NewsUCIPEM n. 707 – 24 giugno 2018

NewsUCIPEM n. 707 – 24 giugno 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

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“News” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali. Sono così strutturate:

  • Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

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01 ASSEGNO MANTENIMENTO FIGLI Obbligo al mantenimento in capo agli ascendenti.

02 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – n. 21, 20 giugno 2018.

03 CHIESA CATTOLICA Un pastore istruito dal gregge.

06 Francesco e la pazienza delle donne.

07 COMM. ADOZIONI INTERNAZIONALI Rimborsi spese adottive 2012-2017.

07 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Mantova. Newsletter di Etica Salute e Famiglia giugno 2018.

07 DALLA NAVATA Natività di san Giovanni Battista – Anno B – 24 giugno 2018

07 Commento di E. Bianchi.

09 DIVORZIO Come lasciare la propria eredità al figlio del primo matrimonio?

10 FRANCESCO VESCOVO DI ROMAAll’Angelus: genitori collaboratori di Dio in santuario della vita.

10 HUMANÆ VITÆ Ogni coppia è unica, come la sua fecondità

12 Generazione, dall’etica del dovere al paradigma della complessità

13 MATERNITÀ Rischi per la gravidanza in ambiente lavorativo.

14 SEPARAZIONE Spese sostenute dai coniugi per i bisogni della famiglia

14 SINODO DEI GIOVANI Le 7 parole-chiave dell’Instrumentum Laboris.

16 UCIPEM Famiglia e risorse

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO FIGLI

Obbligo al mantenimento ovvero agli alimenti in capo agli ascendenti

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10419, 2 maggio 2018.

L’obbligo di mantenimento dei figli minori ex art. 148 c.c. spetta primariamente e integralmente ai loro genitori sicché, se uno dei due non possa o non voglia adempiere al proprio dovere, l’altro, nel preminente interesse dei figli, deve far fronte per intero alle loro esigenze con tutte le sue sostanze patrimoniali e sfruttando tutta la propria capacità di lavoro, salva la possibilità di convenire in giudizio l’inadempiente per ottenere un contributo proporzionale alle condizioni economiche globali di costui.

Pertanto, l’obbligo degli ascendenti di fornire ai genitori i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli – che investe contemporaneamente tutti gli ascendenti di pari grado di entrambi i genitori – va inteso non solo nel senso che l’obbligazione degli ascendenti è subordinata e, quindi, sussidiaria rispetto a quella, primaria, dei genitori, ma anche nel senso che agli ascendenti non ci si possa rivolgere per un aiuto economico per il solo fatto che uno dei due genitori non dia il proprio contributo al mantenimento dei figli, se l’altro genitore è in grado di mantenerli; così come il diritto agli alimenti ex art. 433 c.c., legato alla prova dello stato di bisogno e dell’impossibilità di reperire attività lavorativa, sorge solo qualora i genitori non siano in grado di adempiere al loro diretto e personale obbligo.

Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 20003 – 22 giugno 2018

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/20003/divorzio

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – n. 21, 20 giugno 2018

  • Joyeux Noël Un film coinvolgente (che tutti amiamo incondizionatamente, nella mia famiglia), che racconta la storia vera dell’umanità che vince, anche tra le trincee della Prima Guerra Mondiale, quando il nemico, per una volta, torna ad essere un uomo in carne ed ossa, e non un bersaglio davanti al mirino di un fucile. Storia commovente e drammatica (tutti i soldati, nella storia vera, sono stati poi “mandati a morire” su altri fronti, come riportano anche i titoli di coda). Un film non solo contro la guerra combattuta sui campi di battaglia, ma anche contro la ricerca del nemico ad ogni costo, in ogni istante della vita, dalle relazioni quotidiane alla politica, richiamando invece alla incessante sfida di essere “costruttori di pace”. Un film che parla del coraggio di essere “il primo che esce allo scoperto”, fuori dalla trincea, ma anche del coraggio del primo che “sceglie di non premere il grilletto”. Un film che non smetterò mai di amare: due ore ben spese, credetemi! (F. Belletti)

https://www.youtube.com/watch?v=d5fmpavrEfc

  • Inizia una nuova sfida: un ministero che mette insieme famiglia e disabilità. Qualche riflessione (e molti auguri!) per l’avvio del lavoro del neo-Ministro Lorenzo Fontana, per la sua delega a Famiglia e Disabilità, un novum nei Governi del Paese, una sfida da vincere, per riscoprire e sostenere “la famiglia che cura”.

www.famigliacristiana.it/articolo/un-ministero-che-mette-insieme-famiglia-e-disabilita-inizia-una-nuova-sfida.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_15_06_2018

  • Se la flat tax penalizza le coppie sposate “L’entrata in vigore della “tassa piatta”, così come è stata presentata, avvantaggerà solo il 10% dei nuclei famigliari più ricchi. Circa l’80% degli italiani non avrà un reale beneficio, senza significativi correttivi “a misura di famiglia”. Inoltre c’è il rischio che venga avvantaggiato chi convive”

www.famigliacristiana.it/articolo/tassa-piatta-occhio-agli-effetti-a-sfavore-della-famiglia.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_15_06_2018

  • Afcc conference 2018: un evento di grande interesse. Il direttore Cisf (F. Belletti) ha partecipato, anche in rappresentanza dell’ICCFR (rete internazionale di cui il Cisf fa parte), al convegno di Washington (6-9 giugno 2018) dell’AFCC (Association of Family and Conciliation Courts, gli operatori delle varie professioni che operano nei tribunali per la famiglia negli Stati Uniti). Evento di grande interesse e con grande partecipazione (quasi 1.000 i convegnisti, con diverse presenze anche da altri Paesi).

Tra sessioni plenarie, workshops (su ben 96 temi) e incontri personali con i partecipanti e con la ventina di stand presenti, l’evento ha offerto numerosi spunti di riflessione e di innovazione. Due eventi, tra tutti, meritano un ricordo particolare: in primo luogo l’impressionante testimonianza di Jaycee Dugard (A Stolen Life, una vita rubata), rapita bambina nel 1991, tenuta prigioniera per 18 anni (liberata nel 2009), in cui ha anche avuto due bambine, che è riuscita a resistere a questa sua storia, dando origine anzi ad una Fondazione (JAYC Foundation), e raccontando in due libri la sua storia di sofferenza, sopravvivenza e resilienza. Davvero impressionante, ascoltarla dal vivo, sorridente e tenace.

