UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 739 – 3 febbraio 2019
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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02 ABORTO VOLONTARIO L’aborto e le donne, quelle ferite da curare.
03 I.V.G. e prevenzione dell’I.V.G.
07 ADOZIONE A DISTANZA Perché, se questo non potrà mai tornare dalla sua famiglia?
07 AFFIDO CONDIVISO Separazione ad elevata conflittualità.
07 ASSEGNO DI MANTENIMENTO Richiesta mantenimento dopo divorzio.
09 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Pactum fiduciæ e mantenimento del figlio maggiorenne.
11 ASSEGNO DIVORZILE Tribunale Torino: criteri per la determinazione dell’assegno.
12 ASSOCIAZIONI E MOVIMENTI Papa a politici: difesa della vita nascente, 1° pietra bene comune.
13 CASA CONIUGALE Portare il nuovo compagno nella casa coniugale.
14 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 4, 30 gennaio 2019.
16 CHIESA CATTOLICA L’insegnamento sulla famiglia del Papa è ricevuto positivamente.
17 La vera prudenza: il ministero e i suoi travagli.
18 La chiesa cattolica non è un posto per donne.
19 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL. Tutela dei minori: Regolamento e indicazioni.
20 Card. Bassetti: “Noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative”.
21 Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare
21 CONSULENZA COPPIA E FAMIGLIA Audizione Presidente dell’AICCeF in Commissione Giustizia Senato.
23 COUNSELING Anche oggi è nata una mamma!
23 Conflitto genitori figli.
25 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Messina. Gravidanza e ambiente familiare.
27 Pescara. Servizio a Gaeta.
27 Trento. Progetto GenerAzioni.
28 DALLA NAVATA 4° Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 3 febbraio 2019.
28 Persecuzione «marchio» di garanzia dei profeti.
28 EDUCAZIONE ALLA SESSUALITÀ Dopo l’invito del Papa. Educazione sessuale. Ecco dove si fa bene.
29 È indispensabile il confronto con le famiglie”.
30 “Meglio dedicarsi alla relazione tra donna e uomo”.
30 La scelta coraggiosa di far cadere un tabù.
31 ENTI TERZO SETTORE Obbligo di pubblicare i contributi pubblici ricevuti.
31 FAMIGLIA Quali sono i valori e i doveri.
33 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Aborto: misericordia sempre, cantate la ninna nanna ai figli in cielo.
35 GOVERNO Bimbi sono i nuovi poveri, ma Reddito cittadinanza non li nomina.
36 80°sessione Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e adolescenza.
37 MATRIMONIO Rapporti personali tra coniugi.
40 PARLAMENTO Senato della Repubblica–Commissione Giustizia–Affido dei minori.
40 RICONOSCIMENTO Mancato riconoscimento figlio naturale risarcimento danni.
41 ROTA ROMANA Il Papa: unità e fedeltà capisaldi del matrimonio.
42 Non i divorzi ma le coppie fedeli dovrebbero fare notizia.
43 SEPARAZIONE Come convincere il coniuge a dare la separazione
44 Effetti patrimoniali della separazione
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ABORTO VOLONTARIO
L’aborto e le donne, quelle ferite da curare
Nella consueta conferenza stampa durante il volo di ritorno dai suoi viaggi apostolici, a papa Francesco – rientrante dalla Gmg di Panama – è stata posta dalla giornalista Lena Klimkeit della Deutsche Presse-Agentur una domanda sul rapporto tra la misericordia che il Santo Padre spesso richiama come atteggiamento fondamentale della carità pastorale della Chiesa verso tutti e le parole da lui pronunciate alla Via Crucis con i giovani al Campo Santa Maria la Antigua, laddove denuncia il «grido soffocato dei bambini ai quali si impedisce di nascere», ponendolo accanto al grido presente in quanti si vedono negato «il diritto di avere un’infanzia, una famiglia, un’educazione; nei bambini che non possono giocare, cantare, sognare …», e in coloro che cadono «nelle reti di gente senza scrupoli» di «sfruttamento, criminalità e abuso».
La domanda tradisce una incomprensione non di rado presente tra gli ascoltatori e i commentatori, pur attenti, dei discorsi di Francesco: quella che declina la categoria della misericordia secondo il genere spurio del lassez-faire, lassez-passer proprio di una forma di liberalismo etico e non la coniuga invece, nel solco corretto della teologia morale, con la oggettiva ingiustizia connessa al peccato dell’uomo che viene perdonato dalla infinita misericordia di Dio attraverso il ministero della Chiesa. Essa, mentre è chiamata a esaltare e dispensare la misericordia del Padre anche verso coloro che si macchiano di pesanti crimini («il messaggio della misericordia è per tutti», anche per le donne che abortiscono, ha detto il Papa rispondendo alla giornalista), non può, al medesimo tempo, esimersi dal ricordare la gravità delle azioni commesse, come «l’aborto o l’infanticidio [che] sono abominevoli delitti» (Concilio Vaticano II, GS 51). «È un male umano. Ed evidentemente, siccome è un male umano – come ogni uccisione – è condannato» anche dalla Chiesa (papa Francesco, 2016).
Ma Francesco non si è fermato qui. Ha messo in chiara luce che in questo caso si tratta di «una misericordia difficile perché il problema non è dare il perdono, ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di aver abortito. Sono drammi terribili. […] Con Dio c’è già il perdono, Dio perdona sempre. Ma la misericordia [richiede] che lei elabori questo». C’è una ferita che deve essere sanata: essa resta aperta anche se la misericordia cancella il peccato. Il Papa lo sa bene perché ha «incontrato tante donne che portavano nel loro cuore la cicatrice per questa scelta sofferta e dolorosa. Ciò che è avvenuto è profondamente ingiusto; eppure, solo il comprenderlo nella sua verità può consentire di non perdere la speranza» (Lettera per il Giubileo Straordinario, 2015). Senza verità non vi può essere riconciliazione con Dio, con chi è vittima del proprio peccato e con sé stessi. «L’aborto si aggiunge al dolore di tante donne, che ora portano in sé profonde ferite fisiche e spirituali dopo aver ceduto alle pressioni di una cultura secolare che sminuisce il dono di Dio della sessualità e il diritto alla vita dei nascituri», ricordava nel 2014 ai vescovi del Sudafrica.
Un segno profondo del figlio che non è nato resta nella psiche e nella coscienza della donna che ha abortito non meno di quanto vi resti una traccia biologica di quella presenza della vita nascente che è stata interrotta. Papa Francesco ha ricordato quanto gli è stato riferito da uno studioso sulla permanenza nel corpo della madre, per molti anni e talora per sempre, di cellule fetali anche dopo il parto o l’interruzione della gravidanza.
Un fenomeno chiamato ‘microchimerismo’ e che è documentabile in diversi tessuti materni non placentari dove alcune cellule del figlio si annidano e proliferano. Un dato biologico che rimanda a un senso antropologico e a un vissuto psicologico. Dopo il parto, molte madri raccontano di sentirsi come se il proprio figlio fosse ancora dentro di loro, e – con commovente tenerezza – il Santo Padre suggerisce alle donne che hanno abortito e sono state perdonate da Dio nel sacramento della confessione di riconciliarsi anche con il proprio figlio mai nato: «Tuo figlio è in cielo, parla con lui. Cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli» tra le tue braccia perché gli è stato impedito di nascere. Riecheggiano così le parole di San Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae (n. 99), rilanciate da Benedetto XVI nel febbraio 2011: «Non lasciatevi prendere dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. […] Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino».
Roberto Colombo Avvenire 2 febbraio 2019
I.V.G. e prevenzione dell’I.V.G.
La decisione di interrompere la gravidanza è spesso un momento difficile della vita di una donna, costituisce un momento drammatico con importanti implicazioni psicologiche, etiche e religiose.
L’evento costringe a prendere in seria considerazione la propria capacità di generare con il passaggio immediato al mondo adulto e fertile.
Costringe a valutare la propria capacità di scelta rispetto ad eventi “inevitabili” solo per chi accetta il destino, ma non per donne che scelgono per sé, razionalmente e con equilibrio, il controllo medico della propria fecondità, elemento inevitabile per tutte le donne che hanno un’attività sessuale.
Aspetti psicosociali dell’interruzione di gravidanza: il processo decisionale e le conseguenze. Dagli studi sino ad oggi effettuati si è osservato che il ricorso all’IVG nella maggioranza dei casi (70%) non è una scelta, ma la conseguenza della incapacità concreta di regolare la fecondità con altri metodi.
Esistono comunque delle categorie in cui il ricorso all’aborto risulta più elevato: fra queste ci sono le donne con figli, quelle con titolo di studio più basso e le casalinghe.
In generale il numero di IVG aumenta con l’aumentare dei figli e dell’età. Più le nubili rispetto alle coniugate. L’elevato livello d’istruzione e la disponibilità di un lavoro agiscono come “fattore protettivo”. Molto spesso queste donne scelgono la via dell’aborto volontario perché non ricevono il sostegno del compagno che può lasciarle alla notizia della gravidanza o disinteressarsi al destino della stessa, si sentono abbandonate, temono di non avere la capacità, anche a livello economico, di mantenere un bambino da sole, né vogliono che loro figlio cresca senza un padre.
Non bisogna dimenticare però che non ci sono solo le difficoltà economiche e situazioni familiari incerte dietro la scelta di rinunciare al bambino, anche se queste sono le motivazioni prevalenti.
Ci sono donne che semplicemente ritengono di non essere ancora pronte per la famiglia, che vogliono far carriera e divertirsi. Questo timore di dover modificare la propria vita e di non essere più in grado di gestirla può anche arrivare a manifestarsi con un vero e proprio incontrollabile terrore la cui soluzione sfocia inevitabilmente in un aborto volontario.
Negli ultimi anni si è evidenziato un aumento del numero di interruzioni volontarie di gravidanza richiesto da donne straniere immigrate in Italia. Infatti delle 138.708 IVG effettuate nel 1999, 18.806 (pari al 14%) hanno riguardato cittadine straniere, rispetto alle 9.850 registrate nel 1996.
L’aumento numerico delle IVG effettuate da donne straniere è sicuramente dovuto all’aumento della presenza straniera in Italia: i permessi di soggiorno, ad esempio, secondo i dati Istat, sono passati da 678.000 nel 1995 a 1.100.000 nel 1999. Utilizzando una stima delle donne immigrate di età 18-49 anni, l’Istat ha calcolato che il tasso di abortività era pari a 32,5 nel 1998, circa tre volte superiore a quello osservato tra le cittadine italiane.
L’apporto delle donne straniere al numero di IVG in Italia potrebbe essere la causa principale dell’attuale fase di stabilizzazione dell’incidenza del fenomeno. Infatti se si considerano solo le cittadine italiane l’aborto risulta essere ancora in diminuzione: 127.700 IVG richieste da donne italiane nel 1996 e 120.407 nel 1999, anni più attendibili perché i casi in cui manca l’informazione della cittadinanza sono pochi.
Le analisi condotte evidenziano tra le donne straniere ricorrenti all’aborto ragazze in genere molto giovani, che spesso non parlano la nostra lingua e affrontano l’interruzione di gravidanza come un fatto normale. Nei paesi di provenienza l’aborto viene utilizzato come contraccettivo. In Romania, ad esempio, la pillola o ogni altro sistema anticoncezionale è costoso, le donne non possono permettersi la spesa e preferiscono rischiare. Il problema è che con certe immigrate non si riesce neppure ad avviare un percorso di educazione sessuale. Non parlano la lingua e i consultori o i centri ospedalieri sono sprovvisti di mediatori culturali.
Inoltre l’avere un figlio, nella migrazione, rappresenta spesso un ostacolo al progetto migratorio, ed una gravidanza viene quindi di frequente considerata una condizione non opportuna. Per questo motivo, quando la donna immigrata giunge involontariamente a questo stato, ricorre nella maggior parte dei casi, andando a volte anche contro la propria cultura e la propria religione, all’interruzione volontaria di gravidanza. Spesso devono affrontare da sole questa situazione, in quanto la cultura di appartenenza non ammette determinate scelte, e quindi il portare a conoscenza parenti ed amici riguardo il proprio stato, potrebbe influenzare in senso opposto la decisione presa e porterebbe le donne ad essere “condannate” per il gesto compiuto.
Le donne immigrate che scelgono una interruzione volontaria di gravidanza, quindi, sono prevalentemente nubili e non godono di uno stato socio-economico solido; la maggior parte di loro lavora come domestica ed il rischio o l’ipotesi che la gravidanza possa comportare la perdita del posto di lavoro può spiegare l’elevata prevalenza di aborti volontari, specialmente se la presenza della donne in Italia risulta essere clandestina. Il fattore economico spesso è determinante.
Non di rado la decisione di effettuare l’IVG è presa singolarmente dalla donna che neanche dichiara il suo stato di gravidanza indesiderato a parenti ed amici che, influenzati dalla religione di appartenenza e dalla cultura di origine potrebbero non condividere la sua decisione. Si trova quindi sola a dover affrontare una situazione molto difficile, una situazione di grande conflitto interiore da dover superare esclusivamente da sole.
La donna immigrata che ricorre all’IVG, nel caso in cui la sua cultura o religione non ammetta questa pratica, vive un sentimento di colpa per il mancato rispetto delle ideologie del paese di origine. L’IVG però apre uno spiraglio alla possibilità di utilizzare la contraccezione come metodo di controllo delle nascite, che prima non veniva presa in considerazione, ma che ora rappresenta una soluzione essenziale per non rivivere la sofferenza di un’altra IVG.
Le reazioni psicologiche della madre all’interruzione volontaria della gravidanza. Le conseguenze del ricorso a una IVG sono possono essere psicologicamente pesanti. Dopo aver affrontato l’intervento di interruzione della gravidanza, molte donne riportano sentimenti di dolore, di perdita, di sconforto, di tristezza, di rimorso e di smarrimento.
Ciò che emerge nella maggior parte dei racconti è l’autocolpevolizzazione, il forte senso di colpa nei confronti della scelta fatta, a cui si accompagna una perdita di stima in sé stesse e la convinzione che il dolore che si sta provando sia la giusta punizione per ciò che si è commesso. Dice Arianna, 31 anni: “Sono sola, alcuni anni fa ho avuto un’IVG. Le conseguenze sono atroci, soprattutto quando la famiglia prima ti costringe ad una scelta, ti disprezza, e poi ti abbandona, così pure hanno fatto gli “amici” che venuti a conoscenza del fatto avevano promesso aiuto ed invece sono spariti tutti. Io ho sbagliato prima di tutto commettendo un omicidio, non so ancora perché l’ho fatto, ed ho continuato a sbagliare cercando aiuto e conforto, ma forse è giusto pagare per tutto a questo modo.”
In considerazione di ciò, sarebbe caldamente consigliabile un sostegno nell’elaborazione di tale esperienza; un sostegno che potrà essere offerto dagli psicologi del Consultorio Familiare.
La consapevolezza e l’elaborazione, anche intima, dell’evento possono essere occasione di crescita personale e di senso della propria responsabilità, anche se accompagnate dal dolore.
Le reazioni psicologiche del padre e dei familiari all’interruzione volontaria della gravidanza. Essendo la gravidanza un evento che coinvolge tutta la famiglia, se informata della stessa, ricadute psicologiche dell’aborto volontario possono essere avvertite non solo dalla donna, direttamente coinvolta.
Anzitutto il marito o, più in generale, il padre biologico del bambino, soprattutto se ha dovuto cedere davanti alla decisione della sua compagna.
Il sentimento dominante sarà quello di una profonda impotenza di fronte alla decisione della madre. Questo causerà frizioni intollerabili nella loro vita matrimoniale, portandoli spesso verso il divorzio.
E anche un senso di colpevolezza per non aver potuto impedire l’aborto.
E, da ultimo, un senso di perdita di responsabilità, perché comunque il “padre” non ha più niente da dire nel campo del concepimento e della salvaguardia del bimbo prima della nascita.
E anche i fratelli e le sorelle del bambino abortito. Quello che gli americani chiamano “Sindrome del sopravvissuto all’aborto”.
Vi sono pochi studi su questo argomento, ma è abbastanza facile immaginare cosa deve pensare un figlio dei propri genitori quando viene a sapere che uno dei suoi fratelli o sorelle è stato ucciso da un medico su domanda esplicita della loro madre, magari con il consenso del padre.
Il sintomo prevalente in questi bambini è un grande senso d’insicurezza; una perdita di fiducia, accompagnata, talvolta, da senso di paura, d’avversione e persino di odio verso i genitori giudicati “capaci di uccidere anche loro, dal momento che hanno osato uccidere un fratello o una sorella”.
E, infine, anche gli altri membri della famiglia, e in modo particolare i nonni.
Questi ultimi vedono la loro discendenza più lontana, i loro nipotini uccisi dai loro stessi figli. Quando si vede l’affetto particolare che molti nonni hanno per i loro nipoti, non occorre essere psichiatra per rendersi conto di cosa devono sentire nel proprio intimo i nonni di un bambino abortito.
Vissuti psicologici e possibili conseguenze psicopatologiche all’interruzione volontaria di gravidanza. Per la maggior parte delle pazienti, l’aborto non è una minaccia al benessere mentale e non dà sequele psicologiche negative. Prima che tale intervento fosse facilmente e legalmente eseguibile, le difficoltà psicologiche erano, verosimilmente, dovute più che altro ai problemi e allo stress che le donne dovevano affrontare per riuscire a realizzare il loro intento. Le pazienti più soggette alle sequele di ordine psicologico sono quelle che hanno sofferto di sintomi psichiatrici già prima di rimanere gravide, quelle che hanno dovuto interrompere una gravidanza desiderata per ragioni mediche (materne o fetali), quelle dotate di una notevole instabilità oppure le giovanissime o quelle che hanno avuto un aborto tardivo.
Studi condotti nei Paesi Bassi, che oggigiorno hanno il tasso d’interruzione di gravidanza fra i più bassi al mondo grazie allo sviluppo di una “cultura di pianificazione familiare”, hanno dimostrato che non vi è una maggior incidenza di disturbi psicologici nelle donne che si sono sottoposte a un’IVG. Se alcune donne possono percepire tristezza e rimorso, la maggior parte di loro prova una sensazione di sollievo dopo l’intervento. Tempo dopo, continuano a pensare che la loro decisione era fondata, anche se per alcune è stata una decisione difficile da prendere. Le donne che invece sono state costrette a mettere al mondo un bambino contro la propria volontà, come pure i bambini indesiderati, soffrono più spesso di disturbi psichici e psicosomatici delle donne che hanno abortito o dei bambini desiderati.
Il caso più grave di psicopatologia a cui può andare incontro la donna in seguito a IVG è la “Sindrome post abortiva (PAS)”, a tutt’oggi ancora molto dibattuta.
Sindrome post abortiva (PAS). La perdita di un bambino, anche prima della nascita, è causa naturale di un tempo di lutto per ogni madre. Tuttavia, quando il bimbo muore di morte naturale, il tempo fa superare, più o meno, questa tristezza della madre, non cancellando però mai un sentimento di perdita insostituibile. L’accettazione della morte d’un bimbo è cosa difficile per ogni madre.
Ma quando questa morte avviene in modo deliberato, organizzato prima, quando il bimbo è ucciso da un medico, il trauma psichico è maggiore. Il senso di colpa per cui la donna non cessa di accusarsi d’aver ucciso suo figlio può portarla a sviluppare una nevrosi.
Il pensiero che la tortura è: “Non mi perdonerò mai d’aver consentito all’uccisione del mio bimbo e ciò mi perseguiterà sempre”.
La base stessa della sindrome post-abortiva si situa al livello della percezione soggettiva dell’aborto subito. In altri termini: la donna risente l’aborto come il fatto d’aver ucciso il proprio figlio in modo cosciente e premeditato. Il fatto che l’esecutore sia stato un medico accresce l’orrore dell’accaduto.
La percezione di una complicità da parte della donna è d’importanza capitale per tentar di capire cosa avviene nella coscienza della donna che ha abortito. L’idea di omicidio del proprio bambino rimane scolpita nella memoria.
Le conseguenze per la donna colpita da questa sindrome terribile sono lì a testimoniarne la gravità.
Secondo l'”Elliot Institute for Social Sciences Research“:
- Il 90% di queste donne soffre di danni psichici nella stima di sé;
- Il 50% inizia o aumenta il consumo di bevande alcoliche e/o quello di droga;
- Il 60% è soggetto a idee di suicidio;
- Il 28% ammette di aver persino provato fisicamente a suicidarsi;
- Il 20% soffre gravemente di sintomi del tipo stress post-traumatico;
- Il 50% soffre dello stesso in modo meno grave;
- Il 52% soffre di risentimento e persino di odio verso quelle persone che le hanno spinte a compiere l’aborto.
Non vi sono statistiche su certi altri aspetti, come gli incubi notturni, le difficoltà di relazioni interpersonali, gli stati di panico, di depressione incontrando altri bimbi o bimbe.
La comparsa di disturbi organici a seguito di questo stato di “trauma psicologico” è anche difficile da quantificare, ma molte donne soffrono di disturbi ginecologici dopo l’aborto. Fra questi l’amenorrea prolungata, dolori persistenti ai seni. Tali disturbi, che possono trascinarsi per anni, non si spiegano solo con l’aspetto chirurgico dell’intervento.
Queste donne subiscono pure, molto frequentemente, diversi sintomi di relegazione nel loro subcosciente dell’aborto subito. Si sforzano di compensare il loro rimorso, più o meno ammesso, attraverso un’attività vicariante; gettandosi in pieno nelle loro occupazioni, rese sempre più trepidanti allo scopo di non dover pensare ancora…
Spesso queste donne non mettono in relazione i loro disturbi psichici con l’aborto subito. Ciò non facilita il compito del medico consultato per sintomi a prima vista molto disparati.
Evidentemente l’aborto è irreversibile; per cui ogni terapia sarà essenzialmente palliativa. Attualmente non esiste una terapia curativa di questa sindrome.
E il carattere d’irreversibilità ci costringe a considerare anzitutto l’importanza della prevenzione.
Troviamo, fra gli specialisti della terapia, “scuole” diverse relativamente alla percezione degli atteggiamenti e dei comportamenti da tenere di fronte a questa sindrome. Tuttavia, noteremo più avanti che dai testi di questi esperti, che sono peraltro di origine e di formazione molto disparate, emerge una straordinaria unanimità.
Uno degli istituti specializzati, l'”lnstitute of Pregnancy Loss and Child Abuse Research and Recovery” (IPLCARR), situato in Canada (Colombia britannica), e diretto dallo psichiatra professor Philip Ney, forma consiglieri specializzati. Essi sono preparati in modo approfondito nelle tecniche di aiuto psicologico. Imparano a evitare le trappole di rimozione (refoulement) nella donna che soffre, per farle prendere pienamente coscienza del suo errore e per guidarla nel processo di lutto e di svolgimento (déploiement) spirituale, unica via praticabile per “uscire dal tunnel”.
Susan Standford descrive nei dettagli una via simile nel suo libro “Will I Cry Tomorrow?”, “Piangerò domani?”. Questa psicologa americana ha, del resto, iniziato la sua carriera di specialista della sindrome post-abortiva subendo lei stessa un aborto. Ora dedica la sua vita alla cura delle donne che hanno abortito. Lo fa assieme a suo marito, il dottor Vincent Rue.
Questi esperti hanno trovato che il processo terapeutico del conflitto psicologico poteva essere paragonato al processo di accettazione della propria morte più o meno imminente, così come l’ha descritto Elisabeth Kübler-Ross, psichiatra americana di origine svizzera.
Questa progressione avviene in 7 tappe successive:
- La negazione del problema;
- La rabbia per il fatto di dover affrontare il problema;
- Il mercanteggiamento con la propria coscienza per tentare di liberarsene;
- La depressione;
- Il senso di colpa e di vergogna;
- Il perdono;
- La riconciliazione.
È praticamente impossibile, per la donna che ha abortito, arrivare alle due ultime tappe senza aiuto esterno. Qui si trova appunto lo spazio operativo dei consiglieri psicologici. Perché il fatto di non progredire più dopo la tappa 4 (depressione) o 5 (colpa/vergogna) è all’origine del tasso di suicidi elevato in questa categoria.
La signora Meta Eichmann, che dirige “Suicide anonymous” a Cincinnati, nello Stato dell’Ohio, negli Stati Uniti d’America, ha dichiarato che il suo gruppo, in 2 anni e mezzo di tempo, aveva curato più di 4000 casi di (tentativi di) suicidio di donne. La metà di questi casi riguardava donne che avevano abortito. Fra queste, 1.400 erano di età fra i 15 e i 24 anni, che è la fascia d’età in cui, negli Stati Uniti d’America, il tasso di suicidi mostra il picco più elevato.
Ma anche una buona formazione generale non è sempre sufficiente per condurre a buon fine questo compito.
Supponendo un “quadro di fondo” intensamente religioso, il dottor Pablo Verdier, psichiatra uruguaiano, specializzato in questa sindrome, insiste per esempio sul fatto che i confessori cattolici dovrebbero badare affinché le loro penitenti non abbiano a confessare “un aborto”, bensì “il loro aborto”, senza di che non potranno progredire oltre sulla via delle 7 tappe citate prima. Questo fatto è pure citato da papa Benedetto XVI nel suo scritto sulle questioni importanti attuali sulla Fede. Il dottor Vincent Rue chiama questo “to name the pain“, “dare un nome al dolore”.
Come Susan Standford, il dottor Pablo Verdier auspica quel che chiama “sueño diurno dirigido”, il “sogno sveglio guidato”. È uno stato in cui la donna che ha abortito si concentra intensamente sul proprio aborto, immaginandosi il più vivamente possibile il proprio figlio che viene ucciso e che lei rimette in spirito al Creatore e Redentore del mondo.
Prevenzione dell’I.V.G. Nei Paesi Bassi come precedentemente detto l’introduzione della soluzione dei termini è stata accompagnata da una precisa volontà, degli ambiti coinvolti in questa problematica, di attivare la prevenzione: educazione sessuale intensiva, contraccezione gratuita, accessibilità ai centri di pianificazione familiare e, nel caso di un’interruzione della gravidanza, consulenze centrate sulla contraccezione. L’insieme di queste misure di prevenzione hanno sviluppato una “cultura di pianificazione familiare”. Sono questi i fattori che, nonostante una legge permissiva, hanno prodotto il tasso d’interruzione di gravidanza fra i più bassi al mondo. Quindi, nonostante l’aborto in Italia sia in calo costante, in relazione all’elevazione dei livelli di cultura e istruzione ed alla diffusione dei concetti e metodi della contraccezione, è prevedibile che un impegno più incisivo a favore della pianificazione familiare, anche attraverso l’attività formativa e informativa, a livello tanto centrale quanto locale, comporterebbe un più rapido calo del ricorso all’IVG, con ovvi benefici per i singoli e la collettività. Questo compito dovrebbe essere assunto in primis dai Consultori Familiari, con un potenziamento delle attività e delle risorse dello stesso e la presenza di mediatrici culturali in grado di connettere il servizio con quella parte di popolazione femminile che incontra una barriera pressoché insormontabile nelle differenze culturali, etniche, religiose e linguistiche.
Infine un discorso più particolareggiato meriterebbe l’educazione scolastica. È tempo di insistere sul dovere, che le scuole hanno, di promuovere la conoscenza sia dei fatti inerenti alla sessualità umana (fisiologia, emotività), sia dei relativi problemi, insieme con i modi di affrontarli, conoscenza rivolta alla consapevolezza circa le responsabilità che ne derivano.
www.inftub.com/filosofia/psicologia/IVG-e-prevenzione-dell-IVG-Tes12638.php
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ADOZIONE A DISTANZA
Perché adottare un bambino a distanza se questo non potrà mai tornare dalla sua famiglia?
