NewsUCIPEM n. 730 – 2 dicembre 2018

NewsUCIPEM n. 730 – 2 dicembre 2018
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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02 ABUSI Serve alleanza laici-religiosi per affrontare lo scandalo degli abusi.
03 ADOTTABILITÀ Anche l’ex compagno può diventare papà adottivo.
04 ADOZIONE INTERNAZIONALE Italia, primi sei mesi 2018: continua il crollo demografico.
04 AFFIDO CONDIVISO Separazione, casa coniugale al figlio, tempi simmetrici ai genitori.
06 AMORE Strategie per superare la fine di un amore senza traumi profondi.
07 CASA FAMILIARE Assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli
07 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – N. 39, 28 novembre 2018.
09 CHIESA CATTOLICA Buon 95mo compleanno, carissimo don Luigi!
09 Mons. Bettazzi: lettera aperta al Presidente del Consiglio.
10 COGNOME Figli: si può dare il doppio cognome?
11 Doppio cognome al figlio: come fare?
12 CONFERENZA EPISCOPALE ITAL. Messaggio per la Giornata per la vita 2019.
13 COPPIE Le coppie interconfessionali e la possibilità dell’intercomunione.
16 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA Le delibere del Consiglio Direttivo dell’Aiccef.
16 CONSULENZA COPPIA E FAMIGLIA Stile di vita. Paure dell’innamorato.
18 CONSULTORI ISPIRAZ. CRISTIANA Il lutto e gli adolescenti: il legame è per sempre.
16 DALLA NAVATA 1° Domenica Avvento – Anno C – 2 dicembre 2018.
20 Nonostante tutto, la storia è un itinerario di salvezza (Ronchi).
20 DEMOGRAFIA Natalità e fecondità della popolazione residente.
21 Conferenza stampa di presentazione dei risultati indagine.
21 Nascite in picchiata. Italia, paese senza futuro.
22 L’Istat ci spiega perché gli italiani non fanno più figli.
22 DIVORZIO Tempi del divorzio dopo separazione giudiziale.
26 FIGLIO NATURALE Avere un figlio senza essere sposati: diritti e doveri
30 MEDIAZIONE FAMILIARE La violenza psicologica nelle relazioni di coppia e la sua utilità.
32 MIGRANTI Sicurezza, la legge non è uguale per tutti.
33 Decreto sicurezza ricorsi impossibili a rischio i diritti.
33 Antidoto all’illegalità. Migranti: seria proposta dell’ANCI.
34 NEUROSCIENZA Come il cervello ci protegge dalle malattie.
37 PARLAMENTO Senato della Repubblica-Commissione Giustizia-Affido dei minori.
37 PENSIONE DI RIVERSIBILITÀ In favore del coniuge con nullità di matrimonio.
37 RICONOSCIMENTO Impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità
38 SEPARAZIONE L’ex ha diritto d’accesso ai documenti del coniuge.
395 VIOLENZA Violenza domestica del marito sulla moglie.
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ABUSI
Gambino: serve alleanza laici-religiosi per affrontare lo scandalo degli abusi
Intervista a Gabriella Gambino, sottosegretario del Dicastero Laici Famiglia Vita, sull’incontro di febbraio 2019 in Vaticano sulla tutela dei minori.
“E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio”. E’ quanto sottolinea Papa Francesco nella Lettera al Popolo di Dio, sullo scandalo degli abusi, pubblicata lo scorso 20 agosto 2018. E’ in questo spirito che si inserisce il coinvolgimento nel Comitato organizzativo per la conferenza in Vaticano sulla tutela dei minori del prossimo febbraio di Gabriella Gambino e Linda Ghisoni, sottosegretari del dicastero Laici, Famiglia, Vita. Proprio a Gabriella Gambino, Sottosegretario per la Sezione Vita, Vatican News ha chiesto di parlare di questo impegno e di come i laici possono contribuire ad affrontare la crisi degli abusi.
Con quale spirito ha accolto questo impegno per un avvenimento così importante e atteso?
R.- Con un profondo spirito di servizio alla Chiesa, ma anche di amore alla verità, alla giustizia e al bene. Si tratta di valori e di principi che in questa vicenda degli abusi vanno ristabiliti, sia a livello individuale – in relazione ai singoli casi – sia a livello di sistema, in ogni Paese del mondo, anche laddove ancora si sottovaluta il problema e la necessità di prevenirlo. Non nascondo che ho accolto questo impegno anche con un po’ di timore, data la delicatezza e la gravità della materia. Come donna, laica e madre non posso non percepire la corresponsabilità a cui tutti siamo chiamati e dell’orrore di quanto è emerso nei confronti di coloro che potrebbero essere i nostri figli. Dobbiamo tutti collaborare per creare dentro e fuori la Chiesa le condizioni per cambiare radicalmente la mentalità, i costumi e la cultura, che hanno permesso che tutto ciò si verificasse.
Il Papa, nella lettera al Popolo di Dio sullo scandalo degli abusi, ha chiesto ai laici di aiutare i vescovi, la Chiesa. Quale può essere il contributo specifico dei laici in questo cammino che si rafforza con l’incontro di febbraio?
R. – Aiutare i vescovi a comprendere che la mentalità che ha favorito questi abusi non è qualcosa di teorico e astratto, ma si manifesta in atteggiamenti e abitudini concrete, ben identificabili nella loro capacità di nuocere e strumentalizzare chi è più piccolo o fragile. Bisogna aiutare i vescovi a comprendere che è giunto il tempo di farsi affiancare dai laici, creando strutture di vigilanza nelle quali possiamo avere un ruolo significativo e spazi di ascolto. Penso anche alla possibilità di studiare modalità di intervento attivo che coinvolgano i laici, per poter cogliere situazioni di pericolo, che richiedono un immediato ed adeguato intervento. Si tratta anche di capire che, a seconda dei Paesi, gli abusi possono manifestarsi in maniera diversificata verso le donne, i bambini e gli adulti più fragili. Servono laici competenti e formati, che possano portare il proprio contributo esperienziale anche come genitori ed educatori, che ogni giorno hanno a che fare con le fragilità umane.
Come tradurre questo impegno in azioni concrete?
R.- Per tradurre in azioni gli intenti di corresponsabilità e trasparenza è necessario che siamo coinvolti tutti, religiosi e laici. Solo così la Chiesa potrà essere efficace e avvalersi di tutte le risorse che ha a disposizione, soprattutto per prevenire da ora in poi queste gravi forme di violenza. Come laici dobbiamo anche creare relazioni di alleanza tra i vari ambiti educativi dove crescono i nostri figli: scuola, parrocchia e famiglie. Questa alleanza oggi per molti versi non c’è più, è fittizia e come genitori ci sentiamo spesso impotenti. Dobbiamo ricostruirla collaborando ai fini di una autentica prevenzione nelle parrocchie, nelle scuole, nei movimenti e nelle associazioni laicali. Al contrario di Caino, come ci ricorda il Santo Padre nella Lettera al Popolo di Dio, dobbiamo farci custodi gli uni degli altri per proteggere i nostri bambini, senza timore e con senso di responsabilità.
Lo scandalo degli abusi sta mettendo a dura prova la credibilità della Chiesa. Da dove bisognerebbe partire, secondo lei, per recuperare la fiducia di tanta gente che si sente tradita?
R.- Come dicevo, penso che la Chiesa debba dotarsi di strumenti concreti per reprimere e punire gli abusi, ma anche per prevenire questi crimini. E per prevenire bisogna da un lato definire in maniera chiara l’impianto giuridico, e dall’altro decidersi a creare le condizioni pratiche per cambiare il sistema, la cultura e i costumi. Uno dei presupposti è attuare una riforma nella formazione dei religiosi e dei seminaristi. Penso per esempio che nella formazione delle persone alla castità e al celibato bisogna avere una maggiore attenzione al tema di un equilibrato rapporto con la propria sessualità e affettività. Il problema vero, infatti, è come pensiamo e comprendiamo la nostra sessualità.
Sono importanti anche le testimonianze di bene nella Chiesa.
R.- Sì. La fiducia dei laici si recupera anche ricordando e testimoniando il bene che c’è nella Chiesa. Il bene esiste e lo spirito d’amore del Signore tiene Cristo ben saldo alla Sua Sposa, anche quando il peccato originale si manifesta nel peggiore dei crimini. E’ pur vero, però, che nel generale clima di sospetto che si sta diffondendo, nella Chiesa servono voci e testimonianze di autentico amore a Cristo. E’ Lui il centro, la Luce, la presenza concreta che i Pastori devono annunciare con la loro vita e con la loro vocazione sacerdotale. Oggi più che mai. Come laici, abbiamo bisogno di questa testimonianza per ricominciare ad affidare i nostri figli alle parrocchie, agli oratori, alle scuole cattoliche dove poterli formare ai valori cristiani. La Chiesa ha bisogno di pastori coraggiosi nella verità e nell’Amore a Cristo. E’ questo il modello di uomo, di padre e di educatore che cerchiamo per i nostri figli.
Come madre, prima ancora che come responsabile in un Dicastero vaticano, quale speranza ha per questa conferenza di febbraio?
R.- Mi auguro di veder emergere un atteggiamento di intelligente e fattiva volontà di comprensione del problema, di conversione interiore, di apertura alla verità e al bene. Non bisogna avere paura della verità. Spero che l’incontro sia un mezzo per far conoscere in maniera diffusiva gli strumenti immediatamente operativi dal punto di vista giuridico per prevenire e reprimere tali abusi. E’ tempo di agire in modo che la Chiesa dell’amore sia anche l’ambito nel quale giustizia e verità si possano incontrare. La Chiesa, “come una madre amorevole”, ha il mandato divino di prendersi cura di tutti i suoi figli. Creare le condizioni e le strutture per rendere immediato e possibile l’intervento a tutela di una vittima non è solo un atto di giustizia, ma di carità, anche nei confronti dei responsabili. Solo così la Chiesa, su questo punto, potrà tornare ad essere credibile.
Alessandro Gisotti – Città del Vaticano 30 novembre 2018
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2018-11/gambino-serve-alleanza-laici-religiosi-per-affrontare-abusi.html
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ADOTTABILITÀ
Anche l’ex compagno può diventare papà adottivo: la decisione del Tribunale di Brescia
I giudici hanno disposto l’adozione di due gemelli da parte del precedente convivente della madre, chiarendo che genitore non è soltanto chi concepisce il figlio ma chi si comporta effettivamente come tale. Una mamma, successivamente alla conclusione di una convivenza da cui era nata una figlia, ha avuto da un’altra relazione due gemelli, non riconosciuti dal loro papà biologico. I due bambini, oggi tredicenni, sin dalla nascita hanno passato parte del loro tempo con il padre della sorella, che si è comportato per tanti anni come il loro papà, pur non essendolo biologicamente.
Nel 2017 il papà “sociale” – l’uomo che ha contribuito alla crescita dei due, senza avere con loro alcun legame biologico – con l’accordo della mamma e l’approvazione della figlia maggiore ha chiesto al Tribunale per i minorenni di Brescia di poter adottare i due gemelli, proprio in ragione del rapporto che si era creato con loro e tra loro e i suoi parenti, così da tutelare, anche giuridicamente, quella particolare “famiglia allargata”.
Dopo aver fatto tutti gli approfondimenti previsti – ascolto dei gemelli e della sorella maggiore, indagini tramite i Servizi Sociali, ascolto della mamma – i Giudici bresciani hanno disposto l’adozione dei due gemelli da parte del papà “sociale”, da oggi genitore a tutti gli effetti dei due pur senza averli concepiti.
Il Tribunale ha utilizzato l’istituto che prende il nome di “adozione in casi particolari” (previsto dalla Legge 184/1983) utilizzato anche per le coppie arcobaleno e che i media chiamano, erroneamente, “stepchild adoption” (che in realtà ha tutt’altri presupposti).
I giudici hanno infatti chiarito che nel nostro ordinamento ormai non esiste un modello unico di famiglia, ma tanti modi di “essere famiglia”, e hanno ribadito che il genitore non è per forza chi ha generato il figlio, ma colui che effettivamente si comporta come tale, se ne prende cura, ed è legato a lui da una relazione affettiva consolidata; solo facendo il concreto interesse del singolo minore coinvolto, infatti, è possibile interpretare le leggi esistenti in modo conforme alla nostra Costituzione e alle numerose convenzioni internazionali.
L’interesse del minore non è un concetto astratto – connesso al solo dato biologico – né si realizza solo compulsando i certificati anagrafici. Ciò conta è la relazione, l’affetto, la situazione di ogni bambino o adolescente. A Brescia, dunque, questa davvero particolare famiglia allargata ha trovato il suo riconoscimento. Parafrasando Forrest Gump: “genitore lo è chi il genitore lo fa”.
Alessandro Simeone, Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista
La Repubblica on line, 28 novembre 2018
www.repubblica.it/economia/diritti-e-consumi/famiglia/2018/11/28/news/anche_l_ex_compagno_puo_diventare_papa_adottivo_la_decisione_del_tribunale_di_brescia-212658573/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P22-S4.2-T1
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ADOZIONE INTERNAZIONALE
Italia, primi sei mesi 2018: continua il crollo demografico
Ogni anno “scompaiono” 180mila italiani: cosa potrebbe fare l’adozione internazionale
Prosegue inarrestabile il crollo demografico in Italia. I dati di metà 2018 indicano che la tendenza al declino prosegue. Non solo in Italia, ma in tutta Europa: se dal 2008 in poi il calo della natalità ha investito in pieno il Sud e l’Est europei, i Paesi germanofoni (Germania e Austria), hanno mostrato dati diversi probabilmente solo grazie all’immigrazione.
Tornando al nostro Paese, nel 2017 erano nati 458mila bambini, nei primi sei mesi di quest’anno ne sono arrivati poco meno i 212 mila. Il calo percentuale è del 3,8%. Un tracollo. Se questa tendenza trovasse conferma nei dati sull’intero anno si arriverebbe a fine dicembre a circa 441 mila nascite, dunque 17 mila in meno rispetto allo scorso anno.
Non solo. Il dato rappresenterebbe il minimo dall’Unità d’Italia, ovvero dal 1861. Il record di nascite nel nostro Paese si aggira su un milione di nuovi nati all’anno (raggiunto a metà degli anni Sessanta).
La discesa sotto il tetto dei 500mila nati si è raggiunta per la prima volta nel 2015. Ora si preparerebbe dunque a sfondare con decisione una nuova soglia, quella delle 450 mila unità. Ogni anno, come sottolineato anche dal presidente del Forum delle associazioni familiari, Gigi De Palo, è come se una bomba uccidesse in un sol colpo 180mila italiani, “le dimensioni di una città come Modena, Reggio Calabria o Reggio Emilia”.
“Nel mondo – commenta il presidente di Ai.Bi., Marco Griffini – ci sono milioni di minori abbandonati, specialmente nel continente africano, che non vedono l’ora di diventare figli. E l’adozione internazionale potrebbe contribuire a risolvere non solo la speranza di chi attende una famiglia o chi spera di diventare genitore, ricordiamo che in Italia ci sono più di cinque milioni di coppie sposate senza figli, ma anche una parte del futuro del nostro paese. In Italia si può venire non solo sui barconi da clandestini, rischiando la vita, ma accolti e amati come figli! Occorre però la determinazione politica di iniziare a considerare l’adozione internazionale in maniera differente da ciò che è sempre stata sino ad ora. Non un fatto riservato esclusivamente a quella sola famiglia adottante, ma un’azione tremendamente sociale, che riguarda cioè tutta la nostra società “.
News Ai. Bi. 26 novembre 2018
www.aibi.it/ita/italia-primi-sei-mesi-2018-continua-il-crollo-demografico
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AFFIDO CONDIVISO
Separazione, casa coniugale al figlio, tempi simmetrici ai genitori.
Separazione, casa coniugale al figlio, tempi simmetrici ai genitori. Il tribunale di Matera anticipa il Ddl Pillon. La sentenza di separazione omologata dal Tribunale di Matera
Secondo questo provvedimento consensuale, la casa è stata assegnata al minore e non alla madre e al padre che vi si alterneranno. Per garantire la bigenitorialità, il figlio trascorrerà con i genitori tempi perfettamente paritetici. Nessun assegno di mantenimento di un coniuge a favore dell’altro per il mantenimento della prole.
Non un figlio-pacco-postale sballottato 15 giorni da un genitore e 15 dall’altro. Ma la casa coniugale a disposizione del minore, con i genitori che si trasferiscono là a turno. Spese, costi, obblighi e diritti divisi perfettamente a metà, senza discussioni, né liti. Con un innovativo provvedimento di omologa di separazione destinato a fare discutere, il Tribunale di Matera anticipa, per così dire, il – contestatissimo – Ddl Pillon. In un certo senso, viste le analogie tra i contenuti del disegno di legge in discussione al Senato, e gli accordi stipulati nella separazione omologata, la giurisprudenza in un certo senso precede il legislatore.
www.repubblica.it/economia/2018/08/24/news/ddl_pillon_una_assurda_proposta_maschilista_contro_tutto_e_tutti-204745344
L’omologazione, nell’ambito di un procedimento per separazione consensuale, è l’atto fondamentale. Significa, infatti, che le condizioni della separazione, concordate tra le parti con l’assistenza dei loro legali, sono state ritenute idonee a garantire l’interesse della prole minorenne. L’accordo raggiunto dalle parti nel caso della sentenza omologata dal tribunale lucano realizza una bigenitorialità perfetta, pienamente aderente ai principi sottesi al regime di affidamento condiviso.
Ecco perché – spiega l’avvocato Luciano Vinci – il provvedimento “è straordinario”. “Dopo la separazione – sottolinea il legale – il minore rimane a vivere prevalentemente presso uno dei genitori (il cosiddetto collocatario) mentre all’altro viene riconosciuto un calendario di frequentazione. Il genitore collocatario ha in genere il diritto di rimanere a vivere presso la casa coniugale, indipendentemente dal titolo di proprietà”. “Nel caso portato all’attenzione del Tribunale di Matera – afferma Vinci – la casa non è stata assegnata ai genitori. Si è previsto, infatti, che nell’immobile rimanga stabilmente il minore e che, di settimana in settimana, vi si alterneranno i genitori. Inoltre, nella specie, sempre per garantire la bigenitorialità del minore, si è stabilito che lo stesso trascorra con i figli tempi perfettamente paritetici. Pertanto, non vi sarà un genitore prevalente rispetto all’altro”.
La manifestazione contro il Ddl Pillon. In ragione dei tempi simmetrici di frequentazione e dei redditi equivalenti dei genitori, si è poi previsto che ciascuno di loro provveda, in forma diretta, al mantenimento del minore nei tempi di sua spettanza. Nessun assegno di mantenimento, dunque, di un genitore in favore dell’altro, che invece è la soluzione preferita dal Tribunale per il mantenimento della prole. “Come dire – commenta il legale – si è in qualche modo anticipato il Ddl Pillon”.
Separazioni e divorzi, un fatturato milionario. I divorzi in Italia sono passati da 52.355 nel 1995 a 82.469 nel 2015 e stanno quasi per raggiungere il numero delle separazioni (91.706), raddoppiate in circa 20 anni (erano 52.323 nel 1995). E questo a fronte di 194.377 matrimoni nel 2015, calati di quasi centomila in vent’anni (erano 290.009 nel 2015). Si può dire dunque che ogni due coppie che si sposano, ce n’è una che si separa.
Le separazioni consensuali (costo medio unitario di 1.500 euro per coniuge, quindi 3 mila per separazione) provocano un fatturato di quasi 140 milioni, quelle giudiziali (costo medio unitario 7 mila euro per coniuge, 14 mila per separazione) un fatturato di 630 milioni. In totale quasi 800 milioni di euro. Se si stima un volume d’affari analogo per i divorzi sia a doppia firma che giudiziali, si sfiorano i due miliardi di euro. Un valore comunque sottostimato perché non tiene conto dei costi degli altri attori delle cause di diritto familiare, come quello dei consulenti d’ufficio che redigono le Ctu, dei consulenti di fiducia che redigono le consulenze di parte.
Asimmetria nei Tribunali, Istat: “Legge 54/2006 non applicata”. A distanza di dieci anni dall’entrata in vigore della legge 54/2006 sull’affidamento condiviso – ad eccezione della drastica riduzione della proporzione di figli minori affidati in modo esclusivo alle madri – sottolinea l’Istat nel suo report 2016 dedicato a matrimoni separazioni divorzi – tutti gli altri indicatori non hanno subito modificazioni di rilievo.
“In altri termini – osserva l’Istat – per tutti gli aspetti in cui si lascia discrezionalità ai giudici, la legge non ha trovato effettiva applicazione”. Ci si attendeva infatti (prosegue il report Istat) una diminuzione delle quote di separazioni in cui la casa coniugale è assegnata alle mogli e invece si registra un lieve aumento dal 57,4% del 2005 al 60% del 2015. Questa proporzione nel 2015 raggiunge il 69% per le madri con almeno un figlio minorenne.
Per quanto riguarda le disposizioni economiche infine non vi è nessuna evidenza che i magistrati abbiano disposto il mantenimento diretto per capitoli di spesa, a scapito dell’assegno: la quota di separazioni con assegno di mantenimento corrisposto dal padre si mantiene nel decennio stabile (94% del totale delle separazioni con assegno).
Non è casuale, dunque, come denunciato da Maria Giovanna Ruo, presidente della Camera nazionale avvocati per la famiglia e i minorenni, che “dal 2010 ad oggi (15 maggio 2017) l’Italia è stata condannata per 24 volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per non aver dato, per mancanza di strumenti legislativi adeguati, effettiva esecuzione al diritto dei minori di crescere con entrambi i genitori, anche dopo la rottura del loro rapporto di coppia”.
Le proposte in Parlamento: dai patti prematrimoniali al Ddl Pillon. Il Parlamento da tempo sta tentando di dare una risposta agli eterni conflitti in materia di diritto di famiglia. Nel corso della precedente legislatura, la commissione Giustizia della Camera allora presieduta da Donatella Ferranti stava svolgendo una indagine conoscitiva nell’ambito dell’esame di una proposta di legge bipartisan (ma priva di un consenso unanime da parte di tutte le forze politiche) per l’introduzione dei patti prematrimoniali nel nostro codice.
Il nuovo governo ha lasciato cadere il lavoro impostato dalla precedente legislatura e ha voluto, con il Ddl Pillon, intraprendere un’altra, discussa, strada.
Alberto Custodero La Repubblica on line 29 novembre 2018
www.repubblica.it/politica/2018/11/29/news/dl_pillon_separazioni_divorzi_diritto_famiglia_tribunale_matera_avvocato_luciano_vinci-212951612/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P15-S1.6-T1
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AMORE
Otto strategie emotive per superare la fine di un amore senza traumi profondi
Un gruppo di scienziati americani ha dimostrato che accelerare il recupero per superare il mal d’amore è possibile, mettendo in atto azioni positive in grado di trasformare la rottura in un’occasione di crescita e riscatto. Quando il cuore è spezzato, una lunga storia d’amore è ormai alle spalle e non può essere recuperata, le giornate possono trasformarsi in un tunnel buio e senza via d’uscita. Fatto di tristezza, senso di sconfitta, depressione. A volte perfino di ansia, stanchezza, insonnia. In questi casi – dicono i proverbi – la cura migliore è il tempo, che permette di lenire la sofferenza e piano piano dimenticare. Ma oggi la scienza spiega che è possibile accelerare il recupero. Come? Mettendo in atto una serie di strategie cognitive. Si tratta di azioni positive in grado non solo di far sentire il proprio ex sempre più lontano, ma perfino di trasformare la rottura in un’occasione di gioia. Il merito di questa scoperta va a un gruppo di scienziati americani dell’università del Missouri. Analizzando la situazione di 24 persone, di età compresa fra 20 e 37 anni e reduci da una crisi di coppia, i ricercatori hanno messo a punto una sorta di manuale. Il campione non è forse rappresentativo, perché molto ristretto, ma le otto strategie per superare la rottura senza traumi profondi sono condivisibili da tutti.
