UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 738 – 27 gennaio 2019
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984
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02 ABORTO VOLONTARIO Interruzione volontaria di gravidanza. Aspetti epidemiologici.
02 Più “contraccettivi d’emergenza” che nati.
04. Migliori dei contesti organizzativi nella prevenzione delle IVG.
04 Il consultorio offre una guida per affrontare il dolore post-aborto.
05 3 consigli ai cristiani che dibattono sull’aborto.
06 ADOZIONI La crisi dell’adozione spia dell’attuale clima sociale
07 ANONIMATO Lascia neonato in ospedale. Senza la segretezza non sarebbe nato.
08 ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI Aborto, domande e un’amara certezza.
09 Per i medici c’è un diritto alla obiezione.
09 BIOETICA App di bioetica per i giovani presentata alla Gmg di Panama
10 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 2, 16 gennaio 2019.
12 CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA Malattia: le sfide dell’eros.
13 CHIESA CATTOLICA Giovanni XXIII e l’Indizione del Concilio Vaticano.
13 “Confrontarsi con le scienze per una nuova apologetica”.
14 Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
16 COMM.ADOZIONI INTERNAZ. È possibile dedurre dalla denuncia dei redditi le spese sostenute?
16 CONSULTORI FAMILIARI Regione Veneto finanzia sportelli x famiglie, coppie, donne, minori
17 CONSULTORI ISPIRAZ. CATTOLICA Consultori Familiari Oggi – anno 26 – n. 2 – dicembre 2018
18 CONSULTORI UCIPEM Cremona. “Genitori e figli: i cambiamenti in adolescenza”.
18 Mantova. Gruppo per insegnanti scuola primaria e secondaria.
18 Etica Salute & Famiglia – anno XXII n. 1 – gennaio 2019.
19 Trento, “Altalena”, uno spazio di incontro per genitori e figli.
19 DALLA NAVATA 3° Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 27 gennaio 2019.
19 Nazaret il sogno di un mondo nuovo.
19 DIRITTO DI FAMIGLIA L’interesse del minore nella proposta di riforma.
22 Riforma dell’affido condiviso: profili critici e ragioni di contrarietà.
32 Mantenimento diretto: che cos’è, chi lo vuole e chi no.
37 DIVORZIO Divorzio pronunciato in Romania prevale sulla separazione italiana
38 ENTI TERZO SETTORE Risorse umane per ODV e APS nel codice del terzo settore
38 Scuola di volontariato e legame sociale – parte l’anno formativo 20
39 FAMIGLIA DI FATTO Diritti e doveri all’interno della convivenza, tra i partner e nei
41 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA “In confessionale ho capito il dramma dell’aborto”
43 NULLITÀ DEL MATRIMONIO Meglio l’annullamento del matrimonio o il divorzio?
45 PARLAMENTO Senato della Repubblica–Commissione Giustizia–Affido dei minori
45 PSICOLOGIA DI COPPIA Amore liquido: trasformare la vostra relazione in una storia seria.
46 PSICOPEDAGOGIA Come aiutare un figlio adulto insicuro
48 UNIONI CIVILI Scioglimento: la (prima) pronuncia del Tribunale di Novara.
51 UCIPEM Prospettive future. Intervento del presidente dr F. Lanatà.
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ABORTO VOLONTARIO
Interruzione volontaria di gravidanza. Aspetti epidemiologici. passim
Dati 2017. Il tasso di abortività (numero di Ivg rispetto a 1000 donne di 15-49 anni residenti in Italia) registrato nel nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei Paesi occidentali e nel 2017 risulta pari a 6,2‰ (-3,3% rispetto al 2016).
Il rapporto di abortività (numero di Ivg rispetto a 1000 nati vivi) nel 2017 è risultato pari a 177,1‰ nati vivi, con una riduzione del 2,9% rispetto al dato del 2016.
Riguardo alla distribuzione sul territorio nazionale, si osservano diminuzioni percentuali particolarmente elevate in Liguria, Umbria, Abruzzo e nella Provincia autonoma di Bolzano. La Provincia autonoma di Trento è l’unica che presenta un leggero aumento di interventi.
Probabilmente sulla riduzione delle interruzioni volontarie di gravidanza ha inciso anche l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza, Levonorgestrel (Norlevo) – pillola del giorno dopo e Ulipistral acetato (ellaOne) – pillola dei 5 giorni dopo, che non hanno più l’obbligo di prescrizione medica per le maggiorenni
Un altro dato importante è che un terzo delle Ivg totali in Italia continua a riguardare donne straniere, contributo che però sta nel tempo diminuendo in percentuale, in numero assoluto e nel tasso di abortività. A questo proposito si è dimostrato efficace proporre a queste donne in occasione del percorso nascita un counselling sulla procreazione responsabile per promuovere un maggior uso dei metodi contraccettivi alla ripresa dei rapporti sessuali dopo la gravidanza.
In generale, i decrementi osservati nei tassi di abortività sembrano indicare che tutti gli sforzi fatti in questi anni, specie dai consultori familiari (pubblici), per aiutare a prevenire le gravidanze indesiderate e il ricorso all’Ivg stiano dando i loro frutti, anche nella popolazione immigrata; sarà quindi indispensabile rafforzare e potenziare questi servizi.
Continua l’aumento dell’utilizzo dell’aborto farmacologico come metodica per l’intervento (17,8% rispetto a 15,7% del 2016 e 3,3% del 2010) e rimane alta la percentuale di obiettori (68,4% dei ginecologi e 45,6% degli anestesisti) sebbene risulta una media nazionale di 1,2 Ivg a settimana per ginecologo non obiettore.
Angela Spinelli, direttore del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute
Istituto superiore di sanità 24 gennaio 2019
www.epicentro.iss.it/ivg/epidemiologia?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=24gennaio2019
In Italia più “contraccettivi d’emergenza” che bambini nati
Nella relazione al Parlamento sulla 194\1978 anche il dato sulle pillole “del giorno dopo” e “dei cinque giorni dopo”: un numero di confezioni che ha superato le nascite. E spiega anche gli aborti in calo.
Vedi newsUCIPEM n. 737, 20 gennaio 2019, pag. 2
Quasi il 10% dei ginecologi non obiettori nel 2017 non ha effettuato aborti perché le rispettive amministrazioni li hanno assegnati ad altri servizi. In parole povere: dalla relazione appena consegnata dal Ministero della Salute al Parlamento sull’applicazione della legge 194\1978 vediamo che nel 2017, 146 ginecologi non hanno effettuato aborti pur avendo dato la loro disponibilità, perché l’organizzazione sanitaria ha ritenuto più opportuno far fare loro altro. Basterebbe questo dato a smontare l’incredibile campagna ideologica contro l’obiezione di coscienza: la necessità di personale medico è in altri settori, non per le Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza). Altra conferma: se tutti i ginecologi non obiettori effettuassero aborti su 44 settimane lavorative annuali ognuno ne farebbe 1,2 a settimana, cioè poco più di uno. Una media nazionale in calo rispetto agli anni scorsi, soprattutto sul 1983, quando la media nazionale di 3,3 aborti a settimana sembrava non sollevare problemi. Le medie regionali e locali non si discostano significativamente dal dato nazionale, tranne per due strutture sulle 381 totali in cui si effettuano Ivg (ripetiamo: 2 su 381), le uniche con aborti settimanali a due cifre: 18,2 e 13,6 in una clinica della Sicilia e della Campania, rispettivamente.
“Punti nascita” e “punti Ivg”. Riportare dati incompleti, cioè solamente le percentuali di obiettori, come continua a fare gran parte della stampa, è semplicemente uno dei tanti modi di fabbricare fake news, a dimostrazione che non è solo Internet a veicolarle.
Ma la relazione al Parlamento dice anche molto altro del mondo intorno a noi, che sta cambiando velocemente. Come già letto dalle colonne di Avvenire, è confermato il calo abortivo secondo tutti i parametri con cui viene stimato, e l’Italia continua ad avere le cifre più basse fra i Paesi occidentali. Meno Ivg fra le minori, con una diminuzione consistente quest’anno; meno anche gli aborti ripetuti, e se si scorporano i numeri delle italiane dalle straniere si vede che a carico delle prime ce ne sono 56.245, a fronte dei 234.801 del 1982. Un numero sempre enorme, ma sceso del 76%. In controtendenza, aumenta l’offerta del “servizio Ivg”, paragonata a quella dei punti nascita: per ogni punto nascita, in Italia c’è un quasi un punto Ivg. Per la precisione: per ogni 10 strutture in cui si effettuano aborti ce ne sono 11 in cui si partorisce. Va considerato che gli aborti sono il 17,6% delle nascite, mentre le strutture per le Ivg sono l’87,8% di quelle che offrono la possibilità di partorire. Insomma: le strutture per abortire rispetto a quelle in cui si nasce sono molte più di quelle che ci sarebbero se si rispettasse il rapporto fra aborti e nascite. Il Servizio sanitario è cioè sbilanciato, nella distribuzione delle strutture disponibili, a favore del servizio Ivg piuttosto che di quello per le nascite, e la conferma si ha guardando i dati delle singole regioni: più della metà ha un numero uguale o maggiore di punti Ivg rispetto a quello dei punti nascita (Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Sardegna). Fra quelle con più punti Ivg rispetto ai punti nascita il 2017 vede per la prima volta Sardegna e Lombardia: per quest’ultima si tratta di un ulteriore segnale di cambiamento delle politiche rispetto al passato, quando la regione era saldamente orientata al sostegno della natalità e della famiglia. {i punti nascita devono essere meglio attrezzati e presidiati per ogni intervento non programmabile come le ivg. Ndr}
Gli aborti “tardivi”. Aumenta la percentuale degli aborti tardivi (dopo i 90 giorni), fatti solitamente a seguito di diagnosi di malformazioni: numeri piccoli e bassi rispetto al dato internazionale, ma in costante aumento (il 3,8% nel 2012 e il 5,6% nel 2017). Una percentuale più alta per le italiane che per le straniere, e che in generale aumenta con l’età delle donne. In particolare, il tasso di abortività per donne di 30-39 anni è abbastanza elevato, specie se paragonato con quello di età minore. Ci si aspetterebbe una maggiore differenza, analogamente agli altri Paesi occidentali, ma si sa: le italiane hanno figli mediamente in età più avanzata rispetto a quanto accade negli altri Paesi europei, e l’andamento degli aborti segue quello delle nascite.
Altro punto da considerare è la cosiddetta “contraccezione di emergenza”. Le vendite delle pillole “del giorno dopo” e “dei cinque giorni dopo” – Norlevo ed EllaOne – sono quasi raddoppiate in pochi anni: nel 2014, ultimo anno in cui era richiesta la ricetta medica, le confezioni acquistate erano in tutto 298.458, salite a 560.081 nel 2017. Gli aborti però non si sono dimezzati.
Sarebbe interessante conoscere i dati sulle minorenni, per conteggiare le ricette presentate per queste pillole: è vero o no che le ragazzine se le procurano tramite amiche maggiorenni, evitando la prescrizione medica, come suggeriscono diversi addetti ai lavori?
Più scatole, meno culle. Infine, per la prima volta queste vendite hanno superato le nascite: a fronte di 560.081 scatole acquistate sono nati 458.151 bambini. Un fatto più che simbolico, perché intanto diminuisce in numero assoluto il numero delle donne in età fertile, cioè delle persone che potrebbero usare questo prodotto, e che dovrebbero farlo solo in circostanze eccezionali. Va ricordato che per la pillola “dei cinque giorni dopo” il Consiglio superiore di sanità aveva riconosciuto il possibile effetto antinidatorio, cioè di precocissimo aborto, accanto a quello contraccettivo.
La relazione al Parlamento sulla 194\1978 è ricca di dati, aggiornati e ben elaborati, ma è ormai evidente la necessità di affiancarla con altre informazioni e studi più ampi sulla nostra società: i nuclei familiari sono molto cambiati e così la rete parentale, la composizione etnica, le modalità di lavoro, gli orientamenti valoriali. {Le azioni e i colloqui preventivi dei consultori familiari pubblici e privati autorizzati e\o accreditati ex art. 2 e 4, i tipi di processi patologici ex art. 6 e 7. Ndr}
Non possiamo continuare a leggere i dati sull’aborto a prescindere da tutto questo.
Assuntina Morresi Avvenire 25 gennaio 2019
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/sulle-donne-un-alluvione-di-pillole
Il miglioramento dei contesti organizzativi nella prevenzione delle interruzioni volontarie di gravidanza
Bologna, ottobre – novembre 2014
Il corso è stato realizzato dalla Regione Emilia-Romagna nell’ambito del progetto “Prevenzione IVG nelle donne straniere” promosso e finanziato dal Ministero della Salute-CCM.
Il progetto si è posto l’obiettivo di rafforzare la prevenzione delle IVG attraverso la formazione degli operatori, la sperimentazione di percorsi e la comunicazione.
In particolare il percorso formativo, rivolto ai professionisti dei consultori familiari, aveva lo scopo di sostenere competenze e attitudini dei professionisti nell’ambito della educazione e promozione della salute riproduttiva e di miglioramento della collaborazione con le comunità e le associazioni di stranieri.
Angela Bortolotti. Prevenzione IVG donne straniere: La comunicazione interculturale e l’utilizzo della mediatrice linguistico culturale.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/f%252Fa%252Fa%252FD.b1d13d68ad9fbc11e46d/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Camilla Lupi. Epidemiologia delle IVG fra le donne immigrate: conoscere il fenomeno, individuare i gruppi a rischio.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/c%252F7%252Fa%252FD.6f974d35877f77e5f76b/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Cecilia Gallotti. Il corpo fra culture e fra generazioni Identità di genere, affettività e sessualità tra le giovani donne di origine straniera.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/b%252F7%252F8%252FD.60a0d6f4d1be6f636333/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Daniela Bertani. Il miglioramento dei contesti organizzativi nella prevenzione delle IVG nelle donne straniere. L’esperienza del Centro della Famiglia Straniera DI Reggio Emilia.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/1%252F1%252F2%252FD.2404e1d084fcddbd03ff/P/BLOB%3AID%3D931/E/zip
Daniela Spettoli. Strategie per l’offerta della contraccezione appropriata ai bisogni e esperienza di erogazione diretta.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/6%252F6%252Fd%252FD.ab49ad05ba90b3a3f522/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Giulia Capitani, Laboratorio Management e Sanità Scuola Superiore S. Anna di Pisa. La mediazione linguistico culturale come risorsa degli operatori e del sistema.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/a%252F5%252F6%252FD.631b3779ec1f4eba1415/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Grazia Lesi, Ginecologa del centro per la salute delle donne straniere e loro bambini. Gli spazi dedicati e le esperienze locali Il Centro per la salute delle donne immigrate e loro bambini di Bologna e Esperienze di offerta attiva.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/c%252F5%252F9%252FD.d9f1df3c747c56aaa375/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Kindi Taila. Strumenti di individuazione delle motivazioni per l’IVG e della mancata contraccezione.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/d%252F0%252F5%252FD.54efd072a36a1871ace9/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Paola Marmocchi. Buone pratiche per la prevenzione comportamenti a rischio negli adolescenti di origine straniera.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/e%252F5%252F2%252FD.242adb64a296a9d26367/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Silvana Borsari.Buone prassi. Sintesi lavori gruppi progetto CCM prevenzione IVG.
www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeAttachment.php/L/IT/D/a%252Fc%252F1%252FD.4f99aa27fc5d3772c81b/P/BLOB%3AID%3D931/E/pdf
Il consultorio di Aleteia ha offerto ad alcune donne una guida per affrontare il dolore post-aborto
Nel consultorio di Aleteia [in Spagna] ci siamo occupati di casi di donne pentite di aver abortito. Per loro è stato molto difficile riconciliarsi con se stesse, ma ci sono riuscite.
A un certo punto hanno affrontato la loro ferita e sono riuscite a riconoscerla come la polvere che si vede fluttuare attraverso i raggi di luce che penetrano attraverso la finestra di una stanza scura. L’aborto ha interessato vari aspetti della loro parte più intima: libertà, responsabilità, colpa e pena morale.
Era la “finestra della loro anima” che mostrava grande sofferenza. Alcune hanno deciso di ricorrere all’aiuto spirituale della loro fede. Molte avevano bisogno della misericordia di Dio, consapevoli dell’impossibilità di tornare indietro per evitare il male commesso. Volevano ricostruire la propria vita con umiltà scoprendo i limiti delle loro capacità umane, le loro difficoltà e la dura verità che allo stesso tempo le spingeva ad andare avanti.
Hanno imparato a distinguere tra “dolore” e “sofferenza” morale, che non significano la stessa cosa. Il dolore morale è inevitabile nella vita di tutti, ma la sofferenza è opzionale in base all’atteggiamento che si adotta di fronte ad esso. Molte ci sono riuscite adottando l’atteggiamento della preghiera che recita: “Signore, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”.
Ora sanno che la ferita si cicatrizzerà, ma anche così magari farà male per tutta la vita. Molte la considerano una parte di un processo di espiazione e purificazione, e questo dà loro pace.
Alcune si sono proposte di imparare a non trasformare il loro dolore in una sofferenza inutile, esprimendolo e gestendolo adeguatamente attraverso uno sforzo costante di autocomprensione.
Nel consultorio di Aleteia abbiamo provato a guidare queste donne nella gestione della sofferenza curando aspetti come questi:
- Non permettere che la sofferenza assuma la forma di una dipendenza: “Povera me!”, “Quando soffro!”, “Compatitemi!” Evitare di mendicare il perdono, l’amore e la comprensione non essendo capaci di recuperare una vera autostima. Non attaccarsi alla sofferenza e non accettare di mantenere le ferite aperte evitando che guariscano perché continuino a far male.
- Accettare e non rifiutare i fatti dolorosi. Accettare è prendere coscienza della forma più realistica possibile della situazione, senza ingannarsi. Si tratta di concentrare la consapevolezza su quello che ci è accaduto e che si ha ancora anziché lamentare la propria perdita. L’accettazione non è una sconfitta né rassegnazione, ma mettere i piedi per terra per avanzare in una nuova direzione.
- Uscire dal circolo della propria sofferenza e guardare gli altri. Riconoscere il dolore e la sofferenza altrui aiuta a mettere in prospettiva quella che consideriamo la nostra sofferenza. Si può ottenere facendo volontariato, ascoltando i problemi di chi ci è accanto, visitando case di cura, orfanotrofi e ospedali. Facendolo possiamo renderci conto di avere più risorse e capacità di quelle che pensavamo.
- Riuscire a far sì che la crisi generi vita. “Non uccidere” si riferisce sicuramente a preservare il bene della vita, ma questo bene ha molte forme, per cui è importante intraprendere azioni concrete per realizzarle, come prendersi cura della propria salute mentale evitando l’egoismo, permettersi di avere un altro figlio, adottare un orfano, aiutare i poveri e una serie infinita di altre possibilità.
- Recuperare l’autostima. L’accettazione di se stessi è importante, ma lo è ancor di più l’amore per sé. Dobbiamo scoprire che l’amore che si cerca e si può ricevere non è dovuto solo alla benevolenza altrui, ma anche a una certa amabilità che ci rende attraenti e fa sì che ci amino malgrado gli errori commessi.
- Procedere sulla via della felicità. La sofferenza non viene risolta fuggendo da un sano divertimento, per cui non ci si deve vergognare di cercarla anche quando si è vissuta una situazione dolorosa. È come ricevere aria fresca in un pomeriggio afoso. Un famoso personaggio che nei chiaroscuri della sua vita è sempre stato capace di rendere felici gli altri ha detto: “Sorridi. Sorridi, anche quando ti fa male il cuore. Sorridi anche se ti si sta spezzando. Quando ci sono delle nubi nel cielo, le farai scomparire”.
- Qualunque sia il credo di una persona, bisogna riconoscere che il perdono di Dio è in grado di restituire la “bellezza originaria alla persona che è stata macchiata dalla colpa”. È quando il dolore diventa fonte di apprendimento smettendo di essere una sofferenza sterile.
Orfa Astorga, consulente familiare, master in Scienze del Matrimonio e della Famiglia presso l’Università di Navarra. [Si può contattarla scrivendo a consultorio@aleteia.org] Aleteia 25 gennaio 2019
3 consigli ai cristiani che dibattono sull’aborto
- Non invocate ragioni religiose. Il vostro interlocutore non ci crede e non è obbligato a farlo, e userà la vostra fede per sminuire le vostre argomentazioni, per quanto possa essere scientifico e obiettivo. Mantenete la conversazione sul piano della laicità totale; non serve allontanarsi da questa per dimostrare le proprie ragioni.
- Ricordate a voi stessi e al vostro interlocutore che come cittadini avete il pieno diritto di prendere posizione in qualsiasi dibattito pubblico. La vostra fede non vi rende cittadini di seconda categoria. In un Paese laico tutti, indipendentemente dalla propria fede o dalla mancanza di essa, hanno il diritto di opinare e lottare democraticamente per le proprie convinzioni.
- Mostrate che siete cristiani in un altro modo: trattando con rispetto l’interlocutore, per quanto possano essere assurde ed errate le sue ragioni e per quanto vi offenda o vi ridicolizzi. Combattiamo gli errori, non le persone. Amiamo tutti, anche chi sbaglia e chi ci odia. Vinciamo il male con il bene, la morte con la vita, l’odio con l’amore. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli”.
I commenti degli internauti. I commenti pubblici degli internauti in reazione alla proposta di padre Celso mostrano in modo piuttosto chiaro il sostegno a questa prospettiva.
Una follower ha postato quanto segue: “Le sue parole sono state una correzione per me! Quanto è difficile non nutrire sentimenti di rabbia nei confronti delle persone che difendono una cosa così abominevole! Non è ad ogni modo la logica o la mia indignazione che convertirà le persone, ma l’amore”.
Un altro internauta ha osservato che sono in grande misura gli attivisti a favore dell’aborto che in genere sviliscono la discussione menzionando fuori dal contesto i punti di vista religiosi di chi difende la vita della madre e del bambino:
“Raramente, per non dire mai, vedo persone religiose che usano argomentazioni religiose nel dibattito. Restano sempre sull’aspetto filosofico/etico/scientifico/giuridico. Sono in genere gli atei abortisti ad avanzare argomentazioni religiose”
Padre Celso Pôrto Nogueira esercita il suo ministero sacerdotale come parroco a Vila Velha (Espírito Santo, Brasile). Sul suo profilo Facebook ha condiviso di recente una proposta saggia che dovrebbe essere presa in considerazione da tutti i cattolici in questo momento di intensi attacchi della cultura dello scarto alla cultura della vita.
Aleteia 24 agosto 2018
https://it.aleteia.org/2018/08/24/3-consigli-ai-cristiani-che-dibattono-su-aborto
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ADOZIONI
La crisi dell’adozione spia dell’attuale clima sociale
C’era una volta un Paese più paterno e più materno. Come ci ha ricordato Luciano Moia su ‘Avvenire’ dell’11 gennaio 2019, l’Italia è stata una casa accogliente per migliaia di bambini giunti tra noi attraverso l’adozione internazionale, in una misura tra le più significative al mondo, seconda solo agli Stati Uniti. I piccoli divenuti nostri concittadini con l’adozione erano più di 3mila nel 2011. Ma oggi non è più così. La disponibilità delle famiglie adottanti è diminuita, come pure le cifre relative ai procedimenti posti in essere.
Vedi newsUCIPEM n. 737, 20 gennaio 2019, pag. 2
E nel 2018 solo 1.364 minori (un calo di oltre il 50% rispetto a sette anni prima) sono giunti nelle nostre città dagli istituti e dagli orfanotrofi all’estero. Molte le motivazioni addotte a spiegare questa contrazione. In una trasmissione di Radio 3 Rai, ‘Tutta la città ne parla’, qualche giorno fa, alcuni degli intervistati e molti ascoltatori insistevano sui costi economici di un’adozione internazionale, sulle lunghezze procedurali. Certo è però che il fenomeno non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente, con cali percentuali persino superiori a quelli della Penisola. Pesa la progressiva chiusura di molti Paesi extraeuropei alla pratica dell’adozione, come pure il crescente ricorso alla fecondazione assistita.
Ma pesa forse ancor di più – come si coglieva dalle telefonate alla trasmissione di cui sopra – la consapevolezza di operare una scelta controcorrente rispetto agli umori del momento, ovvero il timore delle difficoltà che un minore dai tratti somatici o dal colore della pelle diversi da quelli predominanti potrebbe incontrare in futuro. In un tempo di ‘muri’ si pensa sempre più spesso che l’integrazione sia ardua se non impossibile e, di conseguenza, anche l’adozione appare un’esperienza troppo difficile e complicata. Il suo calo allora non è da registrare soltanto come un fatto di cronaca o di costume.
È la spia di una temperie più vasta, di un’onda che sta investendo l’intera società. La crisi è culturale, legata alle stesse motivazioni del calo della natalità, alle dinamiche di una vita più individuale, alla propensione a guardare ‘a casa nostra’, senza affacciarsi su quegli orizzonti larghi che ogni adozione comporta. Perché adottare è aprirsi, e aprire. È fare rete unendo bisogni e prospettive diverse – un sogno di genitorialità e, insieme, la fame di affetto di tanti bambini soli –, ma coniugabili in una visione comune. I percorsi e le storie di un’adozione internazionale differiscono fra loro, ma al tempo stesso si assomigliano, perché sono accomunati dall’essere una grande avventura, di vita, di mondo, di umanità.
Come tanti tasselli di un’estroversione più vasta, che può essere di indirizzo per tutto il paese. L’adozione internazionale è stata – ma è ancora – un grande contributo alla scoperta dell’Altro, alla nostra e all’altrui crescita, resilienza, stabilità. Pur in un tempo in cui ‘creare dei legami’ è cosa molto trascurata. La vita – è esperienza comune – diviene più individuale, le trame connettive si sfilacciano, gli scenari prospettati sono più ‘singolari’. Lo spirito del tempo è che ci si salva da soli, che stare tra noi non è poi così male. E però da soli non ci si salva, e soltanto ‘tra noi’ si è più fragili. Vivere senza legami non è facile alla fin fine. Brexit – tanto per dirne una – insegna. È stato scritto qualche anno fa da Marilena Piazzoni, nel libro ‘Figli si diventa‘ (Leonardo Mondadori, 2006): ‘Il valore dell’adozione internazionale non riguarda solo la famiglia adottiva.
L’adozione rappresenta un segno per il futuro della società nel suo complesso. Sembra un piccolo segno, che appartiene solo alla sfera privata dei singoli e delle loro scelte individuali. In realtà il suo significato va oltre, nella direzione della costruzione di una società più accogliente, e quindi migliore per tutti’. È vero. Va riaffermato tutto questo, anche nel nostro presente. E la speranza è che la diminuzione delle adozioni, frutto di un clima più trattenuto e timoroso, sia solo un inciampo contingente della storia. L’augurio è che torni il tempo dei legami, questa avventura ‘da molto dimenticata’, che si senta di nuovo l’esigenza di adottare ed essere adottati, in un mondo tanto vasto quanto impossibile da vivere senza connessioni.
Marco Impagliazzo Avvenire 23 gennaio 2019
www.avvenire.it/opinioni/pagine/capovolgere-l-onda-e-ricreare-veri-legami
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ANONIMATO
Mamma lascia neonato in ospedale. Senza il diritto alla segretezza il bambino non sarebbe mai nato
Se oggi ci fosse stata una legge sulla ricerca delle origini da parte dei figli nati da parti in anonimato o lasciati nelle culle per la vita, questo bambino non sarebbe mai nato (aborto) o, per disperazione, sarebbe stato abbandonato in strada o in un cassonetto. Quando si mette in dubbio la segretezza del parto in anonimato, aumentano gli abbandoni nei cassonetti e gli aborti.
A Castellammare, una giovane mamma lascia un neonato in ospedale alle cure delle infermiere del nido è va via senza suo figlio. Ritenendo di non potersi occupare del suo bambino ha deciso di darlo in adozione.
La legge italiana (DPR 396/3 novembre 2000, art. 30, comma 1), attraverso il parto in anonimato, consente, infatti, alla madre o ai genitori di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale dove è nato affinché sia assicurata l’assistenza e la sua tutela giuridica.
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2000/12/30/000G0442/sg
La donna, al momento del parto come avvenuto per la mamma di Castellammare, oppure subito dopo, dovrà comunicare ai medici e ai sanitari l’intenzione di rimanere anonima e ha due 2 mesi di tempo per ripensarci. Trascorsi i due mesi, tutti i dati sul neonato e sulla madre rimarranno anonimi: nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.
Nonostante la legge italiana stabilisca che il diritto all’anonimato per la madre prevale sul diritto alla ricerca delle origini, è attualmente in discussione un Disegno di legge (n. 922/7.11.2018 Pillon, Urraro) per disciplinare il diritto dei figli non riconosciuti al momento della nascita ad interpellare la madre naturale per una eventuale revoca dell’anonimato. www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/341104.pdf
Si dimentica, però, che dietro i casi di abbandono si cela una complessa vicenda umana di cui bisogna avere la massima cautela e rispetto quando si mette in discussione la “segretezza” del parto in anonimato con la proposta di legge sulla ricerca delle origini. Le madri segrete sono donne, spesso giovanissime, che partoriscono in ospedale ma non riconoscono il proprio figlio. Donne con alle spalle vicende familiari e vissuti personali faticosi e che, sebbene non siano nelle condizioni di poter accudire il proprio figlio, hanno scelto il parto in anonimato donandogli la vita due volte: quando hanno scelto di portare avanti la gravidanza e quando, la seconda volta, hanno scelto il parto in anonimato dando la possibilità a un bambino di nascere in sicurezza e vivere amato da una famiglia adottiva.
Nella sola città di Torino, per fare un esempio, nel 2018 ben 12 bambini sono venuti alla luce in sicurezza grazie al diritto all’anonimato per la madre.
“La salvaguardia della riservatezza garantita alla donna che abbia scelto il parto in anonimato deve prevalere sul desiderio del figlio di conoscere le proprie origini, solo così” – dice Marco Griffini, presidente di Amici dei Bambini – tuteleremo la vita nascente e la vita delle donne, quasi sempre giovanissime, che potranno partorire in sicurezza e ricevere l’assistenza necessaria. Mettere in dubbio la segretezza del parto in anonimato, facendo prevalere il diritto del nascituro di ricerca delle proprie origini, significa far aumentare gli abbandoni nei cassonetti e gli aborti. Chi non ricorda l’ennesima cronaca di disperazione dell’estate scorsa e il corpicino del neonato ritrovato in un sacchetto della spesa nel parcheggio di un supermercato a Terni?”.
“I ‘parti in anonimato’ sono nascite sicure, previste dalla legge per scongiurare gesti disperati di donne disperate come l’abbandono del neonato per strada o addirittura l’infanticidio, come ci raccontano le cronache. Se vogliamo salvare più bambini e garantire l’incolumità delle donne, bisogna informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul parto in anonimato e, contemporaneamente, normare le “culle per le vita” perché coprano tutto il territorio nazionale – continua Griffini.
