NewsUCIPEM n. 716 – 26 agosto 2018

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01 ABORTO VOLONTARIO 3 consigli ai cristiani che dibattono sull’aborto.

02 ADOZIONI INTERNAZIONALI Procedure del Tribunale dei minori di Trento.

02 Il 97% ha successo. La crescita dei fallimenti, in realtà, non c’è.

03 AMORIS LÆTITIA Papa scrive al teologo Walford: l’Amoris Lætitia va letta per intero.

04 ASSEGNO DIVORZILE Assegno di divorzio: la proposta in Parlamento.

05 CASSAZIONE Come sono strutturate le pronunce della Suprema Corte.

06 CHIESA CATTOLICA Pedofilia, il Papa accusa il clericalismo?Lo cancelli superando il celibato.

07 Guardini sulla pena di morte: infondata e tuttavia da rimpiangere?

08Comunione ai cristiani non cattolici, il riferimento è il Concilio.

12 DALLA NAVATA 21° Domenica – Anno B –26 agosto 2018.

12 “Volete andarvene anche voi?” Commento di Enzo Bianchi.

14 DIRITTO DI FAMIGLIA Quando denunciare un genitore.

15 DIVORZIO Negoziazione assistita familiare: quando è esclusa.

16 ENTI TERZO SETTORE Privacy: come mettersi in regola in 6 punti.

17 FEMMINISMO Il femminismo alla prova della maternità

18 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Video messaggio per l’Incontro mondiale delle famiglie

18 Abusi sui minori, basta coperture. Urgente l’opera di prevenzione.

19 Di fronte agli scandali di pedofilia, non può più eludere la realtà.

21 Abusi, nessun nuovo documento papale. C’è da applicare la lettera.

23 INCONTRO MONDIALE FAMIGLIE Custodire, promuovere e rinvigorire il dono del matrimonio.

23 Gambino: “Importante per tutte le famiglie”.

24 OMOFILIA Come possono le parrocchie accogliere le persone LGBT?

30 PARLAMENTO Ddl Pillon, una assurda proposta maschilista contro tutto e tutti.

31 Affido: assegno di mantenimento per i figli e assegnazione casa.

32 UCIPEM Nuova segreteria dell’UCIPEM

32 UNIONI CIVILI Come sono tutelate?

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ABORTO VOLONTARIO

3 consigli ai cristiani che dibattono sull’aborto

Padre Celso Pôrto Nogueira esercita il suo ministero sacerdotale come parroco a Vila Velha (Espírito Santo, Brasile). Sul suo profilo Facebook ha condiviso di recente una proposta saggia che dovrebbe essere presa in considerazione da tutti i cattolici in questo momento di intensi attacchi della cultura dello scarto alla cultura della vita.

Tre consigli ai cristiani che dibattono sull’aborto:

  1. Non invocate ragioni religiose. Il vostro interlocutore non ci crede e non è obbligato a farlo, e userà la vostra fede per sminuire le vostre argomentazioni, per quanto possa essere scientifico e obiettivo. Mantenete la conversazione sul piano della laicità totale; non serve allontanarsi da questa per dimostrare le proprie ragioni.

  2. Ricordate a voi stessi e al vostro interlocutore che come cittadini avete il pieno diritto di prendere posizione in qualsiasi dibattito pubblico. La vostra fede non vi rende cittadini di seconda categoria. In un Paese laico tutti, indipendentemente dalla propria fede o dalla mancanza di essa, hanno il diritto di opinare e lottare democraticamente per le proprie convinzioni.

  3. Mostrate che siete cristiani in un altro modo: trattando con rispetto l’interlocutore, per quanto possano essere assurde ed errate le sue ragioni e per quanto vi offenda o vi ridicolizzi. Combattiamo gli errori, non le persone. Amiamo tutti, anche chi sbaglia e chi ci odia. Vinciamo il male con il bene, la morte con la vita, l’odio con l’amore. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli”.

Aleteia 24 agosto 2018

https://it.aleteia.org/2018/08/24/3-consigli-ai-cristiani-che-dibattono-su-aborto/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Procedure del Tribunale dei minori di Trento

La modifica nell’iter di richiesta dell’idoneità all’adozione internazionale sembrerebbe ormai essere diventato prassi comune nella Provincia autonoma e ha lo scopo di ridurre il numero di aspiranti genitori adottivi risultanti non idonei all’adozione.

Un’iniziativa che potrebbe essere ripresa ed estesa anche alle altre realtà del nostro Paese per scongiurare in modo più efficace e concreto il ‘no’ all’aspirazione di una coppia adottiva

Da Trento arriva una novità potenzialmente utile per ridurre il più possibile il numero di ‘no’ alle richieste di idoneità adottiva da parte delle coppie: una modifica interessante e sostanziale all’iter per concedere l’ok all’idoneità anche a quegli aspiranti genitori adottivi che di per sé risulterebbero non ‘abilitabili’: un percorso psico-terapeutico da seguire nel corso della valutazione, che viene temporaneamente sospesa anziché chiusa con il diniego. Sarebbero già almeno tre le coppie che negli ultimi mesi avrebbero completato questa nuova ‘fase’; la procedura è stata confermata anche da varie fonti in Trentino che si occupano del post-adozione. Di fatto, l’iter prevedrebbe di non dare subito il diniego all’idoneità, ma nel far fare alle coppie questi percorsi psico-terapeutici.

Tutto ciò è stato introdotto in quanto, fino a un anno fa, il Tribunale per i Minorenni di Trento risultava avere un numero percentuale molto alto di dinieghi all’idoneità adottiva e le coppie, in tal caso, non avevano alcuna altra possibilità di venire ‘riabilitate’, tranne che il ricorso giudiziale in Corte d’Appello. Con questa modifica, invece, la valutazione viene sospesa, parte la richiesta di una Consulenza Tecnica di Ufficio e si valuta se proporre alla coppia – sempre che accetti – di intraprendere questo percorso.

La notizia, di fatto, è una buona strada verso la possibilità di concedere l’idoneità adottiva a un maggior numero di coppie, sicuramente si tratta di un iter più efficace e accettabile rispetto al secco ‘no’, risposto non di rado senza fornire motivazioni comprensibili alle coppie dai Tribunali e dai servizi sociali. Una novità che meriterebbe, certamente, di essere diffusa ed estesa possibilmente anche ad altri Tribunali per i Minorenni nel nostro Paese. Anche in questo modo si opera per un concreto rilancio dell’adozione.

News Ai. Bi. 20 agosto 2018

www.aibi.it/ita/trento-novita-nelle-procedure-del-tribunale-dei-minori-un-percorso-psico-terapeutico-02per-rendere-idonee-alladozione-piu-coppie

 

Il 97 per cento ha successo. La presunta crescita dei fallimenti, in realtà, non c’è

Un articolo di Avvenire a firma di Luciano Moia fa notare che accanto al calo generalizzato delle adozioni, con quasi 100mila bambini adottati in meno negli ultimi 15 anni nei Paesi occidentali, ci sarebbe un altro fenomeno in crescita nel nostro Paese: il fallimento dell’adozione internazionale.

www.avvenire.it/attualita/pagine/adozioni-il-dramma-dei-rifiutati-3

Tuttavia, non esistono dati certificati in Italia: in base alle segnalazioni delle Procure per i minorenni, la percentuale di fallimenti sarebbe oggi individuabile nel 2-3%: una parte decisamente minima, soprattutto tenuto conto del 97% delle adozioni riuscite, che vanno sottolineate. Forti i dubbi anche sull’ipotesi di un aumento dei fallimenti legato all’aumento delle adozioni ‘problematiche’ e di quelle di minori più grandi: l’esperienza di Ai.Bi. indica esattamente il contrario.

Quanto alla questione della particolare tipologia delle “nuove adozioni”, con una “prevalenza di minori con problemi di vario tipo”, unita all’aumento “in modo costante” dell’età media dei minori considerati adottabili, bisogna fare molta attenzione a considerarle reali difficoltà aggiuntive in grado di far fallire una scelta adottiva. Avvenire adduce come possibile ragione dell’aumento presunto dei fallimenti adottivi il fatto che “da Paesi come India o Cina per esempio arrivano ormai quasi soltanto bambini dagli 8-10 anni in su, spesso affetti da piccole patologie psico-fisiche”. Ma dalla Cina, in realtà, provengono quasi unicamente bambini dai 3 anni in giù, i minori più grandi sono eccezioni.

Inoltre, non può essere dato per certo l’assunto secondo cui al crescere dell’età del bimbo adottivo aumenta anche la percentuale di possibile fallimento: anzi, nell’esperienza di Ai. Bi., il dato è più frequente in caso di bimbi adottati in tenera età. Il problema, piuttosto, è che in mancanza di una seria ricerca, lo spauracchio dei fallimenti viene utilizzato dai magistrati per stringere all’inverosimile le concessioni di idoneità. Un esempio per tutti: il Tribunale per i minorenni di Venezia, che rilascia solo idoneità vincolate al di sotto dei 6 anni di età, appunto come forma di prevenzione ai fallimenti. Una pratica in realtà illegale (non prevista assolutamente dalla legge) che di fatto taglia fuori dal diritto ad una famiglia tutti i minori al di sopra dei 6 anni.

Ma l’antidoto migliore al ‘rifiuto’ del bambino adottato non è impedirne l’adozione al di sopra di una certa età, né tantomeno ‘selezionarlo’ in base ai possibili problemi generati in lui dalla solitudine della vita pre-adozione: è, piuttosto, formare adeguatamente ogni coppia che intenda procedere con un’adozione internazionale e seguirla da vicino nel tempo, anche e soprattutto nel post-adozione, per far sì che i neo-genitori adottivi possano avere il necessario supporto da parte degli esperti, senza essere lasciati a se stessi. Un aiuto che può essere assicurato con una seria e incisiva riorganizzazione dei Servizi Sociali che lo Stato mette a disposizione – oggi ridotti al lumicino – organizzando nel contempo un sistema virtuoso ed efficace a cui le famiglie adottive possano, eventualmente, far ricorso.

News Ai. Bi. 20 agosto 2018

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-il-97-per-cento-ha-successo-la-presunta-crescita-dei-fallimenti-in-realta-non-ce

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AMORIS LÆTITIA

Papa scrive al teologo Walford: l’Amoris Lætitia va letta per intero

Lettera del Papa a Stephen Walford teologo e padre di famiglia come ringraziamento per la sua pubblicazione dedicata all’Amoris Lætitia. “L’Esortazione Apostolica – scrive Francesco – nasce dal forte desiderio di cercare la volontà di Dio per servire la Chiesa e va letta per intero”

Pope Francis, the family and divorce. In Defense of Truth and Mercy”, è il titolo del libro in uscita, scritto da Stephen Walford, dedicato all’Esortazione apostolica Amoris Lætitia che il Papa ha salutato con favore in una lettera all’autore, di cui oggi “La Civiltà Cattolica” riporta il contenuto integrale. Lettera, inviata dal Pontefice il 1 agosto dello scorso anno, che è diventata inevitabilmente la prefazione al volume: qui Francesco si rivolge chiaramente non solo al teologo, allo scrittore, all’insegnante di musica, ma al padre, sottolineando come i tanti problemi che oggi sferzano la famiglia, siano stati affrontati nell’Esortazione con un’ermeneutica che viene dall’intero documento. Il Papa ricorda con affetto la visita, lo scorso anno in Vaticano, della famiglia Walford, definendola “una concreta espressione di Amoris Lætitia e poi ribadisce alcuni punti del documento, nato nella fecondità della preghiera che aspira al servizio.

“L’esortazione post-sinodale Amoris Lætitia – scrive Papa Bergoglio – è il frutto di un lungo percorso ecclesiale che ha coinvolto due Sinodi e una consultazione con le Chiese locali tramite le Conferenze episcopali. Hanno pure partecipato a questa consultazione gli Istituti di vita consacrata e altre istituzioni, come le Università cattoliche e le associazioni laicali. La Chiesa intera ha pregato, riflettuto e, con semplicità, ha offerto vari contributi. Entrambi i Sinodi hanno presentato le loro conclusioni. Una delle cose che mi hanno più colpito in tutto questo processo è stato il desiderio di cercare la volontà di Dio per meglio servire la Chiesa. Cercare per servire. Questo è avvenuto attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento. Ci sono state, ovviamente, tentazioni durante questo percorso, ma lo Spirito buono ha prevalso. Esserne testimone ha portato gioia spirituale”.

Leggere l’Esortazione per intero. Ancora, Francesco insiste sull’opportunità di leggere l’Amoris Lætitia nella sua interezza e dall’inizio, perché essa è un tutt’uno e non può essere frammentata: “Questo perché – spiega – c’è uno sviluppo sia di riflessione teologica sia della maniera in cui si affrontano i problemi. Non può essere considerata un vademecum sui vari argomenti trattati. Se l’Esortazione non è letta integralmente nella sua interezza e nell’ordine degli argomenti in cui è stata scritta, non sarà compresa o la comprensione sarà distorta”.

L’ermeneutica della Chiesa. Il Pontefice si dice certo che il libro di Walford, potrà essere utile a molte famiglie perché affronta i problemi che le attraversano nella loro concretezza e sotto vari aspetti, esattamente come l’Amoris Lætitia che guarda anche le situazioni e i risvolti etici, seguendo la classica dottrina di San Tommaso d’Aquino. “Nel corso dell’Esortazione – prosegue il Papa – vengono affrontati problemi attuali e concreti: la famiglia nel mondo di oggi, l’educazione dei bambini, la preparazione al matrimonio, le famiglie in difficoltà, e così via. Questi argomenti sono trattati con un’ermeneutica che viene dall’intero documento, e che è l’ermeneutica magisteriale della Chiesa, sempre in continuità (e senza fratture), e pur sempre in corso di maturazione”.

Il testo di Francesco chiude con un saluto alla moglie e ai figli di Stephen Walford, e un ringraziamento per la loro testimonianza di vita, oltre che con la consueta richiesta di pregare per lui.

Cecilia Seppia Vatican news 23 agosto 2018

www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-08/lettera-papa-walford-esortazione-apostolica-amoris-laetitia.html

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ASSEGNO DIVORZILE

Assegno di divorzio: la proposta in Parlamento

Presto al via l’esame della proposta di legge che stabilisce con chiarezza i criteri da utilizzare per valutare gli assegni divorzili. La proposta, presentata alla Camera, è stata assegnata alla commissione giustizia

Stabilire con chiarezza i criteri utili per valutare gli assegni divorzili: con questo obiettivo nasce la proposta di legge di iniziativa della deputata Alessia Morani (PD) che persegue l’intento di positivizzare i principi espressi dalle più recenti pronunce giurisprudenziali sul punto. Sul tema, dopo l’intervento della Cassazione si era già tentato di intervenire nella scorsa legislatura ma senza esito positivo.

Il nuovo Ddl è stato assegnato alla Commissione giustizia e l’esame del provvedimento dovrebbe iniziare già a settembre. www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_31246_1.pdf

Finalità dell’assegno. L’assegno divorzile assume una nuova veste già a partire dall’enunciazione espressa delle sue finalità. Con la riscrittura del sesto comma dell’articolo 5 della legge numero 898/1970, infatti, la proposta di legge individua lo scopo di tale emolumento nel riequilibrare, per quanto possibile, “la disparità che lo scioglimento o la cessazione degli effetti del matrimonio crea nelle condizioni di vita rispettive dei coniugi”.

Criteri per l’assegno divorzile. Vengono quindi individuati in maniera specifica i criteri che il giudice dovrà utilizzare nel valutare l’attribuzione dell’assegno. Nel dettaglio, in rapporto alla durata del matrimonio, vanno considerati:

  • Le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio;

  • Il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune;

  • Il patrimonio e il reddito di entrambi;

  • La ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali, nel corso della vita matrimoniale;

  • L’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti;

  • Il comportamento complessivamente tenuto da ciascuno in ordine al venir meno della comunione spirituale e materiale.

Durata dell’assegno. La proposta di legge prevede inoltre che in alcuni casi il giudice, sempre tenuto conto di tutti i predetti criteri, può predeterminare la durata dell’assegno, circoscrivendo quindi la sua corresponsione nel tempo. Si tratta in particolare delle ipotesi in cui la ridotta capacità reddituale del richiedente sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili.

Casi di esclusione dell’assegno. Il testo attualmente in parlamento, infine, chiarisce anche che l’assegno divorzile cessa di essere dovuto nel caso di nuove nozze, di unione civile con un’altra persona o di una stabile convivenza del richiedente, precisando che l’obbligo non sorge nuovamente a seguito di separazione, di scioglimento dell’unione civile o di cessazione della convivenza.

Redazione News Studio Cataldi 21 agosto 2018

www.studiocataldi.it/articoli/31246-assegno-di-divorzio-la-proposta-in-parlamento.asp

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CASSAZIONE

Struttura delle pronunce della Suprema Corte e qual è il metodo più corretto per interpretarle?

(…)

Cos’è la Corte di Cassazione? È il giudice finale, l’ultimo a decidere sulle nostre vicissitudini giudiziarie. Essendo al vertice della giurisdizione ordinaria, la Corte valuta se i precedenti giudici abbiano violato o meno le norme di legge, o la loro interpretazione orientata nel tempo. La sede della Corte di Cassazione è a Roma, in piazza Cavour. La sua composizione si articola in tredici sezioni, sei civili e sette penali. Ogni sezione si compone di cinque membri, di cui uno è nominato presidente. Alle volte, per dirimere un contrasto tra sezioni, o risolvere una questione diritto piuttosto complessa, la Cassazione si riunisce in Sezioni Unite, la cui pronuncia viene considerata al pari di una vera e propria norma di legge.

Che tipo di provvedimenti emette la Corte di Cassazione? La Suprema Corte può pronunciarsi con due tipi di provvedimenti: l’ordinanza e la sentenza. Solitamente l’ordinanza, nel processo civile, è un provvedimento interlocutorio che serve al Giudice per decidere su questioni procedurali intervenute nel corso del processo stesso, mentre la sentenza viene emanata a chiusura del processo per stabilire definitivamente la questione trattata (eccezione ne è la sentenza parziale, emessa in corso del processo a definizione di una parte della controversia). Certo, ci sono delle eccezioni per le quali l’ordinanza prende le sembianze di una vera e propria sentenza: caso classico è l’ordinanza di sfratto, con la quale l’intimante riesce ad ottenere un provvedimento con il quale poter cacciare dal proprio appartamento l’inquilino inadempiente. In Cassazione, l’ordinanza si avvicina ancora di più alle sentenze, essendo utilizzata per definire sempre una questione procedurale, o anche sostanziale, ma – diversamente che per quanto accade con la sentenza – appartiene ad un rito semplificato, secondo il quale la Cassazione può, in alcuni casi, emettere in camera di consiglio un provvedimento, per l’appunto l’ordinanza, succintamente motivato [Art. 375 c.p.c. ].

Sono pubbliche le sentenze emesse dalla Cassazione? I provvedimenti emessi dalla Suprema Corte di Cassazione sono pubblici e vengono pubblicati sul proprio sito istituzionale, al cui interno potrai trovare la sezione apposita denominata “sentenze” nella categoria prescelta, a seconda che sia giurisprudenza civile, penale, costituzionale o comunitaria; esiste anche una sezione chiamata “Recentissime dalla Corte” dove poter leggere le ultime novità provenienti dai Giudici della Cassazione.

Ovviamente, all’interno delle sentenze troverai oscurate le parti relative ai dati personali dei soggetti coinvolti in quel processo, al fine di tutelare la loro privacy, altrimenti violata da un numero indeterminato di persone.

Come sono strutturate le sentenze della Cassazione? La sentenza emessa dalla Corte di Cassazione è suddivisa in quattro parti.

  1. Epigrafe. In questa prima parte, vengono indicate le parti processuali che hanno generato il procedimento davanti alla Suprema Corte. Quelle parti hanno percorso tutti i gradi di giudizio previsti dal legislatore fino ad arrivare a Roma, dove attendono la risposta definitiva alla soluzione del problema prospettato. Viene anche indicata la sezione della Cassazione che sta decidendo, i nomi dei consiglieri intervenuti, e del loro presidente, gli estremi della sentenza impugnata e del ricorso presentato.

  2. Considerato in fatto. Qui la sezione fa un excursus storico di quelle che sono state le fasi giudiziali percorse dalle parti e le decisioni prese prima dal Tribunale, e poi dalla Corte d’appello che hanno spinto la parte ricorrente ad impugnare l’ultimo provvedimento contestato. La descrizione dei fatti è eseguita in modo estremamente sintetico, anche perché serve solo a spiegare al lettore, terzo non interessato direttamente, il caso trattato nella sentenza, al fine di poter applicare l’eventuale principio di diritto derivato da quella pronuncia al proprio caso di specie.

