UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUCIPEM n. 709 – 8 luglio 2018
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
ucipem@istitutolacasa.itwww.ucipem.com
“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984
Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
“News” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:
-
Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
-
Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.
I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.
Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.
Per visionare i numeri precedenti, dal n. 534 andare su:
https://ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=category&id=84&Itemid=231
In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.comcon richiesta di disconnessione.
Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [invio a 1.539 connessi]
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
02 ABORTO VOLONTARIO Piemonte. I medici obiettori discriminati I ministri che dicono?
02 Obiezione alla pillola del giorno dopo, farmacista (di nuovo) assolta.
03 ADOTTABILITÀ Anche la madre decaduta dalla potestà può opporsi.
04 ADOZIONI INTERNAZIONALI Intervista di La Repubblica
04 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Genitore inadempiente – Sufficienti risorse dell’altro genitore.
05 ASSEGNO DIVORZILE Revocato: ex moglie non fornisce la prova dei redditi.
05 CHIESA CATTOLICA Comunione-matrimoni interconfessionali: i vescovi tedeschi vanno avanti.
06Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano.
07 Un bisogno nuovo di religione.
08 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA Conduttore gruppi coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
09La solitudine nella coppia: beneficio o pericolo?
09L’abuso psicologico nella relazione di coppia.
11 CONS. F. ISPIRAZIONE CRISTIANA A Tor de’ Cenci, un consultorio per trasformare la rabbia in speranza
12 CONTRACCEZIONE Piemonte: contraccezione gratuita per donne under 26 e disoccupate.
13 DALLA NAVATA XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2018.
13Gesù, troppo umano. Commento di Enzo Bianchi.
14 DEMOGRAFIA Pensioni e fertilità sono due facce della stessa medaglia.
15 DIRITTILa vita non è mai un bene di consumo
16 DIVORZIO Inammissibile la rinuncia di uno dei coniugi alla domanda.
16 FECONDAZIONE F. medicalmente assistita: solo 2 coppie su 10 hanno un figlio.
17 FRANCESCO VESCOVO DI ROMALa cavalcata del papa gaucho.
18 HUMANÆ VITÆ Così Joseph Ratzinger contestò le tesi di Paolo VI
19 L’indissolubilità del matrimonio non è una legge di natura.
19 L’Humanæ vitæ di Paolo VI
20 Amore, vita e fede. Teologi a confronto
21 MATRIMONIO Matrimonio forzato: cosa fare?
22 NATALITÀ Fecondazione, donne congelano ovociti in attesa dell’uomo giusto.
23 NULLITÀ MATRIMONIALI Il vescovo potrà avvalersi di collaboratori + esperti diritto canonico.
23 OMOGENITORITÀ Divieto fecondazione eterologa; ricorso di coppia gay alla Consulta.
24 La procura stoppa il doppio padre: «No alla registrazione dei figli».
25 OMOMATRIMONIO Matrimoni omosessuali all’estero, giurisdizione al giudice ordinario
25 POLITICHE PER LA FAMIGLIA Ridistribuire non basta. Urgenti scelte organiche per la famiglia.
26 SESSUOLOGIA Liquido seminale ‘sentinella’ impatto ambientale sull’uomo.
27 STALKING Stalking, rieducazione e “promising practises”
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ABORTO VOLONTARIO
Piemonte. I medici obiettori discriminati I ministri che dicono?
Quando si parla dell’agenda del nuovo Governo, i protagonisti fanno sempre riferimento al «contratto» che hanno stipulato: quello che c’è scritto sarà fatto, il resto sarà accantonato. Sulla questione antropologica, sempre divisiva, si è concordata tra gli alleati una “pax governativa”, una sorta di moratoria. Ma c’è un equivoco che va chiarito: il mondo va avanti, e mille cambiamenti significativi si riversano ogni giorno sugli italiani.
Il «contratto», come è ovvio, non può impedire che avvengano fatti a cui bisogna fornire una risposta urgente: se nel patto non c’è scritto nulla su alluvioni o terremoti, nel caso si verifichino sarà comunque indispensabile occuparsene. E così accade sui temi eticamente sensibili. Questo è tanto più necessario in quanto non è più in Parlamento che ormai passa la rivoluzione antropologica. In tutti i Paesi, ormai, quello che è stato definito “il mondo nuovo”, si radica e si afferma senza passaggi legislativi, considerati troppo rischiosi e troppo soggetti all’opinione pubblica. Le strade sono altre.
Ci sono i tribunali, la Corte costituzionale, le amministrazioni locali, i progetti nazionali e internazionali, i protocolli sanitari, le operazioni mediatiche e culturali, e mille altri rivoli attraverso cui si creano situazioni di fatto da cui poi non si torna più indietro. Due giorni fa, per esempio, il Consiglio regionale del Piemonte ha approvato una delibera intitolata “Indirizzi e criteri per garantire l’effettivo accesso alle procedure per l’interruzione della gravidanza”.
La motivazione è sempre lo stesso mantra sentito centinaia di volte: gli obiettori di coscienza sono troppi, e impediscono l’applicazione della legge sull’aborto. Peccato che la stessa Regione abbia trasmesso al Ministero della Salute dati che dicono l’esatto contrario. Nell’ultima relazione al Parlamento sull’applicazione della 194/1978, infatti, si può leggere che in Piemonte il numero dei cosiddetti punti Ivg – cioè le strutture in cui si possono effettuare aborti – supera quello dei punti nascita: 2,9 punti nascita contro 3,5 punti Ivg.
È più facile trovare un luogo dove abortire che uno dove far nascere un bimbo. Sempre dai dati raccolti dalla Regione sappiamo che il numero di aborti effettuati da ciascun ginecologo non obiettore è 1,3 a settimana. Un dato persino inferiore alla media nazionale, già molto bassa (1,6). E allora dove nasce l’allarme? Dal solito trucco: si cita solamente il numero assoluto degli obiettori, senza considerare se i medici non obiettori, quelli che cioè praticano gli aborti, sono in numero sufficiente a coprire la richiesta di Ivg oppure no.
È stato questo il cavallo di Troia con cui in questi anni si è portata avanti una ostinata battaglia, tutta ideologica, contro l’obiezione di coscienza, ignorando serenamente i dati reali. Il tocco surreale alla questione lo offre il contrasto schizofrenico tra quello che la Regione comunica al Ministero e quello che afferma nella delibera: da una parte si certifica che il carico di lavoro è assolutamente accettabile (poco più di un aborto a settimana) e dall’altra si sostiene che servono assolutamente più medici disposti a praticare aborti. Ma il nodo della delibera è un altro: dopo aver parlato di mobilità del personale all’interno della Regione (già prevista dalla stessa legge 194, quindi applicabile senza alcun bisogno di votare nuove delibere), si prospetta un’altra soluzione: le «assunzioni rivolte ai medici che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza».
È questo il vero obiettivo dell’iniziativa: assumere solo non obiettori, cioè discriminare e penalizzare chi osa obiettare; una strada, peraltro, già aperta da Zingaretti nel Lazio. Se non ci sarà un intervento chiarificatore del Ministro del Lavoro – per ricordare che non è possibile effettuare discriminazioni sul lavoro – e del Ministro della Salute – per ribadire la realtà dei dati raccolti dalla stessa Regione – l’attacco alla libertà di coscienza, che per tanti anni è stato efficacemente contrastato, avrà di nuovo successo. È questo è un male per tutti.
Eugenia Roccella Avvenire 5 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/medici-obiettori-discriminati-i-ministri-che-dicono
Trieste. Obiezione alla pillola del giorno dopo, farmacista (di nuovo) assolta
Assolta anche in appello. La scelta di Elisa Mecozzi, la farmacista di Monfalcone a processo per essersi rifiutata di vendere una confezione di “pillole del giorno” appellandosi alla clausola di coscienza, ha superato a pieni voti anche il secondo grado di giudizio, che ha confermato il verdetto del primo. La Corte d’Appello di Trieste ha assolto la dipendente della farmacia comunale della cittadina friulana per la quale il pubblico ministero – come già in primo grado nel processo davanti al Tribunale di Gorizia, a fine 2016 – aveva chiesto quattro mesi di condanna per il reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio in quanto incaricata di pubblico servizio. I giudici triestini hanno dunque escluso la punibilità della condotta di fatto riconoscendo il diritto all’obiezione anche in farmacia.
I fatti risalgono al giugno di 5 anni fa. La farmacista, in turno di notte, aveva servito una donna che le si era rivolta con la prescrizione del suo ginecologo per l’assunzione in giornata della pillola del giorno dopo – commercialmente nota come Norlevo -, farmaco che va assunto entro le 24 ore da un rapporto potenzialmente fecondo. Il principio attivo impedisce l’annidamento nell’utero dell’ovocita eventualmente fecondato, e dunque dà luogo a un aborto sebbene precocissimo. La tesi è contestata da chi sostiene che la gravidanza inizia solo con l’annidamento e dunque non si potrebbe invocare l’obiezione di coscienza ex legge 194/1978, tesi accolta dall’Agenzia europea del farmaco che ha imposto anche all’Italia di mettere in vendita il Norlevo (co/me anche EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo) nella categoria dei farmaco da banco ma solo per le maggiorenni, senza dunque dover esibire la ricetta al farmacista. Ma la delibera dell’Agenzia italiana del farmaco Aifa è del marzo 2016, quindi successiva all’episodio di Monfalcone, con la duplice sentenza che perciò resta esemplare e destinata ad aprire la strada alla libertà di fare obiezione di coscienza anche ai farmacisti, una facoltà sinora assai contestata.
L’articolo 3 del Codice deontologico della categoria prevede infatti che “il farmacista deve operare in piena autonomia e coscienza professionale, conformemente ai princìpi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto per la vita” ma sinora si è sostenuto che il farmacista non potrebbe rifiutare contraccettivi più o meno d’emergenza se le autorità di farmacovigilanza non gli attribuiscono più la qualifica di “abortivi”. Va detto che nel verdetto dei giudici di Gorizia prima e di Trieste ora ha certamente pesato anche il fatto che il diniego della farmacista non ha impedito alla richiedente di rivolgersi a un’altra farmacia con professionisti non obiettori in servizio, e dunque non è stato leso alcun diritto o libertà.
La Corte giuliana ha “finalmente confermato l’assoluzione, riconoscendo la particolare tenuità del fatto e l’infondatezza delle pretese accusatorie”: lo sottolineano gli avvocati della farmacista Simone Pillon (oggi senatore della Lega) e Marzio Calacione. “Siamo ben felici- aggiungono i legali – che anche la Corte abbia voluto mandare esente da responsabilità penale la nostra assistita, che ha scelto coraggiosamente di seguire la voce della propria coscienza per difendere la vita umana fin dal concepimento. Speriamo tuttavia che nessuno sia più costretto a subire un processo penale per aver semplicemente messo in pratica i principi etici dettati dalla propria coscienza. Il nostro ordinamento giuridico già prevede la libertà di coscienza, come dimostrato da questa assoluzione, ma forse uno specifico chiarimento normativo potrebbe evitare infondati ma faticosi ricorsi allo strumento penale”.
Soddisfatto per la sentenza anche il Movimento per la vita italiano che tramite la sua presidente nazionale Marina Casini ricorda che “sulla base di autorevolissimi pareri e di studi (Comitato nazionale per la bioetica, Istituto superiore di sanità, Società italiana procreazione responsabile…)” si è già “dimostrato che la pillola del giorno dopo così come la pillola dei cinque giorni dopo, se il concepimento è avvenuto, ha un effetto uccisivo sull’embrione già formato.
A riguardo, il Movimento per la Vita ha redatto il X Rapporto sull’attuazione della legge 194 (“Dopo 40 anni per una prevenzione vera dell’aborto volontario”) a commento dell’annuale relazione ministeriale presentata il 7 dicembre 2016. Va aggiunto che anche nel caso di dubbio nessuno può essere costretto a compiere azioni che possono eventualmente sopprimere un essere umano”.
Francesco Ognibene Avvenire 3 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/obiezione-al-norlevo-farmacista-assolta
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ADOTTABILITÀ
Stato di adottabilità del minore: anche la madre decaduta dalla potestà può opporsi
Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 16060, 18 giugno 2018.
www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2018/06/Cassazione-Civile-18.06.2018-n.-16060.pdf
Lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità del minore ricorre solo allorquando i genitori non sono in grado di assicurare al minore quel minimo di cure materiali, di calore affettivo, aiuto psicologico indispensabile per lo sviluppo e la formazione della sua personalità e la situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio, tale essendo quella inidonea a pregiudicare lo sviluppo psico-fisico del minore. (…)
Punto di diritto 20 giugno 2018
www.avvocatoamilcaremancusi.com/adottabilita-minore-madre-decaduta-potesta-genitoriale-opposizione
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ADOZIONI INTERNAZIONALI
Intervista di La Repubblica
Lo senti tuo? Quanto si adotta in Italia? Solo i ricchi possono adottare? L’adozione è una scelta da super eroi? Domande ricorrenti che trovano una risposta nello speciale di Cecilia Greco “Dove lo avete comprato?”: antidoto in quattro mosse allo stupidario sulle adozioni pubblicato su Repubblica.it.
http://lab.gedidigital.it/repubblica/2018/cronaca/adozioni/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
Un elenco di esperienze, dati e norme che non sempre si conoscono, raccolte attraverso interviste a figli e genitori adottivi, al presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali, Laura Laera, al presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia, Cristina Maggia, a Marco Griffini, presidente di Amici dei Bambini e altri operatori del settore.
In Italia i bambini dichiarati adottabili sono molti meno rispetto alle coppie che desiderano adottare. A questo va aggiunto che il nostro Paese è al primo posto in Europa per numero di minori adottati, secondo al mondo solo agli Stati Uniti. Partendo da questi dati positivi, bisogna però segnalare un lieve calo delle dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale e un calo molto più significativo che riguarda le richieste di idoneità per l’adozione internazionale.
Cristina Maggia – presidente del Tribunale dei Minori di Brescia – chiarisce “Le dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale, cioè l’intenzione che una coppia comunica al Tribunale di adottare un bambino nato in Italia, sono passate da 12.799 nel 2009, scendendo sino a 9.007 nel 2015. Così come risultano in forte calo le domande di idoneità all’adozione internazionale passate nel 2009 da 5.961 fino a 3.668 nel 2015”. “Ci troviamo davanti a una concomitanza di situazioni” – spiega Cristina Maggia – la crisi economica, l’incertezza nel futuro, le pratiche di fecondazione assistita sempre più diffuse, i pochi bambini piccolissimi adottabili in Italia e all’estero”.
“La Commissione per le Adozioni Internazionali, per far fronte a questo calo, sta riattivando canali di relazioni internazionali con paesi che erano rimasti non coltivati. Siamo andati in Vietnam e Cambogia, abbiamo ospitato la delegazione del Burkina Faso e dell’Etiopia.” – è la risposta di Laura Laera, presidente della Commissione per le adozioni internazionali – “Ci stiamo muovendo per migliorare o ripristinare rapporti con i paesi di provenienza dei bambini, magari attivando anche nuovi stati: è un percorso in progressione.”.
Il calo delle adozioni internazionali, per Marco Griffini – presidente di Ai.Bi. Amici dei Bambini – ha origini diversificate “C’è un cambiamento nella cultura, anche in quella degli operatori che si occupano di adozione, molte volte, a quanto ci risulta, le coppie non vengono adeguatamente preparate e rinunciano. Non solo, per quanto ci riguarda, l’adozione, come tutte le altre forme di genitorialità dovrebbe essere gratuita, non bastano i rimborsi, servirebbero tutele maggiori. Anche il post adozione ha le sue criticità: dobbiamo sempre ricordare che il bambino adottato è “malato di abbandono”, può avere problemi psicomotori, ritardi. Il male dell’abbandono è reale e dovrebbe esserci un sistema assistenziale più forte ed efficiente”.
Ricche di emozioni le testimonianze dei protagonisti dell’adozione. “Un genitore – racconta Elena Poma, mamma adottiva – rinasce un’altra volta, insieme al figlio. Andrea mi chiamava ‘mamma pasticciona’. A volte sbagliavo, ma capivamo come fare insieme, fianco a fianco, con rispetto”.
“Guardate che se ci siamo riusciti noi, potete farlo anche voi. Non è una cosa da supereroi” – secca la risposta di Luca Guerrieri, famiglia adottiva di Ai.Bi. e coordinatore regionale del Gruppo Famiglie Locali di Ai.Bi. Lazio.
“Non ci aspettavamo che una bambina così piccola ponesse domande così grandi. Voleva incontrare la ‘mamma della pancia’, quando le ho chiesto perché mi ha detto: “Voglio dirle, guarda cosa ti sei persa“, così Silvia Zappa –famiglia adottiva di Ai.Bi. – sgombra ogni ombra di dubbio sul miracolo dell’adozione internazionale.
www.aibi.it/ita/adozioni-internazionali-repubblica-intervista-laera-cai
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ASSEGNO DI MANTENIMENTO FIGLI
Genitore inadempiente – Sufficienti risorse dell’altro genitore
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10419, 02 maggio 2018.
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata, e quindi sussidiaria, rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; il diritto agli alimenti ex art.433 c.c. sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo.
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20101 – 05 luglio 2018
Ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20101/divorzio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ASSEGNO DIVORZILE
Ex moglie non fornisce la prova dei redditi, revocato il mantenimento
La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 16737, 26 giugno 2018
La Corte ha confermato la revoca dell’assegno di mantenimento disposto a favore di una donna, in quanto la stessa – oltre ad avere una concreta capacità lavorativa, vista l’età e la formazione professionale – non aveva cooperato in giudizio alla dimostrazione dei propri redditi, non offrendo la documentazione necessaria per la ricostruzione dei suoi movimenti bancari.
Respinto dunque il ricorso della donna avverso la revoca del mantenimento, in quanto volto ad una rivisitazione dei fatti già vagliati dai giudici di merito – secondo gli Ermellini – con motivazione logica e coerente. In particolare la Corte d’Appello aveva riscontrato la percezione mensile di redditi da parte dell’ex moglie e, d’altra parte, la mancata indicazione di conti correnti e di altra documentazione comprovante le reali sostanze economiche, aveva indotto i giudici a deporre a sfavore della donna, stante il suo comportamento processuale omissivo.
La Corte distrettuale, in altre parole, non ha presunto o ritenuto provata l’esistenza di conti bancari, ma ha invece presunto la disponibilità di un reddito sufficiente a garantire mezzi adeguati per soddisfare le esigenze di vita della donna, sia con riferimento al periodo antecedente e successivo al matrimonio, sia con riferimento al periodo di intermittente convivenza dei coniugi che, in difetto di qualsivoglia comunione di vita, avevano sempre provveduto a soddisfare le loro esigenze con i propri esclusivi mezzi.
La Cassazione pertanto, a sostegno della revoca dell’assegno, ha valorizzato non solo la brevissima durata del matrimonio, ma altresì la totale autosufficienza della donna (sebbene i suoi averi non fossero stati esattamente dimostrati in giudizio), desunta dalla sua capacità di mantenersi autonomamente, come dimostrato prima durante e dopo il matrimonio, dalla sua capacità di trovare un’occupazione, stante anche l’età e la competenza professionale, dalla disponibilità di un’abitazione e dalla presenza di investimenti immobiliari.
Redazione Diritto civile e commerciale 2 luglio 2018
www.diritto.it/ex-moglie-non-fornisce-la-prova-dei-redditi-revocato-mantenimento/
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CHIESA CATTOLICA
Comunione e matrimoni interconfessionali: i vescovi tedeschi vanno avanti
«È importante per noi procedere nella ricerca ecumenica di una più profonda comprensione e di una unità dei cristiani ancora maggiore, e ci sentiamo obbligati a andare avanti con coraggio». Con queste parole i vescovi tedeschi hanno deciso di pubblicare il dibattuto documento sul tema della concessione della comunione al coniuge non cattolico di una coppia mista, sul quale papa Francesco aveva chiesto di attendere tempi più maturi. A una prima impressione, dunque, sembrerebbe che i vescovi tedeschi abbiano fatto uno scatto in avanti “disubbidiente”. Nella problematica questione, sollevata nell’ultima assemblea plenaria della Conferenza episcopale lo scorso febbraio – durante la quale avevano approvato una bozza di testo contenente delle linee guida sul tema –, essi sono infatti andati in direzione diversa rispetto alle ultime istruzioni di papa Francesco. Quest’ultimo, si ricorderà, dopo un primo momento in cui aveva dato loro la facoltà di decidere in autonomia purché con spirito unanime, aveva poi deciso di fare marcia indietro, invitando a una «riflessione puntuale e ben condivisa»; dal canto suo, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card. Luis Francisco Ladaria Ferrer, in una lettera ufficiale di Ladaria – datata 25 maggio e scritta in accordo col papa – al card. Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca e membro del C9, rilevava «che il testo del sussidio solleva una serie di problemi di notevole rilevanza. Il Santo Padre è perciò giunto alla conclusione che il documento non è maturo per essere pubblicato». Le cose sono andate in modo diverso, ma non si è trattato di un atto di disobbedienza: tutt’altro.
I vescovi, a sorpresa, hanno pubblicato il sussidio, che è intitolato “Camminare con Cristo – sulle orme dell’unità. Matrimoni interconfessionali e partecipazione comune all’eucaristia”, si pone, ha affermato il consiglio permanente della Conferenza episcopale, riunito dal 19 al 21 giugno a Bonn, come guida nella responsabilità dei singoli vescovi. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca ha informato che, in un recente colloquio con papa Francesco, ha spiegato che la lettera del card. Ladaria della fine di maggio «fornisce indicazioni e un quadro di interpretazione», e che il testo pastorale approvato a febbraio con la maggioranza dei due terzi dei vescovi tedeschi «contiene anche una dimensione universale» e ha lo scopo di orientare i «singoli vescovi» che hanno responsabilità in materia, motivando dunque in questo modo il fatto che il documento non venga pubblicato come documento della Conferenza stessa, che comunque riprenderà in mano la questione nella prossima assemblea di settembre: «A questo scopo – afferma Marx – offriamo al Santo Padre e alla Curia Romana la nostra collaborazione». «La comunione eucaristica e la comunione ecclesiale – sottolineano i vescovi – sono legati inseparabilmente. Ci stiamo impegnando per trovare un aiuto spirituale per l’esame di coscienza in singoli casi di accompagnamento spirituale di coniugi interconfessionali, che sentono un bisogno spirituale serio di ricevere l’Eucarestia. In virtù del Battesimo, della fede e del sacramento del matrimonio, i coniugi sono reciprocamente molto legati e dividono tutta la loro vita. Per noi vescovi si tratta qui di decidere se in un matrimonio interconfessionale il coniuge protestante possa accedere alla Comunione».
Non si tratta, tuttavia, a ben vedere, di un atto di “disubbidienza” rispetto alla «maggiore riflessione» chiesta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e dal papa. Lo stesso Ladaria, il 27 giugno, in una intervista a Crux, alla vigilia della propria nomina cardinalizia in occasione del concistoro del 28, ha affermato che la sua lettera del 25 maggio «non era proprio una frenata ma un invito a riflettere, soprattutto a partire dall’idea che è una questione talmente seria, che una Conferenza episcopale di un Paese deve agire tenendo presente la Chiesa intera, in modo che si arrivi a una soluzione, ma di tutta la Chiesa. È un punto decisivo, se ognuno percorre una propria strada si rischia di creare confusione. Quindi, ripeto, non è stata una frenata, ma un invito a riflettere perché si tratta di un punto che non riguarda solo un Paese o una diocesi, ma la Chiesa universale. E questa era anche la preoccupazione del Santo Padre». Anche il papa, il 21 giugno, aveva tenuto a precisare che la lettera della Cdf non era da leggersi come una «frenata ecumenica». D’altra parte, le linee guida proposte erano più restrittive del diritto canonico, e non intendono affatto concedere a tutti indiscriminatamente la comunione. Il punto di riferimento dei vescovi è il decreto conciliare Unitatis redintegratio per il quale «la piena comunione eucaristica rimane l’obiettivo dell’ecumenismo”. «Un matrimonio interconfessionale che unisce sacramentalmente, in parte realizza già la comunità ecclesiale che auspichiamo”, dice il documento dei vescovi. Altro riferimento è il Diritto Canonico: nel can. 844 §4 esso afferma che i protestanti nella Chiesa Cattolica possono essere ammessi alla Comunione a determinate condizioni, valutando «Secondo il giudizio del vescovo diocesano o della conferenza episcopale, una (…) urgente emergenza». I vescovi tedeschi spiegano che «non possiamo trascurare (…) che una “grave emergenza spirituale” possa sorgere se un sincero desiderio di comunione non è soddisfatto». Offrire un’opportunità per porre fine a questa situazione è «in questi casi individuali, un dovere pastorale, che consolida il vincolo del matrimonio e permette agli sposi di sapere che gli ostacoli che dividono la Chiesa non infrangono il vincolo del loro matrimonio».
Altri puntelli dei vescovi tedeschi sono le encicliche Ecclesia de Eucharistia e Ut unum sint di Giovanni Paolo II, che aveva già indicato la possibilità per i non cattolici di ricevere la comunione. Tuttavia, questo riferimento non è esclusivamente alla situazione oggettiva, «ma anche all’atteggiamento individuale delle persone che chiedono di ricevere un sacramento nella Chiesa cattolica».
I pastori ricordano anche il dibattito sulla concessione della comunione ai divorziati risposati e l’importanza data da papa Francesco, in Amoris lætitia, alla decisione di coscienza dei fedeli, sviluppando così una “ermeneutica” per l’accesso alla Comunione nei matrimoni interconfessionali.
Su questa continuità del documento dei vescovi tedeschi con il magistero pontificio conviene anche il teologo liturgista Andrea Grillo. Già «ad una prima rapida lettura il documento della Conferenza episcopale tedesca sulla “partecipazione all’Eucaristia” del coniuge non cattolico appare molto più ricco e articolato di quanto non apparisse dalle ricostruzioni parziali fornite o dalle notizie di stampa o dalle prese di distanza ufficiale», commenta. «Tutta la polarizzazione sul canone 844 non è centrale nel documento, che valorizza invece lo statuto di “Chiesa domestica” e di “piccola Chiesa” della famiglia. Appare invece come una lineare conseguenza di Amoris lætitia Laetitia sul piano ecumenico. Credo che il lavoro della Conferenza episcopale sia di alta qualità e che solo una visione miope e statica della tradizione possa considerarlo immaturo. È piuttosto un segno lampante di una Chiesa che cerca di uscire dalla immaturità di categorie inadeguate all’annuncio della comunione in Cristo».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 25 29 giugno 2018
www.adista.it/articolo/59145
Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Lettera aperta all’Onorevole Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Scrivo questa lettera sul tema scottante degli immigrati (e la scrivo da un edificio diocesano che ne ospita [castello vescovile di Albiano d’Ivrea-TO]). Lo faccio non come antica autorità religiosa al Presidente di un Governo “laico” (anche se un autorevole membro del Suo Governo ha sbandierato, sia pure in campagna elettorale, simboli apertamente religiosi, anzi cristiani, quindi compromettenti) soprattutto dopo i costanti, appassionati appelli di Papa Francesco e le autorevoli istanze dei responsabili della CEI.
Lo faccio come cittadino dell’Italia che, nella Costituzione, garantisce il diritto d’asilo a quanti, nel loro paese, sono impediti di esercitare le libertà democratiche; lo faccio come cittadino dell’Europa che, nella Carta dei diritti fondamentali, afferma: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Ci siamo resi conto che Lei, al recente vertice Ue, ha fatto sentire fortemente la voce dell’Italia; ma siamo stati delusi dalla sordità della maggioranza dei rappresentanti dell’Europa (me lo lasci notare, anche delle nazioni tradizionalmente più “cristiane”) e dell’incapacità dell’insieme di mantenere le tradizioni “umane” del nostro Continente e dell’ispirazione iniziale della sua unità. Mi lasci dire che siamo – parlo di tanti di cui ho colto il pensiero – altrettanto delusi che, nella difficoltà di ottenere consensi più ampi, l’Italia rimanga su posizioni di chiusura, forse (ma solo “forse” se guardiamo al nostro passato coloniale o ci proiettiamo sul nostro futuro demografico) comprensibili sul piano della contrattazione, non su quello del riferimento a vite umane. Siamo tanti a non volerci sentire responsabili di navi bloccate e di porti chiusi, mentre ci sentiamo corresponsabili di Governi che, dopo avere sfruttato quei Paesi e continuando a vendere loro armi, poi reagiscono se si fugge da quelle guerre e da quelle povertà; non vogliamo vedere questo Mediterraneo testimone e tomba di una sorta di genocidio, di cui diventiamo tutti in qualche modo responsabili.
Non ignoriamo che i problemi sono immensi, dai rapporti con Paesi che noi – Europa tutta – abbiamo contribuito a divenire ciò che essi spesso sono (costruttori di lager e tutori di brigantaggi), a quelli con i Paesi di partenza degli immigrati (con cui già i Governi precedenti avevano progettato iniziative, sempre fermate al livello di progetti).Vorremmo davvero che l’Italia, consapevole della sua tradizione di umanità (prima romana, poi cristiana) non accettasse di divenire corresponsabile di una tragedia, che la storia ha affidato al nostro tempo e da cui non possiamo evadere.
Al di là di un’incomprensibile indifferenza o di un discutibile privilegio (“prima gli italiani” – quali italiani? – o “prima l’umanità”?!), credo che, nell’interesse della pace, aspirazione di ogni persona e di ogni popolo, l’Italia possa e debba essere – per sé e per tutta l’Europa – pioniera di accoglienza, controllata sì, ma generosa.
Con ogni augurio e molta solidarietà. Albiano d’Ivrea, 2 luglio 2018
+ Luigi Bettazzi
[Vescovo emerito di Ivrea, ultimo padre conciliare italiano vivente]
www.paxchristi.it/?p=14290
Un bisogno nuovo di religione
C’è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile. Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata.
Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: «Qualunque cosa sia la religione – scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) – di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso. È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chiesto in prestito alla religione» (pag. 16).
Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro.
La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana.
Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande. Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 8-10 e 16). Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. «Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre. Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso – e un senso vittorioso della morte – è la condizione per volersi ed essere pienamente umani.
Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: «A la tarde de la vida te examinarán en el amor – Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto “Il Sole 24 Ore” 8 luglio 2018
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180708forte.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
Conduttore di gruppi di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
Ad ottobre 2018 parte la settima edizione del Corso di Alta Formazione “Conduttore di gruppi di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare” presso l’Università Cattolica a Milano. Il corso, che si rivolge a professionisti appartenenti all’area psicologica-medica (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neuropsichiatri infantili, pediatri, medici di base, operatori di consultorio) e all’area sociale-educativa-giuridica (assistenti sociali, educatori, pedagogisti, mediatori familiari, insegnanti, dirigenti scolastici, operatori di pastorale familiare e giovanile, avvocati e consulenti giuridici), mira a fornire conoscenze e competenze nell’ambito dell’Enrichment Familiare, una modalità di intervento preventivo-promozionale rivolto alla famiglia che utilizza il gruppo come strumento di lavoro.