Rivalutazione negativa. Quando un amore finisce la prima cosa da fare, secondo gli esperti, è prendere le distanza dai sentimenti cercando di pensare al proprio ex in modo razionale e oggettivo. Insomma, rivalutandolo anche in base agli aspetti negativi. Spesso quando si ama non si fa caso ai piccoli e grandi difetti del proprio partner. Invece i ricercatori mettono in evidenza come sia importante giudicare i comportamenti a 360 gradi. Questa strategia permette di diminuire progressivamente i sentimenti di amore, trasformando piano piano la persona perduta in un soggetto spiacevole.
Il secondo passo consiste nell’imparare ad accettare di poter provare dei sentimenti positivi per una persona che nella propria vita non esiste più. E tutto questo senza giudicarsi. E soprattutto senza sentirsi tristi o sconfitti. Per arrivare a questo risultato, durante lo studio il pool di scienziati ha fatto leggere e ripetere costantemente alle persone sotto esami frasi del tipo: “Va bene amare qualcuno che non c’è più”. Anche questo passaggio progressivamente diminuisce la riposta emotiva alla rottura e permette di affrontare possibili incontri fortuiti con il proprio ex in modo più sereno.
Distrazione. Fondamentale è anche la capacità di distrarsi. Quando una storia d’amore finisce si cade nella tentazione di crogiolarsi nel dolore, di pensare solo a questa situazione, di parlare solo di questo argomento. Secondo i ricercatori non c’è nulla di più sbagliato. Quando si è tristi bisogna reagire il più velocemente possibile e non concentrarsi sui sentimenti negativi. È possibile uscire con gli amici, dedicarsi a un hobby o buttarsi a capofitto nello sport. Questa strategia risulta quasi sempre risolutiva, almeno nel breve e medio periodo, perché aiuta a scoprirsi più felici.
Rispetto per il dolore. A dispetto di qualunque strategia, subito dopo una separazione il dolore può sembrare intollerabile. Si tratta di una fase normale, che bisogna non solo accettare ma anche attraversare. Nella consapevolezza che la fine di un amore può gettare nello sconforto e togliere lucidità. Essere consapevoli di questo, sapere che si sta vivendo un periodo difficile nel quale si rischia di prendere decisioni sbagliate, aiuta a difendersi, a sentirsi più forti e a evitare di peggiorare la situazione.
Distanze. Naturalmente per prendere le distanze e ridimensionare il ruolo del proprio ex occorre non vederlo più. Ecco perché i ricercatori raccomandano di interrompere il prima possibile qualunque rapporto, a meno che mantenere il legame non sia necessario per condividere la cura dei figli. Bisogna in ogni caso evitare di instaurare rapporti di amicizia, soprattutto all’inizio. La cosa migliore da fare è staccare in modo netto. Solo con il tempo – molto tempo – sarà possibile, eventualmente, riavvicinarsi e diventare veramente amici.
Volersi bene. A prima vista potrà sembrare banale, ma amare se stessi è sempre la cura più efficace. Se il mondo intorno a noi crolla, bisogna reagire mettendo al primo posto l’autostima. Questo vuol dire vestirsi sempre bene, curarsi, mangiare in modo sano, fare sport, coccolarsi attraverso le cose che si amano di più. Questa strategia non solo aumenta il benessere psico-fisico, ma genera sensazioni positive anche nelle altre persone, innescando così un circolo virtuoso.
Liberarsi. Prendere le distanze da un amore passato a volte può significare anche doversi liberare dagli oggetti superflui, specialmente se appartengono all’ex. In questa fase bisogna trovare il coraggio di buttare via tutto quello che non ci appartiene. Una strategia che aiuta non solo a dimenticare, ma anche a recuperare progressivamente i propri spazi. Solo così è davvero possibile ritrovarsi e concentrarsi su una nuova dimensione. In questa fase può essere molto utile anche uscire con gli amici più fidati. Una scelta che facilita il buon umore e rilassa.
Novità. Dopo una rottura può essere utile anche sperimentare, fare cose nuove, conoscere persone mai incontrate prima. Come? Magari facendo un viaggio, in modo da allontanarsi dai luoghi che custodiscono ricordi dolorosi. Prendere le distanze anche fisicamente può aiutare a vedere le cose da una prospettiva diversa e a ridimensionare il dolore. E chissà che durante questa avventura non sia possibile conoscere nuove persone. Magari più valide di quelle che sembrano perse per sempre.
Daniela Uva Repubblica Donna 27 novembre 2018
https://d.repubblica.it/life/2018/11/27/news/come_sopravvivere_alla_fine_di_un_amore_otto_strategie_emotive_per_superare_la_rottura_senza_traumi_profondi-4205362/?ref=RHPPBT-VD-I0-C4-P27-S1.4-T1
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CASA FAMILIARE
La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Ordinanza n. 25604, 12 ottobre 2018.
La casa familiare deve essere assegnata tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli minorenni e dei figli maggiorenni non autosufficienti a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti, per garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate, sicché è estranea a tale decisione ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, ove in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico, e ciò sia ai sensi del previgente articolo 155 quater c.c., che dell’attuale art. 337 sexies c.c. (massima ufficiale
Ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20864/divorzio
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA
Newsletter CISF – N. 39, 28 novembre 2018
Quando i telefonini migliorano la vita…e la pubblicità non lascia l’amaro in bocca! Questo breve e divertente filmato riguarda la campagna natalizia di una compagnia telefonica (non in Italia, quindi è molto basso il rischio di fare una pubblicità inappropriata…), ed è un bell’esempio di come le nuove tecnologie possano essere una grande risorsa per le relazioni familiari. Storia, musica e immagini convincono e coinvolgono emotivamente, e spiegano con grande efficacia quello che anche nel Rapporto Cisf 2017 è stato spiegato con argomentazioni, numeri, citazioni bibliografiche e statistiche. A conferma che è possibile imparare qualcosa di buono anche da dove meno te l’aspetti!
www.youtube.com/watch?v=Y-58Ju4311Y&feature=youtu.be
Bambini e tecnologie. Un punto di vista dagli Stati Uniti. “Dimenticate i ‘nativi digitali’. Ecco come usano davvero Internet i bambini”.
https://ideas.ted.com/opinion-forget-digital-natives-heres-how-kids-are-really-using-the-internet/?fbclid=IwAR1Ihr9WYuf2Xy85O_dn7y9mIKmbf8GmPccsc-fYhbDy3tuCZZtYdabUhEY
“Dai dati di un’indagine che ha intervistato più di 10.000 genitori nel Nord America risulta che i genitori gestiscono l’uso della tecnologia dei propri figli in modi molto eterogenei. Sono emerse tre tipologie, che vanno ben al di là della ristretta definizione di “nativi digitali”. a) orfani digitali: cresciuti con un ampio accesso alle tecnologie, ma con scarsissime indicazioni e orientamenti da parte dei genitori; b) esiliati digitali: sono cresciuti con un accesso estremamente limitato alle tecnologie, razionate al massimo da parte dei genitori; per molti di loro c’è il rischio di diventare estremamente fragili e compulsivi, una volta liberati dai limiti imposti dai genitori; c) eredi digitali; questa terza tipologia comprende ragazzi con notevoli capacità di uso delle tecnologie, ricevute proprio dai genitori e dagli insegnanti (in un setting educativo, quindi)”. Interessante confrontare questi dati con i risultati del Rapporto Cisf 2017, su “Le Relazioni familiari nell’era delle reti digitali”.
https://infogram.com/le-relazioni-familiari-nellera-delle-reti-digitali-1h0n25zp79rz2pe
Il massaggio ai bambini: un percorso di accompagnamento ai neo-genitori [www.aimionline.it]. L’Associazione Italiana Massaggio Infantile (AIMI) è il Chapter [ramo, sezione] italiano dell’International Association Infant Massage; dal 1989 si impegna a diffondere in Italia il massaggio infantile, attraverso la promozione di corsi rivolti ai genitori dei bambini da 0 a 12 mesi. Il massaggio del bambino è importante per uno sviluppo armonico, facilitato dal contatto e dalla relazione profonda con i propri genitori. AIMI garantisce a tutti i soci un’organizzazione di supporto e di aggiornamento nell’ambito di un percorso di Formazione Continua. Per chi sta su Facebook
www.facebook.com/AssociazioneItalianaMassaggioInfantile
Progetto Policoro – Caritas italiana – Ufficio nazionale di Pastorale sociale e del lavoro della Cei – MLAC (Movimento Lavoratori di Azione Cattolica) Progettazione sociale. XIII Concorso lavoro e pastorale 2019. www.youtube.com/watch?v=S47faiDTUVI&feature=youtu.be
Tredicesimo anno consecutivo per il Bando di Progettazione Sociale. Anche questa volta ci si potrà cimentare con una proposta, un progetto in grado di soddisfare i bisogni di un territorio, di una comunità, di una realtà sociale. Il concorso, bandito dal Movimento Lavoratori di Azione Cattolica (Mlac), in collaborazione con la Caritas italiana, il Progetto Policoro e l’Ufficio nazionale di Pastorale sociale e del lavoro della Cei, intende, come recita il Bando «Incentivare forme di collaborazione tra comunità civile ed ecclesiale, favorendo costruzioni di reti sul territorio; incentivare la diffusione della cultura della progettualità, anche sviluppando l’uso di sistemi di condivisione innovativi e di piattaforme digitali e promuovere una cultura dell’imprenditorialità a livello personale e sociale». http://concorsoidee.azionecattolica.it
Il Bando è aperto a tutti, associazioni, cooperative, parrocchie, enti diversi che, dopo aver analizzato i bisogni di un territorio, sono chiamati a progettarne il cambiamento attraverso la costituzione di una rete collaborativa tra gli attori del territorio stesso. Il Bando per 2019 con tutte le info per la partecipazione è disponibile all’indirizzo http://concorsoidee.azionecattolica.it/ I quattro vincitori della scorsa edizione (anno 2018) in questi mesi stanno realizzando le proposte progettuali in altrettante differenti realtà territoriali del Paese.
Dalla case editrici. Saverio Sgroi, Dare senso al cuore. L’educazione affettiva e sessuale degli adolescenti: una guida per i genitori, Youcanprint Editore, 2018, € 15,00, pp. 184. “L’educazione è un’arte e, come quest’ultima, è capace di trasformare la materia prima in un’opera di straordinaria bellezza, non esaurisce mai il mistero della realtà – e meno che mai il mistero dell’essere umano -, riempie il cuore di gioia, è faticosa ma non perde mai il suo fascino, suscita meraviglia e stupore, richiede umiltà. Ma soprattutto, come l’arte, l’educazione parla di bellezza. Educare l’affettività, in particolare, è quell’arte specialissima che vuole dare senso a ciò che accade nel cuore dei figli. Senso inteso come significato ma anche come direzione: educare l’affettività vuol dire aiutare i figli a riempire di significato ciò che provano nel cuore quando amano, anche attraverso la sessualità; ma significa anche aiutarli a orientare il cuore verso il bene e la felicità e a indicargli la giusta direzione. Educare l’affettività e la sessualità dei propri figli richiede quindi genitori che sappiano dedicare a questo lavoro le loro migliori energie. Questo libro si rivolge a loro, perché si convincano sempre di più che educare l’affettività significa trasmettere ai ragazzi l’idea che il sesso non è un giocattolo. E che buona parte della felicità di una persona dipende da come viene vissuta la sessualità nel rapporto con sé stessi e con gli altri”.
Save the date –
Nord: Io apro la mia porta. Fra noi in famiglia: storie di integrazione, evento promosso da Consorzio Farsi Prossimo e VITA in collaborazione con Fondazione AVSI, Caritas Ambrosiana, Comune di Milano, Famiglie per l’Accoglienza, Mondo di Comunità e Famiglia, Sprar, Milano, 1 dicembre 2018.
www.eventbrite.it/e/biglietti-io-apro-la-mia-porta-fra-noi-in-famiglia-storie-di-integrazione-52253297018
Nord: Amoris Lætitia e la consulenza familiare. L’etica della cura nelle relazioni familiari, primo seminario formativo per Consulenti Familiari, Assistenti Sociali, Insegnanti, Presbiteri, Operatori pastorali, Formatori e Genitori, promosso dall’Ufficio diocesano di pastorale familiare in collaborazione con AICCEF, Padova, 15 dicembre 2018.
Centro: I gruppi di parola per figli di genitori separati. Una risorsa per la cura dei legami familiari, evento promosso dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma, 3 dicembre 2018.
newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/attachments/newscisf3918_allegato3.pdf
Sud: Il trauma interpersonale infantile: gli interventi Cognitivi-Comportamentali, evento formativo promosso dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (SPC – Sede di Napoli), con crediti Ecm Per le professioni sanitarie, Napoli, 14 dicembre 2018.
http://mk0apcci38erk54xsatb.kinstacdn.com/wp-content/uploads/2018/08/brochure-trauma-infantile-WORKSHOP-1.pdf
Estero: The Future of Family Justice: International Innovations. AFCC 56th Annual Conference (Il futuro del diritto di famiglia. Innovazioni a livello internazionale. 56.a Conferenza Annuale dell’Association of Family and Conciliation Courts – gli operatori presenti nei tribunali per la famiglia negli Stati Uniti), primo annuncio, Toronto, 29 maggio – 1 giugno 2019.
www.afccnet.org/Portals/0/Toronto%20flyer_1.pdf
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CHIESA CATTOLICA
Buon 95mo compleanno, carissimo don Luigi!
Il Signore ti conceda di continuare ad essere per noi
– testimone autorevole del SACROSANCTUM CONCILIUM…
– maestro sorridente della DEI VERBUM…
– profeta coraggioso di una Chiesa che sia LUMEN GENTIUM…
– amico degli ultimi e grande uomo di Pace che sempre ci dona GAUDIUM ET SPES…
Con fraterna gratitudine… Buon 95mo compleanno, carissimo don Luigi!
PAXCHRISTI. 26 novembre 2018
www.paxchristi.it/?p=14825
Mons. Bettazzi: lettera aperta al Presidente del Consiglio
Lettera aperta all’Onorevole Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Scrivo questa lettera sul tema scottante degli immigrati (e la scrivo da un edificio diocesano che ne ospita). Lo faccio non come antica autorità religiosa al Presidente di un Governo “laico” (anche se un autorevole membro del Suo Governo ha sbandierato, sia pure in campagna elettorale, simboli apertamente religiosi, anzi cristiani, quindi compromettenti) soprattutto dopo i costanti, appassionati appelli di Papa Francesco e le autorevoli istanze dei responsabili della CEI.
Lo faccio come cittadino dell’Italia che, nella Costituzione, garantisce il diritto d’asilo a quanti, nel loro paese, sono impediti di esercitare le libertà democratiche; lo faccio come cittadino dell’Europa che, nella Carta dei diritti fondamentali, afferma: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Ci siamo resi conto che Lei, al recente vertice Ue, ha fatto sentire fortemente la voce dell’Italia; ma siamo stati delusi dalla sordità della maggioranza dei rappresentanti dell’Europa (me lo lasci notare, anche delle nazioni tradizionalmente più “cristiane”) e dell’incapacità dell’insieme di mantenere le tradizioni “umane” del nostro Continente e dell’ispirazione iniziale della sua unità. Mi lasci dire che siamo – parlo di tanti di cui ho colto il pensiero – altrettanto delusi che, nella difficoltà di ottenere consensi più ampi, l’Italia rimanga su posizioni di chiusura, forse (ma solo “forse” se guardiamo al nostro passato coloniale o ci proiettiamo sul nostro futuro demografico) comprensibili sul piano della contrattazione, non su quello del riferimento a vite umane. Siamo tanti a non volerci sentire responsabili di navi bloccate e di porti chiusi, mentre ci sentiamo corresponsabili di Governi che, dopo avere sfruttato quei Paesi e continuando a vendere loro armi, poi reagiscono se si fugge da quelle guerre e da quelle povertà; non vogliamo vedere questo Mediterraneo testimone e tomba di una sorta di genocidio, di cui diventiamo tutti in qualche modo responsabili.
Non ignoriamo che i problemi sono immensi, dai rapporti con Paesi che noi – Europa tutta – abbiamo contribuito a divenire ciò che essi spesso sono (costruttori di lager e tutori di brigantaggi), a quelli con i Paesi di partenza degli immigrati (con cui già i Governi precedenti avevano progettato iniziative, sempre fermate al livello di progetti).Vorremmo davvero che l’Italia, consapevole della sua tradizione di umanità (prima romana, poi cristiana) non accettasse di divenire corresponsabile di una tragedia, che la storia ha affidato al nostro tempo e da cui non possiamo evadere.
Al di là di un’incomprensibile indifferenza o di un discutibile privilegio (“prima gli italiani” – quali italiani? – o “prima l’umanità”?!), credo che, nell’interesse della pace, aspirazione di ogni persona e di ogni popolo, l’Italia possa e debba essere – per sé e per tutta l’Europa – pioniera di accoglienza, controllata sì, ma generosa.
Con ogni augurio e molta solidarietà.
+Luigi Bettazzi vescovo emerito di Ivrea Albiano d’Ivrea, 2 luglio 2018
www.paxchristi.it/?p=14290
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COGNOME
Figli: si può dare il doppio cognome?
La possibilità di dare il doppio cognome è stata di recente affermata dalla Corte costituzionale. Ecco cosa prevede e facoltà sono riconosciute ai genitori
Forse non tutti sanno che oggi i figli non ricevono per forza solo il cognome paterno: con la sentenza della Corte costituzionale numero 286/2016 si è infatti previsto che al cognome del padre si possa affiancare anche quello della madre, che quindi può oggi essere attribuito a tutti i bambini.
Le circolari ministeriali sul doppio cognome. La sentenza della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme del codice civile che non prevedevano questa opportunità, non è in realtà stata seguita da alcuna legge specifica sull’argomento.
A tale carenza ha però posto rimedio il Ministero dell’interno che, con la circolare numero 1/2017, ha sollecitato i sindaci a fornire le direttive necessarie ai loro uffici di stato civile con il fine di garantire l’applicazione dei principi di diritto affermati dalla Corte costituzionale, invitandoli ad accogliere le richieste dei genitori che intendono attribuire ai figli il doppio cognome.
Con la circolare numero 7/2017, il Ministero ha fornito ulteriori chiarimenti, specificando, tra le altre cose, che le novità ordinamentali che consentono anche l’attribuzione del cognome materno riguardano “unicamente la posposizione di questo al cognome paterno, e non l’anteposizione”.
Il doppio cognome può essere attribuito, naturalmente, anche ai figli di coppie non sposate e ai figli adottivi.
Il consenso del padre al doppio cognome. La questione, però, non è semplice come sembra e nel corso degli anni si sono posti alcuni interrogativi circa l’esatta portata della nuova possibilità.
Dato per assodato che il cognome paterno non può essere eliminato, ci si è chiesti, ad esempio, se la madre possa dare al figlio il proprio cognome, aggiungendolo a quello del padre, anche senza il consenso di quest’ultimo. A tale interrogativo, di recente, ha dato risposta il Tar del Lazio, con la sentenza numero 11410/2018. Il Tribunale Amministrativo ha in particolare affermato che la richiesta di modifica del cognome del figlio minore è un atto civile che i genitori possono presentare solo nell’esercizio della rappresentanza legale, con il consenso congiunto, salvo solo il caso in cui la madre o il padre sia stato privato della potestà genitoriale.
Se non vi è accordo sul doppio cognome, quindi, lo stesso non può essere attribuito dall’ufficio, ferma restando la possibilità per ciascuno dei genitori di ricorrere senza formalità al giudice civile.
Se, invece, l’accordo c’è, basta renderlo palese all’ufficiale di stato civile, che registrerà il nome del figlio con i due cognomi. Non sono necessari particolari documenti e la volontà può essere manifestata oralmente.
L’ordine dei cognomi. In ogni caso, anche in ipotesi di attribuzione del doppio cognome, come accennato sopra l’ordine non può essere invertito ma è prestabilito: il cognome della madre si aggiunge in coda a quello del padre. Se, ad esempio, il padre si chiama Mario Rossi e la madre Luisa Bianchi, il figlio, Antonio, si chiamerà necessariamente Antonio Rossi Bianchi e non potrà chiamarsi Antonio Bianchi Rossi.
Il cognome della madre. Si è detto sopra che il cognome del padre è comunque ineliminabile e che, quindi, l’unica scelta concessa ai neogenitori è quella di aggiungere il cognome materno a quello paterno.
Resta comunque ferma l’ipotesi in cui il bambino sia figlio di una coppia non sposata e il padre non lo riconosca. In tal caso, egli non potrà acquisire che il cognome della madre.
Corte costituzionale testo sentenza numero 286/2016
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32690_1.pdf
Ministero dell’interno testo circolare numero 1/2017
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32690_2.pdf
Tar del Lazio testo sentenza numero 11410/2018
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32690_3.pdf
Ministero dell’interno testo circolare numero 7/2017
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32690_4.pdf
Valeria Zeppilli StudioCataldi.it – 30 novembre 2018
www.studiocataldi.it/articoli/32690-figli-si-puo-dare-il-doppio-cognome.asp

Doppio cognome al figlio: come fare?
Sei diventata, da pochi giorni, mamma di uno splendido bambino. Con tuo marito avete deciso quale nome dargli. Ora non resta che il cognome.
«Il cognome»? Non dovrebbe essere già certo per legge e coincidere con quello del padre? Affatto. A seguito di una sentenza della Corte Costituzionale emessa nel 2016 [n. 286], è ora possibile dare ai propri figli il cosiddetto doppio cognome, ossia affiancare al cognome paterno quello materno. Dopo tale pronuncia, in assenza ancora di una normativa specifica, è intervenuto il Ministero degli Interni con una apposita circolare [n. 1 2017] a spiegare come fare per dare il doppio cognome al figlio.
In ultimo si è aggiunta una sentenza del Tar Lazio [11410\2018] che ha risposto a un altro interessante quesito: la madre può dare al figlio il proprio cognome se non c’è il consenso del padre? In altri termini, l’attribuzione del doppio cognome è un diritto per la mamma o solo una facoltà cui accedere unicamente con l’accordo dell’altro genitore? Ed, in ultimo, è possibile anteporre il cognome materno a quello paterno?
A tutte queste domande troverai qui di seguito una risposta. In attesa che il Parlamento vari un’apposita normativa, non ci resta che affidarci alle istruzioni ministeriali e a quelle fornite dai tribunali italiani.
Quadruplo cognome: cosa succede? Prima di spiegare come dare il doppio cognome al figlio ci piace aprire con una provocazione. Se è vero, come si vedrà a breve, che si può sempre decidere di dare al proprio bambino tanto il cognome del padre quanto quello della madre, per cui questi si firmerà con entrambi i cognomi, come ci si pone nell’ipotesi in cui anche quest’ultimo, una volta divenuto grande e avuto a sua volta un figlio, voglia fare lo stesso con la propria moglie? Suo figlio, ossia il nipote degli originari genitori, avrà tre cognomi? E se anche la madre porta, a sua volta due cognomi, il neonato porterà addirittura quattro cognomi? Se si applica il principio a valanga avremo delle situazioni davvero inconciliabili cui la legge dovrà porre una regolamentazione. Senza contare che le firme troppo estese potrebbero creare problemi ai sistemi informatici di registrazione (pubblici o privati) i quali, di solito, non consentono l’inserimento di nomi troppo lunghi e, dopo un certo numero di caratteri, impongono il blocco.