Ogni anno in Italia vengono abbandonati oltre 3 mila neonati e solo 400 vengono salvati perché lasciati alle cure degli ospedali grazie alla scelta del “parto in anonimato’ o al riparo nelle “culle per la vita”, una versione moderna delle ‘Ruote degli Esposti’, che evita gli abbandoni di neonati in luoghi non sicuri e consente le stesse garanzie di anonimato per quante mamme, soprattutto straniere ma non solo, non sono informate sul parto in anonimato o temono di essere riconosciute.
In Italia ce ne sono circa 50. Elenco culle per la vita. Oltre a queste c’è anche la culla per la vita di Ai.Bi. “Chioccia” inaugurata lo scorso 1 dicembre 2015 a Melegnano (Milano) facilmente raggiungibile dalla rete di autostrade lombarde, e che va a potenziare un’offerta ancora a macchia di leopardo in Lombardia. Una struttura dotata di una serie di dispositivi che permettono un facile utilizzo e un pronto intervento per la salvaguardia del bambino. La culla per la vita, inoltre, è concepita nel pieno rispetto dell’anonimato di chi deposita il neonato.
I neonati nati da parto in anonimato o lasciati nelle culle per la vita vengono dichiarati adottabili in poco tempo e affidati a genitori adottivi individuati dal Tribunale per i Minorenni di competenza.
Fanpage.it www.fanpage.it/chi-sono-le-madri-segrete-e-come-funziona-il-parto-in-anonimato
News Ai. Bi. 24 gennaio 2019
www.aibi.it/ita/castellammare-mamma-lascia-neonato-in-ospedale-senza-il-diritto-alla-segretezza-per-la-madre-questo-bambino-non-sarebbe-mai-nato
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ASSOCIAZIONI – MOVIMENTI
Aborto, domande e un’amara certezza
Caro direttore, il 31 dicembre 2018 la Ministra della Salute, Giulia Grillo, in ottemperanza all’art. 16 della legge 194/1978 ha presentato l’annuale relazione, con i dati del 2017, della norma che ha legalizzato l’aborto. Secondo tale relazione, gli aborti legali sarebbero diminuiti fino alla cifra di 80.733 e la legge avrebbe funzionato perfettamente. Questo, come ha titolato ‘Avvenire’ domenica 20 gennaio 2019, è l’«aborto che si vede». www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/meno-aborti-e-l-obiezione-non-e-un-problema
Come in tutti gli anni precedenti, il Movimento per la Vita ha messo in cantiere un suo rapporto di cui sarà fatto un riassunto nel numero di febbraio dell’inserto mensile di questo stesso giornale ‘Noi Famiglia e Vita’. Nello sforzo di aprire un dialogo con i politici, le osservazioni critiche alla relazione ministeriale si possono formulare in forma di domande, con la speranza di suscitare un ripensamento personale della ministra e dei parlamentari.
- La prima domanda è: ‘È proprio vero che gli aborti sono diminuiti?’. Secondo la stessa relazione ministeriale nel 2017 state vendute 224.432 confezioni di EllaOne (pillola dei cinque giorni dopo) contenete Ulipistral acetato e 339.648 confezioni di Norlevo e Levonelle (pillola del giorno dopo) contenente il principio attivo Levonogestrel. Un grande aumento, dunque, rispetto agli anni precedenti. Questi prodotti sono contrabbandati come «contraccettivi di emergenza», ma in realtà sono idonei ad alterare la mucosa uterina in modo da respingere e quindi uccidere l’embrione già formato, come risulta dai pareri del Comitato nazionale per la Bioetica e dell’Istituto superiore di Sanità, confermati da studi internazionali.
- La seconda domanda è quella più conturbante, perché mette in crisi il giudizio di un perfetto funzionamento della legge: ‘Il concepito è un essere umano?’. La risposta positiva è stata data più volte dal Comitato nazionale di Bioetica, ma anche dalla Corte costituzionale, e proprio nel momento stesso in cui ha legittimato l’aborto volontario (sentenza n. 27 del 1975) e quando nel 1997 (sentenza n. 35) ha affermato che il riconoscimento del diritto alla vita del concepito è contenuto anche nell’art. 1 della legge 194/1978. Più recentemente, nelle sentenze 229 del 2015 e 84 del 2016, la Corte ha ribadito che l’embrione umano non è una cosa; dunque è qualcuno. Non si può escludere che la ministra abbia dei dubbi, ma allora chiediamo: ‘Il principio di precauzione vale solo nel campo ecologico o riguarda in primo luogo la vita umana?’.
- Quando un barcone di migranti naufraga, le ricerche devono continuare finché residua anche il minimo dubbio dell’esistenza in vita anche solo di un naufrago. La relazione ministeriale non dice se l’applicazione della legge ha aiutato a nascere dei bambini e nulla si dice sul sostegno al volontariato che in quarant’anni ha salvato oltre 200.000 bambini in viaggio verso la nascita e restituito serenità e fiducia alle loro mamme.
- È vero o non è vero che il massimo fattore di prevenzione dell’aborto è il riconoscimento dell’individualità umana del figlio che restituisce alla donna l’istinto di maternità e il coraggio di affrontare le difficoltà?’; ‘Che cosa ha fatto lo Stato in questa direzione a livello culturale ed educativo?’
- La relazione ministeriale continua ad affidare la prevenzione alla sola contraccezione, ma non riflette sul fatto che negli altri Stati del mondo in cui la contraccezione è più diffusa sono più alti gli indicatori degli aborti (tasso di abortività e rapporto di abortività). L’unico aspetto positivo della relazione ministeriale è la conferma di quanto già scritto nelle relazioni precedenti: l’elevato numero di obiettori non disturba il «servizio di Ivg». Tuttavia manca una riflessione sul significato dell’obiezione che è ulteriore conferma della piena umanità dei figli concepiti, esseri umani come noi. Dunque l’aborto legale è l’ingiustizia estrema, perché consente l’uccisione dei più piccoli, indifesi, innocenti e poveri tra gli esseri umani a opera della madre (vittima anche lei), dei comportamenti attivi e omissivi del padre (o, al contrario, della sua ‘rimozione’), degli operatori sanitari, dello Stato; un numero di vittime la cui estensione non è certo inferiore a quella delle guerre.
Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la Vita– Avvenire 22 gennaio 2019
www.avvenire.it/opinioni/pagine/aborto-cinque-domande-e-unamara-certezza
Per i medici c’è un diritto alla obiezione
Siamo grati al Santo Padre per aver ribadito, in occasione della Marcia per la vita di Parigi, che il diritto di obiezione di coscienza è fondamentale per la professione medica. Un incoraggiamento importante per i medici e gli operatori sanitari obiettori che quotidianamente testimoniano il valore della vita umana dal concepimento alla sua conclusione naturale e per questo sono spesso osteggiati e messi ai margini. Contrariamente a quanto in genere si pensa l’obiezione non è una banale “astensione da”, ma è soprattutto una “promozione di”, cioè dell’accoglienza della vita umana. Per questo contro gli obiettori è in corso un attacco antimoderno, contraddittorio e perciò irrazionale, frutto di quella “cultura dello scarto” che rifiuta lo sguardo sul concepito e sulle altre fasi fragili della vita pretendendo di imporre tale rifiuto a tutta la società, fino a violare il diritto fondamentale alla libertà di coscienza e di pensiero. In particolare, per quanto riguarda la vita nascente, l’obiettore è una figura molto scomoda, perché ben conosce la verità scientifica: l’essere umano concepito e non ancora nato è uno di noi. In nome di un presunto “diritto di aborto” si pretende di far tacere gli obiettori giungendo a cancellare il diritto fondamentale – riconosciuto nelle moderne carte sui diritti dell’uomo e anche nel diritto costituzionale – alla libertà di coscienza e di pensiero. Sarebbe poi importante che anche nei cittadini che si rivolgono ai sanitari maturasse il rispetto della coscienza del medico che non deve essere mai considerato mero esecutore di volontà altrui, ma soggetto il cui comportamento deve passare attraverso la valutazione delle proprie competenze, del proprio convincimento clinico, della propria coscienza.
Ancora una volta, dunque, le parole incisive ed efficaci di Papa Francesco ci confortano e ci sostengono e siamo certi contribuiranno a consolidare nella coscienza collettiva il riconoscimento della dignità umana di tutti e di ciascuno, a nobilitare la professione medico-sanitaria, a suscitare l’accoglienza dei bambini in viaggio verso la nascita, dei malati e dei disabili, a irrobustire il servizio alla vita nascente e alla maternità durante la gravidanza, ad avere sempre a cuore la relazione di cura in tutte le fasi della vita.
Daniele Nardi Comunicato stampa MPV 15 gennaio 2018
www.mpv.org/2019/01/15/il-diritto-di-obiezione-di-coscienza
{L’interpretazione della Legge 194\22 maggio 1978, data dai TAR Puglia (sentenza n. 3477, 14 settembre 2010) e TAR Lazio (sentenza n. N. 08990, 2 agosto 2016) riguarda la sola procedura direttamente abortiva). Il documento indicato nell’art. 5 rilasciato da un medico o dal consultorio familiare non è direttamente finalizzato all’aborto; infatti la donna ha almeno 7 giorni di tempo per riflettere e eventualmente richiedere l’interruzione volontaria della gravidanza che è sua esclusiva decisione. (art. 12 “la richiesta di ivg è fatta personalmente dalla donna”. In consultorio non si procede all’aborto, eccetto in alcune Regioni nelle quali è possibile anche la prescrizione\somministrazione di farmaci abortivi, non prevista dalla Legge e quindi discrezionale. Ndr}
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BIOETICA
App di bioetica per i giovani presentata alla Gmg di Panama
L’embrione è solo un grumo di cellule? Le tecniche di diagnosi prenatale sono accettabili? Chi giudica il valore di una vita? La riproduzione assistita è l’unica alternativa in caso di sterilità? Cosa sono i metodi naturali? Cosa significa morire con dignità? Informazioni, spiegazioni scientifiche, riflessioni etiche e testimonianze in merito a tutti questi interrogativi sono raccolte in “Keys to bioethics”. Si tratta di un manuale virtuale di bioetica per giovani realizzato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, in collaborazione con la Fondazione Jérôme Lejeune, che sarà presentato nel corso della Gmg di Panama e sarà disponibile mediante un’applicazione gratuita in italiano, inglese e spagnolo. Questo il video di lancio:
https://tops-easyviagg.os.tc/subscribe
Un Manuale per giovani con domande e risposte su questioni fondamentali dell’esistenza: lo sviluppo dell’essere umano dal concepimento, la sessualità e il gender, la malattia e la morte, l’aborto e la ricerca sulle cellule staminali, l’eutanasia e i trapianti di organi. L’idea di creare una app su temi di bioetica è nata a partire da un precedente manuale in formato cartaceo, che la Fondazione Jérôme Lejeune di Parigi aveva realizzato in occasione della GMG di Rio de Janeiro nel 2013 in varie edizioni e che aveva distribuito ai giovani negli zainetti. Per pura casualità, alcuni mesi fa mi sono imbattuta in una copia del manuale e, cercando di immaginare come attirare l’attenzione dei ragazzi sui temi di bioetica, approfittando della GMG di Panama, ho pensato ai miei figli e ai loro coetanei: hanno sempre in mano i cellulari, dentro i quali cercano la risposta a qualsiasi domanda. Da qui l’idea di fare del manuale, rivisitato e aggiornato, una app scaricabile sui telefonini. Uno strumento pratico, col quale i ragazzi potranno confrontarsi su temi ormai comuni, che quotidianamente entrano nelle nostre case – si pensi alla fecondazione artificiale, la selezione prenatale, la contraccezione, l’eutanasia – rispetto ai quali è difficile orientarsi e saper discernere alla luce del vero bene. La GMG è una straordinaria occasione di conversione e di crescita nella fede per centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo, ma una delle sfide maggiori resta quella di mostrare loro che la fede e la vita morale sono intrinsecamente legate. La fede illumina in maniera risolutiva la ragione umana nella comprensione della verità e del bene. In questo senso, la app vuole essere uno strumento per sollecitare nei ragazzi il loro desiderio di verità: l’inizio di un lavoro che poi starà agli adulti proseguire e approfondire con loro a catechismo, a scuola, in famiglia o in comunità.
https://youtu.be/wyndw1don1M
Gabriella Gambino – Sotto-Segretario, Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita 24 gennaio 2019
www.laityfamilylife.va/content/laityfamilylife/it/news/2019/_keys-to-bioethics–la-bioetica-a-portata-di-app.html
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-01/gmg-panama-app-bioetica-giovani-dicastero-vaticano-vita0.html
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – n. 3, 23 gennaio 2019
v Se vuoi cambiare il mondo, comincia a rifare il tuo letto ogni mattina (if you wanna change the world, start off by making your bed every morning). Sorprendente discorso motivazionale in occasione della Festa di Laurea presso l’Università del Texas (16 maggio 2015) tenuto da William H. McCraven, Navy Seal e Ammiraglio della Marina degli Stati Uniti. “Dovete e potete cambiare il mondo [ma…] per cambiare le grandi cose devi cominciare a cambiare le piccole… un compito dopo l’altro” www.youtube.com/watch?v=BmRH-wK8MwE
v Promuovere la famiglia? Speravamo in ben altro “cambiamento”. [Commento alla Legge di stabilità del Direttore Cisf (F.Belletti) su Famiglia Cristiana on line]. Rispetto al “tema famiglia” il bilancio della Legge di stabilità appena approvata è oggettivamente deludente. C’è qualche attenzione in più ma manca una visione d’insieme. Per sostenere le giovani coppie, i futuri genitori, i caregiver e per combattere la denatalità, ci vogliono interventi a lungo termine.
www.famigliacristiana.it/articolo/speravamo-in-ben-altro-cambiamento.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_23_01_2019
v Federica Picchi, fondatrice della Dominus production, impresa che promuove film “di valori” (e di valore). Intervistata da “Credere”, Federica Picchi sorprende per la semplicità e la verità del racconto della sua storia, e del modo in cui è passata dal successo del business al successo nella ricerca del senso della vita, Grazie ad alcuni eventi e ad alcuni incontri “…ho respirato una pace che non provavo da quando ero bambina. Ho percepito chiaramente come l’affidarsi a Qualcuno che ti ama davvero ti dona una serenità autentica, profonda”
www.famigliacristiana.it/articolo/federica-picchi-roncali-la-manager-convertita-al-cinema-spirituale.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_23_01_2019
v Nazioni unite. Per una protezione sociale che lavori per e con le donne. Making social protection work for and with mothers. Dichiarazione scritta presentata da una serie di associazioni e reti associative (NGO) a sostegno della condizione delle donne in vista della 63.a Sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione delle donne, sulla Priorità “Sistemi di protezione sociale, accesso ai servizi pubblici e infrastrutture sostenibili per l’uguaglianza di genere per l’empowerment di donne e ragazze” (Social protection systems, access to public services and sustainable infrastructure for gender equality and the empowerment of women and girls)
https://makemothersmatter.org/wp-content/uploads/2018/12/201810-CSW63-MMM-written-Statement-with-logos.pdf
USA Corte suprema, aborto e persone con Sindrome di Down. In queste prime settimane del 2019 La Corte Suprema degli Stati Uniti deve pronunciarsi sulla legittimità dell’interruzione volontaria di gravidanza quando essa viene attuata per una diagnosi prenatale di Sindrome di Down. Sulla rivista online “The Public Discourse” si sostiene che “al di là della forte polarizzazione di opinioni presenti nel nostro Paese (Stati Uniti) sulle politiche e sulle normative rispetto all’aborto, è chiaro che la nostra Costituzione (US) non comprende il diritto di abortire un bambino semplicemente a causa di sue caratteristiche svantaggiate”
www.thepublicdiscourse.com/2019/01/48245
v Una nuova app per aiutare le famiglie nelle competenze economiche e finanziarie [vai alla notizia]. “È stata recentemente presentata e messa a disposizione sui principali store digitali una App realizzata dall’Osservatorio sulla vulnerabilità economica delle famiglie italiane, che è promosso dal Forum ANIA-Consumatori in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano […] La App è costituita da una sezione informativa – in cui si possono avere notizie riguardo gli studi e le attività dell’Osservatorio – e da un’altra attraverso la quale è possibile verificare il proprio livello di conoscenze in ambito finanziario e, allo stesso tempo, monitorare il grado di vulnerabilità della propria famiglia”
www.ioeirischi.it/index.php/component/content/article/157?jjj=1545394546396
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v La Mediateca LEDHA “è un servizio di raccolta e prestito di materiale audiovisivo, multimediale e letterario dedicato alla disabilità. Dai primi anni ’80 la Mediateca ha acquisito film, italiani e internazionali, svolgendo un servizio di prestito e sensibilizzazione per le associazioni, le scuole, gli enti pubblici, la cittadinanza. Attraverso una costante attività di ricerca e selezione la Mediateca LEDHA è diventata la maggiore Cineteca sulla disabilità in Italia e tra le maggiori d’Europa, un patrimonio di documenti, conoscenze ed esperienze divenuto punto di riferimento ben oltre i confini locali, anche grazie a “Lo sguardo degli altri”, storica rassegna su cinema e handicap organizzata più volte negli anni dalla LEDHA e ad iniziative come Ledha Spot Festival, concorso di sceneggiature sul tema disabilità e lavoro realizzato nell’ambito del progetto Emergo della Provincia di Milano nel 2007. L’archivio dei film è in continuo aggiornamento con nuove opere cinematografiche nazionali e internazionali, affermate e indipendenti”. www.ledha.it/page.asp?menu1=5&menu2=14
v Roma, UPRA (Università Pontificia Regina Apostolorum). Corso di Perfezionamento “Significare il Corpo: limite, incontro e risorsa” (II edizione).
www.upra.org/offerta-formativa/istituti/istituto-di-studi-superiori-sulla-donna/httpwww-upra-orgofferta-formativaistitutiistituto-di-studi-superiori-sulla-donna-significare-il-corpo
“Il corso inizia approfondendo i fondamenti dell’identità sessuale della persona e della differenza sessuale fra l’uomo e la donna da un punto di vista interdisciplinare. Affrontando una panoramica di come viene colto e presentato il corpo nella cultura odierna […]. Il secondo modulo propone i modi in cui una simbolica dei corpi illumina il rapporto tra gli uomini e le donne nei diversi ambiti della vita familiare, sociale e culturale”. Durata complessiva: 26 ore di lezioni frontali, il martedì dal 19 febbraio al 28 maggio 2019 dalle ore 15:30 alle 17:00, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Roma). Iscrizioni entro il 12 febbraio 2019
www.upra.org/wp-content/uploads/2018/09/flyer_SIGNIFICARE-IL-CORPO_BASSA-1-002.pdf
v Dalle case editrici
- Colibrì, Non siete soli. Scritti da «Il Giornale dei genitori» (1959-1968), Marchesini Gobetti A.
- EDRA, Legami generazionali. Strumenti di assessment clinico, Cigoli V., Scabini E., Gennari M., Tamanza G.
- EMP, Amarsi da Dio. Storie d’amore bibliche e contemporanee, Svanera O.
- Masi Luciano, Il complesso di Edipo nella famiglia allargata, Effatà, Cantalupa (TO), 2018, pp. 124,
Agli inizi del XX secolo, Freud iniziò a esaminare le dinamiche familiari a partire dal complesso di Edipo. Sulla base di questa impostazione, molti terapeuti hanno continuato per decenni a leggere e interpretare le relazioni primarie, finché un impetuoso vento di cambiamento non ha scompaginato le carte in tavola. Rapidamente, si sono aperti scenari nuovi in cui gli schemi culturali precedenti non bastavano più. La famiglia di oggi, infatti, non è più quella che Freud aveva descritto. Nel cuore della famiglia allargata non c’è più un solo Edipo, ma molti, con diverse connotazioni, con “richieste” profonde che vanno a complicare il quadro iniziale. Nelle pagine di questo agile volume l’autore – psicologo e psicoterapeuta a Roma – affronta le grandi sfide che attendono i terapeuti e le madri, i padri, i bambini e gli adolescenti di oggi alla luce della sua lunga esperienza clinica, cercando di indicare alcune possibili soluzioni non solo per «sopravvivere» a questo cambiamento epocale, ma anche per aspirare ad una nuova serenità. Che ne è dell’Edipo, disperso nel caos affettivo della famiglia allargata? Cosa fare e, soprattutto, cosa non fare? Queste le domande che animano l’ineludibile ricerca di una consulenza e di una psicoterapia a misura dei cambiamenti che la famiglia ha subito negli ultimi decenni, e di cui la famiglia allargata costituisce l’aspetto più evidente.
http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf0319_allegatolibri.pdf
v Save the date
- Nord: Figli adottivi alla ricerca delle origini – Storie vere e riflessioni, incontro con operatori e testimonianze di figli adottivi promosso dal CTA (Centro Terapia Adolescenza), Milano, 2 febbraio 2019.www.centrocta.it/figli-adottivi-alla-ricerca-delle-origini-storie-vere-e-riflessioni
- La famiglia come risorsa, incontro del progetto “Dònati”, del Forum delle associazioni familiari, promosso da diversi enti, Parma, 26 gennaio 2019.
https://gallery.mailchimp.com/d3592b4fb0b522eaddc011ee7/files/35d38382-1e81-4bde-8990-1537ed8d673c/volantino_donati.pdf
- Centro Famiglia e Scuola insieme per l’educazione e l’accompagnamento dei giovani, convegno promosso dall’USMI (Unione delle Superiore Maggiori d’Italia) in collaborazione con gli Uffici Nazionali della Conferenza Episcopale Italiana per la Pastorale della Famiglia e l’Educazione, la Scuola e l’Università, Roma, 23-24 febbraio 2019.
www.usminazionale.net/wp-content/uploads/2019/01/D%C3%A9pliant-Convegno-Famiglia-e-Scuola-Febbraio-2019-SC.pdf
- Allattare al seno: un investimento per la vita, Seconda Conferenza nazionale per la “Protezione, promozione e sostegno dell’allattamento”, promosso dal Ministero della salute, Roma, 23 gennaio 2019.
www.salute.gov.it/imgs/C_17_EventiStampa_534_programma_itemProgramma_0_fileAllegatoProgr amma.pdf
- Sud. Esercizi di bellezza, esercizi spirituali per coppie di fidanzati e di sposi, promosso dall’Ufficio nazionale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Conferenza Episcopale Italiana, Matera, 2-3 febbraio 2019.
http://banchedati.chiesacattolica.it/cci_new/appuntamenti_cei/2019-01/10-38/programma%20coppie%20matera.pdf
- Le nuove sfide dell’imprenditoria di genere dopo la riforma del terzo settore, incontro promosso dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Puglia, Bari, 24 gennaio 2019.
- https://www.csvbari.com/new/wp-content/uploads/2019/01/LE-NUOVE-SFIDE-DELLIMPRENDITORIA-DI-GENERE-LOCANDINA.pdf
- Estero: Entendre autrement. L’écoute de l’adolescence (Capire diversamente: l’ascolto degli adolescenti), incontro formativo per consulenti familiari e della coppia promosso dall’Istituto di Scienze della Famiglia dell’Università Cattolica di Lione, Lione, 19 marzo 2019.
www.ucly.fr/agenda-de-l-ucly/entendre-autrement-l-ecoute-de-l-adolescence-147902.kjsp?RH=1438258331982
http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx
http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/gennaio2019/5107/index.html
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CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA
Malattia: le sfide dell’eros
Rivista di Sessuologia, volume 42, n. 2 luglio-dicembre 2018
La qualità della vita sessuale nell’insorgenza di un malattia (secondo volume)
www.cisonline.net/rivista-di-sessuologia/malattia-le-sfide-delleros-vol-ii
www.cisonline.net/rivista-di-sessuologia
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CHIESA CATTOLICA
Concilio: il silenzio dei cardinali all’annuncio di Giovanni XXIIII
Il maggiordomo di Papa Roncalli, Guido Gusso, racconta in una video clip i retroscena della notizia di celebrare un Concilio che Papa Giovanni XXIII diede per la prima volta ai cardinali a San Paolo fuori le Mura. Sulla ricorrenza anche le testimonianze in video di mons. Luigi Bettazzi e Raniero La Valle
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-01/concilio-papa-giovanni-xxxiii-gusso-silenzio-testimonianza.html
Concilio, embargo violato e annuncio in sordina
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-01/papa-giovanni-xxiii-sentimenti-concilio-intervista-capovilla.html
Intervista a Marco Roncalli, biografo di San Giovanni XXIII
https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2019-01/concilio-annuncio-anniversario-sessantesimo.html
Eugenio Bonanata Vatican news 23 gennaio 2019
Teologia. Tanzella Nitti: “Confrontarsi con le scienze per una nuova apologetica”
Giuseppe Tanzella Nitti illustra al Sir il suo progetto per una “teologia fondamentale in contesto scientifico“. “Chi vuole oggi parlare di Dio e del suo venire incontro all’uomo, deve mostrare di conoscere quanto le scienze ci dicono sul cosmo, sulla vita, sull’origine dell’essere umano e sulla sua evoluzione culturale”, la tesi di fondo.
Oggi siamo tutti un po’ “scienziati”, con gli smartphone e il web, ma conosciamo davvero “quanto le scienze ci dicono sul cosmo, sulla vita, sull’origine dell’essere umano e sulla sua evoluzione culturale”? A lanciare la provocazione, per una nuova “apologetica” all’altezza delle nuove sfide, è Giuseppe Tanzella Nitti, ordinario di Teologia fondamentale alla Pontificia Università della Santa Croce, autore del progetto “Teologia fondamentale in contesto scientifico”, in quattro volumi, di cui il terzo è ora in uscita. Lo abbiamo intervistato.
Al centro del suo progetto di una “Teologia fondamentale in contesto scientifico” c’è la questione di come parlare oggi di Dio all’uomo di scienza. Come dimostrare la “plausibilità” della fede cristiana – per usare un termine di Benedetto XVI – all’uomo contemporaneo, che usa lo smartphone e cerca sul web le risposte alle sue domande?
Il volume appena uscito in libreria, Religione e Rivelazione, è il terzo del progetto. I primi due volumi, pubblicati un paio di anni fa, trattavano della Credibilità; il terzo e il quarto sono invece dedicati alla teologia della Rivelazione. Nel loro insieme intendono proporre, appunto, una Teologia fondamentale contesto scientifico. In fondo, scienziati oggi lo siamo un po’ tutti, perché impieghiamo largamente le applicazioni della ricerca scientifica e ascoltiamo volentieri cosa gli scienziati ci dicono, non solo su temi ambientali o legati alla nostra salute, ma anche su temi sociali, etici ed esistenziali.
Chi oggi vuole parlare di Dio e del suo venire incontro all’uomo, deve mostrare di conoscere quanto le scienze ci dicono sul cosmo, sulla vita, sull’origine dell’essere umano e sulla sua evoluzione culturale.
Così facendo, il discorso teologico diviene certamente più esigente, e in parte anche più difficile, ma anche tremendamente attraente. Chi professa Gesù Cristo centro del cosmo e della storia, potrà farlo con maggiore cognizione e chiarezza quando conosca davvero cosa siano il cosmo e la storia. Ed è proprio questa conoscenza che le scienze oggi ci dischiudono. Se, insegnando o predicando, ignorassimo questi orizzonti, renderemmo il messaggio cristiano circostanziale, esponendolo al rischio di perdere significato.
Tra le acquisizioni scientifiche che stanno provocando mutamenti nella declinazione della stessa antropologia c’è il vasto campo delle neuroscienze e dell’intelligenza artificiale, o anche l’emergere della robotica. Questi mutamenti stanno cambiando la “domanda religiosa” dell’uomo?
La domanda esistenziale non è soddisfatta dalle risorse tecnologiche, per quanto sofisticate siano. L’uomo non è un semplice cercatore di felicità, ma un cercatore di Dio, e continuerà a cercarlo sempre, fino a quando ne avrà le forze. In tal senso, i contesti ai quali si riferiva non stanno cambiando la domanda religiosa dell’uomo, ma la rendono solo meno ingenua.
Se siamo immagine e somiglianza di Dio non è per la rapidità con cui sappiamo fare di calcolo o per l’abilità con cui sappiamo gestire operazioni tecnicamente complesse, tutte cose che le macchine fanno ormai assai meglio di noi. Questa immagine risiede nella libertà e nella donazione interpersonale, caratteri nei quali l’essere umano non sarà mai sostituito dalle macchine.
In una società sempre dove dominano il primato della tecnica e l’oblio del passato, in che termini si è modificato, e può essere riformulato, il rapporto tra natura e storia?
Il rapporto con la storia è fondamentale per la comprensione e la trasmissione della fede. Non soltanto perché Dio ci è venuto incontro in una storia di salvezza, ma anche perché l’identità e la libertà dell’essere umano sono radicate nella storia e si nutrono di essa. Nell’ecologia integrale di Papa Francesco la custodia della storia e della tradizione è parte della custodia dell’ambiente, quello umano.
Non credo però che la tecnica, di per sé, ostacoli la nostra memoria storica. Dipende dall’impiego che ne facciamo. La scienza e la tecnica moltiplicano le nostre capacità di dialogo e di relazione, e ci fanno conoscere con maggiore profondità a quale storia apparteniamo, quale storia ci ha preceduto e ha condotto fino a noi.
La “teologia in uscita” auspicata da Papa Francesco è anche “narrazione”, per rispondere al desiderio di ricerca innato del cuore dell’uomo: ci vuole un linguaggio teologico nuovo, per parlare ai nostri contemporanei?
Dio ha parlato la lingua degli uomini, facendosi uomo. Pertanto, nell’annunciare il Vangelo la Chiesa dovrà sempre parlare il linguaggio dell’uomo. La mutata sensibilità e i mutati modi di vivere non devono spingerci a cambiare la sostanza dell’annuncio, bensì verso il modo di esporlo. Rileggere a oltre 50 di distanza il discorso con cui san Giovanni XXIII inaugurava il Concilio è ancora istruttivo. Diceva l’11 ottobre del 1962: “Una cosa è il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo della loro enunciazione”. La Teologia fondamentale può aiutare proprio nella ricerca di questa enunciazione adeguata.
Nel contesto scientifico in cui viviamo lo si dovrebbe fare seguendo la logica dell’inculturazione. Gli evangelizzatori che si recano in nuovi Paesi si preoccupano di imparare la lingua e la cultura del popolo al quale si dirigono. Il mondo delle scienze rappresenta anch’esso una cultura, una lingua, una sensibilità in cui il Vangelo va “inculturato”.
Direi che si tratta di un compito soprattutto affidato ai fedeli laici che lavorano nel campo della ricerca scientifica, un campo, però, nel quale anche i Pastori dovrebbero sapersi muovere con maggiore familiarità.
In che modo la Teologia fondamentale può offrire oggi un contributo alla pastorale e alla catechesi? È ancora possibile parlare di una preparazione alla fede, come faceva l’Apologetica di una volta?
Il progetto che mi è sempre stato a cuore e che ha ispirato i volumi ai quali mi sto dedicando, è quello di Teologia fondamentale che offrisse un raccordo con la Teologia pastorale e con la catechesi, sebbene con le dovute mediazioni. Sapere che le ragioni per credere in Gesù Cristo sono Gesù Cristo stesso, non ci esime dalla paziente analisi di tali ragioni e dal vagliarne il significato per l’uomo moderno. Una preparazione alla fede? Ce ne sarà sempre bisogno. I Padri della Chiesa preparavano l’annuncio del Vangelo partendo dal discorso su Dio che, nel modo pagano, già svolgevano la filosofia e la religione essi valorizzavano con discernimento la prima e purificavano la seconda.