In particolare il corso intende trasmettere un quadro teorico di riferimento utile per realizzare interventi di gruppo rivolti alla famiglia; favorire un confronto e una riflessione sull’esperienza di conduzione di gruppi di coppie e di genitori; acquisire le competenze necessarie per l’utilizzo di strumenti operativi; trasmettere una conoscenza e un’esperienza nell’ambito della progettazione di interventi per la famiglia e la comunità.
https://apps.unicatt.it/formazione_permanente/milano_scheda_corso.asp?id=13377
https://apps.unicatt.it/formazione_permanente/getAllegato.asp?k_all=5321
La solitudine nella coppia: beneficio o pericolo?
Essere in due, condividere tutto, vivere sempre insieme momenti di qualità, capirsi con un colpo d’occhio… Smettetela di sognare, la vita di coppia non è fusione. Necessita talvolta di saper essere soli. Come trovare il giusto equilibrio tra una necessaria solitudine e quella che uccide la relazione coniugale? Aleteia ha intervistato Marie-Aude Binet, consulente famigliare e sessuologa.
Isabelle du Ché: Quali sono i benefici della solitudine nella vita coniugale?
Marie-Aude Binet: I benefici sono molteplici: sentirsi bene con sé stessi, fare ciò che si ama, ritrovarsi per meglio tornare verso l’altro o comprenderlo, prendere delle distanze nei conflitti, sopportare meglio i periodi di assenza del coniuge.
A seguito di un cambiamento professionale, Patrick è stato separato geograficamente da sua moglie nei giorni feriali della settimana. Patendo la solitudine, ha cercato di colmarla con un’altra donna. Presa coscienza dell’impasse della situazione e della sofferenza così generata, il marito ha cercato di comprendere che cosa lo aveva spinto all’infedeltà. Ha realizzato allora che non sapeva essere solo. Nella sua infanzia – che pure pareva felice – non c’era alcuno spazio per lui. Sua madre era affettivamente molto presente. Ha allora deciso di ritagliarsi regolarmente un momento di solitudine, praticando uno sport che fino a quel momento aveva trascurato. Il suo equilibrio si è così ristabilito. Lo stesso Julie, donna molto attiva in famiglia e sul lavoro. Sentiva importanti angosce affettive, legate in particolare a un avvenimento doloroso della sua infanzia. Il semplice fatto di concedersi una pausa, da sola, per prendere un tè sulla terrazza di un caffé, l’ha riconnessa con sé stessa. Così si è autorizzata a prendersi cura di sé, scegliendo ciò che le faceva del bene.
I. d.C.: Essere soli, sentirsi soli. Che differenza c’è?
M.-A. B.: L’abbiamo appena visto: essere soli procura numerosi benefici e può evitare un esaurimento psicofisico. Ma è frequente che ci si senta soli, in una coppia. È assolutamente normale, perché l’altro non può colmare tutto. La relazione coniugale non può essere il suolo luogo di ricarica e di distensione. Avendo compreso ciò, Caroline ha appreso col tempo a trovare nella sua vita amicale e professionale le risorse e i riconoscimenti necessari al suo equilibrio. Ella ha così potuto adattare la propria relazione coniugale alla sua vita personale, senza essere schiava di un sentimento di solitudine.
I. d.C.: Esistono parecchie forme di solitudine. Ce le illustri.
M.-A. B.: La prima forma di solitudine non scelta è la solitudine affettiva. È per esempio quando uno si lamenta di essere sempre il motore che avvia o sostiene un dialogo. Era questo il caso di Chantal, 58 anni, che soffriva il prendere sistematicamente l’iniziativa in una relazione sessuale. In queste differenti situazioni il coniuge mortificato può tentare di trovare altrove l’ascolto, la tenerezza, la conversazione che gli mancano. Può anche radicarsi nella coppia una forma di coabitazione in cui ciascuno mantiene le proprie distanze rispetto all’altro e nulla più viene condiviso.
Tra le coppie si nota pure una solitudine psicologica o relazionale. Ecco due esempi. Bruno, all’età di 35 anni, ha perso suo padre e poi suo fratello con un breve intervallo di tempo. Si è sentito molto solo nell’attraversare questo lutto. Sua moglie era gelosa del tempo che lui passava con la sua famiglia d’origine è non ha saputo essere in ascolto della sofferenza del marito. Adèle, arrivata a 25 anni di matrimonio, e avendo messo fra parentesi la sua vita professionale per consacrarsi all’educazione dei bambini, si è sentita sfinita per aver portato tutto da sola. Aveva la sensazione di non essere stata ascoltata dal coniuge. Le mancava crudelmente il riconoscimento del suo investimento. Aveva voglia di qualcos’altro ma non sapeva come fare. Ha avuto bisogno di lenire questa solitudine, andare fuori per rinforzarsi.
La terza forma di solitudine è la solitudine geografica. Difficile non provarla quando gli sposi sono separati a causa di un lavoro, della malattia dell’uno o dell’altro, della salute dei parenti o di un bambino, di difficoltà finanziarie… Ognuno soffre di essere solo, e non si tratta solo di chi resta a casa. Il ritmo di vita non permette sempre di distanziarsi dai problemi o di fermarsi in due. La sfida sarà dunque quella di confrontare le due solitudini e di trovare, ciascuno secondo i propri desideri e le proprie possibilità, il tempo necessario a rinforzare il legame coniugale.
Traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio Aleteia 3 luglio 2018
https://it.aleteia.org/2018/07/03/solitudine-coppia-marie-aude-binet
L’abuso psicologico nella relazione di coppia
Spesso è la prima fase di un conflitto che precede una escalation di violenza. Fondamentali la precoce |rilevazione del fenomeno e gli interventi di prevenzione.
Nel corso degli anni, nell’ambito della ricerca sulla violenza tra partner sono state identificate tre macro-categorie di violenza: fisica, sessuale e psicologica. Mentre sono state condotte svariate ricerche sul tema della violenza fisica e sessuale, l’abuso psicologico è divenuto oggetto di ricerca scientifica solo recentemente. L’importanza di tali ricerche risiede non solo nella crescente diffusione del fenomeno, ma anche alla sua associazione con la violenza fisica e sessuale.
La maggior attenzione posta alla ricerca sulla violenza fisica può essere spiegata con la difficoltà nella identificazione e definizione dell’abuso psicologico tra partner. Un elemento di problematicità è rappresentato dalla relatività storico-culturale in base alla quale ciò che può essere definito come psicologicamente abusivo varia da un’epoca all’altra e da una cultura all’altra. Ancora, a differenza dalla violenza fisica, l’abuso psicologico non comprende solo atti immediatamente riconoscibili ed evidenti ma anche comportamenti più subdoli, come l’indifferenza verso le emozioni dell’altro, difficili da rilevare e che non necessariamente si manifestano attraverso l’espressione di un conflitto manifesto. Il conflitto, infatti, può essere visto come una forma di confronto e di scambio, poiché implica l’esistenza di due punti di vista diversi; al contrario, la violenza psicologica spesso si basa sul disconoscimento dell’altro e della sua realtà, impedendo una possibilità di dialogo e quindi anche di espressione del conflitto.
Nonostante la variabilità storico-culturale e la complessità fenomenologica che la caratterizza, vi è un generale accordo in letteratura nel considerare psicologicamente abusivi quei comportamenti, reiterati e sistematici, che ledono l’autostima, il senso di sicurezza e dell’identità del partner, come ad esempio mettere in atto comportamenti volti ad isolare ed a controllare il partner limitandone le attività e i contatti sociali, umiliarlo, punirlo facendolo sentire in colpa e mantenendone la paura e la sottomissione con minacce ed aggressioni verbali.
La rilevazione dell’abuso psicologico nella relazione di coppia si presenta complicata, in quanto molto spesso vi è la difficoltà da parte della vittima ad uscire “allo scoperto” e che può essere imputabile alla paura e/o alla mancanza di consapevolezza. Molti studi hanno posto in evidenza che a commettere atti di violenza fisica e sessuale sono prevalentemente gli uomini, mentre in quella psicologica sono coinvolti entrambi i generi. La relazione di coppia rappresenta una dimensione affettiva nella quale vi è un processo di conoscenza di sé attraverso l’altro e l’accettazione di quest’ultimo per come è realmente e non come il riflesso dei propri desideri e/o proiezioni. In questo caso, la relazione diventa una occasione di arricchimento e confronto; al contrario, si trasforma in un gioco di potere in cui uno subisce il dominio dell’altro.
Le relazioni di coppia violente, a livello comportamentale, sono basate sulla tendenza a limitare la libertà personale, isolare la vittima e alimentarne la dipendenza; a livello emotivo, prevale il mantenimento della paura attraverso le minacce, le intimidazioni e il ricatto; sul piano cognitivo, i comportamenti denigratori e di ridicolizzazione colpiscono direttamente il senso di sé, danneggiano l’autostima e pongono la vittima in una situazione di incertezza e confusione. Anche il linguaggio e la comunicazione, contraddittoria e paradossale, hanno un ruolo importante nel mantenere l’incapacità di pensare, agire e opporsi.
Difficilmente dall’esterno si comprende il perdurare di tali rapporti; alcune strategie messe in atto dalle vittime per far fronte alle situazioni di abuso possono diventare fattori di mantenimento della relazione, in particolare la tendenza a negare i comportamenti abusivi, a mantenere una visione scissa e idealizzata del partner e l’auto-colpevolizzazione. Quest’ultima lascia nella vittima l’illusione di poter migliorare il rapporto attraverso la modifica del proprio comportamento. Di solito, l’inefficacia di tali strategie si traduce in un senso di impotenza che diminuisce progressivamente la motivazione a reagire. Oltre al senso di colpa, reazioni di vergogna vengono frequentemente riscontrate come espressione di una valutazione negativa di sé e una messa in discussione del proprio valore e della propria capacità di affrontare gli eventi.
Nonostante l’abuso psicologico nel rapporto di coppia possa esistere indipendentemente da altre forme di violenza, in ambito clinico e sulla base del lavoro psicoterapico è emersa una escalation della violenza, in quanto difficilmente le aggressioni fisiche avvengono in modo improvviso ma sono nella maggior parte dei casi anticipate da “microviolenze”. Il loro effetto è di indebolire progressivamente la capacità di resistenza della vittima, determinando una sorta di “normalizzazione” della violenza. Già nel 1984, Walker aveva descritto la progressione dal maltrattamento psicologico a quello fisico, attraverso il “ciclo di abuso”. La violenza psicologica fa parte della prima fase caratterizzata da silenzi ostili, tono irritato della voce, occhiate aggressive, e così via che inducono al senso di colpa, intaccano l’autostima della vittima, rendendola vulnerabile al timore di essere abbandonata. La reazione a questi attacchi è il tentativo di evitare i conflitti, ma tale passività non fa altro che rafforzare le tendenze aggressive del partner che degenerano progressivamente nella violenza fisica, lasciando impotente la vittima. La fase successiva di “pentimento e riconciliazione” è quella in cui l’abusante minimizza il proprio comportamento responsabilizzando la vittima o giustificandolo con motivazioni esterne. Quest’ultima è anche la fase delle promesse di cambiamento e del rinnovo delle dichiarazioni d’amore che alimentano la speranza, affievoliscono la collera e fanno sì che la relazione non venga interrotta.
Sembra confermato il ruolo predittivo dell’aggressività verbale (in entrambi i generi) nell’insorgenza della violenza fisica. Ciò rende fondamentale, dal punto di vista preventivo, la precoce rilevazione del fenomeno. Rimanendo sul tema prevenzione, potrebbe essere utile affiancare ai progetti di sensibilizzazione alla parità di genere anche interventi di tipo psico-educativo volti a creare una consapevolezza maggiore circa l’esistenza di queste forme di abuso psicologico. Infine, un ulteriore aspetto rilevante della prevenzione è quello relativo allo sviluppo e alla promozione, in ambito evolutivo, di quegli aspetti del funzionamento individuale (ad es. il riconoscimento e la regolazione delle emozioni) ed interpersonale (ad es. la capacità empatica e l’intimità) che definiscono e regolano la salute relazionale
Lucia Calabrese, psicologa-psicoterapeuta-sessuologa
Consultorio diocesano Al Quadraro 6 luglio 2018
www.romasette.it/labuso-psicologico-nella-relazione-di-coppia
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONSULTORI FAMILIARI DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
A Tor de’ Cenci, un consultorio per trasformare la rabbia in speranza
Il Centro per la promozione della famiglia Mater Salvatoris, sostenuto con i fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, è gestito dall’Apostolato accademico salvatoriano.
Giardini con erba alta, aiuole con i fiori. Tor de’ Cenci, nella periferia sud della Capitale, è un quartiere dove vivono molte famiglie tra grandi palazzi e case con giardino. È lì che opera il Centro per la promozione della famiglia Mater Salvatoris. «Non siamo uno sfasciacarrozze ma un’officina. Non buttiamo, ripariamo», scherza il diacono Marco Ermes Luparia, psicoterapeuta e presidente dell’Apostolato accademico salvatoriano, da cui dipende il centro. Un consultorio, che insieme a quello di Acilia e di Gregna Sant’Andrea, offre il proprio sostegno a singoli, coppie, giovani e anziani con l’aiuto di psicologi, psicoterapeuti e psichiatri, con i fondi dell’8xmille. «Qui vengono persone piene di dolore, confusione, sconcerto, qualche volta con la voglia di distruggere tutto. Io faccio il primo colloquio. Dal primo incontro cerco di trasformare la rabbia in speranza», racconta Ermes.
Intanto arriva Stefania, frequenta il centro da un anno e vive ad Acilia. «È stata mia figlia a spingermi da uno psicoterapeuta», dice. Al consultorio la salutano tutti. Stefania è socievole, allegra, solare, disponibile. Ma dietro al suo sorriso, degli angoli bui. «Le cose che mi fanno male le elimino e non le ricordo. Così è stato per il mio matrimonio, il suicidio di mio padre, la morte di mio fratello. La psicologa mi aiuta ad aprire la cassettiera dei ricordi, per poi chiuderla definitivamente. Qui ho trovato comprensione e professionalità», racconta. «Mio padre è la ferita più grande, non ho mai accettato che si fosse sparato. Era in Zimbabwe Rhodesia». Scorre così la cassettiera dei ricordi. «Con il matrimonio arriva l’altra ferita. Quando mia figlia aveva 8 anni ho scoperto il tradimento di mio marito. Ma sono andata avanti, perché non volevo che mia figlia crescesse senza un padre come era successo a me». Sorride e mentre saluta dice: «Ogni giorno è un miracolo. Non ho avuto il marito che volevo ma ho una figlia straordinaria».
In questa officina c’è un’equipe attenta, come racconta Cristina Bernieri, che ci lavora da quasi 10 anni. «Si rivolgono a noi più donne che uomini». Per avere informazioni si può chiamare lo 06.97612477 o il 373.8212149. C’è una grande fragilità negli adolescenti: «Pesa l’assenza di entrambi i genitori – spiega Ermes -; spesso ci troviamo di fronte a una famiglia bulla. Il turpiloquio e la violenza verbale i giovani le imparano tra le mura di casa». Mettere le dita nelle piaghe. Questa la vocazione dei Salvatoriani, fondati da padre Francesco Maria della Croce Jordan nel 1881. Fu lui a porre le basi per la nascita dell’associazione dei Salvatoriani laici. I consultori sono l’anima della loro azione perché entrano nel tessuto sociale. «Il nostro patrimonio sono decine di migliaia di ore di ascolto – prosegue il diacono -. In questi anni si è evoluto il disagio sociale. Si è indebolito il concetto di amore, che è molto viscerale. Spesso è l’incontro di due narcisismi. C’è un relativismo sentimentale per cui la relazione è bella finché dura. È un legame debole, basta poco per romperlo, anche motivazioni banali: la famiglia si sgretola sul niente».
Per questo, secondo Ermes, vanno rivisti i corsi prematrimoniali. «Dovrebbero far interrogare sul senso di quel che si sta facendo e su dove si vuole andare». I Salvatoriani fanno attività di sostegno per la famiglia, la scuola e la formazione dei religiosi. «C’è una debolezza dell’identità di sacerdoti e di genere. La formazione è troppo sbilanciata a favore della brillantezza intellettuale. Noi lavoriamo per rinsaldare la struttura caratteriale e dare consapevolezza del proprio ruolo. Affrontiamo vari temi. Ne cito qualcuno: sessualità, identità, autorità, autorevolezza, valore del celibato, comunicazione. Il sacerdozio prevede una donazione al 100%». Ma quando è stato il momento più difficile? «Cinque, sei anni fa con l’esplosione del fenomeno della pedofilia. Papa Benedetto ha scoperchiato il vaso, Francesco ha guardato dentro per vedere cosa stesse accadendo. Noi non siamo a fianco della Chiesa, a supporto, ma dentro la Chiesa», sottolinea Ermes. (…)
Antonella Gaetani Romasette 5 luglio 2018
www.romasette.it/a-tor-de-cenci-un-consultorio-per-trasformare-la-rabbia-in-speranza
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONTRACCEZIONE
Il Piemonte avrà la contraccezione gratuita per donne under 26 e disoccupate
La Regione Piemonte avrà la contraccezione gratuita per le giovani donne sotto i 26 anni e per le donne disoccupate nei 12 mesi successivi al parto e nei 24 mesi successivi all’interruzione di gravidanza per le quali viene garantito l’accesso libero e diretto senza ticket nei Consultori sanitari.
Un sentito grazie alla Consigliera Regionale Nadia Conticelli che si è fatta carico di portare avanti questa azione politica e ha saputo dare una risposta al tema della contraccezione gratuita, prendendo a modello la delibera dell’Emilia Romagna, entrata in vigore da pochi mesi
La disponibilità di contraccettivi gratuiti, erogati a carico del Servizio Sanitario Nazionale, è condizione necessaria per assicurare il diritto alla procreazione responsabile, con ricadute importanti sulla salute delle donne. Nel nostro, a differenza di altri Paesi europei, come la Francia, il Belgio e la Germania, l’Inghilterra e la Svezia, la contraccezione è interamente a carico delle cittadine e dei cittadini. Non è quindi un caso che l’Italia sia tra gli ultimi, in Europa, nell’utilizzo della pillola anticoncezionale.
Sulla base di questi dati, e in seno ad un più ampio progetto riguardante la maternità, il Comitato di Torino di SeNonOraQuando? aveva deciso, nei mesi scorsi, di sollecitare la Regione perché l’Istituzione territoriale si facesse carico di un problema che, avrebbe dovuto essere risolto a livello nazionale e che si inserisce nel più ampio contesto della L. 194/1978 e della sua attuazione.
Oggi, infatti, in Italia il costo della contraccezione risulta troppo oneroso per tante donne, coppie e famiglie in condizioni di disagio economico, acuite dalla crisi. La concreta difficoltà di regolare la propria fertilità, programmando le gravidanze, ma anche la possibilità di non scegliere un contraccettivo adatto, hanno evidenti ripercussioni negative sulla salute fisica e psicologica di queste donne, accentuando ulteriormente i loro problemi economici e sociali, che dovrebbero invece essere rimossi, come prevede la L.194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Questo provvedimento si inserisce in una più ampia delibera, a firma Marco Grimaldi, “Indirizzi e criteri per garantire l’effettivo accesso alle procedure per l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’articolo 9, comma 4 della legge 22 maggio 1978, n. 194”.
La delibera è la prima in Italia a rendere stringente l’articolo 9 della legge del 1978, che sancisce il dovere delle strutture sanitarie di assicurare il diritto all’interruzione di gravidanza e assegna alla regione il controllo sull’attuazione della legge anche attraverso la mobilità del personale.
Con la delibera oggi approvata, si dà mandato all’Assessore alla Sanità, Antonio Saitta di fare un monitoraggio della situazione in tutte le Asl della regione, al fine di garantire che in ogni territorio l’obiezione non superi la soglia del 50% e dunque superare l’eccessiva concentrazione degli interventi al Sant’Anna di Torino. In caso la soglia fosse superata, la delibera consente ai direttori di attuare il turn over, avviando un call interna per reclutare medici e infine, se ciò non fosse ancora sufficiente, di procedere a chiamate pubbliche e assunzioni rivolte a medici che praticano Ivg.
“Il Consiglio regionale, – ha dichiarato Nadia Conticelli, – potenzia il servizio di prevenzione, tutela della salute della donna e della procreazione consapevole, rafforzando il ruolo dei consultori territoriali. Una scelta – sottolinea – già compiuta dalla Regione Emilia Romagna e sostenuta dalla rete delle associazioni femminili, una per tutte Se Non Ora Quando, in linea con quanto avvalorato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che inserisce i contraccettivi tra i farmaci definiti essenziali. La legge vigente, la n. 194, rimane un’ottima legge, va applicata in tutti i servizi pubblici e con particolare attenzione all’età adolescenziale. Il tema dell’informazione, della prevenzione e dell’accompagnamento alla contraccezione è fondamentale e deve essere garantito nelle strutture pubbliche che devono essere il più possibili aperte; le attività svolte nei Consultori – conclude – devono avere un adeguato riconoscimento organizzativo in termini di attrezzature, di personale in grado di fornire tutti i servizi, proprio come previsto dalla legge nazionale, che rimane una legge di civiltà che va affermata quotidianamente”.
Auspichiamo, che altre regioni prendano a modello l’Emilia Romagna e il Piemonte per poter dare effettiva e piena applicazione al dettato della Legge 194, che indica nella prevenzione e nell’accompagnamento alla contraccezione uno dei capisaldi della legge stessa.
Laura Onofri Noi donne 4 luglio 2018
www.noidonne.org/articoli/il-piemonte-avr-la-contraccezione-gratuita-per-per-donne-under-26-e-disoccupate-15004.php
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DALLA NAVATA
XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2018
Ezechiele 02, 05 Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Salmo 122, 01 A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli.
2Corinzi 12, 10. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
Marco 06, 02 Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?
Gesù, troppo umano. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose
Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi insignificanti, segni che non raggiungono il loro fine.
Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto nel deserto di Giuda, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno del Signore, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture, alla veglia e alla preghiera. Gesù a una certa età raggiunse questi luoghi e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi la chiamata di Dio e l’unzione dello Spirito santo lo spinsero a essere un predicatore itinerante del Regno veniente, dando inizio al suo ministero in Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).
E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), passando di villaggio in villaggio per predicare, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”, la terra dei suoi padri. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un credente in alleanza con Dio, come ogni altro ebreo, e avendo più di dodici anni, dunque in qualità di bar mitzwah, figlio del comandamento, sale sull’ambone, legge le Scritture e commenta la Parola. Non è sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.
A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un rabbi, un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. La domanda che suscita è: “Da dove (póthen) gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi operati dalle sue mani?”. Si interrogano dunque sull’identità di Gesù, come già avvenuto nella sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,27), e la risposta potrebbe essere un’adesione a Gesù nella fede, riconoscendo che in lui opera lo Spirito santo (cf. Mc 1,10; 3,29-30); oppure un rigetto di Gesù, attribuendo al demonio la sua forza nell’annunciare la Parola e nell’operare prodigi (cf. Mc 3,22).
E in questo stupore superficiale ecco emergere un’altra domanda: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Si tratta in realtà di un interrogativo che contiene in sé una sfumatura denigratoria. Gesù – si pensa – ha esercitato soltanto il mestiere di falegname, dunque non è autorizzato a insegnare; inoltre è il figlio di Maria, di lui si conosce il padre, che non viene nominato, e i suoi familiari sono ben conosciuti, risiedono tuttora nel villaggio. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”, o qualcuno con una missione speciale? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nella sua forma umana proclamasse la sua gloria e la sua singolarità, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne e munito di potere nel suo apparire in mezzo agli altri.
No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, perché accogliere il suo messaggio? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo ad aver fede in lui e nella sua parola. Per questo lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro statura e Gesù diventa per loro un inciampo, uno scandalo che impedisce un incontro di salvezza. Costoro sono fieri di conoscere Gesù umanamente, “secondo la carne” (2Cor 5,16), ma in realtà impediscono a se stessi la sua vera conoscenza.
Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o familiare, giunge a non riconoscere la sua vera identità e finisce per disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente di Nazaret a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale; non risponde ai canoni previsti per discernere in lui un inviato di Dio, il Messia atteso.
Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, impone loro le sue mani e ne guarisce solo qualcuno, ma è come se non avesse operato prodigi, perché il miracolo avviene quando il testimone è disposto a passare dall’incredulità alla fede. A Nazaret invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessuna azione di potenza” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire nella sua forza, non può neanche fare il bene, perché manca il requisito minimo, la fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, umanissimo, troppo umano! In questo episodio del vangelo marciano Gesù appare la sapienza misconosciuta; il profeta non accolto proprio da coloro ai quali è inviato, disprezzato da quanti gli sono più vicini; il guaritore che non può fare il bene perché ciò gli è impedito dalla non accoglienza della sua azione che dona salvezza.
Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque domina la convinzione che è meglio non fargli fiducia. Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia resta saldo: continua con fedeltà la sua missione in obbedienza a colui che lo ha inviato, andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a curare, e neppure a fare il bene.
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12442-gesu-umano
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DEMOGRAFIA
Pensioni e fertilità sono due facce della stessa medaglia
Chi vuole difendere le pensioni ha interesse alla ripresa della natalità nelle famiglie, alla nascita di nuove imprese, alla stabilità dei contratti di lavoro e ai flussi di lavoratori da altri Paesi. Secondo i dati Istat il 20% delle famiglie con figli ha dovuto chiedere prestiti, in generale la scelta di avere figli non è incentivata. L’assegno di natalità per il 2018 di 960 euro è un segnale che ha bisogno di continuità.
Bene. Non si può commentare altrimenti la previsione Istat (l’Istituto italiano di statistica) che indica, per il 2065, un allungamento di oltre 5 anni della vita media degli italiani. Si arriverebbe a 86,1 anni per gli uomini e a 90,2 anni per le donne (era 80,6 e 85 anni nel 2016). Senza contare che i progressi medici, assistenziali, di prevenzione e la progressiva minor usura lavorativa potrebbero avvicinare l’obiettivo – impensabile fino a pochi anni fa – del secolo medio di vita.
Prepariamoci a una Penisola dichiaratamente anziana, con un saldo negativo (morti/nascite) che l’Istat ritiene probabilissimo anche se nei prossimi anni potrebbero innestarsi politiche di sostegno alla fertilità. Al momento non prevedibili.
Alle condizioni di natalità/migrazioni stimabili ora, nel 2065 la popolazione italiana sarà intanto scesa a 54,1 milioni, con una flessione, rispetto al 2017 di 6,5 milioni. Il saldo nascite/morti sarà negativo (da -200mila a -400mila l’anno) nonostante un aumento del tasso medio di fecondità da 1,3 a 1,5 figli per ogni donna.
L’andamento demografico porta con sé implicazioni che si possono già vedere e si possono intuire per il futuro. Il picco di decrescita è previsto fra il 2020 e il 2040. E’ una involuzione che, per fortuna, si può interrompere e anche invertire.
Proprio chi vuole difendere le pensioni ha interesse alla ripresa della natalità nelle famiglie, alla nascita di nuove imprese, alla stabilità dei contratti di lavoro e ai flussi di lavoratori da altri Paesi.
Secondo i dati Istat il 20% delle famiglie con figli ha dovuto chiedere prestiti, in generale la scelta di avere figli non è incentivata. L’assegno di natalità per il 2018 di 960 euro è un segnale che ha bisogno di continuità.
Condizioni più favorevoli alla fertilità sono funzionali al mantenimento di una spesa pensionistica crescente. Per il momento si presta molta attenzione alla parte finale della vita lavorativa. Il superamento della Legge Fornero, prevista dal nuovo Governo e che consentirebbe a centinaia di migliaia di lavoratori di avvicinarsi all’atteso traguardo, porta con sé un incremento delle risorse destinate a chi ha lavorato pagando contributi e rischia di ridurre le disponibilità pubbliche per il sostegno di nuove famiglie e nuovi lavoratori. Nelle stime per il 2019 sulla prevista Quota 100 (somma degli anni di contribuzione+ età anagrafica) e su altre modifiche (in pensione con 41 anni di contributi) si arriva a un maggior costo pubblico di circa 5 miliardi (stime del Governo).
Sono numeri che mettono in allarme la Banca centrale europea (Bce) preoccupata per le crescenti spese di invecchiamento dell’Europa, soprattutto se l’economia dei prossimi anni sarà debole con una scarsa occupazione e magari un alto debito pubblico. A condizioni invariate, nei prossimi 20 anni la spesa pensionistica italiana è destinata ad assorbire il 18,4% del Pil (Prodotto interno lordo, il valore totale dei beni e dei servizi prodotti in un anno), una percentuale compatibile solo se sostenuta da una crescita della produzione e dei posti di lavoro. Altrimenti si mangiano risorse.
L’idea che il bosco della popolazione anziana possa sopravvivere nutrendosi sempre dello stesso pezzetto di terra porta alla sovrapposizione delle radici e all’inaridimento.
Il flusso di lavoratori stranieri, l’apertura di nuove attività imprenditoriali anche se in concentrata alcuni settori dei servizi e della ristorazione, ha già mostrato dei numeri e la Fondazione Leone Moressa ha stimato che i contributi dei migranti regolarmente retribuiti “reggano” oltre 600 mila pensioni italiane. Certo, sono attività a remunerazioni più basse (nel reddito medio annuo la differenza è di circa 7mila euro), per lavoratori più giovani. Mansioni che, spesso, non sono coperti dalla disponibilità di italiani. E’ – nonostante tante difficoltà e precarietà – un flusso aggiuntivo per il sistema previdenziale.
Paolo Zucca Agenzia SIR 5 luglio 2018
https://agensir.it/italia/2018/07/05/pensioni-e-fertilita-sono-due-facce-della-stessa-medaglia
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DIRITTI
La vita non è mai un bene di consumo
Disposable è il termine che la lingua inglese adotta per indicare ciò che non ha valore permanente, duraturo. Ciò che è a disposizione solo per essere consumato e la cui “vita” è effimera: una bottiglia in plastica di una bibita destinata a finire tra i rifiuti dopo averla sorbita, una penna non ricaricabile da eliminare quando è terminato l’inchiostro, un orologio da polso elettronico la cui riparazione è impossibile o non economica. L’abitudine al consumo dei beni fruibili e talora anche futili – di cui sovrabbondiamo in Occidente, a scapito di altre terre dove donne e uomini mancano dell’indispensabile – secondo la modalità sociale dell’«usa e getta» ci sta facendo correre il rischio serio di considerare anche la stessa vita come un bene di consumo a uso personale, dimenticando che è fatta da un Altro e per un Altro, ed è condivisa con altri al servizio di altri. Lo ha ricordato papa Francesco, il 25 giugno 2018, nel discorso all’Assemblea generale della Pontificia accademia per la Vita: «Escludendo l’altro dal nostro orizzonte, la vita si ripiega su di sé e diventa un bene di consumo».