  3. Ritenuto in diritto. Questa è la parte più importante della sentenza, dove i Consiglieri spiegano alle parti il perché quel ricorso debba essere accolto, o rigettato. In questo segmento della sentenza, i Giudici analizzano singolarmente ogni motivo del ricorso e, punto per punto, spiegano perché lo stesso debba dichiararsi fondato o meno. Nello strutturare le motivazioni dell’accoglimento, i consiglieri di Cassazione fanno spesso dei richiami giurisprudenziali a precedenti orientamenti della stessa Corte o, in caso di discostamento, spiegano il perché quell’orientamento debba essere disatteso.

  4. Dispositivo. Questa è la parte finale della sentenza, all’interno del quale si stabiliscono i provvedimenti che la Cassazione prenderà a seguito del ricorso; e cioè:

  1. Se rigettare il ricorso, perché inammissibile, infondato, irricevibile e quant’altro,

  2. Se accogliere il ricorso, definendo la questione all’interno del provvedimento stesso,

  3. Se accogliere il ricorso rinviando ad altra sezione della corte d’appello competente per territorio, comandando a quei giudici di valutare il caso di specie alla luce del nuovo principio di diritto stabilito dalla sentenza di rinvio.

Infine, i Giudici stabiliranno nel dispositivo su chi ricadrà l’incombenza delle spese processuali o, in casi particolari, deciderà se compensare integralmente o parzialmente quelle spese.

Perché è importante leggere la sentenza per esteso? Molte volte ci si sofferma all’estratto di una sentenza riportato dentro un articolo di giornale, piuttosto che del web. Anche vari studiosi di diritto spesso, in via sbrigativa, decidono di soffermarsi sul principio di diritto espresso dalla sentenza trovata all’interno della banca dati giuridica, senza approfondire cosa abbia portato la Cassazione a formare quell’assunto giuridico. Questa condotta, se da un lato può far risparmiare allo studioso molto tempo, dall’altro può far sorgere il concreto rischio di applicare il principio di diritto espresso dalla Cassazione su di un caso che poco si avvicina a quello trattato dai consiglieri della Suprema Corte.

Le conseguenze non sono di poco conto in quanto, nella predisposizione di una memoria difensiva, o di un atto di citazione, ci si crea l’errata convinzione che la propria tesi sia avallata dalla Corte di Cassazione mentre, in realtà, il caso trattato da quest’ultima esulava dal caso trattato in quel giudizio.

Ecco che, qualunque sia il motivo della ricerca giurisprudenziale, è sempre buona prassi leggere interamente la sentenza della Corte di Cassazione, verificando all’uopo quale sia effettivamente il caso trattato, oltre il ragionamento logico-giuridico fatto proprio da quest’ultima.

Salvatore Cirilla La Legge per tutti 23 agosto 2018

www.laleggepertutti.it/232525_come-leggere-le-sentenze-della-cassazione

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CHIESA CATTOLICA

Pedofilia, Papa Francesco accusa il clericalismo? Lo cancelli superando il celibato

Cosa deve fare la Chiesa concretamente per risolvere il problema del clericalismo? Non bastano conversione digiuno e preghiera se queste non si traducono in concrete riforme che riducano la distanza tra clero e laicato: modificando il governo delle parrocchie oggi dato in esclusiva ai parroci, coinvolgendo il laicato nella elezione dei vescovi, prospettando forme diverse di selezione e formazione dei preti e quindi chiudendo i seminari, eliminando l’obbligo del celibato.

Qualche commentatore (ad esempio, Alberto Melloni su La Repubblica) ha molto enfatizzato il riferimento critico che il Papa ha fatto al clericalismo nella sua “lettera al popolo di Dio” ispirata dalle recenti rivelazioni sui crimini sessuali del clero. Innanzitutto va detto che si tratta di poche righe all’interno di un testo che presenta, per il resto, una lettura inadeguata e puramente spirituale della vicenda della pedofilia clericale, tutta centrata sul pentimento, la preghiera e il digiuno, ovvero su quelle medicine spirituali dispensate a piene mani lungo i decenni dai vescovi che coprivano pedofili e gli abusatori.

In secondo luogo, si tratta di un riferimento vaghissimo e totalmente incongruente con la strategia che Francesco ha deciso di seguire sul tema. Riferendosi al clericalismo infatti il pontefice ha evocato “un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa […]” che “non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso – ha concluso sul punto il papa – significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”.

Sono parole che sentiamo pronunciare da tantissimi anni (anche, e spesso, dal predecessore tedesco di Bergoglio) e sono parole giuste e vere. Il punto è: cosa deve fare la Chiesa concretamente per risolvere il problema del clericalismo? Una prima via è quella di insistere sulla preghiera, la penitenza, la conversione al Vangelo: tutte azioni meravigliose ed edificanti sotto un profilo spirituale ma, temo (e non sono il solo a nutrire questo sospetto), totalmente inefficaci sul piano pratico, inadatte a produrre il gigantesco cambiamento che sta dinanzi alla Chiesa Cattolica, se essa avesse davvero deciso di cambiare strada.

La seconda via è, ahimè, molto più dolorosa, anche se decisamente più esaltante sotto il profilo dei risultati che consentirebbe di ottenere. Essa consiste nell’agire razionalmente e nel pensare che il problema del clericalismo si risolve riducendo la distanza che oggi separa il laicato dal clero cattolico e che tale distanza possa essere accorciata se si riducono drasticamente i privilegi e le risorse di potere del clero.

Non è difficile individuare i modi attraverso i quali questo può avvenire. Si potrebbe, ad esempio, iniziare a sottrarre del tutto ai parroci il governo delle parrocchie, privandoli di quelle funzioni di governo (finanziario e pastorale) assoluto e monocratico di cui beneficiano oggi. Si potrebbero, introducendo un importante elemento di democrazia, rendere eleggibili i vescovi. Si potrebbero, sostituendoli con strutture formative aperte e trasparenti, chiudere i seminari, istituzioni della controriforma nel quale il clericalismo come spirito di casta viene ancor oggi esaltato e coltivato. Si potrebbe soprattutto cancellare la norma sulla quale il clericalismo viene oggi maggiormente fondato (e che è anche alla base della stragrande maggioranza dei crimini sessuali del clero) e cioè il celibato obbligatorio. E’ proprio la castità presunta del clero, con tutto il corollario di purezza, sacralità, sovrumanità che ad essa si accompagna, a stabilire la principale premessa del clericalismo. E’ l’idea che il prete sia in grado di fare quello che a nessuno di noi riesce e cioè domare i propri istinti sessuali sublimandoli nella preghiera e nell’amore degli altri a farci pensare che sia una creatura speciale, una persona che Dio ama di più di quanto di ami noi, una sorta di anello di congiunzione tra l’umano e il divino che merita rispetto e venerazione.

Questa è la principale sorgente del clericalismo. Ed è questa la questione che Francesco non ha mai avuto il coraggio di affrontare, dimostrandosi fino in fondo prigioniero della logica che pure ha denunciato. Se lo facesse forse crollerebbe la Chiesa, ma il cristianesimo potrebbe vivere una stagione nuova e rinnovata. All’insegna della verità e del coraggio.

Marco Marzano, Ordinario di Sociologia dell’Organizzazione, Università di Bergamo.

Il fatto quotidiano 25 agosto 2018

www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/25/pedofilia-papa-francesco-accusa-il-clericalismo-lo-cancelli-superando-il-celibato/4580397

 

Guardini sulla pena di morte: infondata e tuttavia da rimpiangere?

In un breve scritto del 1961, Sul problema della reintroduzione della pena di morte (in R. Guardini, Scritti politici, ed. M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana, 2005, 543-547) troviamo una riflessione forte, anche discutibile, ma utile a illuminare, quasi 60 anni dopo, le nostre discussioni successive al mutamento del CCC [Catechismo Chiesa Cattolica] da parte di papa Francesco sul tema della “pena di morte”. Vorrei qui presentare brevemente il testo di Guardini e la sua tesi di fondo, per poi confrontarlo con la nostra discussione attuale, che ne risulta per certi versi decisamente illuminata.

  1. Il testo e la tesi di Guardini sulla pena di morte. Nonostante la sua brevità, il testo è assai denso. Procede in tre passi. Nel primo denuncia una certa confusione nel dibattito del suo tempo, enumerando una serie di “argomenti” da considerare separatamente:

  1. la restrizione della libertà non sembra pena sufficiente a ristabilire la giustizia;

  2. l’abuso della pena di morte da parte dei regimi nazisti e comunisti l’ha resa un omicidio legalizzato;

  3. la esecuzione viene oggi percepita come disumana; non c’è accordo sul diritto dello Stato a comminare la pena di morte; non più colpa e peccato, ma deterrenza e riabilitazione giustificano la pena.

“Pertanto alla pena di morte sembra mancare una fondazione sufficiente” (544).

Ma queste argomentazioni, ad avviso di Guardini, non colgono il “nesso decisivo”. I difensori della pena di morte partono da un presupposto metafisico-religioso: un giudizio sulla vita o sulla morte può essere pronunciato solo da uno Stato che si riconosca un’autentica autorità. Non come esercizio di una funzione dell’ordinamento, ma come “rappresentante dell’autorità in quanto tale, dunque della autorità di Dio e della sua maestà” (545).

Per Guardini questo modo di difendere la pena di morte non deriva da motivi dispotici o sadici, “ma dalla stessa radice da cui deriva l’amore, cioè dalla convinzione che l’esistenza è determinata personalmente, in ultima istanza dalla personalità assoluta di Dio” (545). Ma se lo Stato rifiuta questa rappresentanza, perde quel “peso ontologico” che costituisce il presupposto di un giudizio legittimo sulla vita e sulla morte. Quando questo è perduto, il rapporto con la pena di morte diventa o utilitaristico o criminale.

Siccome Guardini riconosce che, già ai suoi tempi – ossia quasi 60 anni fa – questa riconduzione della autorità alla sua base ontologica “non sembra avere più luogo”, allora una eventuale reintroduzione della pena di morte sarebbe priva di fondazione autentica.

Ma per Guardini resta come una ferita aperta: egli ribadisce, con una certa dose di nostalgia, che “l’ordinamento giuridico che punisce determinati delitti gravi con pene che prevedono soltanto una restrizione della libertà è oggettivamente insufficiente e finisce necessariamente per condurre a una disgregazione della coscienza giuridica e dell’ordine della vita” (546). Dunque, per Guardini, l’orizzonte ultimo della comunità sembra poter escludere la pena di morte solo come “caso di necessità”, ma quasi ne esige la possibilità come condizione di una “autorità assoluta”. Sembra che uno Stato, che si privasse strutturalmente della possibilità di giudicare sulla vita e sulla morte, perderebbe la sua caratteristiche autorevole, avendo smarrito la funzione di “rappresentanza” della maestà divina.

2. Una parola che viene “da un altro mondo”, ma che sa scrutare quello nuovo. La lettura del testo di Guardini è davvero sorprendente. Vi appare, forse in modo esageratamente accentuato, una teoria della obbedienza e della autorità, non nuova in Guardini, ma che forse crede di trovare nella “pena di morte” la sua forma esemplare. Da questo punto di vista Guardini appartiene ancora, pienamente e in modo convinto, ad un mondo che ritiene inconcepibile escludere totalmente la pena di morte dalla esperienza della “autorità legittima”. Ma Guardini partecipa già del mondo nuovo e pertanto sa che le condizioni culturali, sociali e storiche non permettono più di comprendere ciò che “fonderebbe” la pena di morte in modo giustificato.

Guardini offre un argomento molto utile per comprendere il mondo che fu: rende giustizia alla tradizione che, interpretando il potere statale come “rappresentanza di Dio” – da Paolo, a Lutero al Re Sole – non può rinunciare alla “pena di morte” per non perdere sia l’autorità, sia il suo fondamento, ossia Dio. Questo pensiero tradizionale diventa tradizionalismo nel mondo tardo-moderno. Guardini è, sulla pena di morte, affascinato dalla tradizione, ma in modo non tradizionalistico. Conosce la autonomia, conosce la mediazione. In modo singolare, ma efficace, sa di non poter semplicemente argomentare in modo “astratto”, come fanno i tradizionalisti. Se il “fondo ontologico” regge, allora la pena di morte ha la stessa origine dell’amore. E il condannato a morte può essere riconosciuto come santo. Ma quando il “peso ontologico” viene a mancare, non può più essere presupposto o imposto, e occorre riconoscere che la pena di morte diviene o cinismo o atto criminale.

3. Una lucidità sofferta, ma illuminante. Guardini, nonostante la nostalgia che affiora dalla sua pagina, resta lucido. Offre una soluzione non tradizionalistica. Ma sente il peso di un mondo di cui non comprende fino in fondo la novità. Che la scomparsa della pena di morte debba portare “a una disgregazione della coscienza giuridica e dell’ordine della vita” (546) è un giudizio che non influisce sulla soluzione, ma che mostra una sofferenza guardiniana di fronte al mondo contemporaneo. Egli riconosce e onora la novità, anche se tende a giudicarla con le categorie del passato.

Forse può essere utile al dibattito di oggi tenere bene a mente la argomentazione di Guardini, con tutta la sua lucida debolezza: vi è stato un mondo in cui la autorità di vita o di morte permetteva di identificare, in un solo punto, la sorgente dell’amore e la titolarità della pena di morte. Già nel 1961, per Guardini, non è più questo il caso. Con dolore e con fatica, egli risponde: quel mondo non torna più, in quella forma e con quell’ordinamento. Se potessimo trovare solo un decimo della lucidità di Guardini, oggi, tra le schiere di coloro che si scandalizzano per la riformulazione del CCC sulla pena di morte! Da lui, se lo hanno letto, hanno imparato solo la nostalgia. Che Guardini sapeva signoreggiare e tenere al suo posto, mentre i tradizionalisti lasciano ad essa, con risentimento, di coprire tutto il campo della questione, senza prestare più alcuna attenzione né alla storia che cambia né alla cultura che si sviluppa.

Andrea Grillo Blog Come se non 24 agosto 2018

www.cittadellaeditrice.com/munera/guardini-sulla-pena-di-morte-infondata-e-tuttavia-da-rimpiangere

 

Comunione ai cristiani non cattolici, il riferimento è il Concilio.

Desidero dare una risposta all’articolo online apparso su Bussola Quotidiana, firmato da Luisella Scrosati, intitolato “Coccopalmerio saccheggia i testi della Chiesa”

www.lanuovabq.it/it/coccopalmerio-saccheggia-i-testi-della-chiesa

e riferentesi all’Intervista da me rilasciata ad Andrea Tornielli per Vatican Insider in data 30 luglio 2018 con il titolo “La comunione al coniuge non cattolico, ecco perché è possibile”.

www.lastampa.it/2018/08/01/vaticaninsider/la-comunione-al-coniuge-non-cattolico-ecco-perch-possibile-vlylv6t1Hrs7JyaD3vXMZN/pagina.html

L’intervento di Bussola Quotidiana mi dà la felice occasione di precisare il mio pensiero sul difficile tema dell’intercomunione.

Procedo per punti, nei quali riferisco le osservazioni dell’Autrice e cerco di dare le mie spiegazioni.

  1. All’inizio dell’ampia requisitoria, l’Autrice ricorda che il can. 844, §4 del Codice di diritto canonico “delimita alla situazione di pericolo di morte o altra grave necessità (più correttamente: grave e urgente – confronta “urgeat”) la possibilità di comunicare sacramentalmente un protestante”.

[Codice di Diritto Canonico 25 gennaio 1983 ed è entrato in vigore il 27 novembre 1983]

  1. www.vatican.va/archive/cod-iuris-canonici/cic_index_it.html

Se vi sia pericolo di morte o qualora, a giudizio del Vescovo diocesano o della Conferenza episcopale, urgesse altra grave necessità, i ministri cattolici amministrano lecitamente i medesimi sacramenti (cioè i sacramenti della Penitenza, dell’Eucaristia e dell’Unzione degli infermi) anche agli altri cristiani (cioè ai cristiani appartenenti alle Confessioni di occidente) che non hanno piena comunione con la Chiesa cattolica, i quali non possono accedere al ministro della propria comunità e li richiedono spontaneamente, purché manifestino, circa questi sacramenti, la fede cattolica e siano ben disposti” (can. 844, §4).

2 Nel seguito immediato, l’Autrice afferma che l’intervistatore pone la sua attenzione sulle due espressioni usate da Giovanni Paolo II: “casi particolari” (Enciclica “Ut unum sint”, n. 46) e “circostanze speciali” (Enciclica “Ecclesia de Eucharistia”, n. 45). Secondo l’intervistatore, tali espressioni sembrerebbero aumentare i casi di possibile amministrazione dei sacramenti, aldilà dei casi ristretti previsti dal can. 844, §4. Secondo l’Autrice, invece, tali due espressioni si riferiscono strettamente al can. 844, §4 e ne ribadiscono il senso. Sempre secondo l’Autrice, il Cardinale Coccopalmerio seguirebbe l’interpretazione data dall’intervistatore. Voglio al riguardo precisare che così non è. E, in effetti, nel fare l’esegesi del can. 844, §4, e cioè per capire che cosa esattamente significhi necessità grave e urgente, non parto dalle espressioni “casi particolari” o “circostanze speciali”, bensì affermo che il Codice e quindi il can. 844, §4 è essenzialmente dipendente dal Concilio Vaticano II e deve pertanto essere interpretato a partire da questo. Per tale motivo, ho considerato il testo di “Unitatis redintegratio”, n. 8,4. Ho infatti la convinzione che l’autentico significato del can. 844, §4 e, perciò, di “necessità grave e urgente” nella statuizione dello stesso testo, deve essere ricavato dall’insegnamento di “Unitatis redintegratio”, n.8, 4. [Concilio Vaticano II. Decreto sull’ecumenismo. 21 novembre 1964. 8,4 Tuttavia, non è permesso considerare la «communicatio in sacris» come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell’unità dei cristiani. Questa «communicatio» è regolata soprattutto da due principi: esprimere l’unità della Chiesa; far partecipare ai mezzi della grazia. Essa è, per lo più, impedita dal punto di vista dell’espressione dell’unità; la necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo concreto di agire, avuto riguardo a tutte le circostanze di tempo, di luogo, di persone, decida prudentemente l’autorità episcopale del luogo, a meno che non sia altrimenti stabilito dalla conferenza episcopale a norma dei propri statuti, o dalla santa Sede.]

www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19641121_unitatis-redintegratio_it.html

Risulta utile, per la chiarezza del discorso, rileggere e confrontare i due testi. “Questa «communicatio in sacris» (con altro termine: la intercomunione) è regolata soprattutto da due principi:

  1. Esprimere l’unità della Chiesa;

  2. Far partecipare ai mezzi della grazia.

Essa è, per lo più, impedita dal punto di vista dell’espressione dell’unità; la necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda” (“Unitatis redintegratio”, n.8,4). Aggiungo due spiegazioni relative a “Unitatis redintegratio”, n.8, 4.

  1. Quanto al primo dei due principi, “esprimere l’unità della Chiesa” significa sostanzialmente questo: quando la Chiesa cattolica amministra i sacramenti a un battezzato, afferma con tale atto che questo battezzato è con la Chiesa cattolica in comunione piena. Per tale motivo la Chiesa cattolica non potrebbe amministrare i sacramenti a un cristiano non cattolico che è con la Chiesa cattolica in comunione non piena. In questo caso l’amministrazione dei sacramenti comporterebbe il pericolo di indifferentismo ecclesiologico e di scandalo conseguente, intendendo con indifferentismo ecclesiologico l’affermazione erronea che non c’è differenza tra essere o non essere con la Chiesa cattolica in comunione piena e intendendo con scandalo conseguente la convinzione erronea derivante logicamente dall’affermazione erronea.

  2. Quanto al secondo dei due principi, “far partecipare ai mezzi di grazia” significa sostanzialmente questo: i battezzati, in quanto battezzati, hanno la necessità spirituale di ricevere il conferimento della grazia santificante non in un modo qualsiasi, bensì in un modo specifico, cioè con l’amministrazione dei sacramenti. Questo vale – come ovvio – anche per i battezzati non cattolici. Rendiamoci ben conto: i battezzati non cattolici hanno la necessità spirituale di ricevere la grazia santificante attraverso l’amministrazione dei sacramenti. Ciò comporta logicamente che i battezzati non cattolici, nei casi in cui non possono ricevere l’amministrazione dei sacramenti da parte dei loro ministri, hanno la necessità spirituale di riceverli dalla Chiesa cattolica. Tutto ciò possiamo ritenere come comprensibile e logica determinazione della “gratia procuranda” (dove si noti il gerundio come segno di necessità).