Il secondo tema (uno tra molti interessanti, a dire il vero) riguarda invece un convincente workshop sul tema della PAS (Parental Alienation Syndrome), dove psicologi e medici (William Bennet e Steven G. Miller) hanno presentato dati e strumenti per misurare (e affrontare) quelle situazioni estreme in cui i bambini sono usati dai genitori come armi, in separazioni conflittuali che diventano un vero e proprio campo di battaglia.

  • Minori, stranieri e non accompagnati: le ragioni della tutela. Un video che racconta in pochi minuti la ricchezza di un convegno dall’alto profilo scientifico, tenutosi a Roma il 20 aprile 2018, promosso dalla sezione romana dell’AIMMF (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia), in collaborazione con il Tribunale per i Minorenni di Roma e con Roma Capitale, in cui è stata presentata anche l’innovativa esperienza del “tutore volontario” per i minori stranieri non accompagnati.

www.bing.com/videos/search?q=%EF%81%B6%09Minori%2C+stranieri+e+non+accompagnati&qs=n&form=QBLH&scope=video&sp=-1&pq=%EF%81%B6+minori%2C+stranieri+e+non+accompagnati&sc=0-38&sk=&cvid=9E21909759984F779DE958083A443CB2

  • La famiglia italiana oggi, un censimento in fotografia di come siamo [vedi la notizia ANSA]. Documentare e interpretare la famiglia italiana contemporanea alla luce delle trasformazioni epocali che hanno riguardato i diversi ruoli dei suoi componenti […] Questo l’obiettivo del progetto fotografico nazionale ‘La famiglia in Italia’, lanciato da Fiaf (Federazione italiana associazioni fotografiche) nel marzo 2017, e dal 16 giugno fino al 9 settembre in mostra al Centro italiano della fotografia d’autore (Cifa) di Bibbiena (Arezzo). Il progetto ha raccolto 12.780 immagini inviate da 742 autori, tra questi 313 quelli selezionati per un totale di circa 1.300 fotografie.

  • Save the date

  • Nord Più forti le famiglie, più forte l’Italia. Le proposte del Partito Democratico per le famiglie: Assegno Universale e Dote Unica, Scanzorosciate (BG), 18 giugno 2018.

  • Centro Donne & madri in cambiamento tra fragilità e risorse, 50.o convegno di studio, promosso dall’Accademia di Psicoterapia della Famiglia, ROMA, 22-23 giugno 2018.

  • Largo ai giovani! L’impegno dei giovani a cinquant’anni dal ’68, seminario di studio promosso dal Settore Giovani dell’Azione Cattolica Italiana e dall’Istituto Vittorio Bachelet, Roma, 15 giugno 2018.

  • Sud Famiglie in rete per lo sviluppo del Paese. Primo Festival Siciliano della famiglia, promosso dal Forum delle Associazioni Familiari della Sicilia in collaborazione con l’Agenzia per la Famiglia della Provincia Autonoma di Trento, Catania, 28 giugno – 3 luglio 2018.

www.siciliafamiglia.it

  • Estero Raising Aspirations for Care Leavers: Supporting Young People from Care to Independence (Favorire le aspirazioni dei giovani che escono dai circuiti di cura: sostenere i giovani dalla cura verso l’indipendenza), seminario di studio promosso da Public Policy Exchange, LONDRA, 10 luglio 2018. www.publicpolicyexchange.co.uk/events/IG10-PPE

per i linkhttp://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/maggio2018/5081/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Un pastore istruito dal gregge

Il Concilio Vaticano II ha portato una ventata di aria nuova nella Chiesa, così come aveva auspicato Papa Giovanni XXIII nell’indirlo. Anche per quanto riguarda i preti, o i presbiteri. Li nomino così e non sacerdoti, dal momento che il Vaticano II ha richiamato (nella Costituzione sulla Chiesa «Lumen gentium») che tutti i battezzati sono uniti a Cristo – sommo Profeta, eterno Sacerdote e grande Re o Pastore – e son quindi sacerdoti, santificatori del mondo. La priorità (segnalata dalla citata «Lumen gentium») del popolo di Dio sulla gerarchia, che ne è al servizio (in latino «ministerium»), suggerisce questa novità, che qualcuno – come la cosiddetta «officina bolognese» di don Dossetti e del prof. Alberigo – ha voluto indicare come «rivoluzione copernicana», nel senso che, come Copernico aveva rovesciato la dottrina tolemaica (non più il sole che gira intorno alla terra, ma questa intorno a quello), così il Concilio ha rovesciato la prospettiva di un laicato subordinato alla gerarchia, indicando invece che questa è al servizio dell’intero «popolo di Dio», di cui del resto la gerarchia stessa fa parte.

L’altra «rivoluzione copernicana» sarebbe quella che non privilegia la Chiesa sul resto del mondo, ma la mette «sacramento» (come dice sempre la «Lumen gentium») cioè segno e strumento di salvezza per l’intera umanità.

Continuità o rivoluzioni? Questa espressione («rivoluzione copernicana») è stata ovviamente contestata; e Papa Benedetto XVI, nel suo primo discorso alla Curia vaticana (dicembre 2005), ha ribadito che non vi sono state rotture, ma continuità. Ed è vero che sul piano dogmatico non vi sono state rotture; al massimo sono state richiamate dottrine un po’ trascurate, come quella della salvezza offerta a tutti (lo ha ribadito lo stesso Benedetto XVI, sottoscrivendo il risultato di un’indagine dell’Associazione Teologica internazionale che il limbo era stato un’ipotesi per affermare l’importanza del battesimo) o quella della collegialità (che in Vaticano era sempre esistita, con le riunioni dei vescovi suburbicari o con i Concistori dei Cardinali).