Risposta ad una lettera
L’Adozione a Distanza ha l’obiettivo di offrire a bambini abbandonati o in grave difficoltà familiare non solo la risposta ai loro bisogni materiali per una crescita armoniosa, ma un progetto di vita personalizzato per far sì che possano essere accolti in una famiglia adottiva o ritornare a vivere nella propria famiglia d’origine. I bambini che i nostri sostenitori aiutano in diversi angoli del mondo, dalla martoriata Siria alla lontana Cina, dall’Africa ed al Sud America, sono bambini abbandonati, orfani o che vivono in situazioni di grave difficoltà familiare.
Quasi sempre provengono da famiglie povere, con un solo genitore o con molti figli, da famiglie che senza l’aiuto dei nostri sostenitori non potrebbero garantire loro l’accesso a scuola, una visita medica, il lusso di un regalino il giorno del compleanno, o anche solo un pasto al giorno. Grazie all’Adozione a Distanza si crea una relazione unica ed esclusiva tra il bambino e il proprio sostenitore che lo farà sentire amato e gli permetterà di crescere in un ambiente sicuro, di studiare, avere un’alimentazione sana e regolare e, attraverso un programma personalizzato di reinserimento in famiglia, di poter tornare figlio.
Ecco a cosa serve l’Adozione a Distanza: ad aiutare un bambino abbandonato o in grave difficoltà familiare perché possa sentirsi di nuovo “figlio” e accompagnare un adolescente in uscita dall’istituto verso l’autonomia e l’indipendenza perché, nonostante tutto, possa essere un adulto sereno.
Staff Ai.Bi. 1 febbraio 2019
www.aibi.it/ita/perche-adottare-un-bambino-a-distanza-se-questo-non-potra-mai-tornare-dalla-sua-famiglia
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AFFIDO CONDIVISO
Separazione ad elevata conflittualità –
Sanzione punitiva a carico del genitore che ostacola il lavoro di sostegno ed elaborazione del conflitto. Tribunale di Catania, 11 gennaio 2019
Condizioni psichiche del minore a rischio – mancato riconoscimento di tali condizioni da parte del genitore accudente – rinforzo dei rancori verso l’altro genitore – ostacolo alla ripresa dei rapporti madre-figlio.
Ammonizione e condanna punitiva per euro 200,00 ex art. 709 ter cpc per ogni volta che il genitore ometterà di condurre il figlio agli incontri previsti.
Il Tribunale invita i genitori ad intraprendere un percorso di sostegno alla genitorialità; dispone la ripresa del percorso di aiuto del minore nella elaborazione di quanto avvenuto nella sua famiglia.
Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia Sezione di Catania 28 gennaio 2019
www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17508017/sanzione-punitiva-a-carico-del-genitore-che-ostacola-il-lavoro-di-sostegno-ed-el.html
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Richiesta mantenimento dopo divorzio
Corte di cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 2480, 29 gennaio 2019
Spetta l’assegno di divorzio alla ex moglie anche se non ha richiesto l’assegno di mantenimento con la causa di separazione? Tu e tua moglie vi siete separati all’incirca due anni fa. All’epoca avete optato per una separazione consensuale: avete infatti trovato un accordo su tutti i punti del distacco. Lei ha rinunciato all’assegno di mantenimento avendo un lavoro che le consentiva di mantenersi da sola. Di recente, però, ha chiesto in azienda una riduzione dell’orario e, da full-time, è passata ad un contratto part-time. A suo modo di vedere, alla conseguente riduzione dello stipendio dovrai porre rimedio tu, iniziando a versarle da ora l’assegno di divorzio. Se non è un ripensamento poco ci manca. Ovviamente ti opponi e lo fai mettendo in luce due aspetti. Il primo è che la sopraggiunta difficoltà economica dipende da un atto volontario della tua ex moglie, avendo questa preferito lavorare di meno. Il secondo fa leva invece sull’incompatibilità di una richiesta dell’assegno divorzile quando già, in passato, la stessa aveva espressamente rinunciato al mantenimento in sede di separazione. Cosa prevede in questi casi la legge? È possibile una nuova richiesta di mantenimento dopo il divorzio? La questione è stata decisa, proprio di recente, dalla Cassazione. Ecco le linee guida tracciate dai giudici supremi.
Mantenimento: quando? L’assegno divorzile – quello cioè che scatta dopo il divorzio e che sostituisce l’assegno di mantenimento deciso in sede di separazione – è dovuto solo quando l’ex coniuge (di solito la moglie) non è in grado, non per propria colpa, di mantenersi da sola. L’entità e lo scopo di tale assegno è quindi diretto a consentire l’autosufficienza economica. Come chiarito dalle Sezioni Unite a luglio dello scorso anno [Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 18287/11 luglio 2018],
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www.filodiritto.com/articoli/2018/11/lassegno-di-divorzio-alla-luce-della-sentenza-n.-182872018-delle-sezioni-unite..html
il giudice deve comunque tenere conto, nel determinare l’importo dell’assegno, del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla ricchezza familiare. Che significa? Che la donna che per una vita ha badato al ménage domestico, consentendo all’uomo di concentrarsi sulla carriera, ha diritto a qualcosa in più dello stretto necessario per mantenersi.
Detto ciò, la Cassazione è certa nel negare il mantenimento alle donne giovani, ancora abili al lavoro e che hanno una formazione: chi è in grado, anche potenzialmente, di mantenersi da sola, con un proprio lavoro e un proprio reddito, non può pretendere di vivere sulle spalle dell’ex. Dopo i 50 anni invece il discorso è diverso.
La situazione di disoccupazione, da sola, non è sufficiente a garantire l’assegno divorzile: la moglie deve dimostrare di essersi data animo di cercare un’occupazione e di non esserci riuscita. Chi resta in panciolle quindi, a meno che non ha fatto la casalinga, non ha diritto all’assegno divorzile.
Assegno divorzile: spetta in caso di rinuncia al mantenimento? Vediamo ora che succede a chi, al momento della separazione, ha rinunciato all’assegno di mantenimento ma poi, all’atto del divorzio, ci ripensa e chiede l’assegno divorzile. È possibile la modifica? La risposta, a detta della Cassazione, non può che essere positiva, ma con alcune importantissime precisazioni che a breve vedremo.
Anche se la coppia si è separata con procedimento consensuale – ossia con un accordo – e in quella sede il coniuge più debole economicamente ha espressamente rinunciato all’assegno mensile di mantenimento tutto può cambiare con il procedimento di divorzio. Possono infatti mutare le condizioni di reddito dei due coniugi e quindi la misura del sostegno mensile. Tant’è che, in assenza di un nuovo accordo delle parti, ben è possibile che tra marito e moglie si instauri una causa per fissare la misura dell’assegno divorzile nonostante la rinuncia precedente e la separazione consensuale.
Con la sentenza in commento la Cassazione ha quindi chiarito che la mancata richiesta di assegno di mantenimento in sede di separazione non preclude di certo il suo riconoscimento in sede divorzile. Tuttavia tale circostanza può rappresentare un valido indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione relativi alle condizioni economiche dei coniugi. In buona sostanza, se l’ex moglie ha dichiarato, con la separazione, di essere in grado di badare a sé stessa e successivamente le sue condizioni di reddito non mutano (ad esempio non perde il lavoro) allora la successiva dichiarazione contraria in sede di divorzio potrebbe non convincere il giudice. Il quale, a quel punto, potrebbe rifiutarle l’assegno divorzile proprio per via dell’ammissione di autosufficienza economica fatta in precedenza.
Diverso è il discorso se le condizioni reddituali della moglie mutano, non per sua colpa. Fermo restando la prova a suo carico di tale peggioramento, il tribunale potrebbe allora rettificare la decisione sul mantenimento e riconoscerle l’assegno divorzile.
Se la moglie rinuncia al lavoro o al full-time ha diritto al mantenimento? In questa logica, si comprende che se il peggioramento delle condizioni economiche della donna dipende da una sua precisa scelta, non dettata da esigenze di salute o familiari (ad esempio badare ai figli che, dopo la separazione, le sono stati affidati), essa non potrà accampare pretese dal marito. Dunque, se l’ex moglie si licenzia dal lavoro (o meglio detto, “si dimette”) oppure chiede una trasformazione del contratto da full-time a part-time senza un valido motivo allora non può comunque richiedere l’assegno divorzile.
Redazione La legge per tutti 30 gennaio 2019
Sentenza www.laleggepertutti.it/272971_richiesta-mantenimento-dopo-divorzio
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI
Pactum fiduciæ e mantenimento del figlio maggiorenne: quale disciplina in caso di azioni esecutive?
Il pactum fiduciæ, o negozio fiduciario, rientra nella categoria più generale dei negozi indiretti, caratterizzati dal fatto di realizzare un determinato effetto giuridico non in via diretta, bensì indiretta.
Il pactum fiduciæ in base al quale le parti convengono che l’immobile acquistato col denaro di una di esse sia formalmente intestato all’altra per l’esigenza di sottrarre il bene a possibili azioni esecutive e conservarlo a beneficio dei figli dell’effettiva acquirente obbliga il fiduciario a ritrasferire il bene al fiduciante.
Il dovere di mantenimento non cessa con il compimento della maggiore età da parte del figlio, bensì nel diverso momento in cui il figlio consegue l’autosufficienza economica. Tale principio è stato espressamente affermato dal legislatore della riforma del 2006, che all’art. 337 septies c.c. ha previsto che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, il pagamento di un assegno periodico” (sul mantenimento del figlio maggiorenne vi è una ampia letteratura: ex multis Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2015, 300; in giurisprudenza, Cass. 3 novembre 2006, n. 23596; Cass. 20 maggio 2006, n. 11891; Cass. 3 aprile 2002, n. 4765).
Non può pertanto ritenersi presupposto sufficiente ai fini della decadenza dalla titolarità dell’assegno l’aver il figlio contratto matrimonio, qualora la nuova entità familiare non sia autonoma e finanziariamente autosufficiente (Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830).
https://news.avvocatoandreani.it/documenti/?tt=cassazione-sentenza-1830-del-26-01-2011
È stato ritenuto avente diritto:
- Il figlio che avesse opposto rifiuto a fare il bracciante agricolo per intraprendere studi artistici (Cass. 12 gennaio 2010, n. 261);
- Il figlio che avesse trovato solo un impiego come apprendista (Cass. 19 maggio 2010, n. 12309);
- Il figlio titolare di una impresa, di non provata reddittività (Cass. 9 maggio 2011, n. 19589).
È stato per contro ritenuto autosufficiente:
- Il figlio che si fosse rifiutato di lavorare presso l’impresa del padre (Cass. 3 febbraio 2014, n. 2236);
- Il figlio titolare di un contratto di formazione specialistica pluriennale (Cass. 22 maggio 2014, n. 11414; cfr. anche Cass. 9 maggio 2013, n. 11020, in Famiglia e Diritto, 2014, 3, 240);
- Il figlio che abbia un lavoro conforme al livello di professionalità conseguito e che gli consenta il soddisfacimento delle sue primarie esigenze (Cass. 23 gennaio 1996, n. 496).
La titolarità dell’assegno. L’art. 337 septies, comma 1, c.c. prevede che il versamento dell’assegno, sempre che il giudice non stabilisca diversamente, avvenga direttamente a favore del figlio maggiorenne. Tale forma di adempimento è senz’altro da preferirsi laddove il figlio sia convivente ma non stabilmente dimorante con il genitore, ovvero sia in età adulta ed in quanto tale auspicabilmente in grado di partecipare ad una corresponsabile gestione delle risorse finanziarie della famiglia, ovvero ancora nell’ipotesi in cui sussista una consolidata prassi in tal senso (Trib. Marsala, 2 marzo 2007).
Può risultare poi opportuno in considerazione nel caso di specie, che il provvedimento stabilisca il versamento in parte nelle mani del genitore e in parte direttamente a favore del figlio (Trib. Marsala, 26 febbraio 2007, in Fam. Pers. Succ., 2007, 11, 950).
Qualora si accolga la tesi maggioritaria, occorre comunque osservare che è presupposto per la richiesta quello della convivenza con il figlio (App. Caltanissetta 19 dicembre 2007; Trib. Modena, 6 settembre 2007, in Fam. Pers. Succ., 2007, 11, 947; App. Roma 6 giugno 2006; Trib. Catania, 14 dicembre 1992; Trib. Catania, 30 luglio 1993), che si concreta qualora, pur non coabitando quotidianamente con il genitore, il figlio “mantenga un collegamento stabile con l’abitazione del genitore, facendovi ritorno ogniqualvolta gli impegni glielo consentano” (Cass. 27 maggio 2005, n. 11320).
Ulteriore controversa connessa questione riguarda la legittimazione del figlio maggiorenne ad intervenire nel giudizio di separazione per far valere il proprio diritto ad essere mantenuto. Secondo una interpretazione il figlio, ancorché legittimato ad agire direttamente nei confronti del genitore obbligato, sarebbe però estraneo al procedimento di separazione (Trib. Catania, 31 marzo 2006), cosicché egli potrebbe agire solo iure proprio in separato giudizio (cfr. anche Cass. 21 giugno 2002, n. 9067, in Famiglia e Diritto, 2002, 6, 651, sui limiti del giudicato rispetto al figlio maggiorenne).
La giurisprudenza maggioritaria, anche di legittimità, sembra però orientata in senso differente, affermando che nel giudizio di separazione dei genitori il figlio maggiorenne potrebbe intervenire ai sensi dell’art. 105 c.p.c. (Cass. 19 marzo 2012, n. 4296, in Giur. it., 2012, 6, 1288; Trib. Torino, 29 dicembre 2014, almeno con riferimento alla domanda di rimborso di spese di mantenimento già sostenute).
Procedimento. Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa solo a seguito della pronuncia del giudice ai sensi dell’art. 710 c.p.c. (Cass. 22 marzo 2012, n. 4555; Cass. 26 settembre 2011, n. 19589). L’onere di provare il conseguimento dell’autosufficienza spetta al genitore che intenda liberarsi del dovere di mantenimento del figlio maggiorenne.
Questioni processuali.
- La domanda di contributo al mantenimento dei figli può essere proposta anche in giudizio successivo a quello di divorzio, con l’unico limite della mancanza di una precedente espressa reiezione della domanda stessa (App. Genova 6 febbraio 1995).
- Sono non ripetibili le somme versate a titolo di mantenimento dei figli in base ad una sentenza riformata in appello e conseguentemente non è possibile sospendere l’esecutorietà della sentenza di primo grado (App. Roma 26 novembre 1999).
- Nel procedimento di revisione delle condizioni dell’assegno di mantenimento in favore del figlio maggiorenne, promosso dal genitore divorziato per ottenere l’esonero dal relativo obbligo, la domanda di alimenti da parte del figlio costituisce un minus necessariamente ricompreso in quella, dal medesimo avanzata in via riconvenzionale, di aumento dell’importo dell’assegno di mantenimento e non costituisce dunque domanda nuova (Cass. 28 gennaio 2008, n. 1761).
Le condizioni per la permanenza dell’obbligo di corrispondere il contributo di mantenimento per la figlia (trentacinquenne) sono insussistenti all’esito di un esauriente accertamento di fatto circa la complessiva condotta personale tenuta dall’interessata dal momento del raggiungimento della maggiore età, visto il mancato impegno per la ricerca di un’occupazione lavorativa (Cass. civ., sez. VI, ordinanza 25 settembre 2017, n. 22314).
Giurisprudenza. Non potendo ritenersi che il figlio abbia conseguito la autosufficienza economica per il sol fatto di avere svolto alcuni lavori precari, si deve confermare il contributo economico già concordato tra i genitori con gli accordi separativi. Tuttavia, il soggetto alimentando è tenuto a fornire le informazioni relative alle proprie condizioni reddituali e lavorative, onde evitare al debitore dell’assegno i pregiudizi economici che potrebbero derivargli, sul piano fiscale, ove egli per ignoranza incolpevole richiedesse le detrazioni fiscali (per carichi familiari) relativamente al soggetto beneficiario dello assegno, che va quindi onerato della informazione, trimestrale, circa la propria situazione reddituale e lavorativa (Trib. Como, 15 novembre 2017).
Il genitore separato o divorziato tenuto al mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente e convivente con l’altro genitore, non può pretendere, in mancanza di una specifica domanda del figlio in sede giudiziaria di assolvere la propria prestazione nei confronti di quest’ultimo anziché del genitore istante, non avendo egli alcuna autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere (Cass. civ., sez. I, 17 maggio 2017, n. 12391).
Con il raggiungimento di un’età nella quale il percorso formativo e di studi, nella normalità dei casi, è ampiamente concluso e la persona è da tempo inserita nella società, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (di salute, o dovute ad altre peculiari contingenze personali, od oggettive quali le difficoltà di reperimento o di conservazione di un’occupazione) costituisce un indicatore forte d’inerzia colpevole. La consequenzialità delle condotte perseguite dal raggiungimento della maggiore età costituisce un altro elemento probatorio rilevante. Ne consegue che gli ostacoli personali al raggiungimento dell’autosufficienza economico reddituale, in una fase di vita da qualificarsi pienamente adulta sotto il profilo anagrafico, devono venire puntualmente allegati e provati, se collocati all’interno di un percorso di vita caratterizzato da mancanza d’iniziativa e d’impegno verso un obiettivo prescelto. Il diritto del figlio si giustifica, infatti, all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto, ex art. 147 c.c., delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni, posto che la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società. La situazione soggettiva del figlio che, rifiutando ingiustificatamente in età avanzata di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo e negli studi, comporti il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori, o di uno di essi, non è tutelabile perché contrastante con il principio di autoresponsabilità che è legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona, anche tenuto conto dei doveri gravanti sui figli adulti (Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2016, n. 12952)
L’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni, secondo le regole dettate dagli artt. 147 e 148 c.c., cessa a seguito del raggiungimento, da parte di questi ultimi, di una condizione di indipendenza economica che si verifica con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita ovvero quando il figlio, divenuto maggiorenne, è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. La motivazione della Corte di appello sul punto opera una riduzione dell’assegno in considerazione della acquisita capacità professionale a svolgere attività retribuita senza alcuna valutazione sulla esistenza di una ridotta potenzialità reddituale che giustificherebbe il permanere dell’assegno sia pure in misura minore rispetto a quella stabilita nel primo grado del giudizio (Cass. civ., sez. VI – 1, ord., 12 aprile 2016, n. 7168).
Là dove non esista, o non persista, un’intesa tra i genitori a favore di qualsivoglia istituto scolastico privato e non emergano evidenti controindicazioni all’interesse del minore (in particolare riconducibili a sue insite difficoltà di apprendimento, a particolari fragilità di inserimento nel contesto dei coetanei, a esigenze di coltivare studi in sintonia con la dotazione culturale o l’estrazione nazionale dei genitori ecc.), la decisione dell’Ufficio giudiziario – in sé sostitutiva di quella della coppia genitoriale – non può che essere a favore dell’istruzione pubblica, secondo i canoni dall’ordinamento riconosciuti come idonei allo sviluppo culturale di qualsiasi soggetto minore residente sul territorio (Trib. Milano, 18 marzo 2016, n. 3521).
La scelta di iscriversi ad una facoltà universitaria, terminati gli studi superiori, configura una scelta libera e volontaria (in luogo di quella lavorativa) non idonea a fondare la pretesa di pagamento di un assegno alimentare; se pur sia realizzazione di una legittima aspirazione, lo studente deve parametrarla alle proprie condizioni di reddito. Lo stesso vale per i costi di istruzione e dei libri stessi che non possono ricondursi alla categoria dei bisogni primari posti a carico dei congiunti (Trib. Bergamo, 22 dicembre 2015).
L’iscrizione del figlio a prestigioso e costoso istituto scolastico privato deciso unilateralmente da un genitore ai fini di consentire allo studente la conclusione del ciclo di studi non comporta l’obbligo di restituzione a carico dell’altro genitore dissenziente su siffatta spesa. Infatti, quest’ultimo non può dunque essere obbligato della restituzione di un importo sulla cui spesa non era d’accordo per ragioni astrattamente condivisibili ovvero, comunque, non manifestamente pretestuose (Trib. Genova, 27 maggio 2014).
La mancata corresponsione da parte del padre del contributo di mantenimento del figlio alla madre, in assenza di postulati e comprovati pregiudizi economici ulteriori rispetto alla sola omissione, non consente al figlio di attivare la tutela risarcitoria atipica prevista dall’art. 2043 c.c. Nella prima fase di vita e sino alla maggiore età del figlio, l’unico soggetto legittimato ad agire giudizialmente per ottenere il pagamento del contributo è la madre tramite lo strumento tipico del sistema penale e civile (Trib. Torino, 5 giugno 2014).
L’obbligo del genitore separato di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne (nella specie ultratrentenne) cessa ove lo stesso, benché dotato di un patrimonio personale, sia ancora dedito (a spese del genitore) agli studi universitari presso una sede diversa dal luogo di residenza familiare, senza aver ingiustificatamente conseguito alcun correlato titolo di studio o una possibile occupazione remunerativa (Cass. 6 dicembre 2013, n. 27377).
Il provvedimento emesso ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c., con il quale il giudice, nella controversia insorta tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale, abbia irrogato una sanzione pecuniaria o condannato al risarcimento dei danni il genitore inadempiente agli obblighi posti a suo carico, rivestendo i caratteri della decisorietà e della definitività all’esito della fase del reclamo (a differenza delle statuizioni relative alle modalità di affidamento dei minori), è ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 11 Cost. (Cass., 21 febbraio 2014, n. 4176).
Elena Falletti, articolo, tratto da In Pratica Famiglia, pubblicato il 28/01/2019
www.altalex.com/documents/biblioteca/2019/01/28/disciplina-del-pactum-fiduciae-nel-rapporto-di-mantenimento-del-figlio-maggiorenne
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ASSEGNO DIVORZILE
Tribunale di Torino: criteri per la determinazione dell’assegno divorzile in fase presidenziale
Tribunale di Torino, settima Sezione
Nel corso di un procedimento di divorzio, il Presidente della sez. VII del Tribunale di Torino si è pronunciato in merito ai criteri e ai presupposti necessari per la determinazione dell’assegno divorzile in favore della convenuta.
Si può determinare l’assegno divorzile in fase presidenziale? Come noto, nella fase presidenziale di un giudizio di divorzio, non è ancora possibile parlare di assegno divorzile in quanto misura a vantaggio del coniuge più debole che sorge con la sentenza che definisce il giudizio mentre l’assegno precedente è comunque un contributo al mantenimento concettualmente non diverso da quello previsto in sede di separazione personale.
È altrettanto vero, sottolinea il Presidente, che i provvedimenti economici adottabili ex art. 708 c.p.c. hanno natura e funzione composita, cautelare e al tempo stesso anticipatoria, «cosicché non sarebbe giustificato onerare una delle parti di una contribuzione destinata verosimilmente alla revoca o alla riduzione all’esito del giudizio». Non avrebbe nessuna giustificazione una ricostruzione sistematica nella quale il Giudice del divorzio sia vincolato alle statuizioni della separazione (stante il richiamo ai diversi criteri ex art. 5 l. Legge divorzio.) e allo stesso modo una rivalutazione può avvenire in sede presidenziale in virtù della citata funzione anticipatoria e, in senso lato, cautelare.
Nella fase presidenziale, quindi, il Giudice è chiamato a verificare la sussistenza dei requisiti per riconoscere o escludere un assegno divorzile dovendo in particolar modo apprezzare se si siano verificati fatti nuovi che consiglino di modificare le previsioni assunte in sede di separazione dai coniugi.
Criteri per la determinazione dell’assegno divorzile. Partendo dalla regolamentazione realizzata dalle parti e fatto salvo quanto sarà meglio accertato in giudizio, il Presidente ritiene che, sulla base di quanto disposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 19287/2018, l’assegno divorzile debba essere valutato, nel caso di specie, nella sua funzione assistenziale con la conseguenza che esso deve essere contenuto nella somma necessaria per un’esistenza dignitosa considerando i criteri posti dalla giurisprudenza per valutare l’autosufficienza economica: possesso di redditi di qualsiasi specie, possesso di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari; capacità e possibilità effettive di lavoro personale in relazione a salute ed età; stabile disponibilità di una casa di abitazione.
Per questi motivi, il Presidente dispone una riduzione del contributo previsto in favore della moglie e fissa udienza di comparizione e trattazione avanti al G.I..
Redazione Scientifica Il familiarista 31 gennaio 2019
http://ilfamiliarista.it/articoli/news/tribunale-di-torino-criteri-la-determinazione-dell-assegno-divorzile-fase?utm_source=MAILUP&utm_medium=newsletter&utm_campaign=FAM_standard_06_Febbraio_2019
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ASSOCIAZIONI E MOVIMENTI
Papa ai politici: difesa della vita nascente, prima pietra del bene comune
In vista della Giornata per la vita Papa Francesco incontra il Direttivo del Movimento per la vita italiano. Nel suo discorso sottolinea che l’intera esistenza va difesa, a partire da coloro che stanno per nascere, al di là di qualsiasi fede o credo si appartenga
La Giornata per la vita fu istituita 41 anni fa dai vescovi italiani come occasione privilegiata di sensibilizzazione al valore della vita. In tutte le diocesi italiane si celebra domenica 3 febbraio, e quest’anno il tema scelto è: “E’ vita, è futuro“. Papa Francesco sottolinea l’importanza dell’iniziativa incontrando oggi, nella Sala Clementina in Vaticano, i membri del Consiglio direttivo del Movimento per la Vita italiano, 70 persone, guidati dalla presidente Marina Casini Bandini.
La difesa della vita non si compie in un solo modo. All’inizio del suo discorso Francesco ricorda che obiettivo della Giornata è affermare il valore fondamentale della vita e il dovere assoluto di difenderla, dal concepimento alla morte naturale. Ma inquadra questo dovere “in una molteplicità di azioni, attenzioni e iniziative” che coinvolgono “il complesso intreccio delle relazioni sociali”.
http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2019/02/02/0088/00185.html
Dice: Prendersi cura della vita esige che lo si faccia ‘durante tutta la vita’ e fino alla fine. Ed esige anche che si ponga attenzione alle ‘condizioni di vita’: la salute, l’educazione, le opportunità lavorative, e così via; insomma, tutto ciò che permette a una persona di vivere in modo dignitoso.
E’ ciò che da 43 anni fa il Movimento per la Vita, riconosce il Papa, in tanti modi diversi “per diffondere uno stile e delle pratiche di accoglienza e di rispetto della vita in tutto ‘l’impasto‘ della società.
La vita fa guardare con fiducia al futuro. Riprendendo poi il messaggio dei vescovi per questa Giornata, Francesco afferma che ‘la vita è futuro’, e che solo se si fa spazio alla vita si può guardare avanti con fiducia.
https://famiglia.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/23/2018/12/04/Messaggio-giornata-vita-2019.docx
Ecco perché la difesa della vita ha il suo fulcro nell’accoglienza di chi è stato generato ed è ancora custodito nel grembo materno, avvolto nel seno della madre come in un amoroso abbraccio che li unisce.
La meraviglia di fronte a Dio che genera la vita. ‘Ecco io faccio una cosa nuova!’ dice il Signore per bocca del profeta Isaia, (Is 43,19) e questo passo, citato nel messaggio per la Giornata per la vita di quest’anno, ci ricorda l’agire di Dio, entusiasta “nel generare, ogni volta come al principio, qualcosa che prima non c’era e porta una bellezza inattesa”. Com’è possibile non accorgersi di questa meraviglia, dice ancora il Signore. E il Papa si chiede come possiamo noi considerare il miracolo della vita “un’opera solo nostra, fino a sentirci in diritto di disporne a nostro piacimento?”.