A questo punto, l’argomentazione dell’Autrice si fa complessa e quindi non è facile capirla e darvi risposta. Cito solo questo passo “Sua Eminenza … prosegue «da par suo» a far man bassa dei testi del Magistero. Riferendosi al testo del decreto del Vaticano II sull’ecumenismo, “Unitatis redintegratio”, 8, Coccopalmerio spiega che «questa `communicatio ́ è regolata da due principi:

  1. Esprimere l’unità della Chiesa;

  2. Fare partecipare ai mezzi della grazia. Essa è, per lo più, impedita dal punto di vista dell’espressione dell’unità; la necessità di partecipare alla grazia talvolta la raccomanda». (Sembra che le parole virgolettate siano una mia spiegazione. In realtà sono una citazione del testo di “Unitatis redintegratio”, n. 8, 4). L’Autrice continua dicendo: “Di questo testo, il cardinal Coccopalmerio propone una interpretazione tutta sua, come se la Santa Sede non l’avesse mai fornita”.

Rispondo dicendo che la mia interpretazione del testo di “Unitatis redintegratio”, n. 8, 4 è consistita nel sottolineare le parole nelle quali viene espresso il principio della necessità spirituale di conferire la grazia santificante ai cristiani non cattolici, da parte della Chiesa cattolica non in un modo qualsiasi, bensì con l’amministrazione dei sacramenti. Il principio della “gratia procuranda” e cioè della necessità spirituale come indicato sopra determina che a volte l’amministrazione dei sacramenti ai cristiani non cattolici sia non solo possibile bensì anche raccomandata.

Sinceramente non capisco come avrei saccheggiato i predetti testi del Magistero solo citando alla lettera il testo di “Unitatis redintegratio”, n. 8, 4 e avendo solo ridetto ciò che il testo esprime.

  1. Altro punto di contestazione: “Dopo aver preso congedo dalla grammatica, il Cardinale Coccopalmerio manda in ferie anche il lessico: «la grave necessità» cui – si è visto – rimandano tutti gli interventi successivi alla promulgazione del can. 844, sparisce per lasciare il posto, in via definitiva, al «caso eccezionale», che diventa criterio dirimente, ed «il grave bisogno spirituale per l’eterna salvezza» di “Ecclesia de Eucharistia”, 45 diventa una semplice «necessità spirituale»”.

http://www.vatican.va/holy_father/special_features/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_20030417_ecclesia_eucharistia_it.html

Mi rendo conto che la risposta non appare facile. Vediamo, però, di capirci bene. Sappiamo che “Unitatis redintegratio”, n.8, 4 stabilisce due principi cioè due necessità: evitare il pericolo di indifferentismo o di scandalo; conferire la grazia santificante mediante l’amministrazione dei sacramenti.

I due principi o le due necessità devono essere rispettati insieme. Possiamo dire così: nei casi in cui non è possibile evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo, non è possibile amministrare i sacramenti; nei casi in cui è possibile evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo, è possibile, anzi raccomandato, di amministrare i sacramenti. Da questi due principi deve partire la corretta esegesi del can. 844, §4. Il quale – evidentemente – tiene in considerazione entrambi i principi, però sembra particolarmente preoccupato di evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo. E allora indica due casi, che ritiene sicuri, nel senso che in tali condizioni non dovrebbe verificarsi il pericolo di indifferentismo e di scandalo: il pericolo di morte e la necessità grave e urgente. Quanto al pericolo di morte, nessun dubbio interpretativo.

Quanto alla necessità grave e urgente, dobbiamo invece chiederci cosa precisamente significhi. Possiamo addurre l’esempio seguente: se un cristiano non cattolico deve sottoporsi a una operazione chirurgica di notevole impegno (senza tuttavia pericolo di morte) e deve sottoporvisi in breve tempo, tale caso configura una necessità grave e urgente. Ora risulta chiaro che in questo preciso caso, proprio a motivo della situazione di necessità grave e urgente, si evita il pericolo di indifferentismo e di scandalo: tutti, infatti, possono constatare che l’amministrazione dei sacramenti a un non cattolico configura in questo caso la risposta della Chiesa cattolica a una necessità spirituale grave e urgente.

4. Altra contestazione e altra citazione: “L’affermazione più grave deve però ancora venire. Dopo aver litigato con il lessico e la grammatica, il cardinale Coccopalmerio fa decisamente a pugni con l’ortodossia… che ne è di una condizione richiesta ai cristiani non cattolici… e cioè di avere la stessa fede della Chiesa riguardo ai sacramenti?”. L’Autrice contesta la mia risposta, secondo la quale, per limitarci all’Eucaristia, è necessario e sufficiente credere in quello che Gesù ha indicato nell’ultima cena: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue e credere quindi che dopo la consacrazione il pane è il corpo di Gesù e il vino è il sangue di Gesù. Non risulta invece necessario aderire a dottrine teologiche, anche di altissimo valore, quale quella della transustanziazione. E, invece, secondo l’Autrice per avere nell’Eucaristia la stessa fede della Chiesa cattolica sarebbe anche necessario aderire alla dottrina della transustanziazione.

Devo qui, ripetere onestamente la mia convinzione che per avere nell’Eucaristia la stessa fede della Chiesa cattolica non risulta necessario aderire a dottrine teologiche, neanche a quella della transustanziazione. Tuttavia, a ben vedere, se un fedele crede che dopo la consacrazione il pane è diventato il corpo di Gesù e il vino è diventato il sangue di Gesù, aderisce di per sé e ovviamente anche alla dottrina della transustanziazione: infatti crede che l’essere del pane si è trasformato nell’essere del corpo di Gesù, la sostanza del pane si è trasformata nella sostanza del corpo di Gesù e così per la sostanza del vino; quindi crede che è avvenuta una transustanziazione. Ritengo che su questo punto non ci siano problemi o siano necessarie altre spiegazioni.

5. Un ultimo aspetto su cui l’Autrice pone l’attenzione sarebbe questo: nella mia intervista non ricorderei e per tale motivo non esigerei tutte le condizioni che rendono lecita l’amministrazione dei sacramenti a un protestante e cioè “se vi sia pericolo di morte o altra grave (e urgente) necessità e a singole persone e che desiderano riceverli e che li domandano liberamente e che hanno la stessa fede della Chiesa in questi sacramenti”.

Posso precisare che tali condizioni sono state da me elencate nella prima risposta al n. 4, b (si noti che la lista dell’Autrice non è completa perché mancano le seguenti: siano ben disposti e non possano accedere al ministro della loro confessione) e che a questo punto era solo necessario indicare esattamente la esegesi della grave e urgente necessità secondo la statuizione del can. 844, §4 e in essenziale dipendenza dall’insegnamento di “Unitatis redintegratio”, n. 8,4.

6. Potrebbe, forse, risultare utile, per i pazienti lettori, presentare in sintesi e con scaletta logica le osservazioni svolte nelle righe precedenti.

    1. La esegesi del can. 844, § 4 deve essenzialmente dipendere dall’insegnamento di “Unitatis redintegratio”, n. 8, 4

  1. La grande affermazione di tale testo consiste a mio giudizio nel principio della “gratia procuranda”, cioè nella affermazione della necessità spirituale che la grazia santificante sia conferita a tutti i battezzati, non in un modo qualsiasi, bensì con l’amministrazione dei sacramenti.

  2. Ciò comporta logicamente che i battezzati non cattolici nei casi in cui non possono ricevere l’amministrazione dei sacramenti da parte dei loro ministri, hanno la necessità spirituale di riceverli dalla Chiesa cattolica.

  3. In ogni modo, nell’amministrare i sacramenti da parte della Chiesa cattolica ai battezzati non cattolici deve essere evitato il pericolo di indifferentismo e di scandalo: nei casi in cui non è possibile evitare il pericolo non è possibile amministrare i sacramenti; nei casi in cui è possibile evitare il pericolo è possibile amministrare i sacramenti.

  4. Il problema davvero cruciale è ora il seguente: quali sono i casi in cui risulta possibile evitare il pericolo di indifferentismo e di scandalo? Abbiamo visto che il can. 844, §4 ne presenta due, cioè il pericolo di morte oppure una necessità grave e urgente, indicandoci che tali casi sono casi sicuri, casi cioè nei quali è sicuramente possibile evitare il duplice pericolo.

  5. Possiamo tuttavia ritenere che esistano altri casi in cui è possibile evitare l’indifferentismo e lo scandalo. Il criterio per individuarli dovrebbe essere una condizione di eccezionalità. Da comprendersi e da spiegarsi nel modo seguente. Un cristiano non cattolico si trova in una condizione di eccezionalità che determina in lui la richiesta dei sacramenti. La Chiesa cattolica risponde alla richiesta amministrando i sacramenti. Tutti nella comunità ecclesiale, o anche fuori di essa, possono facilmente e onestamente interpretare l’atto della Chiesa cattolica non, certamente, come affermazione di indifferentismo, bensì, chiaramente, come risposta alla richiesta fatta da un non cattolico che si trova in condizione di eccezionalità. In altre parole, tutti possono facilmente e onestamente ritenere che l’amministrazione dei sacramenti in queste condizioni di eccezionalità non significa che la Chiesa cattolica considera un non cattolico allo stesso modo di un cattolico, ma significa soltanto che essa adotta un comportamento consentaneo a una condizione di eccezionalità.

Possiamo fare alcuni esempi di quanto detto. Una mamma, non cattolica, partecipa alla celebrazione della Messa in cui il figlio cattolico riceverà la prima Comunione e per non restare divisa, in questo eccezionale momento, dal suo bambino, chiede di ricevere la Comunione con lui. Questa condizione di eccezionalità è a tutti nota e quindi tutti nella comunità ecclesiale, o anche fuori di essa, possono facilmente e onestamente riconoscere che la Chiesa cattolica, amministrando la comunione a questa mamma, non la considera come cattolica, ma solo le consente di non separarsi dal suo bambino in questo momento.

Un figlio, non cattolico, partecipa alla celebrazione della Messa in occasione delle esequie del padre e in questa eccezionale circostanza chiede di ricevere la Comunione.

Anche il caso della coppia mista che partecipa alla Messa in chiesa cattolica può configurare una condizione di eccezionalità a tutti nota.

Insomma – vogliamo ripeterlo – la condizione di eccezionalità dovrebbe portare tutti a ritenere che la Chiesa cattolica amministrando i sacramenti a un non cattolico non intende considerarlo come un cattolico, ma vuole soltanto adottare un comportamento consentaneo a una condizione di eccezionalità.

Negli esempi adotti poco sopra e in altri ipotizzabili, la oggettiva condizione di eccezionalità e la soggettiva interpretazione corretta dell’atto della Chiesa cattolica sono elementi essenziali. Per quello che riguarda l’interpretazione corretta, notiamo bene che molto dipende dalla maturità delle persone che sono di volta in volta chiamate a interpretare correttamente il gesto della Chiesa cattolica. In ogni modo, in questa materia è necessario giudicare ogni caso in modo singolare e concreto.

Per tale motivo il testo del can. 844, § 4 statuisce molto saggiamente: “a giudizio del Vescovo diocesano o della Conferenza episcopale”.

Ritorniamo – per concludere il discorso – all’insegnamento di “Unitatis redintegratio”, n.8, 4 e alla statuizione del can. 844, §4.

Unitatis redintegratio”, n.8, 4 insegna chiaramente che quando risulta garantito il primo dei due principi, quello dell’unità della Chiesa, allora il secondo principio, quello della “gratia procuranda”, esprime la sua forza e consente, anzi raccomanda, che vengano amministrati i sacramenti.

Il can. 844, §4, che dipende essenzialmente dal testo precedente, riceve dallo stesso un’interpretazione dinamica, nel senso che i due casi del pericolo di morte e della necessità grave e urgente sono da considerarsi due casi esemplari, però non unici, in cui si verifichi una condizione di eccezionalità che esclude nell’amministrazione dei sacramenti da parte della Chiesa cattolica a battezzati non cattolici il pericolo di indifferentismo e di scandalo e applichi il principio della “gratia procuranda”.

Cardinale Francesco Coccopalmerio, Presidente emerito del Pontificio consiglio per i testi legislativi

La Stampa Vatican Insider 22 agosto 2018

www.lastampa.it/2018/08/22/vaticaninsider/comunione-ai-cristiani-non-cattolici-il-riferimento-il-concilio-GV6nv2XxfGiPWeFYlUeGMP/pagina.html

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DALLA NAVATA

XXI Domenica del Tempo ordinario- Anno B – 26 agosto 2018

Giosuè 24. 18 «Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».

Salmo 33. 20 Molti sono i mali del giusto, ma da tutti li libera il Signore.

Efesìni 05. 31 Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.

Giovanni 06. 60 «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»

 

Volete andarvene anche voi?” Commento di Enzo Bianchi.

Siamo giunti alla fine del capitolo sesto del vangelo secondo Giovanni e in questi ultimi versetti ci viene posto davanti tutto l’urto, lo scandalo che le parole di Gesù hanno causato non solo nelle folle dei giudei ma anche tra i suoi discepoli.

Questa crisi nelle relazioni tra Gesù e la sua comunità è testimoniata da tutti e quattro i vangeli al momento di una parola decisiva di Pietro che confessava l’identità di Gesù come Messia (cf. Mc 8,29 e par.) e come inviato dal Padre quale Figlio. Perché questa crisi? Perché le parole di Gesù a volte erano dure e urtavano anche gli orecchi di discepoli che lo seguivano con affetto e attenzione ma non riuscivano ad accettare, ritenendola una pretesa, che Gesù fosse “disceso dal cielo” e che nella carne (basar/sárx) di un corpo umano fragile e mortale raccontasse il Dio vivente e vero. Nel suo discorso Gesù aveva detto più volte: “Io sono il pane vivente disceso dal cielo” (Gv 6,51; cf. 6,33.38.41-42.58), ma proprio quelli che lo avevano acclamato come “il grande profeta che viene nel mondo” (cf. Gv 6,14) e che avevano voluto addirittura proclamarlo re (cf. Gv 6,15), di fronte a queste parole si sentono scandalizzati nella loro fede. Profeta sì, Messia sì, Inviato di Dio sì, ma disceso dal cielo e diventato carne, corpo consegnato (verbo paradídomi) e donato fino alla morte violenta, carne da mangiare e sangue da bere (cf. Gv 6,51-56), questo proprio no: sono parole che suonano come una pretesa insopportabile, impossibili da ascoltare!

Gesù, che conosce queste mormorazioni dei discepoli, a questo punto non ha paura di dire tutta la verità, a costo di causare una divisione tra i suoi e un abbandono della sua sequela. Potremmo dire che “attacca” i mormoratori: “Questo vi scandalizza? E quando vedrete il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”. Cioè, “quando sarete messi di fronte alla realtà del Figlio dell’uomo che, attraverso l’innalzamento sulla croce, la morte ignominiosa, salirà a Dio dal quale è venuto (cf. Gv 3,14; 8,28; 12,32)? Quando sarà manifestata la piena identità di colui che è disceso da Dio e che a Dio è risalito nella sua umanità assunta come condizione carnale, mortale, ‘simile alla carne del peccato’ (Rm 8,3), allora lo scandalo sarà più grande”! Gesù fa questo attacco soffrendo tutto il peso dell’incredulità, della non comprensione da parte di quelli che da anni erano coinvolti con lui e assidui alla sua parola. Com’è possibile questo loro comportamento?

Ecco perché egli non può fare altro che constatare che in realtà nessuno può venire a lui se il Padre non lo attira, non glielo concede. Occorre questo dono che non è dato arbitrariamente da Dio ma va cercato, va accolto come dono che non richiede alcun merito da parte di chi lo riceve. Ma anche questo scandalizza le persone religiose, che pretendono sempre che Dio faccia doni non solo secondo i loro desideri ma anche secondo quanto hanno meritato e conseguito. Ciò che di Gesù è scandaloso è la sua condizione umanissima, il suo consegnarsi in una carne fragile e in un corpo mortale a carni fragili e corpi mortali, cioè gli uomini. Com’è possibile che Dio si consegni in un uomo, “il figlio di Giuseppe” (Gv 6,42), una creatura umana che può essere consegnata, tradita, data in mano ai peccatori, come accadrà proprio a causa di uno dei Dodici, Giuda, un servo del diavolo (cf. Gv 6,70)? Qui la fede inciampa nel dover accogliere l’immagine di un “Dio al contrario”, di un “inviato divino, un Messia al contrario”, che è fragile, povero, debole e del quale gli uomini possono fare ciò che vogliono… È lo scandalo dell’incarnazione di Dio, patito lungo i secoli da molti cristiani, da molte chiese, dall’Islam stesso, e ancora oggi dagli uomini religiosi che accusano di non credere in Dio chi accoglie dal Vangelo il messaggio scandaloso di un Dio fattosi realmente, veramente uomo, carne mortale, in Gesù di Nazaret. La fede cristiana facilmente diventa docetismo, perché preferisce, come tutte le religioni, un Dio sempre e solo onnipotente, un Dio che non può diventare umano, come noi, in tutto eccetto che nel peccato.

Per questo Gesù incalza: “Volete andarvene anche voi?”, rivolgendosi a quelli che sono rimasti, in realtà pochi. Gesù non teme, anche se soffre, di restare solo, perché ha fede nella parola che il Padre gli ha rivolto, nella promessa di Dio che non verrà meno. Possono venire meno gli altri, ma Dio resta fedele! E così il vangelo registra che alcuni discepoli, scandalizzati dalle parole dei gesti di Gesù, se ne vanno: per paura? Per convinzioni religiose? In ogni caso per mancanza di fede. Costoro avevano accolto la vocazione, avevano seguito Gesù magari con entusiasmo, ma poi, non crescendo nella loro adesione a lui, sono inciampati nell’incomprensione delle sue parole. Di conseguenza, hanno imboccato un cammino di de-vocazione, smentendo la strada fatta fino a voltarsi indietro e ad andarsene. Tra di loro c’è anche Giuda, uno dei Dodici, scelto personalmente come discepolo da Gesù. Com’è possibile? Sì, è possibile che nella comunità di Gesù, e così nella comunità cristiana, ci sia chi diventa un ministro del diavolo, un discepolo del diavolo, dunque non può fare altro che tradire. E quando la relazione d’amore conosce il tradimento, per chi tradisce diventa impellente cancellare l’amato, fino a consegnarlo perché sia tolto di mezzo. Quello che gli altri vangeli collocano nell’ultima cena, Giovanni significativamente lo pone qui, nell’annuncio dell’eucaristia, dono della vita di Gesù a tutti.

A volte mi chiedo perché nella chiesa non si abbia il coraggio di far risuonare ancora oggi questa domanda di Gesù: “Volete andarvene anche voi?”; perché si insegni sempre il successo, si guardi al numero dei credenti, si compiano sforzi mirando alla grandezza della comunità cristiana e non alla qualità della fede. Siamo veramente gente di poca fede! La crisi invece, che è sempre fallimento, la allontaniamo il più possibile, la dissimuliamo, la tacciamo, affinché non appaia che a volte perdiamo, cadiamo, falliamo anche nelle nostre imprese ecclesiali e comunitarie, pur conformi alla volontà del Signore. D’altronde, Gesù userà l’immagine della potatura della vite per dire che vi sono tralci che vanno potati (cf. Gv 15,2): determinante, però, è che la potatura la compia il Padre, non noi e neppure chi nella comunità cristiana presiede o la lavora come un operaio. Di per sé il Vangelo ha la forza di attrarre e di lasciar cadere: basta che sia annunciato nella sua verità e con franchezza, senza essere edulcorato. Sì, il Vangelo è la Parola di vita eterna, come Pietro risponde a Gesù, confessando che la fede della chiesa è fede nel “Santo di Dio”, cioè fede che in Gesù c’è la Shekinah, la Presenza di Dio. Dov’è ormai Dio in questo mondo? Non nel Santo del tempio di Gerusalemme, ma nell’umanità fatta carne e sangue di Gesù, il Figlio di Dio.

Chiedendo a Gesù: “Signore, da chi andremo?”, Pietro esprime tutta la fede dei discepoli nei suoi confronti, tutta la sua unicità di Rabbi, Profeta e Messia; nel contempo, giunge al vero e proprio vertice della sua professione di fede: “Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Pietro manifesta un’esperienza, una conoscenza dovuta allo stare per anni con Gesù: egli è il Santo, come lo aveva definito l’angelo nell’annuncio a Maria (“Colui che nascerà sarà il Santo e sarà chiamato Figlio di Dio”: Lc 1,35); Gesù è partecipe della santità di Dio stesso, dunque è il Signore (JHWH), che nelle sante Scritture è chiamato e invocato quale Santo. Anche nella tradizione giovannea confluita nell’Apocalisse, Santo è il titolo di Gesù risorto (cf. Ap 3,7).