Questa non è «la sapienza umana della vita», quella che «deve rivolgere più seriamente lo sguardo alla “questione seria” della sua destinazione ultima», prosegue il Santo Padre. «Occorre interrogarsi più a fondo sulla destinazione ultima della vita, capace di restituire dignità e senso al mistero dei suoi affetti più profondi e più sacri». Dignità e senso della vita sono i cardini della bioetica radicata antropologicamente e aperta alla trascendenza di cui ha bisogno la riflessione e l’azione contemporanea nell’età della medicina biotecnologica, delle manipolazioni molecolari e cellulari della vita, delle neuroscienze cognitive, dell’assistenza alla generazione e allo sviluppo, della cura dei malati stabilizzati ma inguaribili, e dei percorsi di riabilitazione dei disabili. Laddove lo stupore e la delicatezza dei processi biologici e delle dinamiche psicologiche fa i conti con il dolore del corpo e la sofferenza dell’animo. «La vita dell’uomo, bella da incantare e fragile da morire, rimanda oltre sé stessa: noi siano infinitamente di più di quello che possiamo fare per noi stessi» e per gli altri, mette in limpida luce papa Bergoglio.
La tenacia nel difendere, custodire e promuovere la vita – un compito di sempre cui le scienze e le tecnologie della vita offrono oggi strumenti potenti e plurivoci un tempo inimmaginabili – mostra il fiato corto se il suo respiro è solo quello umanamente possibile, anche quello “assistito” dal progresso moderno. Una vita, però, che «è anche incredibilmente tenace, di certo per una misteriosa grazia – richiama il Papa – che viene dall’alto». Per questo «la sapienza cristiana deve riaprire con passione e audacia il pensiero della destinazione del genere umano alla vita di Dio […] con il sempre nuovo incanto di tutte le cose “visibili e invisibili” che sono nascoste nel grembo del Creatore».
Un potente invito a spalancare l’orizzonte dell’antropologia e dell’etica oltre gli angusti orizzonti in cui talora lo ingabbiano i dibattiti pubblici e le discussioni politiche: una «bioetica integrale», una «bioetica globale [che] ci sollecita dunque alla saggezza di un profondo e oggettivo discernimento del valore della vita personale e comunitaria, che deve essere custodito e promosso anche nelle condizioni più difficili», attraverso «una prossimità umana responsabile» del destino trascendente dell’uomo e dell’umanità. Per non essere “complici” del Nemico della vita «con il lavoro sporco della morte, sostenuto dal peccato», ma appassionati testimoni e profeti «dell’irrevocabile dignità della persona umana, così come Dio la ama, dignità di ogni persona in ogni fase e condizione della sua esistenza, nella ricerca delle forme dell’amore e della cura che devono essere rivolte alla sua vulnerabilità e alla sua fragilità”, conclude Francesco.
Un messaggio audace per il nostro tempo. La gioiosa audacia del Vangelo della vita che sfida la triste omologazione del pensiero dominato dal narcisismo e dalla paura «che ci condanna a diventare uomini-specchio e donne-specchio che vedono soltanto sé stessi e niente altro».
Roberto Colombo Avvenire 4 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-vita-non-e-mai-un-bene-di-consumo
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DIVORZIO
Inammissibile la rinuncia di uno dei coniugi alla domanda
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10463, 2 maggio 2018.
Il divorzio congiunto non è rinunciabile da uno solo dei coniugi e la contumacia in appello non ne comporta l’annullamento. Richiamandosi la domanda congiunta di divorzio ad una iniziativa processuale comune e paritetica, che non corrisponde né alla somma di due distinte domande di divorzio, né alla adesione di una parte alla domanda avanzata dall’altra, deve reputarsi inammissibile una rinuncia unilaterale, poiché alla domanda congiunta possono rinunciare congiuntamente soltanto entrambe le parti.
Neppure può annettersi alla mancata costituzione dell’appellata nel giudizio di secondo grado il significato di un’adesione implicita alla riforma della decisione di prime cure, non equivalendo la contumacia ad ammissione dei fatti dedotti dall’attore o dall’appellante.
Redazione Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20100 – 05 luglio 2018
Ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20100/divorzio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
FECONDAZIONE
Fecondazione medicalmente assistita: solo 2 coppie su 10 avranno un figlio in braccio
Il ‘dono’ degli ovociti di una 29enne avvocato a una clinica per la fecondazione assistita raccontata sul quotidiano La Repubblica “per amore delle altre donne”, l’ha senz’altro resa popolare. Ma la donna, attivista della Rete Lenford vicina agli ambienti Lgbt ha preso indicazioni dall’Associazione ‘Coscioni’ su come muoversi, proponendo tra le altre cose anche un “rimborso spese” alle donatrici come “sostegno economico”
Un’opzione sibillina pro-utero in affitto che tuttavia, in Italia, è stata ampiamente riconosciuta come illegale e illegittima dai più altri organi giudiziari del Paese. Anche perché i numeri nudi e crudi su questa pratica di bombardamenti ormonali e di gestazione artificiale parla di una percentuale di “bambini in braccio” che non supera il 22 per cento
Fecondazione. Quella artificiale porta 8 coppie su 10 a una cocente delusione. Un altro tentativo di ‘picconare’ le solide basi giurisprudenziali che hanno sconfessato in più occasioni l’utero in affitto è giunto, nei giorni scorsi, attraverso la testimonianza-esperienza personale, portata agli onori delle cronache da lei su Facebook e subito ripresa da Repubblica, di una 29enne avvocato che ha dichiarato di aver donato 14 ovociti a una clinica per la fecondazione assistita “per amore delle altre donne”. Un gesto, come raccontato al quotidiano, compiuto dopo aver condiviso il dolore di un’amica che non riusciva ad avere figli e la cui unica possibilità era la fecondazione eterologa con gli ovuli di una donatrice.
Una storia che parla altresì di pesanti bombardamenti ormonali subiti prima di poter donare i suoi gameti, ma anche della sua volontà – nel prossimo futuro – di affrontare una maternità surrogata. Già, perché il gesto altruistico (anche se per nulla riservato, in quanto pubblicato su Facebook), sembrerebbe arrivare da ‘Coscioni’. Una sorta di suggerimento all’opinione pubblica a mobilitarsi per ‘sdoganare’ l’utero in affitto con tanto di “rimborso spese” alle donatrici, un “sostegno economico” che “non toglie nulla alla bellezza di questo gesto”, come ribadito dall’avvocatessa e riportato anche da Avvenire in un commento a firma di Antonella Mariani.
L’indicazione implicita, insomma, all’avvio del mercato dei gameti anche nel nostro Paese. Ma – come fa notare chiaramente Mariani nel suo commento, “se non ci sono donatrici, però, non è solo perché non c’è abbastanza generosità o solidarietà femminile nei confronti delle donne che non riescono ad avere figli. Il fatto è che il prelievo di ovociti è un’operazione complessa e fisicamente pesante. E i soldi non possono comprare la salute delle donne, nemmeno (o forse soprattutto) se queste sono povere”.
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/lintervista-surrogata-ecco-perch-litalia-non-sa-dire-no
Ma c’è di più: in base ai numeri statistici sulle attività di procreazione medicalmente assistita, la percentuale di “bambini in braccio” varia tra il 17 e il 22 per cento: di fatto, 8 coppie su 10 dopo essere ricorse alla via crucis della fecondazione artificiale, si trovano a dover affrontare un esito profondamente deludente. Un ‘finale’ tristissimo che viene comunque rimborsato, perché la fecondazione artificiale è oggi nei Livelli essenziali di assistenza del Servizio Sanitario Nazionale. Non così, purtroppo, per un’altra strada, ben più feconda, attraverso la quale diventare genitori: quella dell’adozione. Da qui la conclusione di Mariani: “Un po’ di solidarietà anche per loro?”. Una posizione che Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini ha sposato da tempo.
News Ai. Bi. 2 luglio 2018
www.aibi.it/ita/la-via-crucis-della-fecondazione-medicalmente-assistita-solo-2-coppie-su-10-avranno-un-figlio-in-braccio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
La cavalcata del papa gaucho
Il gaucho oggi è come un mito del passato, in Argentina, perché il progresso, le ferrovie e altri mezzi di comunicazione hanno trasformato la realtà sociale ed agricola in cui viveva un tempo il mandriano — il gaucho, appunto — che, sempre insieme al suo inseparabile cavallo, percorreva le pampas, le immense praterie del paese. Con il poema epico El Gaucho Martín Fierro, del 1872, José Hernández bene rappresentò il cavallerizzo audace, generoso, molto ospitale, fedele nell’amicizia rispettoso di un codice di giustizia che doveva caratterizzare la società, parte viva della terra, il vastissimo territorio di cui si sentiva custode.
«Mi gloria es vivir tan libre como el pájaro (uccello) del cielo» — cantava l’eroe celebrato dallo scrittore. Perciò, dando del gaucho a Jorge Mario Bergoglio, il 13 marzo 2013 eletto vescovo di Roma, lo si definisce uomo affettuoso, positivo, valente, figlio di una patria ben determinata, ma disposto a sentirsi a casa in tutte le patrie. E, come per i gauchos del Cono Sur dell’America, stretti — oggi — tra il custodire le tradizioni del passato e l’inserirsi nell’avanzare inarrestabile della modernità, anche lui, mutatis mutandis, si trova a districarsi in questa inevitabile tensione, feconda ma anche dolorosa.
Il gaucho divenuto Francesco deve percorrere non solo le pur sconfinate pampas, ma le praterie, le montagne, le valli del pianeta: perché il mondo intero è la sua terra, in quanto la Chiesa romana oggi è presente — talora in modo massiccio, talaltra solo con comunità germinali — in ogni paese. E, soprattutto, deve “ripercorrere” l’intera vicenda della sua Chiesa, per custodirne l’eredità bimillenaria, non però come un museo morto ma come una fontana viva. Cercando, se possibile, di salvaguardare parole antiche ma innervandole di nuova vita di fronte alle sfide che oggi attendono il pastore di un gregge composto da un miliardo e trecento milioni di fedeli. In tale contesto si situa il problema della famiglia (“cristiana” e non) che Francesco ha voluto affrontare insieme ai vescovi con due Sinodi (2014 e 2015) e poi delineare nella sua Esortazione apostolica postsinodale Amoris lætitia.
Esamineremo quel testo e, in esso, approfondiremo in particolare la questione della possibilità, o meno, che persone divorziate e risposate civilmente possano accostarsi all’Eucaristia. Sui media, ma anche in documenti vaticani, il tema in questione viene spesso riassunto con le parole “divorziati risposati”; locuzione che occulta le “divorziate risposate”. Ma citare ogni volta i due generi sarebbe pesante; citarne uno solo, poi, ingiusto verso le donne. Anche ripetere mille e mille volte “persone divorziate e risposate civilmente” finirebbe per stancare la lettura. Dunque abbiamo optato per una abbreviazione, usata continuamente: d&r = persone divorziate e risposate con rito civile. Può sembrare una sigla strana; in realtà è una scelta rispettosa.
Ma, venendo alla sostanza: come ha risolto il problema, il papa gaucho? Diremo, ovviamente, del fondamento del suo discorso: riaffermazione della dottrina, ma variazioni sostanziali nella pastorale. E poi riferiremo le risposte dell’episcopato mondiale, del mondo teologico e di gruppi di fedeli alle sue indicazioni: molti entusiasti “sì” ma, anche, fermi “no” — cardinalizi, soprattutto.
Questa opposizione, per quanto minoritaria, è fondata su obiezioni che riteniamo confermate da una certa solida tradizione, e però debolissime, se il metro di misura è, o torna ad essere, l’Evangelo, e anche la dottrina–prassi della prima Chiesa. Tuttavia, i “no” hanno dalla loro, o ritengono di avere, il magistero papale e conciliare dal Tridentino al Vaticano II e fino a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Lanciando il cuore oltre l’ostacolo, Bergoglio ha ritenuto che la cifra della misericordia — proclamata da Gesù — possa e debba illuminare anche la considerazione “pastorale” della questione d&r/Eucaristia, ammettendo possibile, caso per caso, e dopo attento “discernimento”, una soluzione invece espressamente rifiutata da Wojtyla e da Ratzinger. Come uscire da un contrasto profondo, e del quale è difficile intravedere una via d’uscita, dato che cardinali, vescovi e fedeli del “no” apportano delle motivazioni che Francesco non ha affrontato in recto, per frantumarne, se poteva, il basamento? Il problema — in sé circoscritto, ma diventato esplosivo per la rete di nodi dottrinali, storici e teologici che condensa — scuote la Chiesa romana e, certamente, peserà sul futuro conclave.
E allora? La mia modesta opinione (dunque: “opinabile”, ma non campata in aria) riprende quello che un vescovo anglofono suggerì durante il Sinodo 2015: solamente un Concilio generale della Chiesa romana potrebbe cambiare e oltrepassare un magistero univoco e granitico durante mezzo millennio nell’affermare il “no” (dal Tridentino in poi: sul “prima” dovremo fare importantissimi “distinguo”, a partire dal Concilio di Nicea del 325). Il “sì”, perciò, potrebbe arrivare dopo che le contrastanti opinioni su d&r si saranno confrontate davvero, e dunque essere frutto di un corale, approfondito ed esplicito dibattito, proprio di un Concilio non solo e non più clericale, ma che veda in qualche modo rappresentato l’intero “popolo di Dio”: e, ovviamente, donne comprese. Senza questo passaggio sarà ben arduo che la questione d&r possa essere superata, e si arrivi nella Chiesa romana alla desiderata pacificazione. Una faticosa cavalcata, dunque, attende il papa gaucho, se “questo nuovo matrimonio s’ha da fare”.
(Tratto dall’introduzione del libro “Il papa gaucho e i divorziati. Questo matrimonio (non) s’ha da fare” Luigi Sandri, Aracne Editrice. Si ringraziano l’Autore e l’Editore per la gentile concessione)
Luigi Sandri “Trentino” 6 luglio 2018 Fine Settimana
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180706sandri.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
HUMANÆ VITÆ
Così Joseph Ratzinger contestò le tesi di Paolo VI
Nel 1968 il futuro papa criticò le posizioni di Montini poi accolte nell’enciclica “Humanæ vitæ”. Rimarrà sorpreso chi ritiene che la dottrina di Humanæ vitæ, l’ultima enciclica di Paolo VI, siano irriformabili. Infatti, a leggere il testo di Joseph Ratzinger, “Per una teologia del matrimonio”, ora pubblicato da Marcianum Press, a cura di Nicola Reali (ne riproduciamo qui un brano), e curiosamente non inserito nella sua Opera omnia, si comprende come le argomentazioni di Humanæ vitæ erano per il teologo tedesco tutt’altro che insindacabili.
Anche se il testo di Ratzinger è stato scritto nel ’68, e dunque prima dell’enciclica, il contenuto (pubblicato un anno dopo) è riferibile a quanto del dibattito teologico in corso in quegli anni Paolo VI ha inserito nel suo lavoro. Spiega Reali: «Il testo esprime una presa di posizione (del tutto legittima) su quel dibattito. L’averlo pubblicato, senza cambiare nulla, un anno dopo, è fatto che, con non meno evidenza, segnala la partecipazione attiva alla discussione che è seguita alla pubblicazione dell’enciclica».
Montini dichiarò, fra le altre cose, l’illiceità della «pillola» e degli altri mezzi contraccettivi. Ratzinger, come ha ribadito anche in una recente intervista con Peter Seewald, pur mettendo in discussione l’insegnamento di base del testo, ne fa emergere la fragilità del fondamento su cui si basa l’argomentazione di fondo. Per lui la morale cristiana su matrimonio e famiglia non può far leva solo sulla legge naturale poiché questa deriva l’elemento eticizzante della relazione coniugale dalla sfera animale, riducendo la sessualità quasi alla mera riproduzione della specie. I precetti morali cristiani, invece, possono essere rispettati solo in una prospettiva di fede: là dove il cristiano — come ricordava anche Lutero— si riconosce sempre «simul iustus et peccator»
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180702rodari.pdf
Ma l’indissolubilità del matrimonio non è una legge di natura
È chiaro che dalla corretta interpretazione sacramentale del matrimonio cristiano discende necessariamente la sua unità e indissolubilità: in quanto realizzazione – nella fedeltà dell’uomo – della fedeltà di Dio all’Alleanza, il matrimonio cristiano esprime la definitività e l’irrevocabilità del “sì” divino nella definitività e irrevocabilità del “sì” umano. Solo questo è veramente conforme alla fede e, pertanto, realizzazione di un vero ethos cristiano. La possibilità di scelte irrevocabili, che la fede dischiude, appartiene ai tratti fondamentali dell’immagine dell’uomo che la fede stessa implica. Allo stesso tempo si deve però ricordare senza esitazioni che dal puro diritto naturale non si può dedurre l’unità e l’indissolubilità del matrimonio. La “natura” del matrimonio è il suo essere nella storia e la sua naturalità si compie solo negli ordinamenti storici.
Anche l’ordine della fede è un ordine storico, sebbene esso veda in Cristo la forma definitiva della storia e debba quindi attribuire alla pretesa della fede un carattere incondizionato. (…) Il tentativo di interpretare giuridicamente questo appello sovralegale e sovragiuridico porta, già nella comunità ecclesiale descritta da Matteo, a includere di nuovo nel diritto la «durezza di cuore» dell’uomo e a procedere di conseguenza.
Sicuramente si può dire che proprio in queste clausole sul divorzio che ora appaiono, la pretesa di Gesù, la quale demolisce la casuistica e porta al suo superamento, viene di nuovo trasformata in una posizione casuistica e in questo modo si rinnova il rischio di perdere qualcosa della serietà del principio. Allo stesso tempo, però, occorre riaffermare che la recezione da parte della Chiesa non può essere separata dalla parola di Gesù; e con assoluta chiarezza qui si ribadisce che la parola di Gesù è sì l’incondizionato punto di riferimento di ogni matrimonio cristiano, ma non una nuova legge nel senso stretto della parola. Su questa base si può comprendere perché nella Chiesa d’Oriente già molto presto, in caso di adulterio, sia stata concessa la possibilità di divorziare al coniuge non colpevole e per lungo tempo siano state riconosciute analoghe possibilità anche nella Chiesa latina. Ciò corrisponde al fatto che l’uomo anche nel Nuovo Testamento ha bisogno di indulgenza a motivo della sua “durezza di cuore”, che egli è giusto solo in quanto peccatore giustificato, che secondo la fede il Discorso della montagna è un criterio valido, ma non rappresenta la forma giuridica del suo vivere insieme. Da ciò non si deve concludere che anche la Chiesa di Occidente dovrebbe rendere il divorzio una possibilità del proprio diritto canonico similmente a quanto fanno le chiese ortodosse d’Oriente.
Mantenere l’indissolubilità come un puro diritto della fede ha un profondo significato. Ma allora la pastorale deve lasciarsi determinare più fortemente dai limiti di ogni giustizia e dalla realtà del perdono; essa non può considerare in modo unilaterale l’uomo macchiatosi di questa colpa peggiore rispetto a chi è caduto nelle altre forme di peccato. Essa deve diventare consapevole con maggiore chiarezza delle peculiarità proprie del diritto della fede e della giustificazione per fede e trovare nuove strade, per lasciare aperta la comunità dei fedeli anche a coloro che non sono stati in grado di mantenere il segno dell’Alleanza nella pienezza della sua pretesa.
Joseph Ratzinger “la Repubblica” 2 luglio 2018
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180702ratzinger.pdf
L’Humanæ vitæ di Paolo VI
Dall’Enciclica del 1968 alla Commissione “della popolazione e della natalità” di Papa Roncalli. La contraccezione, oggi, secondo l’Amoris lætitia di papa Francesco
Il 25 luglio 1968 Paolo VI promulgava l’Humanae Vitae, un’enciclica inattesa, che definì, meglio di ogni altro intervento, la natura di quel pontificato, ampio di vedute sul piano ideale e limitato dalla preoccupazione per la tradizione del magistero cattolico.
Papa Roncalli, ben diversamente sensibile al conflitto tra l’immobilismo della Chiesa di Pio XII e le impellenti trasformazioni sociali del secolo, aveva istituito fin dai primi anni Sessanta (del secolo scorso) una Commissione di studio “della popolazione, della famiglia e della natalità” che, senza nominarlo, comprendeva, tra l’altro, il riferimento all’uso dei contraccettivi.
La maggioranza dei vescovi era favorevole a reinterpretare il “crescete e moltiplicatevi” e sembrava che la Chiesa si disponesse a promuovere una scelta più responsabile della genitorialità. Si raccontava che ad un intervento contro ogni pratica di ostacolo alla riproduzione tenuto in assemblea dal cardinal Ottaviani che, rammentando lo stile di vita dei suoi genitori, del padre lavoratore e dei tanti figli, ammoniva che mai la sua famiglia sarebbe ricorsa alla contraccezione, alcuni vescovi commentassero “utinam, utinam!” magari, magari.
L’enciclica fu, infatti, una gelata: il papa ammetteva la liceità dei soli metodi naturali, anche se riconduceva maternità e paternità all’etica della responsabilità. Anche all’interno delle strutture cattoliche fu grande lo sconcerto. In quel periodo dirigevo “Il nostro impegno”, mensile delle donne dell’Azione Cattolica: non potevamo non pubblicare il documento del papa e la nostra piccola redazione ricorse ad alcuni accorgimenti per non fargli eccessiva propaganda. Ne demmo l’annuncio in apertura nell’editoriale, poi lasciammo il titolo in latino notoriamente non un’attrattiva, e usammo nella grafica il “retino” che rendeva un po’ spenta la pagina. Anche per l’Azione Cattolica era il Sessantotto. Ed eravamo tutte donne.
La trasgressione aveva anche motivazioni oggettive: non ci si poteva nascondere che il risultato dell’imposizione forzata alla coscienza avrebbe prodotto solo la doppiezza della morale e l’ipocrisia di una disciplina accettata a parole e disobbedita in privato. Infatti per larga parte della gente già allora la sensibilità comune individuava il “peccato” più nel mantenimento della vecchia dottrina e nella mancata evangelizzazione dei fedeli maschi che nell’uso dei contraccettivi: per quell’omertà di genere che persiste anche nel clero, la paternità è autorizzata a restare irresponsabile, come se il buon dio avesse dato all’uomo una sessualità “per natura” violenta a cui la donna “deve” sottomettersi.
Eppure Dio stesso aveva insegnato diversamente, avendo mandato un angelo a Maria per chiederle il consenso per quanto stava per accadere. Nemmeno oggi la teologia morale – come del resto anche la morale laica – viene pensata in riferimento alla differenza dei “generi”.
Possiamo solo sperare che sia ormai totale l’oblio steso sulla Casti Connubi del 1930 che definiva “turpe e disonesto” impedire la funzione riproduttiva della genitalità e che l’attuale corso di studi dell’Università Gregoriana, dal titolo anodino “A cinquant’anni dall’Humanæ vitæ”, induca davvero, se non al rinnovamento della normativa, a ripensare la compatibilità dell’HV con l’Amoris lætitia di papa Francesco.
Resta il danno del permanere dell’immobilismo cattolico: si sa che il tempo perduto non si ricostituisce e i ritardi sono stati così controproducenti da continuare ad ostacolare la ricezione di un Concilio che, oltre cinquant’anni fa, volle essere “pastorale” e non più “dogmatico”. Giovanni XXIII calcolava l’effetto contagioso della crescita ordinata dei valori che non cambiano se noi che li interpretiamo, li traduciamo a divenire segni dei nostri tempi. I pontefici che hanno seguito la linea della successione apostolica non ebbero tutti stessa visione anticipatrice delle prevedibili trasformazioni, già scritte nell’agenda della storia.
Oggi i cattolici (ma non solo?) sono in caduta libera e molti giovani si sposano ancora in Chiesa solo per far piacere ai genitori e godere della ritualità fortunatamente sempre più sobria. Tuttavia non si può dimenticare che per i loro genitori e nonni il matrimonio aveva come principale finalità “la riproduzione, insieme con la reciproca assistenza e (orribile dirlo in un sacramento) il remedium concupiscentiæ”.
Il Concilio Vaticano II ha voluto che fondante del matrimonio sia, finalmente, l’amore: anche gli intransigenti che domandano, sempre più arrabbiati, “dove andremo a finire con questo papa Francesco?”, debbono riconoscere che i veri “valori” crescono nella libertà propria “dei figli di Dio” e, soprattutto, nell’amore. È questo che umanamente lega, in forma se volete indissolubile, le coppie: prescindendo dalle tipologie sessuali, l’ultima generazione deve poter pensare di fondare famiglie capaci di buona relazionalità e di estensione solidale con gli altri.
Giancarla Codrignani 4 luglio 2018
www.noidonne.org/articoli/lhumanae-vitae-di-paolo-vi.php
Amore, vita e fede. Teologi a confronto
Il racconto sul mutamento culturale odierno di fronte al tema degli affetti, dei legami, della fecondità. Su questa base è iniziato ieri pomeriggio a Torino il XXVII Congresso nazionale dell’Atism, l’associazione a cui aderiscono i teologi per la studio sulla morale, dedicato a «Sessualità. Differenza sessuale. Generazione. A cinquant’anni da Humanæ vitæ ».
Un tema «significativo, che richiede studio, sapienza e capacità autentica di discernimento» come ha sottolineato, nel suo saluto, il teologo Roberto Repole, presidente dell’Ati (Associazione teologica italiana). I lavori si sono aperti con una sessione pubblica alla facoltà teologica torinese con spunti di riflessione su «Persone e affetti, legami e fecondità» offerti dal sociologo Franco Garelli, che ha scelto di partire dal frutto delle sue ricerche, sia in ambito della religiosità che sui giovani, per tratteggiare i cambiamenti in ambito affettivo e sessuale che coinvolgono in particolare i giovani, ma non solo. «In un continuo protrarsi della giovinezza, in un contesto sociale che indica il raggiungimento del benessere nell’equilibrio corpo-spirito attraverso il sesso» ha evidenziato il sociologo. Sul tema Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, vicepresidente della Cei ha posto l’accento sul fatto che siamo in un contesto culturale che ha due gravi problemi: «Il primo riguarda il rapporto tra affetti e scelta di vita. Un tempo affetto, scelta di vita e fede andavano insieme, ma era un contesto di cultura e di ambiente di cristianità differente da oggi. Adesso questo passaggi vanno tutti accompagnati e fatti crescere insieme». Brambilla ha poi indicato che il secondo dato culturale per cui è difficile far passare «la visione cristiana, l’antropologia cristiana, è la difficoltà a comprendere la polarità maschio-femmina», è necessaria quindi «una riflessione rigorosa e poi una elaborazione dei linguaggi che tenga conto della prospettiva antropologica e che questa prospettiva ha una dimensione storica. La prospettiva antropologica – sostiene – deve coordinare affetto, emozione sentimento, scelta di vita, scelta di vita stabile, fede e sacramento».
Altro contributo alla riflessione, guidata da Salvatore Cipressa, segretario Atism, è stato offerto dalla psicologa Anna Bertoni, docente all’Università Cattolica di Milano, che ha messo l’accento sulla situazione contemporanea del rapporto tra sessualità, amore, generazione. «Tutte le tematiche – spiega Basilio Petrà, presidente dell’Atism – sono al centro del dibattito e del vissuto contemporaneo, specialmente in ambito occidentale. Con questo congresso abbiamo la possibilità di convogliare risorse intellettuali e spirituali per fare il punto della situazione e su quanto si possa rispondere adeguatamente alle sfide contemporanee osservando tutta la prospettiva valoriale, ma anche aprendosi alle nuove realtà. La nostra preoccupazione è quella di riuscire ad andare incontro al vissuto dei credenti».
Chiara Genisio Avvenire 4 luglio 2018
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180704genisio.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
MATRIMONIO
Matrimonio forzato: cosa fare?
Ti ritrovi, dopo alcuni anni di matrimonio, a chiederti quanto hai davvero voluto sposarti. Oggi, che puoi meditare più attentamente sulla tua scelta, hai l’impressione che sia stata solo il frutto di una costrizione. Da un lato c’era tua madre e le sue paure che tu potessi rimanere zitella, sola e senza figli. Dall’altro lato tuo padre, che ti ha – anche se non espressamente – minacciato di non poterti mantenere in eterno ed ospitare a casa sua. Poi lui, il tuo fidanzato di sempre, che ti ha costretto a salire sull’altare quasi di peso perché, a suo dire, nessun altro ti avrebbe mai accettato con tutti i tuoi problemi. E per rendere più dolce la pillola ti ha anche promesso un posto di lavoro. Non solo, sempre il tuo attuale marito – bell’amore, il suo! – ti aveva minacciato: se gli avessi chiesto più tempo per riflettere ti avrebbe lasciato. Di fronte a tutti questi fatti, che ora rivedi con maggior chiarezza, ti chiedi come riprendere in mano la tua vita. Cosa stabilisce la legge a riguardo? In caso di matrimonio forzato cosa fare? Di questo parleremo nel seguente articolo. Ti spiegheremo cioè come annullare il matrimonio o, in alternativa, separarti. Ed eventualmente cosa ti spetta.
Matrimonio fatto con violenza psicologica: come annullarlo? Per dirsi addio con il coniuge non c’è solo la separazione e il successivo divorzio. Esistono anche l’annullamento del matrimonio e la dichiarazione di nullità: il primo per i vizi del consenso meno gravi (ad esempio un errore sulle qualità della persona), il secondo per i vizi più gravi (ad esempio, il consenso estorto con la violenza fisica).
La legge prevede la possibilità di chiedere, in tribunale, l’annullamento del matrimonio per violenza psicologica o, per dirla più in termini giuridici, per violenza morale. Si deve trattare di una coercizione “mentale” (non fisica) tale da condizionare il consenso del coniuge. Non tutte le violenze morali però possono dar luogo ad annullamento. Si deve trattare di una minaccia grave ed effettiva, tale cioè da far temere un male ingiusto e notevole tenendo conto della sensibilità personale e dello stato soggettivo del coniuge. Può essere espressa con qualsiasi mezzo (parole, gesti, scritti) ed essere esplicita o manifestata indirettamente attraverso comportamenti intimidatori.
Oggetto della violenza è la persona oppure i beni dello sposo o dei suoi prossimi congiunti. Secondo la giurisprudenza non costituisce violenza la generica minaccia dei genitori di cacciare la propria figlia da casa per aver avuto rapporti intimi con il fidanzato.
Non si può ricorrere all’annullamento del matrimonio per violenza quando il matrimonio è semplicemente imposto dal fidanzato o “spinto” dai genitori in modo ossessivo. Nel caso del padre o della madre che convincono la figlia a sposarsi solo perché altrimenti non avrà compagnia o figli non si può parlare di annullamento del matrimonio per violenza. Al contrario si può ricorrere al giudice quando il matrimonio viene posta come l’unica via per sottrarsi a un pericolo e come la scelta del male minore. Il timore deve essere di eccezionale gravità e consistere in un grave sentimento di paura in grado di condizionare la manifestazione del consenso. Il fatto di sminuire le doti di una persona al fine di ottenere il suo consenso al matrimonio non è considerabile violenza, così come non lo è la minaccia di interrompere il fidanzamento.
Si può annullare il matrimonio ad esempio quando si decide di sposarsi per sottrarsi a una violenza o persecuzione politica, sociale o familiare.
Il timore putativo ossia privo di riscontri oggettivi e basato esclusivamente su un sentimento di angoscia o disperazione sorto nell’animo del coniuge e quello reverenziale (lo stato di soggezione psicologica basato su sentimenti di ossequio e reverenza), non giustificano l’annullamento del matrimonio.
L’annullamento non può essere richiesto se gli sposi hanno coabitato per un anno dopo la cessazione della violenza o delle cause che hanno determinato il timore di eccezionale gravità oppure dalla scoperta dell’errore.
Annullamento [nullità] del matrimonio alla Sacra Rota. Come è facile vedere, chiedere l’annullamento del matrimonio al tribunale civile è molto difficile e scatta solo in casi di eccezionale gravità. Non resta che rivolgersi alla Sacra Rota. Un tipico caso in cui si può ricorrere al tribunale ecclesiastico è quando vi è la mancanza di consenso da parte di uno dei coniugi o di entrambi al matrimonio, compresa la riserva mentale e la simulazione che si ha quando i coniugi, prima di sposarsi, si sono messi d’accordo per non adempiere agli obblighi e non esercitare i diritti matrimoniali («Mi sposo, ma tanto so già che divorzieremo»). È sia il caso dello straniero che si sposa per acquisire la cittadinanza del coniuge o dell’Italiano stesso che lo fa per ottenere la reversibilità della pensione o per esaudire il desiderio dei genitori di regolarizzare una situazione attraverso il cosiddetto matrimonio riparatore (la classica ragazza rimasta incinta senza volerlo).
La sentenza deve essere poi convalidata dal tribunale italiano. La convalida però viene negata se la coppia ha convissuto per almeno 3 anni. Dopo tale termine quindi l’annullamento ha solo effetti per la Chiesa cattolica, ma non anche per lo Stato e, ai fini della legge, la coppia resta sposata.
La separazione e il divorzio. Se non ricorrono le cause che abbiamo appena elencato o la coppia ha convissuto da più di tre anni non resta che la separazione e il successivo divorzio.
Dichiarare di essersi sposati senza averlo effettivamente voluto non è una colpa e, quindi, non scatta il cosiddetto “addebito”. Ad esempio, in una coppia ove la moglie è disoccupata e chiede la separazione perché si accorge di non aver mai amato davvero il marito, a questa spetterà ugualmente l’assegno di mantenimento visto che non le può essere imputato alcun addebito per la confessione.
Di certo, la scelta di procedere con la carta della nullità o dell’annullamento del matrimonio mette al riparo l’ex coniuge dalle richieste di pagamento di assegni mensili
Redazione La legge per tutti 2 luglio 2018
www.laleggepertutti.it/218865_matrimonio-forzato-cosa-fare▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
NATALITÀ
Fecondazione: sondaggio, donne congelano ovociti in attesa dell’uomo ‘giusto’
Non è la sete di carriera o semplicemente la ricerca di un impiego fisso a spingere la donne a congelare i propri ovociti (il cosiddetto ‘social freezing’), bensì la mancanza di un partner stabile o meglio dell’uomo perfetto con cui avere un bambino. Un scelta che viene fatta, dunque, in attesa non tanto del momento, quanto più che altro di un partner che voglia impegnarsi.
Sono le conclusioni a cui è giunto uno studio degli antropologi della Yale University presentato al congresso della European Society of Human Reproduction and Embryology (Eshre) in corso a Barcellona.
I ricercatori hanno intervistato 150 donne che si sono rivolte a 4 cliniche di fecondazione in vitro negli Stati Uniti e 3 in Israele e che avevano completato almeno un ciclo di congelamento degli ovociti per motivi sociali e non medici.
Più di 4 su 5 (l’85%) non aveva un partner in quel momento.
“Molte persone credono erroneamente che le donne conservino le loro uova per motivi ‘frivoli’ – dicono gli esperti – la letteratura medica e la copertura mediatica sul tema della crioconservazione degli ovociti di solito suggeriscono che questo metodo viene usato per rinviare o ritardare la gravidanza fra donne che perseguono un’istruzione di altissimo livello o la propria carriera.
Il nostro studio, tuttavia, suggerisce che la motivazione primaria è la mancanza di un partner che si impegni in un progetto di genitorialità”.
La pianificazione della carriera risulta infatti un motivo meno comune, anche tra le donne che lavorano in aziende che offrono il congelamento degli ovociti incluso nella propria assicurazione sanitaria.
Commentando i risultati del sondaggio Virginia Bolton della Fertility Society ha dichiarato: “Penso che nella società ci sia ancora questo malinteso: che le donne scelgano questa opzione per motivi poco rilevanti: perché preferiscono avere una carriera e comprare borse firmate, piuttosto che diventare madri.
Adnkronos Salute 3 luglio 2018
www.paginemediche.it/news-ed-eventi/fecondazione-sondaggio-donne-congelano-ovociti-in-attesa-dell-uomo-giusto
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
NULLITÀ MATRIMONIALI
Il vescovo potrà avvalersi di collaboratori più esperti in diritto canonico
La Congregazione per l’Educazione cattolica modifica un paragrafo della istruzione pubblicata il 29 aprile 2018 per l’applicazione dei due motu proprio del Papa
www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20180428_istruzione-diritto-canonico_it.html
La Congregazione per l’Educazione cattolica modifica un paragrafo della istruzione indirizzata alle facoltà e istituti di diritto canonico di sua competenza con cui vuole favorire l’applicazione della riforma voluta da Francesco sulle nullità matrimoniali con i motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus. Lo rende noto il prefetto della Congregazione, il cardinale Giuseppe Versaldi, in un articolo pubblicato sulla edizione odierna de L’Osservatore Romano in cui spiega che si tratta del paragrafo numero 2 del documento relativo al ruolo del vescovo nei processi canonici per le cause di nullità matrimoniale.
Il nuovo paragrafo – la cui modifica, spiega Versaldi, gli è stata concessa dal Papa nell’udienza del 5 giugno scorso – sottolinea che al vescovo è richiesto che «abbia conseguito la laurea dottorale o almeno la licenza in sacra Scrittura, teologia o diritto canonico in un Istituto di studi superiori approvato dalla Santa Sede oppure sia almeno veramente esperto in tali discipline». «Tale conoscenza delle scienze sacre (anche senza gradi accademici), insieme alla grazia sacramentale dell’ordinazione episcopale, è sufficiente per rendere ogni vescovo per sua natura pienamente idoneo ad istruire il processo matrimoniale, anche quello più breve», sottolinea l’istruzione. «Ciò non toglie – e questa è la novità – che la prudenza possa consigliare al vescovo di avvalersi di collaboratori ancor più esperti in diritto canonico; tuttavia ciò è sempre lasciato alla sua piena discrezionalità a seconda delle circostanze nei singoli casi».
Le disposizioni contenute nel documento pontificio, sottolinea il cardinale, sono date perché «si favorisca non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio».
Il Dicastero si rivolge dunque alle proprie istituzioni accademiche, «perché – spiega Versaldi – si mettano in sintonia con questo spirito della riforma prestando le proprie strutture alla formazione di persone esperte in diritto matrimoniale anche senza giungere ai titoli accademici». A questo scopo, l’istruzione traccia «una mappa dei diversi ruoli implicati nel processo matrimoniale alla luce delle nuove disposizioni canoniche».
Oltre alle tradizionali figure descritte e normate dal diritto canonico (il vescovo, l’istruttore o uditore, l’assessore, il moderatore della cancelleria, il notaio, gli avvocati), l’istruzione si sofferma specialmente sulla figura dei «consulenti», ovvero «coloro che avviano il processo di nullità mediante l’indagine previa prima dell’inizio formale del processo». «Sono le persone più a contatto diretto con le coppie in crisi, da cui sovente dipende il buon esito del processo e della credibilità della Chiesa», dice il cardinale.
L’istruzione elenca tre categorie, «quasi dei cerchi concentrici attorno al vero e proprio processo canonico»: «i parroci (primo livello), membri di una struttura stabile come i consultori in cui operano anche esperti in scienze umane (secondo livello) e avvocati che possono poi accompagnare anche durante il processo (terzo livello)».
Per tutte queste persone l’istruzione invita a predisporre «percorsi formativi differenziati in relazione allo scopo specifico di ciascuna categoria senza pretendere per tutti la stessa competenza, ma anche senza lasciar mancare una adeguata preparazione sia teologica sia canonistica». Per Versaldi è importante precisare «che tutte le disposizioni dell’istruzione sono mirate ad aiutare innanzitutto i vescovi nella loro primaria e insostituibile funzione di responsabili del processo di nullità, specialmente per quanto riguarda il processo più breve».
Redazione Vatican insider news 06 luglio 2018
www.lastampa.it/2018/07/06/vaticaninsider/nullit-matrimoniali-il-vescovo-potr-avvalersi-di-collaboratori-pi-esperti-in-diritto-canonico-FDvWcbveiBQBJ74QsSCIzO/pagina.html
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
OMOGENITORIALITÀ
Divieto di fecondazione eterologa, primo ricorso di una coppia gay alla Consulta
Alla coppia omosessuale l’Azienda sanitaria 5 di Pordenone ha rifiutato l’accesso alla tecniche di fecondazione eterologa, come previsto dalla legge. Ma il giudice la pensa diversamente
Non c’è pace per la legge 40/2004, negli anni scorsi sconvolta nel suo impianto originario a colpi di sentenze e di ricorsi alla Consulta nel tentativo di rendere tutto possibile in fatto di procreazione. Il Tribunale di Pordenone –- giudice Maria Paola Costa -– ora ha accolto la richiesta di una coppia di donne omosessuali di sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme – nella fattispecie la legge 40 – che attualmente vietano in Italia l’accesso alla procreazione medicalmente assistita anche alle coppie omosessuali. Sul procedimento, dunque, si pronuncerà ora la Corte Costituzionale.
Alla coppia era stato rifiutato l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale dal Servizio per i trattamenti di Procreazione Medicalmente Assistita presente nell’Azienda Sanitaria 5 di Pordenone, proprio in base a quanto prevede la normativa, che vieta l’accesso alla provetta alle coppie gay e anche ai single. Di fronte al diniego della struttura pubblica, le due donne avevano chiesto al giudice, qualora non fosse stato possibile in via diretta – ovvero con un’interpretazione costituzionalmente orientata – superare il rifiuto dell’Azienda Sanitaria, di investire della questione la Corte Costituzionale, al fine di dichiarare formalmente l’incostituzionalità di tale divieto.
E così il giudice pordenonese ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione posta dalla legale della coppia, stante il palese contrasto del divieto con gli articoli 2, 3, 31 comma 2 e 32 comma 1 della Costituzione (quelli cioè relativi ai diritti degli individui e alla loro uguaglianza innanzi alla legge) nonché con l’articolo 117 comma 1 della Costituzione (che prevede il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Cedu), il primo incentrato sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, il secondo sul divieto di discriminazione.
Redazione Interni mercoledì 4 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/eterologa-alla-consulta-il-ricorso-di-una-coppia-di-donne
Pesaro. La procura stoppa il «doppio padre»: «No alla registrazione dei figli»
La coppia ha due gemelli da madre surrogata in America. I giudici hanno impugnato la trascrizione dell’atto di nascita dei bambini, effettuata dal Comune
Torino, Roma, Catania. E pure Gabicce Mare (Pesaro) e Crema (Cremona). Sono alcuni dei Comuni che hanno trascritto certificati di nascita rilasciati da un Paese estero, relativi a bimbi “commissionati” da coppie omosessuali e ottenuti attraverso l’assemblaggio di diverso materiale genetico e la gestazione in un utero affittato.
Una pratica, quella della maternità surrogata, che la legge penale italiana vieta. E un riconoscimento, quello dell’atto di nascita estero, che cozza (anche) il nostro codice civile secondo cui madre (dunque genitore) è colei che partorisce. Ed ecco che, dopo mesi di silenzio, una Procura si è mossa per vederci chiaro.
E’ quella di Pesaro, che ha competenza sulla cittadina litoranea: notizia di stamattina è l’impugnazione della trascrizione dell’atto di nascita di due gemelli effettuata dal Comune, perché “non basta produrre un documento californiano con la scritta i gemelli hanno due padri per farci stare tranquilli”, hanno spiegato al Resto del Carlino i magistrati inquirenti, ma “sarà necessario”, hanno aggiunto, chiederanno “di sottoporre alla prova del Dna bimbi e genitori intenzionali”.
Che sono due uomini, albergatori, che hanno 57 e 34 anni. A fondare l’iniziativa del sostituto procuratore Silvia Cecchi, per quanto si sa ora, non è il reato di maternità surrogata, ma la trascrizione del certificato estero. In parole povere, dunque, il fatto che per la legge – contrariamente a quanto natura vuole – quei bimbi possano essere ritenuti figli di due padri.
La questione, dal punto di vista giuridico, è molto intricata. Se è vero infatti che l’Italia, da un lato, è obbligata a riconoscere gli atti esteri validamente emessi nel Paese di provenienza, dall’altro il nostro diritto internazionale vieta ciò quando l’oggetto di un certificato sia contrario all’ordine pubblico, e cioè ai principi irrinunciabili del nostro ordinamento.
La Cassazione, con sentenza 24001 del 2014, aveva ritenuto impossibile riconoscere “genitori” – e proprio per contrarietà all’ordine pubblico – due persone che avevano comprato un bimbo attraverso la maternità surrogata compiuta all’estero. E attenzione: in quel caso, si trattava di una coppia etero, ma per i supremi giudici, in ogni caso, il fatto che l’utero in affitto fosse vietato dalle nostre leggi impediva il riconoscimento dei suoi frutti.
Da quel momento, però, le magistrature chiamate a decidere casi simili via via presentatisi (e resi ancor più problematici dal fatto che “committenti” hanno iniziato a essere pure coppie omosessuali) si sono rese protagoniste di sentenze contrastanti. Di sicuro, una situazione di fatto contraria a un principio cardine del nostro ordinamento, la certezza del diritto. Fatto sta che, ora, la trascrivibilità o meno dei certificati di nascita provenienti da maternità surrogata è ancora rimessa al giudizio della Suprema Corte. Stavolta – proprio alla luce della confusione creatasi – ha scelto di pronunciarsi a Sezioni unite. Quanto deciso, dunque, sarà pressoché vincolante per tutti i giudici chiamati a decidere casi simili. Il verdetto è atteso in autunno.
Marcello Palmieri Avvenire 4 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/pesaro-la-procura-stop-al-doppio-padre
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
OMOMATRIMONIO
Trascrizione matrimoni omosessuali all’estero, giurisdizione al giudice ordinario
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 16957, 27 giugno 2018.
www.diritto.it/get-file-documento/?id=60120&mode=s
La questione circa la trascrivibilità o meno sui registri di stato civile italiani di un matrimonio contratto all’estero da soggetti dello stesso sesso, attiene allo status delle persone. La relativa controversia, pertanto, va proposta dinanzi al giudice ordinario.
E’ questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la pronuncia n. 16957 del 27 giugno 2018.
Il Prefetto di Roma disponeva l’annullamento della trascrizione del matrimonio contratto all’estero da due donne, dando ordine all’ufficiale di stato civile del Comune di provvedere a tutti i conseguenti adempimenti. Le interessate ricorrevano al Tar Lazio, il quale, dopo aver riconosciuto l’insussistenza di qualsivoglia diritto alla trascrizione negli atti di matrimonio tra coppie dello stesso sesso contratti all’estero, nondimeno giudicava illegittimo il provvedimento prefettizio che decretava l’annullamento della trascrizione medesima. La controversia giungeva in seguito al Consiglio di Stato che, accogliendo il gravame del Ministero dell’interno, riformava la sentenza impugnata respingendo l’originario ricorso delle donne.
Queste ultime si rivolgevano dunque alla Corte di Cassazione, lamentando, tra l’altro, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per violazione dell’art. 8 comma 2 cod. proc. amm., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe pronunciato, in via incidentale, sullo status matrimoniale delle ricorrenti, ovvero su una questione concernente la posizione soggettiva dell’individuo, come tale preclusa al giudice amministrativo e riservata a quello ordinario.
La censura in fatto di giurisdizione è ritenuta fondata dagli Ermellini, i quali rammentano che in base all’art. 8 cod. proc. amm., “il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale. Restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso”.
Ebbene, non pare dubbio al Supremo Collegio che la decisione impugnata abbia violato il suindicato art. 8, comma 2, cod. proc. amm., atteso che la sua argomentazione muove dalla premessa della inesistenza, invalidità o inefficacia, nell’ordinamento interno, di matrimoni celebrati all’estero da persone dello stesso sesso; muove, ossia, da una premessa che è insuscettibile di accertamento in via incidentale, a ciò ostando il chiaro dettato del citato art. 8.
Del resto, come enunciato in altra occasione dalla Consulta, la ultradecennale tradizione di riservare al giudice civile la risoluzione di controversie sullo stato delle persone, risponde alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes – una sede ed un modello processuale unitari, così da evitare il rischio di contrastanti pronunce che minerebbero la fiducia verso determinati atti, ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi. Accolto dunque il vizio inerente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio ad altra sezione del Consiglio di Stato.
Redazione Giurisprudenza commentata
www.diritto.it/trascrizione-matrimoni-omosessuali-allestero-giurisdizione-al-giudice-ordinario/
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
POLITICHE PER LA FAMIGLIA
Ridistribuire non basta. Urgenti scelte organiche per la famiglia
Il paradosso dei figli nella società contemporanea aiuta a capire il problema della famiglia. I figli sono visti spesso come un ostacolo insopportabile a carriera e opportunità di scelta, da aggirare a ogni costo quando si è giovani. Diventano un desiderio tardivo e spesso vanamente perseguito da adulti quando la fertilità crolla più rapidamente che in passato. Gli studi sulla soddisfazione di vita aiutano a capire. Gli intervistati dichiarano che i figli contribuiscono in modo decisivo a ricchezza e senso della vita, e in misura crescente man mano che l’età avanza.
Nella fascia tra i 20 e i 35 anni però paradossalmente riducono la soddisfazione perché si fa fatica a conciliare famiglia e lavoro. I giovani italiani non hanno perso il desiderio dei figli perché come ci ricorda nelle sue ricerche Alessandro Rosina ne vorrebbero almeno due. Ma la povertà di tempo, denaro e sicurezze lavorative rende molto difficile la realizzazione del progetto. Aggiungiamo a questo la scomparsa di un’educazione sentimentale che aiuti i giovani a capire che le relazioni sono un investimento e non un bene di consumo usa e getta che ci lascia più insoddisfatti di prima e possiamo capire perché in tutti i Paesi ad alto reddito (ad eccezione di Israele) i tassi di natalità sono inferiori al tasso di riproduzione della popolazione.
In campagna elettorale la natalità è stata di nuovo una bandiera per tutti, a cominciare dai sovranisti. Ed è stata agitata spesso in alternativa all’idea che potessero essere i migranti a evitare il progressivo invecchiamento della popolazione e tutte le conseguenze negative, sociali ed economiche, di questo processo.
La storia europea recente dimostra che per aiutare la famiglia ci vogliono politiche specifiche e non basta una generica ridistribuzione del reddito. In un recente articolo su questo giornale Massimo Calvi ricordava gli esempi francese, tedesco, polacco e scandinavo. Dove con un mix di interventi come fondi per il quoziente familiare, bonus bebè, politiche di conciliazione lavoro-famiglia, assegni familiari e politiche per gli asili nido si è in qualche modo tentato di invertire la tendenza (con successo nei casi delle politiche più decise come quella francese fino a qualche tempo fa).
Per questo il governo in carica non può pensare di realizzare uno dei propri punti di programma politico con generiche politiche ridistributive (se e quando saranno realizzate) come la flat tax e il reddito di cittadinanza. La politica per la famiglia ha una propria specificità, è insostituibile e ormai non più rinviabile. Certo, poiché viviamo sotto la spada di Damocle del vincolo di bilancio, l’abilità sta nel trovare soluzioni non velleitarie che possano passare il vaglio del Tesoro. Sarebbe pertanto il caso, per cominciare, di riprendere il progetto del voucher universale per i servizi alla famiglia e alla persona contenuto in una proposta di legge completata e mai approvata.
Proposta che utilizzava la stessa logica del bonus per le ristrutturazioni edilizie per favorire con una robusta politica di detrazioni spalmate nel tempo l’emersione dal nero di una serie di attività (in quel caso ristrutturazioni edilizie in questo servizi alla famiglia) riducendone il costo e favorendone lo sviluppo. Un’altra idea a costo zero è quella di dare uno stimolo ulteriore allo sviluppo dello smart work, il cosiddetto lavoro agile. www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx
Come è noto la rivoluzione della rete ci consente di superare la necessità di essere nello stesso luogo nello stesso istante di tempo per poter lavorare insieme. Nella stragrande maggioranza di lavori senza attività “a sportello” è assolutamente possibile lavorare uno/due giorni a settimana a distanza eliminando quei costi di spostamento che aumentano l’inquinamento e sono tempi morti non graditi che riducono le possibilità di conciliazione famiglia-lavoro. Con una spinta gentile (ad esempio un contributo per l’acquisto di computer portatili in azienda) o ancor più decisamente, con qualche elemento coercitivo, il governo potrebbe accelerare questa importante rivoluzione.
Altrettanto importante non cadere nella tentazione di una semplificazione delle misure ridistributive (per esempio nella costruzione del nuovo Rei [reddito di inclusione] allargato) e fiscali che non riconosca i bisogni e le urgenze maggiori dei nuclei familiari in una visione che mette al centro l’individuo e non la persona e le sue relazioni familiari. Siamo tutti consapevoli che le difficoltà di natalità e famiglia hanno radici profonde nello smarrimento del valore della generatività (in senso biologico e in senso più ampio) che è la vera fonte di ricchezza di senso della nostra vita. E nella mancanza di un’educazione a coltivare con pazienza la vita di relazioni. Gli aspetti sociali ed economici però contano, eccome, e dobbiamo interrogarci su come possiamo volgerli in positivo a partire dai vincoli e delle opportunità della situazione corrente.
Leonardo Becchetti Avvenire 1 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/ridistribuire-non-basta
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
SESSUOLOGIA
Liquido seminale ‘sentinella’ impatto ambientale sull’uomo
Il liquido seminale può essere considerato una matrice più affidabile e precoce del sangue nel valutare l’impatto ambientale sulla salute umana.
E’ quanto hanno messo in evidenza gli studi dell’uroandrologo Luigi Montano, copresidente della Siru (Società italiana della riproduzione umana), che ha sviluppato la sue ricerche sul liquido seminale come ‘bioindicatore’ partendo dalla drammatica casistica della ‘Terra dei fuochi’, in cui vive e lavora, zona ad alto rischio per l’inquinamento e il correlativo incremento di patologie cronico-degenerative.
Al congresso europeo dell’Eshre (Società europea di riproduzione umana), che si conclude oggi a Barcellona, su circa 1000 poster presentati quello di Montano (EcoFoodFertility Project) è stato selezionato tra i migliori 4. “Lo studio presentato – spiega Montano – apre nuovi scenari per il monitoraggio sanitario delle popolazioni che vivono in zone ad alto rischio e per programmi innovativi di prevenzione primaria.
Gli spermatozoi, per facile reperibilità e alta sensibilità agli inquinanti ambientali, possono essere considerati dei bioindicatori ‘ideali’ del danno ambientale e sentinelle attendibili della stato di salute dell’uomo, vista, peraltro, la stretta relazione fra infertilità, patologie croniche, comorbidità e mortalità”.
“Il seme – sottolinea – è infatti un bioaccumulatore di sostanze contaminanti: analizzandolo non solo è possibile qualificare e quantificare tali sostanze, ma anche valutare direttamente il loro effetto sugli spermatozoi che, a differenza degli ovociti (la riserva ovarica nella donna è già presente alla nascita e si consuma progressivamente fino alla menopausa), dalla pubertà in poi si producono continuamente con più stadi replicativi e più possibilità di subire mutazioni”, conclude l’uroandrologo.
AdnKronos Salute 4 luglio 2018
www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=44723
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
STALKING
Stalking, rieducazione e “promising practises”
Un saggio della che inquadra il reato di cui all’art. 612-bis c.p. e affronta un caso pratico avanti al Tribunale di Sorveglianza. Il lavoro si articola in due parti; una prima inquadra in modo più generico il reato di cui all’art. 162-bis c.p.; la seconda riguarda, in modalità anonimizzata e nel rispetto della privacy, un caso concreto affrontato da Monica.
L’art. 612-bis c.p. Violenza di genere, stalking, femminicidio, sono termini divenuti oggi tristemente ricorrenti. Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011 la violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione (art. 3 lett. a); I paesi dovrebbero esercitare la dovuta diligenza nel prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli (art. 5).
Il delitto di atti persecutori, meglio noto come stalking,, è normato in Italia dall’art. 612 bis c.p. che recita “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
In realtà la difesa delle donne vittime di violenza non può essere semplicemente affidata ad una legge. Sarebbe, invece, opportuno analizzare l’aspetto sociale di questa problematica che nasce da una forma di discriminazione, ancora profondamente radicata all’interno della nostra società, nei confronti delle donne costrette ad una posizione subordinata rispetto agli uomini.
La caratterizzazione del reato di stalking, è data dall’accento che viene posto non tanto sulla condotta criminosa dello stalker quanto sulle conseguenze che esso produce nella vita della vittima introducendo, infatti, categorie psico-sociologiche come “stato di ansia”, “relazione affettiva”, “abitudini di vita”.
Grazie all’art. 612 bis c.p.c. il reato di stalking, ha finalmente un nome, e può essere punito con la reclusione fino a cinque anni che, spesso, non è comunque sufficiente a tutelare le vittime, questo perché, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Stalking, almeno un persecutore su tre è recidivo e dopo la denuncia o la condanna torna a perseguitare la vittima.
Nonostante i dati relativi a questo fenomeno siano allarmanti raramente le istituzioni se ne fanno carico, limitandosi a mettere in atto misure quali l’allontanamento o al massimo la detenzione che assumono, così, sia una valenza punitiva sia una funzione di controllo della pericolosità sociale, che risulta, in questo modo, essere una tutela a “termine”.
La sola coercizione non è sufficiente a renderlo consapevole dei suoi errori e i casi di cronaca ne sono la prova sconcertante.
Il “persecutore” è un individuo che presenta gravi difficoltà ad accettare ed elaborare un abbandono a causa di un disagio psicologico pregresso e sarebbe, per questo, importante che il legislatore prevedesse anche un percorso per il reo conformandosi a quanto espresso dal Consiglio d’Europa che, tra le altre cose, invita gli stati membri a: “Dare la possibilità agli autori di violenza di seguire un programma di trattamento, non come alternativa alla sentenza di condanna, ma come misura aggiuntiva volta a prevenire futura violenza. La partecipazione a tali programmi dovrebbe essere offerta su base volontaria”.
Giungiamo, così, a ribadire il principio del finalismo rieducativo sancito dall’art. 27 della Costituzione (“Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”) che presuppone la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato, attivando la funzione della prevenzione speciale che consiste nell’eliminare il pericolo che il soggetto ricada in futuro nel reato.
Un caso pratico affrontato avanti al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila. Gli istituti carcerari e l’UEPE si adoperano per realizzare progetti atti a riabilitare il reo ad una vita sociale “normale”. Quando, però, ci troviamo di fronte a reati come quello di stalking, commessi da chi ha un disagio psicologico, sarebbe buona norma affiancare al percorso riabilitativo un percorso rieducativo. Non è sufficiente, infatti, inserire lo stalker in un contesto lavorativo o di volontariato che, seppur utile, non può raggiungere da solo l’obbiettivo di eliminare la violenza maschile sulle donne bisognerebbe, piuttosto, promuovere programmi di cambiamento rivolti ai maltrattanti con interventi che tengano conto di fattori socio-culturali, fattori relazionali e fattori individuali.
Questi programmi non sempre possono essere sviluppati dalle istituzioni (per mancanza di fondi, tempo e risorse umane) ma, a volte, le promising practices [pratiche promettenti] possono essere tentate da soggetti privati.
È proprio questo il caso che ha permesso al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila di ammettere al regime di semilibertà, un detenuto condannato ad anni 3 e mesi 4 di reclusione per il reato ex art. 612 bis.
Questo risultato non va letto in direzione di uno sconto di pena, ma come un processo necessario per attivare nel reo una presa di coscienza delle condizioni che lo hanno portato a compiere quei gesti lesivi della dignità e dell’integrità psico-fisica della donna e, dunque, indispensabile per produrre in lui una determinazione al cambiamento.
Il percorso di riabilitazione (effettuato presso un centro specializzato di Roma) si propone di condurre il maltrattante a risultati caratterizzati da: messa in discussione di sé stesso, impegno nell’intraprendere un percorso attraverso la comprensione dei motivi profondi dei suoi comportamenti, assunzione di responsabilità, disponibilità all’ascolto, riflessione attivata spontaneamente, forte desiderio di cambiare. Il Progetto riabilitativo e psico-educativo ha preso piede in maniera un po’ insolita in quanto è nato grazie alla collaborazione tra lo studio legale che difende il reo ed un’assistente sociale libero professionista. I professionisti hanno predisposto il progetto, concordandolo naturalmente con il cliente, valutandone la fattibilità con l’istituto carcerario presso cui è detenuto, e presentando un’istanza al Tribunale di Sorveglianza che l’ha accolta favorevolmente.
Il lavoro multidisciplinare, che sta conoscendo negli ultimi anni uno sviluppo notevole, ha permesso di andare incontro ai bisogni del cliente guardandolo come persona nella sua “interezza” e non frammentata nei suoi singoli bisogni.
Il connubio tra la figura professionale dell’avvocato e quella dell’assistente sociale libero professionista, permette di offrire un servizio integrato di tutela legale e sociale che consente di realizzare un intervento di aiuto globale, attraverso un lavoro di rete attivandone di nuove e sostenendo quelle già esistenti, al fine di promuovere il benessere della persona.
Vi è, quindi, un accompagnamento del cliente in un cammino verso lo sviluppo dell’empowerment che viene svolto con una visione lungimirante di tutela della vittima e di recupero del reo.
Solo questa coincidenza di interessi potrebbe trasformare le “promising practices” in “best practice” [buona pratica].
Dott.ssa Monica Testa, assistente sociale News Studio Cataldi 3 luglio 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30953-stalking-rieducazione-e-quotpromising-practises-quot.asp
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. I suoi dati non saranno diffusi a terzi e saranno trattati in modo da garantire sicurezza e riservatezza.
Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus – 20135 Milano-via S. Lattuada, 14. Il responsabile è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea
.newsucipem@gmail.com
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
NewsUCIPEM n. 709 – 8 luglio 2018
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
ucipem@istitutolacasa.itwww.ucipem.com
“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984
Supplemento on line. Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
“News” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:
-
Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
-
Link diretti e link per download a siti internet, per documentazione.
I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.
Il contenuto delle news è liberamente riproducibile citando la fonte.
Per visionare i numeri precedenti, dal n. 534 andare su:
https://ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=category&id=84&Itemid=231
In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.comcon richiesta di disconnessione.
Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [invio a 1.539 connessi]
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
02 ABORTO VOLONTARIO Piemonte. I medici obiettori discriminati I ministri che dicono?
02 Obiezione alla pillola del giorno dopo, farmacista (di nuovo) assolta.
03 ADOTTABILITÀ Anche la madre decaduta dalla potestà può opporsi.
04 ADOZIONI INTERNAZIONALI Intervista di La Repubblica
04 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Genitore inadempiente – Sufficienti risorse dell’altro genitore.
05 ASSEGNO DIVORZILE Revocato: ex moglie non fornisce la prova dei redditi.
05 CHIESA CATTOLICA Comunione-matrimoni interconfessionali: i vescovi tedeschi vanno avanti.
06Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano.
07 Un bisogno nuovo di religione.
08 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA Conduttore gruppi coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
09La solitudine nella coppia: beneficio o pericolo?
09L’abuso psicologico nella relazione di coppia.
11 CONS. F. ISPIRAZIONE CRISTIANA A Tor de’ Cenci, un consultorio per trasformare la rabbia in speranza
12 CONTRACCEZIONE Piemonte: contraccezione gratuita per donne under 26 e disoccupate.
13 DALLA NAVATA XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2018.
13Gesù, troppo umano. Commento di Enzo Bianchi.
14 DEMOGRAFIA Pensioni e fertilità sono due facce della stessa medaglia.
15 DIRITTILa vita non è mai un bene di consumo
16 DIVORZIO Inammissibile la rinuncia di uno dei coniugi alla domanda.
16 FECONDAZIONE F. medicalmente assistita: solo 2 coppie su 10 hanno un figlio.
17 FRANCESCO VESCOVO DI ROMALa cavalcata del papa gaucho.
18 HUMANÆ VITÆ Così Joseph Ratzinger contestò le tesi di Paolo VI
19 L’indissolubilità del matrimonio non è una legge di natura.
19 L’Humanæ vitæ di Paolo VI
20 Amore, vita e fede. Teologi a confronto
21 MATRIMONIO Matrimonio forzato: cosa fare?
22 NATALITÀ Fecondazione, donne congelano ovociti in attesa dell’uomo giusto.
23 NULLITÀ MATRIMONIALI Il vescovo potrà avvalersi di collaboratori + esperti diritto canonico.
23 OMOGENITORITÀ Divieto fecondazione eterologa; ricorso di coppia gay alla Consulta.
24 La procura stoppa il doppio padre: «No alla registrazione dei figli».
25 OMOMATRIMONIO Matrimoni omosessuali all’estero, giurisdizione al giudice ordinario
25 POLITICHE PER LA FAMIGLIA Ridistribuire non basta. Urgenti scelte organiche per la famiglia.
26 SESSUOLOGIA Liquido seminale ‘sentinella’ impatto ambientale sull’uomo.
27 STALKING Stalking, rieducazione e “promising practises”
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ABORTO VOLONTARIO
Piemonte. I medici obiettori discriminati I ministri che dicono?
Quando si parla dell’agenda del nuovo Governo, i protagonisti fanno sempre riferimento al «contratto» che hanno stipulato: quello che c’è scritto sarà fatto, il resto sarà accantonato. Sulla questione antropologica, sempre divisiva, si è concordata tra gli alleati una “pax governativa”, una sorta di moratoria. Ma c’è un equivoco che va chiarito: il mondo va avanti, e mille cambiamenti significativi si riversano ogni giorno sugli italiani.
Il «contratto», come è ovvio, non può impedire che avvengano fatti a cui bisogna fornire una risposta urgente: se nel patto non c’è scritto nulla su alluvioni o terremoti, nel caso si verifichino sarà comunque indispensabile occuparsene. E così accade sui temi eticamente sensibili. Questo è tanto più necessario in quanto non è più in Parlamento che ormai passa la rivoluzione antropologica. In tutti i Paesi, ormai, quello che è stato definito “il mondo nuovo”, si radica e si afferma senza passaggi legislativi, considerati troppo rischiosi e troppo soggetti all’opinione pubblica. Le strade sono altre.
Ci sono i tribunali, la Corte costituzionale, le amministrazioni locali, i progetti nazionali e internazionali, i protocolli sanitari, le operazioni mediatiche e culturali, e mille altri rivoli attraverso cui si creano situazioni di fatto da cui poi non si torna più indietro. Due giorni fa, per esempio, il Consiglio regionale del Piemonte ha approvato una delibera intitolata “Indirizzi e criteri per garantire l’effettivo accesso alle procedure per l’interruzione della gravidanza”.
La motivazione è sempre lo stesso mantra sentito centinaia di volte: gli obiettori di coscienza sono troppi, e impediscono l’applicazione della legge sull’aborto. Peccato che la stessa Regione abbia trasmesso al Ministero della Salute dati che dicono l’esatto contrario. Nell’ultima relazione al Parlamento sull’applicazione della 194/1978, infatti, si può leggere che in Piemonte il numero dei cosiddetti punti Ivg – cioè le strutture in cui si possono effettuare aborti – supera quello dei punti nascita: 2,9 punti nascita contro 3,5 punti Ivg.
È più facile trovare un luogo dove abortire che uno dove far nascere un bimbo. Sempre dai dati raccolti dalla Regione sappiamo che il numero di aborti effettuati da ciascun ginecologo non obiettore è 1,3 a settimana. Un dato persino inferiore alla media nazionale, già molto bassa (1,6). E allora dove nasce l’allarme? Dal solito trucco: si cita solamente il numero assoluto degli obiettori, senza considerare se i medici non obiettori, quelli che cioè praticano gli aborti, sono in numero sufficiente a coprire la richiesta di Ivg oppure no.
È stato questo il cavallo di Troia con cui in questi anni si è portata avanti una ostinata battaglia, tutta ideologica, contro l’obiezione di coscienza, ignorando serenamente i dati reali. Il tocco surreale alla questione lo offre il contrasto schizofrenico tra quello che la Regione comunica al Ministero e quello che afferma nella delibera: da una parte si certifica che il carico di lavoro è assolutamente accettabile (poco più di un aborto a settimana) e dall’altra si sostiene che servono assolutamente più medici disposti a praticare aborti. Ma il nodo della delibera è un altro: dopo aver parlato di mobilità del personale all’interno della Regione (già prevista dalla stessa legge 194, quindi applicabile senza alcun bisogno di votare nuove delibere), si prospetta un’altra soluzione: le «assunzioni rivolte ai medici che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza».
È questo il vero obiettivo dell’iniziativa: assumere solo non obiettori, cioè discriminare e penalizzare chi osa obiettare; una strada, peraltro, già aperta da Zingaretti nel Lazio. Se non ci sarà un intervento chiarificatore del Ministro del Lavoro – per ricordare che non è possibile effettuare discriminazioni sul lavoro – e del Ministro della Salute – per ribadire la realtà dei dati raccolti dalla stessa Regione – l’attacco alla libertà di coscienza, che per tanti anni è stato efficacemente contrastato, avrà di nuovo successo. È questo è un male per tutti.
Eugenia Roccella Avvenire 5 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/medici-obiettori-discriminati-i-ministri-che-dicono
Trieste. Obiezione alla pillola del giorno dopo, farmacista (di nuovo) assolta
Assolta anche in appello. La scelta di Elisa Mecozzi, la farmacista di Monfalcone a processo per essersi rifiutata di vendere una confezione di “pillole del giorno” appellandosi alla clausola di coscienza, ha superato a pieni voti anche il secondo grado di giudizio, che ha confermato il verdetto del primo. La Corte d’Appello di Trieste ha assolto la dipendente della farmacia comunale della cittadina friulana per la quale il pubblico ministero – come già in primo grado nel processo davanti al Tribunale di Gorizia, a fine 2016 – aveva chiesto quattro mesi di condanna per il reato di omissione o rifiuto di atti di ufficio in quanto incaricata di pubblico servizio. I giudici triestini hanno dunque escluso la punibilità della condotta di fatto riconoscendo il diritto all’obiezione anche in farmacia.
I fatti risalgono al giugno di 5 anni fa. La farmacista, in turno di notte, aveva servito una donna che le si era rivolta con la prescrizione del suo ginecologo per l’assunzione in giornata della pillola del giorno dopo – commercialmente nota come Norlevo -, farmaco che va assunto entro le 24 ore da un rapporto potenzialmente fecondo. Il principio attivo impedisce l’annidamento nell’utero dell’ovocita eventualmente fecondato, e dunque dà luogo a un aborto sebbene precocissimo. La tesi è contestata da chi sostiene che la gravidanza inizia solo con l’annidamento e dunque non si potrebbe invocare l’obiezione di coscienza ex legge 194/1978, tesi accolta dall’Agenzia europea del farmaco che ha imposto anche all’Italia di mettere in vendita il Norlevo (co/me anche EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo) nella categoria dei farmaco da banco ma solo per le maggiorenni, senza dunque dover esibire la ricetta al farmacista. Ma la delibera dell’Agenzia italiana del farmaco Aifa è del marzo 2016, quindi successiva all’episodio di Monfalcone, con la duplice sentenza che perciò resta esemplare e destinata ad aprire la strada alla libertà di fare obiezione di coscienza anche ai farmacisti, una facoltà sinora assai contestata.
L’articolo 3 del Codice deontologico della categoria prevede infatti che “il farmacista deve operare in piena autonomia e coscienza professionale, conformemente ai princìpi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto per la vita” ma sinora si è sostenuto che il farmacista non potrebbe rifiutare contraccettivi più o meno d’emergenza se le autorità di farmacovigilanza non gli attribuiscono più la qualifica di “abortivi”. Va detto che nel verdetto dei giudici di Gorizia prima e di Trieste ora ha certamente pesato anche il fatto che il diniego della farmacista non ha impedito alla richiedente di rivolgersi a un’altra farmacia con professionisti non obiettori in servizio, e dunque non è stato leso alcun diritto o libertà.
La Corte giuliana ha “finalmente confermato l’assoluzione, riconoscendo la particolare tenuità del fatto e l’infondatezza delle pretese accusatorie”: lo sottolineano gli avvocati della farmacista Simone Pillon (oggi senatore della Lega) e Marzio Calacione. “Siamo ben felici- aggiungono i legali – che anche la Corte abbia voluto mandare esente da responsabilità penale la nostra assistita, che ha scelto coraggiosamente di seguire la voce della propria coscienza per difendere la vita umana fin dal concepimento. Speriamo tuttavia che nessuno sia più costretto a subire un processo penale per aver semplicemente messo in pratica i principi etici dettati dalla propria coscienza. Il nostro ordinamento giuridico già prevede la libertà di coscienza, come dimostrato da questa assoluzione, ma forse uno specifico chiarimento normativo potrebbe evitare infondati ma faticosi ricorsi allo strumento penale”.
Soddisfatto per la sentenza anche il Movimento per la vita italiano che tramite la sua presidente nazionale Marina Casini ricorda che “sulla base di autorevolissimi pareri e di studi (Comitato nazionale per la bioetica, Istituto superiore di sanità, Società italiana procreazione responsabile…)” si è già “dimostrato che la pillola del giorno dopo così come la pillola dei cinque giorni dopo, se il concepimento è avvenuto, ha un effetto uccisivo sull’embrione già formato.
A riguardo, il Movimento per la Vita ha redatto il X Rapporto sull’attuazione della legge 194 (“Dopo 40 anni per una prevenzione vera dell’aborto volontario”) a commento dell’annuale relazione ministeriale presentata il 7 dicembre 2016. Va aggiunto che anche nel caso di dubbio nessuno può essere costretto a compiere azioni che possono eventualmente sopprimere un essere umano”.
Francesco Ognibene Avvenire 3 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/obiezione-al-norlevo-farmacista-assolta
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ADOTTABILITÀ
Stato di adottabilità del minore: anche la madre decaduta dalla potestà può opporsi
Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza n. 16060, 18 giugno 2018.
www.studiofronzonidemattia.it/wp-content/uploads/2018/06/Cassazione-Civile-18.06.2018-n.-16060.pdf
Lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità del minore ricorre solo allorquando i genitori non sono in grado di assicurare al minore quel minimo di cure materiali, di calore affettivo, aiuto psicologico indispensabile per lo sviluppo e la formazione della sua personalità e la situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio, tale essendo quella inidonea a pregiudicare lo sviluppo psico-fisico del minore. (…)
Punto di diritto 20 giugno 2018
www.avvocatoamilcaremancusi.com/adottabilita-minore-madre-decaduta-potesta-genitoriale-opposizione
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ADOZIONI INTERNAZIONALI
Intervista di La Repubblica
Lo senti tuo? Quanto si adotta in Italia? Solo i ricchi possono adottare? L’adozione è una scelta da super eroi? Domande ricorrenti che trovano una risposta nello speciale di Cecilia Greco “Dove lo avete comprato?”: antidoto in quattro mosse allo stupidario sulle adozioni pubblicato su Repubblica.it.
http://lab.gedidigital.it/repubblica/2018/cronaca/adozioni/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
Un elenco di esperienze, dati e norme che non sempre si conoscono, raccolte attraverso interviste a figli e genitori adottivi, al presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali, Laura Laera, al presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia, Cristina Maggia, a Marco Griffini, presidente di Amici dei Bambini e altri operatori del settore.
In Italia i bambini dichiarati adottabili sono molti meno rispetto alle coppie che desiderano adottare. A questo va aggiunto che il nostro Paese è al primo posto in Europa per numero di minori adottati, secondo al mondo solo agli Stati Uniti. Partendo da questi dati positivi, bisogna però segnalare un lieve calo delle dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale e un calo molto più significativo che riguarda le richieste di idoneità per l’adozione internazionale.
Cristina Maggia – presidente del Tribunale dei Minori di Brescia – chiarisce “Le dichiarazioni di disponibilità all’adozione nazionale, cioè l’intenzione che una coppia comunica al Tribunale di adottare un bambino nato in Italia, sono passate da 12.799 nel 2009, scendendo sino a 9.007 nel 2015. Così come risultano in forte calo le domande di idoneità all’adozione internazionale passate nel 2009 da 5.961 fino a 3.668 nel 2015”. “Ci troviamo davanti a una concomitanza di situazioni” – spiega Cristina Maggia – la crisi economica, l’incertezza nel futuro, le pratiche di fecondazione assistita sempre più diffuse, i pochi bambini piccolissimi adottabili in Italia e all’estero”.
“La Commissione per le Adozioni Internazionali, per far fronte a questo calo, sta riattivando canali di relazioni internazionali con paesi che erano rimasti non coltivati. Siamo andati in Vietnam e Cambogia, abbiamo ospitato la delegazione del Burkina Faso e dell’Etiopia.” – è la risposta di Laura Laera, presidente della Commissione per le adozioni internazionali – “Ci stiamo muovendo per migliorare o ripristinare rapporti con i paesi di provenienza dei bambini, magari attivando anche nuovi stati: è un percorso in progressione.”.
Il calo delle adozioni internazionali, per Marco Griffini – presidente di Ai.Bi. Amici dei Bambini – ha origini diversificate “C’è un cambiamento nella cultura, anche in quella degli operatori che si occupano di adozione, molte volte, a quanto ci risulta, le coppie non vengono adeguatamente preparate e rinunciano. Non solo, per quanto ci riguarda, l’adozione, come tutte le altre forme di genitorialità dovrebbe essere gratuita, non bastano i rimborsi, servirebbero tutele maggiori. Anche il post adozione ha le sue criticità: dobbiamo sempre ricordare che il bambino adottato è “malato di abbandono”, può avere problemi psicomotori, ritardi. Il male dell’abbandono è reale e dovrebbe esserci un sistema assistenziale più forte ed efficiente”.
Ricche di emozioni le testimonianze dei protagonisti dell’adozione. “Un genitore – racconta Elena Poma, mamma adottiva – rinasce un’altra volta, insieme al figlio. Andrea mi chiamava ‘mamma pasticciona’. A volte sbagliavo, ma capivamo come fare insieme, fianco a fianco, con rispetto”.
“Guardate che se ci siamo riusciti noi, potete farlo anche voi. Non è una cosa da supereroi” – secca la risposta di Luca Guerrieri, famiglia adottiva di Ai.Bi. e coordinatore regionale del Gruppo Famiglie Locali di Ai.Bi. Lazio.
“Non ci aspettavamo che una bambina così piccola ponesse domande così grandi. Voleva incontrare la ‘mamma della pancia’, quando le ho chiesto perché mi ha detto: “Voglio dirle, guarda cosa ti sei persa“, così Silvia Zappa –famiglia adottiva di Ai.Bi. – sgombra ogni ombra di dubbio sul miracolo dell’adozione internazionale.
www.aibi.it/ita/adozioni-internazionali-repubblica-intervista-laera-cai
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ASSEGNO DI MANTENIMENTO FIGLI
Genitore inadempiente – Sufficienti risorse dell’altro genitore
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10419, 02 maggio 2018.
L’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere ai loro doveri nei confronti dei figli va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata, e quindi sussidiaria, rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; il diritto agli alimenti ex art.433 c.c. sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo.
Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20101 – 05 luglio 2018
Ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20101/divorzio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
ASSEGNO DIVORZILE
Ex moglie non fornisce la prova dei redditi, revocato il mantenimento
La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 16737, 26 giugno 2018
La Corte ha confermato la revoca dell’assegno di mantenimento disposto a favore di una donna, in quanto la stessa – oltre ad avere una concreta capacità lavorativa, vista l’età e la formazione professionale – non aveva cooperato in giudizio alla dimostrazione dei propri redditi, non offrendo la documentazione necessaria per la ricostruzione dei suoi movimenti bancari.
Respinto dunque il ricorso della donna avverso la revoca del mantenimento, in quanto volto ad una rivisitazione dei fatti già vagliati dai giudici di merito – secondo gli Ermellini – con motivazione logica e coerente. In particolare la Corte d’Appello aveva riscontrato la percezione mensile di redditi da parte dell’ex moglie e, d’altra parte, la mancata indicazione di conti correnti e di altra documentazione comprovante le reali sostanze economiche, aveva indotto i giudici a deporre a sfavore della donna, stante il suo comportamento processuale omissivo.
La Corte distrettuale, in altre parole, non ha presunto o ritenuto provata l’esistenza di conti bancari, ma ha invece presunto la disponibilità di un reddito sufficiente a garantire mezzi adeguati per soddisfare le esigenze di vita della donna, sia con riferimento al periodo antecedente e successivo al matrimonio, sia con riferimento al periodo di intermittente convivenza dei coniugi che, in difetto di qualsivoglia comunione di vita, avevano sempre provveduto a soddisfare le loro esigenze con i propri esclusivi mezzi.
La Cassazione pertanto, a sostegno della revoca dell’assegno, ha valorizzato non solo la brevissima durata del matrimonio, ma altresì la totale autosufficienza della donna (sebbene i suoi averi non fossero stati esattamente dimostrati in giudizio), desunta dalla sua capacità di mantenersi autonomamente, come dimostrato prima durante e dopo il matrimonio, dalla sua capacità di trovare un’occupazione, stante anche l’età e la competenza professionale, dalla disponibilità di un’abitazione e dalla presenza di investimenti immobiliari.
Redazione Diritto civile e commerciale 2 luglio 2018
www.diritto.it/ex-moglie-non-fornisce-la-prova-dei-redditi-revocato-mantenimento/
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CHIESA CATTOLICA
Comunione e matrimoni interconfessionali: i vescovi tedeschi vanno avanti
«È importante per noi procedere nella ricerca ecumenica di una più profonda comprensione e di una unità dei cristiani ancora maggiore, e ci sentiamo obbligati a andare avanti con coraggio». Con queste parole i vescovi tedeschi hanno deciso di pubblicare il dibattuto documento sul tema della concessione della comunione al coniuge non cattolico di una coppia mista, sul quale papa Francesco aveva chiesto di attendere tempi più maturi. A una prima impressione, dunque, sembrerebbe che i vescovi tedeschi abbiano fatto uno scatto in avanti “disubbidiente”. Nella problematica questione, sollevata nell’ultima assemblea plenaria della Conferenza episcopale lo scorso febbraio – durante la quale avevano approvato una bozza di testo contenente delle linee guida sul tema –, essi sono infatti andati in direzione diversa rispetto alle ultime istruzioni di papa Francesco. Quest’ultimo, si ricorderà, dopo un primo momento in cui aveva dato loro la facoltà di decidere in autonomia purché con spirito unanime, aveva poi deciso di fare marcia indietro, invitando a una «riflessione puntuale e ben condivisa»; dal canto suo, il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede card. Luis Francisco Ladaria Ferrer, in una lettera ufficiale di Ladaria – datata 25 maggio e scritta in accordo col papa – al card. Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca e membro del C9, rilevava «che il testo del sussidio solleva una serie di problemi di notevole rilevanza. Il Santo Padre è perciò giunto alla conclusione che il documento non è maturo per essere pubblicato». Le cose sono andate in modo diverso, ma non si è trattato di un atto di disobbedienza: tutt’altro.
I vescovi, a sorpresa, hanno pubblicato il sussidio, che è intitolato “Camminare con Cristo – sulle orme dell’unità. Matrimoni interconfessionali e partecipazione comune all’eucaristia”, si pone, ha affermato il consiglio permanente della Conferenza episcopale, riunito dal 19 al 21 giugno a Bonn, come guida nella responsabilità dei singoli vescovi. Il presidente della Conferenza episcopale tedesca ha informato che, in un recente colloquio con papa Francesco, ha spiegato che la lettera del card. Ladaria della fine di maggio «fornisce indicazioni e un quadro di interpretazione», e che il testo pastorale approvato a febbraio con la maggioranza dei due terzi dei vescovi tedeschi «contiene anche una dimensione universale» e ha lo scopo di orientare i «singoli vescovi» che hanno responsabilità in materia, motivando dunque in questo modo il fatto che il documento non venga pubblicato come documento della Conferenza stessa, che comunque riprenderà in mano la questione nella prossima assemblea di settembre: «A questo scopo – afferma Marx – offriamo al Santo Padre e alla Curia Romana la nostra collaborazione». «La comunione eucaristica e la comunione ecclesiale – sottolineano i vescovi – sono legati inseparabilmente. Ci stiamo impegnando per trovare un aiuto spirituale per l’esame di coscienza in singoli casi di accompagnamento spirituale di coniugi interconfessionali, che sentono un bisogno spirituale serio di ricevere l’Eucarestia. In virtù del Battesimo, della fede e del sacramento del matrimonio, i coniugi sono reciprocamente molto legati e dividono tutta la loro vita. Per noi vescovi si tratta qui di decidere se in un matrimonio interconfessionale il coniuge protestante possa accedere alla Comunione».
Non si tratta, tuttavia, a ben vedere, di un atto di “disubbidienza” rispetto alla «maggiore riflessione» chiesta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e dal papa. Lo stesso Ladaria, il 27 giugno, in una intervista a Crux, alla vigilia della propria nomina cardinalizia in occasione del concistoro del 28, ha affermato che la sua lettera del 25 maggio «non era proprio una frenata ma un invito a riflettere, soprattutto a partire dall’idea che è una questione talmente seria, che una Conferenza episcopale di un Paese deve agire tenendo presente la Chiesa intera, in modo che si arrivi a una soluzione, ma di tutta la Chiesa. È un punto decisivo, se ognuno percorre una propria strada si rischia di creare confusione. Quindi, ripeto, non è stata una frenata, ma un invito a riflettere perché si tratta di un punto che non riguarda solo un Paese o una diocesi, ma la Chiesa universale. E questa era anche la preoccupazione del Santo Padre». Anche il papa, il 21 giugno, aveva tenuto a precisare che la lettera della Cdf non era da leggersi come una «frenata ecumenica». D’altra parte, le linee guida proposte erano più restrittive del diritto canonico, e non intendono affatto concedere a tutti indiscriminatamente la comunione. Il punto di riferimento dei vescovi è il decreto conciliare Unitatis redintegratio per il quale «la piena comunione eucaristica rimane l’obiettivo dell’ecumenismo”. «Un matrimonio interconfessionale che unisce sacramentalmente, in parte realizza già la comunità ecclesiale che auspichiamo”, dice il documento dei vescovi. Altro riferimento è il Diritto Canonico: nel can. 844 §4 esso afferma che i protestanti nella Chiesa Cattolica possono essere ammessi alla Comunione a determinate condizioni, valutando «Secondo il giudizio del vescovo diocesano o della conferenza episcopale, una (…) urgente emergenza». I vescovi tedeschi spiegano che «non possiamo trascurare (…) che una “grave emergenza spirituale” possa sorgere se un sincero desiderio di comunione non è soddisfatto». Offrire un’opportunità per porre fine a questa situazione è «in questi casi individuali, un dovere pastorale, che consolida il vincolo del matrimonio e permette agli sposi di sapere che gli ostacoli che dividono la Chiesa non infrangono il vincolo del loro matrimonio».
Altri puntelli dei vescovi tedeschi sono le encicliche Ecclesia de Eucharistia e Ut unum sint di Giovanni Paolo II, che aveva già indicato la possibilità per i non cattolici di ricevere la comunione. Tuttavia, questo riferimento non è esclusivamente alla situazione oggettiva, «ma anche all’atteggiamento individuale delle persone che chiedono di ricevere un sacramento nella Chiesa cattolica».
I pastori ricordano anche il dibattito sulla concessione della comunione ai divorziati risposati e l’importanza data da papa Francesco, in Amoris lætitia, alla decisione di coscienza dei fedeli, sviluppando così una “ermeneutica” per l’accesso alla Comunione nei matrimoni interconfessionali.
Su questa continuità del documento dei vescovi tedeschi con il magistero pontificio conviene anche il teologo liturgista Andrea Grillo. Già «ad una prima rapida lettura il documento della Conferenza episcopale tedesca sulla “partecipazione all’Eucaristia” del coniuge non cattolico appare molto più ricco e articolato di quanto non apparisse dalle ricostruzioni parziali fornite o dalle notizie di stampa o dalle prese di distanza ufficiale», commenta. «Tutta la polarizzazione sul canone 844 non è centrale nel documento, che valorizza invece lo statuto di “Chiesa domestica” e di “piccola Chiesa” della famiglia. Appare invece come una lineare conseguenza di Amoris lætitia Laetitia sul piano ecumenico. Credo che il lavoro della Conferenza episcopale sia di alta qualità e che solo una visione miope e statica della tradizione possa considerarlo immaturo. È piuttosto un segno lampante di una Chiesa che cerca di uscire dalla immaturità di categorie inadeguate all’annuncio della comunione in Cristo».
Ludovica Eugenio Adista Notizie n° 25 29 giugno 2018
www.adista.it/articolo/59145
Lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Lettera aperta all’Onorevole Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei Ministri italiano
Scrivo questa lettera sul tema scottante degli immigrati (e la scrivo da un edificio diocesano che ne ospita [castello vescovile di Albiano d’Ivrea-TO]). Lo faccio non come antica autorità religiosa al Presidente di un Governo “laico” (anche se un autorevole membro del Suo Governo ha sbandierato, sia pure in campagna elettorale, simboli apertamente religiosi, anzi cristiani, quindi compromettenti) soprattutto dopo i costanti, appassionati appelli di Papa Francesco e le autorevoli istanze dei responsabili della CEI.
Lo faccio come cittadino dell’Italia che, nella Costituzione, garantisce il diritto d’asilo a quanti, nel loro paese, sono impediti di esercitare le libertà democratiche; lo faccio come cittadino dell’Europa che, nella Carta dei diritti fondamentali, afferma: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Ci siamo resi conto che Lei, al recente vertice Ue, ha fatto sentire fortemente la voce dell’Italia; ma siamo stati delusi dalla sordità della maggioranza dei rappresentanti dell’Europa (me lo lasci notare, anche delle nazioni tradizionalmente più “cristiane”) e dell’incapacità dell’insieme di mantenere le tradizioni “umane” del nostro Continente e dell’ispirazione iniziale della sua unità. Mi lasci dire che siamo – parlo di tanti di cui ho colto il pensiero – altrettanto delusi che, nella difficoltà di ottenere consensi più ampi, l’Italia rimanga su posizioni di chiusura, forse (ma solo “forse” se guardiamo al nostro passato coloniale o ci proiettiamo sul nostro futuro demografico) comprensibili sul piano della contrattazione, non su quello del riferimento a vite umane. Siamo tanti a non volerci sentire responsabili di navi bloccate e di porti chiusi, mentre ci sentiamo corresponsabili di Governi che, dopo avere sfruttato quei Paesi e continuando a vendere loro armi, poi reagiscono se si fugge da quelle guerre e da quelle povertà; non vogliamo vedere questo Mediterraneo testimone e tomba di una sorta di genocidio, di cui diventiamo tutti in qualche modo responsabili.
Non ignoriamo che i problemi sono immensi, dai rapporti con Paesi che noi – Europa tutta – abbiamo contribuito a divenire ciò che essi spesso sono (costruttori di lager e tutori di brigantaggi), a quelli con i Paesi di partenza degli immigrati (con cui già i Governi precedenti avevano progettato iniziative, sempre fermate al livello di progetti).Vorremmo davvero che l’Italia, consapevole della sua tradizione di umanità (prima romana, poi cristiana) non accettasse di divenire corresponsabile di una tragedia, che la storia ha affidato al nostro tempo e da cui non possiamo evadere.
Al di là di un’incomprensibile indifferenza o di un discutibile privilegio (“prima gli italiani” – quali italiani? – o “prima l’umanità”?!), credo che, nell’interesse della pace, aspirazione di ogni persona e di ogni popolo, l’Italia possa e debba essere – per sé e per tutta l’Europa – pioniera di accoglienza, controllata sì, ma generosa.
Con ogni augurio e molta solidarietà. Albiano d’Ivrea, 2 luglio 2018
+ Luigi Bettazzi
[Vescovo emerito di Ivrea, ultimo padre conciliare italiano vivente]
www.paxchristi.it/?p=14290
Un bisogno nuovo di religione
C’è un nuovo bisogno di religione, oggi. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile. Torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata.
Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: «Qualunque cosa sia la religione – scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) – di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso. È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chiesto in prestito alla religione» (pag. 16).
Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro.
La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana.
Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande. Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 8-10 e 16). Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. «Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre. Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso – e un senso vittorioso della morte – è la condizione per volersi ed essere pienamente umani.
Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: «A la tarde de la vida te examinarán en el amor – Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore».
Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto “Il Sole 24 Ore” 8 luglio 2018
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180708forte.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
Conduttore di gruppi di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
Ad ottobre 2018 parte la settima edizione del Corso di Alta Formazione “Conduttore di gruppi di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare” presso l’Università Cattolica a Milano. Il corso, che si rivolge a professionisti appartenenti all’area psicologica-medica (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, neuropsichiatri infantili, pediatri, medici di base, operatori di consultorio) e all’area sociale-educativa-giuridica (assistenti sociali, educatori, pedagogisti, mediatori familiari, insegnanti, dirigenti scolastici, operatori di pastorale familiare e giovanile, avvocati e consulenti giuridici), mira a fornire conoscenze e competenze nell’ambito dell’Enrichment Familiare, una modalità di intervento preventivo-promozionale rivolto alla famiglia che utilizza il gruppo come strumento di lavoro.
In particolare il corso intende trasmettere un quadro teorico di riferimento utile per realizzare interventi di gruppo rivolti alla famiglia; favorire un confronto e una riflessione sull’esperienza di conduzione di gruppi di coppie e di genitori; acquisire le competenze necessarie per l’utilizzo di strumenti operativi; trasmettere una conoscenza e un’esperienza nell’ambito della progettazione di interventi per la famiglia e la comunità.
https://apps.unicatt.it/formazione_permanente/milano_scheda_corso.asp?id=13377
https://apps.unicatt.it/formazione_permanente/getAllegato.asp?k_all=5321
La solitudine nella coppia: beneficio o pericolo?
Essere in due, condividere tutto, vivere sempre insieme momenti di qualità, capirsi con un colpo d’occhio… Smettetela di sognare, la vita di coppia non è fusione. Necessita talvolta di saper essere soli. Come trovare il giusto equilibrio tra una necessaria solitudine e quella che uccide la relazione coniugale? Aleteia ha intervistato Marie-Aude Binet, consulente famigliare e sessuologa.
Isabelle du Ché: Quali sono i benefici della solitudine nella vita coniugale?
Marie-Aude Binet: I benefici sono molteplici: sentirsi bene con sé stessi, fare ciò che si ama, ritrovarsi per meglio tornare verso l’altro o comprenderlo, prendere delle distanze nei conflitti, sopportare meglio i periodi di assenza del coniuge.
A seguito di un cambiamento professionale, Patrick è stato separato geograficamente da sua moglie nei giorni feriali della settimana. Patendo la solitudine, ha cercato di colmarla con un’altra donna. Presa coscienza dell’impasse della situazione e della sofferenza così generata, il marito ha cercato di comprendere che cosa lo aveva spinto all’infedeltà. Ha realizzato allora che non sapeva essere solo. Nella sua infanzia – che pure pareva felice – non c’era alcuno spazio per lui. Sua madre era affettivamente molto presente. Ha allora deciso di ritagliarsi regolarmente un momento di solitudine, praticando uno sport che fino a quel momento aveva trascurato. Il suo equilibrio si è così ristabilito. Lo stesso Julie, donna molto attiva in famiglia e sul lavoro. Sentiva importanti angosce affettive, legate in particolare a un avvenimento doloroso della sua infanzia. Il semplice fatto di concedersi una pausa, da sola, per prendere un tè sulla terrazza di un caffé, l’ha riconnessa con sé stessa. Così si è autorizzata a prendersi cura di sé, scegliendo ciò che le faceva del bene.
I. d.C.: Essere soli, sentirsi soli. Che differenza c’è?
M.-A. B.: L’abbiamo appena visto: essere soli procura numerosi benefici e può evitare un esaurimento psicofisico. Ma è frequente che ci si senta soli, in una coppia. È assolutamente normale, perché l’altro non può colmare tutto. La relazione coniugale non può essere il suolo luogo di ricarica e di distensione. Avendo compreso ciò, Caroline ha appreso col tempo a trovare nella sua vita amicale e professionale le risorse e i riconoscimenti necessari al suo equilibrio. Ella ha così potuto adattare la propria relazione coniugale alla sua vita personale, senza essere schiava di un sentimento di solitudine.
I. d.C.: Esistono parecchie forme di solitudine. Ce le illustri.
M.-A. B.: La prima forma di solitudine non scelta è la solitudine affettiva. È per esempio quando uno si lamenta di essere sempre il motore che avvia o sostiene un dialogo. Era questo il caso di Chantal, 58 anni, che soffriva il prendere sistematicamente l’iniziativa in una relazione sessuale. In queste differenti situazioni il coniuge mortificato può tentare di trovare altrove l’ascolto, la tenerezza, la conversazione che gli mancano. Può anche radicarsi nella coppia una forma di coabitazione in cui ciascuno mantiene le proprie distanze rispetto all’altro e nulla più viene condiviso.
Tra le coppie si nota pure una solitudine psicologica o relazionale. Ecco due esempi. Bruno, all’età di 35 anni, ha perso suo padre e poi suo fratello con un breve intervallo di tempo. Si è sentito molto solo nell’attraversare questo lutto. Sua moglie era gelosa del tempo che lui passava con la sua famiglia d’origine è non ha saputo essere in ascolto della sofferenza del marito. Adèle, arrivata a 25 anni di matrimonio, e avendo messo fra parentesi la sua vita professionale per consacrarsi all’educazione dei bambini, si è sentita sfinita per aver portato tutto da sola. Aveva la sensazione di non essere stata ascoltata dal coniuge. Le mancava crudelmente il riconoscimento del suo investimento. Aveva voglia di qualcos’altro ma non sapeva come fare. Ha avuto bisogno di lenire questa solitudine, andare fuori per rinforzarsi.
La terza forma di solitudine è la solitudine geografica. Difficile non provarla quando gli sposi sono separati a causa di un lavoro, della malattia dell’uno o dell’altro, della salute dei parenti o di un bambino, di difficoltà finanziarie… Ognuno soffre di essere solo, e non si tratta solo di chi resta a casa. Il ritmo di vita non permette sempre di distanziarsi dai problemi o di fermarsi in due. La sfida sarà dunque quella di confrontare le due solitudini e di trovare, ciascuno secondo i propri desideri e le proprie possibilità, il tempo necessario a rinforzare il legame coniugale.
Traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio Aleteia 3 luglio 2018
https://it.aleteia.org/2018/07/03/solitudine-coppia-marie-aude-binet
L’abuso psicologico nella relazione di coppia
Spesso è la prima fase di un conflitto che precede una escalation di violenza. Fondamentali la precoce |rilevazione del fenomeno e gli interventi di prevenzione.
Nel corso degli anni, nell’ambito della ricerca sulla violenza tra partner sono state identificate tre macro-categorie di violenza: fisica, sessuale e psicologica. Mentre sono state condotte svariate ricerche sul tema della violenza fisica e sessuale, l’abuso psicologico è divenuto oggetto di ricerca scientifica solo recentemente. L’importanza di tali ricerche risiede non solo nella crescente diffusione del fenomeno, ma anche alla sua associazione con la violenza fisica e sessuale.
La maggior attenzione posta alla ricerca sulla violenza fisica può essere spiegata con la difficoltà nella identificazione e definizione dell’abuso psicologico tra partner. Un elemento di problematicità è rappresentato dalla relatività storico-culturale in base alla quale ciò che può essere definito come psicologicamente abusivo varia da un’epoca all’altra e da una cultura all’altra. Ancora, a differenza dalla violenza fisica, l’abuso psicologico non comprende solo atti immediatamente riconoscibili ed evidenti ma anche comportamenti più subdoli, come l’indifferenza verso le emozioni dell’altro, difficili da rilevare e che non necessariamente si manifestano attraverso l’espressione di un conflitto manifesto. Il conflitto, infatti, può essere visto come una forma di confronto e di scambio, poiché implica l’esistenza di due punti di vista diversi; al contrario, la violenza psicologica spesso si basa sul disconoscimento dell’altro e della sua realtà, impedendo una possibilità di dialogo e quindi anche di espressione del conflitto.
Nonostante la variabilità storico-culturale e la complessità fenomenologica che la caratterizza, vi è un generale accordo in letteratura nel considerare psicologicamente abusivi quei comportamenti, reiterati e sistematici, che ledono l’autostima, il senso di sicurezza e dell’identità del partner, come ad esempio mettere in atto comportamenti volti ad isolare ed a controllare il partner limitandone le attività e i contatti sociali, umiliarlo, punirlo facendolo sentire in colpa e mantenendone la paura e la sottomissione con minacce ed aggressioni verbali.
La rilevazione dell’abuso psicologico nella relazione di coppia si presenta complicata, in quanto molto spesso vi è la difficoltà da parte della vittima ad uscire “allo scoperto” e che può essere imputabile alla paura e/o alla mancanza di consapevolezza. Molti studi hanno posto in evidenza che a commettere atti di violenza fisica e sessuale sono prevalentemente gli uomini, mentre in quella psicologica sono coinvolti entrambi i generi. La relazione di coppia rappresenta una dimensione affettiva nella quale vi è un processo di conoscenza di sé attraverso l’altro e l’accettazione di quest’ultimo per come è realmente e non come il riflesso dei propri desideri e/o proiezioni. In questo caso, la relazione diventa una occasione di arricchimento e confronto; al contrario, si trasforma in un gioco di potere in cui uno subisce il dominio dell’altro.
Le relazioni di coppia violente, a livello comportamentale, sono basate sulla tendenza a limitare la libertà personale, isolare la vittima e alimentarne la dipendenza; a livello emotivo, prevale il mantenimento della paura attraverso le minacce, le intimidazioni e il ricatto; sul piano cognitivo, i comportamenti denigratori e di ridicolizzazione colpiscono direttamente il senso di sé, danneggiano l’autostima e pongono la vittima in una situazione di incertezza e confusione. Anche il linguaggio e la comunicazione, contraddittoria e paradossale, hanno un ruolo importante nel mantenere l’incapacità di pensare, agire e opporsi.
Difficilmente dall’esterno si comprende il perdurare di tali rapporti; alcune strategie messe in atto dalle vittime per far fronte alle situazioni di abuso possono diventare fattori di mantenimento della relazione, in particolare la tendenza a negare i comportamenti abusivi, a mantenere una visione scissa e idealizzata del partner e l’auto-colpevolizzazione. Quest’ultima lascia nella vittima l’illusione di poter migliorare il rapporto attraverso la modifica del proprio comportamento. Di solito, l’inefficacia di tali strategie si traduce in un senso di impotenza che diminuisce progressivamente la motivazione a reagire. Oltre al senso di colpa, reazioni di vergogna vengono frequentemente riscontrate come espressione di una valutazione negativa di sé e una messa in discussione del proprio valore e della propria capacità di affrontare gli eventi.
Nonostante l’abuso psicologico nel rapporto di coppia possa esistere indipendentemente da altre forme di violenza, in ambito clinico e sulla base del lavoro psicoterapico è emersa una escalation della violenza, in quanto difficilmente le aggressioni fisiche avvengono in modo improvviso ma sono nella maggior parte dei casi anticipate da “microviolenze”. Il loro effetto è di indebolire progressivamente la capacità di resistenza della vittima, determinando una sorta di “normalizzazione” della violenza. Già nel 1984, Walker aveva descritto la progressione dal maltrattamento psicologico a quello fisico, attraverso il “ciclo di abuso”. La violenza psicologica fa parte della prima fase caratterizzata da silenzi ostili, tono irritato della voce, occhiate aggressive, e così via che inducono al senso di colpa, intaccano l’autostima della vittima, rendendola vulnerabile al timore di essere abbandonata. La reazione a questi attacchi è il tentativo di evitare i conflitti, ma tale passività non fa altro che rafforzare le tendenze aggressive del partner che degenerano progressivamente nella violenza fisica, lasciando impotente la vittima. La fase successiva di “pentimento e riconciliazione” è quella in cui l’abusante minimizza il proprio comportamento responsabilizzando la vittima o giustificandolo con motivazioni esterne. Quest’ultima è anche la fase delle promesse di cambiamento e del rinnovo delle dichiarazioni d’amore che alimentano la speranza, affievoliscono la collera e fanno sì che la relazione non venga interrotta.
Sembra confermato il ruolo predittivo dell’aggressività verbale (in entrambi i generi) nell’insorgenza della violenza fisica. Ciò rende fondamentale, dal punto di vista preventivo, la precoce rilevazione del fenomeno. Rimanendo sul tema prevenzione, potrebbe essere utile affiancare ai progetti di sensibilizzazione alla parità di genere anche interventi di tipo psico-educativo volti a creare una consapevolezza maggiore circa l’esistenza di queste forme di abuso psicologico. Infine, un ulteriore aspetto rilevante della prevenzione è quello relativo allo sviluppo e alla promozione, in ambito evolutivo, di quegli aspetti del funzionamento individuale (ad es. il riconoscimento e la regolazione delle emozioni) ed interpersonale (ad es. la capacità empatica e l’intimità) che definiscono e regolano la salute relazionale
Lucia Calabrese, psicologa-psicoterapeuta-sessuologa
Consultorio diocesano Al Quadraro 6 luglio 2018
www.romasette.it/labuso-psicologico-nella-relazione-di-coppia
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONSULTORI FAMILIARI DI ISPIRAZIONE CRISTIANA
A Tor de’ Cenci, un consultorio per trasformare la rabbia in speranza
Il Centro per la promozione della famiglia Mater Salvatoris, sostenuto con i fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica, è gestito dall’Apostolato accademico salvatoriano.
Giardini con erba alta, aiuole con i fiori. Tor de’ Cenci, nella periferia sud della Capitale, è un quartiere dove vivono molte famiglie tra grandi palazzi e case con giardino. È lì che opera il Centro per la promozione della famiglia Mater Salvatoris. «Non siamo uno sfasciacarrozze ma un’officina. Non buttiamo, ripariamo», scherza il diacono Marco Ermes Luparia, psicoterapeuta e presidente dell’Apostolato accademico salvatoriano, da cui dipende il centro. Un consultorio, che insieme a quello di Acilia e di Gregna Sant’Andrea, offre il proprio sostegno a singoli, coppie, giovani e anziani con l’aiuto di psicologi, psicoterapeuti e psichiatri, con i fondi dell’8xmille. «Qui vengono persone piene di dolore, confusione, sconcerto, qualche volta con la voglia di distruggere tutto. Io faccio il primo colloquio. Dal primo incontro cerco di trasformare la rabbia in speranza», racconta Ermes.
Intanto arriva Stefania, frequenta il centro da un anno e vive ad Acilia. «È stata mia figlia a spingermi da uno psicoterapeuta», dice. Al consultorio la salutano tutti. Stefania è socievole, allegra, solare, disponibile. Ma dietro al suo sorriso, degli angoli bui. «Le cose che mi fanno male le elimino e non le ricordo. Così è stato per il mio matrimonio, il suicidio di mio padre, la morte di mio fratello. La psicologa mi aiuta ad aprire la cassettiera dei ricordi, per poi chiuderla definitivamente. Qui ho trovato comprensione e professionalità», racconta. «Mio padre è la ferita più grande, non ho mai accettato che si fosse sparato. Era in Zimbabwe Rhodesia». Scorre così la cassettiera dei ricordi. «Con il matrimonio arriva l’altra ferita. Quando mia figlia aveva 8 anni ho scoperto il tradimento di mio marito. Ma sono andata avanti, perché non volevo che mia figlia crescesse senza un padre come era successo a me». Sorride e mentre saluta dice: «Ogni giorno è un miracolo. Non ho avuto il marito che volevo ma ho una figlia straordinaria».
In questa officina c’è un’equipe attenta, come racconta Cristina Bernieri, che ci lavora da quasi 10 anni. «Si rivolgono a noi più donne che uomini». Per avere informazioni si può chiamare lo 06.97612477 o il 373.8212149. C’è una grande fragilità negli adolescenti: «Pesa l’assenza di entrambi i genitori – spiega Ermes -; spesso ci troviamo di fronte a una famiglia bulla. Il turpiloquio e la violenza verbale i giovani le imparano tra le mura di casa». Mettere le dita nelle piaghe. Questa la vocazione dei Salvatoriani, fondati da padre Francesco Maria della Croce Jordan nel 1881. Fu lui a porre le basi per la nascita dell’associazione dei Salvatoriani laici. I consultori sono l’anima della loro azione perché entrano nel tessuto sociale. «Il nostro patrimonio sono decine di migliaia di ore di ascolto – prosegue il diacono -. In questi anni si è evoluto il disagio sociale. Si è indebolito il concetto di amore, che è molto viscerale. Spesso è l’incontro di due narcisismi. C’è un relativismo sentimentale per cui la relazione è bella finché dura. È un legame debole, basta poco per romperlo, anche motivazioni banali: la famiglia si sgretola sul niente».
Per questo, secondo Ermes, vanno rivisti i corsi prematrimoniali. «Dovrebbero far interrogare sul senso di quel che si sta facendo e su dove si vuole andare». I Salvatoriani fanno attività di sostegno per la famiglia, la scuola e la formazione dei religiosi. «C’è una debolezza dell’identità di sacerdoti e di genere. La formazione è troppo sbilanciata a favore della brillantezza intellettuale. Noi lavoriamo per rinsaldare la struttura caratteriale e dare consapevolezza del proprio ruolo. Affrontiamo vari temi. Ne cito qualcuno: sessualità, identità, autorità, autorevolezza, valore del celibato, comunicazione. Il sacerdozio prevede una donazione al 100%». Ma quando è stato il momento più difficile? «Cinque, sei anni fa con l’esplosione del fenomeno della pedofilia. Papa Benedetto ha scoperchiato il vaso, Francesco ha guardato dentro per vedere cosa stesse accadendo. Noi non siamo a fianco della Chiesa, a supporto, ma dentro la Chiesa», sottolinea Ermes. (…)
Antonella Gaetani Romasette 5 luglio 2018
www.romasette.it/a-tor-de-cenci-un-consultorio-per-trasformare-la-rabbia-in-speranza
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
CONTRACCEZIONE
Il Piemonte avrà la contraccezione gratuita per donne under 26 e disoccupate
La Regione Piemonte avrà la contraccezione gratuita per le giovani donne sotto i 26 anni e per le donne disoccupate nei 12 mesi successivi al parto e nei 24 mesi successivi all’interruzione di gravidanza per le quali viene garantito l’accesso libero e diretto senza ticket nei Consultori sanitari.
Un sentito grazie alla Consigliera Regionale Nadia Conticelli che si è fatta carico di portare avanti questa azione politica e ha saputo dare una risposta al tema della contraccezione gratuita, prendendo a modello la delibera dell’Emilia Romagna, entrata in vigore da pochi mesi
La disponibilità di contraccettivi gratuiti, erogati a carico del Servizio Sanitario Nazionale, è condizione necessaria per assicurare il diritto alla procreazione responsabile, con ricadute importanti sulla salute delle donne. Nel nostro, a differenza di altri Paesi europei, come la Francia, il Belgio e la Germania, l’Inghilterra e la Svezia, la contraccezione è interamente a carico delle cittadine e dei cittadini. Non è quindi un caso che l’Italia sia tra gli ultimi, in Europa, nell’utilizzo della pillola anticoncezionale.
Sulla base di questi dati, e in seno ad un più ampio progetto riguardante la maternità, il Comitato di Torino di SeNonOraQuando? aveva deciso, nei mesi scorsi, di sollecitare la Regione perché l’Istituzione territoriale si facesse carico di un problema che, avrebbe dovuto essere risolto a livello nazionale e che si inserisce nel più ampio contesto della L. 194/1978 e della sua attuazione.
Oggi, infatti, in Italia il costo della contraccezione risulta troppo oneroso per tante donne, coppie e famiglie in condizioni di disagio economico, acuite dalla crisi. La concreta difficoltà di regolare la propria fertilità, programmando le gravidanze, ma anche la possibilità di non scegliere un contraccettivo adatto, hanno evidenti ripercussioni negative sulla salute fisica e psicologica di queste donne, accentuando ulteriormente i loro problemi economici e sociali, che dovrebbero invece essere rimossi, come prevede la L.194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Questo provvedimento si inserisce in una più ampia delibera, a firma Marco Grimaldi, “Indirizzi e criteri per garantire l’effettivo accesso alle procedure per l’interruzione della gravidanza ai sensi dell’articolo 9, comma 4 della legge 22 maggio 1978, n. 194”.
La delibera è la prima in Italia a rendere stringente l’articolo 9 della legge del 1978, che sancisce il dovere delle strutture sanitarie di assicurare il diritto all’interruzione di gravidanza e assegna alla regione il controllo sull’attuazione della legge anche attraverso la mobilità del personale.
Con la delibera oggi approvata, si dà mandato all’Assessore alla Sanità, Antonio Saitta di fare un monitoraggio della situazione in tutte le Asl della regione, al fine di garantire che in ogni territorio l’obiezione non superi la soglia del 50% e dunque superare l’eccessiva concentrazione degli interventi al Sant’Anna di Torino. In caso la soglia fosse superata, la delibera consente ai direttori di attuare il turn over, avviando un call interna per reclutare medici e infine, se ciò non fosse ancora sufficiente, di procedere a chiamate pubbliche e assunzioni rivolte a medici che praticano Ivg.
“Il Consiglio regionale, – ha dichiarato Nadia Conticelli, – potenzia il servizio di prevenzione, tutela della salute della donna e della procreazione consapevole, rafforzando il ruolo dei consultori territoriali. Una scelta – sottolinea – già compiuta dalla Regione Emilia Romagna e sostenuta dalla rete delle associazioni femminili, una per tutte Se Non Ora Quando, in linea con quanto avvalorato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che inserisce i contraccettivi tra i farmaci definiti essenziali. La legge vigente, la n. 194, rimane un’ottima legge, va applicata in tutti i servizi pubblici e con particolare attenzione all’età adolescenziale. Il tema dell’informazione, della prevenzione e dell’accompagnamento alla contraccezione è fondamentale e deve essere garantito nelle strutture pubbliche che devono essere il più possibili aperte; le attività svolte nei Consultori – conclude – devono avere un adeguato riconoscimento organizzativo in termini di attrezzature, di personale in grado di fornire tutti i servizi, proprio come previsto dalla legge nazionale, che rimane una legge di civiltà che va affermata quotidianamente”.
Auspichiamo, che altre regioni prendano a modello l’Emilia Romagna e il Piemonte per poter dare effettiva e piena applicazione al dettato della Legge 194, che indica nella prevenzione e nell’accompagnamento alla contraccezione uno dei capisaldi della legge stessa.
Laura Onofri Noi donne 4 luglio 2018
www.noidonne.org/articoli/il-piemonte-avr-la-contraccezione-gratuita-per-per-donne-under-26-e-disoccupate-15004.php
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DALLA NAVATA
XIV Domenica – Anno B – 8 luglio 2018
Ezechiele 02, 05 Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Salmo 122, 01 A te alzo i miei occhi, a te che siedi nei cieli.
2Corinzi 12, 10. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
Marco 06, 02 Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?
Gesù, troppo umano. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose
Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi insignificanti, segni che non raggiungono il loro fine.
Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto nel deserto di Giuda, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno del Signore, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture, alla veglia e alla preghiera. Gesù a una certa età raggiunse questi luoghi e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi la chiamata di Dio e l’unzione dello Spirito santo lo spinsero a essere un predicatore itinerante del Regno veniente, dando inizio al suo ministero in Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).
E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), passando di villaggio in villaggio per predicare, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”, la terra dei suoi padri. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un credente in alleanza con Dio, come ogni altro ebreo, e avendo più di dodici anni, dunque in qualità di bar mitzwah, figlio del comandamento, sale sull’ambone, legge le Scritture e commenta la Parola. Non è sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.
A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un rabbi, un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. La domanda che suscita è: “Da dove (póthen) gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi operati dalle sue mani?”. Si interrogano dunque sull’identità di Gesù, come già avvenuto nella sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,27), e la risposta potrebbe essere un’adesione a Gesù nella fede, riconoscendo che in lui opera lo Spirito santo (cf. Mc 1,10; 3,29-30); oppure un rigetto di Gesù, attribuendo al demonio la sua forza nell’annunciare la Parola e nell’operare prodigi (cf. Mc 3,22).
E in questo stupore superficiale ecco emergere un’altra domanda: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”. Si tratta in realtà di un interrogativo che contiene in sé una sfumatura denigratoria. Gesù – si pensa – ha esercitato soltanto il mestiere di falegname, dunque non è autorizzato a insegnare; inoltre è il figlio di Maria, di lui si conosce il padre, che non viene nominato, e i suoi familiari sono ben conosciuti, risiedono tuttora nel villaggio. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”, o qualcuno con una missione speciale? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nella sua forma umana proclamasse la sua gloria e la sua singolarità, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne e munito di potere nel suo apparire in mezzo agli altri.
No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, perché accogliere il suo messaggio? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo ad aver fede in lui e nella sua parola. Per questo lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro statura e Gesù diventa per loro un inciampo, uno scandalo che impedisce un incontro di salvezza. Costoro sono fieri di conoscere Gesù umanamente, “secondo la carne” (2Cor 5,16), ma in realtà impediscono a se stessi la sua vera conoscenza.
Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o familiare, giunge a non riconoscere la sua vera identità e finisce per disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente di Nazaret a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale; non risponde ai canoni previsti per discernere in lui un inviato di Dio, il Messia atteso.
Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, impone loro le sue mani e ne guarisce solo qualcuno, ma è come se non avesse operato prodigi, perché il miracolo avviene quando il testimone è disposto a passare dall’incredulità alla fede. A Nazaret invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessuna azione di potenza” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire nella sua forza, non può neanche fare il bene, perché manca il requisito minimo, la fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, umanissimo, troppo umano! In questo episodio del vangelo marciano Gesù appare la sapienza misconosciuta; il profeta non accolto proprio da coloro ai quali è inviato, disprezzato da quanti gli sono più vicini; il guaritore che non può fare il bene perché ciò gli è impedito dalla non accoglienza della sua azione che dona salvezza.
Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque domina la convinzione che è meglio non fargli fiducia. Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia resta saldo: continua con fedeltà la sua missione in obbedienza a colui che lo ha inviato, andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a curare, e neppure a fare il bene.
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12442-gesu-umano
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DEMOGRAFIA
Pensioni e fertilità sono due facce della stessa medaglia
Chi vuole difendere le pensioni ha interesse alla ripresa della natalità nelle famiglie, alla nascita di nuove imprese, alla stabilità dei contratti di lavoro e ai flussi di lavoratori da altri Paesi. Secondo i dati Istat il 20% delle famiglie con figli ha dovuto chiedere prestiti, in generale la scelta di avere figli non è incentivata. L’assegno di natalità per il 2018 di 960 euro è un segnale che ha bisogno di continuità.
Bene. Non si può commentare altrimenti la previsione Istat (l’Istituto italiano di statistica) che indica, per il 2065, un allungamento di oltre 5 anni della vita media degli italiani. Si arriverebbe a 86,1 anni per gli uomini e a 90,2 anni per le donne (era 80,6 e 85 anni nel 2016). Senza contare che i progressi medici, assistenziali, di prevenzione e la progressiva minor usura lavorativa potrebbero avvicinare l’obiettivo – impensabile fino a pochi anni fa – del secolo medio di vita.
Prepariamoci a una Penisola dichiaratamente anziana, con un saldo negativo (morti/nascite) che l’Istat ritiene probabilissimo anche se nei prossimi anni potrebbero innestarsi politiche di sostegno alla fertilità. Al momento non prevedibili.
Alle condizioni di natalità/migrazioni stimabili ora, nel 2065 la popolazione italiana sarà intanto scesa a 54,1 milioni, con una flessione, rispetto al 2017 di 6,5 milioni. Il saldo nascite/morti sarà negativo (da -200mila a -400mila l’anno) nonostante un aumento del tasso medio di fecondità da 1,3 a 1,5 figli per ogni donna.
L’andamento demografico porta con sé implicazioni che si possono già vedere e si possono intuire per il futuro. Il picco di decrescita è previsto fra il 2020 e il 2040. E’ una involuzione che, per fortuna, si può interrompere e anche invertire.
Proprio chi vuole difendere le pensioni ha interesse alla ripresa della natalità nelle famiglie, alla nascita di nuove imprese, alla stabilità dei contratti di lavoro e ai flussi di lavoratori da altri Paesi.
Secondo i dati Istat il 20% delle famiglie con figli ha dovuto chiedere prestiti, in generale la scelta di avere figli non è incentivata. L’assegno di natalità per il 2018 di 960 euro è un segnale che ha bisogno di continuità.
Condizioni più favorevoli alla fertilità sono funzionali al mantenimento di una spesa pensionistica crescente. Per il momento si presta molta attenzione alla parte finale della vita lavorativa. Il superamento della Legge Fornero, prevista dal nuovo Governo e che consentirebbe a centinaia di migliaia di lavoratori di avvicinarsi all’atteso traguardo, porta con sé un incremento delle risorse destinate a chi ha lavorato pagando contributi e rischia di ridurre le disponibilità pubbliche per il sostegno di nuove famiglie e nuovi lavoratori. Nelle stime per il 2019 sulla prevista Quota 100 (somma degli anni di contribuzione+ età anagrafica) e su altre modifiche (in pensione con 41 anni di contributi) si arriva a un maggior costo pubblico di circa 5 miliardi (stime del Governo).
Sono numeri che mettono in allarme la Banca centrale europea (Bce) preoccupata per le crescenti spese di invecchiamento dell’Europa, soprattutto se l’economia dei prossimi anni sarà debole con una scarsa occupazione e magari un alto debito pubblico. A condizioni invariate, nei prossimi 20 anni la spesa pensionistica italiana è destinata ad assorbire il 18,4% del Pil (Prodotto interno lordo, il valore totale dei beni e dei servizi prodotti in un anno), una percentuale compatibile solo se sostenuta da una crescita della produzione e dei posti di lavoro. Altrimenti si mangiano risorse.
L’idea che il bosco della popolazione anziana possa sopravvivere nutrendosi sempre dello stesso pezzetto di terra porta alla sovrapposizione delle radici e all’inaridimento.
Il flusso di lavoratori stranieri, l’apertura di nuove attività imprenditoriali anche se in concentrata alcuni settori dei servizi e della ristorazione, ha già mostrato dei numeri e la Fondazione Leone Moressa ha stimato che i contributi dei migranti regolarmente retribuiti “reggano” oltre 600 mila pensioni italiane. Certo, sono attività a remunerazioni più basse (nel reddito medio annuo la differenza è di circa 7mila euro), per lavoratori più giovani. Mansioni che, spesso, non sono coperti dalla disponibilità di italiani. E’ – nonostante tante difficoltà e precarietà – un flusso aggiuntivo per il sistema previdenziale.
Paolo Zucca Agenzia SIR 5 luglio 2018
https://agensir.it/italia/2018/07/05/pensioni-e-fertilita-sono-due-facce-della-stessa-medaglia
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DIRITTI
La vita non è mai un bene di consumo
Disposable è il termine che la lingua inglese adotta per indicare ciò che non ha valore permanente, duraturo. Ciò che è a disposizione solo per essere consumato e la cui “vita” è effimera: una bottiglia in plastica di una bibita destinata a finire tra i rifiuti dopo averla sorbita, una penna non ricaricabile da eliminare quando è terminato l’inchiostro, un orologio da polso elettronico la cui riparazione è impossibile o non economica. L’abitudine al consumo dei beni fruibili e talora anche futili – di cui sovrabbondiamo in Occidente, a scapito di altre terre dove donne e uomini mancano dell’indispensabile – secondo la modalità sociale dell’«usa e getta» ci sta facendo correre il rischio serio di considerare anche la stessa vita come un bene di consumo a uso personale, dimenticando che è fatta da un Altro e per un Altro, ed è condivisa con altri al servizio di altri. Lo ha ricordato papa Francesco, il 25 giugno 2018, nel discorso all’Assemblea generale della Pontificia accademia per la Vita: «Escludendo l’altro dal nostro orizzonte, la vita si ripiega su di sé e diventa un bene di consumo».
Questa non è «la sapienza umana della vita», quella che «deve rivolgere più seriamente lo sguardo alla “questione seria” della sua destinazione ultima», prosegue il Santo Padre. «Occorre interrogarsi più a fondo sulla destinazione ultima della vita, capace di restituire dignità e senso al mistero dei suoi affetti più profondi e più sacri». Dignità e senso della vita sono i cardini della bioetica radicata antropologicamente e aperta alla trascendenza di cui ha bisogno la riflessione e l’azione contemporanea nell’età della medicina biotecnologica, delle manipolazioni molecolari e cellulari della vita, delle neuroscienze cognitive, dell’assistenza alla generazione e allo sviluppo, della cura dei malati stabilizzati ma inguaribili, e dei percorsi di riabilitazione dei disabili. Laddove lo stupore e la delicatezza dei processi biologici e delle dinamiche psicologiche fa i conti con il dolore del corpo e la sofferenza dell’animo. «La vita dell’uomo, bella da incantare e fragile da morire, rimanda oltre sé stessa: noi siano infinitamente di più di quello che possiamo fare per noi stessi» e per gli altri, mette in limpida luce papa Bergoglio.
La tenacia nel difendere, custodire e promuovere la vita – un compito di sempre cui le scienze e le tecnologie della vita offrono oggi strumenti potenti e plurivoci un tempo inimmaginabili – mostra il fiato corto se il suo respiro è solo quello umanamente possibile, anche quello “assistito” dal progresso moderno. Una vita, però, che «è anche incredibilmente tenace, di certo per una misteriosa grazia – richiama il Papa – che viene dall’alto». Per questo «la sapienza cristiana deve riaprire con passione e audacia il pensiero della destinazione del genere umano alla vita di Dio […] con il sempre nuovo incanto di tutte le cose “visibili e invisibili” che sono nascoste nel grembo del Creatore».
Un potente invito a spalancare l’orizzonte dell’antropologia e dell’etica oltre gli angusti orizzonti in cui talora lo ingabbiano i dibattiti pubblici e le discussioni politiche: una «bioetica integrale», una «bioetica globale [che] ci sollecita dunque alla saggezza di un profondo e oggettivo discernimento del valore della vita personale e comunitaria, che deve essere custodito e promosso anche nelle condizioni più difficili», attraverso «una prossimità umana responsabile» del destino trascendente dell’uomo e dell’umanità. Per non essere “complici” del Nemico della vita «con il lavoro sporco della morte, sostenuto dal peccato», ma appassionati testimoni e profeti «dell’irrevocabile dignità della persona umana, così come Dio la ama, dignità di ogni persona in ogni fase e condizione della sua esistenza, nella ricerca delle forme dell’amore e della cura che devono essere rivolte alla sua vulnerabilità e alla sua fragilità”, conclude Francesco.
Un messaggio audace per il nostro tempo. La gioiosa audacia del Vangelo della vita che sfida la triste omologazione del pensiero dominato dal narcisismo e dalla paura «che ci condanna a diventare uomini-specchio e donne-specchio che vedono soltanto sé stessi e niente altro».
Roberto Colombo Avvenire 4 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-vita-non-e-mai-un-bene-di-consumo
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
DIVORZIO
Inammissibile la rinuncia di uno dei coniugi alla domanda
Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10463, 2 maggio 2018.
Il divorzio congiunto non è rinunciabile da uno solo dei coniugi e la contumacia in appello non ne comporta l’annullamento. Richiamandosi la domanda congiunta di divorzio ad una iniziativa processuale comune e paritetica, che non corrisponde né alla somma di due distinte domande di divorzio, né alla adesione di una parte alla domanda avanzata dall’altra, deve reputarsi inammissibile una rinuncia unilaterale, poiché alla domanda congiunta possono rinunciare congiuntamente soltanto entrambe le parti.
Neppure può annettersi alla mancata costituzione dell’appellata nel giudizio di secondo grado il significato di un’adesione implicita alla riforma della decisione di prime cure, non equivalendo la contumacia ad ammissione dei fatti dedotti dall’attore o dall’appellante.
Redazione Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20100 – 05 luglio 2018
Ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20100/divorzio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
FECONDAZIONE
Fecondazione medicalmente assistita: solo 2 coppie su 10 avranno un figlio in braccio
Il ‘dono’ degli ovociti di una 29enne avvocato a una clinica per la fecondazione assistita raccontata sul quotidiano La Repubblica “per amore delle altre donne”, l’ha senz’altro resa popolare. Ma la donna, attivista della Rete Lenford vicina agli ambienti Lgbt ha preso indicazioni dall’Associazione ‘Coscioni’ su come muoversi, proponendo tra le altre cose anche un “rimborso spese” alle donatrici come “sostegno economico”
Un’opzione sibillina pro-utero in affitto che tuttavia, in Italia, è stata ampiamente riconosciuta come illegale e illegittima dai più altri organi giudiziari del Paese. Anche perché i numeri nudi e crudi su questa pratica di bombardamenti ormonali e di gestazione artificiale parla di una percentuale di “bambini in braccio” che non supera il 22 per cento
Fecondazione. Quella artificiale porta 8 coppie su 10 a una cocente delusione. Un altro tentativo di ‘picconare’ le solide basi giurisprudenziali che hanno sconfessato in più occasioni l’utero in affitto è giunto, nei giorni scorsi, attraverso la testimonianza-esperienza personale, portata agli onori delle cronache da lei su Facebook e subito ripresa da Repubblica, di una 29enne avvocato che ha dichiarato di aver donato 14 ovociti a una clinica per la fecondazione assistita “per amore delle altre donne”. Un gesto, come raccontato al quotidiano, compiuto dopo aver condiviso il dolore di un’amica che non riusciva ad avere figli e la cui unica possibilità era la fecondazione eterologa con gli ovuli di una donatrice.
Una storia che parla altresì di pesanti bombardamenti ormonali subiti prima di poter donare i suoi gameti, ma anche della sua volontà – nel prossimo futuro – di affrontare una maternità surrogata. Già, perché il gesto altruistico (anche se per nulla riservato, in quanto pubblicato su Facebook), sembrerebbe arrivare da ‘Coscioni’. Una sorta di suggerimento all’opinione pubblica a mobilitarsi per ‘sdoganare’ l’utero in affitto con tanto di “rimborso spese” alle donatrici, un “sostegno economico” che “non toglie nulla alla bellezza di questo gesto”, come ribadito dall’avvocatessa e riportato anche da Avvenire in un commento a firma di Antonella Mariani.
L’indicazione implicita, insomma, all’avvio del mercato dei gameti anche nel nostro Paese. Ma – come fa notare chiaramente Mariani nel suo commento, “se non ci sono donatrici, però, non è solo perché non c’è abbastanza generosità o solidarietà femminile nei confronti delle donne che non riescono ad avere figli. Il fatto è che il prelievo di ovociti è un’operazione complessa e fisicamente pesante. E i soldi non possono comprare la salute delle donne, nemmeno (o forse soprattutto) se queste sono povere”.
www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/lintervista-surrogata-ecco-perch-litalia-non-sa-dire-no
Ma c’è di più: in base ai numeri statistici sulle attività di procreazione medicalmente assistita, la percentuale di “bambini in braccio” varia tra il 17 e il 22 per cento: di fatto, 8 coppie su 10 dopo essere ricorse alla via crucis della fecondazione artificiale, si trovano a dover affrontare un esito profondamente deludente. Un ‘finale’ tristissimo che viene comunque rimborsato, perché la fecondazione artificiale è oggi nei Livelli essenziali di assistenza del Servizio Sanitario Nazionale. Non così, purtroppo, per un’altra strada, ben più feconda, attraverso la quale diventare genitori: quella dell’adozione. Da qui la conclusione di Mariani: “Un po’ di solidarietà anche per loro?”. Una posizione che Ai.Bi. Associazione Amici dei Bambini ha sposato da tempo.
News Ai. Bi. 2 luglio 2018
www.aibi.it/ita/la-via-crucis-della-fecondazione-medicalmente-assistita-solo-2-coppie-su-10-avranno-un-figlio-in-braccio
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
La cavalcata del papa gaucho
Il gaucho oggi è come un mito del passato, in Argentina, perché il progresso, le ferrovie e altri mezzi di comunicazione hanno trasformato la realtà sociale ed agricola in cui viveva un tempo il mandriano — il gaucho, appunto — che, sempre insieme al suo inseparabile cavallo, percorreva le pampas, le immense praterie del paese. Con il poema epico El Gaucho Martín Fierro, del 1872, José Hernández bene rappresentò il cavallerizzo audace, generoso, molto ospitale, fedele nell’amicizia rispettoso di un codice di giustizia che doveva caratterizzare la società, parte viva della terra, il vastissimo territorio di cui si sentiva custode.
«Mi gloria es vivir tan libre como el pájaro (uccello) del cielo» — cantava l’eroe celebrato dallo scrittore. Perciò, dando del gaucho a Jorge Mario Bergoglio, il 13 marzo 2013 eletto vescovo di Roma, lo si definisce uomo affettuoso, positivo, valente, figlio di una patria ben determinata, ma disposto a sentirsi a casa in tutte le patrie. E, come per i gauchos del Cono Sur dell’America, stretti — oggi — tra il custodire le tradizioni del passato e l’inserirsi nell’avanzare inarrestabile della modernità, anche lui, mutatis mutandis, si trova a districarsi in questa inevitabile tensione, feconda ma anche dolorosa.
Il gaucho divenuto Francesco deve percorrere non solo le pur sconfinate pampas, ma le praterie, le montagne, le valli del pianeta: perché il mondo intero è la sua terra, in quanto la Chiesa romana oggi è presente — talora in modo massiccio, talaltra solo con comunità germinali — in ogni paese. E, soprattutto, deve “ripercorrere” l’intera vicenda della sua Chiesa, per custodirne l’eredità bimillenaria, non però come un museo morto ma come una fontana viva. Cercando, se possibile, di salvaguardare parole antiche ma innervandole di nuova vita di fronte alle sfide che oggi attendono il pastore di un gregge composto da un miliardo e trecento milioni di fedeli. In tale contesto si situa il problema della famiglia (“cristiana” e non) che Francesco ha voluto affrontare insieme ai vescovi con due Sinodi (2014 e 2015) e poi delineare nella sua Esortazione apostolica postsinodale Amoris lætitia.
Esamineremo quel testo e, in esso, approfondiremo in particolare la questione della possibilità, o meno, che persone divorziate e risposate civilmente possano accostarsi all’Eucaristia. Sui media, ma anche in documenti vaticani, il tema in questione viene spesso riassunto con le parole “divorziati risposati”; locuzione che occulta le “divorziate risposate”. Ma citare ogni volta i due generi sarebbe pesante; citarne uno solo, poi, ingiusto verso le donne. Anche ripetere mille e mille volte “persone divorziate e risposate civilmente” finirebbe per stancare la lettura. Dunque abbiamo optato per una abbreviazione, usata continuamente: d&r = persone divorziate e risposate con rito civile. Può sembrare una sigla strana; in realtà è una scelta rispettosa.
Ma, venendo alla sostanza: come ha risolto il problema, il papa gaucho? Diremo, ovviamente, del fondamento del suo discorso: riaffermazione della dottrina, ma variazioni sostanziali nella pastorale. E poi riferiremo le risposte dell’episcopato mondiale, del mondo teologico e di gruppi di fedeli alle sue indicazioni: molti entusiasti “sì” ma, anche, fermi “no” — cardinalizi, soprattutto.
Questa opposizione, per quanto minoritaria, è fondata su obiezioni che riteniamo confermate da una certa solida tradizione, e però debolissime, se il metro di misura è, o torna ad essere, l’Evangelo, e anche la dottrina–prassi della prima Chiesa. Tuttavia, i “no” hanno dalla loro, o ritengono di avere, il magistero papale e conciliare dal Tridentino al Vaticano II e fino a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Lanciando il cuore oltre l’ostacolo, Bergoglio ha ritenuto che la cifra della misericordia — proclamata da Gesù — possa e debba illuminare anche la considerazione “pastorale” della questione d&r/Eucaristia, ammettendo possibile, caso per caso, e dopo attento “discernimento”, una soluzione invece espressamente rifiutata da Wojtyla e da Ratzinger. Come uscire da un contrasto profondo, e del quale è difficile intravedere una via d’uscita, dato che cardinali, vescovi e fedeli del “no” apportano delle motivazioni che Francesco non ha affrontato in recto, per frantumarne, se poteva, il basamento? Il problema — in sé circoscritto, ma diventato esplosivo per la rete di nodi dottrinali, storici e teologici che condensa — scuote la Chiesa romana e, certamente, peserà sul futuro conclave.
E allora? La mia modesta opinione (dunque: “opinabile”, ma non campata in aria) riprende quello che un vescovo anglofono suggerì durante il Sinodo 2015: solamente un Concilio generale della Chiesa romana potrebbe cambiare e oltrepassare un magistero univoco e granitico durante mezzo millennio nell’affermare il “no” (dal Tridentino in poi: sul “prima” dovremo fare importantissimi “distinguo”, a partire dal Concilio di Nicea del 325). Il “sì”, perciò, potrebbe arrivare dopo che le contrastanti opinioni su d&r si saranno confrontate davvero, e dunque essere frutto di un corale, approfondito ed esplicito dibattito, proprio di un Concilio non solo e non più clericale, ma che veda in qualche modo rappresentato l’intero “popolo di Dio”: e, ovviamente, donne comprese. Senza questo passaggio sarà ben arduo che la questione d&r possa essere superata, e si arrivi nella Chiesa romana alla desiderata pacificazione. Una faticosa cavalcata, dunque, attende il papa gaucho, se “questo nuovo matrimonio s’ha da fare”.
(Tratto dall’introduzione del libro “Il papa gaucho e i divorziati. Questo matrimonio (non) s’ha da fare” Luigi Sandri, Aracne Editrice. Si ringraziano l’Autore e l’Editore per la gentile concessione)
Luigi Sandri “Trentino” 6 luglio 2018 Fine Settimana
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180706sandri.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
HUMANÆ VITÆ
Così Joseph Ratzinger contestò le tesi di Paolo VI
Nel 1968 il futuro papa criticò le posizioni di Montini poi accolte nell’enciclica “Humanæ vitæ”. Rimarrà sorpreso chi ritiene che la dottrina di Humanæ vitæ, l’ultima enciclica di Paolo VI, siano irriformabili. Infatti, a leggere il testo di Joseph Ratzinger, “Per una teologia del matrimonio”, ora pubblicato da Marcianum Press, a cura di Nicola Reali (ne riproduciamo qui un brano), e curiosamente non inserito nella sua Opera omnia, si comprende come le argomentazioni di Humanæ vitæ erano per il teologo tedesco tutt’altro che insindacabili.
Anche se il testo di Ratzinger è stato scritto nel ’68, e dunque prima dell’enciclica, il contenuto (pubblicato un anno dopo) è riferibile a quanto del dibattito teologico in corso in quegli anni Paolo VI ha inserito nel suo lavoro. Spiega Reali: «Il testo esprime una presa di posizione (del tutto legittima) su quel dibattito. L’averlo pubblicato, senza cambiare nulla, un anno dopo, è fatto che, con non meno evidenza, segnala la partecipazione attiva alla discussione che è seguita alla pubblicazione dell’enciclica».
Montini dichiarò, fra le altre cose, l’illiceità della «pillola» e degli altri mezzi contraccettivi. Ratzinger, come ha ribadito anche in una recente intervista con Peter Seewald, pur mettendo in discussione l’insegnamento di base del testo, ne fa emergere la fragilità del fondamento su cui si basa l’argomentazione di fondo. Per lui la morale cristiana su matrimonio e famiglia non può far leva solo sulla legge naturale poiché questa deriva l’elemento eticizzante della relazione coniugale dalla sfera animale, riducendo la sessualità quasi alla mera riproduzione della specie. I precetti morali cristiani, invece, possono essere rispettati solo in una prospettiva di fede: là dove il cristiano — come ricordava anche Lutero— si riconosce sempre «simul iustus et peccator»
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180702rodari.pdf
Ma l’indissolubilità del matrimonio non è una legge di natura
È chiaro che dalla corretta interpretazione sacramentale del matrimonio cristiano discende necessariamente la sua unità e indissolubilità: in quanto realizzazione – nella fedeltà dell’uomo – della fedeltà di Dio all’Alleanza, il matrimonio cristiano esprime la definitività e l’irrevocabilità del “sì” divino nella definitività e irrevocabilità del “sì” umano. Solo questo è veramente conforme alla fede e, pertanto, realizzazione di un vero ethos cristiano. La possibilità di scelte irrevocabili, che la fede dischiude, appartiene ai tratti fondamentali dell’immagine dell’uomo che la fede stessa implica. Allo stesso tempo si deve però ricordare senza esitazioni che dal puro diritto naturale non si può dedurre l’unità e l’indissolubilità del matrimonio. La “natura” del matrimonio è il suo essere nella storia e la sua naturalità si compie solo negli ordinamenti storici.
Anche l’ordine della fede è un ordine storico, sebbene esso veda in Cristo la forma definitiva della storia e debba quindi attribuire alla pretesa della fede un carattere incondizionato. (…) Il tentativo di interpretare giuridicamente questo appello sovralegale e sovragiuridico porta, già nella comunità ecclesiale descritta da Matteo, a includere di nuovo nel diritto la «durezza di cuore» dell’uomo e a procedere di conseguenza.
Sicuramente si può dire che proprio in queste clausole sul divorzio che ora appaiono, la pretesa di Gesù, la quale demolisce la casuistica e porta al suo superamento, viene di nuovo trasformata in una posizione casuistica e in questo modo si rinnova il rischio di perdere qualcosa della serietà del principio. Allo stesso tempo, però, occorre riaffermare che la recezione da parte della Chiesa non può essere separata dalla parola di Gesù; e con assoluta chiarezza qui si ribadisce che la parola di Gesù è sì l’incondizionato punto di riferimento di ogni matrimonio cristiano, ma non una nuova legge nel senso stretto della parola. Su questa base si può comprendere perché nella Chiesa d’Oriente già molto presto, in caso di adulterio, sia stata concessa la possibilità di divorziare al coniuge non colpevole e per lungo tempo siano state riconosciute analoghe possibilità anche nella Chiesa latina. Ciò corrisponde al fatto che l’uomo anche nel Nuovo Testamento ha bisogno di indulgenza a motivo della sua “durezza di cuore”, che egli è giusto solo in quanto peccatore giustificato, che secondo la fede il Discorso della montagna è un criterio valido, ma non rappresenta la forma giuridica del suo vivere insieme. Da ciò non si deve concludere che anche la Chiesa di Occidente dovrebbe rendere il divorzio una possibilità del proprio diritto canonico similmente a quanto fanno le chiese ortodosse d’Oriente.
Mantenere l’indissolubilità come un puro diritto della fede ha un profondo significato. Ma allora la pastorale deve lasciarsi determinare più fortemente dai limiti di ogni giustizia e dalla realtà del perdono; essa non può considerare in modo unilaterale l’uomo macchiatosi di questa colpa peggiore rispetto a chi è caduto nelle altre forme di peccato. Essa deve diventare consapevole con maggiore chiarezza delle peculiarità proprie del diritto della fede e della giustificazione per fede e trovare nuove strade, per lasciare aperta la comunità dei fedeli anche a coloro che non sono stati in grado di mantenere il segno dell’Alleanza nella pienezza della sua pretesa.
Joseph Ratzinger “la Repubblica” 2 luglio 2018
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180702ratzinger.pdf
L’Humanæ vitæ di Paolo VI
Dall’Enciclica del 1968 alla Commissione “della popolazione e della natalità” di Papa Roncalli. La contraccezione, oggi, secondo l’Amoris lætitia di papa Francesco
Il 25 luglio 1968 Paolo VI promulgava l’Humanae Vitae, un’enciclica inattesa, che definì, meglio di ogni altro intervento, la natura di quel pontificato, ampio di vedute sul piano ideale e limitato dalla preoccupazione per la tradizione del magistero cattolico.
Papa Roncalli, ben diversamente sensibile al conflitto tra l’immobilismo della Chiesa di Pio XII e le impellenti trasformazioni sociali del secolo, aveva istituito fin dai primi anni Sessanta (del secolo scorso) una Commissione di studio “della popolazione, della famiglia e della natalità” che, senza nominarlo, comprendeva, tra l’altro, il riferimento all’uso dei contraccettivi.
La maggioranza dei vescovi era favorevole a reinterpretare il “crescete e moltiplicatevi” e sembrava che la Chiesa si disponesse a promuovere una scelta più responsabile della genitorialità. Si raccontava che ad un intervento contro ogni pratica di ostacolo alla riproduzione tenuto in assemblea dal cardinal Ottaviani che, rammentando lo stile di vita dei suoi genitori, del padre lavoratore e dei tanti figli, ammoniva che mai la sua famiglia sarebbe ricorsa alla contraccezione, alcuni vescovi commentassero “utinam, utinam!” magari, magari.
L’enciclica fu, infatti, una gelata: il papa ammetteva la liceità dei soli metodi naturali, anche se riconduceva maternità e paternità all’etica della responsabilità. Anche all’interno delle strutture cattoliche fu grande lo sconcerto. In quel periodo dirigevo “Il nostro impegno”, mensile delle donne dell’Azione Cattolica: non potevamo non pubblicare il documento del papa e la nostra piccola redazione ricorse ad alcuni accorgimenti per non fargli eccessiva propaganda. Ne demmo l’annuncio in apertura nell’editoriale, poi lasciammo il titolo in latino notoriamente non un’attrattiva, e usammo nella grafica il “retino” che rendeva un po’ spenta la pagina. Anche per l’Azione Cattolica era il Sessantotto. Ed eravamo tutte donne.
La trasgressione aveva anche motivazioni oggettive: non ci si poteva nascondere che il risultato dell’imposizione forzata alla coscienza avrebbe prodotto solo la doppiezza della morale e l’ipocrisia di una disciplina accettata a parole e disobbedita in privato. Infatti per larga parte della gente già allora la sensibilità comune individuava il “peccato” più nel mantenimento della vecchia dottrina e nella mancata evangelizzazione dei fedeli maschi che nell’uso dei contraccettivi: per quell’omertà di genere che persiste anche nel clero, la paternità è autorizzata a restare irresponsabile, come se il buon dio avesse dato all’uomo una sessualità “per natura” violenta a cui la donna “deve” sottomettersi.
Eppure Dio stesso aveva insegnato diversamente, avendo mandato un angelo a Maria per chiederle il consenso per quanto stava per accadere. Nemmeno oggi la teologia morale – come del resto anche la morale laica – viene pensata in riferimento alla differenza dei “generi”.
Possiamo solo sperare che sia ormai totale l’oblio steso sulla Casti Connubi del 1930 che definiva “turpe e disonesto” impedire la funzione riproduttiva della genitalità e che l’attuale corso di studi dell’Università Gregoriana, dal titolo anodino “A cinquant’anni dall’Humanæ vitæ”, induca davvero, se non al rinnovamento della normativa, a ripensare la compatibilità dell’HV con l’Amoris lætitia di papa Francesco.
Resta il danno del permanere dell’immobilismo cattolico: si sa che il tempo perduto non si ricostituisce e i ritardi sono stati così controproducenti da continuare ad ostacolare la ricezione di un Concilio che, oltre cinquant’anni fa, volle essere “pastorale” e non più “dogmatico”. Giovanni XXIII calcolava l’effetto contagioso della crescita ordinata dei valori che non cambiano se noi che li interpretiamo, li traduciamo a divenire segni dei nostri tempi. I pontefici che hanno seguito la linea della successione apostolica non ebbero tutti stessa visione anticipatrice delle prevedibili trasformazioni, già scritte nell’agenda della storia.
Oggi i cattolici (ma non solo?) sono in caduta libera e molti giovani si sposano ancora in Chiesa solo per far piacere ai genitori e godere della ritualità fortunatamente sempre più sobria. Tuttavia non si può dimenticare che per i loro genitori e nonni il matrimonio aveva come principale finalità “la riproduzione, insieme con la reciproca assistenza e (orribile dirlo in un sacramento) il remedium concupiscentiæ”.
Il Concilio Vaticano II ha voluto che fondante del matrimonio sia, finalmente, l’amore: anche gli intransigenti che domandano, sempre più arrabbiati, “dove andremo a finire con questo papa Francesco?”, debbono riconoscere che i veri “valori” crescono nella libertà propria “dei figli di Dio” e, soprattutto, nell’amore. È questo che umanamente lega, in forma se volete indissolubile, le coppie: prescindendo dalle tipologie sessuali, l’ultima generazione deve poter pensare di fondare famiglie capaci di buona relazionalità e di estensione solidale con gli altri.
Giancarla Codrignani 4 luglio 2018
www.noidonne.org/articoli/lhumanae-vitae-di-paolo-vi.php
Amore, vita e fede. Teologi a confronto
Il racconto sul mutamento culturale odierno di fronte al tema degli affetti, dei legami, della fecondità. Su questa base è iniziato ieri pomeriggio a Torino il XXVII Congresso nazionale dell’Atism, l’associazione a cui aderiscono i teologi per la studio sulla morale, dedicato a «Sessualità. Differenza sessuale. Generazione. A cinquant’anni da Humanæ vitæ ».
Un tema «significativo, che richiede studio, sapienza e capacità autentica di discernimento» come ha sottolineato, nel suo saluto, il teologo Roberto Repole, presidente dell’Ati (Associazione teologica italiana). I lavori si sono aperti con una sessione pubblica alla facoltà teologica torinese con spunti di riflessione su «Persone e affetti, legami e fecondità» offerti dal sociologo Franco Garelli, che ha scelto di partire dal frutto delle sue ricerche, sia in ambito della religiosità che sui giovani, per tratteggiare i cambiamenti in ambito affettivo e sessuale che coinvolgono in particolare i giovani, ma non solo. «In un continuo protrarsi della giovinezza, in un contesto sociale che indica il raggiungimento del benessere nell’equilibrio corpo-spirito attraverso il sesso» ha evidenziato il sociologo. Sul tema Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara, vicepresidente della Cei ha posto l’accento sul fatto che siamo in un contesto culturale che ha due gravi problemi: «Il primo riguarda il rapporto tra affetti e scelta di vita. Un tempo affetto, scelta di vita e fede andavano insieme, ma era un contesto di cultura e di ambiente di cristianità differente da oggi. Adesso questo passaggi vanno tutti accompagnati e fatti crescere insieme». Brambilla ha poi indicato che il secondo dato culturale per cui è difficile far passare «la visione cristiana, l’antropologia cristiana, è la difficoltà a comprendere la polarità maschio-femmina», è necessaria quindi «una riflessione rigorosa e poi una elaborazione dei linguaggi che tenga conto della prospettiva antropologica e che questa prospettiva ha una dimensione storica. La prospettiva antropologica – sostiene – deve coordinare affetto, emozione sentimento, scelta di vita, scelta di vita stabile, fede e sacramento».
Altro contributo alla riflessione, guidata da Salvatore Cipressa, segretario Atism, è stato offerto dalla psicologa Anna Bertoni, docente all’Università Cattolica di Milano, che ha messo l’accento sulla situazione contemporanea del rapporto tra sessualità, amore, generazione. «Tutte le tematiche – spiega Basilio Petrà, presidente dell’Atism – sono al centro del dibattito e del vissuto contemporaneo, specialmente in ambito occidentale. Con questo congresso abbiamo la possibilità di convogliare risorse intellettuali e spirituali per fare il punto della situazione e su quanto si possa rispondere adeguatamente alle sfide contemporanee osservando tutta la prospettiva valoriale, ma anche aprendosi alle nuove realtà. La nostra preoccupazione è quella di riuscire ad andare incontro al vissuto dei credenti».
Chiara Genisio Avvenire 4 luglio 2018
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201807/180704genisio.pdf
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
MATRIMONIO
Matrimonio forzato: cosa fare?
Ti ritrovi, dopo alcuni anni di matrimonio, a chiederti quanto hai davvero voluto sposarti. Oggi, che puoi meditare più attentamente sulla tua scelta, hai l’impressione che sia stata solo il frutto di una costrizione. Da un lato c’era tua madre e le sue paure che tu potessi rimanere zitella, sola e senza figli. Dall’altro lato tuo padre, che ti ha – anche se non espressamente – minacciato di non poterti mantenere in eterno ed ospitare a casa sua. Poi lui, il tuo fidanzato di sempre, che ti ha costretto a salire sull’altare quasi di peso perché, a suo dire, nessun altro ti avrebbe mai accettato con tutti i tuoi problemi. E per rendere più dolce la pillola ti ha anche promesso un posto di lavoro. Non solo, sempre il tuo attuale marito – bell’amore, il suo! – ti aveva minacciato: se gli avessi chiesto più tempo per riflettere ti avrebbe lasciato. Di fronte a tutti questi fatti, che ora rivedi con maggior chiarezza, ti chiedi come riprendere in mano la tua vita. Cosa stabilisce la legge a riguardo? In caso di matrimonio forzato cosa fare? Di questo parleremo nel seguente articolo. Ti spiegheremo cioè come annullare il matrimonio o, in alternativa, separarti. Ed eventualmente cosa ti spetta.
Matrimonio fatto con violenza psicologica: come annullarlo? Per dirsi addio con il coniuge non c’è solo la separazione e il successivo divorzio. Esistono anche l’annullamento del matrimonio e la dichiarazione di nullità: il primo per i vizi del consenso meno gravi (ad esempio un errore sulle qualità della persona), il secondo per i vizi più gravi (ad esempio, il consenso estorto con la violenza fisica).
La legge prevede la possibilità di chiedere, in tribunale, l’annullamento del matrimonio per violenza psicologica o, per dirla più in termini giuridici, per violenza morale. Si deve trattare di una coercizione “mentale” (non fisica) tale da condizionare il consenso del coniuge. Non tutte le violenze morali però possono dar luogo ad annullamento. Si deve trattare di una minaccia grave ed effettiva, tale cioè da far temere un male ingiusto e notevole tenendo conto della sensibilità personale e dello stato soggettivo del coniuge. Può essere espressa con qualsiasi mezzo (parole, gesti, scritti) ed essere esplicita o manifestata indirettamente attraverso comportamenti intimidatori.
Oggetto della violenza è la persona oppure i beni dello sposo o dei suoi prossimi congiunti. Secondo la giurisprudenza non costituisce violenza la generica minaccia dei genitori di cacciare la propria figlia da casa per aver avuto rapporti intimi con il fidanzato.
Non si può ricorrere all’annullamento del matrimonio per violenza quando il matrimonio è semplicemente imposto dal fidanzato o “spinto” dai genitori in modo ossessivo. Nel caso del padre o della madre che convincono la figlia a sposarsi solo perché altrimenti non avrà compagnia o figli non si può parlare di annullamento del matrimonio per violenza. Al contrario si può ricorrere al giudice quando il matrimonio viene posta come l’unica via per sottrarsi a un pericolo e come la scelta del male minore. Il timore deve essere di eccezionale gravità e consistere in un grave sentimento di paura in grado di condizionare la manifestazione del consenso. Il fatto di sminuire le doti di una persona al fine di ottenere il suo consenso al matrimonio non è considerabile violenza, così come non lo è la minaccia di interrompere il fidanzamento.
Si può annullare il matrimonio ad esempio quando si decide di sposarsi per sottrarsi a una violenza o persecuzione politica, sociale o familiare.
Il timore putativo ossia privo di riscontri oggettivi e basato esclusivamente su un sentimento di angoscia o disperazione sorto nell’animo del coniuge e quello reverenziale (lo stato di soggezione psicologica basato su sentimenti di ossequio e reverenza), non giustificano l’annullamento del matrimonio.
L’annullamento non può essere richiesto se gli sposi hanno coabitato per un anno dopo la cessazione della violenza o delle cause che hanno determinato il timore di eccezionale gravità oppure dalla scoperta dell’errore.
Annullamento [nullità] del matrimonio alla Sacra Rota. Come è facile vedere, chiedere l’annullamento del matrimonio al tribunale civile è molto difficile e scatta solo in casi di eccezionale gravità. Non resta che rivolgersi alla Sacra Rota. Un tipico caso in cui si può ricorrere al tribunale ecclesiastico è quando vi è la mancanza di consenso da parte di uno dei coniugi o di entrambi al matrimonio, compresa la riserva mentale e la simulazione che si ha quando i coniugi, prima di sposarsi, si sono messi d’accordo per non adempiere agli obblighi e non esercitare i diritti matrimoniali («Mi sposo, ma tanto so già che divorzieremo»). È sia il caso dello straniero che si sposa per acquisire la cittadinanza del coniuge o dell’Italiano stesso che lo fa per ottenere la reversibilità della pensione o per esaudire il desiderio dei genitori di regolarizzare una situazione attraverso il cosiddetto matrimonio riparatore (la classica ragazza rimasta incinta senza volerlo).
La sentenza deve essere poi convalidata dal tribunale italiano. La convalida però viene negata se la coppia ha convissuto per almeno 3 anni. Dopo tale termine quindi l’annullamento ha solo effetti per la Chiesa cattolica, ma non anche per lo Stato e, ai fini della legge, la coppia resta sposata.
La separazione e il divorzio. Se non ricorrono le cause che abbiamo appena elencato o la coppia ha convissuto da più di tre anni non resta che la separazione e il successivo divorzio.
Dichiarare di essersi sposati senza averlo effettivamente voluto non è una colpa e, quindi, non scatta il cosiddetto “addebito”. Ad esempio, in una coppia ove la moglie è disoccupata e chiede la separazione perché si accorge di non aver mai amato davvero il marito, a questa spetterà ugualmente l’assegno di mantenimento visto che non le può essere imputato alcun addebito per la confessione.
Di certo, la scelta di procedere con la carta della nullità o dell’annullamento del matrimonio mette al riparo l’ex coniuge dalle richieste di pagamento di assegni mensili
Redazione La legge per tutti 2 luglio 2018
www.laleggepertutti.it/218865_matrimonio-forzato-cosa-fare▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
NATALITÀ
Fecondazione: sondaggio, donne congelano ovociti in attesa dell’uomo ‘giusto’
Non è la sete di carriera o semplicemente la ricerca di un impiego fisso a spingere la donne a congelare i propri ovociti (il cosiddetto ‘social freezing’), bensì la mancanza di un partner stabile o meglio dell’uomo perfetto con cui avere un bambino. Un scelta che viene fatta, dunque, in attesa non tanto del momento, quanto più che altro di un partner che voglia impegnarsi.
Sono le conclusioni a cui è giunto uno studio degli antropologi della Yale University presentato al congresso della European Society of Human Reproduction and Embryology (Eshre) in corso a Barcellona.
I ricercatori hanno intervistato 150 donne che si sono rivolte a 4 cliniche di fecondazione in vitro negli Stati Uniti e 3 in Israele e che avevano completato almeno un ciclo di congelamento degli ovociti per motivi sociali e non medici.
Più di 4 su 5 (l’85%) non aveva un partner in quel momento.
“Molte persone credono erroneamente che le donne conservino le loro uova per motivi ‘frivoli’ – dicono gli esperti – la letteratura medica e la copertura mediatica sul tema della crioconservazione degli ovociti di solito suggeriscono che questo metodo viene usato per rinviare o ritardare la gravidanza fra donne che perseguono un’istruzione di altissimo livello o la propria carriera.
Il nostro studio, tuttavia, suggerisce che la motivazione primaria è la mancanza di un partner che si impegni in un progetto di genitorialità”.
La pianificazione della carriera risulta infatti un motivo meno comune, anche tra le donne che lavorano in aziende che offrono il congelamento degli ovociti incluso nella propria assicurazione sanitaria.
Commentando i risultati del sondaggio Virginia Bolton della Fertility Society ha dichiarato: “Penso che nella società ci sia ancora questo malinteso: che le donne scelgano questa opzione per motivi poco rilevanti: perché preferiscono avere una carriera e comprare borse firmate, piuttosto che diventare madri.
Adnkronos Salute 3 luglio 2018
www.paginemediche.it/news-ed-eventi/fecondazione-sondaggio-donne-congelano-ovociti-in-attesa-dell-uomo-giusto
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
NULLITÀ MATRIMONIALI
Il vescovo potrà avvalersi di collaboratori più esperti in diritto canonico
La Congregazione per l’Educazione cattolica modifica un paragrafo della istruzione pubblicata il 29 aprile 2018 per l’applicazione dei due motu proprio del Papa
www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20180428_istruzione-diritto-canonico_it.html
La Congregazione per l’Educazione cattolica modifica un paragrafo della istruzione indirizzata alle facoltà e istituti di diritto canonico di sua competenza con cui vuole favorire l’applicazione della riforma voluta da Francesco sulle nullità matrimoniali con i motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus. Lo rende noto il prefetto della Congregazione, il cardinale Giuseppe Versaldi, in un articolo pubblicato sulla edizione odierna de L’Osservatore Romano in cui spiega che si tratta del paragrafo numero 2 del documento relativo al ruolo del vescovo nei processi canonici per le cause di nullità matrimoniale.
Il nuovo paragrafo – la cui modifica, spiega Versaldi, gli è stata concessa dal Papa nell’udienza del 5 giugno scorso – sottolinea che al vescovo è richiesto che «abbia conseguito la laurea dottorale o almeno la licenza in sacra Scrittura, teologia o diritto canonico in un Istituto di studi superiori approvato dalla Santa Sede oppure sia almeno veramente esperto in tali discipline». «Tale conoscenza delle scienze sacre (anche senza gradi accademici), insieme alla grazia sacramentale dell’ordinazione episcopale, è sufficiente per rendere ogni vescovo per sua natura pienamente idoneo ad istruire il processo matrimoniale, anche quello più breve», sottolinea l’istruzione. «Ciò non toglie – e questa è la novità – che la prudenza possa consigliare al vescovo di avvalersi di collaboratori ancor più esperti in diritto canonico; tuttavia ciò è sempre lasciato alla sua piena discrezionalità a seconda delle circostanze nei singoli casi».
Le disposizioni contenute nel documento pontificio, sottolinea il cardinale, sono date perché «si favorisca non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio».
Il Dicastero si rivolge dunque alle proprie istituzioni accademiche, «perché – spiega Versaldi – si mettano in sintonia con questo spirito della riforma prestando le proprie strutture alla formazione di persone esperte in diritto matrimoniale anche senza giungere ai titoli accademici». A questo scopo, l’istruzione traccia «una mappa dei diversi ruoli implicati nel processo matrimoniale alla luce delle nuove disposizioni canoniche».
Oltre alle tradizionali figure descritte e normate dal diritto canonico (il vescovo, l’istruttore o uditore, l’assessore, il moderatore della cancelleria, il notaio, gli avvocati), l’istruzione si sofferma specialmente sulla figura dei «consulenti», ovvero «coloro che avviano il processo di nullità mediante l’indagine previa prima dell’inizio formale del processo». «Sono le persone più a contatto diretto con le coppie in crisi, da cui sovente dipende il buon esito del processo e della credibilità della Chiesa», dice il cardinale.
L’istruzione elenca tre categorie, «quasi dei cerchi concentrici attorno al vero e proprio processo canonico»: «i parroci (primo livello), membri di una struttura stabile come i consultori in cui operano anche esperti in scienze umane (secondo livello) e avvocati che possono poi accompagnare anche durante il processo (terzo livello)».
Per tutte queste persone l’istruzione invita a predisporre «percorsi formativi differenziati in relazione allo scopo specifico di ciascuna categoria senza pretendere per tutti la stessa competenza, ma anche senza lasciar mancare una adeguata preparazione sia teologica sia canonistica». Per Versaldi è importante precisare «che tutte le disposizioni dell’istruzione sono mirate ad aiutare innanzitutto i vescovi nella loro primaria e insostituibile funzione di responsabili del processo di nullità, specialmente per quanto riguarda il processo più breve».
Redazione Vatican insider news 06 luglio 2018
www.lastampa.it/2018/07/06/vaticaninsider/nullit-matrimoniali-il-vescovo-potr-avvalersi-di-collaboratori-pi-esperti-in-diritto-canonico-FDvWcbveiBQBJ74QsSCIzO/pagina.html
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
OMOGENITORIALITÀ
Divieto di fecondazione eterologa, primo ricorso di una coppia gay alla Consulta
Alla coppia omosessuale l’Azienda sanitaria 5 di Pordenone ha rifiutato l’accesso alla tecniche di fecondazione eterologa, come previsto dalla legge. Ma il giudice la pensa diversamente
Non c’è pace per la legge 40/2004, negli anni scorsi sconvolta nel suo impianto originario a colpi di sentenze e di ricorsi alla Consulta nel tentativo di rendere tutto possibile in fatto di procreazione. Il Tribunale di Pordenone –- giudice Maria Paola Costa -– ora ha accolto la richiesta di una coppia di donne omosessuali di sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme – nella fattispecie la legge 40 – che attualmente vietano in Italia l’accesso alla procreazione medicalmente assistita anche alle coppie omosessuali. Sul procedimento, dunque, si pronuncerà ora la Corte Costituzionale.
Alla coppia era stato rifiutato l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale dal Servizio per i trattamenti di Procreazione Medicalmente Assistita presente nell’Azienda Sanitaria 5 di Pordenone, proprio in base a quanto prevede la normativa, che vieta l’accesso alla provetta alle coppie gay e anche ai single. Di fronte al diniego della struttura pubblica, le due donne avevano chiesto al giudice, qualora non fosse stato possibile in via diretta – ovvero con un’interpretazione costituzionalmente orientata – superare il rifiuto dell’Azienda Sanitaria, di investire della questione la Corte Costituzionale, al fine di dichiarare formalmente l’incostituzionalità di tale divieto.
E così il giudice pordenonese ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione posta dalla legale della coppia, stante il palese contrasto del divieto con gli articoli 2, 3, 31 comma 2 e 32 comma 1 della Costituzione (quelli cioè relativi ai diritti degli individui e alla loro uguaglianza innanzi alla legge) nonché con l’articolo 117 comma 1 della Costituzione (che prevede il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali) in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (Cedu), il primo incentrato sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, il secondo sul divieto di discriminazione.
Redazione Interni mercoledì 4 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/eterologa-alla-consulta-il-ricorso-di-una-coppia-di-donne
Pesaro. La procura stoppa il «doppio padre»: «No alla registrazione dei figli»
La coppia ha due gemelli da madre surrogata in America. I giudici hanno impugnato la trascrizione dell’atto di nascita dei bambini, effettuata dal Comune
Torino, Roma, Catania. E pure Gabicce Mare (Pesaro) e Crema (Cremona). Sono alcuni dei Comuni che hanno trascritto certificati di nascita rilasciati da un Paese estero, relativi a bimbi “commissionati” da coppie omosessuali e ottenuti attraverso l’assemblaggio di diverso materiale genetico e la gestazione in un utero affittato.
Una pratica, quella della maternità surrogata, che la legge penale italiana vieta. E un riconoscimento, quello dell’atto di nascita estero, che cozza (anche) il nostro codice civile secondo cui madre (dunque genitore) è colei che partorisce. Ed ecco che, dopo mesi di silenzio, una Procura si è mossa per vederci chiaro.
E’ quella di Pesaro, che ha competenza sulla cittadina litoranea: notizia di stamattina è l’impugnazione della trascrizione dell’atto di nascita di due gemelli effettuata dal Comune, perché “non basta produrre un documento californiano con la scritta i gemelli hanno due padri per farci stare tranquilli”, hanno spiegato al Resto del Carlino i magistrati inquirenti, ma “sarà necessario”, hanno aggiunto, chiederanno “di sottoporre alla prova del Dna bimbi e genitori intenzionali”.
Che sono due uomini, albergatori, che hanno 57 e 34 anni. A fondare l’iniziativa del sostituto procuratore Silvia Cecchi, per quanto si sa ora, non è il reato di maternità surrogata, ma la trascrizione del certificato estero. In parole povere, dunque, il fatto che per la legge – contrariamente a quanto natura vuole – quei bimbi possano essere ritenuti figli di due padri.
La questione, dal punto di vista giuridico, è molto intricata. Se è vero infatti che l’Italia, da un lato, è obbligata a riconoscere gli atti esteri validamente emessi nel Paese di provenienza, dall’altro il nostro diritto internazionale vieta ciò quando l’oggetto di un certificato sia contrario all’ordine pubblico, e cioè ai principi irrinunciabili del nostro ordinamento.
La Cassazione, con sentenza 24001 del 2014, aveva ritenuto impossibile riconoscere “genitori” – e proprio per contrarietà all’ordine pubblico – due persone che avevano comprato un bimbo attraverso la maternità surrogata compiuta all’estero. E attenzione: in quel caso, si trattava di una coppia etero, ma per i supremi giudici, in ogni caso, il fatto che l’utero in affitto fosse vietato dalle nostre leggi impediva il riconoscimento dei suoi frutti.
Da quel momento, però, le magistrature chiamate a decidere casi simili via via presentatisi (e resi ancor più problematici dal fatto che “committenti” hanno iniziato a essere pure coppie omosessuali) si sono rese protagoniste di sentenze contrastanti. Di sicuro, una situazione di fatto contraria a un principio cardine del nostro ordinamento, la certezza del diritto. Fatto sta che, ora, la trascrivibilità o meno dei certificati di nascita provenienti da maternità surrogata è ancora rimessa al giudizio della Suprema Corte. Stavolta – proprio alla luce della confusione creatasi – ha scelto di pronunciarsi a Sezioni unite. Quanto deciso, dunque, sarà pressoché vincolante per tutti i giudici chiamati a decidere casi simili. Il verdetto è atteso in autunno.
Marcello Palmieri Avvenire 4 luglio 2018
www.avvenire.it/attualita/pagine/pesaro-la-procura-stop-al-doppio-padre
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
OMOMATRIMONIO
Trascrizione matrimoni omosessuali all’estero, giurisdizione al giudice ordinario
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 16957, 27 giugno 2018.
www.diritto.it/get-file-documento/?id=60120&mode=s
La questione circa la trascrivibilità o meno sui registri di stato civile italiani di un matrimonio contratto all’estero da soggetti dello stesso sesso, attiene allo status delle persone. La relativa controversia, pertanto, va proposta dinanzi al giudice ordinario.
E’ questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la pronuncia n. 16957 del 27 giugno 2018.
Il Prefetto di Roma disponeva l’annullamento della trascrizione del matrimonio contratto all’estero da due donne, dando ordine all’ufficiale di stato civile del Comune di provvedere a tutti i conseguenti adempimenti. Le interessate ricorrevano al Tar Lazio, il quale, dopo aver riconosciuto l’insussistenza di qualsivoglia diritto alla trascrizione negli atti di matrimonio tra coppie dello stesso sesso contratti all’estero, nondimeno giudicava illegittimo il provvedimento prefettizio che decretava l’annullamento della trascrizione medesima. La controversia giungeva in seguito al Consiglio di Stato che, accogliendo il gravame del Ministero dell’interno, riformava la sentenza impugnata respingendo l’originario ricorso delle donne.
Queste ultime si rivolgevano dunque alla Corte di Cassazione, lamentando, tra l’altro, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per violazione dell’art. 8 comma 2 cod. proc. amm., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe pronunciato, in via incidentale, sullo status matrimoniale delle ricorrenti, ovvero su una questione concernente la posizione soggettiva dell’individuo, come tale preclusa al giudice amministrativo e riservata a quello ordinario.
La censura in fatto di giurisdizione è ritenuta fondata dagli Ermellini, i quali rammentano che in base all’art. 8 cod. proc. amm., “il giudice amministrativo nelle materie in cui non ha giurisdizione esclusiva conosce, senza efficacia di giudicato, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale. Restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità delle persone, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la risoluzione dell’incidente di falso”.
Ebbene, non pare dubbio al Supremo Collegio che la decisione impugnata abbia violato il suindicato art. 8, comma 2, cod. proc. amm., atteso che la sua argomentazione muove dalla premessa della inesistenza, invalidità o inefficacia, nell’ordinamento interno, di matrimoni celebrati all’estero da persone dello stesso sesso; muove, ossia, da una premessa che è insuscettibile di accertamento in via incidentale, a ciò ostando il chiaro dettato del citato art. 8.
Del resto, come enunciato in altra occasione dalla Consulta, la ultradecennale tradizione di riservare al giudice civile la risoluzione di controversie sullo stato delle persone, risponde alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes – una sede ed un modello processuale unitari, così da evitare il rischio di contrastanti pronunce che minerebbero la fiducia verso determinati atti, ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi. Accolto dunque il vizio inerente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, la sentenza impugnata è cassata con rinvio ad altra sezione del Consiglio di Stato.
Redazione Giurisprudenza commentata
www.diritto.it/trascrizione-matrimoni-omosessuali-allestero-giurisdizione-al-giudice-ordinario/
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
POLITICHE PER LA FAMIGLIA
Ridistribuire non basta. Urgenti scelte organiche per la famiglia
Il paradosso dei figli nella società contemporanea aiuta a capire il problema della famiglia. I figli sono visti spesso come un ostacolo insopportabile a carriera e opportunità di scelta, da aggirare a ogni costo quando si è giovani. Diventano un desiderio tardivo e spesso vanamente perseguito da adulti quando la fertilità crolla più rapidamente che in passato. Gli studi sulla soddisfazione di vita aiutano a capire. Gli intervistati dichiarano che i figli contribuiscono in modo decisivo a ricchezza e senso della vita, e in misura crescente man mano che l’età avanza.
Nella fascia tra i 20 e i 35 anni però paradossalmente riducono la soddisfazione perché si fa fatica a conciliare famiglia e lavoro. I giovani italiani non hanno perso il desiderio dei figli perché come ci ricorda nelle sue ricerche Alessandro Rosina ne vorrebbero almeno due. Ma la povertà di tempo, denaro e sicurezze lavorative rende molto difficile la realizzazione del progetto. Aggiungiamo a questo la scomparsa di un’educazione sentimentale che aiuti i giovani a capire che le relazioni sono un investimento e non un bene di consumo usa e getta che ci lascia più insoddisfatti di prima e possiamo capire perché in tutti i Paesi ad alto reddito (ad eccezione di Israele) i tassi di natalità sono inferiori al tasso di riproduzione della popolazione.
In campagna elettorale la natalità è stata di nuovo una bandiera per tutti, a cominciare dai sovranisti. Ed è stata agitata spesso in alternativa all’idea che potessero essere i migranti a evitare il progressivo invecchiamento della popolazione e tutte le conseguenze negative, sociali ed economiche, di questo processo.
La storia europea recente dimostra che per aiutare la famiglia ci vogliono politiche specifiche e non basta una generica ridistribuzione del reddito. In un recente articolo su questo giornale Massimo Calvi ricordava gli esempi francese, tedesco, polacco e scandinavo. Dove con un mix di interventi come fondi per il quoziente familiare, bonus bebè, politiche di conciliazione lavoro-famiglia, assegni familiari e politiche per gli asili nido si è in qualche modo tentato di invertire la tendenza (con successo nei casi delle politiche più decise come quella francese fino a qualche tempo fa).
Per questo il governo in carica non può pensare di realizzare uno dei propri punti di programma politico con generiche politiche ridistributive (se e quando saranno realizzate) come la flat tax e il reddito di cittadinanza. La politica per la famiglia ha una propria specificità, è insostituibile e ormai non più rinviabile. Certo, poiché viviamo sotto la spada di Damocle del vincolo di bilancio, l’abilità sta nel trovare soluzioni non velleitarie che possano passare il vaglio del Tesoro. Sarebbe pertanto il caso, per cominciare, di riprendere il progetto del voucher universale per i servizi alla famiglia e alla persona contenuto in una proposta di legge completata e mai approvata.
Proposta che utilizzava la stessa logica del bonus per le ristrutturazioni edilizie per favorire con una robusta politica di detrazioni spalmate nel tempo l’emersione dal nero di una serie di attività (in quel caso ristrutturazioni edilizie in questo servizi alla famiglia) riducendone il costo e favorendone lo sviluppo. Un’altra idea a costo zero è quella di dare uno stimolo ulteriore allo sviluppo dello smart work, il cosiddetto lavoro agile. www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx
Come è noto la rivoluzione della rete ci consente di superare la necessità di essere nello stesso luogo nello stesso istante di tempo per poter lavorare insieme. Nella stragrande maggioranza di lavori senza attività “a sportello” è assolutamente possibile lavorare uno/due giorni a settimana a distanza eliminando quei costi di spostamento che aumentano l’inquinamento e sono tempi morti non graditi che riducono le possibilità di conciliazione famiglia-lavoro. Con una spinta gentile (ad esempio un contributo per l’acquisto di computer portatili in azienda) o ancor più decisamente, con qualche elemento coercitivo, il governo potrebbe accelerare questa importante rivoluzione.
Altrettanto importante non cadere nella tentazione di una semplificazione delle misure ridistributive (per esempio nella costruzione del nuovo Rei [reddito di inclusione] allargato) e fiscali che non riconosca i bisogni e le urgenze maggiori dei nuclei familiari in una visione che mette al centro l’individuo e non la persona e le sue relazioni familiari. Siamo tutti consapevoli che le difficoltà di natalità e famiglia hanno radici profonde nello smarrimento del valore della generatività (in senso biologico e in senso più ampio) che è la vera fonte di ricchezza di senso della nostra vita. E nella mancanza di un’educazione a coltivare con pazienza la vita di relazioni. Gli aspetti sociali ed economici però contano, eccome, e dobbiamo interrogarci su come possiamo volgerli in positivo a partire dai vincoli e delle opportunità della situazione corrente.
Leonardo Becchetti Avvenire 1 luglio 2018
www.avvenire.it/opinioni/pagine/ridistribuire-non-basta
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
SESSUOLOGIA
Liquido seminale ‘sentinella’ impatto ambientale sull’uomo
Il liquido seminale può essere considerato una matrice più affidabile e precoce del sangue nel valutare l’impatto ambientale sulla salute umana.
E’ quanto hanno messo in evidenza gli studi dell’uroandrologo Luigi Montano, copresidente della Siru (Società italiana della riproduzione umana), che ha sviluppato la sue ricerche sul liquido seminale come ‘bioindicatore’ partendo dalla drammatica casistica della ‘Terra dei fuochi’, in cui vive e lavora, zona ad alto rischio per l’inquinamento e il correlativo incremento di patologie cronico-degenerative.
Al congresso europeo dell’Eshre (Società europea di riproduzione umana), che si conclude oggi a Barcellona, su circa 1000 poster presentati quello di Montano (EcoFoodFertility Project) è stato selezionato tra i migliori 4. “Lo studio presentato – spiega Montano – apre nuovi scenari per il monitoraggio sanitario delle popolazioni che vivono in zone ad alto rischio e per programmi innovativi di prevenzione primaria.
Gli spermatozoi, per facile reperibilità e alta sensibilità agli inquinanti ambientali, possono essere considerati dei bioindicatori ‘ideali’ del danno ambientale e sentinelle attendibili della stato di salute dell’uomo, vista, peraltro, la stretta relazione fra infertilità, patologie croniche, comorbidità e mortalità”.
“Il seme – sottolinea – è infatti un bioaccumulatore di sostanze contaminanti: analizzandolo non solo è possibile qualificare e quantificare tali sostanze, ma anche valutare direttamente il loro effetto sugli spermatozoi che, a differenza degli ovociti (la riserva ovarica nella donna è già presente alla nascita e si consuma progressivamente fino alla menopausa), dalla pubertà in poi si producono continuamente con più stadi replicativi e più possibilità di subire mutazioni”, conclude l’uroandrologo.
AdnKronos Salute 4 luglio 2018
www.lasaluteinpillole.it/salute.asp?id=44723
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
STALKING
Stalking, rieducazione e “promising practises”
Un saggio della che inquadra il reato di cui all’art. 612-bis c.p. e affronta un caso pratico avanti al Tribunale di Sorveglianza. Il lavoro si articola in due parti; una prima inquadra in modo più generico il reato di cui all’art. 162-bis c.p.; la seconda riguarda, in modalità anonimizzata e nel rispetto della privacy, un caso concreto affrontato da Monica.
L’art. 612-bis c.p. Violenza di genere, stalking, femminicidio, sono termini divenuti oggi tristemente ricorrenti. Secondo la Convenzione di Istanbul del 2011 la violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione (art. 3 lett. a); I paesi dovrebbero esercitare la dovuta diligenza nel prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli (art. 5).
Il delitto di atti persecutori, meglio noto come stalking,, è normato in Italia dall’art. 612 bis c.p. che recita “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
In realtà la difesa delle donne vittime di violenza non può essere semplicemente affidata ad una legge. Sarebbe, invece, opportuno analizzare l’aspetto sociale di questa problematica che nasce da una forma di discriminazione, ancora profondamente radicata all’interno della nostra società, nei confronti delle donne costrette ad una posizione subordinata rispetto agli uomini.
La caratterizzazione del reato di stalking, è data dall’accento che viene posto non tanto sulla condotta criminosa dello stalker quanto sulle conseguenze che esso produce nella vita della vittima introducendo, infatti, categorie psico-sociologiche come “stato di ansia”, “relazione affettiva”, “abitudini di vita”.
Grazie all’art. 612 bis c.p.c. il reato di stalking, ha finalmente un nome, e può essere punito con la reclusione fino a cinque anni che, spesso, non è comunque sufficiente a tutelare le vittime, questo perché, secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Stalking, almeno un persecutore su tre è recidivo e dopo la denuncia o la condanna torna a perseguitare la vittima.
Nonostante i dati relativi a questo fenomeno siano allarmanti raramente le istituzioni se ne fanno carico, limitandosi a mettere in atto misure quali l’allontanamento o al massimo la detenzione che assumono, così, sia una valenza punitiva sia una funzione di controllo della pericolosità sociale, che risulta, in questo modo, essere una tutela a “termine”.
La sola coercizione non è sufficiente a renderlo consapevole dei suoi errori e i casi di cronaca ne sono la prova sconcertante.
Il “persecutore” è un individuo che presenta gravi difficoltà ad accettare ed elaborare un abbandono a causa di un disagio psicologico pregresso e sarebbe, per questo, importante che il legislatore prevedesse anche un percorso per il reo conformandosi a quanto espresso dal Consiglio d’Europa che, tra le altre cose, invita gli stati membri a: “Dare la possibilità agli autori di violenza di seguire un programma di trattamento, non come alternativa alla sentenza di condanna, ma come misura aggiuntiva volta a prevenire futura violenza. La partecipazione a tali programmi dovrebbe essere offerta su base volontaria”.
Giungiamo, così, a ribadire il principio del finalismo rieducativo sancito dall’art. 27 della Costituzione (“Le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”) che presuppone la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato, attivando la funzione della prevenzione speciale che consiste nell’eliminare il pericolo che il soggetto ricada in futuro nel reato.
Un caso pratico affrontato avanti al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila. Gli istituti carcerari e l’UEPE si adoperano per realizzare progetti atti a riabilitare il reo ad una vita sociale “normale”. Quando, però, ci troviamo di fronte a reati come quello di stalking, commessi da chi ha un disagio psicologico, sarebbe buona norma affiancare al percorso riabilitativo un percorso rieducativo. Non è sufficiente, infatti, inserire lo stalker in un contesto lavorativo o di volontariato che, seppur utile, non può raggiungere da solo l’obbiettivo di eliminare la violenza maschile sulle donne bisognerebbe, piuttosto, promuovere programmi di cambiamento rivolti ai maltrattanti con interventi che tengano conto di fattori socio-culturali, fattori relazionali e fattori individuali.
Questi programmi non sempre possono essere sviluppati dalle istituzioni (per mancanza di fondi, tempo e risorse umane) ma, a volte, le promising practices [pratiche promettenti] possono essere tentate da soggetti privati.
È proprio questo il caso che ha permesso al Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila di ammettere al regime di semilibertà, un detenuto condannato ad anni 3 e mesi 4 di reclusione per il reato ex art. 612 bis.
Questo risultato non va letto in direzione di uno sconto di pena, ma come un processo necessario per attivare nel reo una presa di coscienza delle condizioni che lo hanno portato a compiere quei gesti lesivi della dignità e dell’integrità psico-fisica della donna e, dunque, indispensabile per produrre in lui una determinazione al cambiamento.
Il percorso di riabilitazione (effettuato presso un centro specializzato di Roma) si propone di condurre il maltrattante a risultati caratterizzati da: messa in discussione di sé stesso, impegno nell’intraprendere un percorso attraverso la comprensione dei motivi profondi dei suoi comportamenti, assunzione di responsabilità, disponibilità all’ascolto, riflessione attivata spontaneamente, forte desiderio di cambiare. Il Progetto riabilitativo e psico-educativo ha preso piede in maniera un po’ insolita in quanto è nato grazie alla collaborazione tra lo studio legale che difende il reo ed un’assistente sociale libero professionista. I professionisti hanno predisposto il progetto, concordandolo naturalmente con il cliente, valutandone la fattibilità con l’istituto carcerario presso cui è detenuto, e presentando un’istanza al Tribunale di Sorveglianza che l’ha accolta favorevolmente.
Il lavoro multidisciplinare, che sta conoscendo negli ultimi anni uno sviluppo notevole, ha permesso di andare incontro ai bisogni del cliente guardandolo come persona nella sua “interezza” e non frammentata nei suoi singoli bisogni.
Il connubio tra la figura professionale dell’avvocato e quella dell’assistente sociale libero professionista, permette di offrire un servizio integrato di tutela legale e sociale che consente di realizzare un intervento di aiuto globale, attraverso un lavoro di rete attivandone di nuove e sostenendo quelle già esistenti, al fine di promuovere il benessere della persona.
Vi è, quindi, un accompagnamento del cliente in un cammino verso lo sviluppo dell’empowerment che viene svolto con una visione lungimirante di tutela della vittima e di recupero del reo.
Solo questa coincidenza di interessi potrebbe trasformare le “promising practices” in “best practice” [buona pratica].
Dott.ssa Monica Testa, assistente sociale News Studio Cataldi 3 luglio 2018
www.studiocataldi.it/articoli/30953-stalking-rieducazione-e-quotpromising-practises-quot.asp
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬
Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. I suoi dati non saranno diffusi a terzi e saranno trattati in modo da garantire sicurezza e riservatezza.
Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus – 20135 Milano-via S. Lattuada, 14. Il responsabile è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea
.newsucipem@gmail.com
▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