Dove c’è vita, c’è speranza! Ma se la vita stessa viene violata nel suo sorgere, ciò che rimane non è più l’accoglienza grata e stupita del dono, bensì un freddo calcolo di quanto abbiamo e di ciò di cui possiamo disporre. Allora anche la vita si riduce a bene di consumo, da usare e gettare, per noi stessi e per gli altri. Come è drammatica questa visione, purtroppo diffusa e radicata, anche presentata come un diritto umano, e quante sofferenze causa ai più deboli dei nostri fratelli!
Il bene della vita nascente è un valore laico, umano e civile. Il Papa si dice grato al Movimento per la vita per il suo attaccamento alla fede cattolica e alla Chiesa, da sempre dichiarato, e nello stesso tempo per “la laicità con cui vi presentate e operate”: il valore della vita, infatti, è valore umano e civile, al di là della religione o del credo di appartenenza. “Quanti sono concepiti, afferma il Papa, sono figli di tutta la società, e la loro uccisione in numero enorme, con l’avallo degli Stati, costituisce un grave problema che mina alle basi la costruzione della giustizia” e conclude:
In vista della Giornata per la Vita di domani, colgo questa occasione per rivolgere un appello a tutti i politici, perché, a prescindere dalle convinzioni di fede di ognuno, pongano come prima pietra del bene comune la difesa della vita di coloro che stanno per nascere e fare il loro ingresso nella società, alla quale vengono a portare novità, futuro e speranza.
Il Movimento per la vita è presente in tutta Italia. Il Movimento per la vita (MPV) è la Federazione che riunisce gli oltre seicento movimenti locali, Centri e servizi di aiuto alla vita e Case di accoglienza attualmente esistenti in Italia. Si propone di promuovere e di difendere il diritto alla vita e la dignità di ogni persona, favorendo una cultura dell’accoglienza nei confronti dei più indifesi e, primo fra tutti, il bambino concepito e non ancora nato. Con diverse iniziative risponde, in modo concreto, alle necessità delle donne che vivono una gravidanza difficile o inattesa.
Adriana Masotti Vaticannews 2 febbraio 2019
www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-02/papa-francesco-udienza-movimento-per-la-vita-italiano-giornata.html
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CASA CONIUGALE
Portare il nuovo compagno nella casa coniugale
La storia con tuo marito è finita ormai da qualche mese. Il giudice ha pronunciato la sentenza di separazione e ha riconosciuto un assegno di mantenimento in tuo favore e uno per i tuoi figli, che verranno a vivere da te. In più ti ha assegnato la casa coniugale. Con comprensibile riluttanza, lui ha fatto le valige ed è andato via nonostante l’immobile sia di sua proprietà. Immobile che, da oggi in poi, sarai tu a gestire, sobbarcandoti le spese di condominio, quelle per la manutenzione ordinaria e l’imposta sui rifiuti (per la Tasi e l’Imu godrai invece dell’esenzione prevista per l’abitazione principale). A questo punto ti chiedi cosa puoi fare nell’appartamento: se cioè puoi considerarlo come se fosse tuo oppure se ti devi sentire un’ospite. Il problema si pone, in particolare, con riferimento alla possibilità di farvi entrare persone non gradite al tuo ex: i tuoi genitori, alcune amiche ed, eventualmente, anche un nuovo partner. Proprio con riferimento a quest’ultimo ti poni i maggiori problemi: non vuoi infatti che la sua presenza possa essere la scusa per farti revocare l’affidamento dei figli. Insomma, il tuo dubbio è questo: si può portare il nuovo compagno nella casa coniugale? Cerchiamo di comprenderlo meglio qui di seguito e di chiarire tutte le possibili implicazioni che si possono porre in tale ipotesi.
Assegnazione della casa coniugale: quando? Come di certo saprai, l’assegnazione della casa coniugale in favore dell’ex coniuge non costituisce una misura volta a garantire a quest’ultimo un sostegno economico, ma è indirizzata solo a realizzare il miglior interesse della prole: essa infatti mira a consentire ai figli (minorenni o maggiorenni non indipendenti) di restare nella casa ove sono cresciuti, senza subire ulteriori traumi – come potrebbe essere un trasferimento – oltre a quelli derivanti dal divorzio dei genitori. Sicché, in una coppia senza figli il giudice non ha potere di decidere sull’assegnazione dell’abitazione: l’immobile torna al legittimo titolare o, in caso di comproprietà, va diviso in natura o – se ciò non è possibile – va venduto.
Di conseguenza, l’assegnazione della casa resta finché i figli non sono autosufficienti o non decidono di andare a vivere altrove. Un’altra ipotesi di revoca della casa è l’eventuale trasferimento della moglie in un altro alloggio, fosse anche quello dei genitori o di un nuovo partner. Proprio a riguardo di quest’ultimo caso, la giurisprudenza è ormai unanime nel sostenere che il trasferimento dell’ex coniuge in casa di un compagno non solo determina la perdita dell’assegnazione della casa coniugale ma anche dell’assegno di mantenimento (non lo perdono invece i figli per i quali c’è l’obbligo di assistenza fino all’indipendenza economica).
Casa coniugale: cosa si può fare? Il coniuge che ottiene l’assegnazione della casa (di solito la moglie per via della storica preferenza della madre nella gestione dei figli in età prescolare) ha il diritto di utilizzare l’immobile secondo le esigenze proprie e della prole; ma, al pari di un qualsiasi inquilino, deve usare la normale diligenza nella gestione del bene, provvedendo alle opere di piccola manutenzione che ricadono su di lei e lasciando invece la manutenzione straordinaria al proprietario del bene.
Anche al fine di consentire ai nonni di vedere i nipoti – diritto riconosciuto ormai anche dalla legge – la madre ha la facoltà di ospitare i propri genitori all’interno della casa coniugale, nonostante l’opposizione dell’ex marito, salvo questi dimostri che la loro presenza si possa risolvere in un danno per i minori (si pensi al caso di un nonno ubriaco, violento e pericoloso).
Casa coniugale: si può ospitare un nuovo compagno? Se il trasferimento dell’ex moglie nell’abitazione di un nuovo compagno determina la revoca dell’assegnazione della casa, non è vero il contrario: nulla vieta, in teoria, che un altro uomo vada a vivere nella casa coniugale. Questo perché ciascuno è libero di ospitare a casa propria chi vuole. Peraltro, con la separazione, non c’è più alcun obbligo di fedeltà con il precedente coniuge: quindi ben venga la formazione di un nuovo nucleo familiare. Tuttavia la realizzazione di una convivenza stabile determina la perdita dell’assegno di mantenimento in capo alla moglie, la quale – anche se dovesse venir meno la nuova relazione – non potrebbe più chiedere il contributo all’ex marito una volta perso il relativo diritto.
La Cassazione è ormai pacifica nel sostenere che l’instaurazione di un legame solido, basato su una convivenza continuativa, fa perdere all’ex moglie il diritto ad essere mantenuta. Questo non vale invece per i figli, i quali vanno mantenuti fino alla raggiunta indipendenza.
Nella pratica, è però opportuno fare in modo che la nuova convivenza non crei problemi nei figli se ancora piccoli, che mal potrebbero digerire la presenza di un altro uomo sotto il tetto ove prima hanno visto il padre (specie subito dopo la separazione). Sicché, su ricorso dell’ex coniuge, la donna potrebbe essere costretta dal tribunale a iniziare la nuova relazione in forma graduale, prima con frequentazioni sporadiche – cui parteciperanno i figli – e poi man mano sempre più assidue. Il magistrato potrebbe impedire alla donna di ospitare il nuovo compagno favorendo prima un contatto tra questi e la prole, per introdurne la figura ed evitare scossoni emotivi.
In buona sostanza, l’ex coniuge può ricorrere al tribunale per impedire l’ingresso del nuovo partner in casa propria non tanto per tutelare l’immobile o il proprio orgoglio personale, ma solo l’interesse dei minori. Ne deriva che laddove la presenza di un nuovo uomo non sia mal vista dai figli, non ci sono motivi per opporsi all’inizio della convivenza.
Redazione La Legge per tutti 29 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/272925_portare-il-nuovo-compagno-nella-casa-coniugale
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 4, 30 gennaio 2019
v Un villaggio solidale a Lurano (BG). Nell’estate 2018 il Consorzio Famiglie e Accoglienza (Fa), che fa parte del gruppo cooperativo Cgm, ha inaugurato il Villaggio Solidale a Lurano (3.00 abitanti circa), in provincia di Bergamo. www.consorziofa.it/villaggio-solidale
Un posto che ricordasse un po’ le vecchie corti bergamasche, dove ci si dava sempre una mano». Il Villaggio comprende 18 appartamenti. Cinque sono destinati alle famiglie di volontari, gli altri 13 a chi ha bisogno” www.vita.it/it/article/2019/01/10/la-solidarieta-che-fa-bene-anche-al-portafoglio/150307
v Festival della vita 2019. Nona edizione. Promosso dal Centro Culturale San paolo Onlus. Come è ormai tradizione il Cisf ha volentieri concesso il proprio patrocinio ad un evento a promozione e tutela del valore della vita che, oltre alle giornate intensive di fine gennaio-inizio febbraio, vede un intenso programma di eventi in tutt’Italia. Quest’anno il tema è “vivere è…partecipare!“.
http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0419_allegato1.pdf
v Doha (Qatar), 22-23 gennaio 2019. Prospettive mussulmane e cristiane sulle cure palliative e sul fine vita (Muslim and Christian Perspectives on Palliative Care and End of Life). Con la firma di una Joint Declaration on End of Life and Palliative Care (22 gennaio 2019) Da parte della World Innovation Summit for Health (WISH) in Qatar e dalla Pontificia Accademia per la Vita
www.academyforlife.va/content/dam/pav/documenti%20pdf/2019/Qatar_gennaio2019/short%E2%80%93Joint%E2%80%93Declaration_PAL_Care.pdf
si è aperta a Doha la due giorni di lavori organizzata con la Georgetown University (Washington e Doha) e con il Programma Wish della Qatar Foundation. Al centro: le cure palliative e il fine vita nella prospettiva islamo – cristiana. [Saluto iniziale di Mons. Paglia]
www.academyforlife.va/content/dam/pav/documenti%20pdf/2019/Qatar_gennaio2019/Doha_saluto%20Mons%20Paglia%20ITA.pdf
v USA. Cosa rende buona la vita da anziani? Cittadinanza e giustizia nelle società che invecchiano. (What Makes a Good Life in Late Life? Citizenship and Justice in Aging Societies). Un nuovo Rapporto dell’Hastings Center (USA) invita la bioetica ad allargare il proprio punto di vista, affrontando il tema delle iniquità che colpiscono gli anziani e i loro caregiver. Il Report è composto da 16 interventi dei principali esperti di varie discipline (dalla bioetica all’architettura, dall’economia all’urbanistica).
www.thehastingscenter.org/publications-resources/special-reports-2/what-makes-a-good-life-in-late-life-citizenship-and-justice-in-aging-societies
v Rapporto 2019 Moige. Venduti ai minori. Indagine sull’accesso dei minori ad alcol, tabacco, cannabis, azzardo, pornografia e videogiochi 18+. “Nella pubblicazione vengono presentati i risultati di una ricerca sulle “trasgressioni” che mettono in atto i ragazzi di un’età compresa tra gli 11 e i 17 anni. La ricerca ha coinvolto gli studenti di svariate scuole primarie di primo e secondo grado, su tutto il territorio italiano […] campione composto da 1.388 soggetti: 794 maschi, 591 femmine, età media 14 anni […]” www.moige.it/media/2019/01/Venduti-ai-minori.pdf
v Il dolore negato alle donne. Un intervento di Mons Mario Delpini, arcivescovo di Milano, in occasione di una sua visita alla clinica Mangiagalli di Milano (20 dicembre 2018) che dà voce ai “«lamenti proibiti», quelli censurati dal pensiero unico e dal «politicamente corretto», siano quelli delle donne che vorrebbero essere madri e non riescono, sia di coloro che decidono, con l’interruzione volontaria della gravidanza, di non diventarlo” […] Noi vogliamo essere vicini a coloro che soffrono, che piangono e si lamentano, non per abitudine al malumore, ma per ferite profonde che interrogano Dio e provocano la vicinanza e la solidarietà degli altri. Raccogliamo tutto questo pianto e chiediamo che Dio, come sempre fa, ascolti e, quindi condivida, consoli e ricolmi della sua gioia”. [Anna Maria Braccini, Avvenire 21 dicembre 2018]
www.avvenire.it/attualita/pagine/delpini-alla-mangiagalli-milano-donne-aborto
v Save the date
v Nord: Primo incontro nazionale Giovani AIP (Associazione Italia di Psicogeriatria), intervento formativo (con crediti ECM) promosso dall’AIP, TORINO, 7-9 febbraio 2019.
www.psicogeriatria.it/usr_files/eventi/corsi-regionali/7-8-9-febbraio-2019-torino.pdf
- Nord: Nevo Drom. Nuove prospettive nell’accoglienza di minori rom, evento promosso da Famiglie per l’Accoglienza propone, Città di Torino, Casa dell’Affidamento e Comunità Papa Giovanni XXIII, Torino, 9 febbraio 2019.
www.famiglieperaccoglienza.it/wp-content/uploads/2019/01/Volantino-Rom_9-febbraio-Torino.pdf
- Centro: I diritti dell’infanzia e il contributo della psicologia, incontro di formazione promosso da Ideas Group Srl e Ordine Psicologi Regione Toscana (con ECM professionali), Firenze, 15 febbraio 2019. www.ordinepsicologitoscana.it/public/files/10929-brochure_OPT_15_02.pdf
- Sud: I diritti della persona malata di Alzheimer. Aspetti etici, assistenziali, legali, 2.o convegno nazionale, promosso da Madonna del Buon Cammino – Residenza per anziani e da Alzheimer Italia – Bari, Altamura (BA), 8 febbraio 2019.
www.csvbari.com/new/wp-content/uploads/2019/01/ConvegnoAlzheimer2019_R.pdf
- Estero: I Don’t Want to Go! Children Who Resist Post-Separation Contact with a Parent (Non ci voglio andare! Bambini che resistono al contatto con un genitore dopo la separazione), Conferenza Annuale della AFCC Sez. Canada (Association of Family and Conciliation Courts), Calgary (Canada), 14-15 marzo 2019. https://docs.wixstatic.com/ugd/f0ed2d_3402a45c3a5e45fe896e5cff74fefbb8.pdf
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
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CHIESA CATTOLICA
L’insegnamento sulla famiglia di papa Francesco è ricevuto positivamente dalla stragrande maggioranza, dice Farrell
“In Amoris Lætitia non c’è niente di contrario al Vangelo. Che cosa fa Francesco? Va al Vangelo”. Il cardinale Kevin Farrell, che è prefetto del Dicastero per Laici, famiglia e vita, mette in discussione i cardinali dei “dubia” che vogliono che il papa spieghi il suo documento Amoris Lætitia, dato che apre alla possibilità di ricevere la comunione per i cattolici divorziati e risposati.
“Non deve essere fatta nessuna correzione”, ha detto a The Tablet in un’intervista. “In Amoris Lætitia non c’è nulla di contrario al Vangelo. Che cosa fa Francesco? Va al vangelo. Guardate ogni capitolo, deriva direttamente da uno dei Vangeli o dalle lettere di San Paolo”.
Nel 2016 quattro cardinali, due dei quali nel frattempo sono deceduti, pubblicarono una serie di domande – o “dubia” – al papa chiedendo di chiarire il suo insegnamento. E in una sfida all’autorità papale mai vista nei secoli, il cardinale Raymond Burke, uno dei firmatari dei “dubia”, sostenne che se Francesco non fosse intervenuto con le necessarie rettifiche, avrebbe potuto essergli fatta una correzione.
Ma il cardinal Farrell ha detto che l’insegnamento è chiaro: il papa apre una via perché i divorziati risposati tornino alla comunione, seguendo un processo di discernimento e sulla base del caso per caso.
“Non è solo il fatto di andare da un prete e dire: ‘posso ricevere la comunione?’. È un processo, un processo che potrebbe impiegare un anno o due o tre. Dipende dalle persone. Fondamentalmente, ha a che fare con l’incontro con le persone lì dove sono”, spiega. “Abbiamo due persone che sono divorziate e risposate. Sono al di fuori della Chiesa per sempre? Non c’è alcuna possibilità di redenzione? Nessuna? Volete dirmi che Cristo e la redenzione di Cristo non operano per quelle persone? No”.
Il 71enne prefetto della famiglia ha spiegato che l’opposizione a Amoris Lætitia viene da una minoranza nella Chiesa e che il suo dipartimento ha le prove che l’insegnamento di Francesco viene accettato. “Da quel che vede da informazioni che ci arrivano dalle conferenze episcopali e dai gruppi di laici coinvolti nella vita matrimoniale e familiare nelle diverse parti del mondo, quell’insegnamento è ben ricevuto, in grandissima parte ben ricevuto”, ha detto. “Ci sono alcuni elementi negli Stati Uniti, sul continente africano e alcuni qui in Europa – ma non molto forti – dove c’è una visione di ritorno ad una Chiesa che io credo non sia mai esistita”, ha detto. “In fondo è un conflitto ideologico”.
Il cardinale è in carica nel suo dicastero – una fusione tra due consigli pontifici – dall’autunno del 2016. Le sue competenze comprendono la diffusione di Amoris Lætitia l’organizzazione dell’Incontro mondiale delle famiglie e il rafforzamento di un ministero ecclesiale nei confronti delle coppie, delle famiglie e dei laici. È stato con papa Francesco alla GMG di Panama, un altro evento a cui sovrintende il suo dipartimento.
Il cardinale vuole che i semplici cattolici assumano ruoli direttivi nella Chiesa e vuole che il lavoro di accompagnamento delle coppie sposate e delle famiglie sia assunto da laici. “È molto importante che i laici assumano responsabilità nella Chiesa, e per il futuro della Chiesa”, ha detto aggiungendo che la gestione del dicastero per la famiglia potrebbe essere affidata ad una donna o a un uomo non ordinato.
Durante l’Incontro mondiale delle famiglie a Dublino, ha spiegato, l’80% di coloro che hanno parlato erano laici e coppie sposate, mentre a Filadelfia, tre anni prima, solo il 20% erano laici. Ha aggiunto che 34.000 persone hanno accolto l’offerta di corsi di teologia, un numero doppio rispetto a Filadelfia.
“Volevamo assicurare che Amoris Lætitia fosse affrontata da un punto di vista pratico, non da un punto di vista teologico-canonico. E, quindi, non ho inserito corsi sul diritto canonico. Neanche uno”, ha aggiunto.
Guardando avanti al vertice sugli abusi del 21-24 febbraio, il cardinale ha detto che spera che emergano chiare linee guida, compresi dei protocolli per assicurare che qualsiasi vescovo che cerchi di coprire degli abusi sia ritenuto responsabile e sia rimosso dal suo incarico. “La mia speranza è che ci possa essere una visione chiara di dove intendiamo andare in futuro”, ha detto.
“E poi, invece di passare il problema a Roma, credo che i vescovi debbano assumersi la responsabilità per la situazione nella loro nazione”. Spera che all’incontro di febbraio si dica: “Ci sono linee guida, ci sono principi della Chiesa universale – ora metteteli in pratica”. Ma mette in guardia dal fatto che “si stiano creando aspettative per questo incontro a cui umanamente non si può rispondere”.
Durante l’intervista, il cardinale ha ripetuto il suo diniego di aver saputo qualcosa sul comportamento dell’ex cardinale Theodore MsCarrick, ex arcivescovo di Washington, che è stato accusato in modo credibile di abuso su minori e molestie sessuali a seminaristi. Il cardinale è stato vescovo ausiliare a Washington dal 2002 al 2007. “Vivevo nella residenza episcopale, dove c’erano altri sei preti e due vescovi. Ho mai saputo qualcosa? No. Ho mai sospettato? No. Ha mai abusato seminaristi a Washington? No. Non sono mai andato da nessuna parte con lui”, ha detto. “Ero il vicario generale, ero uno sempre negli uffici, che si occupava di tutti i problemi. L’arcivescovo della diocesi è impegnato fuori. Va a Roma, va in America Latina, in tutto il mondo”.
È stato il modo in cui è stato trattato il caso McCarrick che era al centro della testimonianza di Carlo Maria Viganò contro papa Francesco. Il cardinale ha detto che, mentre in anni recenti i papi hanno incontrato opposizione, ciò che sta affrontando il papa attuale è “senza precedenti”. È un’opposizione “feroce” e mostra “com’è la nostra cultura”. Ma sostiene che papa Francesco ha messo la Chiesa su un percorso da cui non si esce.
“Direi che ha messo la Chiesa su una strada evangelica”, ha detto il cardinale alla fine. “Non intendo ‘non-cattolica’. Intendo evangelica, secondo il Vangelo”.
Intervista a Kevin Farrell, a cura di Christopher Lamb “www.thetablet.co.uk“ del 25 gennaio 2019 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201901/190131farrelllamb.pdf
La vera prudenza: il ministero e i suoi travagli
Che cosa sia “prudenza”, nel campo del ministero ordinato, non sembra un dato acquisito. Anzi, forse i passaggi più delicati, anche nella storia della Chiesa, sono quelli in cui non si può dire con sicurezza che cosa sia veramente “prudente”. Da un lato, infatti, appare chiaro che sul piano dello studio e della ricerca, debbano esservi forme audaci di pensiero, che assumano il “cambio di paradigma” e la “rivoluzione culturale” di cui leggiamo in VG 1-6. Nello stesso tempo, la amministrazione e la pastorale sembrano inclinare, piuttosto, ad una prudenza difensiva, in cui prevalgono le poche certezze del passato piuttosto che le numerose incertezze del futuro. D’altra parte un elemento trapela, nella diversità dei problemi, come fondo comune. Cerco qui di arrivarci per gradi.
a) Le questioni brucianti. Un elenco di questioni assillano ormai da decenni la identità ministeriale cattolica. Possiamo identificarli in questi tre:
- Il criterio del “celibato” come garanzia di vocazione e di svolgimento del ministero;
- Un ministero ecclesiale che possa essere attribuito e riconosciuto anche a soggetti di sesso femminile;
- Il dramma di “abusi” di cui i ministri della Chiesa si sono resi e si rendono responsabili, in una mescolanza di “autorità distorta” e “sessualità perversa”.
b) Il movimento lento. Come è evidente, su ognuno di questi punti, qualcosa di importante è già avvenuto:
- L’accesso al ministero ordinato di diaconi sposati ha introdotto nel “sistema ministeriale cattolico” una prima eccezione al celibato; addirittura si ipotizza di poter riconoscere a sposati un “munus sanctificandi”, ma non un munus regendi e docendi;
- La maggiore attenzione al ruolo femminile ha introdotto alcuni soggetti femminili in ambiti di esercizio effettivo della autorità ecclesiale, anche se non ancora nel ministero ordinato; alle donne non si fa fatica a riconoscere un “munus docendi” o un “munus regendi”, ma non un “munus sanctificandi”;
- La piaga degli abusi riguarda la Chiesa non tanto sul piano della sessualità – che ha in comune con altre forme di vita – ma sul piano della autorità. E’ la particolare affidabilità dei soggetti a rendere tanto grave e squalificante l’abuso. Su questo piano, nello scalfire la autorità intoccabile dell’ecclesiastico, la Chiesa ha già fatto cose importanti.
c) Il punto cieco. Tutti questi passaggi, tuttavia, non sono sufficienti. La “prudenza”, in questo caso, non consiste nello stare fermi, ma nel muoversi. Ora il movimento, se considera come possibile una certa “autonomia” tra i “munera” che caratterizzano il ministro, dovrà quanto prima configurare forme di “formazione”, di “vocazione” e di “servizio” che articolino in modo nuovo e originale la sequela di Cristo in termini di annuncio, di governo e di culto. L’elemento comune, in questi tre ambiti, è la differenza sessuale come luogo di mistero e di autorità. Proviamo a considerarla sui tre livelli più problematici.
a) Il ministro della Chiesa può essere sposato? La risposta è differenziata per il diaconato, per il presbiterato e per l’episcopato. Qui vi è una lunga tradizione, occidentale e orientale, che conosce diverse soluzioni. Prudenza vuole che non si improvvisi; ma prudenza vuole anche che non si resti fermi. Uscire da una disciplina che viene percepita come una dottrina è un compito urgente. Ripeto: è più prudente muoversi che restare fermi;
b) Il ministro della Chiesa può essere di sesso femminile? La risposta non è chiusa. Lo spazio per una “ordinazione diaconale” di candidati di sesso femminile è una via percorribile, purché non si ritenga che il principio della differenza sessuale sia portatore di una differenza di autorità. In questo passaggio, anche sulla base dei precedenti storici, ma con la coscienza della diversità culturale ed ecclesiale dei tempi moderni, una decisa iniziativa di apertura è l’unica forma di vera prudenza. Una prudenza attendista e diffidente rischia di apparire come la forma più pericolosa di imprudenza, quasi come una sventatezza;
c) Sugli abusi pesano, inevitabilmente, diversi fattori. Non vorrei che si trascurasse come, sul problema di comportamenti umanamente ed ecclesialmente distorti, che ledono gravemente i terzi minori, pesino sicuramente rappresentazioni rigide sia del celibato, sia del mondo femminile. Nessuno può trovare qui automatismi, ma neppure può evitare correlazioni. Non credo che si possa davvero affrontare la questione ecclesiale degli abusi se non si produce contemporaneamente una visione più equilibrata e personale del celibato e un riconoscimento più limpido e onesto della autorità femminile. Tutto questo è collegato. Guai ad affrontarlo per compartimenti stagni.
Prudenza, dunque. Come avviene in quegli incroci della storia, nei quali, per non restare imbottigliati e bloccati nella propria marcia, la forma di prudenza più consigliabile è quella di schiacciare, risolutamente, sul pedale dell’acceleratore. Scriteriato sarebbe solo ostinarsi a frenar
Andrea Grillo blog: Come se non 30 gennaio 2019
www.cittadellaeditrice.com/munera/la-vera-prudenza-il-ministero-e-i-suoi-travagli
La chiesa cattolica non è un posto per donne
“Le donne nelle posizioni di leadership nella chiesa contribuiscono decisamente a spezzare i circoli clericali chiusi” mentre “le strutture clericali hanno contribuito” in modo determinante al diffondersi degli “abusi sessuali così massicci e al loro insabbiamento”. È stato il cardinale Reinhard Marx, presidente dei vescovi tedeschi e uno dei più stretti collaboratori di papa Francesco, a pronunciare una verità scomoda, ma che in tanti condividono anche dentro la chiesa: se le donne non saranno coinvolte a pieno titolo lì dove si prendono decisioni fondamentali, trovare una via d’uscita allo scandalo degli abusi sessuali sarà molto dura.
https://www.catt.ch/newsi/la-denuncia-del-card-marx-se-la-chiesa-vuole-promuovere-la-dignita-della-donna-non-basta-basarsi-sui-testi-magisteriali-imparare-una-cultura-del-confronto
Le parole del cardinale tedesco sono state pronunciate lo scorso ottobre durante un’occasione particolare, e cioè l’ultimo sinodo generale in Vaticano dedicato ai giovani. Marx ha citato uno studio della conferenza episcopale tedesca che individuava appunto nella “gestione clericale della chiesa cattolica” una delle ragioni della gravità della vicenda abusi. La chiesa tedesca è tradizionalmente fra quelle più aperte e illuminate, e in passato si è trovata spesso in conflitto con Roma su questi temi.