Se l’Ottocento e il Novecento sono stati i secoli in cui la preparazione alla fede ha guardato principalmente alla filosofia, sono persuaso che nel secolo presente si dovrà guardare soprattutto alla religione.
Sono i desideri dell’homo religiosus quelli ai quali occorre prestare oggi ascolto, anche se espressi in modo confuso e talvolta perfino irrazionale. Bisogna mostrare all’uomo contemporaneo che Gesù Cristo è il compimento non solo della filosofia, ma anche della religione.
Maria Michela Nicolais Agenzia SIR 21 gennaio 2019
https://agensir.it/chiesa/2019/01/21/teologia-tanzella-nitti-confrontarsi-con-le-scienze-per-una-nuova-apologetica
Scegliete oggi chi volete servire (Gs 24,15)
Sabato scorso c’è stato a Milano, al Palazzo Reale, un convegno promosso dall’associazione “Laudato Sì”, di Mario Agostinelli e don Virginio Colmegna, sul tema della salvezza della Terra, in sintonia con le istanze dell’enciclica di papa Francesco. Il pericolo in effetti c’è ed è imminente: un riscaldamento di due gradi della temperatura globale non potrebbe essere sopportato dall’ecosistema. Nel colloquio sono confluite molte esperienze e lotte e proposte, e il suo esito è stato confortante, perché sono state chiare le diagnosi, e sono stati indicati gli strumenti e i rimedi per salvare dall’olocausto ecologico la terra e tutti quelli che vivono in essa. Il contributo portato al dibattito da “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” è stato di dire che però questo sarà possibile, a condizione che prima facciamo un’altra cosa, che è di fondare un’unica società umana.
Ci vorrà la politica, il diritto, l’economia, ma prima ancora ciò dovrà essere oggetto di una grande decisione antropologica. Non è affatto scontato infatti che l’umanità sia una, e che gli uomini e le donne siano eguali tra loro. Per molti secoli questa verità è stata negata e si è invece teorizzata una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani; la storia della diseguaglianza è una storia dolorosissima di signori e servi, schiavi e liberi, popoli eletti e scartati, donne appropriate e negate, razze e caste, predazioni e genocidi. Si dovette arrivare al Novecento perché l’unità umana e l’eguaglianza delle persone e delle nazioni grandi e piccole (come dice lo Statuto dell’ONU), fossero alfine riconosciute dalla cultura e proclamate nelle grandi Carte dei diritti e delle libertà fondamentali, anche se poi non attuate.
Esse però sono oggi di nuovo negate in via di principio, ripudiate dalla politica e frantumate dal sistema economico; e il genocidio del popolo dei migranti è oggi perpetrato da tutti noi.
Questo vuol dire, come abbiamo scritto l’altra volta, che occorre tornare ai nastri di partenza, dobbiamo decidere di nuovo ciò che vogliamo essere, se una società di eguali o una società di ammessi e scartati.
È una decisione dirimente, come molte altre del passato. È come la scelta di fronte a cui si trovò il popolo ebreo che era emigrato in Egitto. Lì si trattava di decidere quale visione dell’Egitto adottare, tra le due che ne presenta allo stesso tempo la Bibbia: l’Egitto come terra di schiavitù sotto il Faraone, o l’Egitto come terra dell’abbondanza, che sfama i figli d’Israele durante la carestia, e poi accoglie “nella parte migliore del paese” lo stesso Giacobbe, i suoi figli e i suoi discendenti. La scelta del popolo ebreo fu di rifiutare l’Egitto del Faraone, di rinunciare alla falsa sicurezza della stabilità, alla permanenza in una identità oppressa, e di mettere invece in gioco se stesso, di uscire dall’Egitto, di andare incontro a popoli nuovi e ad abitare terre nuove e promesse, e fu la scelta dell’esodo, della traversata del deserto, della liberazione.
Un’altra scelta cruciale fu quando il popolo ebreo, reduce dall’esilio a Babilonia, si trovò a decidere se doveva cominciare una nuova vita di libertà e di incontro con gli altri, oppure se doveva restaurare le condizioni che lo avevano portato alla rovina, se doveva tornare alla teocrazia del tempio, alla servitù della legge, alla purità etnica. Lì la scelta, con Esdra e Neemia, fu quella della restaurazione, del ripristino della legge, della costruzione del secondo tempio, della chiusura identitaria fino all’obbligo del ripudio delle mogli straniere; fu in qualche modo l’argine messo alla profezia e la nascita del sionismo.
L’insegnamento per noi oggi è che dopo la caduta, dopo il suicidio della politica, dopo l’esilio della democrazia che abbiamo patito in questi anni, dopo l’irruzione dei populismi, non si può semplicemente tornare al passato, rappezzare i vecchi partiti, tornare alle cipolle d’Egitto o della Banca mondiale, occorre fare una cosa nuova, mettere del vino nuovo in otri nuovi.
L’altra scelta dirimente fu storicamente quella di Gesù e del suo principale apostolo Paolo: la scelta tra il Dio della vendetta e il Dio della misericordia, il passaggio da un solo popolo alla comunione con tutti i popoli, l’obiezione alla legge dei precetti e delle esclusioni e il passaggio alla libertà dello Spirito e alla gratuità del perdono e dell’accoglienza.
Un’altra scelta cruciale fu compiuta alla fine dell’Impero, quando a Roma il Senato bruciava e il popolo era in lutto; ma il papa Gregorio Magno invece di intonare i lamenti della disfatta, intonò il canto della liberazione perché nuovi popoli si erano affacciati alla storia, i Barbari parlavano la “lingua dei santi”, gli Angli erano evangelizzati e nasceva l’Europa inclusiva di san Benedetto, antidoto all’Europa costantiniana e carolingia che sarebbe poi sfociata nella visione teocratica di Gregorio VII, da cui siamo da poco usciti.
Una scelta devastante fu poi quella compiuta dalla cultura europea quando decise che gli Indios non erano uomini, che i neri si potevano trarre come schiavi e che gli operai, come dirà Locke all’inizio della rivoluzione industriale, non erano in grado di ragionare meglio degli indigeni, e cominciò così l’età degli Imperi e dei genocidi, fino a Hitler.
Ma ci sono anche le grandi scelte, i salti di qualità compiuti dalle rivoluzioni moderne, quella americana, francese, sovietica, quella del costituzionalismo postbellico e c’è la scelta del Concilio Vaticano II quando la Chiesa decise che si dovesse annunciare Dio in modo nuovo, per giungere fino alla rivoluzione di papa Francesco.
Oggi siamo a una scelta di questo tipo, ma questa volta ne va della integrità o della frantumazione del mondo. Ideologie politiche, dottrine economiche, culture giuridiche, religioni, messianismi e letture apocalittiche sono tutte chiamate a consulto per decidere che cosa fare del mondo. E anzitutto c’è il dovere di resistere all’anomia, all’offensiva del potere senza legge che si fa legge a se stesso, e questa è una resistenza messianica, come quella invocata dall’apostolo Paolo come “forza frenante” o “katécon” [ciò che trattiene] da opporre alla distruzione.
Ma poi la scelta primaria da fare è quella dell’unità umana, dell’umanità unita come soggetto politico e autore della storia, la scelta di una vera globalizzazione, non del denaro e dei traffici, ma degli uomini e delle donne di spirito e di carne, porti aperti e mura abbattute, non marce verso frontiere serrate o barconi doloranti di migranti e di naufraghi non più salvati per il divieto dei governi, ma navi treni ed aerei di linea e percorsi di accoglienza e integrazione al servizio di quel diritto primordiale e universale che è il diritto di migrare, il diritto di piantare le tende per realizzare se stessi e il proprio destino in qualunque lembo di quest’unica terra, casa comune di tutti.
Chiesa di tutti Chiesa dei poveri Newsletter n. 132, 22 gennaio 2019
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/la-scelta
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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI
È possibile dedurre dalla denuncia dei redditi le spese sostenute per l’adozione?
Sì. Le famiglie che adottano un minore straniero possono fruire della deduzione di una parte delle spese sostenute per la procedura di adozione internazionale.
Più precisamente, è deducibile dal reddito complessivo il 50% delle spese sostenute dai genitori adottivi, purché debitamente documentate e certificate dall’Ente autorizzato che ha curato la relativa procedura. E’ deducibile sia quanto speso dalla coppia per la procedura curata dall’Ente, sia quanto speso dai coniugi per il viaggio ed il soggiorno all’estero (vitto, alloggio e quanto sia necessario per la cura del bambino, ad esclusione dei giochi e di tutto ciò che rientra in attività ludica e di svago).
Nel primo caso l’Ente rilascerà alla coppia una certificazione delle spese sostenute con l’Ente stesso, e, per quanto riguarda le spese per viaggio e soggiorno, la coppia, al rientro in Italia, consegnerà all’Ente i giustificativi delle spese sostenute e l’Ente rilascerà alla coppia una attestazione delle spese sostenute.
Per avvalersi della deduzione non è necessario aver acquisito lo status di genitore adottivo (cfr. l’interpretazione adottata dall’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 77 del 28.05.2004). Ciò significa che è possibile usufruire dell’agevolazione a prescindere dall’effettiva conclusione della procedura di adozione e indipendentemente dall’esito della stessa. La deduzione deve essere operata con applicazione del principio di cassa, in considerazione del periodo di imposta in cui le spese sono state effettivamente sostenute. Non si potranno considerare, ai fini della deduzione, le spese sostenute per le relazioni e gli incontri post-adottivi.
www.commissioneadozioni.it/faq/sezione-f/f2
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CONSULTORI FAMILIARI
La Regione Veneto finanzia gli ‘sportelli’ pubblici per famiglie, coppie, donne e minori
La Regione Veneto conferma anche per il 2019 lo stanziamento di un milione di euro per sostenere l’attività dei Consultori familiari pubblici del territorio. “Attivi dal 1977 – sottolinea l’assessore regionale alle politiche sociali, Manuela Lanzarin – i Consultori sono il primo ‘sportello’ di ascolto, aiuto e consulenza per le famiglie in difficoltà, le coppie, le donne, in particolare quelle vittime di violenza, nonché adolescenti e minori. Le équipe multiprofessionali e multidisciplinari dei consultori sono un presidio indispensabile dei servizi sociali nei territori per aiutare gli adulti nei loro compiti genitoriali, sostenere le coppie nelle difficoltà relazionali come separazioni e divorzi, offrire servizi di mediazione in particolare quando ci sono figli minori”.
La rete dei Consultori familiari pubblici della Regione Veneto è composta da 51 equipe multiprofessionali e multidisciplinari, articolate in 94 sedi, di cui 22 principali e 72 periferiche. Nel corso del 2017 hanno erogato almeno una prestazione a 86.990 utenti, dei quali 19.770 stranieri, pari al 22,7%. Collocati in prevalenza nelle sedi dei distretti sociosanitari del Veneto, i Consultori operano in costante raccordo con i medici di medicina generale, i servizi per l’età evolutiva, quelli per le dipendenze, gli ospedali, le scuole, l’autorità giudiziaria, le comunità e gli enti del terzo settore.
Le risorse regionali privilegiano tre linee di sviluppo degli interventi dei Consultori familiari pubblici: il sostegno alla genitorialità, in particolare nelle situazioni che vedono convolte le autorità giudiziarie; l’educazione all’effettività e alle sessualità, soprattutto nelle scuole; e il potenziamento degli interventi di prevenzione e sostegno verso le donne vittime di violenza.
Insieme ai Consultori familiari pubblici, la Regione Veneto continua a finanziare – con provvedimento distinto – anche la rete dei Consultori familiari socioeducativi, di iniziativa e gestione privata. Nel 2017 i 26 Consultori socioeducativi attivi in Veneto hanno offerto circa 15 mila prestazioni, in prevalenza di tipo psicosociale, a oltre 6.500 mila soggetti, tra persone singole, coppie e famiglie.
Comunicato stampa n. 1 del 02 gennaio 2019
www.regione.veneto.it/web/guest/comunicati-stampa/dettaglio-comunicati?_spp_detailId=3269621
I Consultori familiari socioeducativi (CFSE) sono stati istituiti con la Deliberazione della Giunta Regionale n. 1349 del 22 agosto 2017. passim
- Definizione: è un servizio di interesse pubblico a favore della persona, della coppia e della famiglia
- Finalità: sociale, educativa ed assistenziale
- Utenza: il servizio può essere utilizzato, per le funzioni previste, dalla famiglia, dalle coppie, dalle singole persone, da gruppi, da servizi pubblici o privati, da Istituzioni.
- L’Ente gestore dichiara la Mission, ovvero l’impegno che, attraverso lo svolgimento dell’attività, si vuole dedicare al raggiungimento di un obiettivo generale di carattere socio-educativo e assistenziale.
- L’Ente gestore deve definire il risultato generale da raggiungere, individuare il target di utenza e di servizi di riferimento
- Per lo svolgimento delle attività il Consultorio Familiare Socio-Educativo deve essere dotato di una sede fornita di locali e delle attrezzature indispensabili e ubicata in modo da rispondere ai criteri di accessibilità per la popolazione servita.
- L’organizzazione del Consultorio Familiare Socio-Educativo deve garantire un servizio che consenta all’utente condizioni non discriminatorie, di parità e di piena libertà.
- Il Consultorio Familiare Socio-Educativo deve essere dotato di un gruppo di lavoro operante in equipe e composto da almeno tre operatori, di cui uno psicologo (e/o psicoterapeuta), un assistente sociale e da una figura professionale tra le seguenti sottoelencate, sulla base dei bisogni dell’utenza:
– educatore professionale
– mediatore familiare
– consulente legale
– mediatore linguistico-culturale
– ostetrica o infermiere o assistente sanitaria o ginecologo per le attività di educazione sociosanitaria.
La stessa equipe può essere integrata dalle medesime figure sopra elencate.
Le figure professionali devono essere in possesso dei titoli di studio previsti dalla normativa vigente.
Le funzioni svolte dal Consultorio Familiare Socio-Educativo si collocano all’interno di due macroaree:
1. Prevenzione e promozione.
2. Sostegno ed assistenza.
La singola prestazione socio-educativa è gratuita.
Le prestazioni vengono rese da professionisti che operano in equipe ed in relazione con gli altri servizi pubblici e privati del territorio.
bur.regione.veneto.it/BurvServices/pubblica/Download.aspx?name=1349_AllegatoA_352404.pdf&type=9&storico=False
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CONSULTORI FAMILIARI ISPIRAZIONE CATTOLICA
Consultori Familiari Oggi – anno 26 – n. 2 – dicembre 2018
v Livia Cadei Editoriale
v 40° anniversario di costituzione della
Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana.
Alcuni contributi del Convegno (Roma 14 aprile 20l8)
Nunzio Galantino Saluto
Claudio Giuliodori Saluto
Maria Luisa Gennari Custodire legami nella coppia e generare futuro
Paola Cavatorta Complessiva~mente. Il sapere e i saperi del consultorio per le famiglie di oggi.
Andrea Bettetini Profili giuridici dei consultori familiari
Paolo Gentili Un Samaritano vide ed ebbe compassione
Gigi De Palo Venticinque anni del Forum
Francesco Lanatà Prospettive future
Edoardo Algeri Conclusioni
v Contributi alla vita consultoriale
Daniel Feldhendler Théâtre et Histoires de vie. Se former à la rencontre de Soi et de l”Autre par la représentation de récits de vie transculturels
Ilaria Montanari Agostino Gemelli psicologo: una ricostruzione storiografica . . . _ . . . . . _ _
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Cremona. “Genitori e figli: i cambiamenti in adolescenza”
Il Consultorio Ucipem organizza un ciclo di incontri dal titolo “Genitori e figli: i cambiamenti in adolescenza” rivolti ai genitori di ragazzi nati negli anni dal 2002 al 2005.
I percorsi hanno l’obiettivo di essere uno spazio di incontro e confronto riguardo a differenti tematiche ed esperienze legate alla fase di vita che i ragazzi e le famiglie stanno vivendo. Si snodano lungo tre incontri (19 e 26 febbraio, 5 marzo) di un’ora e mezza ciascuno e sono condotti da uno psicologo e da un educatore dell’équipe del consultorio. Tutti gli incontri si terranno presso la sede del consultorio Ucipem in via Milano 5/C a Cremona.
Il percorso è gratuito e prevede la partecipazione di un numero massimo di 15 persone, si attiverà con l’iscrizione di almeno 5 genitori.
Nel corso dell’anno saranno pubblicate sul sito web www.consultoriocremonaucipem.it o sulla pagina facebook del Consultorio Ucipem Cremona, nuove proposte di percorsi indirizzati ai genitori.
Locandina www.ucipemcremona.it/content/cambiamenti-adolescenza
Gruppo per insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado
La scuola è un luogo dove i bambini e i ragazzi trascorrono gran parte della loro giornata e dove vi è la possibilità di incontrare/ scontrare le loro fragilità e quelle delle loro famiglie.
Gli insegnanti, a livello istituzionale, sono chiamati a gestire la complessità della fragilità sia nella pratica quotidiana dell’insegnamento, attraverso la personalizzazione dell’apprendimento (vedi normativa BES), ed anche nella relazione con le famiglie.
Il colloquio con le famiglie è uno strumento imprescindibile d’incontro, confronto e alleanza con le famiglie, ma sempre più spesso questo spazio diviene un teatro di recriminazioni reciproche e non uno spazio di pensiero attorno ai bambini e ai ragazzi.
Lavorando a stretto contatto con le scuole emerge sempre più la necessità di un supporto operativo che aiuti a mettere a fuoco le dinamiche che s’instaurano nella relazione Scuola – Famiglia per renderla più funzionale al benessere dei minori.
Per questo abbiamo pensato di attivare un percorso che aiuti gli insegnanti a utilizzare gli spazi istituzionali di comunicazione con le famiglie (colloqui, riunioni, comunicazioni sul diario) come un “luogo”, condiviso con la famiglia, con al centro i minori e i loro bisogni educativi e di crescita.
Il percorso si svolgerà in gruppo, coordinati da una Psicologa e da una Psicopedagogista, per un massimo di otto partecipanti.
Gli operatori forniranno conoscenze e strumenti utili per la lettura delle situazioni problematiche d’incontro con i minori e le loro famiglie con particolare riferimento a quelle in situazioni di fragilità.
Il gruppo consente uno scambio proficuo tra i partecipanti, permettendo la condivisione dei vissuti, di modalità operative di lettura delle situazioni, di strategie di accoglienza delle famiglie e dei minori con particolare riferimento a quelli fragili.
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/index.php/servizi/gruppo-per-insegnanti
Etica Salute & Famiglia – anno XXII n. 1 – gennaio 2019
Quella pubblicità che danneggia i medici Armando Savignano
L’interesse del minore nella proposta del diritto di famiglia.
Un’occasione persa? avv. Alessandra Nicolini
Mare Chagall. Una Amoris Lætitia artistica Gabrio Zacchè
Allattamento al seno: capiamo come funziona ostetrica Alessandra. Venegoni
Si deve apprendere anche ad amare psicoterapeuta Giuseppe Cesa
Tre spiritualità e medicina Gabrio Zacchè
Un pensiero che duri un anno don Cesare Lodeserto
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/index.php/pubblicazioni/etica-salute-famiglia/141-etica-salute-famiglia-annoxxii-n-1-gennaio-2019
Trento, “Altalena”, uno spazio d’incontro e gioco per genitori e figli da ottobre 2018 a giugno 2019
Dal 13 ottobre 2018 il Consultorio Familiare Ucipem, all’interno del progetto GenerAzioni, propone L’Altalena, uno spazio accogliente e flessibile dove genitori e figli possono giocare, fare i compiti, partecipare a interessanti attività laboratoriali, fare merenda e rilassarsi, con l’accompagnamento di operatori esperti.
GenerAzioni è un progetto del Consultorio Familiare Ucipem volto a migliorare la qualità delle relazioni famigliari. In particolare, punta allo sviluppo delle competenze educative e relazionali degli adulti offrendo loro contesti per stare bene assieme ai loro figli e spazi di riflessione sulla genitorialità.
In collaborazione con: Comune di Trento, Ass. AMA Punto Famiglie, Rete Intrecci, La Coccinella
www.ucipem-tn.it/2019/01/22/generazioni-laltalena-uno-spazio-di-incontro-e-gioco-per-genitori-e-figli
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DALLA NAVATA
3° Domenica del Tempo ordinario – Anno C – 27 gennaio 2019
Neemìa 08, 08. I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Salmo 18, 09. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.
1Corinzi 12, 28. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue
Luca 01, 01. Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
Nazaret il sogno di un mondo nuovo
Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Sembrano più attenti alla persona che legge che non alla parola proclamata. Sono curiosi, lo conoscono bene quel giovane, appena ritornato a casa, nel villaggio dov’era cresciuto nutrito, come pane buono, dalle parole di Isaia che ora proclama: «Parole così antiche e così amate, così pregate e così agognate, così vicine e così lontane Annuncio di un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità» (Rosanna Virgili).
Gesù davanti a quella piccolissima comunità presenta il suo sogno di un mondo nuovo. E sono solo parole di speranza per chi è stanco, o è vittima, o non ce la fa più: sono venuto a incoraggiare, a portare buone notizie, a liberare, a ridare vista. Testo fondamentale e bellissimo, che non racconta più “come” Gesù è nato, ma “perché” è nato. Che ridà forza per lottare, apre il cielo alle vie della speranza. Poveri, ciechi, oppressi, prigionieri: questi sono i nomi dell’uomo. Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. E lo scopo che persegue non è quello di essere finalmente adorato e obbedito da questi figli distratti, meschini e splendidi che noi siamo. Dio non pone come fine della storia se stesso o i propri diritti, ma uomini e donne dal cuore libero e forte. E guariti, e con occhi nuovi che vedono lontano e nel profondo. E che la nostra storia non produca più poveri e prigionieri.
Gesù non si interroga se quel prigioniero sia buono o cattivo; a lui non importa se il cieco sia onesto o peccatore, se il lebbroso meriti o no la guarigione. C’è buio e dolore e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio. Solo così la grazia è grazia e non calcolo o merito. Impensabili nel suo Regno frasi come: «È colpevole, deve marcire in galera».
Il programma di Nazaret ci mette di fronte a uno dei paradossi del Vangelo. Il catechismo che abbiamo mandato a memoria diceva: «Siamo stati creati per conoscere, amare, servire Dio in questa vita e poi goderlo nell’eternità». Ma nel suo primo annuncio Gesù dice altro: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. C’è una commozione da brividi nel poter pensare: Dio esiste per me, io sono lo scopo della sua esistenza. Il nostro è un Dio che ama per primo, ama in perdita, ama senza contare, di amore unilaterale.
La buona notizia di Gesù è un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo, che lo mette al centro, che dimentica se stesso per me, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi totalmente “altra” da quello che è. E ogni uomo sia finalmente promosso a uomo e la vita fiorisca in tutte le sue forme.
padre Ermes Ronchi, OSM
www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=45023
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DIRITTO DI FAMIGLIA
L’interesse del minore nella proposta di riforma del diritto di famiglia. Un’occasione persa.
Il primo agosto 2018 è stato presentato alla Presidenza del Senato della Repubblica il disegno di Legge in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia alla bi-genitorialità. La proposta di legge contiene anche una riforma dei procedimenti di separazione e divorzio.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1071882/index.html
www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/comm/50388_comm.htm
La riforma è stata da più voci criticata in quanto intende disincentivare il disgregarsi della famiglia rendendo complicato e costoso addivenire alla separazione o al divorzio. Introduce, infatti, una serie di regole rigide che mal si conciliano con le diverse e mutevoli variabili familiari. Ogni famiglia ha un proprio assetto, con abitudini ed equilibri propri e la legge non può standardizzarle.
La proposta di legge, di iniziativa del Senatore Simone Pillon, intende attuare quanto condiviso dal Governo nel rinomato “contratto” {tra contraenti con diversi\opposti interessi. Ndr}in materia di diritto di famiglia: “l’interesse materiale morale del figlio minorenne non può essere perseguito se non si realizza un autentico equilibrio tra entrambe le figure genitoriali nel rapporto con la prole”.
Questo interesse sarebbe perseguito attraverso la gestione del conflitto familiare fuori dalle aule dei tribunali, prevedendo l’obbligatorietà della preventiva mediazione familiare – con relativo costo a carico delle parti – e lasciando al giudice un ruolo residuale.
La mediazione familiare è uno strumento che insegna a gestire il conflitto attraverso la cultura del rispetto dell’altro, è diretto a far apprendere come gestire la trasformazione delle relazioni nonché a risolvere i conflitti. E’, quindi, imprescindibile la libertà, volontarietà e consapevolezza della partecipazione. La mediazione familiare, come strumento per realizzare una separazione nell’interesse superiore del figlio minore d’età, può essere efficace soltanto laddove le parti prestino il proprio consenso liberamente.
Il carattere obbligatorio tout court e la procedimentalizzazione appaiono in contrasto con il requisito di volontarietà del ricorso alla mediazione, da cui deriva la possibilità di successo, di spontanea adesione ed accettazione alle soluzioni raggiunte dalle parti. Peraltro, non essendo previste deroghe all’obbligatorietà della mediazione, sarà inevitabile anche nei casi di violenza. Forse il Senatore Pillon non ha riflettuto abbastanza sull’utilità ed opportunità di un procedimento di mediazione nel quale sono necessariamente compresenti vittima e carnefice.
Lede il diritto di difesa, poi, la previsione della necessità dell’avvocato delle parti solo al momento della sottoscrizione dell’accordo. Come può un avvocato intervenire a cose fatte e far fallire la mediazione, ritenendo l’accordo non equo o soddisfattivo per il proprio cliente, con la conseguenza che questo comporta sotto il profilo sia economico che di tempistica processuale?
La proposta di legge, scritta con l’apporto delle associazioni dei padri separati, spesso vittime di pronunce non eque, ha il pregio di aver individuato alcune distorsioni nell’applicazione della normativa vigente, ma indica soluzioni che hanno come riflesso la “bi-genitorialità ad ogni costo”, anche a discapito dell’interesse del minore.
La bi-genitorialità è il diritto del figlio di godere di una relazione piena, armoniosa, costante con entrambi i genitori, anche nella fase patologica del rapporto tra questi. E’ la condivisione dei doveri e la collaborazione per il bene e nell’interesse dei figli. Il disegno di legge Pillon prevede una bi-genitorialità coatta, incentrata sul concetto di “quantità di tempo” e non “qualità del tempo”, con conseguente dovere e non più diritto del figlio a stare con entrambi i genitori. La bi-genitorialità si traduce nel diritto-dovere del figlio di trascorrere con ciascun genitore tempi paritetici o equipollenti ovvero il diritto del genitore di stare con il figlio almeno 12 giorni al mese ed il relativo dovere del figlio di rispettare tale regola, indipendentemente dal proprio interesse. Sempre per garantire la bi-genitorialità attraverso la divisione dei tempi, quando questa è di difficile realizzazione perché, ad esempio, un genitore vive o lavora distante dall’altro, devono essere individuati meccanismi di recupero durante le vacanze, sempre ponendo in secondo piano l’interesse dei figli i quali dovranno per un lungo periodo staccarsi dalle proprie abitudini, dai rapporti affettivi e di amicizia.
L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza ha osservato che una suddivisione paritetica dei tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore potrebbe non corrispondere all’interesse del minore, se materialmente gli impedisce di crescere in un ambiente domestico stabile, stravolgendo le sue abitudini pregresse e la continuità della sua vita di relazione. Devono essere gli adulti ad adeguarsi ai ritmi di vita dei bambini e occorre valutare nel concreto ciascuna realtà familiare. Sul piano pratico, il pendolarismo continuo tra realtà familiari distanti e talvolta anche conflittuali, potrebbe risultare in contrasto con la tutela del minore e con il suo diritto di conservare un centro stabile di interessi personali e familiari, rendendo eccessivamente gravoso il vivere quotidiano.
La Corte di Cassazione, in una recente ordinanza, ha affermato che la bigenitorialità “non comporta l’applicazione matematica in termini di parità di tempi di frequentazione del minore”, ma il “diritto di ciascun genitore ad essere presente in maniera significativa nella vita del figlio nel reciproco interesse “(Corte Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 31902, 10 dicembre 2018).
www.altalex.com/documents/news/2018/12/17/affido-condiviso
Nella proposta di legge la regola dei tempi paritetici è derogabile solo in cinque casi tassativi:
a) violenza; b) abuso sessuale; c) trascuratezza; d) indisponibilità di un genitore; e) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore.
L’uso di termini generici ed atecnici con riferimento alle ipotesi di esclusione del diritto del figlio a mantenere la propria relazione affettiva con ciascun genitore ha come necessaria conseguenza l’aumento del contenzioso.
Per i firmatari di questa proposta di legge la bi-genitorialità si attua attraverso il rispetto di un piano genitoriale. In ogni procedimento di separazione o divorzio, consensuale o giudiziale, sarà obbligatorio presentare al giudice un piano genitoriale volto a disciplinare tutti gli aspetti della vita dei figli:
1) luoghi abitualmente frequentati dai figli;
2) scuola e percorso educativo del minore;
3) eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e formative;
4) frequentazioni parentali e amicali del minore;
5) vacanze normalmente godute dal minore.
In caso di contrasto il piano genitoriale è deciso dal Giudice sentite le parti. Il rispetto delle condizioni indicate nel piano è obbligatorio per i genitori e anche la eventuale modifica deve essere trasfusa in un provvedimento giudiziale previa mediazione famigliare ovvero percorso con il coordinatore familiare, figura introdotta dalla riforma per dirimere le conflittualità sulla esecuzione del piano.
Le rigidità che presenta questa previsione contrastano con le mutevoli variabili familiari e svuota di significato questo strumento che se fosse fondato sul consenso, facilmente modificabile in funzione delle mutevoli esigenze della famiglia e disciplinato con procedure snelle, chiare e definite, potrebbe essere accolto con favore.
Il piano deve contenere anche la misura e le modalità con cui ciascun genitore provvede al mantenimento diretto dei figli attribuendo a ciascuno specifici capitoli di spesa in misura proporzionale al proprio reddito.
L’assegno perequativo (di mantenimento) viene stabilito ove strettamente necessario, solo in via residuale e per un periodo di tempo predeterminato dal giudice il quale deve indicare le concrete iniziative che devono essere assunte per raggiungere l’obiettivo del mantenimento diretto. Non è dato sapere quali possano essere queste iniziative.
La formula del mantenimento diretto nasce dalla necessità di ovviare a decisioni giudiziarie ingiuste con imposizione di assegni perequativi spesso ingiustificati nonché dallo scetticismo del genitore onerato su come viene speso dal genitore beneficiario il contributo al mantenimento dei figli.
Tuttavia, ci pare che non abbia colto nel segno e sia volto, non solo a creare un ulteriore deterrente alla separazione con la conseguenza di perpetuare situazioni di alta conflittualità, ma anche ad attribuire un potere decisionale forte al genitore maggiormente abbiente.