Sul piano pastorale invece sono evidenti le rivoluzioni, come quella della Bibbia, prima riservata agli alti livelli della gerarchia e ora data in mano e raccomandata a tutti i fedeli, o quella della liturgia, a cui prima si «assisteva» (magari dicendo altre preghiere come il Rosario), mentre ora «si partecipa» proprio perché è la preghiera del popolo cristiano, che si unisce così all’eterna preghiera di Gesù Risorto che salva il mondo.

Il presbitero, nei primi tempi designato come l’«anziano» (così significa in greco «presbitero»), secondo la tradizione ebraica presiede l’assemblea dei fedeli. Nel Nuovo Testamento si fa fatica a distinguerlo dal diacono (che vuol dire «servitore», e viene immediatamente posto al servizio degli Apostoli) e dall’episcopo (cioè dal «sovraintendente l’assemblea» e potrebbe essere qualunque assemblea). Pare perfino che l’Eucarestia di cui parla S. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, venisse realizzata senza un dirigente qualificato, di cui appunto non si parla. Sarà poi con S. Ignazio di Antiochia, dopo molti decenni di vita della Chiesa e dopo la scomparsa degli Apostoli, a precisare le tre categorie dei ministri ordinati con i loro specifici ministeri: i vescovi, i presbiteri, i diaconi. Ma poi quando la Chiesa con Costantino, agli inizi del IV secolo, acquista la sua libertà, tanto più quando verso la fine del secolo, con Teodosio, diventa la religione ufficiale dell’Impero, allora, ne assume le strutture ed i ritmi (i cittadini si lamentavano che le diligenze imperiali fossero spesso occupate dai Vescovi, in giro per i loro Concili o Sinodi!); tanto più quando il Papa diventa monarca (ovviamente assoluto) consigliato o servito dai vescovi e dal clero (il cardine sarà costituito dai parroci di Roma, i «Cardinali», che ancora oggi sono titolari delle parrocchie romane). È consequenziale che il prete venga considerato come un «capo» che ha un potere assoluto (come i suoi Superiori, ciascuno al suo livello), a cui i fedeli non potranno far altro che obbedire (come i Carabinieri, «pronti a obbedir tacendo»). La separazione, prima degli Orientali (gli Ortodossi), poi dei Nordoccidentali (i protestanti), al di là o al di dentro delle motivazioni dottrinali, aveva forse anche sollecitazioni… etniche o politiche.

Premessa di un cambiamento. La premessa (almeno psicologica) di un cambiamento s’è avuta con la fine del Potere Pontificio quando, il 20 settembre 1870, i bersaglieri italiani entrarono per la breccia di Porta Pia, suscitando la scomunica per il governo degli occupatori (dopo un secolo, in Campidoglio, l’Arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini dichiarerà provvidenziale la fine di quel potere), si preparò la strada, anche mentale, per il cammino successivo fino al Concilio Vaticano II.

È vero che quando Papa Roncalli, un anziano nominato Papa «di transizione» (per far Cardinale l’Arcivescovo Montini e rendergli possibile l’elezione al Papato), indisse inaspettatamente un Concilio Ecumenico, sgomentò i Cardinali, riuniti a S. Paolo fuori le Mura per la conclusione della Settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e certi – come tutto il mondo ecclesiale – che non ci fosse più bisogno di un Concilio, dopo che il Vaticano I, nel 1870, aveva definito l’infallibilità del Papa quando precisa verità (di fede) o di morale. Forse non avvertivano che quella definizione si riferiva all’infallibilità della Chiesa, che il Papa deve interpretare ed esprimere. E non c’è modo migliore per conoscere il pensiero della Chiesa intera se non quello di consultare i Vescovi di tutto il mondo. Tanto più che Papa Giovanni aveva indetto un Concilio più pastorale che dogmatico. E se i Concili, per tradizione, precisano le verità – i dogmi – scomunicando («anathema sit») quanti non li accettano, gli altri, i pastorali – considerati quasi minori, quindi con la possibilità di ignorarli – si preoccupano invece che il popolo di Dio possa capire accuratamente quanto viene proposto e possa così accettarlo con convinzione ed efficacia.

Chiamati a servire. In questa prospettiva emerge il «ministero» della gerarchia, chiamata non a comandare, ma a servire. Se deve insegnare, non deve imporre quanto i fedeli, proprio a cominciare dai giovani, dovranno imparare a memoria, ma dovrà rendersi conto di com’è la sua gente, di come questa potrà capire e convincersi che quello che viene presentato possa inserirsi nella loro vita. Se si celebrano dei riti, si dovrà fare in modo che li sentano come un incontro vivo ed attuale con Gesù. Dovranno sentire infine che essere cristiani non è un privilegio ma una responsabilità, quella di essere, sempre e dovunque, portatori di fraternità e di pace, cosicché i fratelli cristiani, ma anche quelli che non lo sono, realizzino sempre più e meglio il regno di Dio, che è un’umanità aperta a Dio e portatrice di fraternità e di pace. Riconosciamo che questo è più difficile.

Era più facile (non so se più efficace) sentirsi un capo e comandare, sconfessando quanti non si adeguavano. E forse questa è la tentazione anche di preti giovani, che ricopiano nello stile e anche nell’abito i preti di una volta.

Credo che prima ancora delle motivazioni culturali e sociologiche la gente (e non solo quella giovane) abbandona la Chiesa per un’insoddisfazione interiore: in un mondo di esseri umani sempre più coscienti e liberi la gente fa fatica a… obbedir tacendo. Solo un atteggiamento di umiltà e di servizio può costituire un invito ad accogliere, a riflettere, ad acconsentire.