Nel corso del suo intervento – pubblicato dall’inserto Donne chiesa mondo dell’Osservatore Romano – Marx ha anche aggiunto: “Per amore di credibilità, dobbiamo coinvolgere ancora di più le donne nei compiti di leadership a tutti i livelli della chiesa, dalla parrocchia alla diocesi, alla conferenza episcopale e anche al Vaticano stesso. Dobbiamo volerlo davvero e anche metterlo in pratica!”.
www.osservatoreromano.va/it/section/donne-chiesa-mondo
Quella del cardinale tedesco, tuttavia, è una voce isolata fra le alte gerarchie ecclesiali, e anche nel sinodo ha ricevuto poco sostegno. E pensare che proprio durante quell’occasione alcune associazioni di donne cattoliche avevano per la prima volta chiesto di far votare i documenti finali anche alle rappresentanti delle congregazioni religiose femminili. L’appello è caduto nel vuoto.
Tuttavia una rete di movimenti e organizzazioni è attiva ormai da tempo, in particolare nel mondo anglosassone: Voices of faith, Catholic women speak, Women’s ordination conference. In Francia c’è Comité de la jupe. Mentre in Italia alla fine del 2017 è nato il movimento Donne per la chiesa. Svincolato dai settori femminili di organizzazioni storiche come Azione cattolica o dalle Acli, fatica un po’ a trovare spazio ma ci ha guadagnato in libertà di azione e discussione, dialogando con le altre associazioni all’estero.
www.donneperlachiesa.it
Nel loro manifesto si legge: “Vediamo che le donne nella comunità esistono nella misura in cui risolvono i problemi dei protagonisti uomini. Tutti uomini. Che si tratti dell’oratorio parrocchiale, di movimenti ecclesiali o di facoltà teologiche, il modello femminile che viene proposto è sempre quello di ‘stampella’ a sostegno delle figure maschili (presbiteri, docenti o mariti)”.
Paola Lazzarini Orrù è la promotrice del movimento, e a proposito del clericalismo – il grande male della chiesa indicato anche da papa Francesco – spiega a Internazionale: “Clericalismo significa centrare ogni autorità, ogni potere, ogni sacralità nelle mani di pochi uomini che sono investiti di un’autorità divina. Questo crea necessariamente una dinamica per cui il potere tende a voler semplicemente replicare e difendere sé stesso. Nel momento in cui creiamo una casta sacerdotale è naturale che questa poi abbia come prima finalità quella di autopreservarsi”.
E se è vero che il papa non ha messo la questione femminile al centro del processo di riforma della chiesa, va notato che allo stesso tempo la sua strategia – aprire processi sugli scandali, allargare la partecipazione e il dibattito, oltre che definire aspetti normativi nuovi – ha consentito quanto meno che si ricominciasse a discutere di questo tema, cosa che finora si era fatta solo nelle periferie estreme della galassia cattolica.
Nel corso del 2018 è scoppiato il caso degli abusi sessuali commessi dai preti sulle suore. Ne è nata una campagna di denuncia internazionale portata avanti dalle associazioni di donne cattoliche. Di recente nello stato del Kerala, in India, ha fatto molto scalpore la vicenda di una suora delle Missionarie di Gesù stuprata più volte da un vescovo ora dimissionario, monsignor Franco Mulakkal.
“Non parlare della condizione di subalternità della donna nella chiesa”, spiega Paola Lazzarini “rende possibile tacere su questi abusi. Nel momento in cui alle donne non è consentito far sentire la propria voce, non gli è consentito di entrare nelle stanze in cui si prendono le decisioni, si permette un abuso di potere su di loro, che poi si presenta nelle forme di quello sessuale, ma non c’è solo quello”.
D’altro canto sullo sfondo di queste vicende – le violenze sui minori e quelle sulle donne – si intravede ormai un gigantesco problema di formazione dei sacerdoti su temi come l’affettività, la sessualità, la relazione di parità con l’altro sesso. “La chiesa non ha mai cercato di formare maschi e femmine sani dal punto di vista della relazione sessuale”, dice Emilia Palladino, docente di etica della condizione femminile e della famiglia alla facoltà di scienze sociali dell’università Gregoriana a Roma. “Si presume che per costruire una buona relazione fra i sessi bisogna limitare e demonizzare il desiderio, così come la componente sessuale, ma così si riducono le persone a un branco di schiavi dei loro impulsi. Anche l’esaltazione degli anni cinquanta e della figura di santa Maria Goretti è frutto di questa mentalità, senza nulla togliere naturalmente alla santa”.
In Vaticano non c’è nessuna donna a capo di un dicastero, ed è difficile trovare donne negli organismi che prendono decisioni. “Il protagonismo ecclesiale”, osserva Emilia Palladino, “non significa solo che lo donne diventino delle guide ma significa anche questo. Il loro ruolo è stato riconosciuto fino agli anni settanta e ottanta, ma poi sono stati fatti tanti passi indietro. Non solo sulle donne, anche sui giovani, che da ruoli di possibili responsabilità sono finiti a fare gli animatori del canto, e non si sono spostati da lì. Dobbiamo venir fuori da una situazione di stallo: abbiamo passato vent’anni a discutere di verginità e purezza delle donne”.
Secondo Paola Lazzarini per aggirare il tabù sul “sacerdozio femminile” la prima cosa da fare è dividere “governance e ministero ordinato: le donne devono poter accedere ai luoghi dove si prendono le decisioni”.
Qualche segnale positivo c’è. L’estate scorsa una commissione voluta dal papa e composta da uomini e donne ha concluso i suoi lavori sul diaconato femminile: l’accesso delle donne al primo grado dell’ordinazione, aperto anche ai laici. I diaconi possono svolgere diverse mansioni fra le quali amministrare il battesimo, leggere le scritture ai fedeli, guidare la preghiera, presiedere i riti funebri, benedire i matrimoni.
La commissione ha svolto un’indagine di tipo storico e ha confermato che durante il primo millennio le diacone erano tante nella chiesa. “Storicamente ci sono tutte le pezze d’appoggio possibili”, dice Emilia Palladino, “non penso che ci sia nessuna preclusione affinché le donne facciano parte di questo primo passo dell’ordinazione”.
Francesco Peloso www.internazionale.it 30 gennaio 2019
www.internazionale.it/notizie/francesco-peloso/2019/01/30/chiesa-donne
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Tutela dei minori: Regolamento e indicazioni
Consiglio Episcopale Permanente 14 gennaio 2019.
Introduzione Card. Bassetti
“Le nostre decisioni devono seguire un metodo, supportato da un’idea forte e da continue verifiche”. Lo ha detto il Card. Gualtiero Bassetti introducendo i lavori della sessione invernale del Consiglio Episcopale Permanente della CEI (Roma, 14-16 gennaio).
“Vorrei che sapessimo mostrare al Paese – ha aggiunto poi – che noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative di questo nostro tempo, convinti come siamo che possono essere affrontate e superate. È con questo spirito che iniziamo i lavori di questa sessione del Consiglio Permanente, dove siamo chiamati a confrontarci innanzitutto sugli Orientamenti pastorali con cui costruire condivisione di sguardo e d’impegno tra le Chiese che sono in Italia. In questi giorni, inoltre, approveremo il Regolamento del Servizio nazionale a tutela dei minori e degli adulti vulnerabili; in questo ambito daremo pure gambe ai Servizi regionali, fino all’individuazione dei referenti diocesani e delle necessarie iniziative formative”.
In conclusione un appello: “governare il Paese – ha detto il Cardinale Presidente – significa servirlo e curarlo come se lo si dovesse riconsegnare in ogni momento. Ai liberi e forti di oggi dico: lavorate insieme per l’unità del Paese, fate rete, condividete esperienza e innovazione. Come Chiesa assicuro che faremo la nostra parte con pazienza e coraggio, senza cercare interessi di bottega, per meritarci fino in fondo la considerazione e la stima del nostro popolo. 14 gennaio 2019
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È disponibile il Regolamento del Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili nella Chiesa, approvato dal Consiglio Permanente che si è riunito a Roma dal 14 al 16 gennaio 2019. Il Regolamento spiega la struttura, i suoi compiti e le sue finalità.
www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2019/01/30/Servizio-Nazionale-Tutela-Minori-Regolamento.docx
Un secondo testo concerne le indicazioni per la costituzione dei Servizi regionali e inter-diocesani, decisivi per quella finalità di prevenzione e di formazione a cui la Chiesa italiana si sente chiamata per rispondere alla tutela dei minori e degli adulti vulnerabili.
Card. Bassetti: “Noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative”
Non tralascia i temi politici del momento il card. Gualtiero Bassetti introducendo il primo Consiglio episcopale permanente del 2019. Arrivare all’assemblea di maggio “con un progetto condiviso”, l’obiettivo, per “mostrare al Paese che noi cattolici non disertiamo le sfide di questo nostro tempo”. Un doppio ringraziamento – agli abitanti di Torre di Melissa per la “solidarietà corale” verso i migranti – e “quanti – non da ultimo le testate giornalistiche – si sono adoperati per evitare il raddoppio della tassazione sugli enti che svolgono attività non profit”. A 100 anni dall’appello di don Sturzo, l’esortazione a lavorare insieme per l’unità del Paese. Ai vescovi: “Ripartiamo da questo stile sinodale”. Tra le proposte: dare più voce alle Conferenze episcopali regionali
“Vorrei arrivare all’Assemblea di maggio con un progetto condiviso, così che si possa dire: la Chiesa italiana non si lamenta, ma si prepara a fare di più e meglio”. È la proposta lanciata dal card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, nell’introduzione al Consiglio episcopale permanente, dedicata tra l’altro ad alcuni temi politici del momento.
“Vorrei che sapessimo mostrare al Paese che noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative di questo nostro tempo, convinti come siamo che possono essere affrontate e superate”, l’auspicio del cardinale, che dice un “grazie” agli abitanti di Torre di Melissa, la piccola cittadina calabrese che ha saputo esprimere una “solidarietà corale” verso quella cinquantina di migranti in balia delle onde, esempio di accoglienza in controtendenza rispetto al dibattito attuale sulle migrazioni.
“Sui poveri non ci è dato di dividerci, né di agire per approssimazione”, il monito di Bassetti: “La stessa posizione geografica del nostro Paese e, ancor più, la nostra storia e la nostra cultura, ci affidano una responsabilità nel Mediterraneo come in Europa”.
Il secondo ringraziamento del presidente della Cei è riservato “a quanti – non da ultimo le testate giornalistiche – si sono adoperati per evitare il raddoppio della tassazione sugli enti che svolgono attività non profit”. “Il mondo del Terzo settore riveste nella società italiana un ruolo determinante”, sottolinea il presidente della Cei a proposito dell’Ires: “Più di ieri c’è bisogno di questa società civile organizzata, c’è bisogno dei corpi intermedi, di quella sussidiarietà che risponde alle povertà e ai bisogni con la forza dell’esperienza e della creatività, della professionalità e delle buone relazioni”.
“Governare il Paese significa servirlo e curarlo come se lo si dovesse riconsegnare in ogni momento”, l’appello finale, a 100 anni dall’appello di don Sturzo. “Ai liberi e forti di oggi – l’attualizzazione di Bassetti – dico: lavorate insieme per l’unità del Paese, fate rete, condividete esperienza e innovazione”. “Come Chiesa assicuro che faremo la nostra parte con pazienza e coraggio, senza cercare interessi di bottega, per meritarci fino in fondo la considerazione e la stima del nostro popolo”, garantisce il presidente della Cei.
“Portiamo nel cuore le fatiche e le speranze della nostra gente, delle nostre Chiese e dei nostri territori, coinvolti come siamo dalla loro domanda di vita: domanda che ci interpella in prima persona, rispetto alla quale avvertiamo la responsabilità di non far mancare il contributo sostanziale di quell’esperienza cristiana che passa dall’annuncio credente e dalla testimonianza credibile del Vangelo”. Comincia con questo sguardo di condivisione l’introduzione del card. Bassetti al primo Consiglio episcopale permanente del 2019.
Di fronte a “venti che disperdono, provocando in molti confusione e smarrimento, ripiegamento e chiusura, dobbiamo impegnarci a lavorare meglio”, il primo appello ai cattolici: “Se la confusione è grande, non dobbiamo essere noi ad aumentarla; se ci sentiamo provocati o criticati, dobbiamo cercare di capirne le ragioni; se siamo ignorati, dobbiamo tornare a bussare con rispetto e convinzione; se veniamo tirati per la giacca, dobbiamo riflettere prima di acconsentire e fare”.
No, allora, allo scoraggiamento e alla sfiducia, a quella forma di male che, travestito da indifferenza, “si impadronisce delle paure per trasformarle in rabbia”: “Temo l’astuzia che si serve dell’ignoranza. Temo la vanità che avvelena gli arrivisti. Temo l’orizzonte angusto dei luoghi comuni, delle risposte frettolose, dei richiami gridati”. “La relazione cristiana non è un galateo o una lezione di buone maniere”: bisogna “pensare meglio e agire con discernimento e concretezza”, come ci esorta a fare il Papa.
“Quando il popolo è confuso, il modo migliore per rispondere al nostro dovere non è quello di proporre facili rassicurazioni, lasciando capire che poi tutto s’aggiusta o che, comunque, altri sono quelli che devono pensarci”. Ai cattolici, il presidente della Cei chiede di confrontarsi con franchezza e “assumere con determinazione le scelte necessarie, così da essere non solo più efficienti, ma soprattutto più chiari e uniti”, senza limitarsi alle critiche. L’improvvisazione o il pressappochismo non fanno parte del patrimonio del cattolicesimo politico, la tesi del cardinale:
“Non possiamo limitarci a rincorrere l’attualità con comunicati e interviste; non possiamo perdere la capacità di costruire autonomamente la nostra agenda, aperti a ciò che accade – a partire dalle emergenze che bussano ogni giorno alla porta – ma fedeli a un nostro programma pastorale, che è poi il Vangelo di nostro Signore, incarnato in questo tempo”.
“Le nostre decisioni – spiega – devono seguire un metodo, supportato da un’idea forte e da continue verifiche, da un luogo di elaborazione culturale che non sia semplicemente una vetrina per proporre se stessi. Ci serve metodo anche per utilizzare al meglio le risorse materiali e finanziarie che i cittadini e i fedeli mettono a disposizione della Chiesa; ci serve metodo per interagire con le Istituzioni, in modo distinto e collaborativo; ci serve metodo per guardare avanti con fiducia e impegno”.
Dare più voce alle Conferenze episcopali regionali, una delle proposte: non per “grandi riforme”, ma per renderle maggiormente protagoniste e “maturare quell’arte del governo che rende tutti responsabili e gratifica chi compie al meglio il proprio dovere”. “Ripartiamo da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la gente, per consigliare, sostenere, consolare”, l’esortazione indirizzata ai vescovi: “Sarà, allora, più facile distinguere le buone idee dalle cattive, adottare i provvedimenti più incisivi, scegliere i collaboratori più validi”.
M. Michela Nicolais Agenzia SIR 14 gennaio 2019
www.agensir.it/chiesa/2019/01/14/card-bassetti-noi-cattolici-non-disertiamo-le-sfide-impegnative
XXI Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare
Si svolgerà ad Assisi dal 25 al 28 aprile 2019 la XXI edizione della Settimana Nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare e avrà per tema: Gaudete et exultate nell’Amoris lætitia: vie di santità coniugale e familiare.
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Relatori d’eccellenza accompagneranno le giornate del convegno che sarà anche l’occasione per allenarsi su nuove frontiere della pastorale familiare, attraverso 12 workshop da vivere come una vera palestra per riportare ossigeno nelle proprie Chiese locali.
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CONSULENZA COPPIA E FAMIGLIA
Audizione della Presidente dell’AICCeF in Commissione Giustizia del Senato
Il 31 gennaio 2019 scorso la Presidente Stefania Sinigaglia ha partecipato all’audizione presso la Commissione Giustizia del Senato nell’ambito della discussione pubblica sui Disegni di legge per la riforma del Diritto di famiglia, ed in particolare sulla bigenitorialità e sull’affido condiviso.
Invitati all’audizione sono stati i rappresentanti delle associazioni di psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, assistenti sociali e consulenti familiari. Ecco il sunto dell’intervento che la Presidente ha sviluppato nei 10 minuti che sono stati concessi agli auditi.
Ringrazio il Presidente della Commissione per l’invito a questa audizione per la discussione sui Disegni di legge sull’affido condiviso.
Io sono qui in veste di Presidente nazionale dell’AICCeF, Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari, fondata il 5 febbraio del 1977, che raccoglie e tutela i professionisti Consulenti della coppia e della famiglia. È un’Associazione professionale che, in base allo Statuto, tutela la professionalità dei propri iscritti, tiene ed aggiorna l’Elenco professionale di coloro che ritiene abilitati all’esercizio della professione di Consulente di coppia e di famiglia. L’Associazione è iscritta nell’Elenco delle Associazioni professionali che rilasciano l’attestazione di qualità dei servizi resi, presso il Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 7 della legge n.4/2013.
E sono qui per fornire un contributo intellettuale alla discussione generale, finalizzato allo sviluppo del bene comune “famiglia”, da parte di un numeroso gruppo di professionisti che si occupano di consulenza familiare socio-educativa per il sostegno alla coppia e alla famiglia con difficoltà relazionali e comunicative.
In primis sento la necessità di presentare la professione di Consulente della coppia e della famiglia e spiegare perché sta tanto a cuore alla categoria la legislazione in materia di affido e di genitorialità condivisa.
Il Consulente della coppia e della famiglia (chiamato anche Consulente Familiare) è un professionista socio educativo, che aiuta il singolo, la coppia e il nucleo familiare a mobilitare, nelle loro dinamiche relazionali, le risorse interne ed esterne per affrontare crisi, cambiamenti e situazioni difficili, che normalmente avvengono nel ciclo di vita familiare. Affianca la coppia e la famiglia nel corso della sua storia evolutiva (dell’ intero ciclo di vita della famiglia) per offrire, nella quotidianità e nell’emergenza, consulenza e sostegno in ordine a problematiche come: difficoltà di comunicazione e problemi di relazione; disarmonia e conflitto di coppia; educazione alla genitorialità responsabile; problemi della sfera sessuale; richieste di separazione; situazioni di smarrimento nell’ambito della coppia, gravi situazioni di tradimento, di aggressività e di violenza intrafamiliare. Perciò siamo dentro al problema dell’affido in caso di separazione.
La mediazione familiare. Primo argomento che voglio portare alla Vs. attenzione riguarda la Mediazione familiare come intesa nei DDL 735 (Pillon).
Per sua natura questi percorsi di mediazione, così pure quello della consulenza familiare o di terapia, può essere solo volontario per poter funzionare correttamente e se reso obbligatorio perderebbe la sua attrattiva rispetto alle procedure legali. Nella nostra esperienza di Consulenti della coppia e della famiglia sappiamo bene che la consulenza familiare obbligata (così come la mediazione o la terapia) non funziona perché viene meno un elemento basilare delle relazioni d’aiuto: la decisione volontaria al cambiamento, alla risoluzione di un problema.
Lavorare per far “nascere e crescere” una coppia genitoriale richiede un lungo impegno di accompagnamento e sostegno a cui tutte le professioni che ruotano intorno alla famiglia come bene comune e bene relazionale, devono partecipare con il proprio specifico e prezioso contributo.
La figura del coordinatore genitoriale. Il coordinatore genitoriale, previsto del DDL 735, è una nuova ed ulteriore figura che si inserisce, quando nella separazione vi sono minori, nei casi di rifiuto o di esito negativo del percorso di mediazione, e qualora la conflittualità persista e viene proposta alle parti dal giudice. Chi è? Quali poteri decisionali ha?
Non vi è alcuna disposizione che preveda il vaglio delle decisioni assunte dal Coordinatore né la rispondenza delle stesse al preminente interesse del minore. Inoltre non vi è alcuna specificazione circa l’utilizzo del coordinatore genitoriale nei casi di conclamata violenza, che assume poteri decisionali ed alla quale viene riconosciuto il compito di “gestire in via stragiudiziale le controversie insorte tra i genitori di prole minorenne relativamente al piano genitoriale”. Non è prevista nessuna norma che assicuri la terzietà e l’imparzialità del coordinatore né il possesso da parte del medesimo di competenze specialistiche in materia di violenza che possa garantire un intervento efficace (quali professionisti ordinistici e non ordinistici possono essere individuati come coordinatori genitoriali? Quali competenze dimostrabili in materia?).
Bi-genitorialità e co-genitorialità. Il Ddl all’art. 11 propone di rafforzare il principio della co-genitorialità e prevede in caso di separazione tempi paritetici e equipollenti (non più di due terzi e non meno di un terzo del tempo con ciascun genitore) di frequentazione del figlio minorenne con i propri genitori e introduce il principio del “doppio domicilio”.
A nostro avviso questo articolo ci sembra che ignori che il ruolo materno e paterno sono complementari ma non equivalenti e che, soprattutto nella prima infanzia, non sempre l’uno può sostituire l’altra. Inoltre ci sembra che tempi rigidamente uguali rispondano maggiormente al bisogno del genitore di affermare i propri diritti in un conflitto, come se il figlio fosse un “oggetto patrimoniale” e non una “persona soggetto di diritto”. La convivenza paritetica del figlio/i, indipendentemente dall’analisi della situazione che ha causato la separazione (sottratta al giudice), espone al rischio di far esacerbare il conflitto, anche nelle separazioni consensuali.
Conclusioni. E’ sicuramente di vitale importanza per il bambino poter contare in maniera equa sulla partecipazione responsabile, il sostegno e la protezione di entrambi i genitori in caso di separazione; poter frequentare in modo equo il genitore con cui non vive e ricevere in armonia con il suo sviluppo infantile cure costanti e flessibili, rispettose delle sue inclinazioni naturali e aspirazioni. Per noi tenere in considerazione il minore e i suoi bisogni evidenzia la necessità di decidere la migliore soluzione per ogni bambino, la sua storia, i suoi bisogni. Sarebbe auspicabile infatti poter valutare tenendo conto delle sue peculiarità, applicando un approccio longitudinale, al fine di poter studiare gli effetti e le conseguenze a lungo termine delle scelte, per poter decidere la migliore soluzione sia in termini di affidamento, residenza e accesso.
E’ necessario, a nostro avviso, vista la delicatezza dell’argomento, che decisioni di questo tipo richiedono, una pausa di riflessione che tenga conto delle evidenze scientifiche sull’argomento e soprattutto dell’interesse superiore del minore. Un lavoro che non può prescindere dal parere autorevole dell’intera comunità scientifica, accademica e professionale. E’ fondamentale pensare a nuove misure di sostegno sociale e familiare, individuare strumenti formativi per rendere le decisioni a favore del bambino tali da tradurre nella prassi giudiziaria concreta i principi previsti dalla già esistente L. 54/2006 e che siano in grado di cambiare in meglio la vita dei nostri figli. Grazie
www.aiccef.it/it/news/l-audizione-della-presidente-alla-commissione-giustizia-del-senato.html
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COUNSELING
Anche oggi è nata una mamma!
Non sentirsela di affrontare una terza gravidanza,
poi tutto cambia incontrando un paio d’occhio che guarda e ascolta.
Oggi è di scena una nostra operatrice, giovane assistente sociale. Siamo in equipe e Miriam chiede di parlare. “Mi sento strana, come se non riuscissi a mettere a punto l’accaduto. Giulia, che presta la sua opera presso il Pronto Soccorso, ha accompagnato da me Laura, che teneva nelle mani il certificato per interrompere la sua gravidanza.”
Miriam parla di lei: “Due figli, ventisette anni e un “non sentirsela “di ricominciare”. Tante parole, tanti sentimenti, tante emozioni. Un ascolto attivo e un silenzio che prelude a diverse proposte di aiuto. Gli occhi dell’una fissi negli occhi dell’altra. Il momento è definitivo. “Non ho detto molto, anzi quasi niente, ma sono stata con lei”. Un gesto! Inatteso, anche se sperato. “Questo non mi serve più”…e Laura straccia convinta il suo certificato. Anche oggi è nata una mamma!
Paola Bonzi Aleteia 1 febbraio 2019
https://it.aleteia.org/2019/02/01/paola-bonzi-cav-nata-mamma/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it
Conflitto genitori figli
Associazioni, scrittori, istituti di mediazione familiare e centri studi a confronto sulle diverse modalità di approccio ai temi legati alla crescita. “Conosci te stesso” era la scritta che campeggiava in greco antico sul fronte del Tempio di Apollo a Delfi in Grecia. E se questa massima spirituale è stata la prescelta per esortare gli uomini di tutti i tempi a guardarsi dentro, un motivo o forse ben più di uno, dovrà pur esserci. Tra il dire e il fare, come dice il detto, c’è di mezzo il mare. E non si tratta né di mar Ionio, né di mar Egeo o Mediterraneo, bensì di un mare di differenze tra il parlato e il vissuto che, ci piaccia o no, a lungo andare genera incomprensioni, incomunicabilità, oltre ad erigere veri e propri muri che rendono le persone delle vere e proprie “isole” distanti l’una dall’altra. Distanze che si possono creare anche all’interno dei contesti familiari. Forse anche a te sarà capitato in autobus o in attesa al bancone dei prodotti freschi del supermercato, di assistere involontariamente a degli scambi furtivi di battute tra genitori in ansia per i figli adolescenti, quasi perennemente trincerati dietro le immancabili cuffiette stereo, o imbronciati all’ennesima potenza e in deficit di linguaggio parlato. Hai voglia a dire che si tratta di un’età strana o che, prima o poi, passerà. Per chi vive queste situazioni di conflittualità sotterranea o manifesta, quasi h24, le chiacchiere, come si dice, stanno a zero. Come affrontare il conflitto genitori figli? Dipende sempre dalle giovani generazioni o anche gli adulti possono fare qualche passo per tentare di ridurre le distanze intergenerazionali? Premesso che nessuno è depositario della tanto ambita sfera di cristallo, un approfondimento in più non può che fare bene, specie nelle fasi di cambiamento a cui la famiglia è sempre più esposta nei tempi che corrono. Fermo restando che ci sono conflitti e conflitti, alcuni di questi sono assolutamente necessari per una sana crescita dell’individuo. Della serie “non tutti i conflitti vengono per nuocere”.
Fase negazionista “ante litteram”. “No, no e no!” una parolina di sole due lettere con cui i genitori cominciano a confrontarsi sin dai primi anni di vita dei figli, tanto carini e teneri ma anche altrettanto determinati quando si tratta di affermare se stessi. E questa “smania” sana di differenziazione che potrebbe portare i piccoli anche a combinare i primi guai, di cui ovviamente saranno i genitori a rispondere, comincia a manifestarsi appena il “rampollo” di famiglia ha acquisito sufficiente autonomia di spostamento sulle proprie gambette.
Figurarsi quale determinazione può esserci nello stesso figlio “fotografato” a distanza di una decina di anni da quei suoi primi reiterati no! E se allora il pediatra era riuscito a tranquillizzare i neo genitori riguardo a quella sorta di “maschera di ferro” indossata dal piccoletto di casa recalcitrante a tutto e a tutti, perché la levata di scudi dell’età adolescenziale non potrebbe essere letta allo stesso modo? In fin dei conti, a dirla con Marguerite Yourcenar, “Non c’è niente di più lento e faticoso quanto la nascita di un uomo” [Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, 1951, premiato con il Prix des Critiques.].
Fase della “doppia identità” Se tuo figlio sembra avere una doppia identità: una domestica scontrosa e l’altra “social”, dinamica e “like addicted” [dipendente da], forse fa parte della crescita. Anche la delimitazione fisica dei propri spazi dovrebbe essere messa in conto. Se la stanza di tuo figlio ti dovesse diventare di punto in bianco “off-limits” o non dovessi essere più tu il confidente dei suoi segreti, come invece faceva da piccolo, mantieni la calma. Forse non è un segnale di rifiuto radicale nei riguardi della tua persona, bensì una nuova necessità legata alla sua crescita.