Non tiene conto del gap salariale tra uomini e donne, della disoccupazione femminile del 58% al 2017 e del fatto che nel nostro paese ancora un’alta percentuale (circa il 20%) di madri alla nascita del figlio rinuncia o riduce il lavoro.
Il genitore con più disponibilità economiche potrà, infatti, provvedere in modo più adeguato dell’altro alle esigenze del figlio. Questa conseguenza è particolarmente evidente con riferimento al pagamento delle spese ordinarie: si pensi alla spesa alimentare, ai vestiti e alle utenze domestiche, che potrebbero essere “ricche” in un contesto e non essere garantite nell’altro.
Il mantenimento diretto ha come conseguenza l’impossibilità di procedere contro il genitore inadempiente come avviene attualmente in caso di mancato pagamento dell’assegno disposto nel verbale di separazione omologato o in sentenza. Con la riforma, il recupero delle somme anticipate per il mantenimento dei figli nei confronti del genitore inadempiente potrà avvenire solo promuovendo un giudizio ordinario dai lunghi tempi e costi gravosi.
L’assegnazione della casa. Il senatore Pillon propone di eliminare anche l’assegnazione della casa e prevede che solo il proprietario, comproprietario o titolare di altro diritto reale (uso, usufrutto, abitazione) può abitarvi. Il comproprietario o titolare di altro diritto reale ovvero il genitore non proprietario che nell’interesse dei figli potrà continuare a risiedere nella casa familiare per decisione del giudice, dovrà all’altro genitore un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato. Anche questa previsione nasce dalla necessità di ovviare all’automatismo dell’assegnazione della casa al genitore collocatario prevalente, spesso non proprietario, a discapito dell’altro genitore il quale deve pagare un canone di locazione per la nuova abitazione e spesso anche il mutuo per la casa ove non abiterà più per anni. Tuttavia, sostituisce un automatismo con un altro certamente pregiudizievole dell’interesse della prole e del genitore economicamente più debole.
La ratio dell’assegnazione della casa coniugale come prevista nel nostro ordinamento va individuata nella tutela dei figli minori, continuando ad assicurare ad essa il medesimo habitat familiare, nel tentativo di lenire gli effetti deleteri che la disgregazione dell’unità della famiglia porta inevitabilmente con sé. Pertanto, il provvedimento di assegnazione della casa familiare si fonda sul principio, ormai cristallizzato, dell’interesse della prole. Tutto ciò non rileverà più ed il genitore collocatario non titolare di un diritto reale sulla casa familiare deve essere economicamente in grado di fornire a sé ed ai figli un altro alloggio adeguato ovvero sperare nella disponibilità del genitore proprietario o del giudice.
Il venir meno del provvedimento di assegnazione della casa familiare e la regola del mantenimento diretto possono comportare per il genitore non proprietario né detentore di reddito la difficoltà a fare fronte alle spese dell’abitazione nella quale convivere con il figlio. L’interesse del minore, che si concretizza anche nella possibilità di convivere con il genitore che ha più possibilità o capacità di cura e di accudimento, ma che potrebbe essere meno abbiente, non deve essere sacrificato da una “logica di mercato”, dovendosi salvaguardare il principio di bi-genitorialità.
Si noti, poi, che per effetto della deroga ai tempi paritetici per “inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore”, il figlio del genitore non proprietario né detentore di reddito potrebbe veder violato del tutto il proprio diritto alla bi-genitorialità.
Modifiche disorientanti. Oltre ad intervenire nelle principali tematiche esaminate, il disegno di legge propone modifiche alla normativa vigente con piccoli interventi chirurgici, ma per questo non meno importanti ed in alcuni casi disorientanti:
- il doppio domicilio dei figli per le comunicazioni potrebbe essere condivisibile nell’ottica dell’affido condiviso, ma mal si concilia con il nostro codice civile che all’art. 43 individua un unico domicilio;
- gli ascendenti (nonni) possono intervenire nei giudizi di separazione o divorzio, aventi ad oggetto l’affidamento dei minori (nipoti), con conseguente allungamento dei tempi processuali per il moltiplicarsi delle parti coinvolte ed un inasprimento del conflitto;
- il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente indipendente cessa al compimento del 25esimo anno di età;
- qualsiasi trasferimento del minore, anche nelle ipotesi di pericolo per la sua incolumità, non autorizzato in via preventiva da entrambi i genitori o dal giudice tutelare è privo di efficacia e le autorità di Pubblica Sicurezza possono adoperarsi per riportare il minore alla sua residenza;
- è eliminato l’istituto dell’addebito della separazione senza nulla prevedere in caso di violazione dei doveri matrimoniali;
- è abrogato il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, dissuasivo alla violazione dell’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli.
Numerose sono le critiche di violazione alla Costituzione, alle Convenzioni di Istanbul e dei Diritti del Fanciullo, ma credo sia necessario rilevare che se dal un lato il disegno di legge può avere il pregio di aver evidenziato alcune tematiche che necessitano di una nuova o diversa regolamentazione, dall’altro la rigidità ed atecnicità, la difficoltà ad addivenire ad una separazione o divorzio, la bi-genitorialità ad ogni costo, anche in casi di violenza e lo scostamento dalla realtà economica e sociale non consentono di centrare l’obiettivo.
Addirittura, le soluzioni prospettate potrebbero comportare una seria regressione, alimentare la discriminazione basata sul genere e privare le sopravvissute di violenza domestica di importanti protezioni. Una normativa per la gestione della frattura della famiglia non può prescindere da tali aspetti fondamentali:
- le esigenze dei genitori devono essere subordinate all’interesse dei figli;
- la famiglia si ricompone assumendo un diverso assetto e si rimane genitori per sempre; l’assetto delle relazioni genitori-figli risente di tanti fattori: età e numero dei figli, condizione dei genitori (lavorativa, personale, di salute, residenza), organizzazione della vita familiare al momento della separazione, eventuale ingresso di nuovi partner, con o senza figli, eventuale nascita di altri figli;
- il figlio deve trascorrere con entrambi i genitori un “tempo di qualità” e non una “quantità di tempo”.
Avv. Alessandra Nicolini, Consultorio Ucipem di Mantova
Riforma dell’affido condiviso: profili critici e ragioni di contrarietà
Nella serata di oggi 30 ottobre 2018, rappresentanti del Centro studi Livatino hanno incontrato, su sua richiesta, il sen. Simone Pillon, relatore del D.d.l. S735, sull’affido condiviso, in discussione al Senato, in una riunione promossa dallo stesso Senatore. Nell’occasione, gli hanno consegnato – dopo averla illustrata in sintesi – la memoria che segue. Essa sarà poi depositata in occasione della audizione che il Centro Studi Livatino avrà nei prossimi giorni in Commissione Giustizia del Senato e costituisce un primo contributo di riflessione, nella consapevolezza che saranno necessari ulteriori approfondimenti. Il documento è stato redatto dalle avv. Daniela Bianchini, Margherita Prandi Borgoni ed Eva Sala, tutte con consolidata esperienza professionale nel diritto di famiglia, col coordinamento del dott. Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi Livatino e con la supervisione del prof. Emanuele Bilotti, professore Ordinario di Diritto privato e Coordinatore del Corso di laurea in Giurisprudenza nell’Università Europea di Roma.
www.centrostudilivatino.it
www.centrostudilivatino.it/rosario-livatino
D.d.l. Il disegno di legge n. 735 ha l’obiettivo dichiarato di apportare rettifiche all’attuale normativa in materia di affidamento condiviso e, più nel dettaglio, di modificare quanto finora previsto, in caso di separazione dei genitori, sul mantenimento dei figli e sulla regolamentazione dei rapporti di ciascun genitore con i figli stessi.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1071882/index.html
Muovendo dal presupposto della centralità della famiglia, nella relazione illustrativa al D.d.l., vengono puntualmente indicati quattro criteri di riferimento, ossia i quattro pilastri su cui si fonda la proposta di riforma:
1) La mediazione civile obbligatoria,
2) L’equilibrio tra entrambe le figure dei genitori,
3) Il mantenimento dei figli in forma diretta,
4) Il contrasto alla c.d. “alienazione genitoriale”.
Come Centro Studi Livatino, formato da magistrati, avvocati, docenti di materie giuridiche e notai, che fra i propri impegni statutari ha in modo specifico la riflessione sui temi della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, riteniamo importante il richiamo alla bigenitorialità – principio fondamentale, purtroppo non sempre attuato nella pratica quotidiana delle crisi familiari –, alla responsabilità dei genitori, alla mediazione familiare come strumento per favorire la conciliazione. Ma osserviamo che dalla lettura degli articoli che compongono il D.d.l. emergono non pochi problemi. Essi meritano attento esame, che segue facendo riferimento proprio all’impostazione dei “quattro pilastri” sopra menzionati.
Se – con le dovute cautele – è apprezzabile l’intento dichiarato nella relazione al D.d.l. di rimettere al centro delle crisi coniugali «la famiglia e i genitori e restituendo in ogni occasione possibile ai genitori il diritto di decidere sul futuro dei figli e lasciando al giudice il ruolo residuale di decidere in caso di mancato accordo», la lettera della varie disposizioni sembra perseguire tale obiettivo con pericolosi automatismi. E se è incontrovertibile il celebre assunto di Arturo Carlo Jemolo – «la famiglia è un’isola che deve essere solo lambita dal diritto» -, da cui deriva l’esigenza di valorizzare la famiglia medesima in quanto «un organismo normalmente capace di equilibri e bilanciamenti che la norma giuridica deve rispettare quanto più possibile», i singoli passaggi del D.d.l. paiono condurre su un terreno nella sostanza diverso. (…)
1.La mediazione familiare
1.1. In generale. La mediazione familiare può certamente avere un ruolo importante nella definizione di un accordo di separazione, sia quanto agli aspetti economici, sia quanto alla regolamentazione del rapporto genitori/figli. Quando due persone decidono di separarsi vi è sempre un più o meno elevato grado di conflittualità, che è l’esito di frustrazione, disagio, delusione, sconforto, se non addirittura di rabbia. La separazione rappresenta comunque un fallimento (del progetto familiare, delle aspettative di vita di coppia, dei progetti per il futuro proprio e dei propri figli), che non necessariamente può essere attribuito a uno dei partner, anche se spesso alla base dei contrasti vi è la non accettazione delle proprie responsabilità. Tutto ciò è noto in particolare a chi, come avvocato, si occupa della materia; ed è altrettanto nota l’importanza di aiutare la coppia – soprattutto in presenza di figli minori e se le circostanze lo consentono – a dialogare per trovare un accordo, piuttosto che continuare a discutere in un’aula di Tribunale. In alcuni casi, gli avvocati sono in grado di raggiungere questo obiettivo, in altri hanno bisogno dell’ausilio del mediatore familiare, ossia di un esperto capace di entrare in comunicazione con ciascuna delle parti in conflitto e di stimolare nelle stesse, senza esercitare pressioni, una libera elaborazione della soluzione e una gestione pacifica delle differenze.
La mediazione familiare appare dunque un mezzo in sé valido. Tuttavia, quanto previsto dal D.d.l. 735 lascia molto perplessi. Va premesso che i rapporti all’interno della famiglia sono considerati dal nostro ordinamento come meritevoli di specifica protezione da parte dello Stato che, per tutelarne i soggetti più fragili (minore, coniuge più debole), ha previsto una normativa non derogabile dalle parti; e che in presenza di figli minori, nel rispetto delle convenzioni internazionali (tra tutte la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia firmata a New York, 20 novembre 1989 ratificata in Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176 e la Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata in Italia con legge 20 marzo 2003 n. 77), l’interesse del minore è obiettivo primario da perseguire. Si assiste da anni ad una progressiva degiurisdizionalizzazione del diritto di famiglia, sovente a discapito della parte più debole: si ricordino il c.d. divorzio breve – che in poco tempo pone in difficoltà economica il coniuge più debole che subisca la scelta dell’altro -, la crescente perdita di rilievo che ha assunto il mancato adempimento ai doveri del matrimonio, in primis l’obbligo di fedeltà, la possibilità di procedere alla separazione o al divorzio in Comune, senza il controllo del magistrato a garanzia del coniuge meno forte. Pur nella consapevolezza del danno causato da pronunce giurisprudenziali “creative” in tema di diritto di famiglia, talora con decisioni “præter legem”, proprio la progressiva degiurisdizionalizzazione non sembra garantire una maggiore tutela.
Dalla lettura degli articoli relativi alla mediazione (art. 1, 2, 3, 4, 7, 13, 22) e alla nuova figura del coordinatore genitoriale (art. 5), nonché dalla stessa relazione illustrativa, emerge un dato importante: la sovrapposizione fra il modello di mediazione familiare cui sopra si è accennato e il modello di mediazione civile tipico degli altri settori del diritto. Si legge infatti nella relazione (p. 2), a sostegno dell’obbligatorietà della mediazione: «É tuttavia ben strano che sia stata imposta la mediazione preventiva in settori assai meno coinvolgenti la vita delle persone e invece si pongano forti limitazioni con riguardo alla materia del diritto di famiglia». In realtà, in quei settori assai meno coinvolgenti la vita delle persone la mediazione svolge un ruolo diverso: è finalizzata a evitare controversie giudiziarie, e l’accordo che viene raggiunto consiste di fatto in una transazione: le parti coinvolte si fanno reciproche concessioni, rinunciano – grazie all’aiuto del mediatore – ad alcune pretese pur di arrivare ad una definizione rapida della lite. Nella maggior parte dei casi dopo una mediazione civile, definita la causa attorno al tavolo del mediatore e sottoscritto il relativo verbale, le parti coinvolte non hanno necessità di rivedersi o di avere rapporti personali.
La mediazione civile infatti è concepita come percorso alternativo per dare soluzione rapida, in tempi definiti, a controversie civili relative a diritti disponibili, alleggerendo il sovraccarico del sistema giudiziario, e questo spiega il favore della giustizia ordinaria nell’indirizzare verso questo tipo di strumento. I dati sulla sua reale efficacia non sono invero confortanti: dalle statistiche pubblicate dal Ministero della Giustizia per il 2017, a sette anni dall’entrata in vigore della mediazione civile risulta che:
- Meno di un quarto delle controversie trova una soluzione concordata grazie alla mediazione,
- Nei casi in cui la mediazione è stata disposta dal giudice oppure è condizione di procedibilità le percentuali di fallimento sono rispettivamente del 78% e dell’86%,
- La percentuale di successo della mediazione è inversamente proporzionale al valore della causa. Così per es. per le controversie dello scaglione di valore da € 1.000 a 5.000 gli accordi raggiungono il 34% dei casi trattati, per lo scaglione compreso fra € 500.000 e i 2.500.000 la percentuale di soluzione positiva scende al 12%. Quest’ultimo dato fa concludere che più rilevanti sono le questioni trattate e/o i valori oggetto della controversia e maggiore è la percentuale di insuccesso della mediazione.
La mediazione familiare risponde ad altre logiche: le parti coinvolte, anche se separate come coppia, dovranno comunque continuare ad avere rapporti fra di loro come genitori. L’obiettivo della mediazione, quindi, non può essere il mero raggiungimento di un accordo, come sembrerebbe suggerire l’art. 3 del D.d.l. 735. Obiettivo della mediazione familiare, laddove sia possibile iniziare un tale percorso – si ribadisce – è quello di aiutare la coppia a dialogare, a essere costruttivi, a mettere in discussione le proprie pretese e a liberarle dal carico di sofferenza che sovente è di ostacolo all’individuazione delle necessità dei figli. L’accordo poi magari arriverà, ma prima ancora sarà stato raggiunto un risultato più importante, che peraltro consentirà a quell’accordo di essere attuato e modulato in base alle esigenze dei minori: i genitori avranno compreso l’importanza di rispettarsi reciprocamente e di rapportarsi ai figli come persone, orientandosi verso scelte nell’interesse concreto della prole, e non nel proprio.
1.2. L’obbligatorietà della mediazione familiare. È per questo motivo che la mediazione familiare obbligatoria è una contraddizione in termini. Perché sia efficace la mediazione familiare deve essere libera ed incondizionata. Vi sono casi in cui essa deve essere addirittura esclusa, come nelle ipotesi di coppie ad altissima conflittualità, sfociata o in grado di sfociare in episodi di violenza fisica o morale. La violenza non è mediabile, anzi costituisce addirittura un limite per la mediazione, come asserito dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) approvata il 7 aprile 2011, ratificata in Italia con legge 27 giugno 2013 n. 77, che all’art. 48 stabilisce: «Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione». Vi sono dunque dei casi in cui la separazione è necessaria per salvaguardare l’integrità fisica e psicologica dei figli o di uno dei genitori, vittime magari di una forma di affettività patologica manifestata dall’altro genitore. Ecco allora che l’obbligatorietà della mediazione, in questi casi, non può che cagionare disagi e problemi, ma il D.d.l. 735 non prevede deroghe, neppure in tali casi di violenza.
Ancor meno accettabile è che la mediazione familiare sia stata addirittura indicata come obbligatoria a pena di improcedibilità (art. 7 e art. 22) non soltanto – e già di per sé basterebbero – per le ragioni sin qui espresse. Attualmente, per le note carenze dell’organico, il termine di novanta giorni ex art. 706 co. 3 cod. proc. civ. [Il Presidente fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione dei coniugi davanti a sé, che deve essere tenuta entro novanta giorni dal deposito del ricorso] per l’udienza presidenziale in realtà si allunga anche di mesi. Con la mediazione obbligatoria i tempi rischiano di allungarsi ulteriormente, e la procedura potrebbe essere usata per fini dilatori dal coniuge che non abbia interesse a una definizione rapida. Il combinato fra tempi dilatati e impossibilità di perseguire il coniuge che si sottragga all’obbligo di contribuzione penalizzerebbe in tal modo il coniuge più debole, privato di risorse economiche e/o messo in ristrettezze. Si potrebbe prevedere il deposito del ricorso per separazione, e lasciare al tempo intercorrente fra il deposito e la prima udienza l’esperimento del tentativo di mediazione; ma questo aiuterebbe fino a un certo punto: i giudici potrebbero essere indotti a fissare la prima udienza in tempi ancora più lunghi, mentre una coppia conflittuale ha bisogno delle prime disposizioni, pur provvisorie, date coi provvedimenti presidenziali. Va poi considerata la totale mancanza nel D.d.l. di indicazioni sulle persone con difficoltà economiche che avrebbero diritto al patrocinio a spese dello Stato: il testo non pone le spese di mediazione a carico dello Stato, a prescindere dal possesso dei requisiti per l’ammissione al patrocinio gratuito; l’art. 4 del D.d.l. si limita infatti a stabilire «la gratuità del primo incontro», ma nulla dispone per i successivi.
Un altro elemento critico riguarda l’art. 1 del D.d.l. cioè i requisiti per esercitare la professione di mediatore familiare. Al comma 2, lettera c) è previsto che la qualifica di mediatore familiare sia attribuita «anche agli avvocati iscritti all’ordine professionale da almeno cinque anni e che abbiano trattato almeno dieci nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minori per ogni anno». Questa disposizione lascia perplessi, se si considera l’importanza che col D.d.l. si attribuisce alla mediazione familiare e alla sua funzione sociale riconosciuta dalla Repubblica ai sensi dell’art. 1 co. 1: se al mediatore familiare viene riconosciuto un simile ruolo, non si comprende perché sia stato lasciato ampio spazio di accesso, senza introdurre opportune garanzie di mirata professionalità: non sono tali l’aver trattato un certo numero di procedimenti di diritto di famiglia e dei minori.
Sarebbe come dire che una persona per il solo fatto di essere colta sia idonea a insegnare: è evidente che non è così. Il fatto di conoscere non garantisce di per sé la capacità di saper anche trasmettere agli altri. Allo stesso modo, un avvocato può aver trattato centinaia di separazioni e averlo fatto nella maniera peggiore, senza aver aiutato veramente le parti a comprendere l’importanza, specie in presenza di figli, di mettere da parte istanze egoistiche per aprirsi all’ascolto delle altre parti coinvolte. La capacità e la competenza nel mediare in ambito familiare, per la delicatezza e l’importanza della materia, non possono essere presunte ma devono essere accertate, pertanto quanto previsto dall’art. 1, co. 2 lett. c) è quanto meno incoerente con le premesse.
Da ultimo, ma non ultimo per il rilievo processuale che acquisisce l’istituto, è che la professione di mediatore al momento non è ancora regolamentata. Bisognerà vedere se quanto disposto all’art. 1 del D.d.l sarà sufficiente a colmare la lacuna e in che tempi: se però la mediazione familiare è condizione di procedibilità già al momento della entrata in vigore della legge, essa deve avere le carte in regola per funzionare a regime, con un albo di mediatori già formati. Attualmente tale albo manca.
1.3. La mediazione familiare e il “coordinatore genitoriale”. L’art. 3 del D.d.l. nel mentre conferisce al mediatore ampi poteri per la definizione dell’accordo, non introduce idonee garanzie nell’ipotesi di partecipazione del minore, come invece va più avanti l’art. 16 co. 2 del D.d.l. a proposito di ascolto videoregistrato. Lascia perplessi che il mediatore familiare «su accordo delle parti» possa chiedere agli avvocati (con evidente discrezionalità) di non partecipare agli incontri successivi al primo, quando però gli avvocati «devono comunque essere presenti, a pena di nullità e inutilizzabilità alla stipulazione dell’eventuale accordo, ove raggiunto». La presenza degli avvocati dovrebbe garantire le parti, soprattutto quando vi siano questioni che riguardano i minori, pertanto non sono chiare le ragioni di una simile previsione. Appare poi di difficile attuazione quanto previsto dal co. 9 dell’art. 3, in base al quale il Tribunale provvede all’omologazione dell’accordo raggiunto in sede di mediazione entro quindici giorni dalla richiesta, senza poter avere accesso agli atti o documenti del procedimento di mediazione, per espressa previsione dell’art. 2, che impone l’obbligo di riservatezza (anche nel caso in cui vi siano questioni riguardati i minori). È un evidente limite alla cognizione del giudice e alla sua funzione di garante della correttezza e della congruità di quanto concordato fra le parti.
L’art. 5 del D.d.l. introduce poi la nuova figura del “coordinatore genitoriale”, definito «un esperto qualificato con funzione mediativa, dotato di formazione specialistica in coordinazione genitoriale»: egli, come spiega la relazione, «operando come terzo imparziale nell’ambito delle disposizioni di natura legale e deontologica della rispettiva professione (…), ha il compito di gestire in via stragiudiziale le controversie eventualmente sorte tra i genitori di prole minorenne relativamente all’esecuzione del piano genitoriale». È una figura privata – diversa dal mediatore familiare – cui sono attribuiti poteri decisionali (gestire in via stragiudiziale le controversie) nei casi in cui l’intervento del giudice sarebbe necessario, soprattutto a tutela dei minori, ossia nei casi di «alto livello di conflitto» (art. 5 co. 3, lett. a): una figura con compiti delicati e ampi poteri decisionali, senza che ne sia chiaro tuttavia il profilo di competenza. Il D.d.l. si limita a prevedere che possono esercitare la funzione di coordinatore genitoriale (art. 5 co. 2) psichiatri, neuropsichiatri, psicoterapeuti, psicologi, assistenti sociali, avvocati e mediatori familiari. Nulla è previsto sulla verifica delle effettive competenze e della imparzialità del “coordinatore genitoriale”, come nulla si dice sull’eventuale controllo del suo operato o delle decisioni che assume. Tutto ciò è poi reso più grave dall’esplicito esonero della sua responsabilità: in base all’art. 5 c. 4, infatti, «lo svolgimento dell’attività di coordinazione genitoriale non dà luogo a responsabilità personali, salvi i casi di dolo o colpa grave». È inquietante notare come si parli di responsabilità personale e non anche di responsabilità professionale.
Appare fonte di problemi pure l’art. 6, che rende immediatamente reclamabile l’ordinanza del Giudice istruttore in materia di separazione e di affidamento dei figli. Come è noto, il procedimento di separazione e quello di divorzio sono caratterizzati da due fasi: una presidenziale e l’altra davanti all’Istruttore, mentre i provvedimenti provvisori e urgenti emessi dal Presidente possono essere subito reclamati davanti alla Corte d’Appello; successivamente, il processo proseguirà avanti al Giudice Istruttore che potrà modificarli, senza possibilità di ulteriore immediato reclamo. L’ulteriore immediata possibilità di impugnazione rischia di inasprire la lite. In caso di controversia sulla decisione del coordinatore (art. 5 co. 3 lett. b) non sono contemplati eventuali rimedi azionabili dalle parti. Non è chiaro quali poteri abbia il coordinatore per conseguire il rispetto delle decisioni da lui assunte. Né se sia revocabile l’incarico al coordinatore da parte di uno dei genitori, in quali casi e a che condizioni. Né infine quali siano i costi per l’attività prestata – verrà liquidata un’indennità, si applicheranno le tariffe professionali, e quali? – e sulla disciplina per gli aventi diritto al patrocinio a spese dello Stato.
2. L’equilibrio fra le figure dei genitori
2.1. La condivisione dell’intento del D.d.l. di garantire la genitorialità. Il D.d.l. prende le mosse da un concetto di bigenitorialità, strettamente legato alla pariteticità ed equipollenza del tempo passato da ciascun genitore con i figli, per giungere a una serie di modifiche di quanto attualmente previsto dalla legge. La tesi di fondo è che l’affido condiviso non ha trovato pratica attuazione perché non sarebbe stato realizzato pienamente l’affido a tempi paritetici (relazione, p. 3). Di qui l’introduzione nel D.d.l. della doppia residenza o del doppio domicilio dei figli in caso di separazione, «non potendosi più identificare un genitore collocatario» – relazione p. 4 – «ma dovendosi prendere atto che il bambino potrà finalmente fare conto su “due case”».
L’intento – certamente lodevole – è di assicurare la presenza di entrambi i genitori nella vita dei figli. È innegabile che per una crescita sana ed equilibrata un minore necessita di entrambi i genitori. Pienamente condivisibili sono le richieste di molti padri separati – di cui il D.d.l. in qualche modo si fa portavoce – di avere un ruolo di primo piano nella vita dei figli. I bambini, per crescere e riuscire ad instaurare relazioni interpersonali, hanno bisogno della cura e della presenza di entrambe le figure dei genitori: la madre è fondamentale nei primissimi anni di vita, ma il rapporto madre/figli rischia di generare squilibrio nella crescita del bambino se non è bilanciata dalla figura paterna. Padre e madre, aventi ruoli diversi e complementari, rappresentano quindi due figure egualmente importanti per consentire al bambino un sano sviluppo identitario.
Il principio della bigenitorialità, che è anche alla base dell’affidamento condiviso, muove esattamente da questo presupposto, per stimolare la partecipazione attiva di entrambi i genitori – siano essi ancora in coppia o separati – all’educazione, al mantenimento e all’istruzione dei figli in modo equilibrato e rispettoso delle parti coinvolte. Ambedue i genitori sono chiamati a svolgere pienamente il proprio ruolo, nella consapevolezza che il figlio ha bisogno di entrambi: come è affermato nell’art. 337 ter cod. civ., «il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi». Questo significa che un genitore non può escludere l’altro dalla vita del figlio, a meno che non vi siano gravi e accertate ragioni (es. violenza). Altrettanto irresponsabile e inaccettabile è che un genitore lasci di fatto all’altro il ruolo di cura ed educazione, limitandosi a provvedere al mero mantenimento.
Va tuttavia osservato come la disciplina vigente contenga norme che permettono l’adeguamento alla complessità della realtà quotidiana. Per es., l’art. 337-ter, co. 4 e ss. stabilisce già che, in linea di principio, il mantenimento debba realizzarsi in forma diretta «in misura proporzionale al (…) reddito» di ciascuno dei genitori, ma pure che, in caso di necessità, e cioè laddove quest’esigenza di proporzionalità non possa realizzarsi, debba essere disposta la corresponsione di un assegno periodico da parte di un genitore all’altro.
2.2. Interesse del minore o dell’adulto? Ciò premesso, il D.d.l. è connotato da eccessiva rigidità nel rapporto genitori/figli e dalla lettura della bigenitorialità in termini di una altrettanto rigida ripartizione dei giorni di permanenza dei figli con ciascun genitore. Malgrado nel D.d.l. si faccia più volte riferimento all’interesse dei figli, le norme sembrano muovere da un’altra prospettiva – l’interesse dei genitori -, e quindi da una impostazione adultocentrica, in contrasto con quanto previsto dalla normativa internazionale, dalla dottrina più autorevole e dalla giurisprudenza. A p. 2 della relazione, dopo aver precisato l’intento di rimettere al centro la famiglia e i genitori, si legge che ciò avviene «restituendo in ogni occasione possibile ai genitori il diritto di decidere sul futuro dei figli».
La conferma di tale impostazione sta nel contenuto degli articoli 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 17, 19 e 22 del D.d.l. dai quali emerge una scarsa considerazione del minore e una scarsa conoscenza delle esigenze dei bambini. L’art. 7 del D.d.l. introduce l’obbligo di inserire nell’ambito della memoria difensiva ex art. 706 c.p.c., a pena di nullità, «una dettagliata proposta di piano genitoriale che illustri la situazione attuale del minore e le proposte formulate in ordine al suo mantenimento, alla sua istruzione, alla sua educazione e alla sua assistenza morale». Di piano genitoriale si parla poi anche negli articoli seguenti. Si tratta di un documento che in via sperimentale è utilizzato attualmente da qualche Tribunale, per es. Civitavecchia, ma che, alla stregua di quanto previsto da questo D.d.l. solleva perplessità.
Il piano deve essere innanzitutto dettagliato e redatto a cura dei genitori. Nulla si dice circa l’attenzione che i genitori dovrebbero avere nel fare scelte che tengano conto delle esigenze, delle inclinazioni e delle preferenze dei figli. La partecipazione – anche solo indiretta – dei minori alla stesura del piano genitoriale non è prevista, neppure per gli adolescenti. I minori sono soggetti in formazione: le loro esigenze e i loro bisogni cambiano rapidamente e non tollerano una previsione troppo rigida e dettagliata. Si consideri l’ulteriore automatismo che se un coniuge non ha presentato un proprio piano genitoriale, il Presidente del tribunale accoglierà quello dell’altro, ove non contrario all’interesse della prole. È vero che l’art. 13 conferisce ai genitori il diritto di chiedere la revisione dei piani genitoriali; ma, come precisa la stessa disposizione, qualora vi sia conflittualità tra le parti il giudice invita i genitori ad intraprendere un percorso di mediazione, con la riproposizione di tutte le problematiche di cui sopra.