Gesù ha ripetuto più volte che i grandi del mondo comandano e si fanno chiamare benefattori, ma, nella Chiesa, chi è più grande deve essere come colui che serve. E, nel momento in cui istituisce il sacramento che ne assicura la presenza fra l’umanità per sempre, asserisce che questo comporta (lo attesta il Vangelo di Giovanni, con un’aggiunta ai tre Vangeli sinottici ritenuta necessaria) che si lavino i piedi gli uni gli altri (gli Apostoli tra di loro, ma i cristiani con tutti). E questo viene indicato come indispensabile, tanto da ricevere lo stesso mandato della trasformazione del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue: «fate questo in memoria di me», cioè fatelo perché io l’ho fatto! È la mancanza di questa testimonianza che allontana la gente, ormai abituata a risolvere tutti i problemi col telefonino, erudito ma freddo? Non porterà questo stile ad alimentare la chiusura in se stessi, nei propri interessi, nelle soddisfazioni personali? Calano le percentuali di quanti fanno la Prima Comunione e la Cresima e soprattutto di quanti poi non tornano più (dicono che un buontempone, ad un amico tormentato dai topi nella casa, suggerisse: «Fagli dare la Cresima, dopo non li vedrai più!»). Ma è la gente in generale che sente la Chiesa lontana, su un altro pianeta, chiusa nella propria storia, nei propri riti, nei propri interessi.

È un problema di… rivoluzione per noi che siamo già presbiteri, quello di sapere stare in mezzo alla gente per ascoltarla. Papa Francesco direbbe: «Avere l’odore delle pecore». E proprio lui, quand’era Arcivescovo a Buenos Aires, avendo saputo che nelle periferie congestionate (le «Villas») un prete può arrivare a cinquecento metri, ne aveva insediati ciascuno a quella distanza, andando spesso a trovarli, per loro sostegno e per loro conferma di fronte alla popolazione.

Il problema della preparazione. Questo ovviamente comporta che la preparazione sia adeguata. I nostri Seminari (ho novantacinque anni!) ci chiudevano (anche per gran parte dell’estate) per evitare le tentazioni del mondo. Ed anche nel Seminario del mio ginnasio, dopo i primi anni di notte nei cameroni controllati da due prefetti, ci chiudevano poi in venti monolocali, ciascuno col suo bugliolo. E se dovevamo restarvi perché malati ci facevano servire da donne anziane, che noi chiamavamo «preparazione alla Messa» (il nome di una serie di preghiere che si disponevano nelle sacrestie), per dire che erano al di là di ogni tentazione.

Quando, giovane prete, partecipavo in Francia ad incontri sacerdotali della spiritualità Jesus Caritas (ispirata all’eremita del deserto, oggi Beato Charles de Foucauld), notavo l’evidente disinvoltura dei preti francesi, che avevano fatto un anno di servizio militare. Ovviamente non auspico questo per i nostri seminaristi (quando c’era il sevizio militare, ne eravamo dispensati in forza del Concordato), ma certamente un’esperienza di lavoro o periodi passati in mezzo alla gente o a gruppi di giovani (e non solo dei Movimenti spesso chiusi in se stessi), ma anche di Parrocchie aperte ad esperienze molteplici, aiuterebbe i preti di domani ad avere l’odore delle loro pecore ed a saper quindi annunciar loro il Vangelo con maggiore efficacia.

Penso che dovrebbero educarsi anche ad uno stile di sobrietà. Una chiesa che sente – se vuol esser fedele all’esempio e al mandato di Gesù (e riproposto dal Concilio e dall’impegno di Papa Francesco) – di essere «Chiesa dei poveri», dovrà trasmetterne lo spirito, contro la tentazione, diffusa un tempo, che il presbiterato fosse una certezza di buona sussistenza per sé e per la famiglia (Papa Francesco direbbe: «lo stile del faraone»).

Penso che un altro caposaldo dell’educazione seminaristica dovrebbe essere quella dello stare e del lavorare insieme, tanto più necessario in un tempo in cui l’uso dei cellulari e strumenti analoghi alimenta l’individualismo.

Questo corrisponde alla collegialità, richiamata dal Concilio (e ispirata al «Collegio» degli Apostoli), e alla sinodalità, ribadita da Papa Francesco, e che non è limitata solo al Collegio dei Vescovi intorno al Papa, ma ad ogni livello della Chiesa (vescovi e sacerdoti in mezzo al popolo di Dio), dato che lo Spirito Santo agisce in ogni battezzato, e nell’interno del popolo di Dio suscita Istituti religiosi e Movimenti, con il compito per la gerarchia di verificarli e di coordinarli. Sono solito dire che la gerarchia ha il compito dell’ultima parola, che però è tale solo se prima ve ne sono state altre (il ministero dell’unità, non l’unità del ministero). Questa mentalità del «lavorare insieme» preparerà anche all’apostolato delle «Unità pastorali», dove diversi presbiteri dovranno lavorare insieme portando anche i laici delle varie parrocchie a superare le chiusure delle loro origini.

Che sia per questo – mi viene da pensare un po’… cinicamente – che il Signore riduce le vocazioni presbiterali o religiose, per indurci finalmente a riconoscere i laici battezzati responsabili accanto alla gerarchia nella vita della Chiesa, affidando a loro con fiducia responsabilità operative (a cominciare da quelle finanziarie, di cui di solito siamo molto gelosi…) da coordinare, sì, ma prima da suscitare.

Un’altra preoccupazione, nell’educazione dei presbiteri d’oggi, è quella della sessualità, un tempo ritenuta meno necessaria per l’isolamento della vita seminaristica e di quella successiva del ministero presbiterale. Un tempo si insisteva molto sullo stile di difesa che salvaguardava il celibato; bisogna insistere di più sulla castità come pienezza d’amore (verso Dio e verso i membri del popolo di Dio), contro l’insistente tentazione ad utilizzare la spinta dell’erotismo come soddisfazione egoistica dei propri impulsi. Ed è necessario non solo per sé, ma anche per il ministero, in un tempo di diffuso sessualismo e delle sue molteplici conseguenze negative.

E come non ricordare che, in un mondo dove l’ambiente non favorisce ma stimola, diventa ancor più necessaria una forte spiritualità alimentata dalla preghiera, da quella liturgica ben eseguita, ma anche da quella personale, sincera e prolungata? Momenti di sosta, giornate di «deserto» (come dice la spiritualità Jesus Caritas), a tu per tu con Lui, ma a tu per tu con se stessi, diventano indispensabili e significativamente efficaci.