Così termina il lungo e non facile discorso di Gesù sul pane della vita. Alla fine probabilmente sono più le cose che non riusciamo a capire, le realtà che non riusciamo a sostenere, rispetto a ciò che abbiamo compreso e accolto. Anche noi siamo forse urtati da queste parole, magari non intellettualmente, ma nell’accoglierle fino a viverle esistenziale mente, concretamente e quotidianamente. Se però, come i Dodici, non ce andiamo, ma restiamo presso Gesù con le nostre debolezze, che riguardano anche la fede, e tentiamo di perseverare nella sua sequela, ciò è sufficiente per accogliere il dono gratuito e non rifiutarlo o misconoscerlo: Gesù uomo come noi, nel quale “abita corporalmente tutta la pienezza della vita di Dio” (Col 2,9), Dio stesso, è la parola che ci nutre, è il pane di vita che riceviamo nell’eucaristia, nel nostro cammino verso il Regno.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12523-andarvene

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DIRITTO DI FAMIGLIA

Quando denunciare un genitore

Quali sono i doveri e le responsabilità dei genitori nel loro rapporto con i figli e quando le loro azioni possono trasformarsi in un illecito penale.

Nell’era moderna è sempre più difficile essere genitore: il padre e la madre hanno molti doveri nei confronti dei figli e numerosissime responsabilità nella loro crescita sana ed equilibrata ed il mondo in cui sono chiamati ad impartire regole ai loro bambini non aiuta. Gli adolescenti di oggi sono diversi da quelli di tanti anni fa, sono abituati ad avere tutto e subito e a pretendere ogni giorno di più, anche oltre ciò che la loro età consentirebbe ed anche al di là delle possibilità dei genitori. Questo comporta che spesso esiste un rapporto conflittuale tra genitore e figlio che, molte volte, determina la commissione di errori da parte di entrambi. Ma quando un padre o una madre sbagliano cosa succede? Quando posso denunciare un genitore? È la domanda più brutta che un figlio possa porsi.

Eppure ci sono delle situazioni nelle quali denunciare un genitore non solo è possibile ma è necessario per difendere sé stessi e per garantirsi una crescita sana ed un futuro migliore. In questo articolo cercheremo di analizzare alcune ipotesi di reato che giustificano una denuncia nei confronti di un genitore ma, attenzione, si tratta di un tema molto delicato che va analizzato con particolare cura. Chi denuncia un genitore lo fa perché gli sono accaduti dei fatti molto gravi, non certo perché ha avuto un no di troppo o perché il genitore è severo o perché lo rimprovera troppo spesso.

Poniti la domanda quando denunciare un genitore solo se hai subito dei comportamenti che ti hanno causato sofferenze fisiche e/o morali, se (ad esempio) sei stato seriamente trascurato, offeso, ingiuriato, picchiato, mortificato, deriso, se i tuoi genitori ti hanno imposto di lavorare negandoti la possibilità di studiare. Analizziamo insieme i doveri dei genitori e cerchiamo di capire insieme in quali casi i figli possono denunciare un genitore.

Quali sono i doveri dei genitori? I genitori, quando mettono al mondo un figlio, sanno già che la loro vita non sarà più la stessa perché, da quel momento in poi, dovrà essere tesa alla cura incondizionata del bambino. I doveri del genitore, che iniziano con la nascita, non finiscono mai, neanche quando i figli crescono. Ma quali sono i doveri principali di un genitore? Innanzitutto quello di mantenere i propri figli assicurando loro una vita dignitosa, naturalmente sempre secondo le proprie possibilità. L’obbligo di mantenimento non si limita al mero sostentamento dei figli, ma alla loro evoluzione personale attraverso l’istruzione che il genitore dovrà assicurare ai figli nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni. Il dovere di mantenimento, in particolare: consiste:

  1. In primo luogo, nel dovere di assicurare vitto, alloggio e spese primarie (tra cui quelle mediche e scolastiche) al minore; e si estende, poi, anche al dovere di soddisfare tutti i bisogni necessari a consentire al figlio di vivere in maniera dignitosa nel contesto socio-economico in cui si trova (computer, sport, cultura, mezzi di trasporto, in base alle possibilità economiche dei genitori);

  2. Prescinde dall’età del figlio (minorenne o maggiorenne) ed, infatti, sussiste in favore dei figli non economicamente indipendenti anche qualora il rapporto sentimentale e/o di convivenza tra i genitori sia cessato;

  3. Perdura fino al momento in cui il genitore dimostra che i figli sono divenuti economicamente autosufficienti o sono stati avviati ad un’attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica;

  4. Prescinde dall’esercizio della responsabilità genitoriale (per cui un padre che decade o è sospeso dalla responsabilità genitoriale continua ad avere l’obbligo di mantenere il proprio figlio).

  5. Il genitore ha, poi, il dovere specifico (seppur già incluso nel dovere di mantenimento) di istruzione: i bambini hanno il diritto di essere istruiti nel rispetto delle proprie capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni; ciò significa che i genitori non dovranno far completare loro soltanto il ciclo di studi obbligatorio, bensì anche quello facoltativo se le capacità e la volontà dei figli lo richiedono.

  6. Al dovere di mantenimento e di istruzione si aggiunge il dovere di educare i propri figli (ovvero di insegnare loro il senso civico, le regole del senso comune, il rispetto dell’ambiente, della società e delle leggi) e di assisterli moralmente (ovvero ascoltarli, consolarli, dare consigli e partecipare alle loro gioie ed ai loro dolori).

Se questi sono i doveri dei genitori posso denunciarli ogni volta che li violano? Certo che no! Vediamo allora quando è possibile denunciare un genitore.

Quando denunciare un genitore. La decisione di sporgere una denuncia è sempre molto delicata perché comporta la possibile condanna penale di un soggetto. Alcune volte si denuncia un amico, altre volte un parente; in occasioni più gravi si denunciano un figlio o un genitore e, spesso, si ignora che non sempre è possibile tornare indietro. Se il reato per il quale viene presentata la denuncia è perseguibile d’ufficio (e non a querela di parte) non si può più fare nulla per impedire l’eventuale condanna. Chiarito, dunque, che non si deve mai presentare una denuncia a cuor leggero, soprattutto se è nei confronti di un genitore, è evidente che va assolutamente fatta se ciò che si vuole denunciare è davvero grave. In altre parole, se tuo padre (o tua madre) non è proprio come lo vorresti, se lavora troppo e non ti dedica sufficiente tempo, se ti sgrida anche quando tu pensi di avere ragione, se qualche volta ti punisce con uno schiaffo, non è il caso di pensare di farlo condannare e, magari, finire in carcere! Se, però, ti maltratta, nel senso che ti picchia con la cintura o torna ubriaco a casa e picchia te e/o tua madre, se usa toni offensivi che ti fanno sentire umiliato/a, non pensare che sia colpa tua e chiedi aiuto all’autorità giudiziaria con una denuncia. In questi casi puoi (anzi devi) denunciare il tuo genitore! Analizziamo ora (a titolo esemplificativo) qualche reato che un genitore può commettere nei confronti dei propri figli.

Se uno dei tuoi genitori ti maltratta usando nei tuoi confronti parole di disprezzo, non permettendoti di dormire, chiudendoti in una stanza per giorni o costringendoti a vivere in una casa in pessime condizioni igieniche, puoi denunciarlo per il reato di maltrattamenti in famiglia [Art. 572 cod. pen.]. Allo stesso modo, puoi denunciare un genitore se, dicendoti che lo fa per il tuo bene, ti picchia esageratamente o con strumenti troppo dolorosi (come una cinghia o una cintura) per farti studiare: in questo caso, secondo la legge, commette il reato di abuso di mezzi di correzione [Art. 571 cod. pen.]. Altro caso in cui è possibile sporgere querela è se uno dei tuoi genitori abbandona la casa in cui vivi e non contribuisce in alcun modo al tuo mantenimento; in questo caso puoi denunciarlo per violazione degli obblighi di assistenza familiare [Art. 570 cod. pen.].

Sabina Coppola La legge per tutti 22 agosto 2018

www.laleggepertutti.it/227384_quando-denunciare-un-genitore

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DIVORZIO

Negoziazione assistita familiare: quando è esclusa

Tribunale di Torino, Sentenza 1° giugno 2018

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_31584_1.pdf

Il Tribunale di Torino, ha fornito degli importanti chiarimenti sulla possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita per sciogliere un vincolo matrimoniale.

Negoziazione familiare: quando è ammessa. In tale pronuncia, il giudice ha più precisamente specificato che alla negoziazione familiare avente a oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio o lo scioglimento del matrimonio può farsi ricorso solo per i casi previsti dall’articolo 3, comma 1, numero 2), lettera b), della legge numero 898/1970 ovverosia quando:

  • È stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale o è stata omologata la separazione consensuale

  • La separazione si è protratta ininterrottamente per un anno nel primo caso o per sei mesi nel secondo caso.

Negoziazione familiare: quando è esclusa. Di conseguenza, gli altri casi di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio contemplati dallo stesso articolo 3 della legge sul divorzio non possono essere oggetto di negoziazione assistita.

Sostanzialmente ci si riferisce ai casi in cui:

  • Il matrimonio non è stato consumato,

  • Vi è stata una condanna per reati particolarmente gravi commessi in ambito familiare,

  • È passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso,

  • L’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio.

Per il Tribunale di Torino si tratta infatti di ipotesi che “possono presentare difficoltà di accertamento e profili giuridici non semplici, che impongono il giudizio e la competenza del Collegio e difficilmente potevano essere rimessi a una semplice autorizzazione da parte del P.M.”.

Divorzio diretto. Nel caso di specie, il giudice si è dovuto confrontare con la vicenda di due coniugi argentini che intendevano sciogliere il loro matrimonio e che volevano fare ricorso alla negoziazione assistita.

A detta del Tribunale, nonostante la normativa del paese comune consenta il divorzio diretto, gli stessi per poter ricorrere alla negoziazione assistita devono prima domandare e ottenere la separazione personale. Applicare la normativa straniera e ammettere direttamente la negoziazione per il divorzio, infatti, per il Tribunale potrebbe comportare l’esame di questioni di non facile soluzione, che non possono essere agevolmente affrontate in sede stragiudiziale né possono essere sottoposte a una semplice autorizzazione amministrativa.

Senza che ciò crei particolari dubbi di legittimità costituzionale, tale situazione va quindi paragonata ai casi di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio contemplati dall’articolo 3 della legge sul divorzio per i quali la negoziazione non è ammessa.

Valeria Zeppilli Studio Cataldi 21 agosto 2018

www.studiocataldi.it/articoli/31584-negoziazione-assistita-familiare-quando-e-esclusa.asp

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ENTI TERZO SETTORE

Privacy: come mettersi in regola in 6 punti

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=uriserv:OJ.L_.2016.119.01.0001.01.ITA&toc=OJ:L:2016:119:TOC

Ecco tutti gli adempimenti necessari per una corretta tenuta del registro dei trattamenti da parte del titolare, in conformità rispetto a quanto previsto dal Gdpr [General Data Protection Relation – Regolamento generale sulla protezione dei dati. Il testo, adottato il 27 aprile 2016, è efficace a partire dal 25 maggio 2018.].

Con l’entrata in vigore del Gdpr, è entrato in vigore anche l’obbligo, per determinate categorie di soggetti, di predisporre e curare il registro dei trattamenti. Il titolare del trattamento, per mettersi in regola rispetto a tale obbligo, è tenuto a compiere una serie di adempimenti.

Innanzitutto è necessario individuare la tipologia e le finalità del trattamento. Ciò vuol dire che bisogna rilevare e registrare tutti i processi interni che prevedono il trattamento dei dati personali e identificare i soggetti che sono incaricati della raccolta delle informazioni.

Individuata in tal modo la tipologia del trattamento, il secondo passaggio è quello di identificare le motivazioni per le quali i dati sono raccolti e trattati.

Categorie di dati. Compiute queste preliminari operazioni, il titolare del trattamento deve andare più a fondo e valutare se i dati trattati sono dati comuni o dati sensibili, ovverosia se si tratta di informazioni semplici, come ad esempio quelle anagrafiche o quelle relative ai contatti dell’interessato, o di informazioni particolari, come ad esempio quelle concernenti lo stato di salute o l’orientamento sessuale.

Non bisogna poi dimenticare di identificare i soggetti coinvolti nel trattamento, ai quali potranno essere destinati i dati, e di indicare se vi sono dei flussi di trattamento diretti verso paesi esterni all’Unione Europea.

Per ogni categoria di trattamento, è necessario inoltre indicare le tempistiche che servono o che sono stimate come necessarie per raggiungere la finalità per la quale i dati sono raccolti e trattati.

Vanno anche adeguatamente individuate le misure di sicurezza adottate per la tutela della privacy.

Infine, occorre valutare se vi sono dei trattamenti di dati che sono particolarmente rischiosi per i diritti e le libertà delle persone interessate e per i quali è quindi necessario eseguire una valutazione di impatto (Dpia –Data protection impact assessment).

Compiute tutte queste operazioni, si hanno le carte in regola per una corretta tenuta del registro dei trattamenti. Ma cosa deve contenere esattamente il registro del titolare del trattamento?

A precisarlo è il comma 1 dell’articolo 30 del Gdpr. Si tratta, in particolare, delle seguenti informazioni:

“a) il nome e i dati di contatto del titolare del trattamento e, ove applicabile, del contitolare del trattamento, del rappresentante del titolare del trattamento e del responsabile della protezione dei dati;

b) le finalità del trattamento;

c) una descrizione delle categorie di interessati e delle categorie di dati personali;

d) le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, compresi i destinatari di paesi terzi od organizzazioni internazionali;

e) ove applicabile, i trasferimenti di dati personali verso un paese terzo o un’organizzazione internazionale, compresa l’identificazione del paese terzo o dell’organizzazione internazionale e, per i trasferimenti di cui al secondo comma dell’articolo 49, la documentazione delle garanzie adeguate;

f) ove possibile, i termini ultimi previsti per la cancellazione delle diverse categorie di dati;

g) ove possibile, una descrizione generale delle misure di sicurezza tecniche e organizzative di cui all’articolo 32, paragrafo 1″.

www.studiocataldi.it/articoli/29627-gdpr-tutto-quello-che-c-e-da-sapere.asp

Valeria Zeppilli News Studio Cataldi 23 agosto 2018

www.studiocataldi.it/articoli/31587-privacy-come-mettersi-in-regola-in-6-punti.asp

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FEMMINISMO

Il femminismo alla prova della maternità

Per molto tempo il femminismo ha considerato la maternità come un ostacolo all’emancipazione della donna. Oggi che viene rimessa in discussione la pillola contraccettiva, insieme con la società dei consumi e col turbocapitalismo, il femminismo ripensa la maternità.

La parola “femmina” ci giunge dal greco φύομαι [phyomai], “ciò che nasce”, poi dal latino fœmina, derivato di fœtus. Etimologicamente, la donna prende dunque la propria essenza dalla maternità. Eppure il femminismo esistenzialista si fonda sul disprezzo del corpo femminile fatalmente destinato a generare la vita. E se la vera liberazione della donna passasse alla fine dalla difesa della maternità?

La maternità, una sfida centrale dell’identità femminile. Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso, definisce la maternità come un ostacolo alla vocazione umana di trascendenza. Per uscire dalla dominazione dell’uomo sulla donna, il femminismo esistenzialista propone di far uscire la donna dal proprio destino biologico, rifiutando la maternità. Secondo Eugénie Bastié e Marianne Durano, redattrici della rivista Limite e apripista di un femminismo “integrale”, più ecologico, il paradosso del femminismo esistenzialista è che «decostruisce l’oggetto che vuole difendere». In nome della parità e dell’uguaglianza, si negano l’identità e la ricchezza della differenza. Yvonne Knibiehler, saggista e femminista della seconda vague (anni ’60-’70), riconosce di essere sempre stata persuasa del fatto che la maternità sia «una sfida centrale dell’identità femminile», pur avendo ella sostenuto le battaglie delle militanti per la sessualità liberata e per il controllo della fertilità. Si è fatto credere alle donne che dovessero la loro emancipazione alla pillola e all’aborto.

Ma la contraccezione chimica è un miraggio di liberazione. Per Holly Grigg-Spall, femminista americana e autrice del libro Sweetening the pill [Addolcire la pillola, N.d.T.], una donna che non ha le mestruazioni è una donna perfettamente adattata al modello occidentale, patriarcale e capitalista. Questo le permette peraltro di restare sessualmente a disposizione ed emozionalmente atona.

Il legame tra liberalismo sessuale e liberalismo economico appare evidente. Quale libertà può dipendere da una medicina fabbricata dall’industria farmaceutica e prescritta da un medico? Per Thérèse Hargot, sessuologa e autrice di Una gioventù sessualmente liberata… o quasi, la pillola è un segno di sottomissione. Al controllo chimico della fertilità l’autrice oppone la conoscenza della propria fertilità ad opera delle donne stesse. La vera liberazione della donna non risiede nella negazione di ciò che è, ma nella difesa di ciò che la costituisce, cioè anzitutto la sua fecondità.

Una volta che si sia ammesso il legame tra femminino e maternità, bisogna ripensare la donna come un attore economico differente. Se l’uguaglianza salariale è una richiesta legittima, conviene interrogarsi sulle cause di una siffatta disparità. Misoginia dei padroni e dei capi, società patriarcale o maternità? Secondo Iseul Turan, co-fondatrice del movimento Les Antigones [Le Antigoni, N.d.T.], la negoziazione salariale all’assunzione è spesso «gravata da questa potenzialità [la fertilità, N.d.T.], che tuttavia alcune donne non realizzeranno mai». Presa in carico dal datore di lavoro, la possibilità di una gravidanza implica discriminazioni al momento dell’assunzione, disparità salariali e rischio di licenziamento. Supportato dalla solidarietà nazionale, il congedo di maternità potrebbe essere prolungato, potrebbe essere più protettivo e meno pesante. Per questo movimento «la maternità – e non le donne – deve ricevere un trattamento specifico nel mondo del lavoro».

Mentre la società c’impone di essere performante in ogni circostanza (maternità, malattia, lutto…), è compito della donna – ma anche dell’uomo – liberarsi da una tale ingiunzione. A tal proposito, i vangeli condannano la sopravvalutazione del lavoro. Nella parabola del coltivatore arricchito Gesù rigetta la largissimamente diffusa opinione secondo cui il lavoro può rendere sicura la vita: «Sciocco, questa stessa notte la tua vita ti sarà chiesta» (Lc 12, 20). Non si tratta qui di svalutare il lavoro, ma piuttosto di metterlo al suo posto.

La maternità a ogni prezzo? In una società materialista in cui regna il culto della performance, si comanda alla donna di dominare il proprio corpo, la propria immagine e di provocare meccanicamente il desiderio sessuale. Mentre l’atto sessuale è ridotto al solo piacere istantaneo, o al concepimento di un bambino «quando voglio, dove voglio, con chi voglio», l’esperienza del crollo della libido o dell’infertilità è vissuta come uno scacco. Liberata sessualmente? La donna è diventata dipendente dell’industria della contraccezione chimica. Sterile? Alimenta il mercato della procreazione assistita. Fertile? Il suo utero diviene un prodotto e la sua gravidanza è un fenomeno dispendioso che viene medicalizzato.

Per Marie Jauffret, ricercatrice in biologia, «il corpo delle donne è un formidabile oggetto di profitto». In Francia, dove il dono degli ovociti non è rimunerato, la domanda sopraffà l’offerta. Malgrado i rischi sulla salute comportati dalla stimolazione ovarica, le donatrici di ovuli sono due volte il numero dei donatori di sperma. Nel Paese leader della vendita di ovociti, gli Stati Uniti, si sceglie la “donatrice di felicità” su di un catalogo, in funzione di criteri fisici. L’aberrazione di un “diritto al bambino” trasforma così la donna e l’uomo in materiali genetici.

Al contrario, il matrimonio cristiano invita le coppie a essere aperte alla vita. Essere “aperti alla vita” significa anzitutto rendersi disponibili a ricevere la vita di un bambino, come un dono e non come una cosa dovuta. Significa pure accettare la vita di coppia come quella si presenta, fertile o no, con la sua parte di incertezza. Significa infine aprirsi agli altri con umiltà e generosità, accoglierli con amore.

La donna, essenzialmente feconda. Il femminismo detto “integrale” si riconcilia finalmente con Simone de Beauvoir quando quella riconosce che la donna non può acconsentire a dare la vita che se la vita ha un senso; non saprebbe essere madre senza provare a giocare un ruolo nella vita economica, politica, sociale.

La donna, dunque, non è solamente una femmina di mammifero: la sua relazione con i piccoli che mette al mondo è fatta pure di intelligenza, e precisamente questo apre la possibilità di un oltre, di una trascendenza. La donna è feconda senza essere necessariamente fertile. La sua fecondità proviene anche dall’abbondanza delle sue facoltà intellettuali – la sensibilità, la volontà.

Secondo Natacha Polony, è fondamentale ridefinire i modelli identificatori dati alle donne. Secondo lei, la fecondità della donna risiede anche nell’«ambizione intellettuale, nell’appetito di sapere e di conoscere, nell’appetito di vivere». È appunto quanto invita a vivere il padre Teilhard de Chardin in L’eterno femminino quando, nella figura di Maria, definisce la donna come una guida verso la trascendenza: «Sono uscita dalle mani di Dio… cooperatrice della sua opera», «per mezzo di me tutto si muove e si coordina», «io il profumo, lo charme, mescolato al mondo per farlo aggregare, l’ideale sospeso su di lui per farlo ascendere, io sono l’essenziale Femminino», «io sono essenzialmente feconda, cioè sporta sul futuro».

Gabrielle de Loynes [traduzione dal francese Giovanni Marcotullio] Aleteia

https://it.aleteia.org/2017/12/19/femminismo-prova-maternita

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa Francesco: video messaggio per l’Incontro mondiale delle famiglie

I’m excited to think I’ll come back to Ireland!”. È il saluto rivolto dal Papa nel video messaggio al popolo irlandese nell’imminenza del viaggio apostolico in Irlanda, in occasione del IX Incontro mondiale delle famiglie a Dublino, che compirà dal 25 al 26 agosto. “Le famiglie, oggi, affrontano molte sfide nei loro sforzi per incarnare un amore fedele, per crescere figli con valori sani e per essere nella più ampia comunità, lievito di bontà, amore e cura reciproca”, afferma il Papa: “Spero che questa occasione potrà essere fonte di rinnovato incoraggiamento per le famiglie di ogni parte del mondo, specialmente di quelle famiglie che saranno lì presenti, a Dublino. Possa ricordarci il posto essenziale della famiglia nella vita della società e nell’edificazione di un futuro migliore per i giovani. I giovani sono il futuro! È molto importante preparare i giovani per il futuro, prepararli oggi, nel presente, ma con le radici del passato: i giovani e i nonni. È molto importante”. Francesco abbraccia “tutti i membri della famiglia irlandese” e prega, “in particolare, perché serva a far crescere l’unità e la riconciliazione tra tutti i fedeli di Cristo, come segno di quella durevole pace che è il sogno di Dio per l’intera famiglia umana”.

Agenzia SIR 21 agosto 2018 https://agensir.it/quotidiano/

 

Abusi sui minori, basta coperture «Urgente l’opera di prevenzione»

Il dramma delle violenze commesse da esponenti del clero tra i temi dell’Incontro mondiale di Dublino. Forte il richiamo alla tolleranza zero e alla ricerca accurata delle cause. Parla Marie Collins, già membro della Pontificia Commissione per la tutela dei minorenni. «Papa Francesco, le famiglie delle vittime di abusi fanno il tifo per te. Aiutaci a risolvere questa piaga. Mai più nella Chiesa qualcuno faccia del male a un bambino. Ora, dopo le bellissime parole della tua lettera, attendiamo i fatti».

È un appello accorato quello che arriva dall’Incontro mondiale delle famiglie dove il tema ha trovato più di un approfondimento e da oggi, con l’arrivo del Papa, se ne parlerà ancora in varie occasioni. Segno di una volontà diffusa e profondamente condivida di stroncare in modo definitivo questa epidemia maligna. Ma la complessità del problema rende obbligatori interventi coordinati, pensati e messi in atto su più livelli, in grado da un lato di garantire gli strumenti legislativi per intervenire e perseguire i colpevoli con efficacia e trasparenza, dall’altro di assicurare alle vittime accoglienza ed assistenza.

E, ancora, altrettanto urgente, è l’opera di prevenzione. «Manca ancora un’analisi accurata delle cause. Perché è avvenuto tutto questo? Perché tanti abusi stanno ancora capitando? Come dobbiamo intervenire per rimuovere alla radici questo male interiore che affligge tanti sacerdoti e tanti seminaristi?», si è chiesto Gabriel Dy-Liacco, psicologo filippino, componente della Commissione Pontificia per la tutela dei minori. Una serie di indicazioni precise e accorate sono arrivate da Marie Collins, che dopo essersi dimessa nel marzo 2017 dalla Commissione pontificia lamentando una «scarsa collaborazione dei dicasteri della Curia vaticana» che avrebbero dovuto sostenere gli interventi antipedofilia, ha continuato a portare avanti un’intensa azione di sensibilizzazione sul problema dalla fondazione che porta il suo nome. «Tutti gli interventi – ha spiegato – devono essere fondati sul diritto canonico e, per questo, vanno eliminate le interpretazioni normative che ostacolano la trasparenza. Inoltre occorre stabilire che tutte le persone colpevoli vanno allontanate dal loro incarico in attesa del giudizio definitivo e, poi dalle stesse strutture ecclesiastiche, una volta accertata i fatti».

Secondo la Collins è importante che il principio della tolleranza zero venga esteso a tutte le realtà, in ogni parte del mondo, che si occupano del problema abusi. «Troppe volte le leggi della Chiesa – ha tuonato l’esperta – sono state usate per insabbiare, per dilazionare gli interventi, per coprire le indagini. Non dovrà mai più succedere. Basta con la segretezza. Le famiglie delle vittime devono poter accedere a tutti i documenti in possesso delle autorità ecclesiastiche. Perché tutti questi provvedimenti, riconosciuti urgenti e importanti ad ogni livello, attendono ancora piena attuazione? Perché ci sono vescovi che, in troppe parti del mondo, ancora indugiano?».

Barbara Thorp, assistente sociale, già direttore dell’Ufficio per il sostegno pastorale e la protezione minorile dell’arcidiocesi di Boston, ha ricordato l’Incontro voluto proprio dieci anni fa da papa Benedetto XVI con le vittime di abusi nella diocesi americana. «Sembrava una svolta decisiva invece poi sono arrivati gli scandali dell’Australia, dell’Irlanda, del Cile. Oggi c’è la Pennsylvania, e domani? Eppure Francesco ha chiesto di indagare con energia, ha sollecitato i vescovi in tutto il mondo a intervenire con coraggio e con fermezza. Ma vedo che in tutto il mondo – ha sottolineato l’esperta di Boston – c’è ancora troppa indifferenza, troppi tentativi di nascondere i fatti».

Un’analisi cruda, precisa, ma del tutto scientifica sulle condizioni psicologiche delle vittime di abusi, è arrivata dalla psichiatra inglese Sheila Hollins, anche lei già componente della Commissione pontificia, mentre Gabriel Dy-Liacco ha esaminato il problema dalla parte dei genitori. «Ho quattro figli maschi – ha raccontato lo psicologo filippino – se uno di loro domani mi dicesse di voler diventare sacerdote, mi chiederei inevitabilmente se il seminario in cui va a studiare è un posto sicuro, se i sacerdoti che insegnano in quel Seminario sono persone affettivamente mature, se anche dal punto di vista tecnologico tutto è stato messo a punto per garantire la sicurezza degli studenti. Chi sarebbe in grado di rispondere in modo affidabile?». Nessuno, probabilmente, hanno concordato gli esperti, mentre da un gruppo di genitori di vittime di abusi, presente all’incontro, sono arrivati applausi venati d’amarezza.

Luciano Moia Avvenire 25 agosto 2018

www.avvenire.it/chiesa/pagine/abusi-sui-minori-tolleranza-zero-e-prevenzione

 

Di fronte agli scandali di pedofilia, papa Francesco non può più eludere la realtà

Era stato eletto per essere il papa dei poveri, si trova invece ad affrontare nuove rivelazioni di scandali di pedofilia di ampiezza inedita, negli Stati Uniti, in Cile e in Australia. Perché sente che la situazione gli sta sfuggendo di mano e che lo scandalo della pedofilia incide pesantemente su tutto il suo pontificato, papa Francesco, a lungo accusato di tergiversare, sembra ora trovare il tono giusto per rispondere.

Sulla questione dei criminali sessuali, siano essi semplici preti, vescovi o cardinali, picchia finalmente in modo spettacolare. E per l’opinione pubblica in generale, e quella dei cattolici in particolare, ha pubblicato lunedì 20 agosto 2018 una “lettera al popolo di Dio” di rara potenza. In essa afferma in sostanza: smettiamola di dire che i colpevoli di tali “atrocità” costituiscano una infima minoranza di preti, e solo in qualche paese: è la Chiesa cattolica intera ad essere coinvolta, i suoi metodi di governo, i suoi silenzi, la sua perversione, il suo “clericalismo” mirante a proteggere i privilegi dell’istituzione. La crisi è della Chiesa nella sua totalità, e non solo della sua immagine e della sua reputazione.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2018/documents/papa-francesco_20180820_lettera-popolo-didio.html

Inchiesta sconvolgente negli Stati Uniti. Mentre si aveva la sensazione che si fosse toccato il fondo dell’orrore, che le misure prese dal Vaticano, dall’inizio degli anni 2000 e sotto Benedetto XVI, stessero finalmente producendo i loro effetti, ogni giorno di questa estate 2018 terribile per papa Francesco aggiunge nuove rivelazioni, rende noti nuovi nomi al più alto livello delle gerarchie, presenta nuovi numeri che danno allo scandalo un’ampiezza mai raggiunta.

Negli Stati Uniti, è un cardinale di altissimo rango a cadere: Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington, colpevole di abusi sessuali su minori, preti e seminaristi per decenni, senza che tali atti prima solo sospettati, poi conosciuti, avessero la minima conseguenza sulla sua brillante carriera ecclesiastica. Le sue dimissioni sono state accettate il 28 luglio da papa Francesco; McCarrick non fa più parte del collegio dei cardinali ed è agli arresti domiciliari in attesa di un processo canonico. Bisogna risalire al 1927 per trovare un caso simile di destituzione dal collegio dei cardinali: il gesuita francese Louis Billot era stato privato della porpora cardinalizia per la sua appartenenza all’Action Française, condannata dal papa l’anno prima.

La contabilità dei reati di pedofilia nel clero americano dà le vertigini. Secondo l’organizzazione Bishop Accountability, 6.721 preti sono stati accusati di abusi sessuali per fatti – provati o presunti- per il periodo 1950-2016. La stessa associazione valuta a 18.565 il numero dei bambini vittime di questi comportamenti.

Martedì 14 agosto, un’inchiesta sconcertante dei servizi del procuratore di Pennsylvania ha rivelato abusi sessuali perpetrati da più di 300 preti predatori, coperti dalla Chiesa cattolica, su almeno mille bambini.

“Dei preti violentavano ragazzini e ragazzine, e gli uomini di chiesa responsabili di quei preti non hanno fatto nulla. E questo per decenni”, hanno scritto i membri della giuria popolare di Pennsylvania.

Molti aneddoti dipingono nel rapporto una gerarchia cattolica che moltiplicava gli sforzi per non far trapelare i casi di abusi sessuali e proteggere gli autori di quelle aggressioni. Vescovi e cardinali “sono stati essenzialmente protetti. Molti, i cui nomi sono indicati nel rapporto, hanno perfino avuto promozioni”.

Ricordiamo che in visita in Cile all’inizio del 2018, papa Francesco aveva negato le accuse contro un vescovo cileno, Juan de la Cruz Barros, complice di abusi sessuali perpetrati da Fernando Karadima, un prete carismatico molto conosciuto che era stato suo educatore, giudicato e condannato dal Vaticano nel 2011. Il papa argentino si diceva convinto dell’innocenza di quei vescovi e li difendeva a spada tratta contro coloro che li calunniavano.

Da allora, papa Francesco ha operato uno spettacolare voltafaccia. Le 2.400 pagine dell’inchiesta che ha ordinato lo hanno costretto ad ammettere di essersi completamente sbagliato per mancanza di informazioni affidabili. Per colpa di chi? I sospetti sono caduti sul cardinale Francisco Erazzuriz, ex arcivescovo di Santiago, molto amico del papa latinoamericano. Ma oggi si sa che il principale responsabile di quell’inganno è un gesuita spagnolo, German Arana, che va avanti e indietro tra Roma, la Spagna e il Cile e continua, anche dopo questo scandalo, a far parte del cerchio più intimo dei confidenti del papa. L’insieme dell’episcopato cileno è stato costretto a presentare le dimissioni il 18 maggio scorso.

Si è a lungo rimproverato a papa Francesco la sua incapacità a combattere questo scandalo che affligge la Chiesa da tanti anni. L’irlandese Mary Collins, che faceva parte della commissione per la protezione dei minori istituita in Vaticano e dalla quale si è dimessa nel 2017, l’accusa di fare dei bei discorsi che però non sono seguiti da atti. Ma in questa estate 2018 è stata raggiunta una soglia senza precedenti.

Sono personalità molto vicine al papa ad essere direttamente in causa o impegolate in questo scandalo, come il cardinale australiano George Pell, il cardinale cileno Francisco Javier Erazzuriz e il cardinale honduregno Oscar Maradiaga. Oggi, episcopati interi sono accusati di aver nascosto migliaia di fatti criminali, di aver rifiutato di deferire alla giustizia civile dei preti stupratori. Ed è tutta una cultura clericale, fatta di privilegi, di codici, di riflessi di difesa di interessi corporativi, ad esser designata come colpevole, perché tale cultura clericale è stata considerata, per decenni, più importante dell’integrità fisica e psicologica dei bambini.

Quindi, non è più solo la cultura del silenzio ad essere oggi deplorata dal papa; non sono più solo l’ascolto ed il rispetto delle vittime ad essere richiesti; non è più solo la “vergogna” che è opportuno esprimere per averli così a lungo ignorati. È l’insieme del funzionamento ecclesiastico, tutta una concezione dell’autorità nella Chiesa a rivelarsi deviante e criminale. “Dire no all’abuso significa dire con forza no ad ogni forma di clericalismo”, scrive Francesco nella sua lettera del 20 agosto. “Il clericalismo, ecco il nemico”, diceva già, all’inizio della III Repubblica, Léon Gambetta. Un clericalismo che il papa definisce un “modo deviante di concepire l’autorità in seno alla Chiesa”, che significa abuso di potere del clero, che si definisce come una “corruzione spirituale” e si traduce in una “cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo”.

Quel clericalismo ha contribuito “a perpetuare molti dei mali che denunciamo oggi”. Lo si trova, precisa il papa, “ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il popolo di Dio”. Francesco stabilisce un legame tra il clericalismo e “molte comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza”. Mai il papa era andato così avanti nella denuncia delle pratiche perverse in seno alla sua stessa Chiesa.

In questione la sessualità dei preti. Una parte del cammino è stata fatta. L’altra è ancora più tabù: si tratta del ruolo della sessualità nella dottrina della Chiesa e nel vissuto sessuale di uomini celibi che, in quanto preti, hanno consacrato tutta la loro vita a Dio. Sempre più voci si alzano per dire che la pedofilia si spiega con una sessualità immatura e disordinata e che la regola assoluta del celibato dei preti non è più sostenibile, come espone la scrittrice Nancy Houston in una lettera a papa Francesco. Nessuno più nega, neanche ai vertici della Chiesa, l’estensione delle pratiche eterosessuali e omosessuali nel clero di quasi tutti i paesi, in infrazione radicale di tutti voti di castità e di celibato detto “ecclesiastico”. Del resto, usciranno presto dei libri che spiegano quanto l’omosessualità sia diffusa nel clero, anche nel cuore del Vaticano.

E alcuni ne approfittano: in pieno scandalo pedofilia che colpisce il suo paese, un vescovo americano, per la prima volta, stabilisce pubblicamente un legame nauseabondo tra questi scandali e “la sottocultura omosessuale” che regnerebbe in seno all’episcopato americano. In una lettera alla sua diocesi datata 18 agosto, Robert Morlino, vescovo di Madison (Wisconsin), sostiene che la crisi degli abusi sessuali ha potuto perdurare perché la Chiesa si lascia andare a comportamenti lassisti. Secondo lui, la crisi non si limita allo scandalo McCarrick, né al rapporto del gran jury di Pennsylvania – né a ciò che potrebbe succedere, e succederà, in futuro. La crisi più profonda a cui dobbiamo far fronte, scrive, “viene dal lassismo che ha finito per invadere tutto il nostro insegnamento, la nostra predicazione, le nostre decisioni e il nostro modo di vivere”.

Papa Francesco è avvertito. Altre bombe esploderanno, e non di quelle da lui sperate, da gesuita argentino che, dopo aver frequentato per anni le bidonville di Buenos Aires, voleva far un salto sociale senza precedenti alla sua Chiesa e si era fissato come primo programma di diventare “il papa dei poveri per i poveri”.

Si trova invece a dover affrontare scandali sessuali e reati devastanti per tutta la sua Chiesa.

Henri Tincq “www.slate.fr” 22 agosto 2018 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201808/180822tincq.pdf

 

Abusi, nessun nuovo documento papale. C’è da applicare la lettera

Non ci sono nuove direttive papali in arrivo sul tema degli abusi e Francesco non sta preparando alcun documento diretto ai vescovi per la lotta alla pedofilia clericale. Autorevoli fonti vaticane smentiscono a Vatican Insider che dopo l’inedita “Lettera al popolo di Dio”, scritta di getto a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione del report Pennsylvania, vi sia ora in cantiere un nuovo testo da rendere noto velocemente al ritorno dal viaggio in Irlanda, come circolato su vari media nei giorni scorsi.

Il Papa considera esaustiva la lettera e ritiene che la Chiesa si sia dotata degli strumenti normativi e delle regole necessarie per combattere chi commette il crimine degli abusi sui minori e anche per rendere responsabili i superiori che per negligenza o altri motivi non agiscono in modo adeguato, pensando al bene delle vittime. In effetti la “Lettera al popolo di Dio” del 20 agosto scorso, contiene delle indicazioni precise e concrete, che sono spirituali e pastorali, dunque non hanno a che fare con normative, codici e regolamenti. Innanzitutto il Pontefice ricorda che la ferita degli abusi è una ferita per tutta la Chiesa e la risposta deve essere corale e condivisa. Invoca, per il futuro, impegno e nuove iniziative «per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi».

È un sostegno alle attività della Commissione vaticana e al Centre for Child Protection (CCP) della Pontificia Università Gregoriana, con l’invito rivolto a tutta la Chiesa perché si prosegua e si lavori con l’obiettivo di cambiare la cultura e la mentalità clericale che per decenni ha coperto e insabbiato invece di ascoltare le vittime.

Francesco scrive che «il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore». Un dolore di cui farsi carico, sempre. Senza considerare queste persone colpevoli di dar scandalo, di infangare il nome dell’istituzione ecclesiastica. Senza allontanarle o isolarle, come purtroppo tantissime volte è accaduto. Il Papa afferma che per la Chiesa le ferite delle vittime «non vanno mai prescritte». E chiede che ci si faccia carico del problema «in maniera globale e comunitaria».

Se è vero che occorre un villaggio per educare un bambino, è anche vero che occorre un villaggio per coprire gli abusi, come emerge bene dal film “Spotlight” sul caso Boston: per permettere a un abusatore di compiere i suoi osceni crimini rubando sacrilegamente l’anima ai piccoli e agli indifesi servono tante coperture, di chi sa e finge di non vedere, di chi per quieto vivere preferisce voltarsi dall’altra parte, dei sistemi consolidati del potere clericale, delle lobby.

Francesco chiede di scardinare la cultura dell’omertà coinvolgendo tutto il popolo di Dio. Perché l’abuso di potere frutto del clericalismo e il suo perpetuarsi ha a che fare con la mancata ricezione del Concilio e in particolare della sua fondamentale costituzione Lumen gentium, nella quale è valorizzato il sacramento del battesimo e l’importanza del santo popolo fedele di Dio. Ogni rigurgito clericale, tendente a considerare quella dei sacerdoti una casta separata, finisce per favorire atteggiamenti che dovrebbero appartenere al passato. «È impossibile – scrive il Pontefice – immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita».

Ancora, al culmine della sua Lettera, Francesco offre una risposta concreta che è profondamente spirituale, pastorale, cristiana. La Chiesa tutta deve mettersi in un atteggiamento penitenziale, lasciandosi «rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna».

Il Papa ha chiesto a tutta la Chiesa, dunque ai suoi pastori come a tutto il popolo di Dio, di reagire con preghiera, penitenza, digiuno. È importante sottolineare che il modo di declinare queste indicazioni concretissime è lasciato nelle mani delle diverse conferenze episcopali, perché – ad esempio – negli Stati Uniti o in Germania può essere più utile la giornata di digiuno, in Argentina l’adorazione eucaristica perpetua, in altri Paesi entrambe le iniziative. Si può pensare a una giornata nazionale o a una settimana di preghiere speciali e di incontri per sensibilizzare ogni parrocchia sul problema. Insomma, indicazioni concrete ci sono, e bisognerà vedere come le conferenze episcopali, nelle prossime settimane, prenderanno sul serio la Lettera papale.

Per quanto riguarda invece le attese su nuove norme anti-pedofilia, si fa notare che sì, sono possibili alcuni piccoli aggiustamenti al Codice di Diritto canonico, perché oggi è lasciato poco spazio alla voce delle vittime. Nelle puntuali ed emergenziali procedure contro gli abusatori, messe a punto dall’allora cardinale Ratzinger all’inizio degli anni Duemila e perfezionate con ulteriori procedure d’urgenza nel 2010 dallo stesso Ratzinger divenuto Papa, ci possono essere ancora aggiustamenti minimi, per sanare ad esempio un certo squilibrio tra il procedimento giudiziale e quello amministrativo contro il prete abusatore a proposito del risarcimento dei danni. Per affrontare questi odiosi crimini – che prima di essere crimini sessuali si configurano come abusi di potere da parte di persone le quali esercitano un’influenza e un’autorità sulle vittime – le regole ci sono. I vescovi sanno come devono agire, sanno come segnalare alla Congregazione per la dottrina della fede i casi con un fondato sospetto, sanno – per aver avuto l’esempio costante di due Papi – che le vittime non vanno rifiutate, screditate, allontanate. Ma vanno ascoltate, accolte, confortate, aiutate a iniziare percorsi che permettano a loro e alle loro famiglie, di ricostruire le vite distrutte.

Anche per quanto riguarda il tema dell’accountability, della responsabilità dei superiori che hanno agito con negligenza, le norme ci sono tutte. Già nel Codice di Diritto canonico, al numero 1389 – §1, si prevede: «Chi abusa della potestà ecclesiastica o dell’incarico sia punito a seconda della gravità dell’atto o dell’omissione, non escluso con la privazione dell’ufficio, a meno che contro tale abuso non sia già stata stabilita una pena dalla legge o dal precetto». Come si vede viene specificato che il motivo può essere anche l’“omissione”, non soltanto il dolo. L’arma giuridica contro la negligenza c’era già nel Codice del 1983.

Ma Papa Francesco, il 4 giugno 2016, con il motu proprioCome una madre amorevole”, ha approfondito il tema, dedicando un documento proprio alla responsabilità dei vescovi e dei superiori ecclesiastici: «Il Diritto canonico – scriveva – già prevede la possibilità della rimozione dall’ufficio ecclesiastico “per cause gravi”: ciò riguarda anche i vescovi diocesani, gli eparchi e coloro che ad essi sono equiparati dal diritto (cfr can. 193 §1 CIC; can. 975 §1 CCEO). Con la presente Lettera intendo precisare che tra le dette “cause gravi” è compresa la negligenza dei vescovi nell’esercizio del loro ufficio, in particolare relativamente ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili».

Per la rimozione di un vescovo, di un eparca o di un superiore religioso, «nel caso si tratti di abusi su minori o su adulti vulnerabili è sufficiente che la mancanza di diligenza sia grave». Inoltre, nella dichiarazione del direttore della Sala Stampa vaticana Greg Burke, resa nota la sera del 16 agosto 2018, si afferma: «La Chiesa deve imparare dure lezioni dal passato e che dovrebbe esserci un’assunzione di responsabilità da parte sia di coloro che hanno abusato, sia di quelli che hanno permesso che ciò accadesse». L’appello al popolo di Dio, perché tutti si facciano carico del problema, è, in fondo, anche un invito a vigilare. Le norme per procedere d’ufficio nel caso di vescovi che abbiano mancato gravemente nel proteggere i bambini, che abbiano coperto o insabbiato, ci sono tutte. La novità del report Pennsylvania sta, purtroppo, nella narrazione dei casi, degli abusi. È una nuova, pensante, carrellata di orrori avvenuti dal 1947 ad oggi. Senza dimenticare però che dal 2002 in poi, i casi si riducono drasticamente. Ciò significa che stiamo parlando del passato – la maggior parte dei preti abusatori citati è già scomparsa – anche se è un passato che non passa e non passerà fintanto che ci saranno vittime con le loro vite distrutte e le loro ferite aperte. Ma bisogna ricordare che si sta parlando del passato e che da allora, grazie al cardinale Ratzinger e a Giovanni Paolo II, poi grazie soprattutto a Benedetto XVI e oggi a Francesco, si sono fatti significativi e importanti passi avanti.

Nelle norme, e nella cultura, nel cambio di mentalità. Una cultura e un cambio di mentalità purtroppo non ancora divenuto comune e condiviso in tutta la Chiesa. Esiste infine, certamente, un problema di omosessualità nella Chiesa. La quantità di seminaristi omosessuali ordinati preti senza che la loro scelta celibataria fosse “risolta”, è impressionante. Casi anche recenti di combriccole e mini-lobby gay nei seminari dicono che si tratta di una piaga dalla quale certamente non è esente lo stesso Vaticano. Francesco, aprendo i lavori dell’ultima assemblea generale dei vescovi italiani li ha invitati a non aprire le porte a seminaristi omosessuali, seguendo in questo direttive già esistenti. Ma è scorretto affermare che il problema degli abusi sui minori è un problema di omosessualità, portando come prova il fatto che un numero considerevole sarebbe commesso su ragazzi maschi adolescenti. No, l’omosessualità è una cosa, l’abuso sui minori è un’altra. L’abuso è innanzitutto un abuso di potere e di coscienza, perpetrato su una vittima minorenne che viene trasformata in oggetto.

La maggioranza degli abusi sui minori avviene in ambito familiare (il 60 per cento), poi nelle organizzazioni sportive, nella scuola, etc. Si configura sempre come un crimine commesso da qualcuno che non è mai in condizioni di parità con la sua vittima. Per questo appaiono patetici i tentativi, da parte della galassia di siti sedicenti cattolici e antipapali, come pure da parte di vaticanisti con la memoria corta, di riversare ogni responsabilità della crisi attuale su Papa Francesco, conducendo una battaglia selettiva soltanto sulle persone che si presumono “vicine” a lui, dimenticando quando e come quelle persone – vescovi e cardinali – sono stati nominati.

E dimenticando pure che per decenni una certa cultura non è stata sufficientemente combattuta neanche dai vertici romani della Chiesa cattolica. Le tristi vicende come quella del fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel, tanto per fare un esempio. Risulta infine ridicolo anche il tentativo di addossare all’attuale Pontefice la presenza omosessuale nella Chiesa e in Vaticano: si può cercare di farlo, massacrando la realtà dei fatti, la storia e le date, soltanto dimenticando gli ultimi cinquant’anni di storia.

Andrea Tornielli La Stampa Vatican Inside 24 agosto 2018

www.lastampa.it/2018/08/24/vaticaninsider/abusi-nessun-nuovo-documento-papale-c-da-applicare-la-lettera-uc8NlfwkhT1VhDpskka4LK/pagina.html

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INCONTRO MONDIALE FAMIGLIE

Card. Farrell “importante e urgente custodire, promuovere e rinvigorire il dono” del matrimonio.

“Le giornate che abbiamo condiviso ci hanno aiutato a comprendere come dare attuazione all’esortazione post-sinodale Amoris Lætitia, trasformando l’insegnamento cristiano sulla famiglia in un concreto annuncio di amore e di tenerezza”. Lo ha detto il card. Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, a conclusione della messa al Phoenix Park di Dublino. “Gli sposi qui presenti sono il segno tangibile della presenza di Gesù che li ama e che, in forza del sacramento, li chiama ad essere soggetti attivi della pastorale nella Chiesa. È lo Spirito Santo che li muove e li aiuta a comprendere l’identità, la bellezza del dono nuziale e a quale tipo di missione sono chiamati. Oggi, queste famiglie, con i loro figli, torneranno a casa ancora più consapevoli del senso della loro vocazione nuziale e familiare all’interno della Chiesa, nelle rispettive comunità e parrocchie. Esse ci hanno testimoniato quanto sia importante e urgente custodire, promuovere e rinvigorire il dono del sacramento, che è e sarà sempre un dono prezioso e una forza per la Chiesa e per tutta la comunità cristiana”.

Santo Padre, ha concluso il card. Farrell, “è con grande gioia che annuncio ora al mondo intero la sua decisione di celebrare il prossimo Incontro mondiale per le famiglie nel 2021 a Roma”.

Agenzia SIR 26 agosto 2018

http://preprod.agensir.it/quotidiano/2018/8/26/incontro-mondiale-famiglie-card-farrell-a-phoenix-park-importante-e-urgente-custodire-promuovere-e-rinvigorire-il-dono-del-matrimonio-prossimo-incontro-nel-2021

Gambino: “Importante per tutte le famiglie”

Gabriella Gambino, sottosegretario del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita della Santa Sede, in attesa dell’arrivo del Papa, commenta le conclusioni dell’Incontro mondiale delle famiglie a Dublino.

R. – Per noi famiglie è un’esperienza molto forte perché ci sta consentendo di metterci gli uni accanto agli altri a confronto con le nostre esperienze famigliari, più vere, più reali e più concrete. Direi che complessivamente l’organizzazione è stata molto buona, non ci sono state particolari difficoltà, tutte le famiglie si sentono accolte e si percepisce ovunque un clima di festa.

Amoris lætitia è stata al centro di questo Incontro Mondiale delle Famiglie: quanto sarà importante nei prossimi anni per le famiglie?

R. – Sarà importantissimo perché direi che Dublino rappresenta l’inizio di un percorso nuovo che adesso la Chiesa potrà fare con maggiore consapevolezza. Soprattutto per noi famiglie, ripeto, è stato un primo modo per vivere concretamente questa esortazione apostolica di Papa Francesco e per renderci conto tra noi, anche tra coniugi, che cosa significa concretamente vivere Amoris lætitia.

Lei è stata presente, qui, nella delegazione del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, ma è stata presente come madre e come moglie: che esperienza personale riporta a Roma?

R. – Una ricchezza straordinaria! Soprattutto vedo i miei figli molto coinvolti, capaci di mettersi in gioco in questa situazione, in cui siamo accanto ad altre famiglie come noi, famiglie che vivono le difficoltà di tutti i giorni, famiglie che cercano di impegnarsi per vivere bene l’amore dentro la famiglia, la chiamata ad annunciare la speranza, la gioia, che è la vocazione specifica che noi abbiamo soprattutto noi coniugi: come sposi abbiamo questo ministero speciale, quello di preservare e annunciare l’amore con speranza.

Alessandro Gisotti – Vatican news 25 agosto 2018

www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-08/viaggio-apostolico-irlanda-incontro-intervista-gambino-famiglia.html

Documentazione degli interventi di Papa Francesco

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2018/documents/papa-francesco_20180826_omelia-dublino.html

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/august.index.html

http://w2.vatican.va/content/vatican/it.html

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OMOFILIA

Padre James Martin: come possono le parrocchie accogliere le persone LGBT?

Una delle nuove sfide che attendono le parrocchie cattoliche è l’accoglienza dei parrocchiani LGBT [persone Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender] e delle famiglie con persone LGBT al loro interno. È una sfida dove abbonda la Grazia, perché le persone LGBT cattoliche si sono sentite escluse dalla Chiesa per così tanto tempo che una qualsiasi esperienza di accoglienza può cambiare loro la vita, può essere un tocco guaritore che le convince a frequentare di nuovo la Messa, tornare alla fede o anche credere di nuovo in Dio.

Negli ultimi anni ho sentito storie aberranti di persone LGBT cattoliche che sono stati respinte dalle parrocchie. Un omosessuale autistico di trent’anni d’età, che aveva fatto coming out con la famiglia e non aveva nessuna relazione sentimentale, mi disse che un assistente alla pastorale era arrivato a dirgli che non poteva più ricevere la Comunione in chiesa. Perché? Perché essere gay costituiva uno scandalo.

Ma la crudeltà non si ferma alla porta delle chiese. L’anno scorso una donna mi contattò per chiedermi se conoscevo “un prete compassionevole” nella sua arcidiocesi. Perché? Era infermiera in una casa di cura e un paziente cattolico stava morendo; il sacerdote assegnato alla casa di cura, però, si rifiutava di somministrargli il viatico, perché era gay.

C’è da stupirsi che molte persone LGBT cattoliche si sentano dei lebbrosi nella Chiesa? La stessa cosa vale per le famiglie. La madre di un adolescente gay mi disse che suo figlio aveva deciso di tornare in chiesa dopo anni di allontanamento, perché sentiva che la Chiesa lo odiava. Dopo molte discussioni, decise di tornare in occasione della Pasqua. Sua madre era euforica. La Messa cominciò e la donna era entusiasta di avere suo figlio accanto a sé. Ma dopo che il sacerdote aveva proclamato la Resurrezione di Cristo, indovinate un po’ l’argomento dell’omelia? Il male dell’omosessualità. Il ragazzo si alzò e uscì dalla chiesa. Sua madre rimase al banco, a piangere.

Ma nella nostra Chiesa ci sono anche storie di Grazia. L‘anno scorso uno studente universitario mi disse che la prima persona con cui aveva fatto coming out era un sacerdote. La prima cosa che questi gli disse fu “Dio ti ama e la Chiesa ti accetta”. Il giovane mi disse “Questo mi ha letteralmente salvato la vita”. Dovremmo in effetti essere felici che un sempre maggiore numero di parrocchie cattoliche siano dei luoghi in cui le persone LGBT cattoliche possono sentirsi a casa, grazie ai sacerdoti, ai collaboratori parrocchiali e ai vari programmi pastorali.

La mia comunità gesuita di New York si trova vicino a una parrocchia intitolata a San Paolo Apostolo, che propone uno dei programmi pastorali LGBT più attivi del mondo. Questo ministero si chiama Out at St. Paul (Allo scoperto nella parrocchia di San Paolo) e propone ritiri, studi biblici, conferenze e feste per la grande comunità LGBT parrocchiale. Ogni domenica, alla Messa delle 17.15, al momento degli annunci una persona LGBT sale sul pulpito e dice “Ciao! Sono Jason, o Xorje, o Marianne, e sono membro di Out at St. Paul. Se sei lesbica, gay, bisessuale o transgender, vogliamo che tu ti senta accolto/a. Ecco alcuni appuntamenti della settimana entrante”.

Ho appena saputo che due membri di questo gruppo quest’anno prenderanno i voti religiosi. Purtroppo, gran parte della vita spirituale delle persone LGBT cattoliche e delle loro famiglie dipende da dove hanno in sorte di vivere. Se sei gay, lesbica, bisessuale o transgender e stai cercando di dare un senso alla tua relazione con Dio e la Chiesa, oppure sei un genitore di una persona LGBT, e vivi in una grande città, dove ci sono sacerdoti di mente aperta, allora sei fortunato. Ma se vivi in un luogo dalla mentalità più chiusa o se il tuo parroco è più o meno apertamente omofobo, sei sfortunato. E il modo in cui un cattolico viene accettato o meno dalla sua parrocchia influenza il suo modo di considerare non sono la Chiesa, ma anche la fede e Dio.

Questo è il vero scandalo. Perché la tua fede dovrebbe dipendere da dove vivi? È questo che Dio desidera per la Chiesa? Gesù forse voleva che la gente di Betania sperimentasse l’amore di Dio meno di quella di Betsaida? Forse voleva che una donna di Gerico si sentisse meno amata di una donna di Gerusalemme?

Cosa può aiutare una parrocchia a sviluppare l’accoglienza e il rispetto? Come possono i sacerdoti e i diaconi, le religiose e i religiosi, i responsabili del catechismo, gli assistenti laici alla pastorale e tutti i parrocchiani aiutare la loro parrocchia a essere una casa per le persone LGBT cattoliche e le loro famiglie?

Le seguenti osservazioni si basano non solo sulle mie conversazioni con le persone LGBT, ma anche sulla mia esperienza con i ministeri e i gruppi LGBT che ho consultato per questa occasione. Ho chiesto loro: quali sono le cose più importanti che le parrocchie dovrebbero conoscere e fare? Vorrei sviluppare tre punti.

  1. Primo, quali sono le cose basilari che una parrocchia dovrebbe sapere?

  2. Secondo, cosa può fare una parrocchia per sviluppare l’accoglienza e il rispetto?

  3. Infine, cosa potrebbe dire il Vangelo su questo ministero?

Cominciamo con sei concetti base.

  1. Sono persone cattoliche. Sembra ovvio, ma le parrocchie non devono dimenticare che i parrocchiani LGBT e le loro famiglie sono stati battezzati cattolici. Fanno parte della Chiesa tanto quanto papa Francesco, il loro vescovo o il loro parroco. Non si tratta di farli diventare cattolici: lo sono già. Perciò, la cosa più importante che possiamo fare per le persone LGBT cattoliche è accoglierle in quella che è già la loro Chiesa. E ricordatevi bene: solo per rimanere nella Chiesa, molte persone LGBT hanno sopportato anni di rifiuti. La nostra accoglienza dovrebbe riflettere questo ed essere, come dice il Vangelo di Luca, “una buona misura, pigiata, scossa e traboccante”.

  2. Non hanno scelto il loro orientamento. Purtroppo, molti ancora credono che si possa scegliere il proprio orientamento sessuale, nonostante la testimonianza di quasi tutti gli psichiatri e i biologi, e soprattutto l’esperienza vissuta delle persone LGBT. Non si sceglie il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere, non più di quanto si scelga di essere mancini. Non è una scelta, e non è una dipendenza: il semplice essere LGBT, quindi, non è peccato, ancora meno è qualcosa a cui dare la colpa a qualcuno, come i genitori.

  3. Sono spesso stati trattate come lebbrosi dalla Chiesa. Non sottovalutate mai il dolore delle persone LGBT, causato non solo dalla Chiesa, ma dalla società nel suo complesso. Alcune statistiche possono essere utili: negli Stati Uniti, i giovani e le giovani lesbiche, gay e bisessuali hanno una probabilità cinque volte maggiore di tentare il suicidio rispetto ai giovani e alle giovani eterosessuali. Il 40% delle persone transgender negli Stati Uniti ha tentato il suicidio. Tra i giovani LGBT statunitensi, il 57% non si sente al sicuro per via del suo orientamento. Uno studio ha dimostrato che, più la famiglia di un giovane LGBT è religiosa, più è probabile che questi tenti il suicidio. Molti giovani LGBT vivono in strada perché sono stati rifiutati dalle loro famiglie per motivi religiosi. Le parrocchie devono essere consapevoli delle conseguenze della stigmatizzazione delle persone LGBT. Molte persone LGBT cattoliche sono state profondamente ferite dalla Chiesa, derise, insultate, escluse, condannate, prese di mira, in privato o dal pulpito. Alcune di loro non hanno mai sentito pronunciare i termini “gay” o “lesbica” in tono neutro, tanto meno in tono positivo. Magari non hanno mai sentito commenti spregiativi in parrocchia, ma li hanno sentiti da vescovi o altri eminenti cattolici. Fin dall’inizio della loro vita da cattolici si sono spesso sentite degli errori. Hanno paura del rifiuto, del giudizio e della condanna da parte della Chiesa; spesso sono le uniche cose che da lei si aspettano, e questo può portarle all’autoemarginazione.

La situazione e il dolore dei genitori di persone LGBT sono simili. C’è un adagio che recita: “Quando un figlio esce dal nascondiglio, un genitore entra nel nascondiglio”. Accettare la realtà dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere di un figlio o una figlia può confondere, spaventare o imbarazzare i genitori, che possono provare vergogna di fronte a parenti e amici. Un figlio o una figlia che dice di essere omosessuale o transgender può causare in un genitore non solo la sensazione di aver in qualche modo sbagliato, ma anche la paura di venire isolato, giudicato ed escluso dalla Chiesa; talvolta i genitori pensano di dover scegliere tra il figlio o la figlia e Dio, o si preoccupano che possa abbandonare una Chiesa che apparentemente lo rifiuta. Per questo le parrocchie devono far sapere a genitori e famiglie che sono sempre i benvenuti, che non hanno nulla da temere dalla Chiesa e che la Chiesa è casa loro.

4) Portano doni alla Chiesa. Come tutti gli altri gruppi, le persone LGBT portano doni speciali alla Chiesa. È importante non generalizzare, ma quando si tratta di un gruppo che è stato considerato dalla Chiesa quasi esclusivamente sotto una luce negativa, è importante prendere in considerazione i suoi molti doni. Per cominciare, essendo state perlopiù emarginate, molte persone LGBT sentono una spontanea compassione per chi vive ai margini. La loro compassione è un dono. Spesso sono pronte a perdonare sacerdoti e vescovi che le hanno trattate come spazzatura. La loro disponibilità a perdonare è un dono. Perseverano nella fede cattolica a dispetto di anni di rifiuti. La loro perseveranza è un dono.

Di recente, alcune istituzioni cattoliche statunitensi hanno licenziato delle persone LGBT che si erano legalmente sposate. Quello che tali situazioni hanno in comune è sempre stato un enigma per me: ogni volta che ho sentito una di queste storie, era sempre l’insegnante, il collaboratore o il direttore del coro “più amato” della parrocchia: mi chiedevo perché queste persone fossero sempre “le più amate”. Poi ho capito perché: le persone LGBT che lavorano per la Chiesa lo fanno perché vogliono davvero stare lì, nonostante il modo in cui vengono trattate. Rimangono fedeli al loro ministero nonostante il rifiuto di cui sono vittime. Vale la stessa cosa per i parrocchiani LGBT: decidono consciamente di rimanere nella Chiesa; perseverano. Quindi, quando pensate ai loro doni, potreste avere la stessa reazione di Gesù di fronte al centurione romano: stupore dinanzi alla loro fede.

5) Anelano a conoscere Dio. Come accade a molti cattolici, molte persone LGBT hanno dei problemi con alcuni aspetti dell’insegnamento della Chiesa: per esempio, l’espressione “intrinsecamente disordinati”. Ma non tutte si impuntano sulle parti problematiche della Tradizione, come si potrebbe pensare. Molte di loro vogliono qualcosa di molto più semplice: sperimentare l’amore del Padre nella comunità. Incontrare Gesù Cristo nell’Eucarestia. Vivere lo Spirito Santo nei sacramenti. Ascoltare buone omelie, cantare begli inni e sentirsi parte di una comunità di fede. Trattatele in questo modo, non come degli importuni, ma come dei parrocchiani. Aiutate le persone LGBT e le loro famiglie ad adempiere al loro più profondo desiderio: conoscere Dio.

6) Sono amate da Dio. Dio le ama, e dovremmo amarle anche noi, e non di un amore avaro, obtorto collo, pieno di giudizi e di condizioni, solo con una parte del cuore: intendo di amore vero. E cosa significa amore vero? La stessa cosa che significa per chiunque: conoscerle nella complessità della loro vita, festeggiare con loro i momenti belli, soffrire con loro le amarezze, come farebbe un amico. E dirò di più: amarle come Gesù amava gli emarginati: follemente ed eccentricamente.

Tenendo presenti questi punti, come deve fare una parrocchia per essere più accogliente? Come possiamo trattare le persone LGBT esercitando le virtù raccomandate dal Catechismo: “rispetto, compassione e sensibilità”? Voglio suggerire dieci punti. Ovviamente questi suggerimenti devono essere adattati alla vostra parrocchia: sono solo dei canovacci. Ogni parrocchia dovrà sviluppare il suo proprio modello.

1) Esaminate i vostri atteggiamenti nei confronti delle persone LGBT e delle loro famiglie. Pensate che una donna viva nel peccato perché lesbica, o che sia più incline al peccato di una donna eterosessuale? Pensate che i genitori siano “responsabili” dell’orientamento sessuale di un adolescente gay? Pensate che una certa persona sia transgender solo perché esserlo è “di moda”? Altra domanda: se nessuno, o pochissime persone, vi hanno detto di essere LGBT, quale pensate possa essere la causa?

E poi, nutrite atteggiamenti discriminatori nel vostro cuore? Per esempio, giudicate la comunità LGBT secondo i medesimi standard con cui giudicate le persone eterosessuali? Quando abbiamo davanti le persone LGBT, tendiamo a chiederci esclusivamente se si conformano pienamente alla morale sessuale cattolica. Fate la stessa cosa nei confronti dei vostri parrocchiani eterosessuali, con chi convive prima del matrimonio o pratica la contraccezione? Siate coerenti quando controllate le vite degli altri. I sacerdoti capiscono meglio le complesse situazioni delle persone eterosessuali, perché le conoscono. Ad esempio, anche se Gesù condanna senza appello il divorzio, la maggior parte delle parrocchie accoglie le persone divorziate. E noi, trattiamo le persone LGBT con la stessa comprensione?

Cosa potete fare di questi atteggiamenti? Siate aperti e sinceri, ma studiate i fatti sull’orientamento sessuale e l’identità di genere da fonti scientifiche e sociologiche, non i miti e i “si dice” da siti web omofobi e male informati. Poi parlate con Dio e con il vostro direttore spirituale a proposito dei vostri sentimenti, e rimanete aperti alla risposta di Dio. Invitate il vostro team pastorale a parlare dei loro sentimenti ed esperienze. Tutto questo ci conduce al prossimo punto.

2) Ascoltatele. Ascoltate le esperienze delle persone LGBT cattoliche, dei loro genitori e delle loro famiglie. Se non sapete cosa dire, potete chiedere: “Com’è stato essere un giovane gay nella nostra Chiesa?”, “Cosa vuol dire essere una lesbica cattolica?”. Una domanda importante è: “Cosa vuol dire essere una persona transgender?”. Sappiamo ancora poco dell’esperienza transgender, quindi è importante ascoltare. Invitate i genitori di persone LGBT a parlare con il vostro team pastorale, e chiedete: “Cosa vuol dire avere un figlio gay?”, “La Chiesa vi ha aiutati o feriti? In che modo?”, “Come è cambiato il modo in cui vedete Dio?”. Prestate attenzione a ciò che dicono, guardate di non utilizzare quel linguaggio che notoriamente trovano offensivo e inutilmente provocatorio, per esempio la parola “sodomia”. I nomi, le parole e la terminologia contano.

In generale, quando partecipate a un ministero LGBT o incontrate privatamente una persona LGBT, cominciate dalle loro esperienze. Abbiate fiducia che lo Spirito Santo guiderà la loro formazione di cristiani. Di fronte agli altri cattolici, ci guardiamo bene dal ripetere l’insegnamento della Chiesa senza prendere in considerazione la loro esperienza vissuta, quindi evitate di farlo con le persone LGBT. Prendete nota di come Gesù trattava chi viveva ai margini, per esempio la Samaritana: la castiga forse per essersi sposata più volte e per convivere con un uomo? No, la ascolta e la tratta con rispetto. Siate come Gesù: ascoltate, andate incontro, accompagnate. Se la Chiesa ascoltasse le persone LGBT, sparirebbero il 90% dell’omofobia e dei pregiudizi.

3) Valorizzate la loro presenza nelle omelie, presentatele come membri a pieno titolo della parrocchia, senza giudicarle come cattolici deviati. Le persone LGBT (nessuno, in realtà) non dovrebbero mai venire degradate o umiliate dal pulpito. Anche solo nominarle può essere un passo avanti. Qualche volta dico nelle mie omelie “Dio ci ama tutti e tutte, anziani o giovani, ricchi o poveri, eterosessuali o LGBT”. Anche una cosa così piccola può costituire un segnale, anche per i loro genitori, i loro nonni, i loro fratelli e sorelle, zie e zii. Forse non credete ci siano persone LGBT nella vostra parrocchia, ma certamente ci sono genitori o nonni di persone LGBT, e c’è qualcuno che ama le persone LGBT. Ricordate che, quando parlate delle persone LGBT, state parlando dei loro figli.

4) Scusatevi con loro. Se le persone LGBT cattoliche e le loro famiglie sono state danneggiate, in nome della Chiesa, da commenti, atteggiamenti e decisioni omofobe, presentate le vostre scuse. Qui mi rivolgo ai ministri della Chiesa. Sono state danneggiate dalla Chiesa, e voi siete ministri della Chiesa. Potete presentare le vostre scuse: non risolverà tutto, ma è un buon inizio.

5) Non riducete i gay e le lesbiche alla vocazione alla castità, che riguarda tutti noi cristiani. Le persone LGBT sono più della loro vita sessuale, ma alcuni sentono parlare solo di quella. Ricordate: non fissatevi sulla loro sessualità, interessatevi alle gioie e dei dolori della loro vita, perché le loro vite sono ricche. Molte persone LGBT cattoliche hanno figli o si occupano dei genitori anziani; altre si occupano dei poveri; altre ancora fanno vari tipi di volontariato. Spesso sono molto coinvolte nella vita della parrocchia. Guardatele nella loro totalità, e se parlate con loro di castità, fatelo come lo fareste parlando con una persona eterosessuale.

6) Coinvolgetele nei ministeri. Come ho detto prima, si tende a interessarsi troppo della moralità sessuale delle persone LGBT cattoliche, il che è sbagliato: prima di tutto, probabilmente non avete alcuna idea della loro vita sessuale; in secondo luogo, anche se sbagliano, non sono certo le sole. Il risultato è che le persone LGBT possono essere indotte a mentire e a pensare che in parrocchia non ci sia posto per loro. Come ogni altro parrocchiano che non vive all’altezza del Vangelo (vale a dire, tutti), anche le persone LGBT dovrebbero essere invitate a far parte dei vari ministeri: quello eucaristico, quello musicale, il lettorato, le visite a chi è in lutto, qualsiasi ministero. Oltretutto, non accoglierle nella Chiesa significa buttare via i loro doni. Se ne andranno lì dove sono accolte, dove potranno portare il loro essere tutto intero. Inoltre, chiedere a qualcuno che si è sentito tagliato fuori la sua vita tutta intera, la vita gliela cambia.

7) Valorizzate i loro doni individuali. Bisogna valorizzare non solo i doni che le persone LGBT portano alla Chiesa, ma anche i loro doni individuali. Per esempio, uno dei coristi della mia parrocchia gesuita è gay. È una persona gentile e compassionevole e da vent’anni la sua bella voce lo rende parte essenziale delle nostre Messe. È probabile ci siano persone così nella vostra parrocchia. Ricordate che è importante valorizzarle, lodarle, far loro sapere che contano. Non nascondete la loro lampada sotto il vostro secchio!

8) Invitate i responsabili della parrocchia ad accoglierle. Magari avete un parroco accogliente, ma gli altri? La persona che risponde al telefono sa cosa dire a una coppia lesbica che vuole battezzare suo figlio? In occasione dei funerali, il figlio gay del defunto è trattato allo stesso modo degli altri figli? L’insegnante della scuola cattolica come si comporta con i due padri che vengono a parlare della figlia? Come si comporta il diacono con il padre che chiede di celebrare il funerale del figlio gay? Gay e lesbiche vengono autorizzati a visitare una persona il cui coniuge è appena morto? La vostra parrocchia accoglie tutti i bambini, anche quelli delle coppie omosessuali? Questi ultimi vengono accolti nella scuola cattolica, all’oratorio e al catechismo? I responsabili della parrocchia conoscono bene l’insegnamento cattolico sulla non discriminazione? Hanno ricevuto una formazione pastorale adeguata?

La voce della parrocchia non si limita alla voce del parroco: è la voce di tutti. Mettiamola in questo modo: quando rifiuta ed esclude le persone LGBT, la Chiesa non è fedele alla sua vocazione ad essere la famiglia di Dio. Quando escludiamo le persone LGBT, noi mandiamo in frantumi la famiglia di Dio e facciamo a pezzi il Corpo di Cristo.

9) Organizzate eventi mirati, oppure un programma pastorale specifico. Come chiunque altro, le persone LGBT cattoliche vogliono sentirsi parte della Chiesa, e l’onere di accoglierle nella comunità spetta alla Chiesa, come per tutti i suoi figli e figlie. Purtroppo, per molte di loro, la Chiesa non è stata un luogo accogliente, perciò eventi mirati o programmi pastorali specifici possono essere utili per colmare la distanza tra le vostre buone intenzioni e la loro diffidenza.

Per quanto riguarda gli eventi, le possibilità sono molte: una Messa di benvenuto, un ritiro spirituale, una commemorazione, un circolo di lettura, una conferenza. Queste ultime non necessariamente devono riguardare le tematiche LGBT: per esempio, si può chiamare qualcuno perché parli ai parrocchiani LGBT della preghiera, o guardare un film su un argomento che necessita di chiarimenti, come l’esperienza delle persone transgender. Su quest’ultimo argomento la Chiesa deve imparare ancora molto, al pari della società tutta.

Monsignor Christopher Coyne, vescovo di Burlington nel Vermont, ha detto: “Non vedo alcuna ragione per cui le persone transgender non dovrebbero essere accolte dalla Chiesa. Ci sono molte prove […] per cui gran parte [dell’identità di genere] è dovuta a fattori biologici; non è qualcosa che si fa semplicemente perché va di moda o per scelta culturale. Sono fatte così […] siamo tutti creature di Dio e vorrei invitare chiunque a venire alla mensa”.

Per quanto riguarda i programmi pastorali, ci sono molti modelli disponibili, da quelli in cui le persone LGBT parlano tra loro in privato a quelli dove incontrano gli altri parrocchiani, ai programmi educativi sul Magistero, fino ad approcci più olistici, dove il gruppo parla non solo di sessualità, ma anche di altre problematiche affrontate dalle persone LGBT, passando per i gruppi dedicati ai genitori, i gruppi che cercano di evangelizzare la comunità LGBT della zona oppure mettono in piedi un rifugio per giovani LGBT, i programmi che si occupano di tematiche LGBT in mezzo a molte altre di interesse per la parrocchia, il catechismo per gli adulti, i programmi di giustizia sociale, la pastorale giovanile: dipende da parrocchia a parrocchia.

Per quanto riguarda i genitori, quando le ho chiesto cosa avrei dovuto dire oggi, una madre mi ha detto: “La cosa più importante è offrire ai genitori uno spazio sicuro e accogliente per condividere la loro storia con altri genitori cattolici. Molti di loro si sentono soli e sono convinti che nessuno stia vivendo quello che vivono loro. È un sollievo conoscere genitori che stanno compiendo lo stesso viaggio […] Non vogliono che i loro figli siano equiparati agli alcolisti. Anche ascoltare commenti positivi dal pulpito sarebbe d’aiuto, invece di veder fare come se i loro figli non esistessero”.

L‘anno scorso la parrocchia gesuita dove celebro la Messa (non è certo una sorpresa che sia dedicata a Sant’Ignazio di Loyola) ha organizzato un gruppo serale per condividere la propria storia. Sono intervenuti sei membri della nostra parrocchia (tre uomini gay, la madre di un figlio gay, un padre e suo figlio adolescente gay) e hanno parlato della loro vita. Quella condivisione di gioie e dolori è stata un balsamo per loro e per l’intera parrocchia. Perché un balsamo per loro? Immaginate di essere stati estraniati dalla Chiesa tutta la vostra vita, e che poi vi abbiano chiesto di raccontare la vostra esperienza. Perché un balsamo per il resto della parrocchia? Perché ci ha riuniti tutti insieme in un modo che non avremmo mai osato immaginare.

10) Fate attivismo per la loro causa. Siate profetici. Ci sono molte occasioni in cui la Chiesa può essere una voce morale per questa comunità perseguitata. Non parlo di temi roventi come il matrimonio omosessuale, parlo di quei Paesi in cui gli omosessuali vengono braccati, gettati in galera e persino giustiziati per la loro omosessualità e le lesbiche vengono stuprate per “curarle” dal loro orientamento sessuale. In quei Paesi, combattere per la causa LGBT significa combattere per la vita; in altri Paesi, significa reagire ai suicidi di adolescenti, ai crimini di intolleranza, al bullismo. Una parrocchia ha molte opportunità per stare a fianco delle persone LGBT perseguitate.

 

Il Catechismo dice “si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” nei confronti delle persone LGBT. Crediamo a questa frase del Catechismo? Nel 1986 la Congregazione per la Dottrina della Fede scrisse: “Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino”. Crediamo a questa affermazione della Congregazione?

Essere cristiani è anche questo: stare dalla parte degli emarginati, dei perseguitati, di chi viene massacrato. È scioccante pensare a quanto raramente la Chiesa Cattolica lo abbia fatto. I vostri parrocchiani LGBT devono sapere che state dalla loro parte: quando è il caso, parlate delle persecuzioni durante l’omelia o citatele nelle vostre preghiere. Siate profetici. Siate coraggiosi. Siate come Gesù.

Perché, se non cerchiamo di essere come Gesù, cosa ci stiamo a fare in parrocchia? Ricordatevi bene che, durante il suo ministero pubblico, Gesù ha continuamente cercato chi si sentiva emarginato. Il movimento, nel caso di Gesù andava dalla periferia al centro, Gesù andava a prendere le persone al di fuori per portarle nella comunità, perché per lui non c’era un “noi” e un “loro”, c’era solo il noi.

Vorrei chiudere con un racconto evangelico che ci faccia meditare sulla nostra vocazione all’accoglienza e al rispetto delle persone LGBT e delle loro famiglie.

Il Vangelo di Luca contiene il bel racconto dell’incontro di Gesù con Zaccheo. Gesù sta passando per Gerico, una città molto grande. Sta viaggiando verso Gerusalemme, negli ultimi tempi del suo ministero, e probabilmente era ben conosciuto nella zona, ed è probabile che una grande folla lo seguisse. A Gerico abitava un uomo di nome Zaccheo: era il capo degli agenti delle tasse di quella regione, perciò gli Ebrei lo consideravano “il capo dei peccatori”. Perché? Perché era considerato colluso con le autorità romane, perciò probabilmente Zaccheo veniva evitato da tutti.

Ecco, vorrei invitarvi a pensare a Zaccheo come a un simbolo delle persone LGBT cattoliche, non perché le persone LGBT siano più peccatrici di noi: siamo tutti peccatori; ma perché si sentono molto emarginate. Pensate alle persone LGBT come a Zaccheo.

Luca descrive Zaccheo come “piccolo di statura”. Anche le persone LGBT si sentono spesso “piccole di statura” nella Chiesa. Luca dice che Zaccheo non riusciva a vedere Gesù “a causa della folla”, perché appunto era basso, ma quante volte la “folla” impedisce alle persone LGBT di incontrare Gesù Siamo anche noi tra quella “folla” che non permette alle persone LGBT di avvicinarsi a Dio?

Così Zaccheo si arrampica su un albero: come dice Luca, voleva vedere “quale fosse Gesù”. Questo è quello che vogliono le persone LGBT: vedere quale sia Gesù. Ma la folla si mette in mezzo.

Poi, ecco Gesù che attraversa Gerico, probabilmente circondato da centinaia di persone che cercano di attirare la sua attenzione. E lui, a chi si rivolge? Alle autorità religiose? A uno dei suoi discepoli? No, a Zaccheo! E cosa dice a Zaccheo? Gli urla forse “Peccatore!”, “Tu, orrendo agente delle tasse!”? No! Gli dice “Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”! È un pubblico segnale di accoglienza nei confronti di un emarginato.

Ecco poi il mio versetto preferito: “Vedendo ciò, tutti mormoravano”! Esattamente quello che avviene oggi quando si tratta di persone LGBT. La gente mormora! Fate un giro su Internet, e vedrete molto mormorio. Offrire misericordia agli emarginati fa sempre arrabbiare la gente.

Zaccheo scende dall’albero; il testo greco ha un’espressione molto forte, statheis: mantenne la sua posizione. Quante volte le persone LGBT hanno dovuto mantenere la loro posizione di fronte all’opposizione e ai pregiudizi dei cattolici?

Poi Zaccheo dice che darà la metà di quanto possiede e ripagherà quattro volte tanto le persone da lui defraudate. L’incontro con Gesù conduce alla conversione, per lui come per tutti. Cosa intendo per “conversione”? Non certo le “terapie di conversione”. No, la conversione che vive Zaccheo è quella a cui tutti e tutte siamo chiamati. Nei Vangeli Gesù la chiama metanoia, la conversione della mente e del cuore. Per Zaccheo, convertirsi significa dare ai poveri.