Il dettagliato piano genitoriale più che rispondere alle esigenze del minore risponde alle esigenze organizzative dei genitori: il minore è di fatto oggetto del piano, senza forme di partecipazione, magari con l’ausilio di un esperto in grado di aiutarlo a dialogare con i genitori e renderli consapevoli dei suoi bisogni, delle sue paure, delle sue incertezze, per giungere a elaborare un piano rispettoso del bambino. Eppure in ambito internazionale l’ascolto del minore ha grande rilievo, perché punta a raccogliere informazioni nel contraddittorio su fatti rilevanti per la decisione, e perché individua le esigenze personali ed educative del minore. La menzionata Convenzione sui Diritti del Fanciullo del 1989 sancisce all’art. 12 che gli Stati garantiscano ai minori il diritto di esprimere le proprie opinioni nell’ambito delle procedure che li riguardano. Sulla stessa linea si è espressa la Corte costituzionale italiana, nella sentenza n. 528 del 2000: «la mancata considerazione del minore, come parte del giudizio, inciderebbe negativamente sulla tutela dei suoi diritti ed in particolare di quello ad uno sviluppo compiuto ed armonico della personalità, implicitamente garantito dalle disposizioni costituzionali». In ogni caso, l’eccessiva minuzia di disciplina richiesta dal piano genitoriale mal si concilia con situazioni che, coinvolgendo e riguardando minori, sono in continua evoluzione e richiedono flessibilità più che formalizzazione in accordi dettagliati (si pensi alle frequentazioni amicali o ai luoghi di riunione dei minori).
La previsione della nullità del ricorso e della memoria difensiva, come sanzione per il mancato piano genitoriale dettagliato, potrebbe porre dei problemi rispetto al principio processuale della tassatività delle ipotesi di nullità degli atti processuali. Ci sono casi in cui, per la problematicità delle situazioni, si rende necessario disporre una consulenza tecnica di ufficio per verificare l’idoneità a svolgere le funzioni genitoriali e le condizioni di affido e collocamento, sin dall’udienza presidenziale, così da rendere superfluo, se non addirittura controproducente, il piano genitoriale. Il D.d.l non spiega che cosa può accadere in casi simili.
2.3. La ripartizione dei tempi. L’art. 11 collega la bigenitorialità a una mera ripartizione paritetica del tempo che il figlio è chiamato a trascorrere con ciascun genitore: «salvo diverso accordo tra le parti, deve in ogni caso essere garantita alla prole la permanenza di non meno di dodici giorni al mese, compresi i pernottamenti, presso il padre e presso la madre, salvo comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore». Secondo questa disposizione sarebbe nell’interesse del minore trascorrere qualche settimana nell’abitazione del padre e un numero di settimane tendenzialmente analogo nell’abitazione della madre. L’interesse del minore sarebbe inoltre di contare «su due case» (relazione, p. 4). È difficile credere che per un bambino sia positivo cambiare casa ogni metà mese: una simile ipotesi è già stressante per un adulto, tant’ è vero che gli esperimenti di permanenza a rotazione dei genitori nella casa familiare sono per lo più falliti.
La difesa della figura paterna e la sua importanza fondamentale nella vita di un figlio e nella formazione della personalità non può essere affermata sacrificando la serenità e la tranquillità dei bambini. La suddivisione in tempi paritari tra i genitori comporta per loro l’avere due case, in una sorta di perenne condizione di pendolarismo. La divisione in tempi paritari dovrebbe rimanere misura eccezionale: fraziona il minore, costretto in continuazione a cambiare il proprio modo di essere e il proprio comportamento, in base alle richieste e consuetudini del genitore con cui si trova. E poi, come si realizza la divisione in tempi paritetici per un neonato? Un bimbo di età inferiore ai tre anni, allorché l’attaccamento alla madre è fortissimo, dovrebbe vedersi allontanato da lei per tempi di cui non è in grado di sopportare le conseguenze? Il D.d.l. non opera lacuna distinzione in relazione all’età.
Un soggetto in formazione quale è il minore esige una stabile organizzazione di vita, soprattutto nei casi di separazione dei genitori. Non è nell’interesse del minore vivere da pendolare spostandosi da una casa all’altra, per soddisfare la convinzione di chi ritiene che soltanto in questo modo possa veramente parlarsi di affidamento condiviso. Persino quando la dottrina e la giurisprudenza si sono trovate ad affrontare casi di affidamento degli animali domestici in caso di separazione coniugale, l’ipotesi del collocamento a settimane alterne è stata in genere rifiutata, in quanto ritenuta non rispettosa delle esigenze e delle abitudini dell’animale. Se tali attenzioni valgono per un cane o per un gatto, perché a maggior ragione non dovrebbero valere per un bambino? Poiché la proposta di divisione in tempi paritetici si inserisce in un progetto di riformulazione della normativa anche in tema di mantenimento, ciò comporta che il minore abbia poi due diversi guardaroba (uno da ciascun genitore), o uno solo da traslocare periodicamente, unitamente ai libri scolastici e a quanto necessario per le attività extrascolastiche: una vita faticosissima, che accentuerebbe il trauma della separazione.
La pariteticità, nell’ottica della bigenitorialità correttamente intesa, deve riguardare anzitutto la responsabilità e l’impegno dei genitori nei confronti della cura integrale dei figli, e si traduce nella partecipazione di entrambi alla loro crescita, nelle diverse fasi dello sviluppo. Una partecipazione che richiede la continua messa in discussione da parte dei genitori, nello sforzo di cogliere davvero i bisogni dei figli, non già dare per scontato che quanto dagli stessi previsto per il loro – creduto – bene sia giusto. Una partecipazione che non può fare a meno del rispettoso dialogo fra i genitori, nel rispetto degli accordi stabiliti ma con elasticità e buon senso nell’applicazione concreta. Una partecipazione, insomma, che non può essere cristallizzata in una rigida pre-determinazione, in aride pagine di un piano che, proprio perché dettagliato, dovrà essere presto oggetto di ridefinizione e di modifica.
Al di là dell’idea singolare del “doppio domicilio dei minori” – di cui si è detto finora -, va segnalata la disposizione secondo cui il genitore che continui a risiedere nella casa familiare «è (…) tenuto a versare al proprietario dell’immobile un indennizzo pari al canone di locazione computato sulla base dei correnti prezzi di mercato». Una regolamentazione così rigorosa rischia di contraddire la funzione stessa riconosciuta al provvedimento di assegnazione della casa familiare. L’idea che sta dietro la possibilità dell’assegnazione della casa familiare è che il soddisfacimento di un’esigenza dei figli — e forse anche solo del coniuge più debole — comporti un sacrificio a carico dell’altro genitore proprietario dell’immobile. Ben più equilibrata è la disposizione vigente, che invece il D.d.l. punta a superare, e cioè la necessità di tenere conto dei vantaggi derivanti dal godimento della casa in sede di determinazione dell’assegno a favore del coniuge assegnatario che versi in difficoltà economica.
Restando sul tema della casa di abitazione, cosa vuol dire poi che «non può continuare a risiedere nella casa familiare il genitore che non ne sia proprietario o titolare di specifico diritto di usufrutto, uso, abitazione, comodato o locazione»? Il provvedimento di assegnazione non ha senso proprio in ipotesi di questo tipo? Se l’assegnatario ha già un titolo di godimento della casa familiare a che serve il provvedimento di assegnazione?
Desta inoltre perplessità, sempre in ordine al rapporto genitori/figli, quanto previsto dall’ultima parte dell’art. 14, laddove, nel trattare l’ipotesi del «trasferimento del minore non autorizzato in via preventiva da entrambi i genitori o dal giudice», si considera ciò sempre e comunque contrario al superiore interesse del minore e privo di ogni efficacia giuridica. Non solo, si stabilisce altresì che «è compito delle autorità di pubblica sicurezza, su segnalazione di uno dei genitori, adoperarsi per ricondurre immediatamente il minore alla sua residenza qualora sia stato allontanato senza il consenso di entrambi i genitori o l’ordine del giudice». La norma non considera che un minore possa essere allontanato, proprio nel suo interesse, per ragioni di sicurezza; la norma non prevede deroghe, ad es. per “giustificati motivi”, quali quelli relativi della violenza verbale o fisica di un genitore. Non è inoltre previsto alcun controllo o indagine da parte delle autorità di pubblica sicurezza, chiamate semplicemente ad «adoperarsi per ricondurre» – addirittura immediatamente – «il minore alla sua residenza». In tutto ciò, ancora una volta, non è contemplato l’ascolto del minore, che quindi potrebbe essere ricondotto con la forza in luogo per lui pericoloso.
2.4. L’intervento in giudizio dei nonni. Opinabile, con riferimento all’art. 11, è la previsione di un possibile intervento dei nonni nel giudizio: «gli ascendenti del minore possono intervenire nel giudizio di affidamento con le forme dell’art. 105 del c.p.c.». La presenza dei nonni è fondamentale nella vita dei bambini, oltre a essere spesso di grande aiuto per i genitori per organizzare e conciliare i diversi impegni lavorativi e familiari. Ma l’esperienza ed il buon senso suggeriscono di evitare nelle questioni familiari l’intromissione di soggetti che – seppur mossi magari dalle migliori intenzioni – non potrebbero far altro che alimentare ulteriormente il conflitto. Lo testimoniano, ad esempio, le numerose coppie finite in Tribunale proprio a causa dell’invadenza e dell’intromissione di suoceri e suocere.
Sembra incoerente che un disegno di legge che si pone l’ambizioso traguardo di diminuire la litigiosità nei procedimenti di famiglia consenta ad altri soggetti – non meno coinvolti e/o talora corresponsabili della conflittualità – di intervenire in giudizio, processualmente legittimati. I giudici ricorderanno con una punta di invidia Re Salomone, che in fondo fu chiamato a stabilire fra due sole contendenti quale avesse “diritto” al bambino. Di questo invero si tratta: adulti che rivendicano un preteso “diritto” in nome “dell’amore” verso un minore. Se si fosse voluto considerare almeno in termini equivalenti un corrispondente diritto del minore, si sarebbe dovuta prevedere la possibilità di un intervento del curatore speciale, cioè del soggetto che è chiamato a tutelare la posizione del figlio nei procedimenti in cui si discute di suoi diritti e vi è un potenziale conflitto con le posizioni dei genitori (cui questo D.d.l. aggiunge le posizioni dei nonni). Se l’articolo 11 afferma il diritto del minore «di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale», e questa non è una mera petizione di principio, il minore deve godere quanto meno della stessa possibilità di far valere tale diritto in giudizio, come la hanno gli ascendenti.
Se questo D.d.l. non fosse attraversato da una visione adulto-centrica, sarebbe sufficiente il vigente art. 317-bis [«Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L’ascendente al quale è impedito l’esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore. Si applica l’articolo 336, secondo comma»], che riconosce agli ascendenti la possibilità “nell’interesse del minore” di ricorrere, instaurando un procedimento di volontaria giurisdizione, ex art. 336 cod. civ. Sotto il profilo processuale, la possibilità di intervenire in giudizio di separazione o divorzio ex art 105 cod. proc. civ. [«Ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le altre parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse»] pone certamente il problema di identificare quale sia il diritto in senso stretto azionabile da parte degli ascendenti, «oggettivamente connesso con quello che costituisce oggetto del processo già pendente». Chiarire quale sia il contenuto e il fondamento del diritto degli ascendenti farebbe comprendere – posto che la norma afferma il diritto del minore a conservare rapporti significativi “con i parenti di ciascun ramo genitoriale”, pur non contemplando alcuna azione per la tutela di tale diritto – per quale ragione non sia stata prevista la possibilità di intervenire ex art. 105 cod. proc. civ. anche per gli altri parenti appartenenti a ciascun ramo genitoriale: perché la nonna con la quale in concreto il minore non ha avuto relazioni continuative, e non invece la zia, con la quale è intercorso un rapporto più stretto?
Un altro aspetto da chiarire allorché si ammette la possibilità di partecipare al contenzioso anche agli ascendenti è se anche loro debbano, a pena di improcedibilità, proporre domanda di mediazione. La logica e l’analogia per quanto avviene per altri tipi di procedimento, e per quanto previsto per la domanda dei coniugi, porterebbe ad una risposta positiva, ma di improcedibilità il testo dell’articolo qui non fa menzione.
3. Il mantenimento dei figli in forma diretta. Il D.d.l. introduce novità sul mantenimento dei figli, enfatizzando la forma diretta quale migliore, in quanto contribuirebbe – come si legge a p. 3 della relazione – «a una percezione nel minore di maggiore benessere economico non dovendo più il genitore veder mediato il proprio contributo da una persona – l’ex partner – in cui a torto o ragione non ha fiducia». Non si comprende per quale motivo il minore dovrebbe avere una percezione di maggior benessere economico in caso di mantenimento diretto: se mai in caso di genitori con differenti capacità reddituali egli percepirebbe la netta differenza fra i due genitori. Lascia più perplessi che questa disposizione non tenga conto di quel che accade nella realtà.
Astrattamente parlando, il mantenimento diretto di per sé non sarebbe una forma criticabile: è già previsto dall’attuale normativa. Tuttavia, un’analisi della realtà sociale italiana fa pervenire ad altre conclusioni, come anche osservato dal Consiglio Nazionale Forense nelle “Linee guida per la regolamentazione delle modalità di mantenimento dei figli nelle cause di diritto familiare” (29 novembre 2017): «non può sottacersi che questo modello familiare, fondato sull’effettiva eguaglianza economico-sociale, giuridica e culturale dei due genitori sembra faticare ad affermarsi nella nostra società, dove invece i ruoli genitoriali tradizionali, che assegnano alla madre la prevalenza dei compiti di cura ed accudimento, sono ancora molto marcati. L’assegno periodico di mantenimento, pertanto, trova la sua necessità nel diverso tempo di cura dedicato da ciascun genitore ai figli e in attuazione dei principi costituzionali di eguaglianza e solidarietà familiare disciplinati dall’art. 316 bis c.c.».
La rigida previsione del D.d.l. manca dell’idea di solidarietà fra i genitori, nell’interesse dei figli. L’art. 11 sul mantenimento diretto non considera le disuguaglianze ancora presenti, specie in ambito lavorativo, fra uomini e donne, e contraddice l’obiettivo dichiarato di porre la famiglia al centro e di garantire l’eguaglianza fra i genitori. Si pone piuttosto come ostacolo all’instaurazione di un dialogo fra i genitori, in quanto tende a accentuare le disuguaglianze, e con esse i conflitti.
La corresponsione a carico di un genitore di un assegno periodico potrà essere prevista solo “ove strettamente necessario e in via residuale”, ma dovranno essere indicate le modalità e le iniziative cui le parti dovranno attenersi, «per giungere al mantenimento diretto della prole» (art. 11 co. 8). Questa forma di assistenza economica in favore del minore, alternativa all’assegno di mantenimento, prevede che il genitore provveda personalmente alle spese ordinarie del figlio durante il periodo che trascorre con lui. La relazione al D.d.l. fa riferimento “all’antiquata idea dell’assegno” (p. 2, 1° cpv.), vigente in Italia, che intende eliminare, proponendo invece la suddivisione per capitoli di spesa tra i genitori, in relazione alle abitudini e al tenore di vita. Il limite di tale opzione è che, ove anche si riuscisse nella complessa opera di individuare le spese necessarie per un figlio in un futuro più o meno prossimo, ciò accentuerebbe agli occhi del figlio le diverse potenzialità economiche dei genitori, a scapito di quello economicamente più debole. L’assegno offre una possibilità perequativa, per cui se il figlio frequenta una certa scuola o può mantenere un determinato tenore di vita, ciò dipende, per lui, dall’intervento di entrambi i genitori. Infine, e non trascurabile, è da segnalare il probabile aumento di contenzioso che deriverà dall’applicazione del mantenimento per capitoli di spesa, laddove un genitore faccia scelte per gli acquisti non condivisi per natura, qualità o quantità, dall’altro genitore.
4.L’“alienazione genitoriale”. L’art. 17 del D.d.l. prevede che il giudice adotti provvedimenti qualora durante o dopo la separazione la condotta di uno dei genitori costituisca «causa di grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri familiari, ostacolando il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore e la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale». La condotta cui fa riferimento l’articolo in esame è quella comunemente chiamata alienazione parentale o genitoriale, come peraltro precisa la relazione a p. 4: «è grazie al godimento del diritto ad avere relazioni con i propri familiari che le persone possono, nel contempo, esercitare i doveri legati al “fare famiglia”».
È indiscutibile per il minore mantenere una relazione stabile e continuativa con tutti i familiari. Tuttavia l’esperienza insegna che vi sono dei casi in cui questo non è possibile, come ad es. quando uno dei genitori ha atteggiamenti tali da esigere una limitazione delle frequentazioni genitore/figlio. Altrettanto indiscutibile è che ogni genitore dovrebbe, nell’interesse dei minori, evitare condotte tali da sminuire l’immagine dell’altro genitore, in particolare agli occhi del figlio. Tuttavia, l’alienazione genitoriale – quella che fino al 2012, prima di una pronuncia sull’argomento da parte del Ministero della Salute, veniva chiamata PAS/sindrome di alienazione parentale – è un concetto che si è cercato di introdurre nelle aule di Tribunale per costringere un minore ad accettare la relazione col genitore “rifiutato”: un concetto elaborato negli USA a partire dal 1985, che ha suscitato critiche e perplessità – lo riconosce la relazione a p.4 –, non avendo fondamento scientifico. Il Ministro della salute italiano, a seguito dell’interpellanza parlamentare n. 2-01706 del 16 dicembre 2012 n. 704, ha affermato che: «sebbene la PAS sia stata denominata arbitrariamente dai suoi proponenti con il termine “disturbo”, in linea con la comunità scientifica internazionale, l’Istituto Superiore di Sanità non ritiene che tale costrutto abbia né sufficiente sostegno empirico da dati di ricerca, né rilevanza clinica tali da poter essere considerate una patologia e, dunque, essere inclusa tra i disturbi mentali nei manuali diagnostici».
Nel D.d.l., nonostante la consapevolezza delle critiche sollevate, si è nondimeno attribuita importanza a tale voce, non tenendo però conto del fatto che se un bambino rifiuta la relazione con un genitore non necessariamente lo fa perché è stato manipolato dall’altro genitore. Nel 2013 la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7041 del 20 marzo2013, I sez. Civile
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ha affrontato un caso in cui il giudice di merito si era basato su una consulenza che aderiva a tale teoria. Così ha sancito il Giudice di legittimità: «sono state richiamate le perplessità del mondo accademico internazionale, al punto che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome o malattia; che si è evidenziato che vari autori spagnoli, all’esito di una ricerca compiuta nel 2008, hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS e che, nel 2009, le psicologhe B.C. e V.S., la prima spagnola e la seconda argentina, hanno sostenuto, in una pubblicazione del 2009, che la PAS sarebbe un “costrutto pseudo scientifico”. Nell’anno 2010, inoltre, la Asociacion Espanola de Neuropsiquiatria ha posto in evidenza i rischi dell’applicazione, in ambito forense, della PAS, non diversamente da quanto già manifestato nel 2003, in USA, dalla National District Attorneys Association, che in nota informativa sosteneva l’assenza di fondamento della teoria, “in grado di minacciare l’integrità del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittime di abusi”. Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai quali, anche volendo accedere alla validità scientifica della PAS, molti dei suoi caratteri, come definiti dal suo sostenitore principale, Richard Gardner (nei cui confronti non sono mancati accenni poco lusinghieri, quale l’essersi presentato quale Professore di psichiatria infantile presso la Columbia University, essendo un mero “volontario non retribuito”, e persino l’aver giustificato la pedofilia), non sarebbero riscontrabili nel caso di specie. (…) L’altro principio, parimenti disatteso e non meno importante, riguarda la necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass., n. 14759 del 2007; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass., 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass., 25 agosto 2005, n. 17324). Il rilevo secondo cui in materia psicologica, anche a causa della variabilità dei casi e della natura induttiva delle ipotesi diagnostiche, il processo di validazione delle teorie, in senso popperiano [falsificabilità], può non risultare agevole, non deve indurre a una rassegnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici. Di certo non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare».
La Cassazione richiama alla prudenza, e prudenza dovrebbe seguire pure il legislatore. In una materia così delicata che coinvolge i minori, una norma, che abbia come presupposto una teoria come quella menzionata, rischia di ledere la dignità della persona. Accreditati studi scientifici frutto di ricerche di psicobiologia nel campo delle neuroscienze affettive insegnano che quando un bambino si sente a disagio con un genitore ed evita la frequentazione con lo stesso, nella quasi totalità dei casi lo fa perché ha paura e la paura – un’emozione primaria, istintiva, non condizionata – è in genere provocata dal comportamento violento (fisico o anche solo verbale) del genitore rifiutato, se non addirittura da abusi sessuali o atteggiamenti che mettono il minore a disagio.
Il D.d.l. in esame, come detto, sembra non considerare tutto ciò, prevedendo addirittura che i provvedimenti di cui agli articoli 342-ter e 342 quater «possono essere applicati, nell’esclusivo interesse del minore, anche quando, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraneazione con riguardo a uno di essi». A parte il fatto che il richiamo all’interesse del minore, per il contesto normativo in cui è collocato, risulta essere un inciso privo di significato, non può non esser criticata questa disposizione nella misura in cui prevede la possibilità – per il solo rifiuto del minore verso uno dei genitori – di applicare provvedimenti sanzionatori all’altro genitore «pur in assenza di evidenti condotte»: è una presunzione ex lege di alienazione genitoriale, che ipotizza un’estensione della disciplina degli ordini di protezione contro gli abusi familiari pur quando abusi non vi siano stati. Nulla si dice in merito all’importanza di ascoltare il minore e di comprendere, con l’ausilio di esperti qualificati, le ragioni del suo disagio o del suo rifiuto. Malgrado il richiamo all’interesse del minore, l’ascolto del bambino non è previsto, contrariamente a quanto sancito dalle convenzioni internazionali e dalla giurisprudenza costituzionale. Come in altri passaggi, anche su questo versante il non tiene conto di previsioni già contenute nell’ordinamento in vigore: per es., nel caso di condotta del D.d.l. genitore pregiudizievole ai figli, che però non sia tale da dar luogo alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, esiste già la previsione dell’art. 333 cod. civ., che offre uno strumento di tutela sufficientemente duttile.
5. Varie, in conclusione
5.1. Eliminato l’ammonimento. L’art. 9 del D.d.l. modifica l’art 709 ter c.p.c. che titola “soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze e violazioni”, ricomprendendo in tali fattispecie eventuali inadempienze o “manipolazioni psichiche” oltre agli atti che arrechino pregiudizio al minore. Viene eliminata la previsione dell’ammonimento e si stabiliscono solo le già esistenti ipotesi risarcitorie, anche se gli importi della sanzione pecuniaria vengono fortemente elevati: ciò non è condivisibile perché la sanzione dell’ammonimento è l’unica che, non prevedendo richieste risarcitorie o di natura economica, non può dar adito a facili accuse di possibili strumentalizzazioni a fini di lucro.
5.2. Ridotti i termini processuali. La riduzione dei termini di fissazione dell’udienza presidenziale, da 90 a 40 giorni dalla data di deposito del ricorso, potrebbe creare problemi nella predisposizione delle difese del convenuto. Se è vero che l’udienza presidenziale ha carattere sommario e i provvedimenti adottati sono provvisori, quindi modificabili in corso di causa, è altrettanto vero che quante più informazioni documentate vengono proposte e vagliate dal Presidente facente funzioni, tanto più la decisione, benché provvisoria, sarà adeguata alle circostanze di fatto, e spesso condurrà le parti a una definizione consensuale del procedimento. Ma se il resistente, per i termini troppo brevi, non sarà in grado di procurare la documentazione a propria difesa, quanto meno quella più importante (ad es. estratti conto bancari), questo compromette la possibilità che il Presidente assuma i provvedimenti provvisori avendo un quadro sufficientemente adeguato della situazione. Il che comporterà la necessità di prolungare il procedimento per consentire un’istruttoria più completa o il ricorso agli strumenti di impugnazione, con incremento di attività processuale.
5.3. Le disposizioni sui figli maggiorenni. L’art. 15 del D.d.l. modifica l’art 337 septies cod. civ. che prevede disposizioni in favore dei figli maggiorenni, e introduce la consegna al figlio dell’assegno di mantenimento da parte dei genitori, anche ove egli abiti stabilmente con uno di loro. La corresponsione diretta al figlio maggiorenne oggi viene statuita con prudenza, per evitare contenziosi familiari che facilmente potrebbero insorgere se il ragazzo utilizzasse il denaro per sé, senza partecipare alle spese del proprio mantenimento. Il rischio è di aprire un nuovo fronte di contenzioso familiare, che coinvolga anche i figli. Neppure appare condivisibile la previsione che l’obbligo di mantenimento cessi tout court con il compimento del 25° anno di età. Il percorso scolastico spesso prevede tempi più lunghi; perché il genitore non dovrebbe sostenerlo, cosa che farebbe nel caso di famiglia unita? Perché porre in una situazione di vantaggio il genitore separato e, soprattutto, in una condizione di sfavore il figlio di coppia separata? Una norma del genere si manifesta in modo palese come irragionevole, e quindi incostituzionale.
5.4. L’eliminazione dell’addebito e della sanzioni contro la violazione degli obblighi. L’art. 19 del D.d.l. abroga l’art. 151, co 2 c.c., in base al quale «Il giudice pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio». L’art. 21 abroga l’art. 570 bis c.p. Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio: «Le pene previste dall’articolo 570 si applicano al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli». Con questo sono lasciati privi di tutela gli obblighi di cui agli articoli 143, 147 e 148 c.c. [Diritti e doveri reciproci dei coniugi], sia sul piano civile che su quello penale, svuotandoli conseguentemente di significato: non sono obblighi di carattere morale, ma hanno uno specifico contenuto giuridico.
Un ordinamento che non preveda la possibilità di esecuzione specifica di un obbligo di legge e/o di sanzione in caso di violazione dello stesso, è un ordinamento che viene meno al suo scopo. In virtù di tali abrogazioni, gli impegni assunti con il matrimonio e la famiglia stessa avrebbero minore tutela – se non addirittura inesistente – rispetto a quella prevista per un contratto di leasing o di mutuo. Con il venir meno dell’addebito, infatti, il coniuge che ha avuto un comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio non solo non sarebbe condannato alle spese, ma non perderebbe neppure i diritti successori. Si tratta in definitiva di un’altra disposizione in grado di alimentare il conflitto e le tensioni fra persone che hanno deciso di separarsi.
Centro Studi Livatino Roma, 30 ottobre 2018
www.centrostudilivatino.it/affido-condiviso-profili-critici-e-ragioni-di-contrarieta
Mantenimento diretto: che cos’è, chi lo vuole e chi no
L. 54, 8 febbraio 2006 www.camera.it/parlam/leggi/06054l.htm
La riscrittura dell’affidamento condiviso ha provocato ideologiche e strumentali prese di posizione, non coerenti né con i contenuti dell’istituto né con i precedenti giudizi. Se ancora una volta si affronta in Parlamento il problema dell’applicazione dell’affidamento condiviso è perché l’evoluzione spontanea della giurisprudenza è tutt’altro che rassicurante, per chi propende per la fedeltà alla riforma del 2006. Ancora la Suprema Corte insiste nel fornire pareri ambigui e fuorvianti che permettono interpretazioni di comodo, a tutto vantaggio di chi desidera la conservazione dei vecchi schemi.
Esemplare, nel merito, la Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Ordinanza n. 31902, 10 dicembre 2018 www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32845_1.pdf
che, limitando a “significativa” la necessaria presenza dei genitori presso i figli (grossolana confusione con quella degli ascendenti) permette agli interpreti, che non aspettavano di meglio, di mostrare tutta la propria abilità nel giocare con le parole in modo da scambiare la regola con l’eccezione. Dire che la pariteticità non può essere obbligatoria non vuol dire che è lecito fare della marginalità di un genitore la regola. In una lettura intellettualmente onesta, se l’affidamento è condiviso e la legge riconosce al figlio il diritto a una pari opportunità di accesso a ciascun genitore ciò significa che esiste un orientamento preferenziale, un obiettivo, verso una parità giuridica e sostanziale dei genitori che assicuri realmente al figlio, mediamente e flessibilmente, quelle pari opportunità. Il criterio “caso per caso” sicuramente è da osservare, ma solo per verificare se ci sono condizioni ostative alla parità e tenerne conto quando occorrono. Procedere diversamente, ossia fondarsi sul genitore collocatario (v. prestampati e linee-guida) e considerare eccezione l’affidamento paritetico, vuol dire che ci sono degli adulti – che non sono i genitori, ma una parte degli operatori del diritto – che vogliono imporre la loro ideologia e/o il loro tornaconto attraverso modelli squilibrati, sopraffacendo diritti dei figli ovunque ormai formalmente riconosciuti da un pezzo.
D’altra parte, nessuna sorpresa. Si tratta di un atteggiamento largamente diffuso, anche a livello internazionale. Conclude una recentissima e larghissima indagine (2019, 27.000 casi considerati, D. Palhares et al., “Impacts of divorce and shared custody in families’ health and well-being”, “Although shared custody is a public health issue; there are legal barriers to its effective implementation, and paradoxically the legal arguments for non-granting shared custody are based on assumptions related to children’s health”.
www. researchgate.net/publication/330289749_Impactos_do_divorcio_e_da_guarda _compartilhada_na_saude_e_no_bem-estar_das_familias
L’accoglienza. Non stupisce, quindi, che l’intenzione che sta nel titolo del Ddl 735 Pillon di garantire la bigenitorialità sia stata accolta con profonda irritazione soprattutto da parte del sistema legale, che ha poi contagiato altri soggetti, da sempre allineati a favore di modelli sostanzialmente esclusivi. Resta, tuttavia, l’inaccettabilità della violazione dei principi base di qualunque protesta: evitare toni virulenti e una violenza verbale spinta al punto dell’offesa sanguinosa, travolgendo insieme l’opera e l’autore; documentarsi seriamente sul tema prima di pronunciarsi; non fare di ogni erba un fascio, ammucchiando indistintamente proposte tra loro estranee; conservare la memoria dei precedenti storici degli eventi che si intende commentare e tenerne conto, prima di lanciare i sassi.
Purtroppo nel nostro caso neppure una di queste regole è stata osservata. Tralasciando le dichiarazioni in interviste che si vogliono caritatevolmente supporre estemporanee e non meditate, più che mai sorvolando sugli striscioni nelle piazze, non si può non rammentare che nella sede ufficiale del Senato quella proposta in audizione è stata definita “figlicida, matricida, liberticida e femminicida”. E’ mancato solo, sorprendentemente, il genocidio.
Abbandonando velocemente questo triste aspetto, gli altri tre possono essere trattati insieme, essendo collegati. Nessuno – o quasi – ha fin qui notato che tra i vari progetti esistono profonde differenze, che richiedono quindi un’analisi separata. Faceva comodo mescolare le carte e così si è fatto. Bocciato il Ddl 735 con critiche specifiche si è poi passati direttamente a chiedere il ritiro di tutte le proposte, senza analizzarle. Non potendo in questa sede passare in rassegna uno per uno tutti gli aspetti ne verrà qui preso in considerazione uno soltanto, altamente rappresentativo e scelto tra i due che sono anche oggetto del Contratto di Governo: la forma diretta del mantenimento.
Davvero una novità? Entrando nel merito, si scopre anzitutto tra i commentatori una notevole difficoltà a comprendere in cosa consista il mantenimento diretto e se sia modalità già prevista – rectius privilegiata – dalla legge attuale o ancora da introdurre.
E’ la prima cosa da chiarire e conviene, allo scopo, partire dal testo in vigore: ” Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando … ecc.”