Quindi se dovessi vedere tuo figlio chiuso in camera e attaccato al cellulare in vena di confidenze fiume con l’amica del cuore, non andare su tutte le furie. Anche questo nuovo atteggiamento potrebbe soddisfare il suo legittimo bisogno di appartenenza al gruppo dei cosiddetti “pari” e tu, in quanto genitore, non puoi rientrarci. Se sarai in grado di accettare questa sua temporanea separazione da te, riguadagnerai terreno nel futuro più o meno immediato.
Fase esplorativa delle prove ed errori. “So io quello che devo fare, tu non ti impicciare!”: alzi la mano chi non si è mai trovato dinnanzi a frasi del genere almeno una volta nella vita! E se a pronunciarle è quello “sbarbatello” di tuo figlio che magari consideri ancora piccolo e bisognoso di protezione, il rischio che il tuo sistema nervoso vada in corto circuito è piuttosto alto. Lui, il “signorino”, esplicita manie di grandezza, ma tu vedi che ancora non si sa né rifare il letto e neanche cuocere un uovo al tegamino.
Un doppio registro, il tuo e il suo, che in parte può trovare spiegazione nel fatto che mentre l’adolescenza porta con sé fasi di grandiosità e sopravvalutazioni delle reali capacità, per i genitori i figli restano sempre piccoli. Un divario dunque difficile da colmare. Alle volte basta fermarsi, fare un bel respiro e ricordare che si cresce proprio tramite il sistema di “prove ed errori“. L’iperprotezione non produrrà altro che adulti insicuri e a pensarci bene quale genitore si augurerebbe un destino del genere?
Fase di differenziazione e del “conosci te stesso”. Col progredire delle varie fasi esplorative, dei confronti con i suoi pari, con le sfide della vita, si farà sempre più chiaro nella mente del giovane il suo personale registro di valori. Quindi se prima magari si identificava totalmente col genitore del proprio sesso di appartenenza, progredendo nella crescita, l’adolescente potrebbe essere indotto a differenziarsi dal clan familiare a tal punto, da contrapporsi in toto ai modelli proposti.
Se questo dovesse essere il tuo caso, non pensare di avere sbagliato tutto. Si sa che i modelli o si imitano o si evitano. Del resto, se è vero che è possibile risalire fino a svariate generazioni indietro, chissà di quali geni potrebbe essere portatore tuo figlio! Magari quanto a fattezze esterne, trovi che ti somigli come nessun altro, ma poi non escludere a priori che nell’intimo possa avere ben poco che lo leghi a ciò che caratterizza te.
Quante volte è capitato di sentire nei battibecchi di coppia “E’ tutto sua madre” o viceversa “Sei come tuo padre “, con la sotterranea insinuazione che ciò che non piace è un bagaglio ereditato dall’altro genitore. In queste comprensibili schermaglie di coppia, non dimenticare mai però che il figlio non è di nessuno e non deve necessariamente somigliare a qualcuno. A dirla col poeta Khalil Gibran voi genitori “Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee” [I vostri figli” è una poesia contenuta nel libro “Il Profeta” di Khalil Gibran].
Fase oppositiva dei “super-eroi fragili” Una volta entrato in contatto con la propria intima e vera natura, il giovane non sarà più disposto ad accettare compromessi e tenderà ad imporsi sfidando tutto e tutti. Ma se è vero che dalla sua avrà tutta la prorompente energia dell’età, soggetta anche alle cosiddette tempeste ormonali, ad onor del vero, va pure detto che l’altra faccia della prepotenza è spesso la debolezza. A dirla con gli esperti del centro studi Erickson che da oltre trent’anni si confrontano su queste tematiche, la “forza” degli adolescenti, per usare una metafora, è quella dei “super-eroi fragili”.
Quindi, anche dopo eventuali scontri all’ultimo insulto, cercate di lasciare sempre la porta di casa aperta, per una riconciliazione e una rinegoziazione delle regole di vita domestiche. E chissà che dopo tanto penare, a distanza di tempo, possiate anche voi nel guardare i vostri figli belli e cresciuti, dire a voi stessi con una certa soddisfazione “Il discepolo ha superato il maestro”.
Fase delle responsabilità e aspettative. Arrivati a questo stadio si potrebbe pensare che il più è ormai fatto e alle spalle, mentre anche qui, latenti si potrebbero annidare delle “false” aspettative che potrebbero continuare a dare del filo da torcere all’interno delle dinamiche familiari. Mentre infatti il figlio potrebbe ambire ad assumersi delle proprie responsabilità, potrebbe non essere così incline a farsi carico delle varie adempienze familiari. E’ questo il caso in cui se doveste essere voi, come genitori, a commissionare ai figli un qualche incarico che potrebbe suonare come “ricordati di pagare il bollo dell’auto” oppure “metti sul fuoco l’acqua della pasta”, il risultato potrebbe tramutarsi in un importo da pagare con tanto di sanzione, o in un panino rimediato con gli avanzi del frigo. Anche qui, cercate però di non farne una questione personale.
La cosa potrebbe trovare una sua spiegazione mettendo sui piatti della bilancia sia le aspettative di voi genitori verso i figli, sia gli impegni che gli stessi si assumono verso le personali priorità. Anche qui, calibrando diversamente le seppur legittime aspettative genitoriali con le responsabilità assunte dai ragazzi verso la propria vita, forse potrebbe essere più semplice raggiungere un terreno comune.
Il parere delle associazioni genitori-figli. “Tutto ciò premesso”, si direbbe in gergo legale, come affrontare queste varie fasi della vita senza rischiare di uscire soccombenti da tutti questi processi alle intenzioni e non solo? Alcune associazioni statunitensi si sono messe d’impegno a stilare una sorta di vademecum rivolto a tutti i genitori che si trovano a crescere i figli in fase adolescenziale.
I genitori restano il punto di riferimento fondamentale dei figli, nonostante tutto. Vediamo di passare in rassegna i punti nodali:
- Il confronto verbale, seppur doloroso, porta a dei passi in avanti;
- L’ascolto deve essere attento e partecipe, meglio ritagliare un momento della giornata in cui si è sicuri di non essere distolti da altro;
- Lo scambio di sguardi dovrebbe essere empatico e accogliente e non inquisitorio così da creare un ambiente fertile alla condivisione;
- Le emozioni dei figli, per quanto potenzialmente incomprensibili, vanno rispettate;
- In caso di critiche, queste vanno mosse ai comportamenti tenuti e non alla persona. Anziché dire “Sei stato uno stupido”, si deve dire “Hai fatto una cosa stupida”. In questo modo non verrà lesa l’autostima della persona;
- Negoziazione e compromesso sono le modalità da preferire. Non importa chi vinca o perda, quanto il raggiungimento di un livello condiviso;
- I genitori non sono amici, devono dare regole limitandole agli ambiti ritenuti importanti evitando di eccedere;
- In caso di sensi di inadeguatezza, consigliabile rivolgersi a persone ritenute più esperte;
- I genitori sono persone, quindi non pretendere da se stessi livelli di perfezione;
- Nei casi in cui siano stati commessi errori, limitarsi ad ammettere di aver sbagliato.
Mediazione familiare nel conflitto genitori-figli. Se nonostante gli sforzi messi in campo, la conflittualità dovesse essere sopra i livelli di guardia, cioè tale da impedire in modo pressoché costante una civile convivenza tra i componenti della famiglia, come extrema ratio potrebbe considerarsi pure il ricorso alla mediazione familiare.
Legislativamente parlando, la mediazione all’interno del contesto familiare, quale metodo di risoluzione dei conflitti familiari, inizia ad imporsi all’attenzione con l’entrata in vigore della Legge n. 54/8 febbraio 2006. (Separazione genitori e affidamento condiviso dei figli). www.camera.it/parlam/leggi/06054l.htm
Seppur nata per la risoluzione dei conflitti coniugali, si sono registrate aperture anche verso ulteriori forme di conflittualità, come quella tra adolescenti e genitori appunto. In questo ultimo caso il fine da raggiungere sarebbe quello di favorire il processo di separazione sana e pacifica tra genitori e figli.
Maria Teresa Biscarini La legge per tutti 30 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/271147_conflitto-genitori-figli
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Messina Gravidanza e ambiente familiare
L’essere umano, quando sboccia nel ventre materno, è già in relazione con l’ambiente esterno, in quanto l’utero non è solo culla ma è anche il primo mondo con il quale egli entra in contatto. Ed è questo mondo esterno che contribuisce a costruire il suo mondo interiore. Già, verso i cinque mesi di gravidanza, la madre si accorge, dai suoi movimenti, se egli dorme tranquillo, oppure è sveglio o è inquieto. Già verso la metà della gravidanza, il bambino che si sta formando, sente i suoni, avverte il dolore. Già egli condiziona, senza volerlo e senza averne coscienza, il corpo ma anche la psiche della madre, per adattare l’uno e l’altra ai suoi bisogni essenziali.
A sua volta però questo piccolo essere umano che sta crescendo, è capace di dare al mondo che lo circonda, ed in primis alla madre, al padre e agli altri familiari ma anche alla società in cui vive, qualcosa che, se a volte è causa di ansia e inquietudine, il più spesso viene vissuto come un regalo prezioso, desiderato e bramato. Ai suoi genitori può dare, senza saperlo e senza volerlo, la realizzazione dei loro sogni. Il piacere e l’orgoglio della maternità e della paternità realizzate. La gioia immensa di partecipare, inizialmente con il loro corpo e poi con le loro cure, con le loro parole, con l’affetto, con le attenzioni e sacrifici, alla formazione del più importante e complesso essere vivente da noi conosciuto.
Quando mamma e papà accarezzano insieme il pancione, si ritrovano più uniti, più solidali, più vicini, ma anche più forti e decisi ad affrontare il mondo; per modificarlo in senso positivo per loro, ma soprattutto per il loro bambino. Essi, di fronte al mistero della vita che hanno contribuito a creare, si sentono più desiderosi e disponibili alle tenerezze, più pronti all’accoglienza, più sicuri nelle sfide. Ai nonni e agli altri familiari, il piccolo che deve nascere, può dare il piacere di sapere che fra qualche mese potranno avere tra le loro braccia una nuova gioiosa vita; un piccolo caldo, allegro, cucciolo d’uomo con cui dialogare, comunicare e scambiare. Alla comunità e società degli umani, sicuramente egli si offre come un nuovo mattone indispensabile per la stessa esistenza della società, ma anche per il suo progresso e la sua espansione.
Non vi è pertanto un solo momento nel quale il bambino prende dall’esterno e non dà; come non vi è un solo attimo in cui il nuovo essere umano dà e non prende dal mondo esterno. Pertanto, sia nel bene sia nel male, egli modifica in senso positivo o negativo il mondo che lo circonda e, a sua volta, è da questo modificato. Il bambino, come tutti gli esseri viventi, cerca di adattarsi ed adattare ai suoi bisogni l’ambiente circostante. La riuscita o il fallimento di questi tentativi dipendono dal particolare intreccio tra le caratteristiche ambientali e le possibilità che l’individuo ha di mettere in atto le strategie più opportune.
Abbiamo detto che il primo contatto dell’essere umano con il mondo esterno è rappresentato dal corpo, dal sangue, ma anche dagli umori della madre. Non sappiamo esattamente cosa avverte della vita psichica della madre l’embrione e poi il feto. Certamente non i suoi pensieri e le sue riflessioni. Sicuramente non può aver contezza se questa donna ha, accanto a sé, un uomo e una famiglia che sa accoglierla e proteggerla, rassicurarla e confortarla, ascoltarla e consigliarla, o se, al contrario, ella è sola ad affrontare questo meraviglioso ma impervio cammino.
Il nascituro, sicuramente, non ha ancora la possibilità di avvertire pienamente se la madre è preda degli impegni del lavoro e delle angosce del vivere quotidiano, che la inseguono e sommergono, oppure se, serenamente e coerentemente con il suo impegno di madre, sta costruendo per il suo bambino, rilassandosi, un ambiente sicuro, caldo e confortevole come un nido.
Sappiamo però che prima della nascita il bambino già avverte le conseguenze che i vissuti della madre hanno sul corpo di lui, in quanto, il benessere della madre diventa ben presto il suo benessere, come il malessere della madre rischia di diventare il suo malessere. Sappiamo che all’inizio della sua avventura umana, la comunicazione è solo biochimica, ormonale, immunologica, ma questa poi, gradualmente, con lo sviluppo delle capacità logico-percettive, diventa piena e completa.
Pertanto, ogni variazione della fisiologia, come dell’assetto biochimico e ormonale della donna influenza, oltre il corpo e la mente di questa, anche il corpo e poi, nel momento in cui si è formata, anche la mente del bambino, che la donna stessa porta in seno.
Già dal battito del cuore della madre, dalla tensione del suo addome e da altri segnali biologici, il nascituro avverte se la madre si sta spendendo con ansia per tante, troppe incombenze oppure si sta concentrando sul suo mondo interiore, cercando, per il suo bambino, tutte quelle caratteristiche materne che a questi servono.
A sua volta il bambino che si sta formando nel ventre materno modifica l’ambiente circostante. Ancor prima che la madre sappia di aspettare un figlio, quest’ultimo ha iniziato a modificare il corpo di lei, ma anche alcuni aspetti del modo di vivere e sentire se stessa ed il mondo. Uno dei segnali principali che la madre riconosce facilmente è la scomparsa delle mestruazioni e quindi la mancanza di una nuova ovulazione. Il sospetto, che con gli appositi esami diventa certezza, che un essere umano si sta formando nel suo ventre, non passa sicuramente inosservato; anzi, per tante donne, è l’evento clou della loro vita e della loro esistenza.
D’altra parte i sentimenti della madre, prima e durante la gravidanza, possono influenzare profondamente il suo atteggiamento nei riguardi del bambino che nascerà, così come possono condizionare il modo con il quale lo accoglierà e si comporterà nei suoi confronti (Osterrieth, Introduzione alla psicologia del bambino1965, p. 45]
Allo stesso modo i suoi sentimenti, prima e durante la gravidanza, condizioneranno la sua vita futura. Necessariamente subiranno una qualche modifica i rapporti con il padre del bambino, il lavoro e gli altri impegni, la famiglia e gli amici. Nulla sarà come prima! Aspettare un bambino può significare che un sogno si è realizzato. Un sogno nato in un momento lontano della sua vita. Un sogno sbocciato quando da bambina ha iniziato a giocare con la sua prima bambola ‹‹che voleva sempre la pappa e lei doveva continuamente preparagliela se no quella piangeva, cosicché doveva cullarla a lungo prima che, finalmente, si addormentasse tranquilla››. Oppure quel sogno era sgorgato quando, per la prima volta, la mamma le aveva dato il permesso di toccare, ma solo per un momento e molto delicatamente, le manine o il corpicino del fratellino appena nato; o quando, avendo più fiducia in lei, le aveva permesso di poggiarlo un attimo sul suo piccolo grembo; o ancora quando, fidandosi delle sue capacità, aveva affidato a lei le cure del fratellino per qualche minuto e la bambina, in quei momenti, si era orgogliosamente sentita una mammina amorevole.
Aspettare un bambino può significare il completamento di un rapporto di coppia nato molti anni prima tra i banchi di scuola e condotto con impegno, coerenza, fedeltà e fiducia per molto tempo, prima di essere coronato dalla cerimonia del matrimonio e poi, finalmente, dall’attesa di un figlio.
Per una coppia ritenuta sterile, il sapere di aspettare un bambino è già qualcosa di diverso. Dopo mille sacrifici, dopo tante attese, dopo infinite delusioni, la gioia inaspettata può avere caratteristiche sconvolgenti che, a volte, proprio per questi motivi e per la paura che questa nuova vita svanisca fugacemente, non si riesce a gustare fino in fondo.
Aspettare un bambino può significare, purtroppo, ben altro. Quando questo evento è solo il frutto di un incontro occasionale, della passione di una notte, o è solo la conseguenza di un errore commesso in due. In tutti questi casi una nuova vita umana può accendere nell’animo dei genitori tinte fosche e drammatiche
In una famiglia estremamente povera e disagiata, questo evento può significare la necessità di dover affrontare nuovi sacrifici, nuove rinunce, nuovi e più pesanti impegni.
Queste ed altre mille situazioni diverse hanno la capacità di avvolgere il nuovo germoglio dell’umanità in un caleidoscopio di sentimenti ed emozioni, che possono comportare notevoli conseguenze materiali, psicologiche e sociali le quali, a loro volta, influiranno, sia in senso positivo che negativo, sulla qualità della relazione, non solo tra genitori e figlio, ma anche tra familiari e nuovo nato, tra società e novello cittadino.
Emidio Tribulato, psicologo, neuropsichiatra infantile e adulti, Centro Logos
www.cslogos.it
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=751:gravidanza-e-ambiente-familiare&catid=10&Itemid=163
Pescara. Servizio a Gaeta.
I coniugi Nadia e Loris Di Vittorio, consulenti familiari del Consultorio Familiare UCIPEM di Pescara, Guideranno gli Incontri
Primo incontro del percorso di Formazione e di Crescita. Il cammino di questo anno sarà imperniato proprio sul discernimento circa la qualità dell’amore nella famiglia e nella comunità. Come si vede, appena “una briciola”, un piccolo assaggio dell’ampio testo di Amoris lætitia. Una “briciola”, sì, ma densa e importante. Con la speranza che susciti, in tutti, la curiosità e il desiderio di meditarlo e di concretizzarlo.
Dal percorso proposto, emergeranno i diversi elementi che possono essere assunti come criteri utili per discernere la qualità dell’amore coniugale, familiare (educativo) e comunitario.
www.pastoralefamiliaregaeta.it/formazione/2018-2019/27012019-2/
Trento. Progetto GenerAzioni
“Genitori in Costruzione”: un breve ciclo di tre incontri per ripensare i ruoli genitoriali e riflettere sulla complessità e sulle potenzialità delle relazioni tra madri padri e figli. I temi trattati, su richiesta dei partecipanti, potranno essere approfonditi in occasioni successive. Gli incontri sono tenuti da psicologi del Consultorio Familiare Ucipem. La partecipazione è libera.
Genitori in Costruzione è parte del progetto GenerAzioni, una proposta del Consultorio Familiare Ucipem volto a migliorare la qualità delle relazioni famigliari. In particolare, punta allo sviluppo delle competenze educative e relazionali degli adulti offrendo loro contesti per stare bene assieme ai loro figli e spazi di riflessione sulla genitorialità.
- Nutrire il legame madre e figlio
- Nutrire il legame padre e figlio
- Madre e padre: ruoli in dialogo
http://www.ucipem-tn.it/2019/02/02/generazioni-genitori-in-costruzione-incontri-formativi/
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DALLA NAVATA
4° Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 3 febbraio 2019
Geremia 01, 04. Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato».
Salmo 70, 05. Sei tu, mio Signore, la mia speranza, la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.
1Corinzi 12, 12. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
Luca 04, 28. All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Persecuzione «marchio» di garanzia dei profeti.
La sinagoga è rimasta incantata davanti al sogno di un mondo nuovo che Gesù ha evocato: tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati! Poi, quasi senza spiegazione: pieni di sdegno, lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Dalla meraviglia alla furia. Nazaret passa in fretta dalla fierezza e dalla festa per questo figlio che torna circondato di fama, potente in parole ed opere, ad una sorta di furore omicida.
Come la folla di Gerusalemme quando, negli ultimi giorni, passa rapidamente dall’entusiasmo all’odio: crocifiggilo! Perché? Difficile dirlo. In ogni caso, tutta la storia biblica mostra che la persecuzione è la prova dell’autenticità del profeta. Fai anche da noi i miracoli di Cafarnao! Non cercano Dio, cercano un taumaturgo a disposizione, pronto ad intervenire nei loro piccoli o grandi naufragi: uno che ci stupisca con effetti speciali, che risolva i problemi e non uno che ci cambi il cuore. Vorrebbero dirottare la forza di Dio fra i vicoli del loro paese.
Ma questo non è il Dio dei profeti. Gesù, che aveva parlato di una bella notizia per i poveri, di sguardo profondo per i ciechi, di libertà, viene dai compaesani ricondotto dalla misura del mondo al piccolo recinto di Nazaret, dalla storia profonda a ciò che è solo spettacolare. E quante volte accadrà! Assicuraci pane e miracoli e saremo dalla tua parte! Moltiplica il pane e ti faremo re (Gv 6,15). Ma Gesù sa che con il pane e i miracoli non si liberano le persone, piuttosto ci si impossessa di loro e Dio non si impossessa, Dio non invade. E risponde quasi provocando i suoi compaesani, collocandosi nella scia della più grande profezia biblica, raccontando di un Dio che ha come casa ogni terra straniera, protettore a Zarepta di Sidone di vedove forestiere, guaritore di generali nemici d’Israele.
Un Dio di sconfinamenti, la cui patria è il mondo intero, la cui casa è il dolore e il bisogno di ogni uomo. Gesù rivela il loro errore più drammatico: si sono sbagliati su Dio. «Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare. Perché poi ti sbagli su tutto, sulla storia e sul mondo, sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte» (Davide Maria Turoldo).
Allora lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Ma come sempre negli interventi di Dio, improvvisamente si verifica uno strappo nel racconto, un buco bianco, un ma. Ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Un finale a sorpresa. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo a loro, aprendosi un solco come di seminatore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. «Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo» (Giorgio Gaber). Non puoi fermare il vento di Dio.
padre Ermes Ronchi, O. S. M.
www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=45061
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EDUCAZIONE ALLA SESSUALITÀ
Dopo l’invito del Papa. Educazione sessuale. Ecco dove si fa bene
Il Forum delle associazioni familiari riprende l’invito di Bergoglio sull’educazione sessuale. Si tratta di rilanciare proposte capaci di valorizzare la bellezza delle relazioni.
La riflessione di papa Francesco sull’educazione sessuale, che riportiamo pressoché integralmente qui a fianco, non ha bisogno di esegesi. Sull’aereo di ritorno dalla Gmg di Panama, rispondendo alle domande dei giornalisti, il Papa ha sintetizzato in poche espressioni ciò che si dovrebbe fare in tema di educazione all’affettività e alla sessualità. Si tratta di un aspetto educativo che non può essere trascurato. Dovrebbero essere i genitori ad affrontare l’argomento ma il supporto della scuola non può essere evitato. Anzi è necessario.
Anche perché, spiega Francesco, spesso mamme e papà non dispongono di strumenti culturali adeguati. Spesso sono confusi da un clima culturale che oscilla pericolosamente tra permissivismo e rigore. Spesso non sanno come colmare il divario tra ciò che si sentirebbero di dire e ciò che i ragazzi respirano nella società. E, per evitare errori, finiscono per scegliere due strade ugualmente deleterie: il silenzio o l’adeguamento ai modelli dominanti.
Così l’invito più importante del Papa – l’attenzione di presentare la bellezza della sessualità per quello che realmente è, senza sovrastrutture ideologiche – finisce per essere doppiamente disatteso. Si tratta forse del punto più complesso e più impegnativo. Sesso e sessualità, genere e generazione, relazioni e affetti sono un ambito in cui il confine tra natura e cultura si è fatto sempre più incerto e la stessa antropologia cattolica riflette da tempo sulla necessità di proporre modelli positivi, senza rifugiarsi nell’elenco dei divieti e dei permessi. I primi ampiamente disattesi, i secondi quasi pleonastici. Ormai da un paio d’anni, dopo la lunga stagione degli allarmi sulla cultura gender – in parte giustificati e necessari, in parte fraintesi e strumentalizzati – l’associazionismo familiare ha concordato sull’obiettivo di superare la sindrome della cittadella assediata per passare alla fase della proposta condivisa nel rispetto reciproco. È nato un coordinamento che ha messo insieme le proposte più significative, sono stati organizzati incontri e convegni.
Tra tante iniziative ne sono state scelte una quindicina e ora – anche alla luce delle parole del Papa – si pensa di arrivare a un ‘catalogo’ per permettere a famiglie e scuole di attingere ad un patrimonio educativo che rimane importante, anche se forse un po’ in ombra. “Molti di quei progetti rimangono in un ambito locale, alcuni appaiono un po’ datati per concetti e modalità espressive ma – osserva Maria Grazia Colombo, vicepresidente del Forum e responsabile del settore scuola – è stato fatto un lavoro importante che va valorizzato e ripreso. È arrivato il momento di mettere in luce i progetti educativi più importanti proprio nella logica indicata dal Papa.
Non sono solo le scuole a doversi muovere, ma anche parrocchie, oratori, tutti quei luoghi cioè frequentati dai ragazzi. Il Forum delle associazioni familiari è pronto. Non possiamo più indugiare”. “Io penso che nelle scuole bisogna fare educazione sessuale.
Il sesso è un dono di Dio, non è un mostro, è il dono di Dio per amare. Che qualcuno lo usi per fare soldi, per sfruttare gli altri, è un problema diverso. Bisogna offrire un’educazione sessuale oggettiva, come è, senza colonizzazioni ideologiche. Perché se nelle scuole si dà un’educazione sessuale imbevuta di colonizzazioni ideologiche, distruggi la persona. Il sesso come dono di Dio deve essere educato, non con rigidezza, educare viene da ‘e-ducere‘, trarre il meglio dalla persona e accompagnarla nel cammino.
Il problema è nei responsabili dell’educazione, sia a livello nazionale che locale o di ogni unità scolastica: che maestri si trovano per questo, che libri di testo… Io ne ho viste di tutti i colori… Bisogna avere l’educazione sessuale per i bambini. L’ideale è che comincino a casa, con i genitori. Non sempre è possibile, per tante situazioni della famiglia, o perché non sanno come farlo. La scuola supplisce a questo, e deve farlo, altrimenti resta un vuoto che viene riempito da qualsiasi ideologia”.
Luciano Moia Avvenire 31 gennaio 2019
www.avvenire.it/attualita/pagine/il-sesso-e-il-cuore-come-spiegarli-ai-nostri-ragazzi
“È indispensabile il confronto con le famiglie”
Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’Associazione nazionale Presidi, è giusto che il papa chieda lezioni di educazione sessuale nelle scuole?
“Quello del Papa è un invito condivisibile come anelito. È chiaro che fa riferimento all’etimologia del verbo educare, quindi chiede di tirare fuori i convincimenti dai ragazzi”.
Ci sono già molte iniziative ma anche molte polemiche. È possibile parlare di sesso a scuola senza creare tensioni?
“Nelle scuole sono già in atto molte iniziative. Alcune si tengono in orario extrascolastico, quindi i genitori sono liberi di scegliere se farle frequentare ai propri figli. Altre, invece, si tengono durante l’orario scolastico, in questi casi la frequenza è obbligatoria, ma si tratta di lezioni in cui si forniscono indicazioni generali, è molto difficile concentrarsi sui singoli arrivando a fare un lavoro psicanalitico individuale, non è nemmeno il compito delle scuole. Serve un’estrema sensibilità, l’educazione sessuale non può di sicuro essere affrontata come una materia scolastica, alla pari di matematica o latino. È anche necessario il confronto con le famiglie e un’esplicitazione di quello che si sta facendo nell’offerta formativa”.
Ma i professori hanno le competenze per affrontare questi argomenti?
“Ci sono docenti di materie scientifiche in grado di affrontare l’educazione sessuale nel modo giusto, neutro senza imporre un’impostazione o un’altra”.
Si può affrontare l’omosessualità o la contraccezione in modo neutro?
“È come un’equazione. Si forniscono gli strumenti per risolverla, non la soluzione. Devono essere i ragazzi ad arrivare alla risposta tirando fuori quello che hanno dentro. È l’educazione: i ragazzi non devono aderire a una linea di pensiero”.
È giusto che il papa intervenga nell’attività delle scuole?
“È ovvio che l’autonomia delle scuole è sacrosanta ma il pontefice, se vuole, ha tutto il diritto di difendere i suoi valori e mi sembra che lo abbia fatto senza alcun eccesso”.