Tutto questo è frutto dell’incontro con Gesù. L’approccio di Gesù, il più delle volte, privilegia la comunità sulla conversione. Il modello di Giovanni Battista, invece, prevedeva che prima ci si convertisse, poi che si venisse accolti nella comunità. Per Gesù, prima viene la comunità, poi la conversione. L‘accoglienza e il rispetto sono prioritari.

Così Gesù tratta chi si sente ai margini. Li cerca prima di chiunque altro: li incontra e li tratta con rispetto, sensibilità e compassione.

Quindi, di fronte alle persone LGBT a alle loro famiglie che si presentano nella nostra parrocchia, possiamo assumere due posizioni: possiamo stare dalla parte della folla, che mormora e si oppone alla misericordia, o con Zaccheo e, soprattutto, con Gesù.

Padre James Martin SJ, intervento per l’Incontro Mondiale delle Famiglie di Dublino, pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (USA) il 23 agosto 2018, tradotto da Giacomo Tessaro.

Il gesuita americano James Martin è editorialista del settimanale cattolico America ed autore del libro “Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt(Editore Marcianum, 2018).

www.avvenire.it/chiesa/pagine/chiesa-e-persone-lgbt-sul-ponte-dellincontro

Padre James ha portato questo contributo sull’accoglienza delle persone LGBT nella Chiesa Cattolica all’Incontro Mondiale delle Famiglie Cattoliche di Dublino e porterà una sua riflessione anche al 5° Forum dei cristiani LGBT italiani.(Albano Laziale, 5-7 ottobre 2018).

www.gionata.org/chiesa-cattolica-e-persone-lgbt-sul-ponte-dellincontro

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PARLAMENTO

Ddl Pillon, una assurda proposta maschilista contro tutto e tutti

Il disegno di legge porta un’idea di famiglia separata totalmente fuori luogo e fuori tema che rischia di rivelarsi un disastro. . Vedi news UCIPEM 714, pag.17

S735. Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1071882/index.html

Questo disegno di legge “non s’ha da fare”. Decenni di giurisprudenza saggia, intelligente, consapevole dei bisogni emotivi e sociali dei minori, vengono buttati nel cassonetto predisposto dai lamentosi papà separati. Sì, perché sono loro le idee “rivoluzionarie” proposte in questo imbarazzante disegno di legge Pillone compagnia cantanti. Sono loro i principi che lo dovrebbero reggere e dovrebbero rimettere al centro la famiglia e i genitori, degiurisdizionalizzando così, a dire di Pillon & co., le problematiche familiari. Ma il risultato sarà un disastro, contro tutto e tutti. Credete a Cassandra.

Vediamo perché. Dunque, al grido

a) mediazione obbligatoria;

b) tempi paritari ed equilibrio tra i genitori;

c) eliminazione dell’assegno di mantenimento;

d) lotta all’alienazione genitoriale,

In piena estate un manipolo di uomini quarantenni, in buona parte avvocati e in buona parte leghisti, ha portato un’idea di famiglia separata totalmente fuori luogo e fuori tema. In pratica fuori.

Il lessico che condisce questa ipotesi di legge è fatto di frasi tipo: “piano parentale”, “antiquata idea dell’assegno”, “tempi equipollenti del minore con ciascuno dei genitori”, “il bambino potrà finalmente fare conto su due case”, “il monstrum dell’assegnazione”. Quando in Italia le mamme, per la maggior parte, non lavorano o non guadagnano come il partner, perché devono (non solo scelgono di) occuparsi dei figli. I papà, per la maggior parte, sono tranquilli e felici se le mamme si dedicano ai figli. Quando i bimbi, vere vittime del trauma della separazione, amano la loro casa e la loro cameretta a volte di più dei genitori. Quando il mantenimento diretto (nei tempi “equipollenti”) non risolve certo il problema di pagare abbigliamento, utenze, spese abitative di uno, due o tre figli, di automobile e via dicendo.

Senza trascurare che, così ragionando, o i genitori dovranno lavorare entrambi molto e molto di più, o avranno il costo suppletivo di una tata a tempo pieno o di due mezze tate, o dovranno disporre di nonni non interessati alle spa, ai chirurghi plastici o alle ventenni arrampicatrici sociali. Sempre che ci siano nonni pensionati, Fornero permettendo, in età compatibile con l’energia dei ragazzini. Ci sarà sempre il piano B: non separarsi e far vivere i figli nel far west dei sentimenti. Ma proseguiamo l’analisi del piano A secondo le nove competentissime persone che vogliono cambiare la separazione e la morale familiare. Dimenticandosi, soprattutto, che la maggior parte dei padri sente l’onere prepotente di mantenere la famiglia separata allo stesso livello di quando era unita.

Dunque, il disegno di legge Pillon impone ai genitori, e al giudice, di valutare prioritariamente la possibilità di individuare un calendario secondo il quale i figli trascorrano lo stesso tempo con la mamma e con il papà (“tempi paritetici o equipollenti”). I genitori, tuttavia, possono concordare diversi tempi di permanenza del minore (e, quindi, non del 50% ciascuno), ma devono farlo nel rispetto del nuovo limite che il disegno di legge impone. Ossia la prole ha il diritto (e mamma e papà il dovere), comunque sia, di trascorrere con ciascun genitore “non meno di 12 giorni al mese compresi i pernottamenti”.

I figli, quindi, trascorrendo la metà (o quasi) del proprio tempo presso ciascun genitore avranno “due case” e un doppio domicilio (uno presso l’abitazione della mamma e uno presso quella del papà). Entrambi gli indirizzi saranno tenuti in considerazione per le comunicazioni scolastiche, amministrative e relative alla salute. Fermo il doppio domicilio, poi, il giudice può stabilire – nell’interesse dei minori – che questi mantengano la residenza in una sola delle case. Ma saranno contenti i bambini di saltellare con la valigia per metà mese da una casa all’altra? A noi adulti farebbe piacere o lo troveremmo stancante? Visto che i disastri coniugali siano noi grandi a crearli, non sarebbe più giusto che in casa rimanessero i figli e noi ci alternassimo ad accudirli nell’abitazione familiare?

Nell’individuazione di un calendario paritetico sono fatte salve, naturalmente, le ipotesi nelle quali i tempi di permanenza presso il padre o presso la madre possono essere pregiudizievoli per il minore (per es. in caso di violenza, di abuso sessuale, di evidente inadeguatezza del genitore e così via). E ci mancherebbe pure!

In questo nuovo quadro organizzativo dei tempi che i figli trascorreranno con mamma e papà (che il disegno di legge chiama “piano genitoriale”), prendono piede due ulteriori novità. La prima è quella relativa alle modalità di mantenimento dei bambini che sarà di regola quella diretta, nei rispettivi periodi di permanenza presso di sé dei minori. In altre parole, ciascun genitore provvederà – personalmente – alle spese di mantenimento ordinario dei figli durante i periodi che i bambini trascorreranno con loro. Solo quando clamorosamente necessario, e quindi come ipotesi residuale, il giudice potrà stabilire – continuando a tenere in considerazione quali parametri le esigenze dei figli e le rispettive risorse economiche – che un genitore corrisponda un assegno periodico all’altro a titolo di contributo di mantenimento per la prole.

L’ulteriore devastante (e maschilista) novità sancita dal disegno di legge riguarda il principio dell’assegnazione della casa coniugale. Oggi l’assegnazione avviene a favore del genitore collocatario dei minori in via prevalente. Quasi sempre la madre, giacché è in linea di massima lei il genitore di riferimento. Tale principio, pertanto, perde la sua ragion d’essere con la previsione di un calendario di affidamento paritetico e, conseguentemente, l’obiettivo di “due case” per i bambini. Pertanto, fatta salva l’ipotesi nella quale sia il giudice a precisare chi può continuare a vivere nella casa coniugale, tutte le questioni relative alla proprietà o alla locazione saranno risolte in base alle norme civilistiche vigenti in materia di proprietà e comunione.

Infine, altra preoccupante novità, è quella di prevedere la mediazione civile come obbligatoria – e, perciò, pregiudiziale alla causa in Tribunale – per tutte le questioni in cui siano coinvolti figli minorenni. Al fine di evitare la lite giudiziaria e fornire alle famiglie uno strumento capace di incidere positivamente e dirimere le controversie familiari. Ma è meglio affidarsi a un mediatore familiare, di incerta competenza e fuori controllo, o a un giudice e magari a un consulente psicologo?

Dimenticavo: viene abolita la separazione per colpa e scompare il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Chi va a spiegare questo disegno di legge, di avanguardia astrattistica, a quelle mamme che hanno rinunciato al lavoro per crescere i figli, a quelle mamme che non hanno genitori vicini e disponibili, a quelle mamme che non hanno preteso l’intestazione della casa familiare? Chi va a spiegare ai papà in carriera, che per almeno 12 giorni al mese, non posso essere più pronti al richiamo del capo? Chi dice agli imprenditori che, per una decina di giorni al mese, dovranno portarsi i loro pargoli in azienda? Chi spiega ai lavoratori costretti al trasferimento, per la qualità del loro impiego, che dovranno cambiare lavoro? Ragazze, organizzatevi: se proprio volete affidarvi a un uomo e fare i figli, pretendete i patti prematrimoniali! Ci penso io a farli valere contro la sconclusionatezza di questi disegni di legge! Uomini, pensateci bene prima di procreare: sappiate che da voi si pretende molto di più di un’affettuosa e normativa paternità.

Io ho solo una certezza: bigenitorialità non vuol dire uguaglianza e parità materiale, bensì pari responsabilità nella gestione di due ruoli diversi e complementari. Lo sanno come me tutti gli avvocati di diritto di famiglia, specializzati e competenti, che da questo manipolo maschilista vengono offesi e proposti all’esilio, allo stesso modo di genitori competenti e di buona fede, in nome di una rivoluzione rozza e inutilmente populista. Che fa affondare tutti, avvocati, genitori, uomini e donne, giudici, psicologi nel letame di un’assurda parità materiale e di contabilità, a favore solo del molesto pianto greco di un’obiettiva minoranza di papà separati e inadempienti.

Annamaria Bernardini De Pace La Repubblica 24 agosto 2018

www.repubblica.it/economia/2018/08/24/news/ddl_pillon_una_assurda_proposta_maschilista_contro_tutto_e_tutti-204745344/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P10-S2.2-T1

 

Riforma affido: via assegno di mantenimento per i figli e assegnazione casa.

Con il nuovo Ddl del senatore Pillon in discussione a settembre aumenteranno notevolmente i costi per la separazione. Tra le novità, via l’assegno per i figli e l’assegnazione della casa, ma tempi paritetici da spendere insieme. Introdotta la mediazione familiare obbligatoria.

La disgregazione di una coppia, specialmente quando ci sono dei figli, non incide solo sui sentimenti ma anche sulle questioni più materiali. Molto spesso si sono definiti i separati – soprattutto i padri – come i nuovi poveri. Di fronte a un’emergenza sociale la politica dovrebbe studiare forme di supporto serio per impedire che le famiglie, con la separazione, siano gettate sul lastrico.

Il Disegno di Legge di riforma dell’affidamento, a firma gialloverde, forse inconsapevolmente, sembra andare nel senso opposto.

Le nuove norme prevedono che chi vorrà separarsi dovrà obbligatoriamente rivolgersi a un “mediatore familiare” (art.7 e art. 22), figura professionale che trova una sua collocazione proprio nel progetto di riforma (art. 1). La mediazione familiare, però, è a pagamento e, giusta la clausola di invarianza finanziaria (art. 24), è a carico di chi si separa. Un incontro di mediazione costa all’incirca 50 euro (ma può arrivare al doppio) cui occorre aggiungere il costo degli avvocati che, per la fase di mediazione ricevono un corrispettivo ad hoc (Decreto Ministro Giustizia 37/2018). Alla fine, una separazione (e un divorzio) possono arrivare a costare parecchie centinaia di euro in più. E’ vero che la mediazione può essere interrotta in qualunque momento, ma è altrettanto vero che un Giudice potrebbe essere tentato di non essere particolarmente benevolo verso chi non vuole mediare (anche se magari ne ha tutte le ragioni).

Il DDL poi prevede l’eliminazione – salvo rari casi – dell’assegno di mantenimento a favore del genitore meno capace economicamente; una vera conquista populista che però non tiene conto di coloro che non hanno un lavoro o che magari vi hanno rinunciato. Ma non è tutto per chi non è produttivo: l’art. 11 del progetto di legge prevede che chi non ha la possibilità di ospitare il figlio in spazi adeguati non ha il diritto di tenerlo con sé secondo tempi “paritetici”. Il corto circuito normativo è evidente: il genitore più povero rischia di perdere anche la possibilità di vedere il figlio.

Da non sottovalutare neppure le norme sulla casa: se la casa viene, in via del tutto eccezionale, assegnata a uno dei due genitori, costui deve versare all’altro un’indennità di occupazione che, però, sarà soggetta a tassazione. Sino a oggi la legge prevedeva che il Giudice dovesse tenere conto del valore dell’assegnazione nella regolamentazione dei rapporti tra i genitori; con la riforma invece ci sarà un passaggio di denaro e, dunque, nuove tasse.

In buona sostanza si rischia che per questioni economiche siano sempre meno quelli che potranno separarsi, mentre aumenterà il numero di quei figli costretti a vivere con due genitori che si odiano.

Dal Governo del cambiamento ci si aspettava forse un aiuto concreto alle famiglie in difficoltà; invece rischiamo una riforma che, tra le tante storture, colpirà duramente chi è già in difficoltà.

Alessandro Simeone, Avvocato del Comitato Scientifico de Il Familiarista, portale interdisciplinare

La Repubblica 23 agosto 2018

www.repubblica.it/economia/diritti-e-consumi/famiglia/2018/08/22/news/separazione_via_assegno_di_mantenimento_e_doppia_residenza_per_i_figli_ma_aumentano_i_costi-204657117/

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UNIONI CIVILI

Come sono tutelate?

Cosa sono le unioni tra persone dello stesso sesso? Quali obblighi derivano dall’unione civile? Come tutelarsi in caso di violazione dei doveri? È possibile divorziare?

Nel 2016 anche in Italia è stata introdotta la normativa che regola l’unione tra persone dello stesso sesso. La legge ha colmato una lacuna presente nel nostro ordinamento, fornendo finalmente una disciplina a quanti, pur formando una famiglia, non possono contrarre formalmente matrimonio. Ogni istituto giuridico che si rispetti, però, deve essere accompagnato da una tutela: in altre parole, devono essere previste sanzioni in caso di inadempimento e di trasgressione agli obblighi imposti dalla legge.

Unioni civili: cosa sono? Come anticipato, una legge del 2016 ha introdotto le unioni civili [Legge n. 76, 20 maggio 2016 (cosiddetta legge Cirinnà)]. Trattasi di istituto giuridico che tutela la convivenza tra persone dello stesso sesso, garantendo ad entrambe alcuni dei diritti e dei doveri tipici del matrimonio. Secondo la legge, due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione resa all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni. L’ufficiale provvede alla registrazione degli atti di unione civile nell’archivio dello stato civile.

Unioni civili: quali sono le cause impeditive? Come nel matrimonio, anche per le unioni civili valgono alcune cause che impediscono di contrarre il vincolo giuridico. Nello specifico, la legge dice che rende nulla la costituzione dell’unione civile:

  • La sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso;

  • L’interdizione di una delle parti per infermità di mente;

  • La sussistenza di un rapporto di parentela o di affinità;

  • La condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte.

Unioni civili e matrimonio: differenze. Prima di vedere come sono tutelate le unioni civili, va necessariamente specificato che tra queste e il matrimonio corrono delle profonde differenze:

  • L’unione civile può riguardare solo persone dello stesso sesso;

  • L’unione civile non riconosce espressamente l’obbligo di fedeltà né quello di collaborazione;

  • Nel matrimonio la moglie aggiunge il cognome del marito al proprio, mentre per l’unione civile è possibile che la coppia scelga il cognome di famiglia: le parti, mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile, possono indicare un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. Inoltre, i partner potranno anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso;

  • In caso di scioglimento dell’unione civile, esso ha effetto immediato e non è previsto nessun periodo di separazione.

Unioni civili e matrimonio: aspetti comuni. Nonostante le differenze sopra elencate, gli aspetti che accomunano le unioni civili al matrimonio sono numerose. Di seguito le principali:

  • Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni dell’unione;

  • Le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione;

  • Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato;

  • I regime patrimoniale dell’unione civile, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni;

  • Sotto il profilo successorio, l’unione civile conferisce alle coppie il diritto alla legittima.

Violazione degli obblighi dell’unione civile: quali conseguenze? Cosa accade se una persona che ha contratto un’unione civile con un’altra viene meno agli obblighi nascenti da questo vincolo? Com’è noto, le forme di tutela principali previste dall’ordinamento giuridico italiano sono di due tipi: civile e penale. A fronte di una violazione, quindi, la risposta sanzionatoria può essere del primo tipo o del secondo, a seconda della gravità del fatto commesso. Cominciamo con la tutela civile.

Unioni civili: cosa sono gli ordini di protezione? Alle unioni civili sono state estese sostanzialmente tutte le forme di tutela previste per il matrimonio. Non a caso, la legge ha espressamente previsto che, al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e tutte quelle contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Di conseguenza, nel caso in cui uno dei partner venga meno ai suoi obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti dell’altro, oppure a quello di contribuire ai bisogni comuni dell’unione, la persona vittima di questo comportamento potrà invocare un’apposita tutela.

Nello specifico, la legge estende alle unioni civili gli ordini di protezione contro gli abusi familiari: in caso di grave minaccia all’integrità fisica o morale, una delle parti può chiedere al giudice l’emissione di un decreto con il quale ordina all’altra, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta e ne dispone l’allontanamento dalla casa familiare, prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone [Art. 342-ter cod. civ.].

Con lo stesso decreto il giudice può disporre il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dell’allontanamento, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.

Unioni civili: come funzionano la separazione e il divorzio? Nel caso in cui il legame affettivo che univa l’unione civile sia venuto meno, è possibile sciogliere il rapporto proprio come avviene per il matrimonio. In particolare, ciascun partner ha la facoltà di chiedere il divorzio in qualsiasi momento anche e se l’altro non è d’accordo. Anche in tali casi è necessario formalizzare lo scioglimento del legame: una volta formalizzata la separazione, tuttavia, la coppia si considera ufficialmente sciolta.

Rispetto a quanto avviene per il matrimonio, dunque, le unioni civili possono sciogliersi più rapidamente: non è infatti necessario passare per la formale separazione, ma è sufficiente che i partner comunichino all’Ufficiale di Stato Civile, anche disgiuntamente, la loro intenzione di dividersi. Trascorsi tre mesi, diviene possibile proporre domanda di divorzio. Non esiste dunque un periodo di affievolimento del vincolo come nel caso del matrimonio: basta solo che la domanda di divorzio sia preceduta da una manifestazione di volontà presentata all’Ufficiale dello Stato Civile almeno tre mesi prima.

Il divorzio riguarderà la regolamentazione degli aspetti patrimoniali tra i partner con la possibilità di riconoscere alla parte economicamente più debole il diritto agli alimenti e l’assegnazione della casa in cui la coppia aveva fissato la propria residenza.

Unioni civili: quale tutela penale? Nonostante la legge che ha introdotto il nuovo istituto contenga un generico rinvio con il quale si rende applicabili alle unioni civili fra persone dello stesso sesso (quasi) tutte le norme che riguardano il matrimonio a condizione che ciò renda effettivi diritti e doveri derivanti dall’unione, per la materia penale si pone un problema di non poco conto.

Per diretta previsione costituzionale, nessuno può essere punito penalmente se non in forza di una legge che, oltre ad essere entrata in vigore prima che il fatto sia commesso, preveda espressamente una sanzione penale per quella condotta specifica [Art. 25 Cost.]. In altre parole, la pena deve essere contemplata specificamente, senza possibilità di ricorrere all’analogia. Da ciò l’impossibilità di estendere tutti i reati previsti in ambito familiare all’unione civile.

Per tutelare le unioni civili alla stessa stregua del matrimonio, il legislatore penale ha introdotto una disposizione analoga a quella con cui, in ambito civile, si equipara il coniuge alla parte dell’unione civile. Nello specifico, è stato stabilito che, agli effetti della legge penale, il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso; quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo di un reato o anche solo come circostanza aggravante. Essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso [Art. 574-ter cod. pen.].

In particolare, la disposizione appena richiamata si riferisce ai delitti contro la famiglia, quali maltrattamenti e violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Mariano Acquaviva La Legge per tutti 25 agosto 2018

www.laleggepertutti.it/218543_unioni-civili-come-sono-tutelate

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