Chi abbia seguito l’iter della riforma del 2006 sa che questa stesura è un compromesso, abbastanza infelice, fra i testi di due proposte del tutto eterogenee, quella a prima firma Tarditi e quella a primo firmatario Mantini: una mirante al cambiamento, rispetto al modello monogenitoriale, l’altra alla conservazione. A dispetto della manipolazione subita, tuttavia il senso generale si è salvato. Se all’assegno si ricorre in via residuale, se, e solo se, non è possibile rispettare la proporzione tra risorse disponibili e contributo al mantenimento, vuol dire che la forma ordinaria è quella diretta. Che quindi è già prevista, e in via privilegiata, dalle norme attuali. Per cui il coro delle lamentele per la sua “introduzione” è da attribuire alla sua prevalente disapplicazione, che dura da oltre 12 anni, che ha dato la falsa sensazione della inesistenza.
Ma questa, a sua volta, come si spiega? Certamente, anzitutto, con la sua perfetta adesione al modello autenticamente bigenitoriale, inviso al sistema legale. In altre parole, se gli affidatari sono due, entrambi hanno il dovere di provvedere di persona ai bisogni dei figli e non ha senso che uno deleghi l’altro. Può darne prova il disagio della Suprema Corte nel respingere le richieste in tal senso, documentate dal fatto che, pur mantenendo il diniego, ogni volta si è vista costretta a cambiare le motivazioni per la loro evidente inconsistenza e pretestuosità (v. Cass. 23411/2009, 22502/2010 e 785/2012).
Se la giurisprudenza, dunque, ha fatto del suo meglio – o del suo peggio – per scavalcare prescrizioni di legge tutto sommato abbastanza nitide, non così è stato per la dottrina, maggiormente vincolata al rigore della scienza giuridica. Si veda, ad es., il giudizio espresso da Arnaldo Morace Pinelli “… in considerazione dell’opzione per il mantenimento diretto effettuata dall’ordinamento con la L. 54, 8 febbraio 2006 sull’affidamento condiviso, occorre evitare che venga automaticamente attribuito al genitore collocatario un assegno di mantenimento per il minore, nel difetto dei rigorosi presupposti indicati dall’art. 337 ter c.c.“.
www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-ix/capo-ii/art337ter.html
E non diverse sono le valutazioni, qui omesse per brevità, di altri autori (ex pluris, C.M. Bianca, T. Auletta, B. De Filippis, L. Rossi Carleo e C. Caricato, E. Quadri, G. Frezza, G. Giacobbe, M. Sesta, G. Ballarani, A. Arceri, A. Costanzo etc…).
Dunque c’è già adesso, secondo legge; non è una novità, a dispetto di chi protesta per i tentativi di “introdurlo”. Ma la confusione è ancora maggiore: non si ha chiaro in cosa consista.
Gli equivoci sulla sostanza del mantenimento diretto. Su questo, infatti, gli avversari del mantenimento diretto – purtroppo anche ad altissimi livelli di responsabilità proprio nell’ambito del diritto di famiglia – hanno dato corso recentemente alle più bizzarre esternazioni. In sostanza, si sta sostenendo che il mantenimento diretto è abbinato alle spese per i figli nei momenti di convivenza (ossia che si realizza apparecchiando la tavola per lui quando lo si ospita: quindi esisterebbe da prima del 2006?); “di conseguenza” che l’integrazione mediante assegno è obbligatoria quando i tempi sono diversi (perché è maggiore il numero dei pasti…?), a prescindere dal reddito di ciascun genitore (come in Cass. 22502/2010); che le madri saranno rovinate economicamente dalla sottrazione ad esse dall’assegno per i figli, benché sostituito dalla copertura diretta dei costi dei beni e servizi destinati ad essi; e che la forma diretta accrescerà la percezione da parte dei figli delle differenze di censo tra padre e madre, dimenticando che il mantenimento diretto va calcolato per attività e prestazioni a loro vantaggio che dipendono dal reddito complessivo di entrambi i genitori, e non separatamente dell’uno e dell’altro, e quindi che ne godranno a prescindere da chi ne coprirà i costi. In altre parole, se in una famiglia monoreddito (paterno) la figlia liceale praticava nuoto e danza e vestiva firmato, dopo la separazione il padre fornirà alla madre con l’assegno perequativo il denaro per provvedere, ad es., all’abbigliamento e alla piscina e coprirà le spese per l’istruzione e la danza. La madre non perderà un centesimo e la figlia farà la stessa vita di prima. Infine due parole sul diffusissimo ma inconsistente argomento che il mantenimento diretto in caso di inadempimento lascia il figlio indifeso perché priva l’altro genitore dell’atto esecutivo che sanziona chi non ha versato l’assegno. L’ovvia replica si affida alla sostanza del mantenimento, ovvero al fatto che i figli sono i creditori sostanziali, che vengono soddisfatti quando ricevono concrete prestazioni a proprio vantaggio (e non quando del denaro passa da un adulto all’altro), raggruppabili in capitoli di spesa, e queste possono essere o attribuite tutte a un solo genitore (quello che riceve l’assegno: e dov’è per i figli la garanzia dell’adempimento sostanziale una volta che questo sia stato regolarmente corrisposto? E dov’è per il genitore erogante l’atto esecutivo in caso di trascuratezza?) o divise tra i due, riducendo il rischio.
La prassi attuale e le “spese straordinarie”. Queste considerazioni evidenziano la necessità di richiamare, per confronto, la prassi attuale fondata sull’assegno, a sua volta strettamente connesso con la distinzione tra spese legate e non legate alla convivenza, che presso un crescente numero di tribunali vengono definite “straordinarie” (e fuori assegno) e disciplinate mediante “Protocolli”. Nulla di più maldestro, data la evidente arbitrarietà di una classificazione del genere, che gonfia i fascicoli del contenzioso. Basti pensare che tipicamente all’interno delle spese ordinarie si infilano oneri, come quello dell’abbigliamento, che nulla hanno a che vedere con la convivenza e la relativa ripartizione dei tempi. Realizzata l’incongruenza, attraverso un lungo e tortuoso cammino si è arrivati a definirle così (testo degli organismi giudiziari milanesi: è lo schema attualmente prevalente): “Per spese straordinarie (extra assegno) si intendono quelle che presentano almeno uno dei seguenti requisiti: occasionalità o sporadicità (requisito temporale), la gravosità (requisito quantitativo) o la voluttuarietà (funzionale).” Una formulazione confermata dalle Linee Guida del CNF (novembre 2017) che, partendo dalla constatazione che nella famiglia unita la donna è tuttora penalizzata e costretta al doppio lavoro, esterno e casalingo, giunge alla geniale conclusione che deve continuare a sacrificarsi allo stesso modo anche quando, con la separazione, potrebbe esigere e ottenere condizioni di pari impegno e pari opportunità con i padri: quindi collocazione prevalente e assegno; come una baby-sitter.
In definitiva, l’esperienza attuale dimostra definitivamente che attribuire al giudice il compito di indicare “altresì le spese ordinarie, le spese straordinarie …” (testo del Ddl 735) significa mantenere in vita – rectius, legittimare – il genitore collocatario e il mantenimento indiretto.
Eppure esiste una via d’uscita, neppure difficile da immaginare, visto che all’esame del Senato è anche il Ddl 768 Maria Alessandra Gallone allineato con le linee guida del Tribunale di Brindisi sperimentate con successo dal marzo 2017 e imitate da un numero crescente di Corti.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1074423/index.html?part=ddlpres_ddlpres1
Queste, in particolare, sulla questione mantenimento non considerano “straordinari” oneri già esistenti, anche se non quotidiani (ad es. per l’istruzione), per cui tutte le spese già presenti o prevedibili sono immediatamente assegnate ripartendole tra i genitori per intero, mentre il contributo proporzionale sulla stessa voce riguarda solo quelle imprevedibili. Questo, tra l’altro, perché altrimenti, con i Protocolli attualmente impiegati, resta indefinito e fonte di interminabile contenzioso chi prenderà l’iniziativa per provvedere ai bisogni dei figli.
A chi giova e a prezzo di cosa? A questo punto è inevitabile porsi ancora una domanda: perché il mantenimento diretto dà tanto fastidio a certe categorie di soggetti? La risposta, sia pure per ipotesi, è chiaramente adultocentrica. La gestione del denaro è una forma di potere. Anche se è destinato ai figli, il denaro per il mantenimento comunque è gestibile con i “propri” criteri; e già la dominante formula della partecipazione al 50% alle cosiddette “spese straordinarie” è fastidiosa perché il totale dell’assegno si riduce e con esso il potere decisionale. Vediamo meglio. Si riceve una somma complessiva che si può ripartire senza rendiconto, anche spostandola da una voce all’altra e da un mese all’altro. Si può decidere, ad es., di rimandare l’acquisto di un capo di abbigliamento per investire di più nell’alimentazione. O viceversa. Fa comodo avere i soldi in mano. Questo, certo, comporta la perdita per i figli della piacevole e gratificante sensazione che entrambi i genitori si preoccupano dei loro bisogni; ovvero che sono presenti nella loro quotidianità e dividono momenti di scelta, ovvero che viene meno la natura formale e posticcia del “diritto di visita”, per il quale si incontrano due persone progressivamente sempre più estranee. O anche che si liberano ai figli adolescenti gli svaghi con i coetanei del fine-settimana, perché tanto con il genitore hanno già passato altri momenti. Si potrebbe aggiungere che lo stesso genitore percettore di assegno paga questo potere con una ben maggiore assunzione di responsabilità e perdita di tempo. Ma evidentemente esistono gruppi di persone, che hanno in mente ben precisi vantaggi per gli adulti e per le quali le “pari opportunità” e i diritti dei figli sono solo un argomento dialettico.
Non a caso di questo si è preoccupata la Suprema Corte, nella sua costante difesa del modello sostanzialmente monogenitoriale, affermando che “Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso (Corte di Cassazione, Sesta Sezione civile, Ordinanza 2127, 3 febbraio 2016). E con questo il diritto dei figli alla bigenitorialità va definitivamente in soffitta.
www.personaedanno.it/dA/4dd0c4d5d9/allegato/Cass.%20ord%202127.2016.pdf
Tesi attuali e precedenti. D’altra parte, alla descritta scarsa conoscenza tecnica si affianca una ancor meno consapevole e documentata polemica politica pseudosociale, della quale si sarebbe ben lieti di non occuparsi se questo genere di argomenti non fosse utilizzato per giungere alla bocciatura del modello stesso, così che interferendo l’ideologia con la scienza giuridica quest’ultima è costretta a farne notare le incongruenze per impedirne gli sconfinamenti.
Si sostiene, dunque, che il mantenimento diretto sarebbe il bieco strumento escogitato da forze conservatrici e oscurantiste per privare le madri e i “loro” figli di una indipendenza economica faticosamente raggiunta, nonché della connessa autonomia. Insomma, un odioso ricatto, una vera e propria forma di violenza. Una tesi che è finora riuscita a coinvolgere e dirottare vasti strati dell’opinione pubblica, essenzialmente sulla base del credito concesso a scatola chiusa ai suoi sostenitori, ma che si sbriciola di fronte sia ad una più attenta informazione che alla memoria storica.
Difatti, già risalendo di poco nel tempo, ovvero alla Legislatura appena conclusa, si scopre che il Ddl 2049 esce sul punto con questa formulazione: «Salvo accordi diversi delle parti, ciascuno dei genitori provvede in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche. Le modalità e i capitoli di spesa sono concordati direttamente dai genitori; in caso di disaccordo sono stabiliti dal giudice. Il costo dei figli è valutato tenendo conto:
1) delle attuali esigenze del figlio;
2) delle attuali risorse economiche complessive dei genitori»
Ovvero un testo non diverso dall’attuale Ddl C768, che a sua volta traduce adeguatamente gli impegni della attuale maggioranza. Solo che la fonte è della attuale opposizione (firmatari, nell’ordine, sono Lumia, Filippin, Capacchione, Casson, Cirinnà, Cucca, Ginetti, Lo Giudice e Tonini). Se, poi, si volesse sostenere che si tratta di una momentanea obnubilazione di alcuni soggetti che rappresentano solo se stessi, e non le sagge e consapevoli scelte di forze progressiste, basta risalire più indietro nel tempo, ad epoca non sospetta, addirittura precedente alla riforma del 2006, ovvero quando il regime ordinario era l’affidamento esclusivo, per imbattersi nell’art. 40 della Ddl C173 Valerio Calzolaio 18 novembre 1997 della XIII Legislatura (ripetuto nelle successive versioni del medesimo progetto).
http://leg13.camera.it/chiosco.asp?content=/_dati/leg13/lavori/stampati/sk0500/frontesp/0173.htm
Vi si legge, infatti: “Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi che provvedono in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento in misura proporzionale al proprio reddito.”
Dove salta agli occhi che:
- La modalità è stabilita per figli che neppure sono in affidamento condiviso, ma in quello esclusivo;
- L’assegno non è presente neppure come possibilità residuale;
- Soprattutto non c’è nessun legame tra i tempi e la forma del mantenimento.
E in questo caso non si tratta di una iniziativa estemporanea e limitata, trovandosi l’art. 40 all’interno di una legge quadro dedicata all’infanzia, che porta il titolo “Norme per la tutela e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva” e che venne firmata da 56 parlamentari, tutti progressisti, tra i quali le deputate Melandri, Bolognesi, Chiavacci, Stanisci, Mariani, Cordoni, Biricotti, Lorenzetti, Capitelli e Signorino.
Emerge, dunque, una notevole difficoltà da parte di alcuni soggetti a considerare aspetti e contenuti delle proposte di legge per ciò che nient’altro sono, ovvero istituti giuridici, di per sé neutri sia politicamente che sotto il profilo del genere e che sono stati pensati solamente come le soluzioni più idonee per affrontare i problemi della famiglia separata. Ignorarne la reale natura conduce quei soggetti a cadere in evidenti contraddizioni, socialmente rovinose ove si consideri che la posizione che occupano e il prestigio del quale godono molti di essi ne fa un demagogico punto di riferimento, atto a sollevare lo sdegno e provocare agitazioni di piazza di masse non tenute a documentarsi, che si muovono per effetto di una non verificata fiducia.
Conclusioni. Viceversa, la conclusione più corretta che può trarsi da questa breve ricostruzione è che le buone idee non hanno paternità e che la tematica del diritto di famiglia, prettamente socio-etica, non può essere affidata a schieramenti precostituiti, ad occasionali logiche di partito.
Anche perché i fatti hanno dimostrato che esiste nella sostanza una larghissima convergenza, anche a livello dei partiti, sulla necessità di uscire dalle attuali incoerenti logiche. Non a caso la stessa impostazione, le medesime soluzioni, si ripresentano nelle più eterogenee (politicamente) proposte che si sono succedute nel tempo. Già nel febbraio 2007 usciva la Pdl 2231 (Costantini e Mura, Italia dei valori) e da allora progetti dall’identico impianto sono stati regolarmente ripetuti (Pdl 2342 e 2360 e Ddl 1344 e 1399 XV Leg.; Pdl 53, 1132 e 1304 e Ddl 957, 2454 e 3289 XVI Leg.; Pdl 1403 e 1495 e Ddl 2014 e 2049 XVII Leg.) fino alla Pdl 249 e a Ddl 768
www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01074423.pdf
della Legislatura presente, depositati per iniziativa di tutte le principali forze politiche: Partito Democratico e Forza Italia, Alleanza Nazionale e Partito Radicale, Lega e Movimento 5 Stelle, UDC ed SVP….
Dunque se sui medesimi fondamenti e il medesimo modello si è avuta una così larga convergenza è perché con tutta probabilità si tratta di buone idee. Appare allora decisamente consigliabile che i soggetti ostili al Ddl 735 cessino di boicottare tutte le proposte in esame e i suoi fautori di irrigidirsi su una stesura decisamente discutibile, per ritrovarsi insieme a sostenere un testo unificato che si ispiri al Ddl 768, versione aggiornata di quelli testé citati, oltre tutto già sperimentata sul campo, come sopra rammentato.
Marino Maglietta News Studio Cataldi 21 gennaio 2019
www.studiocataldi.it/articoli/33250-mantenimento-diretto-che-cos-e-chi-lo-vuole-e-chi-no.asp
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DIVORZIO
Il divorzio pronunciato in Romania prevale sulla separazione italiana
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_33242_1.pdf
La sentenza della Corte Europea del 16 gennaio 2019 (link sopra) precisa che, nel rispetto di quanto sancito dai regolamenti CE n. 44/2001, n. 2201/2003, le norme sulla litispendenza devono essere interpretate nel senso che, nell’ambito di una controversia in materia matrimoniale, di responsabilità genitoriale o di obbligazioni alimentari, l’autorità giurisdizionale adita per prima non può negare il riconoscimento della decisione assunta da quella a cui ci si è rivolti in seguito e divenuta definitiva.
La vicenda processuale. Un italiano e una romena, dopo essersi sposati nel 2005 e aver stabilito la propria residenza in Italia, a distanza di un anno dall’arrivo del primo figlio, entrano in crisi. La signora torna quindi nel suo paese d’origine, portando con se il bambino.
All’indomani dell’allontanamento il marito si rivolge al Tribunale di Teramo per chiedere la separazione, mentre la moglie nel 2009 chiede il divorzio in Romania. Entrambi chiedono alle autorità giudiziarie competenti dei rispettivi paesi l’affidamento esclusivo del bambino, solo che, mentre il Tribunale di Teramo pronuncia la separazione nel 2012, quello romeno nel frattempo decide sul divorzio e sull’affido del minore.
Visto che il Tribunale italiano è stato adito per primo, il marito solleva eccezione di litispendenza dinanzi all’autorità giurisdizionale romana, che però la respinge, accogliendo con le richieste di divorzio e affido della moglie. Il Tribunale romeno infatti ritiene che la litispendenza, nel caso di specie è da escludersi, visto che in Italia è stata chiesta la separazione, mentre in Romania (in cui non esiste tale istituto) il divorzio.
Peccato che nel 2013 il Tribunale di Teramo dispone l’affidamento esclusivo del minore al padre e respinge la domanda della signora, tesa a ottenere il riconoscimento in Italia della sentenza straniera, visto che, ignorando la litispendenza, l’autorità giudiziaria di Bucarest si è pronunciata comunque.
La vicenda quindi prosegue con l’appello, da parte della signora, alla Corte d’Appello dell’Aquila la quale, sovvertendo la sentenza del giudice di primo grado, riconosce la pronuncia straniera di divorzio e affido. Secondo il giudice d’appello infatti la violazione delle regole sulla litispendenza non sono ostative al riconoscimento di una sentenza straniera in Italia. Scontento di quanto stabilito dalla sentenza di secondo grado, il marito ricorre in Cassazione.
Cassazione: alla Corte Europea la decisione sulla litispendenza. La Cassazione adita ritiene che in questo caso sia necessario sottoporre alla Corte di Giustizia Europea alcune questioni pregiudiziali, per comprendere la tematica della litispendenza e che cosa comporta la sua violazione. Gli Ermellini ritengono infatti che il giudice romeno, poiché è stato adito per secondo, non aveva il potere di decidere. Tale violazione renderebbe conseguentemente la sentenza romena non riconoscibile in Italia, perché lesiva delle nostre regole di ordine pubblico.
La sentenza del giudice adito per secondo deve essere riconosciuta anche se c’è litispendenza. Sulle questioni sollevate dalla Cassazione, la Corte Europea ritiene di dover analizzare il contenuto dei seguenti regolamenti CE:
- Il n. 44/2001, che disciplina le obbligazioni alimentari;
- Il n. 2201/2003, che si occupa della materia matrimoniale e della responsabilità genitoriale.
La Corte afferma che da essi risulta che, le autorità giurisdizionali italiane, anche se adite per prime, non possono negare il riconoscimento di una sentenza definitiva, solo perché adottata da un giudice romeno adito successivamente.
Vero però che nel caso di specie si è verificata una condizione di litispendenza, infatti, anche se le domande erano diverse (in Italia per la separazione mentre in Romania per il divorzio), vi era identità di parti. Non solo, secondo la Corte Europea, l’autorità giurisdizionale rumena ha in effetti violato le regole sulla litispendenza, visto che in Italia pendeva già il procedimento di separazione.
Questo tuttavia non significa che la violazione delle norme europee sulla litispendenza siano di ostacolo al riconoscimento di una decisione per contrarietà alle regole di ordine pubblico. Perché si configuri tale violazione devono verificarsi situazioni capaci d’impedire addirittura la realizzazione di uno degli obiettivi fondanti dei regolamenti qui esaminati, come la creazione di uno spazio giudiziario fondato sulla collaborazione e la fiducia tra autorità giurisdizionali di paesi europei diversi.
La Corte conclude ritenendo quindi corretta la pronuncia romena, visto che i regolamenti interessati non prevedono che il giudice adito per primo, in questo caso quello italiano, possa riesaminare una questione già decisa dall’autorità adita per seconda, né che possa rifiutarsi di riconoscere la sentenza dalla stessa emanata.
Annamaria Villafrate News Studio Cataldi 24 gennaio 2019
www.studiocataldi.it/articoli/33242-il-divorzio-pronunciato-in-romania-prevale-sulla-separazione-italiana.asp
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ENTI TERZ0 SETTORE
Risorse umane per ODV e APS nel codice del terzo settore
Ci sono differenze nella possibilità di assumere dipendenti per ODV e APS?
Per le Organizzazioni di volontariato – ODV il nuovo Codice del Terzo Settore prevede la possibilità di assumere dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure nei limiti occorrenti a qualificare o specializzare l’attività svolta.
Per le Associazioni di Promozione Sociale – APS la previsione, leggendo attentamente, è leggermente diversa in quanto esse possono assumere dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo o di altra natura, anche dei propri associati (non volontari), quando necessario per lo svolgimento delle attività ex art. 5 del Codice e al perseguimento delle finalità.
Le caratteristiche e il ruolo svolto dalle associazioni di promozione sociale sono molto vicine a quelle delle organizzazioni di volontariato. Mentre le organizzazioni di volontariato non possono remunerare i soci (oltre ad altri eventuali addetti) perché la legge 11 agosto 1991, n. 266 (“Legge-quadro sul volontariato”) esprime “l’incompatibilità tra la qualità di volontario con qualsiasi forma di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione di cui fa parte” (art. 2, comma 3), le associazioni di promozione sociale possono in caso di particolare necessità remunerare i propri soci (art. 18, comma 2 e art. 19 della legge 7 dicembre 2000, n. 383)
www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/Terzo-settore-e-responsabilita-sociale-imprese/focus-on/Associazionismo-sociale/Documents/Registro-Nazionale-APS-04102018.pdf
Non Profit on line 24 gennaio 2019
www.nonprofitonline.it/default.asp?id=508&id_n=8041&utm_campaign=Newsletter+Non+profit+on+line+24+gennaio+2019&utm_medium=email&utm_source=CamoNewsletter
Scuola di volontariato e legame sociale – parte l’anno formativo 2019
Con gennaio 2019 si apre il nuovo anno della Scuola di volontariato e legame sociale “Luciano Tavazza”. Perché la scuola? Il volontariato è efficace solo se svolto da persone capaci e competenti: volontari che non solo sappiano svolgere il loro servizio, ma che siano anche coscienti del loro ruolo di volontari e della forza di cambiamento che possono esercitare con la loro azione.
Da questa convinzione del Consiglio direttivo del CSV è partita alcuni anni fa l’idea di realizzare una scuola per volontari che trattasse tematiche trasversali e utili per tutti i tipi di associazioni.
Le novità 2019. Per essere sempre più vicini alle associazioni e alle esigenze dei volontari e offrire strumenti più concreti e puntuali, nel 2019 la scuola cambia la modalità di offerta delle sue lezioni. Non più quindi un percorso annuale ma una strutturazione in aree tematiche approfondite in un arco temporale di circa due mesi e mezzo, con docenti altamente specializzati.
Per ciascuna area tematica sono organizzati 5 incontri che vanno ad approfondire il tema dell’area da diverse angolazioni. Gli incontri si tengono a mercoledì alterni per un periodo complessivo di circa 2 mesi e mezzo.
- Area raccolta fondi – dal 23 gennaio
- Area motivazione – dal 30 gennaio
- Area progettazione europea – dal 3 aprile
- Area comunicazione – dal 10 aprile
- Area associazioni nelle scuole – dal 2 ottobre
- Area amministrativa – dal 9 ottobre
- Costituire un’associazione: appuntamento mensile
Per ottenere la certificazione di una data area, sarà necessario partecipare ad almeno 4 delle 5 lezioni previste.
A chi è rivolta. La scuola è un luogo di formazione destinato ai volontari, a operatori del terzo settore, a persone che hanno voglia di approfondire le loro conoscenze in merito a tematiche sociali e a tutti quanti hanno a cuore il bene comune e la gratuità. L’obiettivo della scuola è far riflettere sui temi propri del volontariato e trasmettere nuove competenze ai volontari e a quanti decideranno di impegnarsi in attività civica e di volontariato.
Contributo. Per ciascuna area tematica saranno disponibili 30 posti. La partecipazione alle lezioni di un’area tematica prevede una compartecipazione alle spese di 20 euro per massimo due volte. La partecipazione a partire dalla terza area tematica è gratuita.
Il programma https://csvpadova.org/wp-content/uploads/2019/01/LIBRETTO-SLS_2019_tipo.pdf
https://csvpadova.org/scuola-di-volontariato-e-legame-sociale-parte-lanno-formativo-2019
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FAMIGLIA DI FATTO
Diritti e doveri all’interno della convivenza, tra i partner e nei confronti dei figli.
Sempre più spesso, soprattutto negli ultimi tempi, ci sono dei giovani che decidono di andare a convivere senza contrarre matrimonio, almeno in un primo momento. È uno dei segni più evidenti del mutamento sociale a cui si assiste da qualche decennio a questa parte. «L’amore e la voglia di stare insieme non hanno bisogno di una firma», si sente dire da tanti ragazzi. La legge, però, non la pensa così: quella firma è necessaria affinché la famiglia che si vuole creare, anche senza passare dall’altare, abbia uno status giuridico. In altre parole: la famiglia di fatto non si genera nel momento in cui due persone decidono di condividere una casa ma nel momento in cui quell’unione viene dichiarata e riconosciuta legalmente.
Che cosa serve per formare una famiglia di fatto, oltre all’amore e alla voglia di stare insieme? Serve che l’unione sia stabile, solida e non occasionale. Insomma, serve un vincolo del tutto simile a quello contratto da marito e moglie al momento del matrimonio. Ci sono, come vedremo, dei requisiti ben precisi affinché una famiglia di fatto venga riconosciuta come tale.
Altra questione importante riguarda i figli frutto di una coppia di fatto: hanno gli stessi diritti legali rispetto ai figli di una coppia sposata? E cambiano anche diritti e doveri tra genitori e figli e viceversa? Che succede con i minori quando la famiglia di fatto si disfa a causa di una separazione? E quando uno dei partner muore, quali diritti ereditari hanno il compagno o la compagna ed i figli?
- Famiglia di fatto: che cos’è? Possiamo dire che si tratta di una realtà in cui una coppia convive stabilmente senza che la loro unione sia stata ufficializzata da un matrimonio ma nel rispetto dei diritti e dei doveri coniugali.
Affinché la convivenza venga riconosciuta come famiglia di fatto, occorrono questi requisiti:
- La diversità di sesso all’interno della coppia: è una caratteristica che rende la famiglia di fatto diversa dall’unione civile;
- La convivenza qualificata: la coabitazione della coppia sotto lo stesso tetto (la cosiddetta «casa familiare») e deve avere come scopo la vita materiale e spirituale in comune;
- La mancanza di un atto di matrimonio;
- Il riconoscimento sociale, che esclude la convivenza clandestina o di durata talmente breve da non essere nota nell’ambiente in cui abita la coppia;
- La stabilità del rapporto.
Per formare una famiglia di fatto, dunque, non basta «provare a stare insieme» qualche giorno e poi si vedrà: occorre un vero progetto di convivenza come se si fosse sposati.
- Famiglia di fatto: diritti e doveri della coppia. Non avere un legame matrimoniale che la unisce, esclude all’interno della coppia che forma una famiglia di fatto i reciproci diritti e doveri caratteristici del rapporto tra marito e moglie (quelli, cioè, sanciti dal Codice civile). La coppia di fatto, però acquisisce dei diritti legali sia a livello reciproco sia nei confronti della società. L’ordinamento, infatti, riconosce per i conviventi di una famiglia di fatto norme come queste:
- La possibilità di astenersi durante un processo penale di testimoniare contro il compagno o la compagna;
- L’accesso alla procreazione assistita;
- La possibilità di nominare un amministratore di sostegno per il partner;
- L’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli riconosciuti dalla coppia;
- La facoltà di subentrare nel contratto di affitto intestato al partner nel caso in cui quest’ultimo venga a mancare;
- L’accesso alle prestazioni dello stato sociale, come l’assegnazione di una casa popolare;
- La possibilità di accogliere in affido un minore temporaneamente privo di una famigli;
- La tutela possessoria della casa in cui la coppia convive;
- Il diritto al risarcimento del danno subìto dal partner (ad esempio, nel caso in cui rimanga vittima di un incidente mortale o di un omicidio);
- La tutela contro la violenza domestica;
- La tutela patrimoniale in caso di separazione;
- La possibilità di erogare dei soldi al partner per le esigenze della coppia senza l’obbligo di restituzione (a meno che ci sia una palese sproporzione tra la somma elargita e la necessità da soddisfare).
- Famiglia di fatto: la tutela patrimoniale della coppia. Tante singole norme, dunque, ma non una tutela giuridica specifica per la famiglia di fatto. Che cosa succede, a questo punto, con la parte patrimoniale all’interno della coppia? Come nella comunione dei beni per una coppia sposata «quel che è mio è tuo e quel che è tuo è mio» oppure c’è una normativa specifica?
In realtà, la legge non dice nulla al riguardo. Ci si affida, dunque, all’iniziativa del Consiglio Nazionale del Notariato volta a tutelare le coppie da questo punto di vista. Si tratta della possibilità di sottoscrivere dei veri e propri contratti di convivenza riconosciuti dalla legge [Legge n. 76/ 20 maggio 2016]
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg
in grado di regolare tutti gli aspetti patrimoniali che riguardano sia la convivenza sia l’eventuale separazione. Quindi, si mette nero su bianco che cosa succede (e succederà, nel caso in cui il rapporto salti in aria) con la casa, il mantenimento, i beni, il testamento, ecc. Nel bene e nel male, ovviamente. Queste clausole, attraverso il contratto di convivenza siglato da un notaio, acquisiscono valore legale in quanto hanno forma di scrittura privata o di atto pubblico.
Famiglia di fatto: c’è l’obbligo di mantenimento? Senza il contratto di convivenza di cui abbiamo appena parlato, la legge non riconosce ad oggi il diritto al mantenimento da parte del convivente all’interno della famiglia di fatto. Un concetto chiarito anche dalla Cassazione, con una sentenza [Corte di Cassazione civile, sezione Lavoro, sentenza. n. 4204/2 maggio 1994]
www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=2ahUKEwikxpb_v5jgAhWJxoUKHaYRD3sQFjAAegQIABAC&url=http%3A%2F%2Fwww.csmb.unimore.it%2Fsite%2Fhome%2Fdocumento124002541.html&usg=AOvVaw3hlkwckBBHnZthY-kxINge
in cui stabilisce che la convivenza non può essere assimilata al matrimonio in quanto i partner (lo dice la Suprema Corte) non hanno voluto assumersi i diritti ed i doveri dei coniugi legalmente sposati.