Intervista a Antonello Giannelli, a cura di Flavia Amabile in “La Stampa” del 29 gennaio 2019
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201901/190129giannelliamabile.pdf
“Meglio dedicarsi alla relazione tra donna e uomo”
Giancarlo Frare, presidente dell’Agesc, l’associazione dei genitori delle scuole cattoliche, è giusto che il papa chieda lezioni di educazione sessuale nelle scuole?
“Quella che il pontefice pone è una questione dibattuta da tempo. Sono d’accordo, non perché il Papa sia infallibile, ma perché l’ideale è che famiglie e scuola svolgano insieme i loro ruoli nell’educazione dei giovani ma non sempre questo è possibili, a volte la famiglia non riesce ad assolvere al suo compito ed è importante che ci sia la scuola a occuparsene. Quello che conta è che non ci sia un’ideologizzazione della sessualità”.
Come si può evitarlo?
“A volte la scuola non ha al proprio interno le persone in grado di fare educazione sessuale e si rivolge a soggetti terzi che sono persone professionalmente preparate ma hanno un approccio scientifico non adatto soprattutto se deve avere a che fare con bambini che per la prima volta affrontano questi argomenti. A quel punto capita che i piccoli tornino a casa, ne parlino con i genitori e che i genitori rimangano spiazzati. Hanno l’impressione di essere stati scavalcati, quasi invasi in una loro sfera e protestano”.
A volte proprio in casi come questi è utile parlarne a scuola se a casa non si affronta l’argomento.
“Sì, è utile ma senza ideologie e pensieri diversi”.
Che intende per pensieri diversi?
“L’omosessualità, ad esempio, va affrontata quando è necessario. Se ne deve parlare ma senza centralizzarla. A volte si ha nei confronti di questo argomento un atteggiamento preponderante perché va di moda. Bisogna invece dare maggiore rilievo al rapporto uomo-donna”.
In che modo?
“La questione di genere deve essere centrale perché se ogni tre giorni viene ammazzata una donna vuol dire che in questa società esiste un problema da affrontare. Bisogna educare i bambini a capire che il sesso è una buona cosa, è un dono, proprio come dice il Papa, e che le donne non vanno considerate un oggetto”.
Intervista a Giancarlo Frare, a cura di Flavia Amabile in “La Stampa” del 29 gennaio 2019
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201901/190129frareamabile.pdf
La scelta coraggiosa di far cadere un tabù
Così diceva una vecchia barzelletta che girava nei seminari: “Dio disse: andate, crescete e moltiplicatevi. E subito i preti e le suore iniziarono a disobbedire”.
Il facile sogghigno che poteva essere strappato nei corridoi del seminario era però una spia – come vuole l’umorismo – di un tabù, di qualcosa apparentemente lontano ma che invece, anche solo per il fatto che siamo al mondo, è quanto di più naturale possa esserci.
E allora per fortuna che papa Francesco nuovamente accende i fari su un argomento a volte tabù, a volte strumentalizzato, a volte distorto, insomma, mai chiaro. Ma oggi siamo ancora così convinti che l’educazione sessuale possa essere lasciata alle informazioni, naturalmente pruriginose, che un adolescente può procacciarsi su Internet, per poi magari denunciarne la poca attendibilità e moralità?
E allora sì, ricordiamoci che solo dove investiamo con decisione possiamo raccogliere dei frutti e soprattutto conferiamo la giusta importanza a quell’argomento. Per questo dobbiamo aiutare a capire quale meraviglia possa essere la vita sessuale, ma anche quale grave compito il pontefice ci affida e, vorrei aggiungere io, sarebbe ora che imparassimo che è un argomento da affidare a chi ne ha esperienza. Il sesso è certamente Spirito, Amore ma anche carne, passione, esperienze non tutte – come madre Chiesa vuole – del mondo religioso. Un delicato equilibrio al quale dovrebbero partecipare tutti: genitori, non sempre in grado di gestire le informazioni dei social media, milioni di volte più veloci e presenti; il mondo educativo, la scuola, i luoghi di aggregazione; la Chiesa, che come ci ha ricordato papa Francesco, necessita di “fare un’educazione sessuale che sia oggettiva, senza colonizzazione ideologica.
Se si fa un’educazione sessuale piena di ideologia, allora si distrugge una persona. Il sesso, come dono di Dio, ha bisogno di essere educato, non con rigidità ma tirando fuori il meglio delle persone, accompagnandole nel cammino”. Insomma un problema complesso, che per troppe volte si è preferito non affrontare o affrontare male, in modo oscuro, nelle case, nelle scuole e nelle Chiese e nella formazione dei suoi stessi pastori. Mi occorre ricordare per quanto tempo si è preferito non considerare o non vedere la sessualità delle persone con handicap, lasciando l’Italia ancora indietro nella legislazione. Si sono prese le distanze dall’ipotesi di istituire la figura dell’assistente sessuale che aiuti chi ha difficoltà nel comprendere i propri istinti, i propri desideri e le proprie necessità naturali.
E, pensandoci bene, quanto, invece, sarebbe utile in questo contesto di nuova educazione. Amo dire sovente: se faccio fatica io che ho scelto la castità, come posso credere che non viva in tale stato d’animo chi magari è afflitto da una condizione di lungodegenza o da una malattia profondamente invalidante? Per fortuna qualche passo avanti è stato fatto e quello di papa Francesco è il più importante.
La sessualità è il tramite che Dio ha scelto per donare la vita agli uomini e alle donne, una cosa meravigliosa: quanto ci metteremo a capirlo per non rovinare questa esperienza come abbiamo fatto con tante altre cose belle che ci sono state date?
Andrea Bonsignori, Direttore scuola Cottolengo “La Stampa” del 29 gennaio 2019
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201901/190129bonsignori.pdf
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ENTI TERZO SETTORE
Obbligo di pubblicare i contributi pubblici ricevuti
Entro il 28 febbraio gli enti del Terzo Settore devono pubblicare “le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere ricevuti dalle medesime pubbliche amministrazioni e dai medesimi soggetti nell’anno precedente”.
Dal 2019 scatta per gli enti del Terzo Settore l’obbligo di pubblicare ogni anno “le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere ricevuti dalle medesime pubbliche amministrazioni e dai medesimi soggetti nell’anno precedente”, come prevede la legge 124/2017. La pubblicazione deve avvenire entro il 28 febbraio di ogni anno.
La circolare del Ministero del Lavoro del 14 gennaio 2019, rivolta tra gli altri al Forum nazionale del Terzo Settore fornisce chiarimenti sull’adempimento di questo obbligo, anche alla luce del parere 1449/2018 del Consiglio di Stato.
www.lavoro.gov.it/documenti-e-norme/normative/Documents/2019/Circolare-Ministeriale-n-2-del-11012019.pdf
Tra i temi trattati:
- Chi deve controllare il rispetto della norma
- L’obbligo di restituzione della somma ricevuta se non la si pubblicizza (obbligo che non vale per il non profit)
- Come si applica questa normativa sulla trasparenza alle cooperative sociali
- Quali sono esattamente le informazioni che l’ente deve pubblicare
- Quali somme vanno rendicontate (“andranno pubblicate le somme effettivamente introitate nell’anno solare precedente, dal 1° gennaio al 31 dicembre, indipendentemente dall’anno di competenza cui le medesime somme si riferiscono”)
- L’obbligo non scatta quando il totale dei vantaggi pubblici ricevuti nel periodo considerato è inferiore a 10.000 euro
La circolare precisa anche che ”Ove l’ente non disponga di alcun portale digitale, la pubblicazione in parola potrà avvenire anche sul sito internet della rete associativa alla quale l’ente del Terzo settore aderisce”
Uneba 31 gennaio 2019
www.uneba.org/obbligo-di-pubblicare-i-contributi-pubblici-ricevuti-comunicazione-di-uneba-agli-associati
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FAMIGLIA
Famiglia: quali sono i valori e i doveri
Creare una famiglia non è solo una scelta di vita, ma è anche una scelta giuridica che crea vincoli d obblighi reciproci in base alla legge.
Nel corso del tempo il concetto di famiglia si è notevolmente evoluto. In passato, la famiglia era solo l’unione coniugale tra coniugi eterosessuali e con figli. Nel tempo questo concetto ha abbracciato anche altre forme di convivenza. In ogni caso, ciò che resta sempre valido, è che la creazione di una famiglia fa nascere dei diritti e degli obblighi reciproci in capo ai componenti della famiglia stessa che sono stabiliti direttamente dalla legge.
Famiglia: quali sono i valori e i doveri? Creare una famiglia non è solo un fatto privato che riguarda una scelta individuale delle persone ma è anche un fatto giuridico, che fa nascere obblighi e doveri di legge. Non stupisce, infatti, che ci sia una specifica branca del diritto che si chiama diritto di famiglia e che stabilisce per l’appunto le regole di legge relative alla famiglia.
Che cos’è la famiglia? Prima di chiedersi quali sono i diritti e i doveri reciproci dei componenti della famiglia è bene chiarire che cosa si intende con il termine famiglia. La domanda può apparire scontata ma in realtà questo concetto si è evoluto nel tempo e la definizione di famiglia è anche oggetto di scontro politico ed ideologico tra chi difende un’idea di famiglia tradizionale, basata sul matrimonio e sulla eterosessualità e chi, invece, vuole allargare l’idea di famiglia ad altre tipologie di convivenza, anche omosessuale.
E’ utile, allora, capire cosa dicono i giudici con riferimento alla nozione di famiglia. Il concetto di famiglia, secondo l’ordinamento italiano, oggi include non solo la famiglia fondata sul matrimonio tra le persone di sesso diverso ma anche le unioni di fatto tra individui, di sesso diverso o dello stesso sesso, ossia le cosiddette convivenze more uxorio. Si tratta di famiglie che vivono insieme e fanno tutto ciò che fa una qualsiasi famiglia con la particolarità che la coppia non è sposata ma solo convivente.
L’allargamento della famiglia anche alle convivenze è stata di recente affermata in una rilevante sentenza dal Consiglio di Stato [Cons. Stato sez. III sent. n. 5040 del 31.10.2017] in una controversia relativa al rinnovo del permesso di soggiorno ad una donna straniera che aveva una relazione stabile con un italiano ma che non era civilmente sposata con lui. Nell’equiparare la situazione della donna a quella di una moglie sposata, il Consiglio di Stato ha richiamato la posizione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), infatti, ha ripetutamente stabilito che il concetto di “vita privata e familiare” non riguarda solo le coppie unite in matrimonio ma include anche le coppie di fatto, conviventi more uxorio, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso.
Sulla base di questo ragionamento, la CEDU ritiene che, nella materia immigratoria, la legislazione degli stati membri non può negare all’individuo il diritto a vivere liberamente una condizione di coppia, intesa come vita familiare, solo perché non sposato ma solo convivente. Oltre alle autorevoli sentenze della CEDU, le cosiddette “coppie di fatto” hanno avuto, per la prima volta, un riconoscimento legislativo ufficiale da parte dello Stato italiano nel 2016 [L. n. 76, 20 maggio 1976].
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg
Nella prima legge italiana sulle coppie di fatto, in particolare, viene chiaramente affermato che per l’accertamento della stabile convivenza si deve fare riferimento alla iscrizione presso l’anagrafe come famiglia anagrafica. Il Consiglio di Stato, nella sentenza richiamata, mette insieme i pronunciamenti della CEDU con la Legge del 2016 sulle coppie di fatto per fornire una interpretazione evolutiva del concetto di famiglia e andare oltre la definizione tradizionale.
Quali sono i doveri in una famiglia? E’ fondamentale chiarire cos’è una famiglia poiché, riconoscendo una determinata formazione sociale come famiglia, è possibile estendergli le norme ed i principi relativi al diritto di famiglia, ivi compresi i doveri e diritti reciproci dei coniugi e dei componenti della famiglia stessa. Vediamo quali sono questi doveri. I principali doveri e principi che devono sempre accompagnare l’azione dei membri della famiglia sono:
- Fedeltà;
- Assistenza morale e materiale;
- Condivisione dell’abitazione;
- Condivisione dei bisogni fondamentali della famiglia.
Quelli appena elencati, in verità, sono solo alcuni dei diritti-doveri che i coniugi (e, in base all’evoluzione della famiglia, anche i conviventi) devono rispettare durane la loro vita coniugale insieme. Innanzitutto va chiarito che il diritto di famiglia italiano riconosce un principio di assoluta parità giuridica dei coniugi: questo significa che uomo e donna e, in generale, i partner di una relazione famigliare, sono messi sullo stesso piano, sono uguali nei diritti e nei doveri e devono rispettare i medesimi principi. Vediamo in dettaglio gli impegni che la coppia si assume quando si sposa.
Obbligo di fedeltà. Questo obbligo può sembrare anch’esso figlio di una visione antica o tradizionalista dei rapporti sentimentali fatto sta che è ancora presente nel diritto di famiglia italiano il cosiddetto obbligo di fedeltà. In base a questo obbligo ancora oggi la eventuale relazione sentimentale extraconiugale (e cioè il tradimento), se incide in maniera rilevante e significativa sul rapporto di fiducia e stima reciproca tra i partner, viene considerata violazione dell’obbligo di fedeltà.
In passato l’adulterio femminile era addirittura reato punibile e lo stesso il concubinato maschile. A partire dal 1968 la punizione penale del tradimento è venuta meno ma l’adulterio resta una sorta di inadempimento contrattuale, una violazione degli obblighi che devono essere rispettati dai coniugi. Per questo il tradimento è un motivo per la richiesta di separazione e suo addebito, regolato dal Codice civile.
Obbligo di vivere sotto lo stesso tetto. La convivenza, o coabitazione è stata sempre considerata come una caratteristica immancabile per la famiglia. Per questo la legge prevede che i coniugi devono scegliere insieme l’abitazione dove andranno a vivere e che sarà individuata come “casa familiare”. Coabitare è un obbligo che scaturisce dalla relazione coniugale. Da ciò discende che l’allontanamento dal tetto coniugale senza “giusta causa” fa decadere il dovere di coabitazione che è collegato anche agli obblighi di assistenza e collaborazione familiare.
L’abbandono del tetto coniugale può addirittura assumere i caratteri di un vero e proprio reato. Chi viola questo obbligo, se una volta che si allontana di casa in modo definitivo smette anche di dare assistenza morale, materiale ed economica al coniuge o ai figli minori, è perseguibile con pene che possono arrivare alla multa o anche al carcere.
E’ però evidente che possono esserci dei casi in cui uno dei coniugi si allontana dal tetto coniugale non in segno di “abbandono” ma per ragioni oggettive come, ad esempio, per motivi di lavoro, di studio, per assistere propri famigliari in situazione di bisogno etc. In questo caso non si ha una violazione dell’obbligo di coabitazione in quanto sussiste una valida giustificazione al momentaneo allontanamento. Ne discende che ogni situazione dovrà essere verificata caso per caso.
Obbligo di condivisione dei bisogni familiari. Uno dei valori fondamentali che sorreggono la famiglia è quello della solidarietà. Diventando famiglia è come se i coniugi e gli altri membri si privassero di un pizzico del proprio io per diventare noi. Da questo deriva l’obbligo di entrambi gli sposi (o partner dell’unione civile) di contribuire alle necessità del nucleo familiare, in base alle sostanze e alla capacità di lavoro, anche domestico, di ciascuno.
Ciò significa che i bisogni della famiglia devono essere posti a carico di entrambi in maniera proporzionale alle proprie possibilità. Ne discende che se un coniuge ha uno stipendio più alto dovrà contribuire in modo maggiore; se un coniuge non lavora dovrà mettere a disposizione almeno il proprio lavoro domestico, e via dicendo.
Questo obbligo, a ben vedere, non viene meno nemmeno in caso di separazione o divorzio. Anche in questo caso, infatti, i coniugi devono farsi carico dei bisogni di familiari in proporzione alle proprie possibilità. Sarà il giudice o l’accordo delle parti a decidere cosa significa questo in termini economici. Di solito il coniuge che viene considerato economicamente più forte è tenuto a dare un contributo al coniuge più deboli ed ai figli. Inoltre si prevede come devono essere ripartite le spese relative ai figli. Chi non paga gli alimenti alla propria famiglia rischia di commettere un reato penale.
Obbligo di determinare insieme le scelte di vita. Nel concreto svolgimento della vita famigliare sono molti i momenti in cui gli sposi si trovano a dover prendere delle decisioni che si basano su principi, valori, convinzioni, modi di vedere le cose, etc. Questo accade molto spesso con riferimento all’educazione dei figli.
In questi momenti la stella polare da seguire è la condivisione: marito e moglie devono scegliere di comune accordo i principi di vita e i valori sui quali basare e dare sviluppo alla propria famiglia.
Per quanto riguarda le scelte individuali, al contrario, i coniugi conservano la propria autonomia. Se la diversità di vedute è talmente profonda che i coniugi non riescono a trovare una decisione comune, sarà possibile per la coppia rivolgersi al giudice tutelare, che cercherà di aiutare la famiglia a mettersi d’accordo e prendere la migliore decisione che metta al centro il bene della famiglia.
Doveri verso i figli. Anche la cura dei figli deve essere messa a carico di entrambi i genitori e anche in questo ambito dovrebbe regnare la condivisione. Entrambi i genitori, infatti, hanno l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i propri figli in base alla volontà di questi, alle loro inclinazioni e attitudini.
La Legge per tutti 1 febbraio 2019
www.laleggepertutti.it/263911_famiglia-quali-sono-i-valori-e-i-doveri
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Aborto, il Papa: misericordia sempre, cantate la ninna nanna ai figli in cielo
Passim
Non si risparmia il Papa neanche di fronte alle domande dei giornalisti, che toccano diversi argomenti, compresa la necessità dell’educazione sessuale a scuola, da attuare però senza “colonizzazioni ideologiche”. Spiega, rispondendo a un giornalista di Panama, che per lui “la missione del Papa in una Gmg è quella di Pietro. Confermare nella fede”. E che bisogna attuarla “non solo con la testa ma anche con il cuore e con le mani”. E infine, parlando di Panama, dice di essere rimasto colpito dalla nobiltà di questa nazione. “Il loro orgoglio era alzare i bambini al passaggio della papamobile e dire ‘questa è la mia vittoria, il mio futuro, il mio orgoglio’. Questo, nell’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa, e specialmente in Italia sotto zero, ci deve far pensare. Qual è il mio orgoglio, il turismo, la villa, il cagnolino o alzare un figlio?”.
Riportiamo (alcune) principali risposte date dal Pontefice alle domande dei giornalisti al seguito.
Sul celibato dei sacerdoti. «Nel rito orientale della Chiesa cattolica possono farlo. Si fa l’opzione celibataria prima del diaconato. Nel rito latino mi viene in mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. È una frase coraggiosa. Personalmente penso che il celibato sia un dono alla Chiesa. In secondo luogo, dico che non sono d’accordo di permettere il celibato opzionale, no. La mia decisione è: il celibato opzionale prima del diaconato no. Sia chiaro che io non la farò. Sono chiuso? Forse, ma non sento di mettermi davanti a Dio con questa decisione. C’è un libro di padre Fritz Lobinger che propone in determinate situazioni (penso alle isole del Pacifico dove non ci sono sacerdoti) di ordinare un anziano sposato e dargli solo il munus santificandi, cioè che celebri la messa, che amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione, perché dice l’autore che la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia la fa la Chiesa. Il libro è interessante. E forse può aiutare a pensare il problema. Credo che il tema deve essere aperto in questo senso: dove c’è il problema pastorale per la mancanza di sacerdoti. Non dico che si debba fare, perché non ho riflettuto, non ho pregato a sufficienza su questo. Ma i teologi devono studiare. Padre Lobinger è un fidei donum. È già anziano. Parlavo con un officiale della segreteria di Stato, un vescovo, che ha dovuto lavorare in un Paese comunista all’inizio della rivoluzione. Erano gli anni Cinquanta. I vescovi ordinarono di nascosto dei contadini, bravi, religiosi. Poi passata la crisi, trenta anni dopo, la cosa si è risolta. E mi diceva l’emozione che aveva avuto quando in una concelebrazione vedeva questi contadini che mettevano il camice per concelebrare. Nella storia della Chiesa questo è stato dato. È una cosa da studiare, da pensare e pregare». Gli ricordano che ci sono anche i sacerdoti sposati ex anglicani e il Papa risponde: “È vero. Benedetto XVI aveva concesso che i sacerdoti anglicani diventati cattolici vivessero come se fossero orientali”.
Sull’educazione sessuale a scuola. L’educazione sessuale nelle scuole bisogna insegnarla. Il sesso è un dono di Dio. Non è un mostro. E’ il dono di Dio per amare. Che alcuni lo usino per fare soldi o sfruttare gli altri è un altro problema. Però bisogna dare una educazione sessuale oggettiva, come è. Senza colonizzazione ideologica. Con la eduzione sessuale piena di colonizzazione ideologica si distrugge la persona. Però il sesso come dono di Dio deve essere educato, estrarre il meglio della persona e accompagnarla nel cammino. L’ideale è che si cominci in casa. Ma non sempre è possibile perché ci sono tante situazioni diverse nelle famiglie. Dunque la scuola supplisce, ma non succeda che il vuoto sia riempito con qualche ideologia.
Sui motivi che allontanano i giovani dalla Chiesa. Soprattutto la mancanza di testimonianza. Se un pastore fa l’imprenditore o l’organizzatore di un piano pastorale, o se un pastore non è vicino alla gente, questo pastore non dà testimonianza di pastore. Il pastore deve essere con la gente, pastore e gregge, diciamo con questo termine. Il pastore deve essere davanti al gregge, per marcare il cammino, in mezzo al gregge, per sentire l’odore della gente, e capire cosa sente la gente, di quale cosa ha bisogno, e dietro al gregge per custodire la retroguardia. Ma se un pastore non vive con passione, la gente si sente abbandonata.
Lo stesso vale per i laici, i cattolici ipocriti. Che vanno tutte le domeniche a messa, poi non pagano la tredicesima, ti pagano in nero, sfruttano la gente, poi vanno nei Caraibi a fare le vacanze, con lo sfruttamento della gente. “Ma io sono cattolico, vado tutte le domeniche a messa!”. Se tu fai questo dai una controtestimonianza. E questo è a mio parere quello che più allontana la gente dalla Chiesa. Io ho paura dei cattolici così eh? Che si credono perfetti! Ma la storia si ripete, lo stesso Gesù coi dottori della legge, no?
Sul dramma dell’aborto, dopo le forti parole in una stazione della Via crucis di venerdì. Non ritiene che questa sia una posizione radicale che non rispetta le donne e sia in contrasto con la misericordia?
Il messaggio della misericordia è per tutti. Anche per la persona umana che è in gestazione. Dopo aver fatto questo fallimento c’è misericordia pure. Ma una misericordia difficile perché il problema non è dare il perdono, ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di aver abortito. Sono drammi terribili. Dico la verità, bisogna essere nel confessionale e tu devi lì dare consolazione. Per questo io ho aperto la potestà di assolvere l’aborto per misericordia, perché tante volte devono incontrarsi con il figlio. Io consiglio tante volte quando hanno questa angoscia: “Tuo figlio è in cielo, parla con lui. Cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli”. E lì si trova una via di riconciliazione della mamma con il figlio. Con Dio c’è già il perdono, Dio perdona sempre. Ma la misericordia, che lei elabori questo. Il dramma dell’aborto, per capirlo bene, bisogna essere in un confessionale.
Sugli abusi e la prossima riunione dei presidenti delle Conferenze episcopali nazionali. L’idea è nata nel C9 perché lì noi vedevamo che alcuni vescovi non capivano bene o non sapevano cosa fare o facevano una cosa buona e un’altra sbagliata e abbiamo sentito la responsabilità di dare una “catechesi” su questo problema alle conferenze episcopali. Per questo si chiamano i presidenti.
- Primo: che si prenda coscienza del dramma, cos’è un bambino abusato, una bambina abusata. Io ricevo con regolarità gente abusata. Ricordo uno di 40 anni senza poter pregare. È terribile questo, la sofferenza è terribile.
- Secondo: che sappiano cosa si deve fare, la procedura perché tante volte il vescovo non sa cosa fare. Una cosa che è cresciuta molto forte e non è arrivata a tutti gli angoli, diciamo così, e poi che si facciano programmi generali, ma che arrivino a tutte le conferenze episcopali. Cosa deve fare il vescovo, cosa deve fare l’arcivescovo che è il metropolita, cosa deve fare il presidente della conferenza episcopale. Ma che sia chiaro in maniera che ci siano dei protocolli.
- Ma prima di cosa si deve fare, bisogna prendere coscienza. Durante l’incontro pregheremo, ci sarà qualche testimonianza per aiutare a prendere coscienza e poi qualche liturgia penitenziale per chiedere perdono per tutta la Chiesa. Stanno lavorando bene nella preparazione. Io mi permetto di dire che ho percepito un’aspettativa un po’ gonfiata. Bisogna sgonfiare le aspettative a questi due punti, perché il problema degli abusi continuerà, è un problema umano, ma umano dappertutto. Ho letto una statistica l’altro giorno, sono di quelle statistiche che dicono il 50% è denunciato, il 20% è ascoltato, diminuisce. Finiva così: il 5% è condannato, terribile. È un dramma umano e dobbiamo prendere coscienza. Anche noi risolvendo il problema nella Chiesa, ma prendendo coscienza, aiuteremo a risolverlo nella società, nelle famiglie dove la vergogna fa coprire tutto. Ma prima dobbiamo prendere coscienza, avere i protocolli e andare avanti.
Sulla chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto, dove ha celebrato nel 2016 la Messa “in cœna Domini” del giovedì santo.
Ho sentito rumori di ciò che succedeva in Italia, ma ero immerso nel viaggio, così precisamente non conosco la cosa, ma mi immagino. E’ vero che il problema dei migranti è molto complesso. Ci vuole memoria. Domandarsi se la mia patria è stata fatta dai migranti. In Argentina tutti migranti. Negli Stati Uniti tutti migranti. Le parole che io uso sono: il cuore aperto per ricevere, accogliere, accompagnare, far crescere e integrare. E anche dico che il governante deve usare la prudenza. E’ una equazione difficile. Mi viene in mente l’esempio della Svezia che negli anni ’70 con le dittature in America Latina ha ricevuto tanti immigrati, ma tutti integrati. E vedo cosa fa Sant’Egidio: integrazione di tutti. Ma gli svedesi l’anno scorso hanno detto fermatevi un po’ perché non possiamo finire il percorso. E questa la prudenza del governante. E’ un problema di carità, di amore, di solidarietà. E io ribadisco che le nazioni più generose nel ricevere sono state l’Italia e la Grecia. Anche un po’ la Turchia. Il Libano pure è una meraviglia di generosità. La Giordania lo stesso. Ma è vero che si deve pensare realisticamente. Un modo di risolvere il problema delle migrazioni è aiutare i Paesi da cui i migranti vengono. I migranti vengono o per fame o per guerra. Investire dove c’è la fame. L’Europa è capace di farlo. In modo da aiutare a crescere. Ma parlando dell’Africa, sempre c’è nell’immaginario collettivo l’idea che l’Africa va sfruttata, questo fa male. E’ un problema complesso che si deve affrontare parlare senza pregiudizi.
Mimmo Muolo, inviato a bordo dell’aereo papale 28 gennaio 2019
www.avvenire.it/papa/pagine/papa-ritorno-da-gmg-di-panama
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GOVERNO.
I bambini sono i nuovi poveri, ma il Reddito di cittadinanza non li nomina mai
L’analisi di Chiara Saraceno: «Hanno preso a riferimento la famiglia per l’Isee, ma poi se la sono dimenticata. La misura è sfasata nella percezione dei bisogni di minori e donne: ti esento dal lavorare in quanto mamma di un bambino piccolo ma non mi preoccupo di nulla, tanto ci sei tu che curi il tuo bambino».