Credo che si tratti di «conversioni» necessarie, e Papa Francesco le richiama spesso con le parole, ma soprattutto con l’esempio (Padre Congar diceva che per capire bene e vivere pienamente un Concilio ci vogliono cinquant’anni. Si vede che anche lo Spirito Santo lo sapeva!). Me ne rendo tanto più conto per aver passato quattordici anni di preparazione in Seminario (con l’interruzione della guerra) e di esservi stato catapultato ad insegnare al mio ritorno da Roma. Ho fatto una troppo breve esperienza in una Parrocchia particolare (piccola ma destinata ad essere Parrocchia Universitaria) mentre però continuavo ad insegnare in Seminario, ed in più ad essere Assistente diocesano dell’Azione Cattolica.

La mia educazione è stata in famiglia (eravamo sette fratelli!), poi nei Seminari maggiori (Bologna e Roma) ed infine tra gli universitari della Fuci e nel contatto con i laici dell’Azione Cattolica e con i loro Parroci. M’hanno aiutato molto alcuni preti amici, come i dirigenti (della Fuci e dell’Azione Cattolica) e, da Vescovo residenziale, i miei preti e la mia gente, con cui cercavo di avere il maggior contatto possibile, soprattutto quello non istituzionalizzato: è stato il gregge ad istruire il Pastore. E ne ringrazio il Signore.

Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea

Rocca n. 13 del 1 luglio 2018, pag. 43

 

Papa Francesco e la pazienza delle donne

Santità, non lo doveva dire. So bene che è il capo di un’istituzione di maschi celibi e suppongo di non dovermi aspettare più di quello che mi aspetto da qualunque altro uomo. So anche che abitualmente usa espressioni ritenute rivoluzionarie senza esserlo sostanzialmente; quindi potevo immaginarmi che sull’aborto non sarebbe uscito da quello che la Chiesa deve limitarsi a dire, anche se non potevo credere che avrebbe letto, dal testo che spero predisposto da altri, un richiamo al nazismo per gli aborti selettivi: non può ignorare che in oriente, in particolare in Cina, agli infanticidi delle bambine – praticati per secoli anche in Occidente – sono state sostituite le ecografie di condanna dei feti femminili. Sono una politica e posso capire che, in tempi in cui gli attacchi alla sua linea sul web si sono moltiplicati, abbia concesso al Forum delle famiglie un contrappeso ai benefici liberali che concederebbe ai “comunisti”.

Certo, riconosco che ha concesso il riconoscimento del sacramento primitivo alle libere unioni dei non-credenti che, “se si amano, sono immagine e somiglianza di Dio” anche loro; a conferma, i cattolici non permissivi ricordano che gli umani hanno creato la famiglia prima delle chiese. Mi ha comunque sorpresa che la persona che disse la sola cosa che può dire un cristiano in qualunque situazione (“chi sono io per giudicare?”), possa sostenere – sia pure con “dolore” – che “nonostante la parola famiglia sia analogica”, va usata non per due che si amano, ma solo se due sono un uomo e una donna, senza nemmeno citare la misericordia che lei sempre menziona e che i cristiani sono tenuti a darsi reciprocamente.

Ma una cosa proprio non doveva dirla, per poco che le stia a cuore la crescita in grazia e verità della sua Chiesa, il discorso sulla fedeltà tra gli sposi: “Una cosa che nella vita matrimoniale aiuta tanto è la pazienza, saper aspettare (perché) ci sono nella vita situazioni di crisi forti, brutte, dove anche arrivano tempi di infedeltà… Tante donne (ma anche l’uomo tante volte lo fa) nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. Questa è la santità che perdona tutto perché ama”. Nonostante l’inciso, non doveva “santificarci” per quell’infedeltà maritale che conferma la tradizione a danno della dignità.

Il femminicidio, anche da lei poco evocato, è il rischio secolare proprio della pazienza. Non è possibile che venga convalidata dall’autorità del papa la disparità in famiglia: la coppia – di cui mi dispiace che lei non abbia esperienza – vive problemi che sono propri di ogni umana convivenza perfino religiosa. Ma anche la Chiesa deve volere che la famiglia amorosa e amorevole li risolva senza indulgenze e omertà di genere: donne e uomini si debbono uguale rispetto e uguale pazienza. Tanto più se le persone – uomini e donne – dovessero, se cattoliche, credere che l’indissolubilità non debba mai diventare un ergastolo. Sì, mi sono arrabbiata; ma anche lei abbia pazienza: le donne sono fatte così….

Giancarla Codrignani 19 giugno 2018

www.noidonne.org/articoli/papa-francesco-e-la-pazienza-delle-donne.

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Rimborsi spese adottive 2012-2017.

Riepilogo delle informazioni sull’istanza di rimborso delle spese adottive

Comunicato. 21 giugno 2018.

www.commissioneadozioni.it/it/rimborso-spese-adottive.aspx

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Mantova. Newsletter di Etica Salute e Famiglia giugno 2018

  • Amore e competenza per i bambini cerebrolesi. Vittorina Gementi, una storia di santità

Anna Orlandi Pincella

  • – Mostra “minerali clandestini” a Mantova Veronica Barini

  • – La lirica per la quercia millenaria Alberta Gavioli

  • – Cronache Sanitarie compie sette anni Attilio Pignata

  • Una autobiografia della terza età Alberto Zanoni

  • La coppetta mestruale: un mondo ecosostenibile di libertà, comodità e praticità

Alessandra Venegoni, ostetrica

  • – Famiglia e risorse Giuseppe Cesa, psicologo

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio

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DALLA NAVATA

Natività di san Giovanni Battista – Anno B – 24 giugno 2018

Isaia 49, 06 Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra».

Salmo 138, 01 Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie.

Atti 13, 23 Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele.

Luca 01, 66 Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.

 

Commento di Enzo Bianchi, priore emerito a Bose

La solennità della Natività di san Giovanni il Battista prevale sul lezionario domenicale. All’inizio dell’estate si celebra questa grande festa, una ricorrenza antichissima, già attestata da sant’Agostino in Africa. Accanto a Maria, la madre del Signore, Giovanni il Battista è il solo santo di cui la chiesa celebri non solo il giorno della morte, il dies natalis alla vita eterna, ma anche il dies natalis in questo mondo: di fatto, Giovanni è il solo testimone di cui il Nuovo Testamento ricorda la nascita, così intrecciata con quella di Gesù. Ed è proprio questo intersecarsi di vicende che ha portato alla scelta della data del 24 giugno per celebrarne la memoria: se la chiesa ricorda la nascita di Gesù il 25 dicembre, non può che ricordare quella di Giovanni al 24 giugno, essendo essa avvenuta, come testimonia il vangelo secondo Luca, sei mesi prima.