Per lo stesso motivo, il convivente non è nemmeno tenuto a garantire all’altro un assegno alimentare.
Famiglia di fatto: i rapporti con i figli. Se la coppia che ha messo in piedi una famiglia di fatto non viene paragonata dalla legislazione a quella sposata, non succede altrettanto con i figli. Dal 2013, infatti, c’è la totale equiparazione tra i bambini nati da una coppia sposata e quelli nati da una coppia di fatto o, comunque, fuori dal matrimonio [Dlgs. n. 154/28 dicembre 2013]. Tant’è che nell’ordinamento giuridico, grazie a questa legge, non ci sono più termini come «figlio naturale» e «figlio legittimo». Sempre di figlioli si tratta, insomma.
www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/01/08/14G00001/sg
La stessa legge sancisce per la coppia di fatto la possibilità di esercitare la responsabilità genitoriale e non più la potestà genitoriale. Qual è la differenza? Significa che la coppia di fatto acquisisce l’obbligo di mantenere, educare ed istruire i figli nati dal loro rapporto. Viceversa, il figlio deve rispettare i propri doveri nei confronti del genitore e contribuire, in base alle sue possibilità, al mantenimento della famiglia finché resterà in quella casa.
Famiglia di fatto: che succede in caso di separazione? Quando la famiglia di fatto si frantuma e cessa la convivenza a causa di un disaccordo tra i partner, non esiste alcun obbligo o diritto reciproco. Significa che ciascuno si deve riprendere la sua roba senza che l’altro possa pretendere alcunché che non sia suo, perché non esiste una comunione dei beni.
Ad esempio, se durante la convivenza sono state acquistate stoviglie, pentole, mobili, ecc., ciascuna di queste cose apparterrà, dopo la separazione, a chi le ha pagate, anche se sono state acquistate ad uso e a beneficio comune. Insomma, se ti piaceva il divano su cui ti addormentavi ogni sera davanti alla tv ma l’ha pagato lei, sarà lei ad addormentarsi davanti alla tv a casa sua senza che tu possa opporti.
Lo stesso vale per la casa in cui la coppia ha convissuto. Il convivente che non è proprietario dell’immobile e che non ha alcun diritto di godimento (come, ad esempio, un affitto) viene considerato un ospite e, pertanto, non è in grado di vantare alcun diritto sull’utilizzo della casa.
Sempre in caso di cessazione della convivenza per disaccordo, in presenza di figli minorenni ciascuno dei conviventi può rivolgersi al Tribunale dei minori affinché vengano stabiliti l’affidamento dei ragazzi, il diritto di visita, l’assegno per il loro mantenimento ed il luogo in cui devono abitare, cioè l’assegnazione della casa familiare.
Famiglia di fatto: che succede se uno dei due muore? L’altro motivo per cui può cessare la convivenza all’interno di una famiglia di fatto è la morte di uno dei due partner. In questo caso, che succede? Quali sono i diritti del convivente superstite? Anche qui la legislazione è piuttosto carente. Se il partner muore per cause naturali, al convivente non spetta alcun diritto successorio. A meno che sia stato fatto in vita da parte del defunto un testamento in cui nomina il compagno o la compagna suo erede. In questo caso, ovviamente, va rispettata la volontà del partner deceduto.
Diverso il discorso se la morte è stata provocata da una terza persona, ad esempio per incidente stradale o in caso di omicidio. Il convivente superstite, di fronte a ciò, avrebbe diritto ad un risarcimento del danno da parte di chi ha commesso il fatto.
Carlos Arija Garcia La legge per tutti 24 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/270184_famiglia-di-fatto
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
“In confessionale ho capito il dramma dell’aborto” passim
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/january/documents/papa-francesco_20190127_panama-volo-ritorno.html
Per capire il dramma dell’aborto bisogna stare in confessionale e aiutare le donne a riconciliarsi con il figlio non nato. Per fare il Papa bisogna “sentire” la gente, farsi ferire dagli incontri che si fanno, dalle persone che ci colpiscono con le loro storie e i loro drammi, portando tutto davanti al Signore perché le confermi nella fede. All’incontro di febbraio sugli abusi bisogna «prendere coscienza» di che cosa siano un bambino o una bambina abusati, per mettersi dalla parte di chi ha sofferto questa terribile violenza. E in questa identica prospettiva si colloca la preoccupazione per il Venezuela, che spinge Francesco a chiedere una soluzione pacifica ed evitare lo spargimento di sangue.
Il Papa, che si dice «distrutto» per l’intensità di un viaggio vissuto senza risparmiarsi, dialoga per cinquanta minuti con i giornalisti in alta quota sul volo che lo riporta a Roma, nella prima conferenza stampa guidata dal direttore ad interim della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti. (…)
C’è un problema che è comune in tutto il Centroamerica, incluso Panama e buona parte dell’America Latina: le gravidanze precoci. Solo a Panama sono state diecimila lo scorso anno. I detrattori della Chiesa cattolica la incolpano perché si oppone all’educazione sessuale nelle scuole. Qual è l’opinione del Papa?
«Credo che nelle scuole bisogna dare l’educazione sessuale. Il sesso è un dono di Dio non è un mostro. È il dono di Dio per amare e se qualcuno lo usa per guadagnare denaro o sfruttare l’altro, è un problema diverso. Bisogna offrire un’educazione sessuale oggettiva, come è, senza colonizzazioni ideologiche. Perché se nelle scuole si dà un’educazione sessuale imbevuta di colonizzazioni ideologiche, distruggi la persona. Il sesso come dono di Dio deve essere educato, non con rigidezza. Educato, da “educere”, per far emergere il meglio della persona e accompagnarla nel cammino. Il problema è nei responsabili dell’educazione, sia a livello nazionale che locale come pure di ciascuna unità scolastica: che maestri si trovano per questo, che libri di testo… Io ne ho visti di ogni tipo, ci sono cose che fanno maturare e altre che fanno danno. Dico questo: (…) bisogna avere l’educazione sessuale per i bambini. L’ideale è che comincino a casa, con i genitori. Non sempre è possibile per tante situazioni della famiglia o perché non sanno come farlo. La scuola supplisce a questo, e deve farlo, sennò resta un vuoto che viene riempito da qualsiasi ideologia».
In questi giorni lei ha parlato con tante persone e tanti ragazzi. E anche con ragazzi che si allontanano dalla Chiesa. Quali sono i motivi che li allontanano?
«Sono tanti, alcuni sono personali. Ma il più generale è la mancanza di testimonianza dei cristiani, dei preti, dei vescovi. Non dico dei Papi, perché è troppo, ma… anche pure. (…). Ci sono i cattolici ipocriti, che vanno a messa tutte le domeniche e non pagano la tredicesima, ti pagano in nero, sfruttano la gente. E poi vanno ai Caraibi a fare le vacanze, con lo sfruttamento della gente. Se fai questo dai una contro-testimonianza. Questo a mio parere è ciò che allontana di più la gente dalla Chiesa. Ai laici suggerirei: non dire che sei cattolico, se non dai testimonianza. Piuttosto puoi dire: sono di educazione cattolica, ma sono tiepido, sono mondano, chiedo scusa, non guardatemi come un modello. Questo si deve dire. Io ho paura dei cattolici così, che si credono perfetti. La storia si ripete, lo stesso accadde a Gesù con i dottori della legge, che pregavano dicendo: “Ti ringrazio Signore perché non sono come questi peccatori”».
Abbiamo visto per quattro giorni questi giovani pregare con molta intensità, possiamo pensare che molti abbiano la vocazione. Forse qualcuno di loro sta esitando, perché non può sposarsi. È possibile che lei permetta a degli uomini sposati di diventare preti nella Chiesa cattolica di rito latino, come avviene nelle Chiese orientali?
«Nella Chiesa cattolica di rito orientale possono farlo, si fa l’opzione celibataria o di sposo prima del diaconato. Per quanto riguarda il rito latino, mi viene alla mente una frase di san Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato”. Questo mi è venuto in mente e voglio dirlo perché è una frase coraggiosa, lo disse nel 1968-1970, in un momento più difficile di quello attuale. Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d’accordo a permettere il celibato opzionale. No. Soltanto rimarrebbe qualche possibilità nei posti lontanissimi, penso alle isole del Pacifico, ma è qualcosa da pensare quando c’è necessità pastorale. Il pastore deve pensare ai fedeli. C’è un libro di padre Lobinger, interessante, è una cosa in discussione fra i teologi, non c’è una decisione mia. La mia decisione è: no al celibato opzionale prima del diaconato. È una cosa mia, personale, ma io non lo farò, questo è chiaro. Sono uno chiuso? Forse, ma non sento di mettermi davanti a Dio con questa decisione. Padre Lobinger dice: la Chiesa fa l’eucaristia e l’eucaristia fa la Chiesa. Ma dove non c’è eucaristia né la comunità – pensi alle isole del Pacifico – Lobinger chiede: chi fa l’eucaristia? I direttori e gli organizzatori di quelle comunità sono diaconi o suore o laici. Lobinger dice: si potrebbe ordinare prete un anziano sposato, questa è la sua tesi. Ma che eserciti solo il munus sanctificandi, cioè celebri la messa, amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione degli infermi. L’ordinazione sacerdotale dà i tre munera: il munus regendi (il pastore che guida), il munus docendi (il pastore che insegna), e il munus sanctificandi. Il vescovo gli darebbe solo licenza per il munus sanctificandi. Questa è la tesi, il libro è interessante e forse questo può aiutare a come rispondere al problema. Credo che il tema debba essere aperto in questo senso per i luoghi dove c’è un problema pastorale per la mancanza dei sacerdoti. Non dico che si debba fare, non ci ho riflettuto, non ho pregato sufficientemente su questo. Ma i teologi ne discutono, devono studiare. Parlavo con un officiale della Segreteria di Stato, un vescovo che ha dovuto lavorare in un Paese comunista all’inizio della rivoluzione, e quando hanno visto come arrivava quella rivoluzione negli anni ’50, i vescovi hanno ordinato di nascosto dei contadini, bravi e religiosi. Poi passata la crisi, trent’anni anni dopo, la cosa si è risolta. E lui mi diceva l’emozione che aveva avuto quando in una concelebrazione vedeva questi contadini con mani da contadino mettersi il camice per concelebrare con i vescovi. Nella storia della Chiesa questo si è verificato. È una cosa da pensare e su cui pregare. Infine avevo dimenticato di citare l’Anglicanorum coetibus di Benedetto XVI, per i sacerdoti anglicani che sono diventati cattolici mantenendo la loro vita come se fossero orientali. Ricordo a un’udienza del mercoledì, ne ho visti tanti col colletto e con tante donne e bambini».
Durante la Via Crucis un giovane ha pronunciato delle parole molto forti sull’aborto: “C’è una tomba che grida al cielo e denuncia la terribile crudeltà dell’umanità, è la tomba che si apre nel ventre delle madri… Dio ci conceda di difendere con fermezza la vita e far sì che le leggi che uccidono la vita siano cancellate per sempre”. Questa è una posizione molto radicale. Le vorrei chiedere se questa posizione rispetta anche la sofferenza delle donne in questa situazione e se corrisponde al suo messaggio della misericordia.
«Il messaggio della misericordia è per tutti, anche per la persona umana che è in gestazione. Dopo questo fallimento, c’è pure misericordia. Ma una misericordia difficile, perché il problema non è dare il perdono ma accompagnare una donna che ha preso coscienza di avere abortito. Sono drammi terribili. Una donna quando pensa quello che ha fatto… Bisogna essere nel confessionale, lì devi dare consolazione e per questo ho concesso a tutti i preti la facoltà di assolvere l’aborto per misericordia. Tante volte, ma sempre, loro devono “incontrarsi” con il figlio. Io tante volte, quando piangono e hanno questa angoscia, le consiglio così: tuo figlio è in cielo, parla con lui, cantagli la ninna nanna che non hai potuto cantargli. E lì si trova una via di riconciliazione della mamma col figlio. Con Dio, la riconciliazione c’è già, Dio perdona sempre. Ma anche lei deve elaborare quanto è accaduto. Il dramma dell’aborto, per capirlo bene, bisogna stare in un confessionale. Terribile». (…)
Durante il suo pranzo con i giovani una ragazza americana ci ha raccontato che le ha parlato del dolore per la crisi degli abusi. Tanti cattolici americani si sentono traditi e abbattuti dopo le notizie di abusi e insabbiamenti da parte di alcuni vescovi. Quali sono le sue aspettative e speranze per l’incontro di febbraio, affinché la Chiesa possa ricostruire la fiducia?
«L’idea di questo incontro è nata nel C9 perché noi vedevamo che alcuni vescovi non capivano bene o non sapevano che cosa fare o facevano una cosa buona e un’altra sbagliata. Abbiamo sentito la responsabilità di dare una “catechesi” su questo problema alle conferenze episcopali e per questo si chiamano i presidenti degli episcopati. Primo: che si prenda coscienza del dramma, di che cos’è un bambino o una bambina abusata. Ricevo con regolarità persone abusate. Ricordo uno: 40 anni senza poter pregare. È terribile, la sofferenza è terribile. Secondo: che sappiano che cosa si deve fare, qual è la procedura. Perché talvolta il vescovo non sa che cosa fare. È una cosa che è cresciuta molto forte e non è arrivata dappertutto. E poi che si facciano dei programmi generali ma che arrivino a tutte le conferenze episcopali: su ciò deve fare il vescovo, ciò che devono fare l’arcivescovo metropolita e il presidente della conferenza episcopale. Che ci siano dei protocolli chiari. Questo è l’obiettivo principale. Ma prima delle cose che si devono fare, bisogna prendere coscienza. Lì, all’incontro, si pregherà, ci sarà qualche testimonianza per prendere coscienza, qualche liturgia penitenziale per chiedere perdono per tutta la Chiesa. Stanno lavorando bene nella preparazione dell’incontro. Io mi permetto di dire che ho percepito un’aspettativa un po’ gonfiata. Bisogna sgonfiare le aspettative a questi punti che vi ho detto, perché il problema degli abusi continuerà, è un problema umano, dappertutto. Ho letto una statistica l’altro giorno. Dice: il 50% dei casi è denunciato, e solo nel 5% di questi c’è una condanna. Terribile. È un dramma umano di cui prendere coscienza. Anche noi, risolvendo il problema nella Chiesa, aiuteremo a risolverlo nella società e nelle famiglie, dove la vergogna fa coprire tutto. Ma prima dobbiamo prendere coscienza e avere i protocolli».
Andrea Tornielli Vatican News 27 gennaio 2019
www.vaticannews.va/it/papa/news/2019-01/gmg-panama-papa-confessionale-capito-dramma-aborto.html
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NULLITÀ DEL MATRIMONIO
Meglio l’annullamento del matrimonio o il divorzio?
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, ordinanza n. 1882, 23 gennaio 2019
La dichiarazione di nullità del matrimonio, pronunciata dalla Sacra Rota, ha effetti retroattivi e cancella anche l’assegno di mantenimento a patto che intervenga prima del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.
Quando il matrimonio finisce, ci sono due vie per dirsi addio: la prima è quella tradizionale della separazione e del successivo divorzio davanti al tribunale civile; la seconda è quella della sentenza emessa dal tribunale ecclesiastico con cui viene dichiarata la nullità del matrimonio. Anche se l’obiettivo di entrambi i procedimenti è quello di slegare per sempre i coniugi, le differenze in termini pratici sono notevoli.
Notevoli perché in un caso (separazione e divorzio) si prende atto della cessazione di un rapporto che, comunque, ha avuto effetti nel passato (e, in parte, li continua a spiegare anche per il futuro); nell’altro caso invece (nullità del matrimonio) il rapporto tra i coniugi viene cancellato del tutto, con effetto retroattivo, come se i due non si fossero mai sposati. Questo porta a chiedersi spesso se è meglio l’annullamento del matrimonio o il divorzio.
Premesso che l’espressione più corretta, sotto un profilo giuridico, non è “annullamento” ma “nullità”, la risposta a questo interessante quesito non è facile: tutto dipende infatti da qual è l’obiettivo che si prefigge la parte. Ad esempio, se ci si vuole risposare in chiesa la via obbligata è quella della nullità. Se invece si preferisce mantenere l’assegno di mantenimento si deve optare per il procedimento davanti al tribunale ordinario con separazione e successivo divorzio.
Si tenga peraltro conto che il procedimento presso la Corte di Appello che “convalida” la sentenza del tribunale ecclesiastico può sopraggiungere anche dopo la sentenza di separazione e finanche dopo il divorzio (in quest’ultimo caso, però, come vedremo a breve, affinché abbia effetti deve intervenire prima che tale sentenza diventi definitiva).
Le cause che consentono il divorzio e quelle che consentono la nullità del matrimonio. Il primo aspetto da affrontare è quello delle condizioni per adire il giudice e chiedere la separazione/divorzio oppure la nullità della sentenza.
Per ottenere la separazione e il divorzio è sufficiente che vi sia la crisi coniugale, ossia il venir meno della comunione spirituale e materiale tra i coniugi. Questo elemento peraltro non deve essere dimostrato: si presume per il solo fatto che viene depositato il ricorso in tribunale. Con la conseguenza che separarsi e divorziare è molto semplice. La difficoltà interviene solo quando le parti non si mettono d’accordo sul mantenimento o sull’affidamento dei figli, nel qual caso bisogna istruire una causa lunga e a volte costosa.
Al contrario, la nullità del matrimonio può essere richiesta per ragioni prefissate dalla legge in assenza delle quali il tribunale ecclesiastico rigetta la domanda. Ai sensi del diritto canonico, le cause che garantiscono la nullità del matrimonio sono:
- La mancanza di consenso da parte di uno dei coniugi o di entrambi al matrimonio, compresa la riserva mentale e la simulazione che si ha quando i coniugi, prima di sposarsi, si sono messi d’accordo per non adempiere agli obblighi e non esercitare i diritti matrimoniali («Mi sposo, ma tanto so già che divorzieremo»). Ad esempio, possiamo pensare allo straniero che si sposa solo per acquisire la cittadinanza del coniuge o all’Italiano stesso che lo fa per ottenere la reversibilità della pensione o per esaudire il desiderio dei genitori di regolarizzare una situazione attraverso il cosiddetto matrimonio riparatore (la classica ragazza rimasta incinta senza volerlo);
- Il fatto che uno dei coniugi si sposi escludendo, però, una delle finalità essenziali del matrimonio religioso: procreazione («mi sposo ma non voglio figli»), la fedeltà («mi sposo ma sono libero di andare a letto con chi mi pare»), l’indissolubilità del vincolo matrimoniale («mi sposo ma sono libero di divorziare in qualsiasi momento»);
- L’errore sulla persona del coniuge: classico esempio è il matrimonio per procura (che si ha quando, in sostanza, Maria sposa Alberto, pensando sia Raffaele) o sulla qualità (sposo Alberto perché credo che sia un medico, in realtà è solo un laureando in medicina);
- La violenza fisica o il timore («sposo Giovanni altrimenti mi ammazza»);
- L’impotenza, da non confondere con la semplice sterilità che non è causa di nullità del matrimonio, tranne nel caso in cui la parte sterile abbia tenuto dolosamente nascosta la sua condizione all’altra parte solo per convincerla a sposarsi, cosa che altrimenti non avrebbe fatto;
- Matrimonio non consumato: significa che marito e moglie non hanno avuto un rapporto sessuale completo;
- Di recente introduzione è il “mammismo”, termine coniato appositamente dalla Sacra Rota per definire il coniuge che non riesce a staccarsi dai genitori.
Alcune di queste cause possono essere facilmente dimostrabili se c’è l’accordo di entrambi i coniugi. Ad esempio se tanto il marito quanto la moglie intendono annullare il matrimonio, sarà più facile dimostrare la riserva mentale dell’uno o il rifiuto di avere figli.
Sposarsi una seconda volta. Sia in caso di divorzio che con la nullità del matrimonio gli ex coniugi possono risposarsi. Ma solo con la sentenza della Sacra Rota lo possono fare di nuovo in chiesa. Altrimenti il rito concordatario è precluso.
L’assegno di mantenimento. La nullità del matrimonio ha effetto retroattivo: implica cioè la cancellazione di tutti gli effetti del matrimonio. Se quindi è vero che un matrimonio non è mai esistito, non è dovuto neanche il mantenimento. Quindi, è chiaro che chi ha un reddito più elevato riterrà più conveniente chiedere la nullità del matrimonio, mentre chi ha un reddito più basso o è disoccupato perderà in tal caso il contributo mensile.
Di solito, l’ex marito ricorre al tribunale ecclesiastico proprio allo scopo di non dover pagare nulla alla moglie. La sentenza di nullità del matrimonio, che per essere valida per lo Stato italiano deve essere delibata (ossia “approvata”, “certificata”, “convalidata”) dalla Corte di Appello competente, può intervenire anche dopo la sentenza di separazione, così cancellando tutti gli effetti in termini di mantenimento, ivi compreso l’obbligo di pagare l’assegno. Può anche intervenire dopo la sentenza di divorzio, ma in tal caso, per avere una concreta utilità, dovrà essere delibata prima che questa diventi definitiva, ossia passi in giudicato. Se infatti scadono i termini per impugnare la sentenza di divorzio, la delibazione della sentenza di nullità non cancella più gli effetti della pronuncia del tribunale ordinario che ha condannato l’ex coniuge al pagamento del mantenimento. L’ex coniuge ha diritto all’assegno se il divorzio passa in giudicato prima della delibazione ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Reversibilità, eredità e Tfr. Chi aspira a ottenere la pensione di reversibilità dell’ex coniuge deve rimanere solo separato. Se divorzia non può più ottenerla. Non ne ha neanche diritto con la sentenza di nullità.
Stesso discorso per i diritti ereditari che permangono finché la coppia non divorzia (quindi, se uno dei due coniugi muore dopo la separazione, l’altro gli succede). Anche in questo caso, però, la nullità del matrimonio esclude ogni diritto successorio.
Il Tfr dell’ex coniuge spetta solo dopo il divorzio e non dopo la separazione, né in caso di sentenza di nullità.
Tempi e costi del processo. Altro punto a favore della sentenza di nullità è costituito dai tempi e oggi, dopo la riforma di Papa Francesco, anche dai costi. Tutto è molto celere e più economico rispetto al tribunale ordinario.
La Legge per tutti 23 gennaio 2019
Ordinanza www.laleggepertutti.it/272296_meglio-lannullamento-del-matrimonio-o-il-divorzio
La nullità del matrimonio cattolico non esclude il diritto all’assegno divorzile qualora questo sia stato riconosciuto prima della pronuncia del Tribunale ecclesiastico.
Corretta l’interpretazione che è stata data dal tribunale territoriale del rapporto fra divorzio e sentenza di nullità ecclesiastica del matrimonio. Essendo stata pronunciata per prima la sentenza di divorzio e passata in giudicato la stessa, su di essa si è formato il giudicato impossibile da scardinare, anche con la successiva pronuncia del tribunale ecclesiastico, che ha dichiarato la nullità del matrimonio ex tunc.
Inammissibili le richieste dell’uomo di ritenere non dovuto l’assegno divorzile alla moglie. L’assegno è pertanto ritenuto congruo in relazione alla durata del matrimonio ed all’attività della moglie nella Società del marito.
http://www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17508012/la-nullit%C3%A0-del-matrimonio-cattolico-non-esclude-il-diritto-all-assegno-divorzile.html
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PARLAMENTO
Senato della Repubblica – Commissione Giustizia – Affido dei minori
Il Presidente della Commissione Giustizia del Senato Andrea Ostellari ha invitato la Presidente dell’AICCeF (Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari) Stefania Sinigagliaad un’audizione sul Disegno di legge Pillon ed altri, sull’Affido minori, per il giorno 31 gennaio 2019 presso l’Ufficio di Presidenza della Commissione a Palazzo Carpegna, Roma.
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PSICOLOGIA DI COPPIA
Amore liquido: come trasformare la vostra relazione in una storia seria
Lui non vuole impegnarsi. O magari sei tu, a non tentare nulla per uscire da quella zona grigia delle “quasi” relazioni in cui non si riesce a capire quello che realmente siete. Condizione che non permette di progettare e costruire nulla. I consigli di Nicoletta Suppa, psicoterapeuta e sessuologa, per trasformare una storia ‘liquida’ in storia ‘solida’ e seria
Stufa di frequentarlo senza impegno, anche se ormai uscite da mesi? Perché se vedersi senza affibbiare subito etichette al rapporto è giusto e sano, dopo un po’ serve ed è fondamentale mettere le cose in chiaro.
Non solo per evitare di perdere tempo se i vostri desideri di vita non collimano, ma soprattutto per uscire fuori da quella “terra di mezzo”, quella zona grigia delle “quasi” relazioni, dove non si riesce a capire quello che realmente siete e che quindi non permette di progettare e costruire nulla.
“Restare in questa impasse amorosa può far male per diversi motivi, due in particolare”, afferma Nicoletta Suppa, psicoterapeuta e sessuologa (www.nicolettasuppa.it). “Il primo è che alla lunga si soffre perché ci si sente incompleti, insoddisfatti e frustrati emotivamente. Ciò dipende dal fatto che, dopo essersi trascinati anche per anni in questi rapporti, si perdono di vista i propri obiettivi di vita e i propri desideri. L’altra ragione per cui queste “quasi” relazioni fanno male è che si trasformano spesso in dipendenze. Pur volendo, non si riesce a far a meno del partner: lo si desidera, ma non lo si vuole allo stesso tempo”.
Per capire meglio come si fa a uscire da questo pantano relazionale, abbiamo parlato con l’esperta, che ci ha dato anche dei consigli pratici per farla diventare una vera storia: matura, appagante, sana e completa.
Le “quasi” relazioni sembrano essere sempre più diffuse, perché? “Le ragioni sono essenzialmente sociologiche, legate alle trasformazioni che la nostra collettività sta subendo in maniera così veloce, che si riversa nella difficoltà di avere legami solidi, duraturi.
La ‘società liquida’, così come la chiama Zygmut Bauman, si fonda sull’incertezza, sulla necessità di definirsi e ridefinirsi, perché non ci sono più i confini che c’erano tempo fa, nemmeno nelle relazioni.
Dal ‘per sempre’ si è passati alla più profonda instabilità dei rapporti, il valore dell’unione amorosa non ha più il senso del tempo, ma solo dell’intensità con cui viene vissuta. Viene a mancare del tutto la continuità del sentimento, fino alla mancanza totale della sua definizione: si sta insieme perché si sta bene, senza chiedersi più se ci si ama davvero”.
Quali sono le caratteristiche di questi rapporti liquidi? “Sono relazioni indefinite e indefinibili, tanto da dover creare a volte dei termini ad hoc quando se ne parla, perché non è un legame d’amore, non è una conoscenza, non è un’amicizia.
Ciò che le caratterizza è di solito la presenza di rapporti sessuali. Si tratta di una sessualità spesso scissa dal sentimento e che nasconde altri tipi di bisogni, non fisici, ma affettivi. Ovviamente sono necessità di cui non si è consapevoli, per cui si finisce per credere di essere innamorati o, al contrario, per non innamorarsi mai.
Le relazioni ‘liquide’ possono durare molto a lungo, anche anni, proprio perché non riescono a trovare una forma. Vengono così confusi con l’amore, quando la maggior parte delle volte si tratta di dipendenza affettiva. Ciò che accomuna i due partner è una difficoltà a crescere, a diventare adulti, e anche una paura di perdere il controllo sulle proprie emozioni, per cui è meglio razionalizzare ciò che succede non facendosi coinvolgere eccessivamente”.
Alle origini della paura del coinvolgimento. Perché considerarsi una coppia a tutti gli effetti spaventa così tanto? “Perché vuol dire definire se stessi. Quando si sceglie di far parte di un “noi”, c’è da una parte una rinuncia a tutto il resto, a tutte le altre possibilità. Dall’altra c’è la definizione della propria identità come parte di un progetto comune.
Allora, se una persona non è ancora in grado di sapere chi è, di avere una personale visione del futuro, sarà molto difficile che possa essere pronta a condividere davvero la propria vita con un altro individuo.
C’è anche un ulteriore aspetto che intimorisce: la responsabilità che si ha quando ci si innamora. Il nostro bene dipende anche dall’altra persona, così come il bene dell’altro dipende anche a noi. Non tutti sono disposti ad accettare questo compito. L’idea del rimanere in un limbo amoroso permette così di sfuggire a tutto questo, garantendo quella possibilità di non doversi sentire imputabile di una scelta”.
Sono più gli uomini o le donne che di solito preferiscono vivere questo tipo di storie? “Non c’è una differenza di genere rispetto alle casistiche: tanto hanno paura gli uomini, quanto le donne. Piuttosto dipende dalla crescita emotiva personale e dalle esperienze precedenti. A volte i vissuti negativi, diretti o indiretti, fanno sì che non ci si possa permettere di innamorarsi.
Sono invece diverse le paure tra donne e uomini. Nel caso del genere femminile, è spesso il timore di soffrire a far leva su questo tipo di rapporto. La donna può scegliere un amore liquido per mancanza di fiducia nel partner: ciò le consente di non entrare mai in relazione fino in fondo. In altre situazioni, può anche accettare un “quasi” rapporto pur di stare vicino al partner da cui dipende affettivamente.
Questo, però, può succedere anche a ruoli invertiti. Negli ultimi anni questo tipo di relazioni di co-dipendenza sono molto comuni. Tra le paure maschili possono esserci quelle inerenti al non voler crescere, cioè assumersi quelle responsabilità insite in un rapporto di coppia più maturo. Può esserci anche l’idea che in una relazione stabile si possa perdere interesse per la sessualità, quindi la passione erotica è legata esclusivamente all’instabilità del rapporto.
Anche questo aspetto deriva da retaggi culturali e può creare una sorta di esclusività nel viversi la propria sessualità, quindi trovarla eccitante solo se il rapporto non è definito”.
7 dritte per trasformare una relazione “liquida” in una solida.
- Uscite allo scoperto. Di solito questo tipo di legami sono vissuti in maniera esclusiva e di nascosto, pur non essendoci problemi di tradimento, quindi di essere scoperti. Questo è un elemento molto esplicativo. È come se non si avesse nemmeno il coraggio di legittimare la relazione. Farsi vedere insieme è come dire “siamo una coppia”. Quindi questo è il primo passo da fare, viversi la relazione alla luce del sole.
- Condividete le vostre amicizie. Uscire con amici comuni è un incentivo a definirsi, che porta a scegliere se farsi conoscere come coppia o meno. Il confronto con gli altri può aiutare perché funge da rinforzo se gli altri ci vedono bene insieme o meno. Al contrario, le critiche costruttive possono servire a modificare alcuni aspetti della relazione.
- Parlate del futuro. Nel rapporto liquido non c’è spazio per il domani, perché è incerto anche il presente. Parlare invece di progetti comuni o condividere con l’altro le proprie idee rispetto all’avvenire, può servire a “vedersi insieme” e ad avere una maggiore fiducia nel vostro legame.