La sentenza della Corte Costituzionale sul doppio cognome. La possibilità di dare al proprio figlio il doppio cognome, ossia tanto quello del padre (come sempre stabilito dalla vigente normativa) quanto quello della madre non trova riconoscimento in una legge, ma in una sentenza della Corte Costituzionale [n. 286\2016]. In particolare, la Consulta ha prima detto che non esiste una disposizione di legge che imponga di dare al figlio il cognome del padre ma che ciò è desumibile da alcune norme del codice civile [Artt. 237, 262 e 299 codi. civ.] e da quelle relative all’Ordinamento dello Stato civile.
Dopodiché, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 262 primo comma, cod. civ. (Cognome del figlio nato fuori dal matrimonio) nella parte in cui non consente ai genitori naturali, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno, e dell’articolo 299, terzo comma cod. civ. (Cognome dell’adottato) nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di comune accordo, di trasmettere al figlio anche il cognome materno al momento dell’adozione.
Con tale pronuncia è stato definitivamente cancellato il divieto, implicito nelle nostre norme, della possibilità di attribuire, al momento della nascita, di comune accordo dei genitori, anche il cognome materno.
Per cui, in attuazione di tale sentenza, l’ufficiale dello stato civile dovrà accogliere la richiesta dei genitori che, di comune accordo, intendono attribuire il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita o al momento dell’adozione.
Doppio cognome al figlio: come fare? In verità, la procedura per dare al proprio figlio il doppio cognome è tutt’altro che complicata. La condizione essenziale è che vi sia il consenso di entrambi i genitori, consenso che dovrà essere appurato dall’ufficiale di Stato civile, in quanto pubblico ufficiale. Questo significa che, per dare al figlio il doppio cognome, è necessario che al Comune (o al relativo ufficio istituito presso l’Ospedale) si presentino sia il padre che la madre e che entrambi confermino l’intenzione di aggiungere, al cognome del padre, quello della madre.
Non sarà quindi possibile una richiesta della sola madre o del solo padre se non c’è anche l’altro genitore. L’accordo del doppio cognome non deve essere scritto, non va cioè regolamentato in un contratto o in un altro documento. Deve essere manifestato oralmente davanti all’ufficiale di Stato civile. Non è necessario presentare documenti particolari.
Una volta recepita la dichiarazione e attestata, il bambino avrà il doppio cognome: il cognome della madre viene affiancato a quello del padre (e, quindi, non si sostituisce). In altre parole: il figlio porterà i cognomi di entrambi i genitori, per esteso; per cui dovrà firmarsi con entrambi e in tutti i pubblici registri, negli atti anagrafici, di residenza ecc. risulterà con il cognome del padre e quello della madre.
Tanto vale sia per i figli delle coppie sposate o conviventi, nonché per i figli adottati. In che momento si può dare al figlio il doppio cognome? L’unico momento in cui si può scegliere di dare al figlio il doppio cognome è al momento della registrazione della nascita del figlio in Comune. È quindi impossibile optare per il doppio cognome in un secondo momento.
La madre ha diritto di imporre il suo cognome? La madre non può imporre al figlio il proprio cognome. Non ha quindi un vero e proprio diritto. Dovrà quindi chiedere il consenso al proprio coniuge o all’altro genitore. Non ci sono deroghe neanche nel caso in cui i genitori si siano separati o divorziati o non convivano più insieme o uno dei due è scappato senza lasciare alcuna traccia di sé.
Si può dare al figlio il solo cognome della madre? La nuova regolamentazione prevede unicamente la possibilità del doppio cognome. Per cui non è possibile dare al figlio solo il cognome materno, neanche se il padre non c’è più, se n’è andato di casa o si è macchiato di gravi condotte che violano il matrimonio.
Il solo cognome materno si dà quando il figlio, nato da una coppia non sposata, non viene riconosciuto dal padre. In tal caso la madre è autorizzata a dargli solo il proprio cognome (non potendo peraltro fare diversamente).
Si può dare al figlio il doppio cognome se la coppia non è sposata? Come detto la previsione della Corte Costituzione si riferisce sia alle coppie sposate che a quelle di conviventi, nonché ai figli avuti in adozione.
Si può dare il doppio cognome al figlio nato all’estero? Assolutamente sì. La possibilità di attribuzione del doppio cognome è applicabile anche alle nascite avvenute all’estero di figli di cittadini entrambi esclusivamente italiani.
Che fare se il padre non vuol dare al figlio il cognome della madre? Se il padre si oppone al doppio cognome, la madre non può farci nulla in prima battuta: può solo rivolgersi al giudice per comporre il conflitto. Il giudice non può, in automatico, accogliere l’istanza della madre ma deve valutare se il doppio cognome non è in contrasto con gli interessi del minore. Insomma, la madre non ha un vero e proprio diritto soggettivo a dare d’imperio il proprio cognome al bambino. Lo stesso dicasi nell’ipotesi inversa, ossia qualora vi sia solo la volontà del padre e non quella della madre.
Per il Tar Lazio [sentenza 11410/26.11.2018] è legittimo che il prefetto neghi l’aggiunta del cognome materno, richiesto dalla madre nell’interesse del figlio minorenne, se non vi è l’accordo di entrambi i genitori e a maggior ragione nel caso, come quello in esame, in cui il padre abbia manifestato il proprio dissenso. E anche senza aver portato a conoscenza della madre richiedente le ragioni dell’opposizione paterna.
Il Tar indica come mezzo legittimo di composizione del contrasto in casi simili l’azione in sede civile davanti al giudice ordinario. Per il Tar non vi sono rilievi contro la decisione del prefetto neanche in ordine alla mancata informazione della madre sui motivi di opposizione del padre alla sua istanza. Quest’ultima di fronte al diniego del padre può solo rivolgersi alla giustizia civile per comporre il disaccordo. La situazione di contrasto tra i genitori non può comunque essere il fondamento per l’accoglimento dell’istanza di aggiunta del cognome della madre.
È possibile anteporre il cognome della madre a quello del padre? No, l’unica soluzione possibile è di dare al figlio prima il cognome del padre e poi quello della madre che, pertanto, può solo seguire il primo e non anteporsi ad esso.
Sentenza del Tar Lazio www.laleggepertutti.it/258977_doppio-cognome-al-figlio-come-fare
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Giornata per la vita 2019
Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per la 41ª Giornata Nazionale per la Vita
(3 febbraio 2019)
Germoglia la speranza
«Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa» (Is 43,19). L’annuncio di Isaia al popolo testimonia una speranza affidabile nel domani di ogni donna e ogni uomo, che ha radici di certezza nel presente, in quello che possiamo riconoscere dell’opera sorgiva di Dio, in ciascun essere umano e in ciascuna famiglia. È vita, è futuro nella famiglia! L’esistenza è il dono più prezioso fatto all’uomo, attraverso il quale siamo chiamati a partecipare al soffio vitale di Dio nel figlio suo Gesù. Questa è l’eredità, il germoglio, che possiamo lasciare alle nuove generazioni: «facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1Tim 6, 18-19).
Vita che “ringiovanisce”
Gli anziani, che arricchiscono questo nostro Paese, sono la memoria del popolo. Dalla singola cellula all’intera composizione fisica del corpo, dai pensieri, dalle emozioni e dalle relazioni alla vita spirituale, non vi è dimensione dell’esistenza che non si trasformi nel tempo, «ringiovanendosi» anche nella maturità e nell’anzianità, quando non si spegne l’entusiasmo di essere in questo mondo. Accogliere, servire, promuovere la vita umana e custodire la sua dimora che è la terra significa scegliere di rinnovarsi e rinnovare, di lavorare per il bene comune guardando in avanti. Proprio lo sguardo saggio e ricco di esperienza degli anziani consentirà di rialzarsi dai terremoti – geologici e dell’anima – che il nostro Paese attraversa.
Generazioni solidali
Costruiamo oggi, pertanto, una solidale «alleanza tra le generazioni», come ci ricorda con insistenza papa Francesco. Così si consolida la certezza per il domani dei nostri figli e si spalanca l’orizzonte del dono di sé, che riempie di senso l’esistenza. «Il cristiano guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere pienamente la vita – con i piedi ben piantati sulla terra – e rispondere, con coraggio, alle innumerevoli sfide», antiche e nuove. La mancanza di un lavoro stabile e dignitoso spegne nei più giovani l’anelito al futuro e aggrava il calo demografico, dovuto anche ad una mentalità antinatalista che, «non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire». Si rende sempre più necessario un patto per la natalità, che coinvolga tutte le forze culturali e politiche e, oltre ogni sterile contrapposizione, riconosca la famiglia come grembo generativo del nostro Paese.
L’abbraccio alla vita fragile genera futuro
Per aprire il futuro siamo chiamati all’accoglienza della vita prima e dopo la nascita, in ogni condizione e circostanza in cui essa è debole, minacciata e bisognosa dell’essenziale. Nello stesso tempo ci è chiesta la cura di chi soffre per la malattia, per la violenza subita o per l’emarginazione, con il rispetto dovuto a ogni essere umano quando si presenta fragile. Non vanno poi dimenticati i rischi causati dall’indifferenza, dagli attentati all’integrità e alla salute della “casa comune”, che è il nostro pianeta. La vera ecologia è sempre integrale e custodisce la vita sin dai primi istanti.
La vita fragile si genera in un abbraccio: «La difesa dell’innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo». Alla «piaga dell’aborto» – che «non è un male minore, è un crimine» – si aggiunge il dolore per le donne, gli uomini e i bambini la cui vita, bisognosa di trovare rifugio in una terra sicura, incontra tentativi crescenti di «respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze».
Incoraggiamo quindi la comunità cristiana e la società civile ad accogliere, custodire e promuovere la vita umana dal concepimento al suo naturale termine. Il futuro inizia oggi: è un investimento nel presente, con la certezza che «la vita è sempre un bene», per noi e per i nostri figli. Per tutti. È un bene desiderabile e conseguibile.
Consiglio Episcopale Permanente 2 dicembre 2018
www.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/31/2018/11/28/Messaggio-giornata-vita-2019.docx
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CONIUGI
Le coppie interconfessionali e la possibilità dell’intercomunione
Una riflessione sull’intercomunione, e cioè sulla possibilità di partecipare insieme, cristiani di diverse chiese, alla celebrazione dell’Eucaristia e al banchetto eucaristico, deve partire da una riflessione sulla Chiesa, essendo la liturgia in generale e la comunione eucaristica in particolare culmine e fonte della vita e dell’unità della Chiesa (Sacrosanctum Concilium 10).
Uniti per il battesimo e la fede. Ora il concilio Vaticano II ha superato quel concetto ristretto di Chiesa che era proprio dell’ecclesiologia cattolica preconciliare, e che identificava la Chiesa di Cristo con la sola Chiesa cattolica. Il concilio ha affermato a più riprese (Lumen Gentium 8 e Dignitatis Humanae 1) che la Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, il che significa che è presente ma non si esaurisce in essa.
Questo vale anzitutto per le chiese ortodosse, il polmone orientale della Chiesa come amava ripetere Giovanni Paolo II, per le quali si afferma che “mediante la celebrazione dell’Eucaristia del Signore in queste singole chiese, la Chiesa di Cristo è alimentata e cresce” (Unitatis Redintegratio 15).
Se per le chiese non cattoliche d’occidente non troviamo espressioni corrispondenti, si può ricordare come in UR 3 si affermi che “coloro che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica… Dunque, per il battesimo e la fede i membri delle diverse comunità cristiane fanno parte dell’unico Corpo di Cristo, e cioè dell’unica Chiesa.
Se tutti i battezzati fanno parte dell’unica Chiesa (e non vogliamo qui domandarci se essa non accoglie anche non battezzati che vivono una vita retta e di profonda comunione con Dio), tutto ciò che può far crescere la comunione fra i cristiani anche sul piano visibile dovrebbe essere favorito.
Perché l’esclusione dalla tavola eucaristica. Secondo la convinzione della comunità cristiana primitiva, i neobattezzati non avrebbero dovuto peccare. E tuttavia anch’essa si trovò di fronte al problema di membri della comunità che si rendevano colpevoli di peccati gravi e notori, per cui venne deciso di escluderli dall’Eucaristia, ispirandosi proprio a quanto fatto da Paolo in 1Cor 5, secondo l’interpretazione che di questo passo veniva data nella Chiesa dell’epoca. E tuttavia coloro che erano stati esclusi avrebbero potuto in seguito essere riconciliati con la Chiesa e riammessi alla tavola eucaristica, e questo avvenne da quando la comunità cristiana cominciò a prendere coscienza del potere ricevuto da Cristo di rimettere i peccati e a parlare della possibilità di una “seconda tavola di salvezza” dopo il battesimo.
Questa “seconda tavola di salvezza” venne gradatamente precisata nelle forme della penitenza pubblica. I responsabili dei peccati più gravi entravano nella condizione di penitenti e restavano esclusi dall’Eucaristia, ma dopo un anno o forse più potevano essere riammessi nella comunità e di conseguenza prendere parte all’Eucaristia.
Che ai fini della penitenza pubblica si prendessero in considerazione soprattutto peccati gravissimi (l’apostasia nella persecuzione e il vivere in un secondo matrimonio, che ritengo si debba interpretare come secondo matrimonio dopo il divorzio e non dopo la morte del coniuge come tanti affermano ancora) è dimostrato dal canone 8 del concilio di Nicea del 325, relativo alla riammissione nella grande chiesa degli eretici novaziani.
Questo canone dimostra anche che l’esclusione dall’Eucaristia, che era stata introdotta per i peccati più gravi, si era estesa a coloro che non accettavano gli insegnamenti della grande Chiesa ed erano considerati “eretici” o appartenenti a una Chiesa diversa.
Il cambiamento della prassi penitenziale. Con le migrazioni dei popoli e la disgregazione della vita cittadina, la prassi penitenziale venne modificandosi, con l’introduzione della penitenza privata, tariffata secondo le indicazioni dei libri penitenziali. Tuttavia per quanto riguarda l’esclusione dall’Eucaristia continuò la prassi di non accettare alla tavola eucaristica coloro che venivano considerati separati dalla grande Chiesa per ragioni di peccato o di non accettazione dei Concili.
Una situazione che purtroppo si radicalizzò dopo gli eventi del sedicesimo secolo e le scomuniche reciproche non solo fra cattolici e protestanti ma anche fra cristiani delle diverse confessioni evangeliche, e che comunque riguardò soprattutto i rapporti fra i cristiani membri delle chiese occidentali, perché sembra un dato storico il fatto che una certa intercomunione fra cattolici e ortodossi sia continuata a livello popolare sino agli inizi del secolo ventesimo.
Le novità del movimento ecumenico e del Vaticano II
Tutto ha cominciato a cambiare con la nascita del movimento ecumenico e per la Chiesa cattolica con il concilio Vaticano II. La Chiesa cattolica, riconoscendo pienamente come Chiese le Chiese orientali, decise (con Orientalium Ecclesiarum 27-29) che gli ortodossi potessero partecipare all’eucaristia nella Chiesa cattolica, e i cattolici in quella ortodossa, a condizione che ci fosse l’accordo delle gerarchie ortodosse, che tuttavia non venne.
Quanto ai protestanti, aprirono la loro mensa eucaristica agli altri evangelici, soprattutto grazie alla Concordia di Leuenberg (1973). E tuttavia, da parte cattolica, si è stati molto più riservati nell’aprirsi all’intercomunione o anche soltanto all’ospitalità eucaristica nei rapporti con gli evangelici di quanto lo si era stati con gli ortodossi.
Gli evangelici potrebbero partecipare all’eucaristia cattolica alle stesse condizioni dei cattolici (fede nella presenza reale e stato di grazia o di comunione con il Signore). Ma della partecipazione dei cattolici alla Santa Cena non si parla, perché il Vaticano II aveva rilevato un ‘defectus ordinis’ (UR 22) che agli occhi della Chiesa cattolica rende invalida l’eucaristia degli evangelici.
Da parte evangelica, la convinzione di celebrare un’eucaristia pienamente valida fonda il loro insistente invito ai cattolici a parteciparvi. Si può comunque ricordare che alcuni teologi cattolici ritengono che il ‘difetto’ di cui parla UR 22 non arriva a inficiare il valore dell’operato di quanti sono stati ordinati.
Il caso delle coppie interconfessionali. Un problema particolare è quello delle coppie interconfessionali, formate da due cristiani battezzati in chiese diverse, e che in quanto tali chiamati anch’essi ad essere “piccola Chiesa”, una Chiesa domestica che viene alimentata proprio dalla partecipazione comune al culto o all’eucaristia domenicale, partecipazione che trova la sua pienezza nell’accostarsi insieme alla comunione eucaristica.
Entrando in una comunione così stretta e profonda con il proprio coniuge, i membri di una coppia interconfessionale imparano ad amare anche la Chiesa cui appartiene il coniuge e a vivere in una certa comunione con essa, formando i figli all’amore verso le due chiese cui appartengono i genitori.
Il problema posto dal recente documento dell’episcopato tedesco proprio a proposito della partecipazione all’Eucaristia delle coppie interconfessionali (e contro il quale alcuni vescovi hanno fatto ricorso a Roma) sembra essere stato risolto con la decisione di alcuni vescovi (in linea con i principi della sinodalità) di farlo applicare nelle loro diocesi. Il documento tuttavia parla soltanto della possibilità che un non cattolico partecipi all’Eucaristia celebrata nella chiesa cattolica, ma non fa cenno alla possibilità inversa.
L’esigenza di un discernimento personale. Ricordando ancora una volta l’importanza di osservare con amore in linea di principio le raccomandazioni che provengono dalle autorità legittime delle nostre diverse Chiese, sembra giusto affermare anche che, in questo come in ogni altro caso, il giudizio di coscienza, il discernimento personale, compiuto da ogni singolo cristiano in ordine al comportamento da tenere nel concreto, debba essere seguito.
Se siamo davvero un’unica Chiesa di Cristo alla quale tutti partecipiamo, come dice papa Francesco, con espressioni che sembrano corrispondere a questo convincimento, “camminiamo insieme, preghiamo insieme, serviamo insieme i fratelli”, in modo che “l’unione gradatamente verrà”.
Queste indicazioni valgono anche per il nostro caso. Il decreto sull’ecumenismo insegnava che la comunicazione nelle cose sacre (in questo caso, la partecipazione all’Eucaristia nella Chiesa del coniuge) dipende da due principi: “dalla manifestazione dell’unità della chiesa e dalla partecipazione ai mezzi della grazia. La manifestazione dell’unità per lo più vieta la comunicazione, la necessità di partecipare alla grazia talvolta la raccomanda” (UR 8).
Verso una piena intercomunione. Se è vero quanto detto sopra, dobbiamo riconoscere che entrambi i principi spingono verso una piena intercomunione, capace di farci crescere nell’unità.
Spinge in questo senso anche la carità e il rispetto che dobbiamo esercitare nei confronti di tutti i cristiani e delle loro Chiese, che non possiamo giudicare con la sufficienza del fariseo della parabola (Lc 18, 9-14). Spinge nella stessa direzione l’affermazione evangelica per cui “dove due o tre sono riuniti nel nome di Gesù” egli è presente in mezzo a loro (Mt 18,20).
Spinge, infine, all’intercomunione anche il frutto del ministero dei pastori delle diverse Chiese evangeliche, che hanno saputo guidare nei secoli le loro comunità con la predicazione e i sacramenti consentendo ad esse di perseverare nella fede e di portare frutti di servizio e di carità.
E a questo punto oso ancora aggiungere (forse anche solo per convincere i cattolici più rigidamente legati alla tradizione scolastica), che nella Chiesa cattolica, quando un ministro fosse stato invalidamente ordinato, il fatto che la comunità lo riconosca come esercitante validamente il suo ministero fa sì che “supplet Spiritus Sanctus in Ecclesia” per cui tutti i suoi atti portano egualmente frutti di grazia.
Ritengo che ciò valga anche per i ministri delle Chiese non cattoliche che i loro fedeli considerano come ministri legittimamente ordinati, per cui non oserei misconoscere il valore dell’eucaristia da loro presieduta e della conseguente presenza del Signore.
Una “trasgressione forte”. Forse qualcuno attende che la prassi dell’intercomunione si diffonda fra il popolo cristiano, per poterla poi riconoscere ufficialmente, come è accaduto se non ricordo male fra la chiesa siriaca ortodossa e la chiesa siriaca cattolica, che riconoscendo che i loro fedeli (forse trasgredendo le indicazioni delle rispettive gerarchie) praticavano correntemente l’intercomunione, hanno dichiarato che tale prassi poteva essere ammessa ufficialmente dall’autorità delle due chiese. Tutto ciò significa che si può legittimamente distinguere fra una “trasgressione debole” (compiuta con la coscienza di venir meno a un dovere) e una “trasgressione forte”, compiuta con la coscienza di poter contribuire a dare vita a una situazione nuova, come è stato nel caso di coloro che per primi si sono opposti alla schiavitù, o all’apartheid, o alla pena di morte.
Una ‘trasgressione forte’ (intesa come una forma di obbedienza al Signore in vista del cambiamento della disciplina, in conformità alla sua richiesta: “e perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?” – Lc 12,57) può essere compiuta sulla base di un giudizio di coscienza (e pagando di persona) al fine di fare evolvere la disciplina ecclesiastica nel senso di contribuire più efficacemente all’insegnamento evangelico che ci chiede di ristabilire la piena comunione fra i cristiani “affinché il mondo creda” (Gv 17,21).
Giovanni Cereti 27 novembre 2018
Presbitero, dottore in Giurisprudenza e in Teologia, docente di Teologia ecumenica e di dialogo interreligioso in diverse Facoltà ecclesiastiche. È consulente del Segretariato per le attività ecumeniche (SAE). Animatore della Fraternità degli Anawim, aderente alla Rete dei Viandanti.
www.viandanti.org/sito/?p=19037#more-19037
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CONSULENTI DI COPPIA E DI FAMIGLIA
Le delibere del Consiglio Direttivo dell’Aiccef
Il nuovo Consiglio Direttivo dell’Aiccef si è riunito venerdì 30 novembre 2018 a Faenza, nella sede nazionale, per definire importanti questioni organizzative per il 2019 e attribuire gli incarichi fondamentali per il funzionamento dell’Associazione.
Su proposta della Presidente Stefania Sinigaglia, il Consiglio ha nominato Vice Presidente Alfredo Feretti, che ha accettato la nomina.
La Presidente, poi, in base alle sue prerogative statutarie, ha nominato Segretario Generale dell’Associazione Maurizio Qualiano.
La Presidente ha inoltre assegnato le seguenti Deleghe operative ai Consiglieri, che le attueranno con autonomia e responsabilità nei confronti del Consiglio: a
Claudia Monti delega all’organizzazione delle Commissioni di esami a Socio effettivo ed al rilascio delle Attestazioni di qualità, in base alla legge 4 del 2013;
Sarah Hawker delega ai rapporti nazionali ed internazionali con Enti pubblici e privati, ed Associazioni (Colap, CNEL, ICCFR, AGF, Cipra…);
Patrizia Margiotta delega al coordinamento dei referenti regionali;
Maurizio Qualiano, già Redattore della Rivista, delega alla comunicazione sociale e alla consulenza legale;
Rita Roberto delega alla Formazione continua dei Soci, Supervisori e Referenti, e ai docenti del modulo Aiccef;
Raffaello Rossi delega alla Formazione di base, con rapporti con le Scuole di formazione riconosciute, le nuove Scuole e l’organizzazione del Gruppo di studio sulla verifica del Codice di autoregolamentazione;
Arianna Siccardi la delega di referente nazionale dei Tirocini.