A perdere, nel nuovo Reddito di Cittadinanza, sono i bambini. Lo hanno detto subito il Forum delle Associazioni Famigliari e l’Alleanza contro la povertà. Sotto accusa le scale di equivalenza, penalizzanti rispetto a quelle dell’Isee e dell’attuale ReI, che non considerano le famiglie con più figli (il moltiplicatore massimo è 2,1). Ma non solo. «Mi colpisce che un Governo così giovane sia così poco attento ai bambini. I bambini per loro sono importanti solo come numero, per il tasso fecondità, ma in realtà poi non c’è alcuna attenzione per loro, per la loro situazione, per cosa hanno bisogno»: afferma la professoressa Chiara Saraceno, sociologa della famiglia.
I dati ci dicono che i bambini in Italia sono i nuovi poveri e le famiglie con figli minori le più esposte al rischio povertà. Quale valutazione dare allora rispetto alle scelte fatte con il Reddito di Cittadinanza la misura che proprio alla povertà vuole rispondere?
Innanzitutto è già dalla metà degli anni ‘90 che questo trend è evidente: negli anni della crisi quello che è successo è che gli anziani non hanno peggiorato la loro condizione, tutti gli altri sì, in particolare i bambini. Il Reddito di Cittadinanza è in linea di principio una buona notizia perché istituisce protezione di ultima istanza per tutti quelli che si trovano in povertà, mentre il Reddito di inclusione lo faceva con cifre bassissime e per solo poche persone. E finalmente non dice “facciamo una cosa sperimentale”, visto che la sperimentalità in Italia è servita sempre per non fare interventi a regime. Certamente avrebbero potuto vedere cosa ha funzionato e cosa no nel REI. Ciò che va corretto è soprattutto il fatto che il Reddito di Cittadinanza sia così orientato all’inserimento lavorativo, senza rendersi conto che una quota di poveri ha un lavoro ma questo non è sufficiente, che non tutti gli adulti sono attivabili – sì c’è il patto di inclusione ma è secondario – e infine che i minori non vengono pressoché nominati, salvo che come giustificazione per non fare cose… Pensare che i Centri per l’Impiego siano il front office [ufficio vicino, di fronte]è un errore, anche se avessero tutto il personale necessario: non è il loro mestiere valutare i bisogni della famiglia e di trovare gli strumenti: non ne hanno la competenza né loro né tanto meno i navigator [termine usato in un film omonimo di fantascienza 1986]. Mi turba inoltre che mentre fa il Reddito di Cittadinanza, il Governo abbia diminuito il fondo per il contrasto della povertà educativa.
Perché questa valutazione multidimensionale dei bisogni della famiglia è cruciale?
Per la famiglia lo è. Non basta dire che la mamma con un figlio sotto i 3 anni è esentata dall’essere disponibile al lavoro. Mi interessa invece capire se quella mamma la aiutano, se le danno il nido o se invece il suo bambino, visto che lei non lavora, al nido si dà per scontato che non ci andrà. Non si può mettere tutto dentro RdC? Vero, ma nemmeno in Legge di Bilancio si sono occupati di questo. Ci si lamenta della bassa fecondità ma poi si propone di dare un pezzo di terra. E la scuola? E la mensa? E il tempo pieno? E i servizi? Insomma, è evidente che la povertà per il Governo è solo la mancanza di lavoro del singolo individuo adulto. Hanno preso a riferimento la famiglia per l’Isee, ma poi se la sono dimenticata, la misura è sfasata nella percezione dei bisogni in particolare di minori e donne: ti esento dal lavorare in quanto mamma di un bambino piccolo, ma non mi preoccupo di nulla, tanto ci sei tu che curi il tuo bambino. In altri Paesi si sono già accorti del rischio di esclusione insito in questa scelta, perché poi quanto il bambino va a scuola le donne sono state troppo a lungo fuori dal mercato del lavoro. Negli ultimi anni c’è stata una fortissima disattenzione per i servizi, si è dato per scontato che la famiglia produca tutto al suo interno, ad esempio con le nonne, senza peraltro rendersi conto che alcune iniziative erodevano proprio quelle risorse: se alzo l’età della pensione delle donne, ci saranno meno nonne disponibili per la cura dei nipotini… Ma in generale c’è una visione astratta e ideologica della famiglia, con pochissima attenzione per la realtà effettiva della vita della persone
Sara De Carli Vita.it 30 gennaio 2019
www.vita.it/it/article/2019/01/30/i-bambini-sono-i-nuovi-poveri-ma-il-reddito-di-cittadinanza-non-li-nom/150520
Ottantesima sessione del Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza a Ginevra
Il Dipartimento per le politiche della famiglia ha preso parte, nell’ambito della delegazione italiana presente all’80a sessione del Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, al periodico dialogo costruttivo circa l’implementazione della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, svoltosi a Ginevra il 22 e 23 gennaio 2019. La sessione del Comitato ha avuto inizio lo scorso 14 gennaio, secondo un articolato programma e terminerà il prossimo 1 febbraio. Sarà compito del Comitato, successivamente, formulare al nostro Paese le eventuali raccomandazioni sull’attuazione dei diritti dei minori. Tutti i lavori sono visibili in streaming sulla web tv http://webtv.un.org.
Proprio in occasione dell’appuntamento internazionale in questione, è stato pubblicato il “Rapporto del Governo italiano al Comitato Onu sui diritti dell’infanzia” (periodo di riferimento 2008-2016) in formato ETR (Easy To Read), curato dall’Istituto degli Innocenti di Firenze nell’ambito delle attività previste dall’accordo di collaborazione con il Dipartimento. La pubblicazione on line è destinata ad un pubblico di ragazzi al fine di far comprendere alle nuove generazioni, con un linguaggio semplice e chiaro, quali sono i loro diritti e cosa fa l’Italia per realizzarli e contribuire, allo stesso tempo, alla più ampia diffusione dei temi della Convenzione.
Dipartimento per le politiche della famiglia Notizie 28 gennaio 2019
www.politichefamiglia.it/it/notizie/notizie/notizie/ottantesima-sessione-del-comitato-onu-sui-diritti-dell-infanzia-e-dell-adolescenza-a-ginevra
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MATRIMONIO
Rapporti personali tra coniugi
Vuoi sapere in che cosa consiste l’obbligo alla coabitazione alla cui osservanza sono tenuti i coniugi dopo il matrimonio? Ti stai chiedendo in che misura marito e moglie devono contribuire alle spese necessarie a soddisfare i bisogni della famiglia? Non conosci quali sono gli obblighi previsti per i coniugi nei confronti dei figli? La risposta a queste domande va rintracciata in quegli articoli del Codice civile che vengono letti dal sacerdote agli sposi subito dopo la celebrazione delle nozze. Tali norme riguardano infatti, i cosiddetti rapporti personali tra coniugi che consistono nell’insieme dei diritti e dei doveri di natura personale che sorgono con il matrimonio.
I rapporti personali tra coniugi. I rapporti personali vanno tenuti distinti da quelli patrimoniali, i quali consistono nell’insieme dei diritti e degli obblighi che concernono le questioni patrimoniali, nascenti sempre in virtù del matrimonio. A proposito di questi ultimi è opportuno evidenziare che la disciplina dei rapporti patrimoniali si articola con la previsione di più tipi di regimi patrimoniali della famiglia (comunione legale, impresa familiare, comunione convenzionale, separazione dei beni e fondo patrimoniale). Il nostro legislatore ha previsto come regime patrimoniale legale la comunione dei beni, che si applica automaticamente, al momento del matrimonio, qualora gli sposi non si accordino per un regime diverso (ad esempio per quello della separazione). A titolo puramente esemplificativo e avendo riguardo solo alla comunione e alla separazione dei beni, si fa presente che con la prima entrambi i coniugi diventano titolari dei beni acquistati durante il matrimonio, ad esclusione di quelli personali; con la seconda invece, ciascun coniuge conserva il godimento e l’amministrazione dei beni (compresi quelli acquistati dopo il matrimonio e i risparmi successivi) di cui è titolare esclusivo. I coniugi, nel caso in cui il regime scelto non soddisfi più le loro esigenze, possono passare ad un altro regime. Così i coniugi in comunione di beni possono decidere di passare al regime della separazione dei beni quando si è in presenza di debiti contratti dal marito o dalla moglie oppure in pendenza di una causa che rischia di finire con una condanna per uno dei due.
La riforma del diritto di famiglia, intervenuta nel nostro ordinamento giuridico nel 1975, ha regolato i rapporti tra i coniugi, sia personali sia patrimoniali, secondo il principio costituzionale dell’eguaglianza morale e giuridica tra marito e moglie. La struttura autoritaria che caratterizzava la famiglia prima della riforma, in cui il marito occupava un posto primario rispetto alla moglie, è stata quindi, sostituita da una struttura paritaria dove entrambi i coniugi si trovano sullo stesso livello. Ciò significa che vi è un’identità di posizione tra coniugi che hanno le stesse prerogative personali, sono uguali titolari del governo della famiglia e decidono in piena autonomia l’indirizzo della vita familiare.
La regola fondamentale che caratterizza i loro rapporti è quella dell’accordo, nel senso che tutte le decisioni concernenti la conduzione della famiglia dovranno essere prese congiuntamente e in maniera paritaria da entrambi i coniugi. Questa perfetta uguaglianza esistente tra marito e moglie è espressamente prevista nella prima delle norme che disciplinano i rapporti personali tra coniugi, la quale dispone appunto che con il matrimonio marito e moglie acquistano ed assumono reciprocamente gli stessi diritti e i medesimi doveri [Art. 143 cod. civ.].
I diritti e i doveri dei coniugi nascenti dal matrimonio.
Gli obblighi nascenti dal matrimonio, per entrambi i coniugi sono:
- Obbligo di fedeltà, che da sempre è stato considerato come il più significativo tra gli obblighi nascenti dal matrimonio, posto a tutela dell’unione familiare. Consiste più propriamente nell’impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimonio e non deve essere inteso solo come astensione da relazioni sessuali extraconiugali. La fedeltà dunque, non è solo una fedeltà affettiva. La sua nozione infatti, va ampliata ed avvicinata a quella di lealtà, la quale impone a ciascun coniuge di sacrificare i propri interessi personali e le scelte individuali qualora siano in contrasto con gli impegni e le prospettive di vita comune. In altre parole sia il marito sia la moglie violano tale obbligo non solo quando tradiscono il proprio coniuge ma anche quando prendono decisioni che rispondono solo a un interesse personale e non a quello della famiglia. L’obbligo di fedeltà permane anche durante il temporaneo allontanamento di un coniuge dalle residenza familiare, cioè quando uno dei due coniugi si allontani per motivi di lavoro o di studio dalla casa coniugale; la cessazione di tale obbligo si ha infatti, una volta che sia stato avviato l’iter per la separazione dei coniugi e sia stata emessa l’autorizzazione da parte del presidente del tribunale di vivere separatamente;
- Obbligo di assistenza morale e materiale, che costituisce insieme alla fedeltà, il completamento dell’impegno assunto di vivere insieme. Consiste nel dovere dei coniugi di comprendersi e di sostenersi a vicenda sotto il profilo sentimentale nonché di provvedere alle esigenze materiali dell’altro laddove questi non sia in grado di farvi fronte. Più specificatamente l’assistenza morale riguarda il sostegno reciproco nell’ambito affettivo, psicologico e spirituale. Pertanto, i coniugi devono rispettarsi reciprocamente, astenendosi da comportamenti offensivi, oltraggiosi, denigratori ecc. e ad esempio nel caso di una malattia o di una difficoltà lavorativa del marito, la moglie non deve fargli mancare il proprio sostegno psicologico e morale, confortandolo e standogli il più possibile vicino. Il profilo materiale dell’assistenza riguarda invece, l’aiuto reciproco che dal punto di vista economico i coniugi devono darsi nella vita di tutti i giorni. Quindi, se uno dei due dovesse avere una necessità come ad esempio quella di sostenere una spesa urgente, alla quale non può provvedere da sé, è il coniuge che deve farsene in parte o totalmente carico;
- Obbligo di collaborazione nell’interesse della famiglia, dove si fanno rientrare quei comportamenti che sono necessari a soddisfare le esigenze del nucleo familiare inteso nel suo complesso. Si differenzia quindi, dal dovere di assistenza morale e materiale in quanto quest’ultimo ha riguardo solo ai rapporti reciproci tra coniugi mentre il dovere di collaborazione opera con riferimento all’intero gruppo familiare e quindi, anche ai figli. Entrambi i coniugi devono collaborare sia dal punto di vista morale sia dal punto di vista materiale per determinare le condizioni necessarie ad assicurare l’unità della famiglia;
- Obbligo alla coabitazione, che va inteso nel senso di abitare sotto lo stesso tetto con riferimento al concetto di comunione di vita. Mentre prima era il marito a fissare la residenza coniugale con il relativo obbligo per la moglie di seguirlo, dopo la riforma, i coniugi fissano la residenza di comune accordo, secondo le esigenze di entrambi e di quelle preminenti della famiglia. Tale obbligo non comporta una presenza continua nella casa familiare in quanto può essere reso non quotidiano e continuo per fatti e circostanze particolari (vedi i numerosi i casi in cui i coniugi spesso per motivi di lavoro, sono costretti ad allontanarsi). In questa situazione pertanto, marito e moglie avranno residenze autonome e mancherà una residenza familiare in senso proprio ma non verrà violato l’obbligo della coabitazione sussistendo una giusta causa all’allontanamento. Inoltre, il nostro legislatore ha posto a carico di entrambi i coniugi, il dovere di contribuzione ai bisogni familiari. Tale dovere in precedenza previsto solo a carico del marito e a carico della moglie solo nel caso in cui il coniuge non avesse mezzi sufficienti a provvedere, realizza il principio di parità tra coniugi introdotto dalla riforma del diritto di famiglia. Marito e moglie pertanto, insieme decidono e contribuiscono ai bisogni della famiglia, intesi come esigenze legate alla vita quotidiana domestica, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze e secondo la propria capacità di lavoro professionale o casalingo. I coniugi scelgono di comune accordo come gestire il “patrimonio familiare” al fine di provvedere al soddisfacimento dei bisogni del nucleo familiare, contribuendo alle necessità ognuno in proporzione alle proprie possibilità. Se ad esempio bisogna comprare un letto nuovo per sostituire quello che si è rotto, marito e moglie d’accordo tra loro decidono come affrontare la spesa, chi paga tra loro e in che misura, contribuendo ognuno in maniera proporzionale. E’ importante sottolineare che il nostro legislatore ha parificato al lavoro professionale quello casalingo, di chi pur non producendo reddito, provvede alle faccende domestiche.
- Obbligo di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni [Art. 147 cod. civ.]. L’obbligo di mantenimento dei figli consiste nel fornire loro quanto necessario per consentirgli un’adeguata vita di relazione nel contesto sociale in cui sono inseriti. Rientrano in tale obbligo tutte le attività utili per lo sviluppo psico-fisico dei figli. Marito e moglie ad esempio, possono decidere di dare una paghetta settimanale al figlio per le ordinarie spese quotidiane o possono iscriverlo in palestra per favorirne la socializzazione e permettergli di avere relazioni interpersonali. Gli obblighi di istruzione ed educazione riguardano quei provvedimenti che i genitori ritengono utili a formare il senso civico, la coscienza sociale e il grado culturale dei figli, rispettando quelle che sono le loro capacità ed inclinazioni. I genitori devono garantire ai figli un adeguato grado di istruzione, devono impartire loro un’educazione che gli consenta di comportarsi in maniera corretta e civile nella vita di tutti i giorni e devono prestargli aiuto morale e sostegno psicologico.
Gli obblighi dei coniugi nell’interesse della famiglia. La legge prevede inoltre, una serie di obblighi che gravano sui coniugi nell’interesse della famiglia.
La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che non passi a nuove nozze. Si può considerare tale norma come una deroga al principio di uguaglianza introdotto nel 1975 che trova però, il suo fondamento nell’esigenza di dare all’unione creatasi con il matrimonio, un nome familiare.
In alcuni casi il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito quando da tale uso derivi per lui un pregiudizio o può autorizzare la moglie a non usare il cognome del marito, qualora dall’uso possa derivarle un pregiudizio. Questi casi il più delle volte, sono da collegare a vicende di separazione.
Dopo il divorzio la moglie perde il cognome del marito, anche se il tribunale, qualora la donna ne abbia fatto richiesta, può autorizzarla a mantenerlo quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela. Tale decisione può essere modificata successivamente, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti [Art. 143 bis cod. civ.].
I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.
L’indirizzo della vita coniugale non è altro che il programma di vita che entrambi i coniugi delineano per sé e per i propri figli. Non ha solo contenuti patrimoniali (come ad esempio decidere quanto dei rispettivi guadagni vada risparmiato, come si devono investire i soldi della famiglia, il tenore di vita da tenere, ecc.), ma ha contenuti anche di natura interpersonale (ad esempio come determinare i compiti di ciascun membro all’interno della famiglia), avendo riguardo ai principi in forza dei quali si operano le scelte dei coniugi tra loro e quelli in base ai quali i coniugi educheranno i figli.
L’indirizzo familiare va quindi adattato e modificato dai coniugi secondo le esigenze del momento. Ciascuno dei coniugi ha il potere di dare individualmente, concreta attuazione al programma concordato, in armonia col principio di uguaglianza [Art. 144 cod. civ.].
Cosa avviene in caso di disaccordo tra i coniugi? Se i coniugi non raggiungono un accordo sulla fissazione della residenza, sulla determinazione dell’indirizzo della vita familiare oppure su altre questioni concernenti la vita della famiglia, possono ricorrere all’intervento di un giudice per risolvere i contrasti coniugali. Il giudice tenterà di raggiungere una soluzione concordata. Entrambi i coniugi possono chiedere al giudice di adottare, con un provvedimento non impugnabile, la soluzione che appare più opportuna con riguardo all’interesse della famiglia [Art. 145 cod. civ.].
Se i coniugi non richiedono l’intervento del giudice, la controversia rimarrà insoluta in quanto lo Stato non potrà intervenire nelle questioni interne tra marito e moglie.
Diversamente, laddove la controversia tra i coniugi riguardi i figli, è necessario – per ragioni di tutela – giungere comunque a una decisione. Nel caso in cui permanga un disaccordo tra i coniugi, il giudice attribuirà il potere di decisione al genitore che ritiene più idoneo, nel caso concreto, a curare l’interesse del figlio (e che potrà quindi essere, indistintamente, il marito o la moglie) [Art. 316 cod. civ.]. In tal modo viene comunque garantita l’uguaglianza tra coniugi e rispettata l’autonomia della famiglia, evitando decisioni imposte dall’esterno.
Cosa succede se uno dei due coniugi viola gli obblighi derivanti dal matrimonio? La violazione dell’obbligo di fedeltà può avere conseguenze rilevanti come l’addebito della separazione al coniuge traditore.
Tuttavia, perché si abbia l’addebito, non è sufficiente provare il tradimento, ma è necessario dimostrare che la violazione dell’obbligo di fedeltà sia stata la causa principale della crisi dell’unione e che abbia da sola o in via principale determinato l’impossibilità della convivenza e della comunione spirituale tra i coniugi.
In caso di allontanamento ingiustificato dalla residenza coniugale, che si verifica quando il marito o la moglie senza giusta causa, abbandona la casa coniugale e rifiuta di farvi ritorno nonostante l’invito dell’altro coniuge, si ha la fine della coabitazione. L’allontanamento deve essere duraturo e non dipendere da un dissenso riguardo alla dimora comune.
Il coniuge che resta nella residenza della famiglia non è più obbligato all’assistenza morale e materiale di quello che si è allontanato mentre quest’ultimo rimane comunque obbligato a contribuire ai bisogni della propria famiglia. Se ad esempio il marito decide di tornare a vivere con i propri genitori, senza che via sia alcuna ragione che giustifichi il suo allontanamento dalla casa in cui viveva con la moglie, questa non è più tenuta ad assisterlo affettivamente, spiritualmente e economicamente mentre il coniuge dovrà continuare a contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alle proprie sostanze e secondo la propria capacità di lavoro.
Nell’ipotesi di allontanamento senza giusta causa il giudice potrà ordinare il sequestro dei beni del coniuge che si è allontanato, affinché questi non si sottragga all’obbligo di contribuzione ed al mantenimento dei figli [Art. 146 cod. civ.].
Non si ha allontanamento ingiustificato nel caso in cui il coniuge che ha lasciato la casa coniugale, abbia proposto domanda di separazione o annullamento o ancora di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (divorzio).
Non costituiscono cessazione della coabitazione le assenze temporanee o saltuarie dovute a validi motivi di studio o di lavoro.
L’allontanamento dalla casa coniugale e il rifiuto di prestare assistenza morale e materiale al coniuge e di provvedere al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli sono comportamenti sanzionati penalmente.
Pertanto, il coniuge che abbandonando il domicilio domestico o mettendo in atto una condotta contraria all’ordine o alla morale della famiglia, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da centotre euro a milletrentadue euro [Art. 570 cod. pen.].
Sabrina Mirabelli La legge per tutti 27 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/270335_rapporti-personali-tra-coniugi
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PARLAMENTO
Senato della Repubblica – Commissione Giustizia – Affido dei minori
31 gennaio 2019. L’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei Gruppi, ha svolto alcune audizioni informali di psicologi e assistenti sociali nell’ambito dell’esame dei Disegni di legge nn. 45, 118, 735, 768 e 837, in materia di affido di minori.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?
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RICONOSCIMENTO
Mancato riconoscimento figlio naturale risarcimento danni
Se un padre non riconosce un figlio per tanti anni, questi può avere il risarcimento del danno morale?
Si sa: non tutte le storie sono uguali e la tua è quella di un uomo che non ha conosciuto il proprio padre, perché questi ha deciso di non riconoscerlo, e che è cresciuto con il solo supporto materno e magari con l’accorata presenza e collaborazione di un parente affezionato (magari uno zio o un nonno, ecc). In particolare, per tanti anni hai cercato di contattare il tuo genitore naturale, di riavvicinarlo e di vederti riconosciuto dal medesimo, ma i tuoi tentativi sono stati vani ed inefficaci. Insomma, dopo tanto patire e dopo un’attenta quanto approfondita riflessione hai deciso di fare causa al tuo genitore. In primo luogo, vorresti ottenere il suo cognome, in modo da formalizzare il fatto che si tratta di tuo padre. Hai saputo che questa causa si chiama azione di riconoscimento e che, se avesse un esito positivo, saresti considerato, a tutti gli effetti di legge, il suo figlio naturale. In secondo luogo vorresti ottenere anche un risarcimento: non faresti questa causa per motivi strettamente economici, ma ti sembrerebbe giusto ricevere un’equa riparazione delle sofferenze che hai dovuto patire, per non aver avuto al tuo fianco e per tutti questi anni, il tuo genitore naturale. Ebbene, se queste sono le premesse, la domanda che ti poni appare più che legittima: posso avere il risarcimento dei danni morali da mio padre? Dinanzi al mancato riconoscimento del figlio naturale, il genitore è tenuto al risarcimento dei danni? Come si quantifica il danno morale, se dovuto, a favore del figlio mai riconosciuto?
Azione di riconoscimento: di cosa si tratta? Se ti ritrovi nella situazione descritta in precedenza non puoi che chiederti dell’azione di riconoscimento e di cosa si tratta. Ebbene, devi sapere che un figlio, che non è stato mai riconosciuto dal padre, può in ogni momento, ad esempio anche in età adulta, chiedere al Tribunale competente (quello della residenza del proprio genitore) di essere riconosciuto come tale. In altri termini, mediante il proprio avvocato, il figlio cita in giudizio il padre che non lo ha mai riconosciuto, affinché il Tribunale accerti la predetta paternità. Si tratta di un diritto che non scade mai, tant’è che può essere esercitato a qualsiasi età e che, una volta acclarato, consentirà al figlio naturale di essere considerato come tale rispetto al padre, di poterne portare il cognome, di averne l’eventuale mantenimento, di potergli succedere a titolo ereditario, ecc. Come forse sai, l’azione di riconoscimento è principalmente caratterizzata dalla cosiddetta prova del Dna: attraverso un esame del sangue, infatti, è possibile stabilire la tanto agognata paternità. Tuttavia, nella pratica, non di rado accade che il genitore, una volta citato, provveda al riconoscimento spontaneo: egli infatti sa bene che non potrà sottrarsi alla prova del sangue, che quest’ultima non mentirà e che un comportamento processuale meno conflittuale e più collaborativo potrebbe indurre il giudice ad una sentenza più clemente negli effetti ulteriori: tra questi anche il danno morale, eventualmente richiesto dal figlio.
Mancato riconoscimento figlio: posso avere il danno morale? Tra le caratteristiche principali dell’azione di riconoscimento di un figlio naturale c’è sicuramente la richiesta del danno morale. Infatti, il figlio non riconosciuto, soprattutto se questa spiacevole situazione si è protratta sino all’età adulta, accompagna quasi sempre all’azione di riconoscimento anche la domanda di un risarcimento di natura morale: ma è ammissibile questa richiesta? Ebbene, nella giurisprudenza dei Tribunali di merito ed anche da parte della Suprema Corte di Cassazione è possibile ritrovare e vedere ammesso anche questo diritto. Secondo i giudici, il figlio che non è stato mai riconosciuto dal padre può chiedere allo stesso anche il danno morale [Art. 2059 cod. civ.] rappresentato dalla mancanza del genitore in tutti questi anni e dalle sofferenze di natura morale che ha dovuto subire a seguito di questa forzata assenza [Cass. civ. sent. n. 5652/2012 – 20137/2013 – 16657/2014]. In pratica, una situazione non molto dissimile da quella della morte di un genitore. In altre parole, un genitore mancante, perché non ha voluto riconoscere un figlio naturale è stato di fatto assente nella vita del medesimo, così come un genitore malauguratamente defunto. Si tratta di un ragionamento che incide anche sulla quantificazione del danno morale richiesto dal figlio.
Mancato riconoscimento figlio: quant’è il danno morale? Hai visto in precedenza che nel caso di un mancato riconoscimento del figlio, questi ha diritto al danno morale, ma ora, giustamente ti chiedi a quanto ammonterebbe: ebbene devi considerare per quanti anni c’è stata la predetta assenza. Un genitore che è mancato per tanti anni deve riconoscere un danno morale al proprio figlio, pari al numero degli anni in cui è mancato. In altre parole, i giudici, considerando le tabelle con le quali si quantifica il danno da perdita di un genitore a seguito di un incidente (ad esempio quelle del Tribunale di Milano), quantificano il danno morale da mancato riconoscimento del figlio partendo dalla stessa misura, ma ovviamente riducendola in proporzione agli anni in cui è effettivamente mancato il predetto genitore (che non è morto, ma è stato di fatto assente come se lo fosse, ad esempio, per 25 anni). Nella pratica, si tratta di un danno che viene quantificato in via equitativa, che non sempre è liquidato nella stessa misura dai diversi Tribunali, ma che comunque si sostanzia in una cifra non esigua e che è posta a carico del genitore condannato.
Casi concreti. Il Tribunale di Roma [sent. del 19.05.2017], partendo dai predetti presupposti, ha quantificato il danno morale del figlio non riconosciuto partendo da quello ordinariamente dovuto nel caso di morte del genitore (pari a circa 188.000 euro) secondo le tabelle del medesimo. Ha quindi aumentato questa somma del 25%, in considerazione del fatto che il padre è stato assente durante la minore età del figlio (arrivando a circa 236.000 euro). Dopodiché ha ridotto il tutto al 30%, visto che il genitore non è morto e che, a seguito del riconoscimento sarà giocoforza presente nella vita del figlio, arrivando ad una liquidazione complessiva del danno morale di circa 70.000 euro. Invece, il Tribunale di Matera [sent. n. 1370/07.12.2017] è arrivato ad una liquidazione inferiore, riducendo notevolmente il danno dovuto nell’ipotesi analoga della morte del genitore, quantificando quindi, il danno morale complessivo in 40.000 euro e riducendolo ulteriormente del 50%, visto che il padre, pur non avendo mai riconosciuto formalmente il figlio, aveva avuto contatti e frequentazioni col medesimo durante il periodo precedente al processo.
Marco Borriello La legge per tutti 1 febbraio 2019
www.laleggepertutti.it/270530_mancato-riconoscimento-figlio-naturale-risarcimento-danni
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ROTA ROMANA
Il Papa alla Rota Romana: unità e fedeltà capisaldi del matrimonio
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/january/documents/papa-francesco_20190129_rota-romana.html
È il Sacramento del matrimonio il fulcro del discorso rivolto da Papa Francesco agli officiali, agli avvocati e agli altri collaboratori del Tribunale apostolico della Rota romana per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario.
In una società in cui avanza l’onda della secolarizzazione, “i fedeli cattolici fanno fatica a testimoniare uno stile di vita secondo il Vangelo, anche per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio”. Partendo da questa riflessione, Papa Francesco indica un’urgenza ai membri della Rota romana: “È necessario che la Chiesa, in tutte le sue articolazioni, agisca concordemente per offrire adeguato sostegno spirituale e pastorale”.
Unità e fedeltà. Sono due i “fondamentali capisaldi”, afferma il Pontefice, “non solo della teologia e del diritto matrimoniale canonico, ma anche e ancor prima dell’essenza stessa della Chiesa di Cristo”: l’unità e la fedeltà. Per essere “obblighi giuridici di ogni unione coniugale in Cristo“, questi “due beni matrimoniali”, sottolinea il Papa, devono essere “epifania della fede battesimale”.
” Perché sia validamente contratto, il matrimonio richiede che si stabilisca in ciascuno dei nubendi una piena unità e armonia con l’altro, affinché, attraverso il mutuo scambio delle rispettive ricchezze umane, morali e spirituali – quasi a modo di vasi comunicanti – i due coniugi diventino una sola cosa. Il matrimonio richiede anche un impegno di fedeltà, che assorbe tutta la vita “
La fedeltà è un dono. I coniugi che vivono il loro matrimonio “nell’unità generosa e con amore fedele“, sottolinea il Papa, sono “un prezioso aiuto pastorale alla Chiesa”:
“Gli sposi che vivono nell’unità e nella fedeltà riflettono bene l’immagine e la somiglianza di Dio. Questa è la buona notizia: che la fedeltà è possibile, perché è un dono, negli sposi come nei presbiteri. Questa è la notizia che dovrebbe rendere più forte e consolante anche il ministero fedele e pieno di amore evangelico di vescovi e sacerdoti “
Preparazione al matrimonio. L’unità e la fedeltà, definiti da Francesco “due beni irrinunciabili e costitutivi del matrimonio”, richiedono di essere “non solo adeguatamente illustrati ai futuri sposi, ma sollecitano l’azione pastorale della Chiesa”. Per accompagnare “la famiglia nelle diverse tappe della sua formazione e del suo sviluppo”, ricorda il Papa, è necessaria una preparazione al matrimonio che sia “remota, prossima e permanente“.
Formazione matrimoniale. I soggetti principali della formazione matrimoniale, sottolinea il Pontefice, sono i pastori; “tuttavia, è quanto mai opportuno, anzi, necessario coinvolgere le comunità ecclesiali nelle loro diverse componenti, che sono corresponsabili di questa pastorale sotto la guida del vescovo diocesano e del parroco”. Alla “responsabilità primaria dei pastori“, osserva il Pontefice, si aggiunge dunque “la partecipazione attiva della comunità nel promuovere il matrimonio e accompagnare le famiglie con il sostegno spirituale e formativo”.
Carismi coniugali. Ricordando l’esperienza dei santi sposi Aquila e Priscilla, collaboratori dell’apostolo e “tra i più fedeli compagni della missione di san Paolo“, Francesco lancia una speciale esortazione: “Chiediamo allo Spirito Santo di donare anche oggi alla Chiesa sacerdoti capaci di apprezzare e valorizzare i carismi dei coniugi con fede robusta e spirito apostolico come Aquila e Priscilla“.
Cura pastorale. Sono molteplici i mezzi, ricorda inoltre il Santo Padre, nella “cura pastorale costante e permanente della Chiesa per il bene del matrimonio e della famiglia”: “l’accostamento alla Parola di Dio, specialmente mediante la lectio divina; gli incontri di catechesi; il coinvolgimento nella celebrazione dei Sacramenti, soprattutto l’Eucaristia; il colloquio e la direzione spirituale; la partecipazione ai gruppi familiari e di servizio caritativo“.
Amedeo Lomonaco – Vaticannews 29 gennaio 2019
www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-01/discorso-papa-francesco-rota-romana-matrimonio.html
Francesco: non i divorzi ma le coppie fedeli dovrebbero fare notizia
È “triste” che “una coppia che vive da tanti anni insieme non fa notizia” mentre “fanno notizia gli scandali, le separazioni, i divorzi”: Papa Francesco ha ricevuto il Tribunale della Rota Romana per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario, sottolineando che “questa è la buona notizia: che la fedeltà è possibile” e che “tanti sposi cristiani sono una predica silenziosa per tutti”. Unità e fedeltà, ha ribadito, sono “due fondamentali capisaldi” del diritto matrimoniale canonico.
Ai prelati uditori, officiali, avvocati e collaboratori del tribunale vaticano, che in analoghi appuntamenti aveva esortato ad applicare la sua riforma della nullità matrimoniale, Jorge Mario Bergoglio quest’anno ha posto l’accento sul fatto che “è quanto mai opportuno, anzi, necessario coinvolgere le comunità ecclesiali” nella formazione matrimoniale. Ricordando, in particolare, l’esempio dei santi sposi Aquila e Priscilla, che san Paolo considerava “collaboratori in pieno dell’ansia e del lavoro dell’Apostolo”, il Papa ha sottolineato che “i coniugi che vivono il loro matrimonio nell’unità generosa e con amore fedele, sostenendosi a vicenda con la grazia del prezioso aiuto pastorale alla Chiesa. Infatti, offrono a tutti un esempio di vero amore e diventano testimoni e cooperatori della fecondità della Chiesa stessa”.
“Davvero tanti sposi cristiani sono una predica silenziosa per tutti – ha rimarcato Francesco – una predica “feriale” direi, di tutti i giorni, e dobbiamo purtroppo constatare che una coppia che vive da tanti anni insieme non fa notizia, è triste, mentre fanno notizia gli scandali, le separazioni, i divorzi”, ha proseguito citando una sua omelia pronunciata il 25 maggio 2018 a Casa Santa Marta: “Gli sposi che vivono nell’unità e nella fedeltà riflettono bene l’immagine e la somiglianza di Dio. Questa è la buona notizia: che la fedeltà è possibile, perché è un dono, negli sposi come nei presbiteri”.
Nel suo discorso il Papa ha messo in evidenza il fatto che “la società in cui viviamo è sempre più secolarizzata, e non favorisce la crescita della fede, con la conseguenza che i fedeli cattolici fanno fatica a testimoniare uno stile di vita secondo il Vangelo, anche per quanto riguarda il Sacramento del matrimonio”.
In particolare “l’unità e la fedeltà” sono “due fondamentali capisaldi non solo della teologia e del diritto matrimoniale canonico, ma anche e ancor prima dell’essenza stessa della Chiesa di Cristo”, che “prima di essere, anzi, per essere obblighi giuridici di ogni unione coniugale in Cristo, devono essere epifania della fede battesimale” e rappresentano la condizione perché il matrimonio “sia validamente contratto”.
Unità e fedeltà, peraltro, “sono due valori importanti e necessari non solo tra i coniugi, ma in generale nei rapporti interpersonali e in quelli sociali. Tutti siamo consapevoli degli inconvenienti che determinano, nel consorzio civile, le promesse non mantenute, la mancanza di fedeltà alla parola data e agli impegni assunti”. Unità e fedeltà, infine, devono essere al centro dell’azione pastorale della Chiesa in una “triplice preparazione al matrimonio: remota, prossima e permanente”.
Anche il diritto matrimoniale, correttamente interpretato, “si pone al servizio della salus animarum alla dottrina cattolica “per quanto riguarda l’idea naturale del matrimonio, con relativi obblighi e diritti, e ancor più per quanto concerne la sua realtà sacramentale”.
Il decano del Tribunale della Rota Romana, monsignor Pio Vito Pinto, che ha introdotto l’udienza, ha presentato al Papa tre persone presenti la cui presenza sottolineava aspetti significativi dell’insegnamento della Chiesa, monsignor José Carballo, segretario della Congregazione vaticana per i religiosi; Antonio Uricchio, rettore dell’Università di Bari intitolata ad Aldo Moro, e Angelo Raffaele Margiotta, segretario generale del sindacato Confsal.
“Santità – ha concluso – a gennaio scorso ci avete detto che nostro compito non è solo quello di soccorrere ed accudire le famiglie nei loro fallimenti ma anche assistere e sostenere i pastori in queste sfide epocali, che solo se tutti uniti intorno a voi, Cristo in terra, potremo essere capaci di vincere, divenendo così presupposto di una Chiesa famiglia di famiglie che non temerà il confronto con le culture, le fedi portate dai migranti che bussano alla porta dell’Europa cristiana”.
Iacopo Scaramuzzi La Stampa Vatican Insider 29 gennaio 2019
www.lastampa.it/2019/01/29/vaticaninsider/francesco-non-i-divorzi-ma-le-coppie-fedeli-dovrebbero-fare-notizia-bmpwytvYO5CrBovIrETXiM/pagina.html
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SEPARAZIONE
Come convincere il coniuge a dare la separazione
Sono ormai mesi che non vai d’accordo con tuo marito. Ogni argomento diventa motivo di discussione e finite sempre per litigare. Non riesci a trovare più una valida ragione che vi unisca; quel legame di un tempo sembra ormai svanito. «Non possiamo andare avanti in questo modo» gli hai detto più di una volta sconfortata, suggerendo l’opportunità di prendervi una pausa. Ma lui minimizza: quando si parla di separazione si fa subito mansueto, salvo poi riprendere la consueta rigidità dopo poco. Questo “tira e molla” ti sta sfibrando: vorresti risolvere la questione nel più celere dei modi e far sì che lui prenda atto dell’ormai conclamata fine del matrimonio. Non sai però come porti dinanzi a questa nuova situazione: hai il timore che se lo portassi da un avvocato lui si rifiuterebbe di venire, mettendoti i bastoni tra le ruote. Come puoi uscire da questa situazione? Come convincere il coniuge a dare la separazione?
Se è questo il tuo problema, ti posso assicurare che la soluzione è molto più semplice di quanto ora ti possa apparire. Leggendo più avanti scoprirai che l’eventuale opposizione del coniuge al procedimento di separazione e divorzio non costituisce un ostacolo all’intervento del giudice. Vediamo quindi come agire in questi casi per separarsi senza la collaborazione del coniuge.
Se non si va d’accordo bisogna separarsi? Prima però di spiegarti cosa prevede la legge, mi piacerebbe che tu possa ragionare sugli effetti della tua scelta. Ci sono azioni che non consentono una via di ritorno e, una volta intraprese, decidono il futuro della nostra vita. Così come lo è il matrimonio, lo è anche la separazione. Da molti vista come una liberazione, spesso la cura si rivela peggio della malattia, specie quando ci sono bambini. Le coppie che non si amano più hanno diritto a separarsi, è vero; ma è anche vero che, oggi più che mai, ci si arrende dinanzi ai minimi ostacoli. Ecco perché voglio assicurarmi che tu e tuo marito o tua moglie abbiate davvero percorso tutte le strade per tentare di salvare il vostro matrimonio. Ad esempio ci sono molte coppie che sono riuscite a recuperare il rispetto, e successivamente anche l’amore, grazie a un mediatore familiare o a uno psicologo [del consultorio familiare] che sappia filtrare le ragioni di entrambi, interpretarle e aiutarvi a capirvi di nuovo. Queste figure professionali servono a sbloccare la coppia, a rimuovere la presunzione di essere sempre dalla parte della ragione: fanno uscire fuori le posizioni diverse e poi le mediano.
Non poche coppie sono poi riuscite a recuperare il proprio rapporto con un viaggio. Altre invece hanno trovato nel proprio parroco una persona di cui fidarsi e farsi consigliare per il meglio. Un sacerdote illuminato, che guarda al divorzio non tanto come soluzione peccaminosa ma come una conseguenza di un difetto di comunicazione, può aiutare marito e moglie a comprendersi di nuovo.
Detto ciò, se anche tali strumenti sono risultati inutili, non ti resta che passare alle vie legali e quindi a separarti.
Ci si può separare contro il volere del coniuge? Separarsi è un diritto di ogni persona sposata. Non è un diritto della coppia in quanto tale, ma del singolo coniuge. Questo significa che il procedimento di separazione può essere intrapreso anche solo dal marito o dalla moglie, senza il consenso dell’altro. Il processo andrà ugualmente avanti. Difatti la legge attribuisce la facoltà di agire dinanzi al giudice solo dichiarando che la convivenza è divenuta impossibile: impossibilità che non deve essere verificata in concreto ossia in termini oggettivi; basta anche la semplice percezione soggettiva del ricorrente e, quindi la sua dichiarazione presentata al tribunale. In buona sostanza, il magistrato “si fida” di ciò che gli viene detto, perché è indubbio che, se una persona chiede la separazione, è perché non riesce più a stare con il coniuge. E tanto basta per avviare il procedimento in tribunale.
Detto ciò, però, in assenza del consenso di entrambi i coniugi, l’unico modo per separarsi è un procedimento di separazione giudiziale, quello cioè che avviene con una vera e propria causa: lunga, costosa e a volte dilaniante da un punto di vista psicologico. Ecco perché è sempre bene tentare un accordo per procedere a una separazione consensuale. Se non sei riuscito a ottenere la collaborazione del tuo coniuge per avviare la separazione, tutto ciò che devi fare è andare dal tuo avvocato e conferirgli un mandato per portare avanti il processo. L’atto di ricorso verrà notificato dall’ufficiale giudiziario a tuo marito o a tua moglie e, con o senza di lui, la causa andrà avanti. Al termine verrà emessa la sentenza di separazione. Dopo un anno dalla separazione giudiziale potrai chiedere il divorzio: ed è da questo momento che il matrimonio cesserà del tutto.
Perché conviene separarsi con un accordo? Ci sono tre modi diversi per separarsi consensualmente.
- Il primo di questi è andare in Comune, davanti al sindaco o all’ufficiale di Stato civile. Tutto si svolge in due incontri. Non ci sono costi né c’è bisogno di avvocati. L’unico limite è che la coppia non deve avere figli minori o maggiorenni non ancora indipendenti economicamente o portatori di handicap. Non si può neanche ricorrere al Comune se nei patti di separazione è previsto il trasferimento di beni. Tutto ciò che è consentito fare è prevedere il pagamento di un mantenimento.
- Il secondo modo per separarsi consensualmente è con una sorta di contratto firmato insieme ai rispettivi avvocati. Si chiama negoziazione assistita. Il vantaggio è che si risolve tutto in un solo pomeriggio per la firma dell’atto. Atto che poi viene portato in tribunale e convalidato dal giudice. Questo procedimento può avvenire anche in presenza di figli e di trasferimenti di ricchezza. Bisognerà comunque pagare due avvocati.
- Il terzo modo è quello più classico: con un’udienza davanti al presidente del tribunale. Questi tenta una conciliazione e se non riesce pronuncia la separazione. Si arriva all’udienza “preparati”: ossia con un atto di ricorso firmato già da entrambe le parti e depositato in tribunale dall’avvocato della coppia. In alternativa ciascun coniuge può avere il proprio avvocato. I costi del giudizio sono irrisori (circa 40 euro). Bisogna comunque onorare il compenso dell’avvocato.
Il vantaggio di una separazione consensuale è quello di evitare i costi enormi e i tempi biblici che una separazione giudiziale comporta. La leva economica si rivela sempre la più convincente per tentare un accordo: così, per smuovere il coniuge che non vuol concedere la separazione, basterà fargli capire che, con o senza il suo consenso, l’altro otterrà ugualmente la sentenza. In buona sostanza è del tutto inutile opporsi alla separazione: non ci si può rifiutare a “dare la separazione”. Questa viene concessa anche a richiesta di uno solo dei due coniugi. Il che però implica che, in assenza della collaborazione dell’altro, la procedura è più tortuosa e pesante anche dal punto di vista monetario. Difatti, a un maggior impegno degli avvocati corrisponderà anche una parcella più salata.
Senza contare che il giudice potrebbe decidere un importo per il mantenimento del tutto non in linea con le aspettative del coniuge più “benestante”. Anche in questo caso la strada di un accordo consente di ridurre i rischi che dalla sentenza possono derivare.
Redazione La Legge per tutti 3 febbraio 2019
www.laleggepertutti.it/273259_come-convincere-il-coniuge-a-dare-la-separazione
Effetti patrimoniali della separazione
Si fa spesso confusione tra separazione e divorzio. I termini si scambiano, quasi fossero sinonimi. Forse perché si pensa che quando l’amore e la convivenza finiscono, una cosa vale l’altra. Non è proprio così. E non solo per una questione lessicale o di puntigliosità, ma perché si tratta di due situazioni che hanno delle conseguenze diverse. Ad esempio, gli effetti patrimoniali della separazione non sono gli stessi del divorzio. Inoltre, bisogna anche distinguere tra separazione consensuale e separazione giudiziale. Insomma, quando uno dei due coniugi esce di casa per non tornare mai più, occorre sapere bene il modo in cui lo fa e se quel «mai più» risponde ad una separazione o ad un divorzio.
Si può dire che la differenza sostanziale tra questi due termini è l’effetto che produce ciascuno di essi sul matrimonio. La separazione è una sorta di «terreno neutro» in cui né c’è il legame che c’era prima né si è arrivati ancora al divorzio, cioè alla rottura completa e definitiva. In questa fase, dunque, esiste ancora un margine per la riconciliazione, così come per non portare più indietro. Per questo motivo, i doveri reciproci del matrimonio restano sospesi, tranne quelli di assistenza e di rispetto. A differenza del divorzio, dunque, la separazione non scioglie il matrimonio ma modifica alcuni dei suoi effetti. Quali sono quelli patrimoniali che comporta la separazione?
I cambiamenti possono riguardare il regime stesso di comunione dei beni, se è stato quello adottato dai coniugi quando si sono sposati. Ma anche l’assegnazione della casa in cui hanno vissuto insieme o il mantenimento dell’ex e dei figli. Vediamo di seguito gli effetti patrimoniali della separazione a seconda dei casi.
Separazione consensuale e giudiziale: quale differenza? In qualsiasi momento, e per le cause consentite dalla legge, i coniugi (o soltanto uno di loro) possono chiedere la separazione legale, che comporta la sospensione dei reciproci doveri di collaborazione, di coabitazione e di contribuzione ma lascia intatti quelli di assistenza e di reciproco rispetto. La separazione legale comporta anche la cessazione della comunione dei beni tra i coniugi [Art. 150 cod. civ.]. Significa che, da quel momento in poi, qualsiasi bene venga acquistato dal marito sarà di proprietà esclusiva del marito, così come qualsiasi bene acquistato dalla moglie sarà di esclusiva proprietà della moglie.
Per conoscere gli effetti patrimoniali della separazione bisogna, innanzitutto, la differenza tra separazione consensuale e quella giudiziale.
La separazione consensuale. Per separazione consensuale si intende quella frutto di un accordo tra i coniugi per porre fine alla convivenza e, eventualmente, al matrimonio. Questo accordo, da sottoporre ad un giudice per la relativa omologazione, deve esprimere la volontà dei diretti interessati sui loro futuri rapporti patrimoniali e su quelli personali con i figli.
Se l’accordo rispetta la legge e gli interessi dei figli, il giudice emette un decreto con cui la separazione acquista valore legale e produce i suoi effetti.
La separazione giudiziale. Situazione ben diversa quando ci si trova davanti ad una coppia che non riesce a trovare un accordo né per restare insieme né per separarsi. Qui l’intervento del giudice viene chiesto ai sensi dell’articolo 151 del Codice civile, che consente la separazione «quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole». Insomma, per pretendere la separazione giudiziale non basta dire che si è annoiati la sera davanti al televisore: ci devono essere dei motivi ben più gravi che convincano un giudice a mettere la parola fine alla convivenza e a concedere la separazione, come può essere una sequenza continua e quotidiana di litigi che minano l’ambiente familiare fino a renderlo invivibile. Ci deve essere, insomma, un atteggiamento che dimostri l’incompatibilità dei soggetti ed il distacco spirituale anche di uno solo di loro, come sottolineato dalla Cassazione [Cass. Sent. n. 8713/2015].
Il giudice dichiara anche (se ce ne sono le circostanze e ne viene richiesto) a quale dei coniugi è addebitabile la separazione, cioè a chi addossarne la colpa in virtù del suo comportamento contrario ai doveri del matrimonio. Si parla, per citare i casi più frequenti, di infedeltà, di maltrattamenti o di violazione dell’obbligo di assistenza (uno dei due brucia lo stipendio in divertimento sfrenato e lascia l’altro a stomaco vuoto). La prova che atteggiamenti come questi abbiano portato alla crisi coniugale basta e avanza per dimostrare la violazione degli obblighi del matrimonio. E, quindi, a motivare la separazione giudiziale con addebito preciso ad uno dei coniugi.
Effetti patrimoniali della separazione consensuale. In caso di separazione consensuale, ed in estrema sintesi, sono gli stessi coniugi a determinare quali saranno gli effetti patrimoniali provocati dalla loro decisione. Questo perché saranno loro stessi a deciderlo nell’accordo di separazione da sottoporre al giudice.
Marito e moglie, pertanto, troveranno un’intesa su:
- L’eventuale assegno di mantenimento a favore della parte più debole e/o dei figli;
- La spartizione dei beni comuni;
- L’assegnazione della casa.
Effetti patrimoniali della separazione giudiziale. In questo caso, invece, non saranno in coniugi ma un giudice a determinare gli effetti patrimoniali della separazione, in particolare sulla spartizione dei beni acquistati dopo il matrimonio nel caso in cui la coppia avesse optato per il regime di comunione. Quelli personali (come l’abbigliamento o le scarpe, per dire) e quelli acquistati prima del matrimonio restano di proprietà esclusiva di chi li ha comprati o avuti in regalo [Cass. Sent. n. 17317/2013]. Quindi, la mia collezione di dischi dei Beatles che avevo messo insieme prima di sposarmi non me la tocca nessuno, mentre resterà a mia moglie la collezione di orologi d’epoca che aveva prima del matrimonio.
Separazione: effetti patrimoniali generali. Ci sono degli effetti patrimoniali che interessano sia la separazione consensuale sia quella giudiziale. Il primo e più immediato effetto patrimoniale della separazione è lo scioglimento del regime di comunione dei beni. Ovviamente, nel caso in cui i coniugi lo avessero adottato al momento del matrimonio oppure successivamente, altrimenti il problema non si pone. Questo avviene nel momento in cui il presidente del Tribunale autorizza la separazione oppure alla sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale omologato. Fino a quel momento, e poiché lo scioglimento non interviene a carattere retroattivo, gli acquisti compiuti dai coniugi si ritengono in comunione dei beni.
Questo effetto patrimoniale della separazione comporta:
- Il subentro della comunione ordinaria al posto di quella legale;
- Il passaggio al patrimonio comune dei beni de residuo;
- Un nuovo regime patrimoniale, cioè quello della separazione;
- La divisione del patrimonio comune.
Prima di quest’ultimo passaggio, cioè della divisione, è necessario procedere ai rimborsi e alle restituzioni dell’uno verso l’altro [Art. 192 cod. civ.]. Significa che se uno dei due ha prelevato dal conto in comunione una cifra che non era destinata a soddisfare un obbligo familiare, dovrà rimetterla nella cassa comune. Lo stesso deve fare chi ha deciso di spendere una somma di sua iniziativa a meno che sia un atto di straordinaria amministrazione e venga dimostrato il vantaggio per la comunione o abbia soddisfatto un bisogno della famiglia. Ad ogni modo, ciascuno dei coniugi ha la possibilità di chiedere indietro i soldi prelevati dal patrimonio personale e destinati al patrimonio comune. Così come chi è in credito può prelevare dalla cassa comune (nell’ordine in denaro, in mobili ed in immobili) fino a restare alla pari.
Assegnazione della casa familiare. Altro importante effetto patrimoniale della separazione arriva con l’assegnazione della casa familiare ad uno o ad un altro dei coniugi. Qui subentra il solito discorso: se la separazione è consensuale, l’accordo tra marito e moglie dovrà comportare anche il discorso relativo all’immobile di famiglia. Altrimenti, sarà un giudice a decidere, tentando di salvaguardare, soprattutto, l’interesse dei figli (specie se minorenni).
Nel caso in cui la coppia non abbia figli, i casi da valutare sono due:
- Che la casa sia di proprietà comune, cioè che sia stata acquistata in virtù del loro matrimonio e che sia intestata ad entrambi i coniugi;
- Che la casa sia di proprietà esclusiva di uno dei due, come nel caso in cui lei l’abbia ereditata dal padre e ci abbia vissuto con il marito gli anni in cui sono stati insieme.
Solo nel primo caso si potrà pretendere la divisione giudiziale della casa. Nel secondo, invece, l’immobile resterà a chi detiene la proprietà esclusiva oppure (tornando al caso dei bambini) al genitore a cui vengono affidati i figli, anche se avrà il solo diritto di godimento.
Assistenza materiale o assegno di mantenimento. Non è di banale importanza questo effetto patrimoniale della separazione: l’assistenza materiale è contemplata nel Codice civile in termini piuttosto espliciti. «Il giudice – si legge – stabilisce in favore del coniuge il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora egli non disponga di adeguati redditi propri» [Art. 156 cod. civ.]. In pratica, e come detto, la separazione non cancella il matrimonio ma solo alcuni dei doveri dei coniugi. Assistenza e rispetto restano fino al divorzio, così come deve restare lo stesso tenore di vita goduto fino a quel momento [Cass. Sent. n. 12196/2017]. Questo significa che l’obbligo di assistenza materiale si traduce nella pratica nell’assegno di mantenimento, dovuto quando:
- C’è una separazione legale;
- Uno dei due coniugi non ha un reddito proprio;
- Il coniuge beneficiario dell’assegno non è il responsabile della separazione (cioè non gli è stata addebitata la fine della convivenza);
- Il coniuge che deve pagare l’assegno ha un reddito sufficiente a garantire il mantenimento.
Da precisare che la Cassazione, in una sentenza tutto sommato recente [Cass. Sent. n. 402/2018], ha sancito che se la convivenza è stata piuttosto breve l’assegno di mantenimento non sarà dovuto.
Eredità e pensione di reversibilità. Il coniuge separato ha diritto alla pensione di reversibilità dell’altro coniuge nel caso in cui quest’ultimo muoia?
Se i loro accordi (in caso di separazione consensuale) o il tribunale (se c’è stata la separazione giudiziale) non dicono il contrario, la risposta è sì. Ha diritto alla pensione di reversibilità sempre per lo stesso motivo che abbiamo citato più volte, cioè: la separazione non scioglie il matrimonio. Quindi il superstite è, a tutti gli effetti, vedovo o vedova della defunta o del defunto.
Di conseguenza, avrà anche il diritto di ereditare la sua quota di patrimonio. Viceversa, perderà i diritti successori il coniuge a cui è stata addebitata la separazione.
Carlos Arija Garcia La legge per tutti 31 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/271193_effetti-patrimoniali-della-separazione
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