- Non evitate i conflitti. Spesso un disaccordo e una sana discussione servono a conoscersi meglio e a creare una maggiore vicinanza tra i partner. Nei rapporti liquidi questi momenti tendono a essere evitati poiché c’è l’alibi del “ognuno per la sua strada” appena c’è un momento di crisi. Perciò queste situazioni vengono schivate. Ci si divide, magari per un paio di settimane, e poi di nuovo insieme come se niente fosse. Purtroppo o per fortuna i sentimenti non funzionano come un interruttore on-off, per cui il non affrontare mai divergenze allontana. Ecco perché è importante, invece, confrontarsi sempre.
- Viaggiate insieme. Questo può avere un effetto positivo per la vostra relazione facendole fare uno scatto in avanti. Condividere un viaggio può unirvi e permettervi di scoprire lati diversi di voi e del vostro rapporto. Di solito nelle “quasi “relazioni non si creano situazioni extra-ordinarie, perché sembrano un passo troppo lungo. Il viaggio è di per sé un progetto, una scommessa, una condivisione. Può essere quindi un modo per chiedere e ottenere di più dalla vostra relazione.
- Smetti di parlare di lui come se fosse un amico. Si tratta del partner che stai frequentando, l’uomo con cui vorresti avere una vera storia. Se inizi a chiamarlo con il nome giusto, questo può aiutarti a dare un valore diverso alla relazione, legittimandola. Hai presente quando sistemi il tuo armadio e in qualche modo fai ordine anche dentro te stessa? Ecco il meccanismo è lo stesso: definire, per definirsi.
- Accetta un’uscita a quattro. Frequentare con lui un’altra coppia, per una cena o un aperitivo, può favorire a vedervi come coppia, a fare discorsi di coppia, a essere visti come coppia. Sono situazioni che di solito chi ha un rapporto liquido cerca di rifuggire, per non essere riconoscibili. Si preferiscono serate di gruppo, in cui ci si può confondere o eclissare. In altri casi le uscite pubbliche vengono del tutto evitate. Questo invece può essere un passo importante per rendere più solida la relazione.
Veronica Mazza La Repubblica 22 gennaio 2019
https://d.repubblica.it/life/2019/01/23/news/se_lui_non_vuole_una_storia_seria_non_voglio_impegnarmi_psicoterapeuta_sessuologa_consigli-4246471/?ref=RHPPBT-VD-I0-C4-P28-S1.4-T1
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PSICOPEDAGOGIA
Come aiutare un figlio adulto insicuro
Nuovi strumenti di legge e non solo a beneficio della “Generazione X” che non si forma, non studia, né lavora.
La chiamano “Sindrome di Peter Pan”, ma a dispetto del nome che porta, chi ne “soffre” non è deputato a farsi un giro all’“Isola che non c’è” di disneyana memoria, piuttosto a naufragare in un mare di irresponsabilità, infantilismi e sfiducia nelle proprie capacità. A soffrire di quella che in gergo si chiama “nanotenia psichica”, sembra siano in maggiore misura i maschi piuttosto che le femmine.
Ma in che cosa consiste tale sindrome e in quale finestra temporale della vita dell’individuo può affacciarsi? Stando ai professionisti del settore, si tratterebbe di una condizione psicopatologica che riguarda le persone che si rifiutano di crescere, di passare cioè all’età adulta, assumendosi le relative responsabilità, proprio come avviene nella storia di Peter Pan.
Ma quali possono essere le cause di questa sindrome? Se anche tu ritieni di non saperne abbastanza sul punto e vuoi raccogliere elementi su come aiutare un figlio adulto insicuro, non staccare proprio ora la “spina”. Magari ti si potrebbe accendere la famosa lampadina che sembra fece gridare ad Archimede “Eureka!”, vale a dire “Ho trovato!”.
Attaccamento del bambino e comportamento da adulto: quale connessione? Stando a quanto asseriscono gli psicologi dell’età evolutiva, la “Teoria dell’attaccamento” [Attribuita allo psicoanalista britannico John Bowlby e scientificamente avvalorata dalla sua allieva Mary S. Ainsworth] con oltre cinquanta anni di vita alle spalle, sta tornando in auge. “Una delle ragioni per cui la teoria dell’attaccamento è tornata di moda è che le sue idee si ripercuotono visibilmente sulla nostra vita quotidiana” ha dichiarato Kenneth Levy [Professore associato di psicologia presso la Pennsylvania State University].
Come si traduce tutto questo nella vita odierna in soldoni? Un corretto attaccamento mamma-bambino nei primi anni di vita fornirebbe una “base sicura” a cui il piccolo potrebbe ritornare nelle fasi di esplorazione dell’ambiente circostante. Tale “porto sicuro” a cui fare ritorno promuoverebbe nel bambino un senso di fiducia in se stesso, favorendo peraltro una progressiva autonomia nei vari stadi della crescita.
Attenzione mamme a fare troppo le chiocce! I piccoli vanno sì protetti, ma al contempo stimolati a spiccare il volo, scontrandosi gradualmente con le frustrazioni e le difficoltà della vita.
Frustrazioni, insuccessi, regole: un trio d’eccezione. Quindi una volta appurato che le mamme sagge, più che “chiocce” o gelidi “iceberg”, devono fungere un po’ da “piattaforme di lancio” per i figli, destinati per loro natura a spiccare i loro voli all’esterna, quali sono gli ostacoli da non temere? In una società come quella odierna dove forse imperversa la politica del “tutto e subito”, in realtà si deve riscoprire l’importanza dei no e quindi delle frustrazioni ad essi connesse.
Pertanto, anziché rendersi paladini del permissivismo tout court, perché non provare ad impartire delle regole della serie “poche ma buone”? Giunti a questo stadio, lasciate che i figli si confrontino con le difficoltà a modo loro! Magari rimanete nelle retrovie per un abbraccio di consolazione quando le cose non vanno nel modo sperato, evitando però di sostituirvi a loro. E poi, se proprio volete suddividere i ruoli tra padre e madre, un saggio ammonimento dice che mentre i padri spingono al raggiungimento di un risultato, le madri premiano lo sforzo.
Teatroterapia: cos’è e quando può rivelarsi utile? Se comunque, nonostante le varie accortezze seguite e i tentativi fatti, qualcosa fosse andato storto durante la fase della crescita, non è ancora tutto perduto.
Come dice il detto “genitori non si nasce, ma si diventa”, quindi madri e padri che siete all’ascolto non è proprio il caso di piangere sul latte versato, piuttosto se vedete che vostro figlio stenta a staccarsi dal nido per spiccare il suo volo nella vita, qualcosa è ancora possibile, a condizione che accettiate un aiuto dall’esterno. Tra le opzioni da considerare, una può essere di matrice teatrale. Sì! Avete capito bene. Il teatro infatti può rivelarsi uno strumento utile quando sia necessario smuovere delle situazioni e dei vissuti che tendono a stagnare nel tempo.
E’ stato infatti verificato che sperimentare nella realtà immaginaria della scena, comportamenti nuovi e diversi dagli automatismi e schemi personali con cui si reagisce agli eventi della vita, crea un iniziale effetto meraviglia. Per cui quell’esperienza nuova, vissuta sulla scena, entrerà a far parte del vissuto della persona come se l’avesse vissuta nella realtà quotidiana, dando il via ad una serie di novità a cascata, idonee a produrre dei cambiamenti nello stile di vita.
Quindi, magari quel comportamento che proprio non riesce di mettere in atto nella vita concreta, potrebbe saltare fuori in scena rivelando alla persona potenzialità che prima non pensava nemmeno di avere.
Sport e crescita personale: un binomio da non sottovalutare. Altro sicuro alleato della crescita personale è sicuramente lo sport declinato nelle sue diverse forme. E quando si dice “crescita personale” s’intende non solo quella fisica, quanto anche quella interiore.
Se quindi l’inclinazione del figlio è quella di confondersi nella massa, meglio indirizzarsi verso pratiche sportive che incoraggino l’azione individuale, come ad esempio scherma, tennis, ping-pong ecc. Se il ragazzo dovesse avere difficoltà a relazionarsi con gli altri, meglio indirizzarsi verso giochi di squadra come il calcio, la pallacanestro e la pallavolo, fermo restando che in questi ultimi casi vanno posseduti determinati e ineludibili requisiti fisici.
Se poi l’età posseduta dalla persona bisognosa di aiuto, la inserisse ormai nella classe di età di un adulto, potrebbero dimostrarsi più appropriati sport in cui si è seguiti da un personal trainer. Se invece il vuoto dovesse essere di tipo affettivo, perché magari nonostante tutti gli impegni profusi il rapporto genitori-figli è stato più conflittuale e oppositivo che empatico, un’altra opzione da vagliare potrebbe essere la pet-therapy. E’ stato infatti dimostrato che prendersi cura di un animale ed averne la responsabilità incoraggia la crescita con uno scambio affettivo non indifferente.
I valori aggiunti correlati agli sport. E’ ormai fatto notorio come qualsiasi pratica sportiva contribuisca a costruire e consolidare l’autostima tanto in bambini, quanto in adulti che anziani. L’esercizio fisico influisce infatti sulla sicurezza di sé e sull’equilibrio psico-fisico. Vediamo come:
- Aumento del livello di endorfine: l’esercizio fisico contribuisce al rilascio dei neurotrasmettitori detti anche “ormoni della felicità”. Per cui all’aumentare del livello di autostima si produrranno effetti benefici anche sull’umore che, via via, sarà sempre più positivo;
- Obiettivi da perseguire: impostare una scaletta di step raggiungibili e non inverosimili innesca un meccanismo autoindotto di piccole/grandi sfide, con il valore aggiunto di spostare sempre più in là l’asticella dei traguardi personali. Forza e coraggio! La vittoria è assicurata se a tutto questo faranno da cornice impegno e costanza: un mix d’ “ingredienti” per stimolare l’autostima;
- Gestione degli stati emotivi. Se si eccettuano i casi in cui gli sport si tramutano in vere e proprie ossessioni, la regolarità degli esercizi fisici imprime all’organismo e anche alla mente, dei ritmi salutari che, quantomeno nel lungo periodo, possono tradursi anche in riduzioni considerevoli del carico di stress con un controllo migliore degli stati emotivi;
- Una routine salutare: allenamenti, partite e gare sono appuntamenti che, volenti o nolenti, entrano a gamba tesa nella scaletta della giornata quando ci si iscrive a certi tipi di pratiche sportive. Tenere testa a questa routine ha il vantaggio di creare punti di riferimento certi nella vita di ogni giorno.
Terapie specifiche di sostegno. Se invece gli stati di blocco dovessero essere d’impatto debilitante al punto che la persona che ne è affetta rifiuti categoricamente i contatti col mondo, chiudendosi in casa in uno stato di quasi perenne isolamento, sarà sicuramente di aiuto rivolgersi ad un approccio terapeutico più mirato coinvolgendo competenze di tipo psicologico se non psichiatrico.
E quindi ben vengano incontri di psicoterapia ad approccio comportamentale, cicli di psicodramma, fino a vere e proprie sedute psicoanalitiche anche se è bene sin da ora ricordare che queste ultime non si adattano a tutti. Comunque, qualunque sia il sostegno prescelto, ogni cammino intrapreso in questa direzione andrà inteso come un’esperienza di crescita personale e di chi ci vive accanto.
Generazione N.E.E.T. Qual è lo scenario che potrebbe profilarsi laddove i “Peter Pan” dei giorni nostri dovessero affacciarsi al pianeta lavoro? Considerando l’attuale giungla del mondo del lavoro, fatta più di pseudo tirocini, contratti a chiamata, e formule ibride che prestano il fianco all’illegalità, non si prospettano di certo tempi facili. Ma qualche cosa si sta muovendo anche dal punto di vista legislativo, anche se in questo campo non si parla più di generazione “Peter Pan” bensì di generazione “N.E.E.T.”.
Cosa s’intende con questo acronimo? Per rispondere si deve masticare un po’ d’inglese; infatti N.E.E.T sta per “Not Engaged in Education/Employment or Training”, che significa “non inserito in un percorso di studi, lavoro o formazione”.
A tale riguardo si segnala come anche per l’anno 2019 sia stato prorogato con un nuovo decreto Anpal [Decreto n. 581 del 28 dicembre 2018]: il bonus assunzioni giovani “neet”.
www.lavorosi.it/fileadmin/user_upload/PRASSI_2018/anpal-decreto-n-581-del-28-12-2018.pdf
Tale bonus, in sostanza, si traduce in un incentivo all’assunzione calibrato su misura per i giovani che non studiano e non lavorano, di età compresa tra i 16 e i 29 anni, a condizione che siano registrati all’apposito programma dedicato ai Neet.
Maria Teresa Biscarini La Legge per tutti 25 gennaio 2019
www.laleggepertutti.it/270401_come-aiutare-un-figlio-adulto-insicuro
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UNIONI CIVILI
Scioglimento delle unioni civili: la (prima) pronuncia del Tribunale di Novara
Tribunale di Novara, Sezione civile, decisione 5 luglio 2018
www.altalex.com/documents/biblioteca/2019/01/21/scioglimento-unioni-civili-la-pronuncia-del-tribunale-di-novara#sentenza
Con articolata decisione, il Tribunale di Novara interpreta sistematicamente la legge n. 76, 20 maggio 2016 stabilisce che, ai fini della legittimità della dichiarazione giudiziale di scioglimento, la c.d. fase amministrativa della dichiarazione di scioglimento dell’unione civile non costituisce condizione di procedibilità della domanda. Inoltre, stabilisce le condizioni della garanzia di comunicazione al partner e del rispetto dello spatium deliberandi previsto dall’art. 1, comma 24 della legge n. 76 del 2016.
24. L’unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione.
www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2016-05-21&atto.codiceRedazionale=16G00082&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario
Con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144, relativo al Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’art. 1, comma 34, L. 20 maggio 2016, n. 76, è possibile celebrare le unioni civili.
www.gazzettaufficiale.it/atto/stampa/serie_generale/originario
Nello specifico, l’art. 1 del citato Decreto si afferma che al fine di costituire un’unione civile, ai sensi della L. 20 maggio 2016, n. 76, due persone maggiorenni dello stesso sesso fanno congiuntamente richiesta all’ufficiale dello stato civile del Comune di loro scelta.
Nella richiesta di costituzione dell’unione civile ciascuna parte deve dichiarare:
- Il nome e il cognome, la data e il luogo di nascita; la cittadinanza; il luogo di residenza;
- l’insussistenza delle cause impeditive alla costituzione dell’unione, cioè: la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso; l’interdizione di una delle parti per infermità di mente; se l’istanza d’interdizione è soltanto promossa, il pubblico ministero può chiedere che si sospenda la costituzione dell’unione civile; in tal caso il procedimento non può aver luogo finché la sentenza che ha pronunziato sull’istanza non sia passata in giudicato; la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all’art. 87, comma 1, c.c.; non possono altresì contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo art. 87 c.c.; la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte; se è stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso è sospesa sino a quando non è pronunziata sentenza di proscioglimento.
L’ufficiale dello stato civile, verificati i presupposti di cui al comma 1, redige immediatamente processo verbale della richiesta e lo sottoscrive unitamente alle parti, che invita, dandone conto nel verbale, a comparire di fronte a sé in una data, indicata dalle parti, per rendere congiuntamente la dichiarazione costitutiva dell’unione.
Qualora una delle parti, per infermità o altro comprovato impedimento, è nell’impossibilità di recarsi alla casa comunale, l’ufficiale si trasferisce nel luogo in cui si trova la parte impedita e riceve la richiesta di cui al presente articolo, ivi presentata congiuntamente da entrambe le parti.
Entro quindici giorni dalla presentazione della richiesta, l’ufficiale dello stato civile verifica l’esattezza delle dichiarazioni relative alla richiesta e può acquisire eventuali documenti che ritenga necessari per provare l’inesistenza delle cause impeditive summenzionate.
A tali fini l’ufficiale adotta ogni misura per il sollecito svolgimento dell’istruttoria e può chiedere la rettifica di dichiarazioni erronee o incomplete nonché l’esibizione di documenti. Ha osservato che la L. n. 76/2016 non prevede l’emanazione delle pubblicazioni per la celebrazione dell’unione civile.
Costituzione dell’unione e registrazione degli atti nell’archivio dello stato civile. Ai sensi del comma 1 dell’art. 3, del citato D.P.C.M. n. 144/2016, le parti della unione civile, nel giorno indicato nell’invito, rendono personalmente e congiuntamente, alla presenza di due testimoni, avanti all’ufficiale dello stato civile del Comune ove è stata presentata la richiesta, la dichiarazione di voler costituire un’unione civile. Autorevole dottrina ha osservato che la celebrazione unione civile ricalca il rito canonico, dove il celebrante riceve senza nulla affermare le dichiarazioni dei nubendi.
Nella dichiarazione le parti confermano l’assenza delle summenzionate cause impeditive. Ulteriormente, l’ufficiale, ricevuta la descritta dichiarazione fatta, dichiara che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. Altresì l’ufficiale di stato civile dichiara che le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato.
Espletato tale incombente, il celebrante redige apposito processo verbale, sottoscritto unitamente dalle parti e dai testimoni, cui allega il verbale della richiesta.
La registrazione degli atti dell’unione civile è eseguita mediante iscrizione nel registro provvisorio delle unioni civili. Gli atti iscritti sono inoltre oggetto di annotazione nell’atto di nascita di ciascuna delle parti. A tal fine, l’ufficiale che ha redatto il processo verbale di cui sopra lo trasmette immediatamente al Comune di nascita di ciascuna delle parti, conservandone l’originale nei propri archivi.
Nella dichiarazione le parti possono rendere la dichiarazione di scelta del regime patrimoniale ai sensi dell’art. 1, comma 13, della citata L. n. 76/2016.
Recentemente, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che la questione se un matrimonio contratto all’estero da persone dello stesso sesso possa o no essere trascritto nell’ordinamento italiano, è questione che, attenendo allo status delle persone, deve essere sottoposta all’esame del giudice ordinario. Invero, pur venendo in rilievo il provvedimento di annullamento adottato dal prefetto, che le ricorrenti assumono essere lesivo del proprio diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, l’effetto che esse effettivamente intendono conseguire altro non è che il riconoscimento nell’ordinamento nazionale del matrimonio contratto in altro Stato: riconoscimento che, ovviamente, postula la validità di un tale matrimonio Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza n. 16957, 27 giugno 2018
www.neldiritto.it/public/pdf/16957_06_2018_no-index.pdf
Qualora una delle parti, per infermità o per altro comprovato impedimento, è nell’impossibilità di recarsi alla casa comunale, l’ufficiale si trasferisce nel luogo in cui si trova la parte impedita e, ivi, alla presenza di due testimoni, riceve la dichiarazione costitutiva di cui al presente articolo.
Invece, nel caso di imminente pericolo di vita di una delle parti l’ufficiale dello stato civile riceve la dichiarazione costitutiva anche in assenza di richiesta, previo giuramento delle parti stesse sulla sussistenza dei presupposti per la costituzione dell’unione e sull’assenza di cause impeditive di cui all’art. 1, comma 4, dellacitata L. n. 76/2016.
Spetta all’ufficiale dello stato civile il rilascio del documento attestante la costituzione dell’unione, recante i dati anagrafici delle parti, l’indicazione del regime patrimoniale e della residenza, oltre ai dati anagrafici ed alla residenza dei testimoni ai sensi dell’art. 1, comma 9, L. n. 76/2016.
Per quel che concerne la definizione dell’unione civile nei documenti e atti in cui è prevista l’indicazione dello stato civile, per le parti dell’unione civile sono riportate, a richiesta degli interessati, le seguenti formule: “unito civilmente” o “unita civilmente”.
Scelta del cognome comune. Nella dichiarazione di cui all’art. 3, le parti possono indicare il cognome comune che hanno stabilito di assumere per l’intera durata dell’unione. La parte può dichiarare all’ufficiale di stato civile di voler anteporre o posporre il proprio cognome, se diverso, a quello comune.
A seguito di siffatta dichiarazione i competenti uffici procedono alla annotazione nell’atto di nascita e all’aggiornamento della scheda anagrafica.
Recentemente la dottrina, supportata dalla giurisprudenza di merito (Trib. Lecco, 2 aprile 2017), ha affermato che la norma contenuta nel Decreto attuativo n. 5 del 19 gennaio 2017 (articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2) sia incostituzionale. www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/01/27/17G00011/sg
Si ricorda che “con tale disposto il Governo aveva ordinato ai sindaci di cancellare “entro trenta giorni” il cognome anagrafico delle coppie gay e lesbiche che si erano unite civilmente tra l’entrata in vigore della Legge Cirinnà (5 giugno 2016) e l’entrata in vigore del decreto “attuativo” (gennaio 2017)” (M. Gattuso, Il brutto pasticcio sul cognome dell’unione civile, 2017, Articolo 29). La sospetta illegittimità costituzionale riguarda il fatto che il Governo delegato a dare attuazione alla Legge Cirinnà aveva, a nostro avviso, sostanzialmente derogato ad un principio espresso dalla stessa legge, senza tuttavia averne il potere: dunque un eccesso di delega (M. Gattuso, op. cit.).
Scioglimento dell’unione civile per accordo delle parti. Nel caso in cui le parti concordino nello scioglimento dell’unione civile, l’accordo delle parti concluso, ai sensi dell’art. 12, D.L. 12 settembre 2014, n. 132, www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/09/12/14G00147/sg
convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, è ricevuto dall’ufficiale di stato civile del Comune di residenza di una delle parti o del Comune presso cui è iscritta o trascritta la dichiarazione costitutiva dell’unione. www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/11/10/14G00175/sg%20
L’accordo è iscritto nel registro provvisorio delle unioni civili ed è annotato negli atti di nascita di ciascuna delle parti, a cura dei competenti uffici.
Tale accordo, raggiunto a seguito della convenzione di negoziazione assistita, conclusa ai sensi dell’art. 6, del citato D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla citata L. 10 novembre 2014, n. 162, deve essere trascritto nel registro provvisorio delle unioni civili ed annotato negli atti di nascita di ciascuna delle parti, a cura dei competenti uffici.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta in materia di scioglimento dell’unione civile registrata, affermando che la competenza del notaio in detta materia, che riposa esclusivamente sulla volontà delle parti e lascia impregiudicate le prerogative del giudice in assenza di accordo tra di esse, non comporta alcuna partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri (Corte Giustizia Unione Europea Sez. I, 1° febbraio 2017, n. 392/15).
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv:OJ.C_.2017.104.01.0016.02.ITA&toc=OJ:C:2017:104:TOC
Il termine di tre mesi che deve intercorrere tra la manifestazione di volontà dinanzi all’ufficiale di stato civile e la proposizione della domanda giudiziale è in ultima analisi lo spatium deliberandi che la legge impone ai partner di un’unione civile che decidono di sciogliere il proprio vincolo, in assenza di una delle cause previste dalla legge. Nessuna influenza sulla possibilità di ottenere la sentenza di scioglimento viene attribuita alla circostanza che la domanda giudiziale di scioglimento venga presentata da una soltanto delle parti o da entrambe congiuntamente: nell’uno e nell’altro caso la domanda deve infatti essere accolta dal giudice per il solo fatto di essere stata presentata ad oltre tre mesi di distanza dall’avvenuta manifestazione di volontà di scioglimento davanti all’ufficiale dello stato civile, senza che si rendano necessari ulteriori accertamenti (Trib. Novara, 5 luglio 2018).
Elena Falletti, ricercatore confermato di diritto privato comparato
Articolo, tratto In Pratica Famiglia, Altalex 21 gennaio 2019
www.altalex.com/documents/biblioteca/2019/01/21/scioglimento-unioni-civili-la-pronuncia-del-tribunale-di-novara
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
Prospettive future
Intervento del dr Francesco Lanatà, presidente dell’UCIPEM
XVIII Convegno Nazionale “Il futuro nelle nostre radici”
Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione cristiana
Vorrei dare inizio a questa mia relazione ringraziando Don Edoardo Algeri per avermi invitato a questo importantissimo convegno e complimentarmi con lui e con tutto il Direttivo per l’impostazione data.
Oggi in molti contesti con facilità si parla del presente e si fanno programmi per il futuro senza conoscere le proprie radici o, addirittura, disconoscendole con il rischio di formulare programmi che negano la propria identità.
Proprio per questo voglio dire qualcosa sulla persona che ha dato origine ai consultori in Italia: Don Paolo Liggeri, un siciliano “trapiantato” a Milano e lì ordinato sacerdote. Egli aveva organizzato un luogo di accoglienza e di rifugio per chi, durante la- II guerra mondiale, aveva perso casa e lavoro. Alle prime attività di tipo assistenziale aggiunse l’ospitalità per i perseguitati razziali e politici. Per tali motivi il 24 marzo del 1944 venne arrestato e per lui cominciò il calvario dei campi di concentramento, ultimo dei quali Dachau. Liberato dalle truppe americane il 29 aprile 1945, Don Paolo tornò in Italia e riprese la sua opera all’Istituto “La Casa”.
Era il tempo della ricostruzione. Le devastazioni avevano colpito non solo i luoghi ma anche e soprattutto gli affetti e le relazioni familiari e Don Paolo sentì subito l’esigenza di impegnarsi proprio per le famiglie in difficoltà. Cosi fondò quello che in Italia fu il primo Consultorio Familiare. Se la violenza della guerra aveva devastato gli affetti e le relazioni umane, i tempi successivi non sono certo stati propizi alla famiglia e alle persone. Negli anni successivi alla guerra si è verificato un innegabile e netto progresso sociale dal punto di vista della scolarità, della ripresa economica e, favorita dai risultati della ricerca scientifica, dell’assistenza sanitaria. Tuttavia il progresso e il benessere non hanno apportato grandi vantaggi alle relazioni familiari e alla famiglia come istituzione che anzi, dagli anni ’60 in poi, è stata sempre più sottoposta ad attacchi svalorizzanti, di natura diversa da quelli bellici ma non meno pericolosi, non meno devastanti. Oggi la famiglia viene vista da alcune correnti di pensiero come il luogo dove i vincoli di amore, anziché premessa per la piena realizzazione personale nel rispetto e responsabilità reciproci, vengono vissuti come costrittivi e limitanti della libertà personale. Viviamo in un clima di malessere, di precarietà e di violenza nelle relazioni, viviamo in un clima di “scontento relazionale”.
La famiglia ha assunto connotazioni molto variegate, per cui al modello nucleare tradizionale si è aggiunto un arcobaleno di tipologie familiari. I ruoli genitoriali sono in continuo mutamento. Tutti noi siamo protagonisti di un cambiamento antropologico sempre più turbinoso che vede mutare ad una velocità impressionante il nostro modo di costruire l’identità, di vivere la corporeità e di stare in relazione.
È per questi motivi che, sul1’esempio di quel primo profetico consultorio nato nel ’48, negli anni successivi ne sono nati molti altri. Il loro scopo da allora è sempre stato quello di offrire un servizio professionalmente qualificato alle persone in difficoltà sia sul piano personale che delle relazioni di coppia, familiari e sociali; un servizio di promozione, di consulenza e di aiuto, sotto l’aspetto dell’informazione, della prevenzione e del sostegno, nel pieno rispetto della persona e senza preclusioni o distinzioni di sorta, così come riportato dalla carta dell’UCIPEM.
L’organo pulsante di ogni consultorio è l’équipe interdisciplinare, un team di operatori professionalmente qualificati che lavorano in piena armonia e per amore. L’équipe fa del consultorio familiare una struttura di secondo livello, il quale viene raggiunto grazie a tre elementi che caratterizzano il lavoro degli operatori del consultorio familiare: l’approccio interdisciplinare, la professionalità intesa come la qualità di chi svolge il proprio lavoro con competenza, scrupolosità, adeguata preparazione e l’amore cristiano che genera quell’approccio umano fatto di ascolto, dialogo autentico, presenza e tenerezza.
Quello che però distingue gli operatori dei consultori UCIPEM e CFC da qualsiasi altro consultorio e da qualsiasi altro studio associato è la capacità acquisita dai consulenti di lavorare in una équipe interdisciplinare; non tutti i professionisti hanno questa capacità che, per essere raggiunta, ha bisogno di esercizio e motivazione; l’interdisciplinarità consente un salto di qualità non raggiungibile con altre modalità di lavoro. I cambiamenti sociali purtroppo non si limitano a coinvolgere le persone che al consultorio si rivolgono e le loro famiglie; la cultura dell’individualismo, per sua natura contraria all’interdisciplinarità, può coinvolgere gli stessi operatori sia come persone, sia come consulenti. Si intuisce allora come il lavoro di un operatore che presta la sua opera in un consultorio familiare di ispirazione cristiana richiede qualità che vanno nutrite continuamente.
All’aggiornamento professionale è necessario affiancare l’esercizio dell’amore e del dono sia nei confronti dell’utente che a lui si presenta, sia nei confronti degli altri consulenti che insieme a lui compongono l’équipe. La difficoltà a interiorizzare queste peculiarità insieme a tutte quelle difficoltà che oggi minano tutto il mondo del volontariato, come la mancanza di tempo e di sostegno, possono fiaccare la volontà anche dei più motivati. Ecco allora la necessità di avere consultori organizzati al meglio che siano in grado di supportare i consulenti anche nella formazione e nell’aggiornamento professionale. Perché ciò avvenga è necessario che i consultori siano a loro volta adeguatamente supportati e abbiano adeguate disponibilità economiche.
Dobbiamo allora interrogarci sull’attuale stato di salute dei nostri consultori sia dal punto di vista economico, sia e principalmente, dal punto di vista del clima interno. Dobbiamo avere idee ben chiare sulle nostre forze e sulle nostre potenzialità, sui nostri bisogni, sulle nostre fragilità, sulle nostre difficoltà. Dobbiamo interrogarci se lo spirito di donazione che ha animato i primi consulenti ci sia sempre, se si stia affievolendo o se addirittura stia cedendo il passo a uno spirito di mera mercificazione. La cultura dell’individualismo non si limita a contaminare i singoli operatori ma può arrivare a coinvolgere anche i singoli consultori che, oberati dalle proprie difficoltà e magari per una errata forma di orgoglio, non tengono conto del fatto che accanto c’è qualcuno o qualche altra associazione con cui si può collaborare.
Il futuro dei consultori sta nella collaborazione, nel sostegno reciproco che coinvolga anche tutte le altre associazioni che di famiglia si occupano. Il futuro sta nella capacità di tessitura di quella rete relazionale che le nostre due associazioni hanno nel patrimonio genetico. Sta all’UCIPEM e alla CFC tessere la rete. Tuttavia non è sufficiente tessere; è indispensabile che questa tessitura sia poi potenziata e questo potenziamento può avvenire solo con la partecipazione attiva del Forum delle Associazioni Familiari.
Se questo avverrà, anche alla luce delle possibilità che potrebbero essere offerte dalla legge di riforma del terzo settore, saremo sicuramente in grado di affrontare con maggiore serenità le maggiori possibilità di successo le sfide future. Tutto questo non in uno spirito di autoreferenzialità ma soltanto per il bene della famiglia.
Roma 14 aprile 2018
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