L’incarico di svolgere l’attività di concessione dei Patrocini e di attribuzione dei Crediti formativi è stato affidato dalla Presidente a Renata D’Ambrosio, attuale membro del Collegio dei Probiviri.
Nella stessa riunione il Consiglio, in base alle indicazioni già fornite dal Comitato Scientifico a Trevi, ha scelto il tema formativo dell’anno, e l’argomento su cui faremo una riflessione approfondita a livello sociale e professionale: Le relazioni al tempo dei social. Una visione dell’uomo di oggi e delle sue relazioni, correlate al tempo dell’individualismo e delle reti social, sempre più focalizzate sui desideri e gli intimi bisogni degli utenti. Un tema che sarà affrontato nelle due Giornate di studio del 5 maggio e del 20 ottobre 2019, organizzate con la stessa formula sperimentata a Trevi, ed anche sulle pagine della Rivista con articoli e approfondimenti.
Sono state anche decise le date degli esami di ammissione a socio effettivo nel 2019:
Per la primavera a Faenza, presso la sede nazionale, il 16 marzo e a Roma, a Via della Pigna, il 6 aprile, con consegna dei documenti utili entro il 15 febbraio;
Per l’autunno a Faenza il 9 novembre e a Roma il 16 novembre, con consegna dei documenti utili entro il 30 settembre.
In relazione alla formazione del Bilancio preventivo 2019, il Consiglio ha deliberato di attivare la Segreteria per sollecitare i soci morosi a versare le quote mancanti, che come noto sono comprensive dell’abbonamento alla Rivista e dell’assicurazione contro la responsabilità civile degli iscritti. In relazione a ciò è stato anche deciso che per i Soci aggregati, in situazione irregolare, sarà avvertito il tutor che, stante il perdurare della irregolarità, il tirocinio deve essere interrotto.
Il Consiglio ha anche deliberato che le quote sociali per il 2019 rimarranno inalterate agli importi attuali.
www.aiccef.it/it/news/le-delibere-del-consiglio-direttivo.html
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CONSULENZA COPPIA E FAMIGLIA
Stile di vita
8 paure che ogni uomo sperimenta quando si innamora (e come affrontarle)
Quando siamo bambini abbiamo una lista interminabile di paure. Ricordo che io avevo sempre paura del soggiorno scuro della casa di mia nonna, perché ci immaginavo Freddy Kruger (sì, una paura molto anni Ottanta), e allora salivo di corsa le scale. Man mano che cresciamo e maturiamo le paure continuano a esistere, ma sono diverse. A volte sono basate su cose reali, in altri casi sono frutto della nostra immaginazione.
Ma cos’è la paura in sé? L’abbiamo sperimentata tutti prima o poi. Potremmo dire che è come una pugnalata al cuore, la sensazione di avere la gola secca, le gambe che tremano o la pelle d’oca sulle braccia. La paura è quell’emozione potente e dalle radici primitive che risiede nella parte più profonda del nostro cervello che cerca fondamentalmente di garantire la nostra sopravvivenza. Il problema è il fatto che molte di quelle angosce derivano da minacce che percepiamo ma che non sono reali, o sono semplicemente esagerazioni della realtà.
Nella vita adulta proviamo paura quando le cose non vanno come speravamo o quando affrontiamo qualcosa di nuovo o sconosciuto. Ma qual è la conseguenza della paura? Entra dagli spiragli delle porte che lasciamo aperte al dubbio e si insedia nel cuore, portandoci alla mancanza di azione o a titubare. Tutto diventa più facile se siamo trasparenti e ci lasciamo illuminare dalla luce di Dio, che ci dice “Non temete” (Mt 14, 27).
È per questo che in questo post vorrei presentarvi alcune delle paure che dobbiamo affrontare noi uomini quando ci innamoriamo, quando iniziamo a vivere una relazione seria. Spesso sono paure fondate, basate su situazioni reali, ma che esageriamo in negativo. Altre volte sono basate su situazioni immaginarie, ovvero sono timori infondati, in cui si esprime una chiara assenza di dialogo e interazione con la persona amata. Diceva bene lo scrittore francese Charles Peguy: “A ogni giorno bastano le sue paure, e non c’è motivo di anticipare quelle di domani”.
Ecco le paure (da innamorati) che ritengo si presentino più spesso nella nostra mente e nel nostro cuore, e come affrontarle:
Paura di non essere corrisposti. È comune che all’inizio di una relazione, visto che l’amore è ancora in fase di costruzione, si possa avere una certa paura del rifiuto. Pensiamo che lei non sia disposta a vedere cosa siamo davvero e cosa possiamo dare con il tempo. È pero importante aumentare la fiducia in se stessi, e la fiducia in Dio. Se avete già iniziato una relazione con una ragazza, concentratevi ad aumentare l’amore reciproco, a curare dettagli che esprimano il vostro amore, non cercando qualcosa in cambio, ma semplicemente per l’amore che nutrite nei suoi confronti.
Paura di non sentirsi alla sua altezza. Al giorno d’oggi ci troviamo di fronte a delle ragazze che sembrano cercare un superuomo: senza difetti e con una lunga lista di virtù da spuntare. Di fronte a questo, è normale aver paura di non essere all’altezza di ciò che si aspetta una ragazza, ma non bisogna disperare. Sforzatevi di essere voi stessi, non cercate di posare (lei ha già visto in voi qualcosa che l’ha fatta innamorare!), e con l’aiuto di Dio cercate di crescere nelle virtù che potete raggiungere e che ritenete importanti per la relazione.
Paura di perdere il proprio spazio. È la paura (magari suscitata dagli amici, a volte a mo’ di scherzo, a volte seriamente) di perdere la propria “libertà” per il fatto di avere una relazione. Noi uomini siamo terrorizzati da questa idea. Per cominciare, in un rapporto è una cosa sana che entrambi abbiano il proprio spazio, basato sulla fiducia reciproca, ma anche che siano consapevoli del fatto che l’amore implica in grande misura il fatto di “perdersi” per l’altro. Bisogna donarsi ma essendo sempre se stessi. In questo si sperimenta una libertà ancor maggiore.
Paura della routine. È quella sensazione che la relazione possa diventare noiosa perché si fanno sempre le stesse cose. L’idea terrorizza perché un rapporto di routine porta necessariamente al fallimento. La chiave è innovare sempre, pensare ad attività nuove, darsi spazio per parlare di temi importanti e profondi, uscire con altre coppie di amici, pregare insieme. Tutto questo aiuterà a vincere la paura della routine.
Paura di non condividere gli stessi valori. All’inizio di una relazione scopriamo gradualmente i valori e le convinzioni del nostro partner. È lì che può emergere la paura che esistano grandi differenze in temi che si potrebbero considerare “non negoziabili”, come la fede, la ricerca della castità, il rispetto della propria famiglia, l’apertura ai figli (quando si inizia a parlare di matrimonio).
Paura di non inserirsi nell’ambiente dell’altro. Si tratta del timore di non trovarsi bene o di non “andar bene” ai suoi amici o alla sua famiglia, che per lei sono importanti. Anche se è vero che il rapporto non ha motivo di dipendere da terze persone, è sempre bene compiere uno sforzo extra (che a volte non richiede neanche un vero sforzo) per star bene con le persone che lei ama, e che c’erano già prima di noi. Sono persone che cercano il suo bene, un pilastro per lei, e che quindi hanno il nostro stesso obiettivo: la nostra felicità. Per questo, dobbiamo sempre cercare di considerarli degli alleati, degli amici, e persone che anche noi possiamo amare.
Paura delle sue esperienze passate. È forse una delle paure più reali e una delle più difficili da superare. Può accadere (ed è la cosa più comune) che la ragazza con cui stiamo abbia avuto in precedenza un’altra relazione, e ovviamente abbia dei ricordi (positivi e negativi) o delle ferite, o peggio ancora che non abbia superato il rapporto precedente. Dobbiamo essere comprensivi e accettare ciò che ha vissuto, visto che in quel momento non eravamo ancora entrati nella sua vita e non siamo nessuno per giudicare. Dobbiamo capire che quando iniziamo una relazione, e quando iniziamo ad amare l’altra persona, la accettiamo nella sua totalità, con la sua storia, le sue virtù e i suoi difetti. E proprio l’amore di coppia che viviamo (necessariamente mano nella mano con Dio) che aiuterà a guarire le ferite, a creare ricordi ed esperienze nuovi e più belli e a “superare” le esperienze passate.
Paura dell’impegno. Quando la relazione diventa seria (quando ci si inizia a proiettare verso il matrimonio) inizia ad apparire questa paura. È molto comune avere timore (e a volte perfino terrore) in questa tappa della relazione. È la paura delle responsabilità che stanno per arrivare, sapendo che lei (e a volte altre persone) dipenderà da te per tutta la vita.
Mettete da parte per un attimo il vostro egoismo e chiedetevi: Non è forse quello che volete nel profondo del cuore? Non è forse la ragazza che volete amare per tutta la vita e con cui volete vivere l’avventura del matrimonio? Se nel vostro rapporto siete arrivati a questo punto, dovete porvi queste domande con sincerità, e parlarne con lei. Fa paura, ed è una paura del tutto giustificata per tutto ciò che comporta, ma tenete conto di ciò che desiderate di più: amare ed essere amati da quella persona che Dio ha posto al vostro fianco.
Le paure possono paralizzarci, ma di fronte ad esse dobbiamo avere l’atteggiamento corretto. Dio ci dà gli strumenti per superarle. Una decisione presa insieme a Lui, chiedendo nella preghiera l’assistenza dello Spirito Santo, ci rafforzerà e ci darà il coraggio di porre le paure al posto giusto e di intraprendere azioni che si pongano sulla linea della felicità che cerchiamo.
E voi? Quali altre paure credete che si presentino nei rapporti di coppia (sia per gli uomini che per le donne) e come si possono affrontare?
Rafael Pérez del Solar Catholic Link Aleteia 1 dicembre 2018
https://it.aleteia.org/2018/11/30/8-paure-uomo-sperimenta-quando-si-innamora-e-come-affrontarle
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CONSULTORI FAMILIARI D’ISPIRAZIONE CRISTIANA
Il lutto e gli adolescenti: il legame è per sempre
Roma Consultorio familiare diocesano Al Quadraro
Il mese di novembre offre una buona opportunità per riflettere sul tema del lutto e di come questo sia così incisivo nella vita delle persone, soprattutto quando risulta difficile affrontarlo ed elaborarlo. Spesso, in terapia, il “dolore cristallizzato” della morte di un genitore, di un coniuge, di una sorella, di un amico diventa così importante da orientare l’esistenza di chi chiede aiuto in modo da difendersi e da evitare tutto ciò che è correlato a quella perdita.
Diverse sono le strategie che vengono utilizzate per poter fra fronte “all’evento luttuoso” che si presenta come naturale ed universale ma che richiede un processo di adattamento e di ristrutturazione interna della persona. L’elaborazione del lutto è un lavoro intrapsichico caratterizzato da diversi momenti che permettono a chi rimane di poter accettare la realtà: ricollocando la persona deceduta in uno spazio interno relazionale meno doloroso, promuovendo la continuità del legame attraverso la memoria e favorendo la ripresa dei contatti con il mondo esterno, orientando verso una nuova progettualità.
Cosa accade se chi subisce una perdita presenta una maggiore vulnerabilità, come nel caso degli adolescenti? L’adolescenza è un periodo di grandi cambiamenti, di sfide e di crescita che permette di diventare adulti, ossia di poter investire la propria maturità cognitiva-affettiva in un progetto relazionale-affettivo-lavorativo. Poter realizzare la propria crescita richiede all’adolescente di portare a termine alcuni specifici compiti che riguardano la costruzione della nuova identità da tutti i punti di vista (biologico, sociale e culturale) e l’assunzione della propria responsabilità.
È intuibile come l’adolescenza è di per sé un processo di cambiamento e che necessariamente comporta esperienze sia di perdita che di rinnovamento: è uno snodo temporale dove si integrano, un po’ alla volta, i tasselli della nuova identità abbandonando le certezze infantili e creando nuovi punti di riferimento che permettano di orientarsi verso un nuovo senso di sé. È il tempo per sperimentarsi e per avviare un processo di separazione-differenzazione dai propri genitori e dai loro modelli dando spazio ad altre relazioni significative come gli amici o altri adulti.
Il grande “lavoro” dell’adolescente definito “crisi adolescenziale” può essere rappresentato da una strada “lastricata di lutti simbolici e di simboliche rinascite” (Morgante) e richiede l’attivazione di numerose risorse per poter superare i possibili stati di malessere. In questa cornice, eventi dolorosi e inaspettati, come il lutto improvviso o derivato da una lunga malattia di un genitore, di un parente o di un amico, possono dare all’adolescente la sensazione di essere impotente e sopraffatto non solo rispetto alla perdita subìta ma anche rispetto agli impegni e ai progetti della sua vita.
Le principali reazioni al lutto nei ragazzi sono caratterizzate dall’ansia, dalla rabbia, dall’aggressività, dalla ribellione ma anche dalla “freddezza” sostenuta dal timore di essere soverchiati dalle proprie emozioni. Spesso possono “rifiutare” la notizia, mostrando un’incapacità di reagire soprattutto quando la morte è improvvisa, o mostrare un senso di colpa verso sé stessi, quando si è cercato di evitare la persona malata.
Gli effetti del dolore possono includere sentimenti di paura, di disagio, di insoddisfazione, è possibile un’alterazione patologica dell’umore con la presenza di disturbi somatici; disturbi dell’alimentazione; sintomi ossessivi-compulsivi; difficoltà di concentrazione e apprendimento a scuola; incapacità di mantenere un sano livello di autostima e di connessione alla propria rete sociale; l’esasperazione dei comportamenti a rischio con uso di droghe e attività sessuale per sfuggire e non pensare al dolore della perdita (Moniello).
La percezione prevalente è la solitudine, la convinzione di non essere compreso e di non poter essere aiutato dal mondo degli adulti, questa percezione viene sostenuta anche dal desiderio di autonomia che porta spesso i ragazzi a mostrare “che è tutto apposto e non ci sono problemi!”
Un caso concreto. Sara e Marco sono sorella e fratello di 22 e 16 anni, hanno perso la madre di 50 anni dopo una malattia combattuta per diversi anni, una madre sempre presente e accudente ma che negli ultimi anni si sottoponeva spesso a cicli di chemioterapia con i visibili segni del trattamento: nausea, stanchezza, dolori. Nonostante la presenza tangibile della malattia i ragazzi avevano cercato di “rifiutare” la realtà nella speranza che fosse possibile convivere per un tempo più lungo, con la madre che si curava.
Quando la malattia prese il sopravvento li trovò spiazzati come se non avessero capito cosa stesse accadendo e diversi furono i tentativi per affrontare il dolore: per Sara la presenza del fidanzato, della sua famiglia, del gruppo di amici e l’impegno universitario le permisero di far fronte all’urgenza del dolore e solo a distanza di un anno ha iniziato a poterne parlare chiedendo e approfondendo il periodo della malattia, non avendone compreso la gravità, e accogliendo i ricordi della madre prima di ammalarsi. Marco ha cercato di portare avanti gli studi diplomandosi e ha affrontato l’urgenza del dolore con la presenza della ragazza, di amici e parenti ma ancora non riesce a “toccare” il dolore e il lutto sostenendo che “va tutto bene”.
Quali sono i momenti nel processo di elaborazione del lutto? Non è possibile generalizzare sui tempi interni di un processo di elaborazione del lutto che comporta una trasformazione della relazione tra chi rimane e il defunto, potendo verificarsi anche blocchi nella sua evoluzione e comportando un “lutto patologico”. Mentre è possibile sintetizzare i diversi momenti del processo usando la classificazione di Therese Rando (esperta nella terapia del lutto): il riconoscere e comprendere la perdita, anche se all’inizio c’è il desiderio di evitare di prenderne atto (fase dell’evitamento); provare il dolore e reagire alla separazione (fase del confronto); muoversi nella nuova vita senza dimenticare il vecchio (fase di accomodamento). Il compito più cruciale è il cambiamento nella relazione mantenendo la persona amata “viva” in modo appropriato, trovando un posto per il defunto in modo da rimanere connesso con lui senza che questo comporti un ostacolo nell’andare avanti con la vita.
Quali sono le risorse a disposizione degli adolescenti per affrontare il lutto? Tale processo può essere sostenuto negli adolescenti grazie al nucleo familiare, il gruppo dei pari, la scuola e altri contesti di aggregazione. La scuola ha un ruolo importante sia in termini formativi, sia in termini relazionali, sia per la costruzione della motivazione e della propria identità. I familiari o gli altri adulti, per poter essere di sostegno, dovrebbero essere disponibili ma non invadenti od inopportuni, aspettando che sia il ragazzo che si avvicini richiedendone la presenza; dovrebbero sostenere i tentativi di “farcela da solo”, evitando di minimizzare o amplificare la sofferenza provata.
L’elemento più significativo è dare spazio e sostegno ai ragazzi affinché diano senso e significato al dolore della perdita: per poterla assimilare come “tratto e caratteristica” della propria storia che ne configura l’aspetto ma non ne determina la sua evoluzione; per permettere a quel legame di esserci per sempre, senza che diventi assordante l’assenza fisica, e che sia valorizzato come elemento della complessità dell’identità che si va formando.
Laura Boccanera newsletter Romasette 30 novembre 2018
www.romasette.it/il-lutto-e-gli-adolescenti-il-legame-e-per-sempre
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DALLA NAVATA
I Domenica d’Avvento – Anno C – 2 dicembre 2018
Geremia 33.15. In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra
Salmo 24.14. Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza.
1Tessalonicesi 04.02. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
Luca 21. 27. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Nonostante tutto, la storia è un itinerario di salvezza
Ci saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle. Il vangelo di Luca oggi non vuole raccontare la fine del mondo, ma il mistero del mondo; ci prende per mano, ci porta fuori dalla porta di casa, a guardare in alto, a percepire il cosmo pulsare attorno a noi, immensa vita che patisce, soffre, si contorce come una partoriente (Is13,8), ma per produrre vita.
Ad ogni descrizione drammatica, segue un punto di rottura, un tornante che apre l’orizzonte, lo sfondamento della speranza e tutto cambia: ma voi risollevatevi e alzate il capo, la liberazione è vicina. Anche nel caos della storia e nelle tempeste dell’esistenza, il vento di Dio è sopra il mio veliero.
State attenti a voi stessi, che il cuore non diventi pesante! Verrà un momento in cui ci sentiremo col cuore pesante. Ho provato anch’io il morso dello sconforto, per me e per il mondo, ma non gli permetterò più di sedersi alla mia tavola e di mangiare nel mio piatto. Perché fin dentro i muscoli e le ossa io so una cosa: che non può esserci disperazione finché custodisco la testarda fedeltà all’idea che la storia è, nonostante tutte le smentite, un processo di salvezza.
Il dono dell’Avvento è un cuore leggero come la fiducia, quanto la speranza; non la leggerezza della piuma sbattuta dal vento, ma quella dell’uccello che fende l’aria e si serve del vento per andare più lontano.
E poi un cuore attento, che legga la storia come un grembo di nascite: questo mondo porta un altro mondo nel grembo, un sogno da trasformare in vita, perché non si ammali. Vivete con attenzione, state attenti alle piccole enormi cose della vita. Scrive Etty Hillesum dal campo di sterminio: «Esisterà pur sempre anche qui un pezzetto di cielo che si potrà guardare, e abbastanza spazio dentro di me per poter congiungere le mani nella preghiera».
I Vangeli d’Avvento usano questo doppio registro: fanno levare il capo verso le cose ultime, verso Colui-che-si-fa-vicino, e poi abbassare gli occhi verso le cose di qui, dentro e attorno a noi. Lo fanno per aiutarci a vivere attenti, ad abitare la terra con passo leggero, custodi dei giorni e pellegrini dell’eterno, guardando negli occhi le creature e fissando gli abissi del cosmo, attenti al venire di Dio e al cuore che si fa stanco. Pronti ad un abbraccio che lo alleggerisca di nuovo, e lo renda potente e leggero come un germoglio.
Avvento: la vita è non è una costruzione solida, precisa, finita, ma è una realtà germinante (Romano. Guardini), fatta anche e soprattutto di germogli, a cui non ti puoi aggrappare, che non ti possono dare sicurezze, ma che regalano un sapore di nascite e di primavera, il profumo della bambina speranza (Charles Péguy).
Padre Ermes Ronchi, OSM www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=44419
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DEMOGRAFIA
Natalità e fecondità della popolazione residente
Nel 2017 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 458.151 bambini, oltre 15 mila in meno rispetto al 2016. Nell’arco di 3 anni (dal 2014 al 2017) le nascite sono diminuite di circa 45 mila unità mentre sono quasi 120 mila in meno rispetto al 2008. La fase di calo della natalità innescata dalla crisi avviatasi nel 2008 sembra quindi aver assunto caratteristiche strutturali.
La diminuzione della popolazione femminile tra 15 e 49 anni (circa 900 mila donne in meno) osservata tra il 2008 e il 2017 spiega quasi i tre quarti della differenza di nascite che si è verificata nello stesso periodo. La restante quota dipende invece dai livelli di fecondità, sempre più bassi.
Il calo dei nati è particolarmente accentuato per le coppie di genitori entrambi italiani, che scendono a 358.940 nel 2017 (14 mila in meno rispetto al 2016 e oltre 121 mila in meno rispetto al 2008).
Rispetto al 2008 diminuiscono sensibilmente i nati da coppie coniugate: nel 2017 sono 316.543 (-147 mila in soli 9 anni). Questo netto calo è in parte dovuto all’andamento dei matrimoni, che hanno toccato il minimo nel 2014, anno in cui sono state celebrate appena 189.765 nozze (-57 mila rispetto al 2008) per poi risalire lievemente fino a superare nel 2016 le 200 mila celebrazioni. Nel 2017 si osserva una nuova diminuzione (191.287 matrimoni).
In particolare, la propensione al primo matrimonio, da anni in diminuzione, dopo aver mostrato una lieve ripresa a partire dal 2015 ha subito una battuta d’arresto nel 2017 (419,0 primi matrimoni per mille uomini e 465,1 primi matrimoni per mille donne).
In un contesto di nascite decrescenti, quelle che avvengono fuori del matrimonio aumentano di quasi 29 mila unità rispetto al 2008, raggiungendo quota 141.608. Il loro peso relativo continua a crescere, è a 30,9% nel 2017.
Il calo della natalità si riflette soprattutto sui primi figli (214.267 nel 2017), diminuiti del 25% rispetto al 2008. Nello stesso arco temporale i figli di ordine successivo al primo si sono ridotti del 17%.
Dal 2012 al 2017 diminuiscono anche i nati con almeno un genitore straniero (-8 mila) che, con mille unità in meno solo nell’ultimo anno, scendono sotto i 100 mila (99.211, il 21,7% sul totale dei nati) per la prima volta dal 2008. Tra questi sono in calo soprattutto i nati da genitori entrambi stranieri: per la prima volta sotto i 70 mila nel 2016, calano ulteriormente nel 2017 (67.933).
Al primo posto per numero di nati stranieri iscritti in anagrafe si confermano i bambini rumeni (14.693 nati nel 2017), seguiti da marocchini (9.261), albanesi (7.273) e cinesi (3.869). Queste quattro comunità rappresentano il 51,8% del totale dei nati stranieri.
Nel 2017 prosegue la tendenza alla diminuzione della fecondità in atto dal 2010. Il numero medio di figli per donna scende a 1,32 (1,46 nel 2010). Le donne italiane hanno in media 1,24 figli (1,34 nel 2010), le cittadine straniere residenti 1,98 (2,43 nel 2010).
La riduzione del numero medio di primi figli per donna tra il 2010 e il 2017 è responsabile per il 68% del calo complessivo della fecondità delle donne italiane e per l’81% di quello delle donne straniere.
Considerando le generazioni, il numero medio di figli per donna decresce senza soluzione di continuità. Si va dai 2,5 figli delle nate nei primissimi anni Venti (cioè subito dopo la Grande Guerra), ai 2 figli delle generazioni dell’immediato secondo dopoguerra (anni 1945-49), fino a raggiungere il livello stimato di 1,44 figli per le donne della generazione del 1977.
Contemporaneamente si osserva uno spiccato aumento della quota di donne senza figli: nella generazione del 1950 è stata dell’11,1%, nella generazione del 1960 del 13% e in quella del 1977 si stima che raggiungerà (a fine del ciclo di vita riproduttiva) il 22,0%.
www.istat.it/it/files//2018/11/Natalita%CC%802017.pdf

Comunicato stampa 28 novembre 2018
Il materiale presentato in occasione della conferenza stampa è disponibile negli allegati a destra su
www.istat.it/it/archivio/224393

L’Istat mette a disposizione il contatore dei nomi per anno di nascita per scoprire quanti sono i bambini che si chiamano nello stesso modo, nati e iscritti nelle anagrafi italiane dal 1999 al 2016 e quali sono i più diffusi tra i quasi 60 mila nomi diversi scelti dai genitori.
www.istat.it/it/dati-analisi-e-prodotti/contenuti-interattivi/contanomi

Conferenza stampa di presentazione dei risultati indagine
Natalità e fecondità della popolazione residente Anno 2017
www.slideshare.net/slideistat/conferenza-stampa-di-presentazione-sui-riultati-indagine-natalit-e-fecondit-della-popolazione-reidente-anno-2017

Nascite in picchiata. Italia, paese senza futuro
Dall’Istat arriva ancora una bruttissima notizia per l’Italia. Nel solo 2017 si sono registrate 15mila nascite in meno che, sommate a quelle dell’ultimo triennio, portano a 45mila i non nati. Una scelta che, paradossalmente, riguarda soprattutto le coppie di genitori entrambe italiani.
E ancora più drammatico è che la rinuncia alla natalità sembra aver assunto caratteristiche strutturali, alle quali si aggiunge calo dei matrimoni, boom dei divorzi ed una tendenza all’abortività che non dà segni veri di riduzione.
Insomma, quella italiana sembra essere diventata una società senza uno sguardo sul futuro che ha scelto di non investire sul domani.
La voglia di figli, in verità, non è venuta meno, ma è sempre più difficile accogliere un figlio in una società che non fa nulla per essere accogliente. È necessario che l’Italia faccia un investimento sul futuro come altri Paesi che hanno dimostrato che credere nel futuro è possibile anche in situazioni più critiche.
L’Italia deve e può rilanciare la voglia e la possibilità di avere figli con concreti interventi economici e servizi. «Senza figli non c’è futuro

L’Istat ci spiega perché gli italiani non fanno più figli
L’Istat ha pubblicato un rapporto sui tassi di natalità nel 2017: meno 15 mila nascite dal 2016, 120 mila dal 2008. “Il calo della natalità è un’emergenza, ma si può risolvere attraverso politiche mirate”, spiega Vittoria Buratta, direttore centrale delle Statistiche sociali e del Censimento della popolazione dell’Istat. L’Istituto nazionale di statistica ha pubblicato un rapporto sui tassi di natalità nel 2017: meno 15 mila nascite dal 2016, 120 mila dal 2008. Ci sono pochi segni di speranza perché il paese rallenti il suo lento invecchiamento. Un precedente rapporto dell’Istat stima un calo delle nascite del 17 per cento da oggi al 2050.
Dottoressa Buratta, il calo demografico è un problema irreversibile?
“Assolutamente no, si può risolvere attraverso delle soluzioni mirate. Bisogna prendere esempio dalle politiche di sostegno nei paesi nordici, in Francia e in Germania. Quest’ultimo è il caso più simile all’Italia: ha avuto una crisi peggiore della nostra ed è riuscito a risollevarsi anche grazie all’immigrazione. Il calo della natalità è un fenomeno che non può essere lasciato a se stesso”.
Quali sono le soluzioni per stimolare le nascite?
“Innanzitutto, variano a seconda del paese. Sono anni che il Giappone investe nelle politiche di natalità, eppure la situazione non migliora. In Italia bisogna puntare sulle misure che conciliano il lavoro e la famiglia per le donne: orari più flessibili, servizi di sostegno, permessi speciali. Da noi troppe donne lasciano il lavoro dopo la nascita del primo figlio.”
L’Italia ha già avuto un’emergenza demografica negli anni Novanta. Come l’abbiamo risolta?
“Abbiamo raggiunto il punto più basso in termini di fecondità nel 1995, era molto peggio rispetto a oggi: le donne avevano 1,19 figli di media. Ci siamo ripresi grazie alla crescita economica e alla componente straniera. L’immigrazione è stato il volano della ripresa. Se aumentano gli stranieri, aumenta anche la platea di donne feconde”.
Eppure molti esperti dicono che l’immigrazione non è una soluzione a lungo termine.
“È vero, perché le donne straniere che si stabiliscono in Italia assumono le nostre stesse abitudini, c’è un’omogeneizzazione sociale. Prima o poi il loro tasso di fecondità diventa simile al nostro”.
Ma le donne italiane non vogliono più fare figli?
“No, da noi non c’è stata una perdita culturale del ruolo della maternità. Questo fenomeno lo abbiamo visto altrove, ma non in Italia. Il 98% delle donne in età riproduttiva senza figli vorrebbe averli. Il fatto che ci siano meno matrimoni non influisce sulla natalità. Una larga parte delle nascite vengono dalle coppie non coniugate.”
Allora le cause sono economiche?
“Sono economiche e sociali. Il problema è che il “calendario sociale” non coincide sempre col “calendario biologico”. Naturalmente la fecondità ha dei tempi consigliati: è più difficile avere un bambino in età avanzata. Eppure l’età media in cui le donne hanno il primo figlio è cresciuta molto: 31,1 anni contro 30,1 nel 2008. Ci sono molte coppie che convivono e non hanno figli. In molti casi, quando si ha la volontà di avere un bambino la donna non è più feconda. Il motivo è che c’è una procrastinazione degli eventi della vita: ci si sposa in età avanzata, i giovani entrano tardi nel mondo del lavoro. C’è una chiara relazione tra l’autonomia economica e la possibilità di avere figli”.
Eppure, il vostro rapporto mostra che le nascite sono diminuite di generazione in generazione a partire dagli anni Venti del secolo scorso. È un problema strutturale?
“E’ una tendenza di lungo termine, ma non nella misura in cui siamo arrivati oggi. Nel secolo scorso le donne facevano anche cinque figli, è normale che la media sia diminuita. Oggi invece siamo scesi sotto la soglia di riproduzione, pari a una media di 2,1 figli. L’intensità del problema è molto maggiore.”
L’aumento dell’aspettativa di vita e il calo della natalità indicano che dovremmo andare in pensione più tardi?
“Questo è un problema non solo italiano. Però è evidente che se si assottiglia la base di chi paga per le pensioni, che a loro volta crescono, si pongono nuovi problemi”.
Gregorio Sorgi il foglio 28 novembre 2018
www.ilfoglio.it/societa/2018/11/28/news/l-istat-ci-spiega-perche-gli-italiani-non-fanno-piu-figli-226735
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DIVORZIO
Tempi del divorzio dopo separazione giudiziale
Il tuo matrimonio è finito e ti sei separato legalmente. Desideri iniziare una nuova vita ma vuoi conoscere i tempi del divorzio dopo la separazione giudiziale.
Quando l’amore finisce, una parte del mondo che hai costruito attorno a te deve essere demolito. Accade un po’ come con i templi greci e romani: con l’avvento del cristianesimo, le nuove chiese vennero costruite sulle rovine degli edifici sacri dei pagani. O, se proprio non si vuole pensare ad una vera e propria “ricostruzione”, certamente la rottura di un matrimonio porta con sé una sorta di “ristrutturazione” della propria esistenza. In Italia, però, quando un sodalizio matrimoniale termina non è possibile procedere alla formalizzazione immediata della sua conclusione. In altri termini, non è possibile sul suolo italiano il cosiddetto divorzio immediato, cioè, quello che permette di divorziare senza dover passare prima dalla fase della separazione personale, tranne che in casi eccezionali. Ma quale è il senso di questo obbligo? Cioè, perché devi separarti prima di poter divorziare? Soprattutto, quando la fine del matrimonio è voluta da ambo i coniugi! La domanda è legittima se si pensa al fatto che, finché sei separato, rimani formalmente ancora ‘sposato’ col tuo ex partner. E, ad esempio, se uno dei due coniugi separati muore, l’altro ne diventa erede come se fosse ad esso ancora legato, tranne nei casi di separazione con addebito di responsabilità. È solo col divorzio che il coniuge non può più essere erede. Il motivo è il seguente: il legislatore tendenzialmente favorisce tutto ciò che determina stabilità nella società. E costruire una famiglia è come creare una piccola società che, pertanto, la legge vorrebbe vedere cementata e salda. Ecco perché, da sempre, la separazione viene vista come una sorta di ‘limbo’ nel quale si dà alle parti il tempo necessario di pensare ancora se vogliono definitivamente rompere il proprio rapporto. Ma quando il legale affettivo è veramente terminato, non c’è altro da fare che formalizzare questo cambiamento e stabilizzare il nuovo assetto familiare. Dunque, vediamo quali sono i tempi divorzio dopo separazione giudiziale o consensuale e quali tipi di modalità per divorziare si possono scegliere.
Il divorzio in Italia e all’estero. Come anticipato nell’introduzione, il principio di base, ad eccezione di casi davvero particolari, è che la fine di un matrimonio passa prima attraverso il procedimento della separazione personale. Sia essa consensuale, cioè concordata dalle parti in tutti i suoi aspetti (affidamento dei figli, assegno di mantenimento, assegnazione della casa coniugale ecc.), o giudiziaria, cioè pronunciata a seguito di un vero e proprio processo dal tribunale competente.
Si è avuto modo anche di precisare che mentre la separazione in un certo senso ‘sospende’ il matrimonio (tanto è vero che può sempre avvenire la ‘riconciliazione’, che si ha quando i partner riprendono la vita coniugale), il divorzio lo scioglie definitivamente e cessano gli effetti legali, cioè, l’insieme dei diritti e dei doveri nascenti dal matrimonio, come la fedeltà, l’uso del cognome del marito ecc.
Quando si divorzia si possono sentire due diverse espressioni giuridiche che, in verità, fanno riferimento agli stessi effetti, cioè, si parlerà di scioglimento del matrimonio in caso di coniugio in comune, cd. matrimonio civile, o di cessazione degli effetti civili del matrimonio in caso di matrimonio religioso o concordatario.
Entro quanto tempo si può divorziare? La legge introduttiva dell’istituto giuridico del divorzio è del 1970 [L. n. 898/19701] che stabiliva, termine valido fino a qualche anno fa, che tra la separazione personale ed il divorzio dovessero intercorrere non meno di 3 anni.
Ci vuole il 2014 [L. n. 162/2014 di conversione del D. L. n. 132/2014] perché in Italia sia introdotta la negoziazione assistita che consente di spostare alcuni contenziosi, tra cui la separazione e lo stesso divorzio, dalle aule del tribunale negli studi degli avvocati o nel comune.
Scherzosamente alcuni avvocati sono soliti definire la negoziazione assistita in materia di scioglimento del matrimonio come ‘divorzi in house’, cioè divorzi ‘in casa’, proprio perché gestiti dalle parti e dai loro legali di fiducia.
Grazie alla legge col divorzio breve [L. n. 55/2015] i tempi per dirsi addio sono stati notevolmente ridotti. In particolare per divorziare è necessario aspettare sei mesi o un anno a seconda che la separazione sia stata rispettivamente “condivisa” (o meglio, consensuale) o “giudiziale”.
Se decidi di separarti con l’accordo del tuo ex, e quindi di fare tutto in modo consensuale, il termine per poi divorziare è di sei mesi. Questi sei mesi decorrono:
Se ti separi in tribunale, dall’udienza davanti al giudice che è anche l’unica udienza;
Se ti separi in Comune, dall’ultimo incontro che hai davanti al sindaco, quello in cui firmi l’atto di separazione;
Se ti separi con l’atto scritto dagli avvocati (negoziazione assistita), dalla data che risulta riportata su tale accordo.
Se invece ti separi con una causa, e quindi in tribunale, il termine per divorziare è di dodici mesi. Questo termine decorre dalla prima udienza e non dalla sentenza finale. La prima udienza è quella che avviene davanti al presidente del tribunale che tenta di trovare un accordo tra le parti.
In pratica: il legislatore premia chi è più disponibile e, quindi, ‘concorda’ con l’ex partner le condizioni di separazione. In questo caso, infatti, gli viene permesso di divorziare dopo solo 6 mesi. Invece, chi non riesce a trovare un accordo col suo ex, non solo deve attendere i più lunghi tempi dell’intero processo per avere la sentenza di separazione, ma anche per divorziare dovrà aspettare 12 mesi (e non 6).
Quanto tempo deve trascorrere per divorziare in Italia? Quindi, si può accedere al divorzio, consensuale o giudiziale, o dopo 12 mesi, termine lungo, se la separazione è stata giudiziale, quindi, contenziosa; oppure dopo 6 mesi, termine breve, se la separazione è stata consensuale, cioè concordata tra le parti. Ma, ancora più nello specifico:
Se hai trovato un accordo con il tuo partner per la separazione (nota come separazione consensuale), e quindi ti sei recato personalmente in tribunale una unica volta, alla cd. Udienza dinanzi al presidente del tribunale, il termine di 6 mesi, decorre proprio da quella data;
Se hai iniziato a separarti con un giudizio vero e proprio ma poi hai trovato un accordo col tuo partner, vuol dire che la separazione inizialmente giudiziale è stata trasformata in consensuale, quindi, il termine di 6 mesi decorre dalla data in cui hai firmato, sempre nella udienza davanti al presidente del tribunale (o altro giudice da lui delegato), la separazione col tuo ex;
Invece, se ti sei separato in Comune, davanti all’ufficiale dello stato civile, il termine di 6 mesi decorre non dal primo incontro ma dall’ultimo giorno in cui ti sei recato negli uffici comunali (quella è, infatti, la data dell’accordo di separazione);
Se hai firmato la tua separazione davanti al tuo avvocato ed a quello del tuo ex coniuge, vuol dire che hai fatto una separazione con negoziazione assistita ed il termine di 6 mesi parte proprio dalla data dell’accordo sottoscritto da te, dal tuo partner e dai due avvocati;
Se, infine, hai dovuto attendere la fine di un lungo processo per poter dire addio al tuo ex, vuol dire che hai fatto una separazione giudiziale e, quindi, il termine è non più di 6 bensì di 12 mesi, che iniziano a decorrere dalla data in cui sei comparso personalmente alla prima udienza in tribunale (quella che in diritto si chiama udienza di comparizione dinanzi al presidente del tribunale).
Ma cosa accade se i due partner, dopo la avvenuta separazione, ricominciano a convivere come coppia? Bene, in questo caso si verifica quello che in diritto viene definito riconciliazione e che ha come conseguenza -tra le altre- quella di annullare, di fatto, gli effetti della separazione.
Infatti, dopo che si è proceduto alla separazione personale tra coniugi (non importa se consensuale o giudiziale) che ha sospeso gli effetti del matrimonio, se i partner tornano a comportarsi ed a vivere come se fossero ancora una coppia, ad esempio, riprendendo la convivenza e la comunione di intenti, oppure, passando assieme le festività o le vacanze o, ancora, ricominciando ad avere rapporti sessuali come se fossero marito e moglie, pongono nel nulla, senza necessità di passare tramite il tribunale, la precedente separazione. Questo perché c’è riconciliazione quando le parti assumono una condotta, anche di fronte ai terzi, che è incompatibile con la volontà di separarsi.
La riconciliazione, nei casi sopra descritti, avviene per “fatti concludenti”, cioè, per fatti che manifestano inequivocabilmente la volontà di tornare assieme. Può essere anche scritta, ad esempio, mediante la redazione di un vero e proprio verbale di riconciliazione. Ma ciò che conta è che, in tutti questi casi, il fenomeno porta nel nulla gli effetti della separazione, tra cui, l’inizio del decorso del termine breve o lungo per richiedere il divorzio. Quindi, ad esempio, se dopo essersi separati anche giudizialmente ed aver ottenuto la sentenza, la coppia riprende a convivere come coniugi, dopo il decorso dei 12 mesi dalla udienza di comparizione davanti al presidenza del tribunale, da nessuno dei due potrà essere richiesto il divorzio perché l’altro potrà opporsi, provando l’avvenuta riconciliazione.
Se, quindi, dopo la riconciliazione uno dei partner volesse divorziare, dovrebbe ricominciare tutto da capo, e procedere sempre prima con la separazione (pagando nuovamente l’avvocato, ad esempio) poi, eventualmente, al decorso il termine di 6 mesi, se la separazione è consensuale, o di 12 mesi, se è giudiziaria, avanzare domanda di divorzio. Insomma una volta che si è deciso, i tentennamenti possono costare caro.
I tempi del divorzio all’estero. Con l’introduzione del divorzio breve, l’Italia ha voluto ridurre i lunghi tempi necessari per ottenere lo scioglimento del matrimonio per avvicinarsi, più o meno, alle tempistiche delle legislazioni dei Paesi più vicini. Infatti, ad esempio, in Germania, dopo la separazione consensuale, scatta il divorzio al decorso di 1 anno; in Spagna, invece, se il divorzio è consensuale, non serve la separazione; o, ancora, in Gran Bretagna dove c’è il divorzio immediato, cioè, a cui si può accedere senza necessariamente passare prima dalla separazione.
I tipi diversi di divorzio. Quindi, si è avuto modo di vedere che la tempistica necessaria per richiedere il divorzio, in caso di separazione giudiziale, è superiore e, precisamente pari al doppio, della identica situazione risolta con la separazione consensuale: richiedendo il primo il decorso di dodici mesi ed il secondo solo sei mesi. Ma vediamo di conoscere, anche, quali tipi di divorzio esistono in Italia e quale si adatti maggiormente alla tua situazione.
Il divorzio immediato. La regola –lo abbiamo già detto- è che si arriva al divorzio solo dopo aver esperito la separazione. Però, esistono alcuni casi particolari di divorzio immediato in cui il passaggio obbligato della separazione può essere evitato.
Sia chiaro che si tratta di ‘casi limite’ potendo ottenersi, infatti, in caso di:
Mancata consumazione del matrimonio (i partner, cioè, non hanno avuto rapporti sessuali);
Avvenuto annullamento o scioglimento del matrimonio celebrato all’estero, ottenuto dal coniuge cittadino straniero;
Condanna del partner dopo il matrimonio, con sentenza passata in giudicato, cioè, non più impugnabile, per reati particolarmente gravi, come violenza sessuale o atti sessuali con minorenne o corruzione di minorenne o omicidio volontario di un figlio o tentato omicidio a danno di un figlio o del coniuge ecc.;
Se il partner cambia sesso ed ha ottenuto sentenza definitiva di ‘rettificazione di attribuzione di sessò, provvedimento col quale il tribunale ordina la modifica anagrafica del sesso del coniuge.
Divorzio giudiziale. Si tratta della forma di divorzio percentualmente più utilizzata dagli italiani e si ha quando le parti demandano al tribunale la assunzione delle decisioni sulle condizioni dello scioglimento del matrimonio, come l’affidamento dei figli, la determinazione dell’assegno divorzile, la regolazione di tutti i rapporti economici ecc., perché sono in disaccordo. Si tratta, come nella separazione giudiziale, di un procedimento che ha due fasi: la prima, davanti al presidente del tribunale, che deve sempre tentare la conciliazione tra le parti (al 95% fallimentare); e la seconda davanti al giudice istruttore che deciderà con provvedimento finale che avrà la forma della sentenza e che, come quest’ultima, sarà soggetta ad eventuale impugnazione.
Divorzio congiunto o divorzio consensuale. Il divorzio congiunto è la forma di scioglimento del matrimonio auspicabile per qualunque coppia perché si ha quando le parti, da soli o con l’aiuto di mediatori familiari o di avvocati, concordano tutte le condizioni di divorzio, senza fare guerra. Ed è un procedimento che può avvenire: dinanzi al tribunale oppure davanti all’ufficiale di stato civile in comune o, ancora, tramite negoziazione assistita con l’ausilio di avvocati o mediatore familiare.
Negoziazione assistita. Le fasi della negoziazione assistita, che va da un minimo di 1 mese ad un massimo di 3 mesi, prorogabili, sono le seguenti:
Prima di tutto, si deve trovare un accordo con l’aiuto di legali o di un mediatore familiare;
L’accordo deve necessariamente essere scritto (altrimenti è nullo, cioè, come se non esistesse) e deve coinvolgere come minimo due legali, perché ogni parte deve essere assistito da un avvocato. Non è possibile concludere, in altri termini, la negoziazione con un solo avvocato;
L’accordo, poi, deve essere depositato presso la Procura della Repubblica competente per ottenere l’autorizzazione, se vi sono figli, od il nulla osta, se si è senza figli, da parte del pubblico ministero;
L’accordo, entro 10 giorni dalla sottoscrizione della autorizzazione o del nulla osta del pubblico ministero, viene inviato all’ufficiale di stato civile del comune dove è stato celebrato il matrimonio, che dovrà provvedere alla annotazione del divorzio a margine dell’atto di matrimonio;
Una volta ricevuta la comunicazione di avvenuta trascrizione, si chiede ed ottiene il rilascio di copia autentica (cioè, di copia conforme all’originale) dell’accordo di divorzio;
L’efficacia del divorzio decorre dal giorno della sottoscrizione dell’accordo.
I vantaggi della negoziazione assistita in materia di divorzio sono diversi tra cui: il fatto che non ci si deve recare in tribunale; la quasi assenza di stress; il fatto che la procedura va avanti tramite gli avvocati, che si occuperanno di ogni problema burocratico; la tempistica inferiore per arrivare alla conclusione del procedimento; il costo ridotto del compenso per i legali.
Divorzio in comune. Come abbiamo visto, è stato introdotto con legge del 2014 il divorzio consensuale che si conclude presso il comune, davanti all’ufficiale di stato civile, e che è possibile solo se, nel caso di specie, ci sono i seguenti requisiti:
La coppia non ha figli;
I partner rendono la dichiarazione di voler divorziare.
Questa dichiarazione viene inserita nel verbale redatto dall’ufficiale dello stato civile ed il divorzio è efficace a far data dalla sottoscrizione del patto.
Divorzio con coniuge irreperibile. È possibile ottenere il divorzio anche se hai perso le tracce del tuo coniuge. Ciò avviene, soprattutto, nei matrimoni tra persone di nazionalità differenti o dopo le separazioni di fatto (cioè quando i partner si allontanano, iniziando ognuno una nuova vita, senza formalizzare alcunché), perché sono le ipotesi in cui è più facile che i coniugi scappino senza lasciare notizia di sé. Per concludere la procedura di divorzio, in caso di scomparsa o di assoluta irreperibilità del coniuge, è necessario generalmente un anno.
Il divorzio con procura. E come puoi fare se vuoi divorziare ma il tuo coniuge, ad esempio, vive all’estero oppure ha seri problemi di salute o altre complicazioni che gli impediscono di presenziare? Nessun dilemma perché esiste il divorzio per procura. Sicuramente il caso più comune è quello della procura a divorziare che viene rilasciata dalla autorità consolare a chi è residente all’estero. In pratica, la procura permette alla persona delegata di poter procedere alle dichiarazioni del caso, anche in assenza del soggetto delegante, quindi finanche in tema di divorzio. Ma attenzione: il divorzio per procura è possibile solo se si tratta di divorzio consensuale.
Samantha Mendicino La legge per tutti 29 novembre
www.laleggepertutti.it/249716_tempi-divorzio-dopo-separazione-giudiziale
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FIGLIO NATURALE
Avere un figlio senza essere sposati: diritti e doveri
Ai figli naturali, nati in una coppia legata sentimentalmente ma non sposata, o da un’unione civile, sono riconosciute le stesse tutele dei figli legittimi concepiti in seguito alle nozze? Vediamo come il legislatore si sia a lungo occupato di eliminare le disparità esistenti tra le due tipologie di soggetti (figli nati nel matrimonio e figli nati fuori). Avere un figlio senza essere sposati infatti non dovrebbe comportare alcuna modifica nei diritti e doveri. Il legame che unisce i genitori ai figli è duraturo e continuo sia che il bambino sia stato messo alla luce durante una convivenza sia che sia stato concepito all’interno del matrimonio. Pertanto, ad un figlio naturale, ossia nato da una coppia di fatto, non sposata, ma convivente, sono riconosciute le stesse tutele di un figlio legittimo nato all’interno del matrimonio.
I genitori, entrambi responsabili, devono garantire, oltre all’educazione, sufficiente per crescerlo in un ambiente sereno ed equilibrato, anche il benessere economico per assicurargli cure adeguate, istruzione scolastica e sviluppo delle inclinazioni naturali.
Quello che potrebbe cambiare nel tempo è il vincolo sentimentale che lega la coppia. Infatti se uno dei due conviventi decide di interrompere il rapporto può farlo senza adempiere a formalità burocratiche, senza ricorrere al giudice, al tribunale e senza subire i costi e le noie che un divorzio comporta. L’ordinamento riconosce alla coppia non sposata, ma convivente, il diritto di risolvere i propri conflitti mediante la mediazione familiare. La mediazione è un modo che consente ai conviventi di superare i loro problemi con l’aiuto di un terapeuta esperto nella gestione delle crisi familiari. Quando i conviventi saranno ricevuti dal terapeuta, nella prima fase del colloquio, dovranno parlare delle loro preoccupazioni separatamente; successivamente, entrambi, saranno ascoltati congiuntamente. Questa procedura consente al terapeuta di capire le motivazioni all’origine dei loro problemi e giungere ad una soluzione. In alcuni casi, il terapeuta suggerisce alla coppia di conviventi di iniziare un nuovo percorso basato sul dialogo, sulla tolleranza e sulla pazienza reciproca. In altri casi può dare indicazioni su come separarsi e gestire la fine del loro rapporto senza essere irrispettosi e arrecare danno ai figli. La coppia di conviventi può rivolgersi anche al Giudice, che aiutato da psicologi e assistenti sociali ascolterà il figlio minore, che abbia compiuto dodici anni; la finalità è quella di ristabilire l’ambiente, sano e familiare, adatto allo sviluppo e all’equilibrio psico-fisico del bambino. Sono stati compiuti molti passi avanti per riconoscere, sia dignità a tutti coloro che, pur non avendo contratto matrimonio, sono legati sentimentalmente e desiderano costruirsi una famiglia, sia una tutela giuridica e sociale al figlio naturale. Ora vediamo insieme quali sono le garanzie previste dalla legge per avere un figlio senza essere sposati: diritti e doveri e in che modo è stato possibile ottenere il loro riconoscimento.
Chi è la coppia di fatto e quali requisiti deve possedere? La coppia di fatto si identifica in due persone, legate da un sentimento, che decidono di vivere insieme senza sposarsi, ma che hanno uno stabile e solido legame affettivo, tale che li induce a scegliere di abitare nella stessa casa come una famiglia.
Entrambi promettono di assistersi reciprocamente in caso di malattia; di aiutarsi economicamente; di contribuire ciascuno a seconda delle proprie capacità di reddito ai costi di gestione della casa, quali: elettricità, acqua, gas, riscaldamenti; alle spese per l’acquisto degli alimenti, alla cura e alla pulizia dell’abitazione, ai costi di riparazione ordinarie e manutenzione straordinaria della casa in cui vivono.
Requisiti della coppia di fatto. Affinché sia riconosciuta la coppia di fatto è fondamentale possedere i seguenti requisiti:
Le due persone che decidono di lasciare le rispettive abitazioni di origine, esempio la casa nella quale convivono con i loro genitori, oppure il monolocale in cui uno dei due conduce una vita da single, per andare a vivere insieme, devono aver raggiunto la maggiore età;
La coppia deve essere legata da un vincolo sentimentale solido e stabile al fine di promettersi reciproca assistenza materiale e morale;
Non devono essere già unite in matrimonio con un’altra persona;
Se una delle due persone è unita civilmente o sposata con un’altra persona, affinché la nuova unione possa essere considerata convivenza di fatto è necessario non la semplice separazione dall’altro coniuge, ma il divorzio.
Chi è il figlio naturale? Il figlio naturale è il figlio nato fuori dal matrimonio in una famiglia di fatto che ha diritto di ricevere le stesse tutele, cure e assistenze di un figlio concepito all’interno del matrimonio.
Il figlio naturale ha diritto di essere mantenuto, non solo fino a quando è minorenne, ma anche oltre, infatti qualora abbia compiuto la maggiore età e non sia in grado di provvedere da solo a sé stesso ha diritto di ricevere gli alimenti [Art. 279 cod. civ.].
Il figlio anche se è stato concepito quando i due conviventi erano già uniti in matrimonio ad altre persone può essere riconosciuto dalla madre o dal padre e gli verrà attribuito il cognome del genitore che lo ha riconosciuto per prima; se entrambi, nello stesso momento, provvedono al riconoscimento, gli spetterà il cognome del padre.
Tipologie di famiglie: riconoscimento unico stato giuridico di figlio. La nostra cultura è stata per anni condizionata dal concetto di famiglia allargata composta non solo da padre, madre e figli, ma anche da parenti e affini [Art. 78 cod. civ.].
Nel corso degli anni la famiglia si è evoluta e siamo passati ad una tipologia di famiglia nucleare ristretta, ossia costituita da padre, madre e figli. Una famiglia nucleare che ha ricevuto attenzione dall’ordinamento giuridico da sempre; infatti il nostro codice civile ha offerto tutele adeguate alla coppia coniugata e ai figli legittimi nati all’interno del matrimonio. Con il tempo, i cambiamenti culturali e sociali, hanno spinto le persone a superare l’idea di famiglia tradizionale a cui erano abituati, per arrivare ad accettare il riconoscimento della famiglia di fatto, composta da due persone che vivono insieme ma non sono sposate.
Oggi, infatti, per merito di recenti disposizioni legislative [3 L. n. 219, 10.12.2012] sono stati riconosciuti ai figli naturali gli stessi diritti e doveri dei figli legittimi. Questo è stato possibile eliminando dal codice civile la suddivisione di figli in legittimi e in naturali. La distinzione, infatti, ammetteva una diversità tra gli stessi. Ora è stata introdotta solo la parola figlio riferendosi ad entrambi e garantendo un unico stato giuridico per tutti.
Quali sono gli obblighi e le responsabilità dei genitori non sposati? Qualora i genitori non siano uniti in matrimonio hanno l’obbligo di provvedere al mantenimento dei propri figli per il solo fatto che li hanno concepiti [Cass. Civile n. 5652, 10.06.2012]
Il figlio naturale acquisisce fin dalla nascita i suoi diritti ad essere mantenuto, educato, istruito, assistito economicamente e moralmente. I genitori sono entrambi responsabili e obbligati nei confronti dei figli a provvedere, ciascuno in proporzione alle risorse, alla crescita del proprio figlio. Il genitore che lavora aiuterà il figlio in proporzione al suo reddito, l’altro si dedicherà al figlio con tutto il suo apporto casalingo.
Quali sono i diritti del figlio? La coppia non sposata deve tutelare il figlio e rispettare i seguenti diritti riconosciuti [Art. 315-bis cod. civ.]:
Ha diritto di essere mantenuto per il suo sostentamento economico;
Ha diritto di ricevere una scrupolosa educazione che gli consentirà di integrarsi nella società civile e di relazionarsi agli altri;
Ha diritto ad essere istruito. I genitori, infatti, devono impegnarsi costantemente per seguirlo in tutte le attività scolastiche obbligatorie e consigliargli successivamente il percorso di studi adatto alle sue capacità;
Ha diritto di essere assistito moralmente dai genitori, i quali gli staranno accanto nelle decisioni più importanti, rispettando le sue inclinazioni naturali e le sue aspirazioni;
Ha diritto di crescere in un ambiente familiare sereno e di mantenere legami affettivi importanti con i parenti;
Ha diritto, qualora abbia compiuto dodici anni o, se inferiore, dimostri di avere una capacità di giudizio superiore alla media, di essere ascoltato in sede giudiziale qualora vi siano problemi o questioni da risolvere che lo coinvolgono nell’ambito della sua famiglia.
Quali sono i doveri del figlio? I doveri del figlio sono i seguenti:
Il figlio deve rispettare i genitori. Questo è un dovere dettato da sentimenti di gratitudine e di amore che il figlio prova per i genitori. Non è un obbligo imposto dalla legge, infatti, nel caso in cui il figlio non rispetti i genitori non va incontro a sanzioni, né tanto meno i genitori vengono meno ai loro obblighi di mantenimento, istruzione, educazione, assistenza morale e sviluppo delle inclinazioni naturali del figlio;
Quando un genitore non riesce da solo a pagare i generi alimentari: pasta, pane, uova, latte, carne, pesce, frutta, verdure, ortaggi e legumi che gli garantiscono una nutrizione equilibrata. Quando non riesce a comprare una maglia, un pantalone, delle scarpe o a pagare le bollette di base: elettricità, gas, acqua, riscaldamenti, il figlio deve aiutare il genitore anziano, privo di pensione o con una pensione bassa. La legge prevede che il figlio decida se corrispondere un assegno periodico al padre bisognoso oppure se accoglierlo nella propria casa. Qualora il figlio faccia mancare gli alimenti al padre, venendo meno ai suoi obblighi di assistenza familiare, commette una violazione che viene punita con la reclusione fino a un anno e una multa da euro 103 a euro 1.032;
Il figlio, deve provvedere, in proporzione alle sue reali capacità di reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa. Tuttavia non è tenuto a prestare gli alimenti qualora il genitore decada dalla responsabilità genitoriale [Art. 448-bis cod. civ.]. La responsabilità dei genitori nei confronti dei figli sorge sin dalla nascita del figlio, infatti entrambi, madre e padre, sono obbligati ad occuparsi del figlio, a proteggerlo, a prendersi cura di lui, a provvedere alla sua crescita, non solo fin quando il figlio è minore, ma sono vincolati anche se il figlio è maggiorenne; ossia fino a quando non raggiunge l’indipendenza economica e non è in grado di provvedere da solo a sé stesso. Il figlio non può abbandonare la casa dei genitori fino alla maggiore età, nel caso in cui il figlio minore si allontani da casa senza il loro permesso, i genitori, responsabili della sua salute, possono far intervenire il giudice tutelare. Il giudice dichiara la perdita della responsabilità genitoriale e, di conseguenza, di tutti i diritti e i doveri sul figlio, quando il genitore non se ne prende cura. Quando non lo protegge, anzi lo maltratta, lo trascura; non si occupa di guarirlo, con adeguate medicine, in caso di malattia; non provvede alla sua alimentazione, non lo assiste economicamente e moralmente, non lo segue nell’istruzione scolastica, né lo incentiva a sviluppare le sue attitudini naturali. Esempio, se il figlio mostra una inclinazione naturale per la musica, per la danza o per il teatro, il genitore potrebbe fargli frequentare corsi di recitazione oppure seguire le lezioni di musica o di danza ma non lo incoraggia e non lo accompagna nelle rispettive scuole o accademie.
Quali tutele normative riceve la convivenza di fatto? E’ stata introdotta una legge [L. n. 76, 20.05.2016] che riconosce alle convivenze di fatto gli stessi diritti e doveri delle coppie sposate. Questa disciplina normativa ha segnato il superamento di un dettato costituzionale che tutelava i diritti solo della famiglia naturale fondata sul matrimonio [Art. 29 Cost.]. Sarebbe quasi opportuno parlare non più di coppia di fatto ma di convivenza di diritto in quanto le stesse ora trovano espressione in una legge statale. Per accertare il concreto e continuativo vivere insieme, i conviventi devono recarsi al proprio Comune di residenza e presentare una dichiarazione anagrafica, ossia un modulo compilato e firmato da entrambi, che deve riportare i dati personali: nome, cognome, data e comune di nascita, indirizzo di residenza dei componenti della famiglia di fatto; al fine di dimostrare che i conviventi abitino nella stessa casa.
E’ l’equivalente dello stato di famiglia, per le coppie unite in matrimonio.
Cos’è il contratto di convivenza? Il contratto di convivenza è un accordo con il quale i due conviventi decidono di stabilire in che modo gestire la propria quotidianità. Infatti i due conviventi sono liberi di regolare i rapporti patrimoniali come ritengono più opportuno. Tale accordo di convivenza è facoltativo; infatti la coppia di conviventi che non vuole stipulare un contratto per regolare la loro unione non è vincolata a farlo. E’ a discrezione delle parti conviventi.
La mancanza di un patto di convivenza scritto non comporta sanzioni. Tuttavia quando la coppia di fatto decide di disciplinare la convivenza tramite un contratto è obbligatorio che contenga i seguenti elementi:

La residenza dei conviventi di fatto;
Le modalità con le quali ognuno contribuisce a soddisfare le esigenze alimentari, sanitarie, mediche, di cura dell’abitazione e riparazioni ordinarie della casa in cui vivono, in proporzione alle proprie capacità di reddito;
Il regime patrimoniale scelto: comunione legale o separazione dei beni;
L’indirizzo di residenza presso il quale intendono ricevere le comunicazioni;
L’introduzione di un termine di durata e condizione. Le parti stabiliscono che il contratto di convivenza è a tempo indeterminato però lo stesso si risolve al verificarsi delle seguenti situazioni: quando i due decidono di sposarsi o di unirsi civilmente; quando un convivente decide di sposarsi con un’altra persona; quando uno dei due muore; quando uno dei contraenti decide di recedere dal contratto di convivenza o quando di comune accordo decidono che il rapporto di convivenza sia terminato.
Una coppia di fatto senza contratto di convivenza conserva il regime di separazione dei beni; ciascun convivente è proprietario esclusivo dei propri beni.
Come deve essere redatto e da chi? Il contratto di convivenza deve essere redatto per iscritto, assume la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che controllano che i contenuti del contratto rispettino le norme della legalità e che non siano contrari ai principi del buon costume. Solo in questo modo è consentito attivare immediatamente la procedura di esecuzione forzata se uno dei due conviventi non adempie agli obblighi assunti. Successivamente il professionista provvederà a trasmettere copia del contratto al Comune di residenza dei due conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.
Quali sono i diritti del convivente? Al convivente oggi sono riconosciuti i diritti personali, patrimoniali e successori, gli stessi attribuiti al coniuge. Vediamo nel dettaglio quali sono i primi:
Il diritto di fare visita al proprio amato in caso di ricovero in ospedale o di malattia di quest’ultimo;
Il diritto di essere informato sullo stato di salute del proprio convivente;
il diritto di essere nominato suo rappresentante, nel caso la persona abbia una ridotta capacità di intendere e di volere a causa della malattia, e non possa decidere da solo sullo stato della propria salute; esempio quando non può scegliere in maniera autonoma se sia opportuno interrompere o meno un trattamento medico, se sia giusto scegliere una terapia diversa da quella seguita, o se donare i suoi organi, in caso di morte, o ancora la modalità di trattamento del proprio corpo [L. n. 219, 22.12.2017], e disposizioni in merito alla celebrazione di un eventuale funerale;
Il diritto di essere nominato tutore qualora il convivente versi in stato di interdizione o di inabilitazione.
Diritti patrimoniali.
Al convivente è attribuito il diritto di lavorare nell’azienda di famiglia dell’altro coinquilino, se vi lavora in maniera stabile ha il diritto di essere retribuito, di partecipare agli utili e agli incrementi aziendali, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto. Questa importante novità introdotta nel nostro codice civile [Art. 230 ter cod. civ.], risponde alla ingiusta disciplina [Cass. civile sez. lavoro sent. n. 5632, 15.03.2006], che prevedeva che il lavoro svolto dal convivente di fatto, all’interno dell’ambito familiare, dovesse essere gratuito, in quanto le prestazioni lavorative del convivente sono considerate offerte per fini di solidarietà, di aiuto all’altro convivente al quale è legato da vincoli affettivi, e non hanno natura di rapporto di lavoro subordinato per le quali sono previste prestazioni retribuite;
Il convivente di fatto è preferito, in caso di assegnazione delle case popolari, qualora l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo di preferenza;
Ha diritto di ricevere un risarcimento nel caso in cui il convivente muoia a causa di un fatto illecito compiuto da terzi.
Cosa succede al convivente e ai figli dopo il decesso dell’altro? Al convivente e ai figli sono riconosciuti i diritti successori. Nello specifico il convivente, dopo il decesso dell’altro, conserva il diritto di abitare nella casa in cui ha vissuto e ha stabilito la comune residenza con il convivente deceduto. L’unica eccezione è rappresentata dalla presenza di figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti.
In questo caso, infatti, su provvedimento giudiziale che consegue alla cessazione del rapporto di convivenza, viene stabilito che il convivente non può abitare nella casa, ma conserva sulla stessa un diritto personale di godimento, perché il diritto di abitazione è riservato ai figli.
Qualora non siano presenti i figli, il convivente ha diritto di continuare ad abitare nella casa per un periodo pari alla convivenza e comunque non oltre i cinque anni. Se con la coppia coabitassero anche figli minori o disabili del convivente superstite, quest’ultimo avrebbe diritto di continuare ad abitare nella casa per un periodo non superiore a tre anni.
Il convivente perde il diritto di abitazione quando decide di sposarsi, di unirsi civilmente o quando inizia una nuova convivenza.
Al convivente di fatto viene riconosciuto il diritto di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza. Il convivente prima di morire può dichiarare nel testamento che l’erede dei suoi beni sia il convivente di fatto, in questo caso però prima di realizzare la volontà del convivente deceduto occorre valutare che non siano presenti i legittimari e di non ledere i diritti che la legge riconosce loro [Artt. 536 e ss. cod. civ.].
Redazione La Legge per tutti 28 novembre 2018
www.laleggepertutti.it/250339_avere-un-figlio-senza-essere-sposati-diritti-e-doveri
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MEDIAZIONE FAMILIARE
La violenza psicologica nelle relazioni di coppia e l’utilità dei percorsi di mediazione familiare
La violenza psicologica è il tentativo di controllare l’altra persona senza ricorrere alla violenza fisica, ma mediante minacce e intimidazioni, ricatti, atteggiamenti e comunicazioni squalificanti e offensivi. La violenza psicologica, quindi, non utilizza la forza fisica.
La violenza psicologica nelle relazioni di coppia. Si manifesta soprattutto con parole e con atteggiamenti e atti volti a piegare la volontà altrui in termini complessivi, cioè ad alterare o perfino annullare la capacità decisionale, l’indipendenza e l’autostima della vittima. Sul piano concreto tale violenza si estrinseca nel tentativo di sopprimere la libertà altrui, esercitando uno stretto controllo sulle sue frequentazioni, sul suo comportamento in diversi contesti. Quindi, nelle relazioni di coppia, il partner psicologicamente violento può essere incline ad una sorveglianza stretta sui mezzi finanziari dell’altro, ma può anche cercare di controllare e manipolare i gusti, il pensiero, il tempo, insomma, la vita della sua vittima.
Le persone vittime di violenza psicologica da parte del loro partner assai spesso non sono prese sul serio o non sono credute da coloro che le circondano. Così, non beneficiando di un approccio adeguato, finiscono col sentirsi abbandonate e giungono anche a ritenere giusta o naturale la violenza cui sono sottoposte, colpevolizzandosi per quanto subiscono.
Per chi si trova ad ascoltare queste persone nel tentativo di supportarle, infatti, oltre alla loro sofferenza soffocata e ad altri aspetti strettamene connessi alla violenza posta in essere dai partner, emergono altri due aspetti: il primo è che spesso sono circondate da soggetti che le considerano incoerenti nei loro sentimenti verso il partner e che ritengono che esse abbiano una certa tendenza a drammatizzare quel che accade loro e ad autocompatirsi. Insomma, sarebbero tendenzialmente orientate a cercare aiuto all’esterno per difficoltà che dovrebbero saper gestire da sole, esagerando tali difficoltà quando non trovano supporto; il secondo, connesso al primo, è che sono assai diffusi degli stereotipi che portano a liquidare la situazione di violenza psicologica subita come un fatto incidentale di poco rilevo, una dinamica di matrice culturale, o come una normale dinamica conflittuale, cioè eventi che sarebbero, secondo il pregiudizio, esasperati nella narrazione proposta dalla vittima, soprattutto quando si tratta di una donna.
Da qualche tempo, assai di più di quanto accadeva in passato, il parlare di conflitto fa venire in mente la mediazione anche a chi non è un addetto ai lavori. Quando si parla di conflitto coniugale, poi, da qualche mese in qua, soprattutto da quando è stato depositato il Ddl n.735 in Senato, viene in mente la mediazione familiare. Proviamo, perciò, svolgere qualche considerazione sul tema della mediazione familiare – che nel disegno di legge proposto come primo firmatario dal senatore Pillon è prevista come obbligatoria per le coppie che non approdano ad una separazione consensuale – e, in particolare, su come chi svolge quella professione si dovrebbe comportare incontrando il fenomeno della violenza psicologica.
Non tutte le mediazioni portano al superamento del conflitto. La realtà del mediatore civile e commerciale, del mediatore penale e del mediatore familiare, è fatta di soddisfazioni come di scacchi, di insuccessi. Di conflitti superati e di conflitti che non si riescono, non si possono o non si devono risolvere e, talora, forse, di conflitti che neppure si dovrebbe tentare di mediare.
Soffermiamoci, però, sul mediatore familiare. Costui opera nel campo della conflittualità familiare, anzi, più precisamente, agisce in maniera elettiva in quello dei conflitti interni alle coppie che hanno dei figli di minore età e che, interessate da una vicenda separativa, non riescono a conseguire autonomamente un accordo rispetto a questioni economico-finanziarie e/o alla gestione del rapporto con i figli.
Ebbene, in questo specifico ambito della mediazione, succede talora che l’intervento mediativo non esiti in una soluzione concordata degli aspetti controversi. Le ragioni possono essere le più diverse. Possono spaziare dall’inefficacia dell’azione mediativa per motivi attribuibili al mediatore – quando, cioè, il percorso di mediazione è declinato con modi e in maniera tali da incrementare la conflittualità già presente o, comunque, da non riuscire a contenerla -, alla presenza di una oggettivamente irriducibile ostilità tra gli attori del conflitto, oppure alla presenza di una condizione che dovrebbe precludere alla radice lo sviluppo di un percorso di mediazione familiare.
Quest’ultimo caso è, soprattutto, quello della violenza nelle sue varie forme, inclusa quella psicologica.
Non è detto che la vittima si riconosca come tale. Occorre tenere presente che non è affatto detto che la donna vittima di violenza “sappia” di esserlo. In tal caso, andrebbero esplorati aspetti vittimologici di primaria importanza. Qui ci si può limitare ad osservare che è tutt’altro che infrequente che, ad esempio, la donna vittima di violenza (sia esso “solo” o anche psicologica) patisca e soffra non soltanto per le botte e/o le minacce, ma anche per i soprusi, le umiliazioni, le restrizioni, la de-umanizzazione di cui è fatta oggetto, senza arrivare, però, a rappresentarsi come vittima di una condotta violenta, cioè di un comportamento intollerabile e inescusabile. A volte a tale mancato riconoscimento di sé come vittima di un comportamento lesivo ingiusto concorre il mancato riconoscimento, della sua condizione di vittima di violenza, da parte dei famigliari e/o degli amici o conoscenti. Spesso il mondo che la circonda le comunica che quanto le accade non è una cosa ingiusta, che è lei che la vive in maniera esasperata, che il partner ha soltanto un carattere “focoso” o “forte”, che in qualche modo “lei se le cerca”.
Neppure è raro che – per quanto sensibilmente cresciuta la consapevolezza e la preparazione degli operatori della sanità, delle forze dell’ordine, del diritto e dei servizi sociali ed educativi sull’accoglienza e il riconoscimento delle vittime di violenza – le vittime si trovino di fronte del personale che, non soltanto non le aiutano, ma, talora, addirittura, assuma atteggiamenti che ne pregiudicano le possibilità di difendersi.
Tale ultimo aspetto si amplifica nel caso, decisamente complesso e drammatico, della violenza psicologica.
La (ancora largamente) misconosciuta e disconosciuta violenza psicologica. Il fenomeno della violenza psicologica nelle relazioni affettive o intime, infatti, è ancora oggi caratterizzato da scarsa attenzione e considerazione, sicché il numero oscuro relativo a tale forma di violenza costituisce tuttora un elemento problematico e segnala l’esistenza di un’inadeguata preparazione da parte della società in generale, e non soltanto dei rappresentanti di enti specifici (forze dell’ordine, autorità giudiziaria, organizzazioni sanitarie), nel rilevare questa forma di vittimizzazione. Forse per la carenza di sensibilizzazione sul tema, ne deriva che le donne vittime di questa forma di violenza perlopiù non sono supportate dal mondo relazionale che le circonda (amici, familiari, colleghi), né dalle agenzie ufficiali, nel diventarne consapevoli e, dunque, nell’essere poste nella condizione di reagire e proteggersi. Inoltre, anche quando si riconoscono come tali o sono prossime a farlo, spesso non trovano negli interlocutori più prossimi così come in quelli istituzionali più rilevanti (forze di polizia e servizi socio-sanitari) un ascolto e un supporto. Sviluppano, pertanto, un senso di abbandono, una forma di vittimizzazione secondaria, o addirittura finiscono con il colpevolizzare se stesse per le sofferenze che gli abusi procurano loro.
Qui, però ci si occupa di mediazione familiare e, a tale riguardo la questione è: può accadere che la stessa disattenzione, la stessa sottovalutazione si verifichino nell’ambito della mediazione familiare?
Utilità colloqui individuali rispetto alle situazioni di violenza nei percorsi di mediazione familiare. La risposta al quesito di cui sopra è: sì, può accadere. Però, non dovrebbe, anzi, non deve accadere.
Ad incrementare questo rischio, tuttavia, occorre rilevarlo, potrebbe contribuire quanto previsto dal già citato disegno di legge del senatore Simone Pillon. Ciononostante è anche doveroso riflettere sul fatto che fintantoché quel disegno di legge non venga approvato e, forse, anche quando diverrà legge, qualche possibilità di prevenzione di tale danno, invero, per chi opera nel campo della mediazione familiare sussiste.
Nel modello mediativo, definito di Ascolto e Mediazione, ad esempio, come in altri, si prevede che sempre, per tutti i conflitti presi in carico, il percorso inizi con dei colloqui separati. Sicché prima degli eventuali incontri al tavolo della mediazione tra i protagonisti del conflitto, questi sono ascoltati più volte separatamente. Succede, quindi che tali colloqui individuali svolgano proprio la funzione di accompagnare la persona vittima di violenza psicologica verso una maggiore consapevolezza circa il fatto che quella posta in essere nei suoi riguardi è una condotta violenta, non riducibile a mera divergenza di vedute, di opinioni, di interessi, ecc.
Escalation conflittuale e violenza. Infatti, il conflitto all’interno della coppia può essere interessato anche da un’escalation molto significativa, che finisce con il ridurre vistosamente le possibilità dei singoli di comunicare tra di loro e di conservare un minimo di fiducia e di rispetto reciproci, ma la violazione dei limiti individuali e l’arrecare volutamente danno ad altri non sono comportamenti assimilabili ad una mera condotta conflittuale: in tali condizioni, la condotta dispiegata è violenza. E per potersi proteggere da essa occorre avere la possibilità di riuscire a riconoscere tale situazione. Ed essere supportati nel doloroso, tormentato e angosciante percorso necessario per arrivarci.
Le conoscenze del mediatore sul fenomeno della violenza e le competenze vittimologiche. Ora tutti questi, e altri ulteriori e non meno complessi, aspetti, come già accennato, possono entrare in gioco nella pratica della mediazione, soprattutto in quella familiare. E, in tal senso, chi scrive ritiene molto importante che chi si occupa di mediazione familiare abbia quel minimo di competenze per poterli fronteggiare. Una certa padronanza di nozioni vittimologiche e la capacità di declinare degli accorgimenti pratici idonei ai fini di un basilare victim support, ad esempio, sono non solo auspicabili, ma probabilmente necessari e imperativi [1].
In mancanza di ciò, i mediatori familiari nella loro quotidianità rischierebbero, da un lato, di ravvisare la violenza psicologica quando non c’è e, dall’altro, di non riconoscerla quando c’è, scambiandola per normale conflittualità coniugale o familiare, oppure considerandola un aspetto culturale incontestabile del gruppo cui appartiene la donna[2]. Se ciò accadesse, ne risentirebbe la tutela delle persone, per lo più donne, realmente vittime di tale forma di violenza.
D’altra parte è doveroso fare presente che per i mediatori familiari è obbligatorio avvalersi di una supervisione ad hoc, così come svolgere percorsi di aggiornamento (si veda al riguardo il regolamento dell’A.I.Me.F., ad esempio).
Va da sé che in tutti i casi in cui la violenza dovesse emergere il percorso di mediazione familiare deve essere interrotto, dando luogo all’attivazione di altre iniziative di sostegno. Quindi, appare più che opportuno che i mediatori familiari siano in grado di connettersi agevolmente con le realtà del territorio che si occupano di violenza.
In conclusione, non tutti i conflitti sono mediabili, e probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore familiare potesse permettersi di pensare con Goethe: “su tutte le vette è pace”.
D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.
Alberto Quattrocolo Associazione Me.Dia.Re. Mediazione Dialogo Relazione
www.me-dia-re.it
[1] Ciò, anzi, pare al sottoscritto ancora più urgente e imperativo ponendo mente al disegno di legge proposto dal senatore Pillon, con specifico riguardo al tema della mediazione familiare come condizione di procedibilità per la separazione giudiziale, la quale, infatti – fatta salva l’ipotesi di modifiche particolarmente incisive -, si profila come fortemente stridente con il divieto posto dalla Convenzione di Istanbul, che, giova ripeterlo, l’ordinamento italiano ha doverosamente oltre che saggiamente recepito.
[2] Ad esempio, è essenziale per il mediatore familiare non confondere le situazioni di violenza psicologica con le tensioni, le ostilità, le rigidità contrapposte, le difficoltà di comunicazione, le incomprensioni e le sofferenze tipiche delle dinamiche conflittuali non violente. E, allo stesso tempo, occorre prevenire il rischio di considerare le tradizioni, la mentalità, gli usi o i costumi della coppia che si sta seguendo – non necessariamente costituita da persone di origine straniera – come fattori che escludono la presenza di tale forma di violenza.
News Studio Cataldi 25 novembre 2018
www.studiocataldi.it/articoli/32578-la-mediazione-familiare-va-sospesa-nei-casi-di-violenza-psicologica.asp
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MIGRANTI
Sicurezza, la legge non è uguale per tutti
Il Decreto immigrazione e sicurezza nasce male. Intanto perché già la scelta di legare l’immigrazione al più ampio tema della sicurezza induce immediatamente ad una lettura deviante di fenomeni sociali che nulla hanno a che vedere con le paure mediaticamente soffiate su tanti cittadini, meno avvertiti o più fragili e che temono per l’integrità dei propri beni, se non per la propria vita. La questione migrazione e richiedenti asilo invece richiama immediatamente i valori che sono parte della nostra storia consacrata nella prima parte della Costituzione e nell’adesione a trattati internazionali, a direttive europee e al percorso che i Paesi fondatori dell’Unione europea, tra cui il nostro, hanno faticosamente costruito nei decenni passati. Poi, una serie di scelte concrete che saranno fonte di un forte arretramento della qualità dei diritti e delle libertà e che invece produrranno, a mio avviso, molti molti guai.
In primo piano la rottura di quella concertazione permanente tra Stato, Regioni e Comuni nata nel 2015 e 2016 che stava rafforzando una infrastruttura dell’accoglienza in maniera equa su tutto il territorio nazionale attenuando, attraverso la scelta dei piccoli numeri e lo svuotamento dei grandi centri, l’impatto sociale sui territori. Se a questo si aggiunge l’annunciato taglio dei servizi e la riduzione nei fatti dei progetti Sprar si realizza uno straordinario ritorno al passato che non avremmo più voluto conoscere. La grande illusione del blocco dell’arrivo dei migranti nell’area Schengen temo che potrà alla prima occasione essere spazzata via, costringendoci ai vecchi metodi della nomina del Commissario Straordinario e della semplificazione delle procedure amministrative. Per il momento, con il taglio dei servizi, ripristineremo non solo le grandi concentrazioni e, sarei pronto a scommettere, soprattutto nel mio Mezzogiorno, ma costruiremo lo spazio migliore per chi fa dell’impresa sociale un’occasione finalizzata al solo perseguimento del profitto avendo magari fallito in altre opportunità d’impresa.
Rinunciare poi ad uno spazio di flessibilità quale era la protezione umanitaria (magari tipizzata in fasce meno discrezionali) che consenta alla Repubblica italiana di far emergere e rendere legali, anche solo per un periodo di tempo determinato, chi ha un regolare contratto di lavoro, non ha commesso illegalità e vive con noi rispettando le nostre regole, è contro ogni comprensibile ragionevolezza. Che dire poi della lista dei Paesi sicuri, delle procedure accelerate che verranno applicate non all’aeroporto di Orly o ad un confine terrestre ma in una penisola circondata dal mare con l’impossibilità di riportare in tempi rapidi nel Paese di origine coloro che non hanno diritto o che almeno come tali verranno dichiarati.
Infine, che dire dell’integrazione e dell’inclusione per le quali si sta provvedendo al taglio di tutti i fondi disponibili e ad un contrasto sempre più feroce alle associazioni che si sono impegnate in questo settore. L’aspettativa da parte di tutti i cittadini di vedere queste persone non più senza far nulla in attesa che scorrano le ore senza in nessun modo partecipare alla vita sociale ed economica del nostro Paese, verrà fortemente tradita. È esattamente quello che si sta realizzando chiudendo persino quell’ultima porta dell’integrazione rappresentata dall’acquisizione della cittadinanza. Norme come quella della sua possibile revoca o il termine di 48 mesi che l’amministrazione si arroga per valutare la richiesta di concessione sono sconcertanti e saranno certamente oggetto del vaglio della Corte Costituzionale. Ma noi ricordiamo mestamente gli 80 anni delle leggi razziali con una previsione che consente al cittadino italiano di ottenere un certificato dal proprio Comune a vista mentre uno straniero regolarmente presente da 10 anni sul territorio che contribuisce con il proprio reddito al nostro sviluppo economico e paga diligentemente le tasse potrà dover attendere anche sei mesi.
Mario Morcone, Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati “il manifesto” 30 novembre 2018
https://ilmanifesto.it/sicurezza-la-legge-non-e-uguale-per-tutti-2/

Decreto sicurezza ricorsi impossibili a rischio i diritti
I diritti sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ma vale anche il contrario: nel senso che uno, appena lo tiri via, ne tira via un altro. Oggi di certo per gli stranieri, nelle loro richieste di asilo; domani magari per gli italiani, come ad esempio già si profila in talune proposte legislative che iniziano a familiarizzare con l’idea di sacrificare garanzie per arginare le prescrizioni. Una volta che già la legge Orlando-Minniti nel 2017 aveva tolto ai richiedenti asilo il grado di giudizio d’Appello contro i rigetti dell’autorità amministrativa, adesso il cosiddetto decreto sicurezza del ministro Salvini tira via un altro tabù nella corsa a precipizio all’indiretta incrinatura della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Per i migranti richiedenti asilo che dovessero essere intanto sottoposti a un procedimento penale per una delle ampliate ipotesi di reato che in caso di condanna definitiva comporterebbero il diniego della protezione internazionale, la loro domanda verrà esaminata in via accelerata dall’autorità amministrativa: ma, in caso di rigetto, lo straniero — pur senza essere ancora stato riconosciuto responsabile di quel reato da una sentenza definitiva, e persino magari senza essere stato neanche rinviato a giudizio — potrà essere espulso subito nel Paese dal quale sentiva minacciata la propria vita o libertà, addirittura prima di poter vedere deciso il proprio ricorso al Tribunale civile contro il rigetto della protezione.
Non ci vuole un genio per intuire che, se lo straniero viene rispedito dall’altra parte del mondo, gli diventa impossibile curare con un avvocato il ricorso, nemmeno è più garantita l’utilità della futura sentenza, e diventa un bluff l’effettività della tutela alla quale era finalizzata la possibilità (a quel punto solo teorica) di ricorrere.
Si può fare? No, risponderà la giurisprudenza comunitaria che lo ha già detto nel 2007 e ridetto nella sentenza C-181/16 del 19 giugno 2018. Ma poco importa al legislatore pago di iniettare, granellino dopo granellino, la sabbia di singole aguzze norme nel complessivo delicato ingranaggio dei diritti.
Luigi Ferrarella “Corriere della Sera” 28 novembre 2018
www.corriere.it/opinioni/18_novembre_28/decreto-sicurezza-ricorsi-impossibili-rischio-diritti-4af0af3a-f343-11e8-bf1c-39c2f2f9623f.shtml

Antidoto all’illegalità. Migranti: seria proposta dell’ANCI
Non è affatto vero che lo Stato italiano sia particolarmente generoso nel concedere protezione ai richiedenti asilo, rispetto alle medie dell’Europa Occidentale. Il tasso di riconoscimento, ossia le risposte positive in relazione alle domande, per il 2017 è stato del 40% in Italia, contro il 47% della Svezia, il 53% della Germania, il 63% della Slovenia, il 65% del Belgio, il 68% dell’Austria, il 78% della Norvegia. Solo la Francia è stata più avara: 27%. Più o meno come l’Ungheria (30%), appena un po’ meglio della Polonia (20%) (Fonte: Aida, Asylum Statistics 2017: Shifting Patterns, Persisting Disparities, 2018).
Se le nostre autorità hanno impiegato maggiormente la protezione umanitaria, la formula più debole, ma anche più flessibile, le nostre controparti dell’Europa Occidentale hanno concesso in prevalenza forme di protezione più impegnative. Tutto lascia prevedere però che le restrizioni del diritto di asilo previste dal pacchetto sicurezza abbasseranno il numero delle risposte positive per il nostro Paese. Provocheranno una crescita dei dinieghi e quindi degli immigrati in condizione irregolare. Presumibilmente 100-120mila rispetto ai 150mila attualmente accolti nel sistema dell’asilo. Nello stesso tempo, nulla lascia pensare che il governo riuscirà a espellerne effettivamente più di qualche migliaio. Gli altri rimarranno in Italia, da sbandati.
Per partire quasi certamente si sono indebitati, hanno venduto ciò che avevano, hanno raccolto denaro tra parenti e vicini di casa. Poi hanno rischiato la vita e spesso subito violenze, soprusi, angherie di ogni tipo. Tornare indietro da sconfitti è l’ultima delle loro aspirazioni. Anzi, è un’opzione che i più non sono neanche disposti a prendere in considerazione. Nel migliore dei casi vivranno di qualche forma di assistenza dispensata dagli attori della solidarietà variamente organizzata, finché verrà consentito di aiutarli. Oppure tenderanno la mano per chiedere l’elemosina, o ingrosseranno le fila dei lavoratori in nero. Per tacere di alternative ancora peggiori. Dormiranno sotto i portici, in stabili abbandonati, nei parchi, al massimo nei dormitori disposti ad accoglierli. Con quali effetti sul decoro delle città è facile immaginare. È necessario allora mettere da parte le ideologie e le dichiarazioni propagandistiche per immaginare una soluzione ragionevole al problema.
Una proposta interessante è stata avanzata dall’Anci, l’Associazione dei Comuni italiani, che raccoglie sindaci di tutti gli schieramenti: istituire un permesso di soggiorno per «comprovata volontà d’integrazione». Spetterebbe al questore rilasciarlo, su proposta della Commissione prefettizia per l’asilo, quando il richiedente soddisfi alcune condizioni: una conoscenza certificata di un certo livello della lingua italiana; un regolare contratto di lavoro, o almeno la partecipazione in corso a un tirocinio formativo; l’attestazione dello svolgimento di almeno 100 ore di volontariato. Questo permesso dovrebbe avere una durata pari al tirocinio o al contratto di lavoro incrementata di sei mesi, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro qualora ne ricorrano le condizioni.
Ci si deve domandare: ha senso spingere nell’illegalità persone che soddisfino questi requisiti, tutt’altro che lassisti? La società italiana trarrà più vantaggi da un’astratta riaffermazione dei confini, e quindi di una definizione restrittiva del diritto di asilo, oppure dal proseguimento dei percorsi d’integrazione in cui gli interessati si sono seriamente impegnati? Non solo i valori umanitari, ma anche elementari ragioni di convenienza dovrebbero ispirare le nostre decisioni in questa materia.
Maurizio Ambrosini “Avvenire” 27 novembre 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/antidoto-allillegalit

La Corte Costituzionale è un organo dello Stato che ha la funzione di dirimere questioni circa accuse mosse al Capo dello Stato, la validità di leggi e le competenze dei diversi enti statali.
Come si può fare però per ricorrere alla Corte Costituzionale?
Ci sono due vie di accesso al giudizio della Corte Costituzionale: quella detta in via incidentale e quella detta in via di azione.
via incidentale (o di eccezione): si solleva il dubbio da presentare in Consulta in un ambito giudiziario o in un’aula di tribunale
via di azione (o diretta): sono le Regioni, o lo Stato stesso, a presentarsi direttamente in Corte Costituzionale.
Presso la Corte Costituzionale, quindi, chi può ricorrere è un giudice, il quale, trovandosi a dover dirimere una qualunque questione nel suo tribunale, e non sapendo decidere in autonomia se una legge è applicabile o meno, senza ledere i principi della Costituzione, decide di ricorrere alla Consulta. Oppure, un organismo statale, se sorgono dubbi circa le aree di competenza di una legge (regionale o nazionale).
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NEUROSCIENZA
Come il cervello ci protegge dalle malattie
“Mens sana in corpore sano” recita un antico adagio [Satire, X, 356], tratto da Giovenale. Nelle intenzioni originarie dell’autore, il detto voleva essere un ammonimento agli uomini stimolati ad invocare gli dei affinché concedessero una mente sana in un corpo sano.
Nel suo uso moderno invece la locuzione latina ha assunto un senso leggermente diverso; vale a dire che, per avere sane le facoltà della mente, bisogna avere sane anche quelle del corpo, in virtù di una unità psicofisica. Il cervello quindi è sì un muscolo, ma anche una “riserva aurea” di pensieri, energie, stimoli, che se positivi, possono riverberare il loro salutare influsso sul resto dell’organismo. Corpo e mente uniti quindi in un indissolubile “patto d’acciaio”.
Ma quand’è che una mente può dirsi sana? E come fare per mantenerla tale nonostante lo scorrere del tempo? Se esistono elisir di lunga vita, lo stesso potrebbe dirsi anche per la vita cerebrale? Se anche tu appartieni al “fan club” dei cultori del fitness del cervello, resta connesso, ne trarrà beneficio pure la tua salute organica. Sembra infatti un dato ormai acquisito che la psiche e il corpo viaggino di pari passo, al punto da affermare che quando si inceppa qualcosa nel meccanismo originario, l’essere umano si ammala. Ma cos’è la malattia? Ed ancora, esistono strategie per prevenirne l’insorgenza?
Stando ad alcuni recenti studi di medicina cosiddetta integrata, il “cervello emotivo” non fa ragionamenti ma sente, e quando “sente”, attiva una serie di reazioni fisiche. E così, le più classiche emozioni quali rabbia, tristezza, gioia, paura, non restano confinate nel circuito dei pensieri, ma si “traducono” in eventi corporei. Basti pensare che se un’emozione permane nella persona, non risolta, e magari repressa per tanto tempo, ciò equivale a centinaia di ormoni, sostanze, messaggi che passano da cellula a cellula, da organo a organo. Il climax di tutto questo è di solito un organo che potremmo individuare come “target”, vale a dire più colpito di altri, in cui si tradurrà la degenerazione organica. “Questa ‘malattia’ cioè non viene dal niente, – è la dott.ssa Erica Francesca Poli a dire – ma è il risultato di un lungo processo di informazioni prima emotive, poi energetiche poi fisiche” [Anatomia della guarigione – I sette principi della nuova medicina integrata, Anima Edizioni.]. Se questi stimoli hanno solleticato in te qualche cosa e vuoi saperne di più, continua a seguirci nel nostro viaggio su come il cervello ci protegge dalle malattie.
Gli stati mentali che fanno bene. “Penso positivo” è il mantra che ha rappresentato una sorta di “tormentone” sulle note di una canzone firmata da Jovanotti che, alla luce dei più recenti studi, nasconde qualcosa di profondamente vero. Sembra infatti che quello che ci passa per la mente sia in grado di produrre un campo vibrazionale elettromagnetico capace d’influenzare il campo vibrazionale degli atomi di cui è composto il nostro corpo. Per cui, più è alta la frequenza vibrazionale dei pensieri, maggiore sembra essere la forza attrattiva che gli atomi possono esercitare l’uno sull’altro. E l’attrazione tra atomi aumenta quando si è preda di pensieri positivi, come gioia, fiducia, amore verso sé stessi e verso l’universo, con positivi effetti a cascata su tutto il corpo che risulta così più stabile e in forma.
Come avviene il passaggio dal pensiero immateriale alla materia? Questa è una questione su cui ancora si deve far luce. E sul punto non è che il nostro approccio occidentale, di tipo prettamente meccanicistico, ci sia poi di grande aiuto, anzi tutt’altro. Ma qui a segnare il passo è sopraggiunta la fisica quantistica. Secondo i fisici, tutto ciò che esiste nell’universo è infatti riconducibile ad un campo vibrazionale elettromagnetico e quindi a una forma di energia. Per cui, anche lo spazio, che al nostro occhio appare vuoto, in realtà è un continuo e incessante movimento di particelle, visibili con i più sofisticati microscopi.
Pensieri a bassa frequenza e malattie: binomio potenzialmente letale. Se dunque i pensieri positivi ci fanno sentire vivi e vitali, al contrario i pensieri con una bassa frequenza vibrazionale, legati a stati d’animo come depressione, rabbia, sensi di colpa, abbassano anche la frequenza vibrazionale degli atomi, per cui la materia tende a disgregarsi, con conseguente abbassamento della frequenza energetica generale: terreno fertile per lo sviluppo della malattia.
Malattia: è solo uno squilibrio biochimico? Alla luce delle ultime scoperte integrate tra varie discipline, e delle neuroscienze la risposta è no. Lo squilibrio da cui si originerebbero le malattie si produrrebbe infatti, in primis, a livello energetico (elettromagnetico) e solo “a posteriori” su base biochimica. Occhio quindi a lasciarsi prendere dalle cosiddette “paranoie” e da atteggiamenti sbagliati verso la vita. Ma se dunque lo squilibrio da tenere sotto controllo è quello energetico, ciò nasconde anche una nota positiva. Quale? Direte voi. La risposta è presto data. Se siamo noi i primi responsabili del nostro stato mentale, ciò significa che abbiamo in noi stessi anche tutte le capacità per attivare processi di autoguarigione.
Yoga della risata: quali benefici? Se è vero che il riso abbonda sulla bocca degli stolti, nessuno potrà negare che una sana risata è un toccasana tout court. Con quali effetti, verrebbe da chiedersi? Vari esperimenti, condotti all’interno di laboratori esperienziali, hanno riscontrato che i benefici effetti della risata sono stati registrati in ambito fisico, ma anche spirituale oltre che sociale. Gli unici due requisiti richiesti: la risata deve essere prolungata e profonda. Risate di questo tipo sarebbero in grado di apportare a livello puramente fisico benefici biochimici e fisiologici, legati alla maggiore produzione di endorfine, serotonina e di altri ormoni, oltre che riduzione del livello di colesterolo, ansia e stress. Al miglioramento del tono generale, si associa poi anche il potenziamento della risposta immunitaria grazie alla maggiore ossigenazione interna, alla eliminazione delle tossine e al massaggio interno prodotto dalla risata.
Esiste una dieta “salva cervello”? Non solo un regime alimentare ma anche un certo stile di vita possono rivelarsi dei veri e propri “salva vita”. Nelle abitudini giornaliere, va annoverata anche una buona qualità del riposo notturno, in quanto di notte le connessioni tra neuroni si riorganizzano al meglio.
Tra i rimedi naturali per mantenere il nostro cervello in forma:
spinaci, Cavoli, Bietole, Lattuga: tutti alimenti ricchi di antiossidanti, vitamina C, carotene e Omega-3 importanti per mantenere in perfetta salute il cervello. Gli spinaci inoltre sono una fonte importante di vitamina K, fondamentale per preservare le cellule nervose dall’invecchiamento.
pomodori e anguria: entrambi ricchi di licopene, un nutriente in grado di ottimizzare le funzioni cerebrali.
mirtilli: ricchi di antocianine, un vero e proprio concentrato di energia per il cervello. Capaci anche di contrastare la perdita di memoria.
avocado: con questo frutto si fa il pieno di vitamina E, vitamina B6 e tirosina, un elemento che favorisce la comunicazione delle cellule del cervello.
noci: ricche di vitamina E e magnesio, svolgono un ruolo importante nel mantenere in forma il cervello.
salmone: ricco di proteine, selenio, vitamina E e Omega-3, è fondamentale per la concentrazione e per ottimizzare le trasmissioni nervose.
pane e alimenti integrali: con il loro contenuto di fibre, vitamine del gruppo B e zinco associano una giusta quantità di colina (rintracciabile anche nelle uova) utile sia per la memoria che per lo sviluppo cerebrale.
tè verde: grazie alla presenza dei polifenoli, sarebbe in grado di prevenire alcune malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il morbo di Parkinson.
cioccolato (meglio se fondente): grazie alla presenza dei polifenoli, contrasta i radicali liberi e quindi l’invecchiamento cellulare.
olio extravergine di oliva: mette al riparo dal declino cognitivo.
Con la definizione “secondo cervello” a cosa si allude? Con questa definizione, coniata dallo scienziato della Columbia University Michal D. Gershon, si intende riferirsi all’intestino, anch’esso in grado d’influenzare umore e psiche.
A parlarne diffusamente anche la dott.ssa Rita Bugliosi, in una nota all’interno dell’Almanacco della Scienza del C.N.R. [Rivista N.8 1/08/2018 Almanacco della Scienza a cura del C.N.R.].
L’intestino è una parte dell’organismo spesso sottovalutata, che svolge però importanti funzioni che contribuiscono al nostro benessere psico-fisico; contiene infatti milioni di cellule e fibre neuronali che costituiscono un vero e proprio sistema nervoso autonomo, indipendente dal sistema nervoso centrale. Anche in questo caso lo stile di vita e l’alimentazione, sono i maggiori responsabili del mantenimento dell’equilibrio della nostra flora intestinale e quindi del nostro benessere a tutto tondo.
Diagnosi integrata: una nuova frontiera in campo medico? La diagnosi integrata, cioè l’integrazione sinergica di medicina tradizionale, medicina cinese, “medicina” quantistica, medicina ayurvedica, psicoterapia, psicanalisi, oggi è qualcosa di possibile. Questo grazie all’avvento di nuovi approcci medici e anche nuovi pazienti che decidono di compiere insieme un profondo viaggio di grande consapevolezza, all’interno della malattia, al fine d’interpretarla, e comprenderla, fino poi a giungere alla soglia della guarigione.
Donazioni di organo: ci rientra anche il cervello? Restringendo il campo d’indagine all’Italia, ad oggi, la risposta è no. La legge italiana [L. n.91 “Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti” 01.04.1999] fa espresso divieto di procedere con operazioni di espianto del cervello. Ma cos’altro c’è da sapere in fatto di donazione di organi? Forse non tutti sanno che in Italia, secondo la citata legge 91 del 1999, la pratica dovrebbe essere regolata dal silenzio-assenso informato. Cioè, dovremmo essere tutti donatori, salvo il caso di diniego espressamente manifestato nel corso della nostra vita.
Insomma, se il principio del silenzio assenso è previsto sulla carta, di fatto, nessuno si è mai “preoccupato” di tradurlo nella pratica. Così, al suo posto, vige in realtà il principio del consenso o del diniego esplicito all’espianto e quindi alla donazione di organi/tessuti. [L. n. 91].
“opt in” e “opt out” e Legge italiana su donazione di organi. Con l’espressione opt in ci si riferisce al caso in cui le persone devono dichiarare il loro sì o il loro no alla donazione. Mentre con l’espressione opt out ci si riferisce al caso in cui la donazione degli organi si verifica automaticamente a meno di una specifica opposizione lasciata in vita.
Con particolare riferimento all’Italia, sussiste la facoltà, e non il dovere, di esprimere la propria volontà di donare o non donare. Cosa accade però se il cittadino non si è espresso in alcun modo al riguardo? Il prelievo di organi/tessuti è consentito solo se i familiari più prossimi non si oppongono. Se invece si ha a che fare con i minori, per loro decidono sempre i genitori, fermo restando che non si potrà procedere con il prelievo laddove uno dei due genitori sia contrario.
Da non dimenticare che sarà sempre possibile il ripensamento, per cui la dichiarazione di volontà già manifestata in materia di espianto di organi o tessuti, potrà essere modificata in qualsiasi momento.
Meditazione e doccia al cervello: una pratica contro le nevrosi. Per finire, giusto un assaggio di ciò che le neuroscienze contemporanee hanno constatato in via sperimentale relativamente all’impatto che ha la meditazione sul cervello. Per dirla con Idriss Aberkane, “la nostra igiene mentale è pessima. Non siamo consapevoli delle nevrosi, delle frustrazioni, dei rancori, schemi e automatismi che ci animano. Queste impurità mentali sporcano la nostra psiche come il sudore e il sudiciume sporcano il nostro corpo. […] Forse tutti i mali dell’umanità potrebbero risolversi con l’igiene mentale, con una semplice doccia al cervello, perché le nevrosi degli individui possono concentrarsi e dare origine a nevrosi di Stato”. [Liberate il cervello (traduzione di Laura De Tomasi), Ponte alle Grazie, 2017]
Maria Teresa Biscarini La legge per tutti 2 dicembre 20°18
www.laleggepertutti.it/259357_come-il-cervello-ci-protegge-dalle-malattie
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PARLAMENTO
Senato della Repubblica – Commissione Giustizia – Affido dei minori
28 novembre 2018. La Commissione Giustizia ha poi portato avanti la trattazione dei provvedimenti sull’affido dei minori, Ddl nn. 45, 118, 735, 768.
Il relatore Pillon illustra il disegno di legge n. 837 presentato il 2 ottobre 2018 da Alberto Balboni che si rifà ai princìpi espressi nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato, per la prima volta, l’Italia per non avere predisposto un sistema giuridico e amministrativo adeguato a tutelare il diritto inviolabile del genitore, nel caso di un padre separato, di esercitare il naturale rapporto familiare col figlio.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/1080532/index.html
Art. 3. (Centri di assistenza e di mediazione familiare)
1. Per le finalità di cui all’articolo 2, i centri di assistenza e di mediazione familiare presenti sul territorio nazionale forniscono assistenza e supporto ai genitori separati che si trovino in situazione di difficoltà economica e psicologica, garantendo:
a) interventi di sostegno psicologico finalizzati al superamento della condizione di disagio e al recupero dell’autonomia;
b) strutture di alloggio nelle quali ospitare i genitori separati che a causa della separazione personale dal coniuge non dispongono più di un’abitazione e che si trovano in situazione di grave disagio economico;
c) interventi di supporto al reinserimento lavorativo e all’accesso al credito.
Il Presidente propone che la discussione del disegno di legge n. 837 Balboni in materia strettamente connessa ai disegni di legge nn. 45, 118, 735 e 768 prosegua congiuntamente al seguito della discussione degli stessi. Approvata la proposta.
29 novembre Sull’argomento, l’Ufficio di Presidenza ha svolto alcune audizioni.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=18&id=1083495
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PENSIONE DI RIVERSIBILITÀ
Pensione di reversibilità in favore del coniuge con nullità di matrimonio
Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, Sentenza n. 22434, 24 settembre 2018
Ai fini del riconoscimento della pensione di reversibilità in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la titolarità dell’assegno di cui all’art. 5 della l. n. 898 del 1970, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno periodico divorzile al momento della morte dell’ex coniuge e non già come titolarità astratta del diritto all’assegno divorzile già definitivamente soddisfatto con la corresponsione in unica soluzione. In quest’ultimo caso, infatti, difetta il requisito funzionale del trattamento di reversibilità, che è dato dal medesimo presupposto solidaristico dell’assegno periodico di divorzio, finalizzato alla continuazione del sostegno economico in favore dell’ex coniuge, mentre nel caso in cui sia stato corrisposto l’assegno “una tantum” non esiste una situazione di contribuzione economica che viene a mancare.
Sentenza Redazione Il caso[Doc.5534] 26 novembre 2018
news.ilcaso.it/news_5534?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email
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RICONOSCIMENTO
Impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità
Corte di Cassazione, prima Sezione civile, Sentenza n. 20940, 22 agosto 2018
In tema di impugnazione del riconoscimento del figlio per difetto di veridicità, qualora l’azione riguardi più minori, non è sempre necessario nominare curatori speciali diversi per ciascuno di essi; tale obbligo sussiste, infatti, nel solo caso in cui si verifichi tra i figli un conflitto di interessi, anche potenziale, ipotesi che non ricorre, tuttavia, per il solo fatto che i minori siano parti di un giudizio in posizioni processuali non contrapposte.
Sentenza Redazione il caso [Doc.5534] 26 novembre 2018
news.ilcaso.it/news_5535?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email
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SEPARAZIONE
L’ex ha diritto d’accesso ai documenti del coniuge
TAR Campania, sesta sezione, sentenza 5763, 2 ottobre 2018
www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_32683_1.pdf
Il coniuge che ha in corso un giudizio di separazione, ha diritto ad accedere ai documenti relativi all’altro coniuge detenuti dall’Agenzia delle entrate e ricavabili dall’Archivio dei rapporti finanziari. Sarà l’Agenzia a oscurare i dati personali di altri soggetti che dovessero comparire nella documentazione richiesta.
Ciò in quanto il coniuge ha un interesse diretto, concreto e attuale, avendolo perimetrato in relazione all’esigenza di conoscere la situazione reddituale e patrimoniale della moglie e non di avere informazioni di altro genere.
Lo ha deciso il T.A.R. Campania accogliendo in parte il ricorso avverso il silenzio che l’Agenzia delle Entrate aveva serbato alla richiesta di accesso di un marito ai documenti della moglie da cui si stava separando.
Avendo interesse a conoscere la situazione reddituale e patrimoniale della donna, premessa la pendenza di un giudizio di separazione, l’uomo aveva chiesto all’Agenzia delle Entrate di avere copia di diversi documenti tra cui la dichiarazione dei redditi degli ultimi 3 anni sua e della moglie, gli eventuali contratti di locazione a terzi di immobili di proprietà di quest’ultima.
Non avendo ottenuto riscontro, il ricorrente ha intrapreso l’azione innanzi al TAR volta all’annullamento del diniego maturato per silentium, con conseguente condanna dell’amministrazione intimata agli adempimenti consequenziali.
Per il Collegio il ricorso è in parte fondato, in quanto non si comprende perché l’Agenzia non ha consentito l’accesso alle dichiarazioni dei redditi del ricorrente e della coniuge, nonché, agli eventuali contratti di locazione a terzi degli immobili di proprietà di quest’ultima.
Parte ricorrente ha, infatti, chiarito di avere in corso un giudizio di separazione e di avere interesse a conoscere tali dati (interesse in parte riconosciuto dallo stesso giudice della separazione che ha chiesto alle parti di esibire le loro ultime dichiarazioni dei redditi).
Al riguardo, non può porsi in dubbio la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l’accesso”, che l’art. 22 L n. 241/90 prevede quale presupposto per la legittimazione all’azione e l’accoglimento della relativa domanda.
Ciò vale, secondo il TAR, anche con riferimento alle richieste “comunicazioni inviate da tutti gli operatori finanziari all’Anagrafe Tributaria – sezione archivio dei rapporti finanziari – relative ai rapporti continuativi, alle operazioni di natura finanziaria ed ai rapporti di qualsiasi genere, riconducibili alla” moglie “anche in qualità di delegante o delegato”
Dopo una valutazione puntuale della normativa in materia, che tiene conto del ruolo dell’Archivio dei rapporti finanziari, il T.A.R. conclude che al privato debba essere consentito ricorrere agli ordinari strumenti offerti dalla l. 241/1990 per ottenere gli stessi dati che il giudice potrebbe intimare all’Amministrazione di consegnare.
In particolare, si rammenta che al giudice che tratta la vicenda matrimoniale è concesso utilizzare i poteri di accesso ai dati della P.A. genericamente previsti dall’art. 210 c.p.c. come ampliati dalle nuove norme inserite nel 2014, seppur questa rimanga una facoltà e non un obbligo del giudice.
Nella fattispecie, non vi è dubbio che si tratti di dati personali di un terzo (il coniuge), ciò nondimeno l’accesso si giustifica, ai sensi del comma 7 dell’art. 24 della legge n. 241 del 1990 (disposizione che, peraltro, non confina l’accesso alla sola visione degli atti), dalla necessità di “curare e difendere i propri interessi giuridici”.
In conclusione, deve essere affermato il diritto del ricorrente ad ottenere l’accesso ai documenti in questione relativi al coniuge detenuti dall’Agenzia delle entrate e ricavabili dall’Archivio dei rapporti finanziari.
L’Agenzia avrà poi cura di oscurare i dati personali di altri soggetti (diversi dalla moglie) che dovessero comparire nella documentazione richiesta (a titolo esemplificativo i nominativi dei soggetti con i quali sono stati stipulati gli eventuali contratti di locazione.
Il ricorrente ha, infatti, perimetrato il proprio interesse in relazione all’esigenza di conoscere la situazione reddituale e patrimoniale della moglie e non di avere informazioni di altro genere.
Le top news della settimana. StudioCataldi.it – 30 novembre 2018
www.studiocataldi.it/articoli/32683-separazione-l-ex-ha-diritto-d-accesso-ai-documenti-del-coniuge.asp
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VIOLENZA
Violenza domestica del marito sulla moglie
Tuo marito ti umilia continuamente, ti minaccia e ti fa sentire in uno stato di sudditanza? Sappi che, anche se spesso è difficile ammetterlo a sé stessi ed agli altri, sei vittima di violenza domestica ovvero di un illecito penale. La violenza domestica del marito sulla moglie è (purtroppo) un fenomeno sempre più diffuso nel nostro paese e riguarda tutte le forme di abuso psicologico, fisico o sessuale; si tratta di un comportamento coercitivo che il marito esercita sulla donna per farla sentire controllata emotivamente. Il caso di cui ci occuperemo in questo articolo riguarda la violenza domestica in senso ampio e, in particolare, la violenza domestica del marito sulla moglie: reato considerato molto grave perché si consuma nel corso della vita familiare, nel luogo (la casa) che più di ogni altro dovrebbe garantire sicurezza e serenità. Questo tipo di violenza può portare conseguenze serie nella vita delle donne: da problemi psicologici (quali sindromi depressive) a problemi somatici (tra i quali ansia, tachicardia, tensioni, sensi di colpa, vergogna e così via) e, purtroppo, si realizza a tutti i livelli sociali; secondo i dati Istat, infatti, queste condotte violente (degli uomini nei confronti delle donne) si realizzano, in egual misura, in tutte le fasce sociali e, purtroppo, le donne che denunciano sono ancora troppo poche. Alcune volte questa violenza, unita al silenzio ed alla solitudine, conduce addirittura al suicidio.
Cos’è la violenza domestica? La cronaca, purtroppo, ci insegna che sono tanti (diremmo troppi) i casi in cui le donne sono vittime degli ex, dei fidanzati o dei mariti; il fenomeno della violenza domestica è, infatti, diffuso in tutti i paesi ed in tutte le fasce sociali e concerne ogni tipo di violenza: dalle donne picchiate ed umiliate a quelle che, addirittura, per gelosia, sono rinchiuse in casa senza poter uscire neanche per lavorare o fare la spesa. Spesso per paura di reagire o perché abituate a sopportare, le donne non denunciano i maltrattamenti che subiscono; sapere ciò che costituisce reato è importante per poter reagire e chiedere aiuto. Cerchiamo allora di capire quando la violenza domestica del marito sulla moglie è reato e quali sono, invece, soltanto estrinsecazioni caratteriali che (benché non condivise e forse immorali) non sono penalmente perseguibili. Se tuo marito controlla tutto quello che fai (spostamenti, telefonate, e mail), distrugge gli oggetti a cui tieni solo per farti capire che non vali nulla, ti umilia pubblicamente o arriva a minacciarti e/o a picchiarti, certamente puoi denunciarlo perché sta commettendo reato. Ma, per essere più precisi, analizziamo quali sono i vari reati che possono configurarsi quando c’è violenza domestica del marito sulla moglie.
Cosa sono i maltrattamenti in famiglia? Uno dei classici esempi di reati rientranti nella violenza domestica è quello dei maltrattamenti in famiglia. Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi [Art. 572 cod. pen.] è disciplinato dal nostro codice penale e prevede che chiunque (nel nostro caso immaginiamo il marito) maltratti una persona della famiglia o un convivente (nel caso di specie la moglie) debba essere punito con la reclusione da due a sei anni.
Ma che significa tecnicamente e giuridicamente maltrattare? Significa che, a seguito di determinati atteggiamenti del marito, la moglie-vittima vive uno stato di soggezione e di inferiorità rispetto al marito. Si deve trattare di una condotta abituale, realizzata con più atti successivi, numerosi e reiterati nel tempo che determinano nella vittima una sofferenza fisica e morale; un singolo episodio di lesione o minaccia, per esempio, non configura il reato di maltrattamenti (benché rappresenti un reato autonomo). In pratica, se tuo marito ti impone un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile sei vittima di violenza domestica.
Cos’è la violenza privata? Se tuo marito, per esempio, ti costringe, con violenza o minaccia, a tollerare o a non fare qualcosa, sta commettendo violenza domestica nei tuoi confronti ed in particolare è responsabile di un reato perseguibile penalmente ovvero quello di violenza privata [Art. 610 cod. pen.]. Anche in questo caso (come nella ipotesi di maltrattamenti in famiglia) vi è una soggezione psicologica che non ti consente di essere (e di sentirti) libera. Si tratta di una aggressione che non è rivolta alla sfera fisica della moglie (altrimenti ci troveremmo dinanzi al reato di sequestro di persona), ma alla libertà psichica e ciò comporta una vera e propria violenza domestica del marito sulla moglie.
Cos’è la minaccia? Se hai voglia di uscire e tuo marito ti intimidisce, dicendoti di non farlo altrimenti (addirittura) ti farà del male (giuridicamente si dice che ti minaccia di procurarti un danno ingiusto, personale o patrimoniale) e ti condiziona e spaventa a tal punto da limitare la tua libertà psichica, puoi denunciarlo per minaccia [Art. 612 cod. pen.]. Sappi che la minaccia viene valutata in funzione delle circostanze, delle condizioni di chi la realizza e dell’effetto che ha sulla vittima; non sono minaccia le semplici imprecazioni o gli insulti. Si deve trattare di qualcosa che ti turbi e ti limiti e deve essere qualcosa di possibile e realizzabile; per esempio dire se esci ti ammazzo con le armi atomiche, non è una minaccia perché è impossibile che tu possa essere in possesso di un’arma atomica. Anche in questo caso, se le minacce sono continue, sei vittima di violenza domestica del marito sulla moglie.
Altri esempi di reati che possono rappresentare la violenza domestica del marito sulla moglie, sono:
Violazione degli obblighi di assistenza familiare [Art. 570 cod. pen.];
Istigazione o aiuto al suicidio [Art. 580 cod. pen.];
Percosse [Art. 581 cod. pen.];
Lesione personale [Art. 582 cod. pen.];
Diffamazione [Art. 595 cod. pen.];
Violenza sessuale [Art. 609 bis cod. pen.];
Atti persecutori (stalking) [Art. 612 bis cod. pen.];
Molestia o disturbo alle persone [Art. 660 cod. pen.;
e tutti quelli che (il più delle volte ripetuti nel tempo) inducono la moglie a vivere in uno stato di soggezione, depressione ed inferiorità e non la lasciano libera di decidere cosa fare e vivere la propria vita (cioè autodeterminarsi).
Sabina Coppola la legge per tutti 28 novembre 2018
www.laleggepertutti.it/249253_violenza-domestica-del-marito-sulla-moglie
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