Il parallelismo di queste date contiene anche una simbologia, almeno nel bacino del Mediterraneo che è stato il crogiolo della fede ebraico-cristiana: se il 25 dicembre, solstizio d’inverno, è la festa del sole vincitore, che comincia ad accrescere la sua declinazione sulla terra, il 24 giugno, solstizio d’estate, è il giorno in cui il sole comincia a calare di declinazione, proprio come è avvenuto nel rapporto del Battista con Gesù, secondo le parole dello stesso Giovanni: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). Giovanni è il lume che decresce di fronte alla luce vittoriosa; è la lampada preparata per il Messia (cf. Sal 132,17 e Gv 5,35); è il suo precursore nella nascita, nella missione e nella morte; è il maestro di Gesù, suo discepolo che lo segue; è l’amico di Gesù, lo Sposo veniente, come dice giustamente il quarto vangelo (cf. Gv 3,29).

Potremmo addirittura dire che il vangelo è la storia sincronica di due profeti, Giovanni e Gesù, con la loro profondissima singolarità, la loro specifica chiamata, ma anche con la loro sostanziale unanimità nel perseguire i disegni di Dio, con la stessa risolutezza a servizio del Regno. Sì, purtroppo oggi la figura del Battista non ha più il posto che merita nella memoria e nella consapevolezza dei cristiani: dopo il primo millennio e la metà del secondo – in cui Giovanni il Battista e Maria insieme rappresentavano il legame tra antica e nuova alleanza e insieme come intercessori stavano accanto al Veniente, il Signore glorioso, nella liturgia come nell’iconografia – la crescita del culto di molti santi diventati più popolari ha sopravanzato il Battista finendo per oscurarlo, avviando una deriva rischiosa per l’equilibrio della consapevolezza cristologica. Se la chiesa, ancora oggi, celebra come solennità la nascita del Battista è perché resta cosciente della centralità rivelativa di questa figura: nei sinottici la buona notizia dell’annuncio del Regno si apre sempre con Giovanni, così come il vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca si apre con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria (cf. Lc 1,5-25) e con il racconto della nascita prodigiosa di Giovanni.

Meditiamo dunque sul primo capitolo del vangelo secondo Luca. L’angelo del Signore si era presentato al sacerdote Zaccaria mentre questi nel tempio celebrava l’offerta dell’incenso e gli aveva rivelato la nascita di un figlio come esaudimento della preghiera sua e di sua moglie Elisabetta. Zaccaria, infatti, era vecchio e sua moglie sterile. Per tutta la vita avevano atteso un figlio e lo avevano invocato con fede, ma ora erano giunti a una vecchiaia senza futuro. Questo angelo, Gabriele, il messaggero della liberazione di Israele (cf. Dn 8,15-27; 9,20-27) e dell’ora messianica, rivela a Zaccaria il compimento di tutta l’attesa di Israele: il nascituro, ripieno di Spirito santo, camminerà davanti al Signore veniente e preparerà il popolo dei credenti ad accogliere la sua venuta.

Zaccaria, uomo giusto e irreprensibile davanti al Signore, è però turbato e pieno di timore, dunque chiede all’angelo come sia possibile questo, vista la sua vecchiaia e la sterilità della moglie: egli dunque resta incredulo, secondo il racconto evangelico, quindi non riesce più a parlare. “Ho creduto, per questo ho parlato”, dice il salmo (115 [116] LXX,10), perché la parola umana rivolta a Dio deve sempre scaturire dalla fede. Perciò Zaccaria non può benedire l’assemblea in preghiera nel tempio, e questa benedizione resterà interrotta fino a quando Gesù risorto la donerà alla sua comunità, salendo al cielo (cf. Lc 24,50-51).

Ma ecco che i giorni della gravidanza di Elisabetta si compiono e la sterile partorisce un figlio, destando gioia in tutti i suoi parenti e conoscenti, perché quel figlio appare un segno inconfutabile della misericordia di Dio. Il padre Zaccaria è però ancora nella condizione di non eloquenza, così la madre, con grande audacia e contro ogni consuetudine di quel tempo, impone al figlio della grazia il nome di Jochanan, che significa proprio “il Signore fa grazia”. La sterilità è diventata fecondità, l’umiliazione si è mutata in fierezza, l’attesa piena di fede vede il compimento da parte di Dio di ciò che era impossibile agli umani. Zaccaria ed Elisabetta erano degli ‘anawim, quei poveri curvati dalla vita che sperano solo nel Signore, ma ora proprio loro sono strumento, testimoni dell’azione di salvezza che Dio compie in favore di tutto Israele.

Non può passare inosservata la forza di Elisabetta la quale, contro la contestazione dei parenti, dà al figlio il nome designato dall’angelo Gabriele per indicare la missione affidata da Dio al nascituro. Se il nome Elisabetta significa “Dio ha promesso”, con la grazia manifestatasi nella nascita di Giovanni la promessa si è compiuta. E ora che la madre ha imposto il nome al bambino, si scioglie la lingua di suo padre Zaccaria, il quale pronuncia il famoso Benedictus, un salmo di benedizione al Dio di Israele che ha visitato e riscattato il suo popolo (cf. Lc 1,67-79).

Questa nascita prodigiosa testimonia che Giovanni è un uomo che soltanto Dio poteva dare a Israele: dono della misericordia di Dio, risposta a quanti, nella povertà, nell’umiltà e nella fede, avevano atteso con perseveranza per secoli la venuta del Messia, del Salvatore inviato da Dio. Ormai i tempi della nuova alleanza sono inaugurati, il precursore del Messia è presente e lo precede. Di più, lo riconosce al primo incontro, come avviene nella visita che Maria, gravida di Gesù, fa a Elisabetta, gravida di Giovanni (cf. Lc 1,39-45). Il Battista nasce dunque in una famiglia di ebrei credenti, ma la sua vocazione gli chiederà di lasciarla fin dall’adolescenza, per andare nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele. Giovanni si prepara alla missione perché fin dal concepimento la “mano di Dio” sta con lui.

Tutta la sua vicenda si interseca con quella di Gesù, e gli eventi della sua vita narrati nel vangelo non sono solo prefigurazioni di quelli che accadranno a Gesù, ma sono a essi sincronici, contemporanei, fino a sovrapporsi e a confondersi gli uni con gli altri: Giovanni e Gesù hanno vissuto insieme! E anche quando Giovanni sarà ucciso violentemente, la sua vita e la sua missione appariranno in pienezza in quella di Gesù. Non è certo un caso che il vangelo registri l’opinione del re Erode riguardo a Gesù: “È Giovanni Battista risorto dai morti” (cf. Mc 6,16), né che i discepoli riportino a Gesù il giudizio di alcuni contemporanei che dicevano di lui: “È Giovanni il Battista” (cf. Mc 8,28 e par.).

Quando Giovanni morirà, anticiperà la morte di Gesù e la prefigurerà come passione del profeta perseguitato e ucciso nella propria patria. Ma come nella sua morte anche Gesù muore, così nella resurrezione di Gesù anche Giovanni il Battista risorge.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12421-giovanni-il-signore-fa-grazia

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DIVORZIO

Come lasciare la propria eredità al figlio del primo matrimonio?

È possibile riservare al proprio figlio la casa acquistata prima del secondo matrimonio, evitando così che questi la divida con il nuovo coniuge. Ti sei sposato una seconda volta, ma hai già un figlio nato da una precedente relazione. A lui vorresti donare la casa di cui eri già proprietario prima del nuovo matrimonio. Sai bene però che, se non trovi una soluzione, così non sarà. Difatti, sposandoti, tua moglie diventerà erede, al 50%, insieme a lui. E anche se farai testamento, al coniuge dovrà essere riservato sempre il 33% del tuo patrimonio, in quanto erede legittimario. Come risolvere questo problema? In altri termini, come lasciare la propria eredità al figlio del primo matrimonio? Qui di seguito proveremo a offrirti qualche suggerimento.

Come noto, nel momento in cui si muore, il proprio coniuge diventa un erede legittimo e legittimario. Cosa significa? Non volendo dilungarci su questo tema, possiamo così sintetizzare:

  • Se non è stato fatto testamento, egli eredita secondo le regole della successione legittima. Per cui, in assenza di figli, diventa erede universale; con un solo figlio prende il 50% del patrimonio e il diritto di continuare ad abitare nella casa coniugale; con due o più figli ha il 33% del patrimonio e il diritto ad abitare nella casa coniugale;

  • Se è stato fatto testamento, egli ha sempre diritto a una quota minima dell’eredità, a prescindere da quanto scritto nel testamento stesso. Per cui, in assenza di figli, ha diritto alla metà dell’eredità più il diritto di abitare nella casa coniugale; con un solo figlio ha diritto al 33% del patrimonio col diritto di abitazione sulla casa; con due o più figli acquista il diritto sul 25% dell’eredità più il diritto di abitazione sulla casa.

Questo significa che, se si ha un figlio nato da un precedente matrimonio o da una relazione di convivenza, il ragazzo dovrà spartire l’eredità con il secondo coniuge. Ma è possibile evitare ciò e fare in modo che, almeno, al proprio figlio vadano tutti i beni acquistati prima delle seconde nozze. Come fare? Ci sono due metodi suggeriti dal Notariato. Eccoli.

Evita la donazione. Il primo suggerimento che mi sento di darti se davvero vuoi lasciare la casa al figlio del primo matrimonio è di evitare di donargliela. Se hai intenzione di fare in questo modo sappi che stai per fare un grosso errore. Difatti, qualora tu dovessi morire, il tuo coniuge superstite potrebbe impugnare tutte le donazioni da te compiute in vita se hanno ridotto la sua quota di “legittima”, ossia quella parte del tuo patrimonio che gli spetta per legge. Gli atti di disposizione posti da una persona che hanno leso i diritti dei legittimari possono essere soggetti alla cosiddetta «azione di riduzione» entro 10 anni dal decesso (ossia dall’apertura della successione). Devi quindi trovare una soluzione migliore per lasciare la tua eredità, o quanto meno i beni acquistati prima del secondo matrimonio, a tuo figlio.

  1. Donazione del denaro e vendita della nuda proprietà. Il primo metodo per lasciare la casa al figlio del primo matrimonio è donargli una somma di denaro (sempre che si disponga di tale consistenza economica) e poi vendergli la nuda proprietà dell’immobile; il figlio pagherà con il denaro avuto in donazione. La donazione del denaro, se fatta con bonifico bancario e diretta espressamente all’acquisto della nuda proprietà, non richiede l’atto pubblico in presenza del notaio (trattasi infatti di donazione indiretta). Il difetto di questo sistema è che può essere visto dal giudice come un atto fraudolento, una simulazione volta a ledere i diritti dell’altro erede. Per di più, l’azione di riduzione, sebbene non può essere esercitata sulla casa, può sempre svolgersi sulla donazione del denaro.

  2. Vendita della casa dietro rendita vitalizia. Un secondo sistema è quello di vendere al figlio la casa dietro vitalizio. In buona sostanza il figlio acquisisce la proprietà della casa, senza pagare un euro, quasi come se fosse una donazione, tuttavia impegnandosi a prestare assistenza morale e materiale al genitore fino alla fine dei suoi giorni. Tale atto non è considerato una donazione e, quindi, non è soggetto all’impugnazione degli eredi tramite l’azione di riduzione. Se poi il genitore vuol continuare a vivere all’interno dell’immobile e star sicuro che il figlio non lo sbatta fuori può limitarsi a vendergli, sempre con il sistema della rendita vitalizia, la sola nuda proprietà.

www.laleggepertutti.it/216023_come-lasciare-la-propria-eredita-al-figlio-del-primo-matrimonio

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa all’Angelus: genitori collaboratori di Dio in santuario della vita

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2018/documents/papa-francesco_angelus_20180624.html

In ogni persona umana “c’è l’impronta di Dio, sorgente della vita”. Lo ricorda il Papa all’Angelus nell’odierna domenica in cui si celebra la festa della Natività di Giovanni Battista. Proprio ripercorrendo gli eventi legati al concepimento e alla nascita del Santo, Francesco riflette sul senso della vita e della fede, osservando come “nella generazione di un figlio i genitori agiscono come collaboratori di Dio”.

Una missione veramente sublime che fa di ogni famiglia un santuario della vita e risveglia – ogni nascita di un figlio – la gioia, lo stupore, la gratitudine.

Il Pontefice ricorda come la nascita di San Giovanni Battista sia “l’evento che illumina” la vita degli anziani genitori, Elisabetta e Zaccaria, che quasi non “l’aspettavano più”. L’uomo è addirittura incredulo “perché le leggi naturali non lo consentivano”, “erano anziani”, e “di conseguenza il Signore lo rese muto per tutto il tempo della gestazione”.

Ma Dio non dipende dalle nostre logiche e dalle nostre limitate capacità umane. Bisogna imparare a fidarsi e a tacere di fronte al mistero di Dio e a contemplare in umiltà e silenzio la sua opera, che si rivela nella storia e che tante volte supera la nostra immaginazione.

Elisabetta, come ricorda il Vangelo di Luca, sceglie il nome, che significa “Dio ha fatto grazia”. Giovanni, infatti, come “dono gratuito e ormai inatteso”, è “araldo, testimone della grazia di Dio per i poveri che aspettano con umile fede la sua salvezza”. Zaccaria conferma “inaspettatamente” la scelta di quel nome, riacquistando la parola. D’altra parte, sottolinea Francesco, tutto l’avvenimento della nascita di Giovanni Battista è circondato “da un gioioso senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine”.

Gioia, stupore, sorpresa e gratitudine. Il popolo fedele di Dio intuisce “che è accaduto qualcosa di grande, anche se umile e nascosto” ed “è capace di vivere la fede con gioia, con senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine”. Il Papa invita a chiederci allora se la nostra sia una “fede gioiosa” o “sempre uguale”, “piana”, se ci facciamo prendere da un “senso dello stupore” vedendo le opere del Signore o sentendo parlare “dell’evangelizzazione o della vita di un Santo” o, ancora, vedendo “tanta gente buona”: l’esortazione è cioè a domandarci se sentiamo “la grazia dentro o niente si muove” nel nostro cuore, non ascoltando “le consolazioni dello Spirito”.

Domandiamoci, ognuno di noi, in un esame di coscienza: “Come è la mia fede? E’ gioiosa? E’ aperta alle sorprese di Dio, perché Dio è il Dio delle sorprese? Ho assaggiato nell’anima quel senso dello stupore che fa la presenza di Dio, quel senso di gratitudine?”. Pensiamo a queste parole, che sono stati d’animo della fede: gioia, senso di stupore, senso di sorpresa e gratitudine.

Giada Aquilino – Città del Vaticano Vatican news 24 giugno 2018

www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-06/papa-angelus-genitori-collaboratori-dio-santuario-vita.html

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HUMANÆ VITÆ

Ogni coppia è unica, come la sua fecondità

Rileggere oggi l’enciclica Humanæ vitæsignifica assumere seriamente la complessità dei rapporti tra i sessi e del concetto stesso di fecondità. Più che “manuali d’istruzione” sull’amore, la famiglia e la regolazione della fertilità, serve il discernimento che accompagna la crescita delle persone e delle relazioni.

Spunti da un ciclo di conferenze in Gregoriana.

Il 25 luglio 1968 Paolo VI pubblicava l’enciclica Humanæ vitæ. Al passaggio, rivoluzionario sotto tanti punti di vista, degli ultimi cinquant’anni, i suoi contenuti chiedono di essere sapientemente (ri)considerati anche attraverso una lente interdisciplinare, che metta a confronto varie scienze (ad esempio, la pedagogia, la sociologia, l’economia, la demografia, la psicologia, la medicina, la teologia).

Questo, da una parte per rendere ragione dei cambiamenti che sono intervenuti nella coppia e nella famiglia tanto come istituzione, quanto come comunità di affetti e di generazioni; dall’altra per non far torto al principio di incarnazione, che richiama alla concretezza del Regno nella storia e che non può e non deve venire mai meno nell’analisi della realtà.

Sono stati questi gli intenti, lo spirito e il metodo di un ciclo di conferenze organizzato dalla Facoltà di Scienze sociali e dal Dipartimento di Teologia morale della Pontificia università gregoriana, da cui sono emerse alcune indicazioni di fondo.

Conoscere, non difendersi. L’affresco dell’oggi delle relazioni umane è articolato e caleidoscopico, per cui è difficile e scorretto porre giudizi lapidari e gabbie di significato intorno alla famiglia e a chi la compone.

Va preso atto che il cambiamento storico e culturale delle relazioni fra i sessi e fra le generazioni è in larga parte irreversibile; proprio per questo allora, chiudersi in un fortino armati fino ai denti, nell’attesa che la grande minaccia della (post)modernità invada e distrugga le buone tradizioni di una volta, è anacronistico e pericoloso ai fini di una sana e costruttiva convivenza civile.

La realtà di tutti i giorni di tante coppie e famiglie va conosciuta, compresa, accolta e sostenuta, immaginando e realizzando percorsi economici, politici e culturali di integrazione e vicinanza. Il “noi e loro”, che sembra andare tanto di moda oggi, è un motto che possiede un intrinseco potere distruttivo, anche e soprattutto all’interno di uno stesso principio aggregante condiviso.

Anziché pensare insieme per rendere concreto un obiettivo comune, si pensa a strategie di separazione e battaglia utilizzando il più delle volte un filtro moralistico a maglie strette.

La complessità del presente – il paradigma con il quale papa Francesco ha interpretato la realtà in Amoris lætitia – impone metodi di analisi che implicano il tempo e l’inclusione, non certo la fretta e l’esclusione. