppo fisico e sviluppo cognitivo.

            Sarà possibile recuperarlo? Che effetti avrà questo blocco ormonale sull’equilibrio del ragazzo coinvolto? E sarà possibile preservare la sua fertilità? Questioni che, secondo il dossier diffuso nei mesi scorsi da Scienza & vita e dal Centro Studi Rosario Livatino, non verrebbero chiarite neppure dall’unico studio disponibile in letteratura, un dossier olandese su 55 giovani transgender. Gli stessi autori, valutando «molto positivamente» i risultati ottenuti, ammettono però che si tratta di «dati preliminari». Un quadro quindi che impedisce a chiunque parlare di evidenze scientifiche e che rende ancora più incomprensibile la fretta di inserire la triptorelina tra i farmaci ammessi dal Servizio sanitario nazionale.

Luciano Moia Avvenire 6 marzo 2019

www.avvenire.it/attualita/pagine/via-libera-al-farmaco-gender

 

L’identità sessuale degli adolescenti nelle mani dell’Agenzia del farmaco

            Può il dirigente di un’autorità amministrativa con un proprio atto affrontare delicatissime questioni che coinvolgono beni di rilievo costituzionale, fondati su Convenzioni internazionali ed europee, che interessano diritti personali e familiari e la protezione dei minori, saltando a piè pari Parlamento e Governo?

Pare una domanda retorica; ma quanto accaduto da parte dell’AIFA-l’Agenzia del farmaco, con la copertura di un parere positivo del CNB-Comitato nazionale di Bioetica, mostra il contrario. La vicenda è nota: con Determina del 25 febbraio 2019 il dirigente dell’area pre-autorizzazioni dell’AIFA ha inserito la molecola TRP-triptorelina fra i medicinali erogabili a carico del Servizio sanitario nazionale. La TRP potrà essere somministrata, sotto stretto controllo medico, ad adolescenti ritenuti affetti da DG-disforia di genere, al fine di procurare loro un blocco temporaneo, fino a un massimo di qualche anno, dello sviluppo puberale, con l’ipotesi che ciò “alleggerisca” in qualche modo il “percorso di definizione della loro identità di genere”.

Nel novembre 2018 Scienza & Vita e il Centro studi Rosario Livatino, dopo aver svolto un workshop a più voci sul tema, avevano inviato una lettera contenente una serie di riserve ad AIFA, rimasta tuttavia senza risposta.

            Importa ancora di più che siano rimaste inevase le questioni sollevate con quel documento:

a)      Il c.d. farmaco viene immesso nell’elenco del SSN in carenza di studi clinici e di follow-up a lungo termine;

b)      La motivazione principale che ha spinto il CNB a dare parere favorevole è la sofferenza del minore con DG, per il timore di intenzioni suicidarie. Peccato che manchi qualsiasi evidenza scientifica che il TRP sia il trattamento elettivo per queste situazioni: il punto non risolto è se la somministrazione di TPR cristallizzi o meno il quadro clinico, stabilizzando l’identificazione del/della ragazzo/a nell’altro sesso e non consentendo la strutturazione di un’identità sessuale secondo il proprio sesso di appartenenza. E con esso la mancata considerazione del ruolo che gli ormoni sessuali hanno nello sviluppo cerebrale durante la pubertà: il blocco della pubertà, e quindi anche degli ormoni sessuali, potrebbe compromettere la definizione morfologica e funzionale di quelle parti del cervello che contribuiscono alla strutturazione dell’identità sessuale insieme con i fattori ambientali ed educativi;

c)      È perciò alto il rischio, adoperando la TRP per bloccare la pubertà fino a 4 anni circa – dai 12 ai 16 anni d’età –, di indurre farmacologicamente un disallineamento fra lo sviluppo fisico e quello cognitivo del minore;

d)      Non esistono evidenze sull’effettivo pieno ripristino della fertilità nel caso di desistenza dal trattamento e di permanenza nel sesso di appartenenza.

Resta poi irrisolta la questione del consenso all’uso del c.d. farmaco, vista la scarsa consapevolezza di adolescenti e preadolescenti circa le proprie potenzialità procreative: una questione che il CNB ha definito “punto critico”, sottolineando che va salvaguardata la libertà del minore. Qui la mancanza di risposte è radicale: poiché la capacità di agire resta sempre al compimento della maggiore età, come faranno i medici a garantire che il consenso di un pre-adolescente cui si intenda somministrare la TRP sia “libero e volontario”? che cosa accadrà se i genitori vorranno procedere con la “cura” e il minore no, o il contrario, o in caso di conflitto fra genitori? potrà il genitore esprimere l’assenso a un atto di disposizione del corpo altrui, in evidente contrasto con l’ordinamento vigente?

            Torno al quesito di partenza: tutto questo può essere lasciato a una “determina” di un pur rispettabile dirigente amministrativo? Al di là della soluzione da adottare, Governo e Parlamento – nel primo in special modo coloro che hanno le deleghe alla salute e alla famiglia e nel secondo le varie commissioni infanzia e minori – condividono che decisioni così delicate non siano precedute da una “trasparente” e ragionata ponderazione dei diritti e dei beni coinvolti?

magistrato Alfredo Mantovano, Il Foglio, 8 marzo 2019.

www.ilfoglio.it/bioetica-e-diritti/2019/03/08/news/lidentita-sessuale-degli-adolescenti-nelle-mani-dellagenzia-del-farmaco-242041

www.centrostudilivatino.it/lidentita-sessuale-degli-adolescenti-nelle-mani-dellagenzia-del-farmaco

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VOLONTARIATO

L’Agenzia delle entrate regala computer

Più di 10mila pc gratis per scuole, le pubbliche amministrazioni e gli enti no profit. Le domande vanno inviate entro il 12 aprile. A fornirli sarà l’Agenzia delle entrate che, come accade da anni, decide di donare apparecchiature informatiche non più in uso ma perfettamente funzionanti.

L’Agenzia delle entrate regala computer, il bando. Impegno per l’ambiente e riutilizzo dei beni sono gli obiettivi di questa operazione. Il nuovo bando, è stato pubblicato l’8 marzo 2019 sul sito internet delle Entrate.

Per partecipare alla gara le domande vanno inviate via PEC all’indirizzo cessionigratuite@pec.agenziaentrate.it entro il 12 aprile 2019

Privilegiati nell’assegnazione dei computer da parte del Fisco saranno gli istituti scolastici, sia statali che paritari degli enti locali. Nell’ordine di preferenza illustrato nel bando seguono le amministrazioni pubbliche e gli altri enti pubblici e privati appartenenti alle categorie degli organismi di volontariato di protezione civile che operano in Italia e all’estero a fini umanitari, degli enti non-profit, degli istituti scolastici paritari privati e degli altri enti e organismi che svolgono attività di pubblica utilità. La gara è aperta a tutti gli istituti scolastici statali e paritari, le pubbliche amministrazioni, gli enti e gli organismi non-profit (anche privati). La domanda per aggiudicarsi i computer dovrà essere inviata tramite posta elettronica certificata (PEC) alla casella cessionigratuite@pec.agenziaentrate.it entro mezzogiorno del 12 aprile 2019.

Per la richiesta basta utilizzare l’applicazione “Phoenice”, accessibile al link https://www.fiscooggi.it/phoenice.

La mail certificata di richiesta dovrà avere come oggetto il codice della gara AE2019 e contenere in allegato il file dal nome phoenice.xml scaricato dall’applicazione. Infine, a chi si aggiudicherà i pc arriveranno per posta elettronica certificata tutte le informazioni su dove e quando ritirare i computer.

Come di consueto, inoltre, i Pc da dismettere verranno distribuiti in lotti di 5. Appena in uno degli uffici delle Entrate saranno pronti 5 computer da regalare, l’Agenzia contatterà il primo ente in graduatoria che abbia espresso preferenza per la provincia dove si trovano i Pc, purché non abbia già ricevuto altre apparecchiature in dono con questo bando. Una volta approvata, la nuova graduatoria sostituirà la precedente (quella del bando AE2016) e sarà valida fino alla prossima procedura di cessione.

Gabriella Lax Studio Cataldi            11 marzo 2019

www.studiocataldi.it/articoli/33875-l-agenzia-delle-entrate-regala-computer.asp

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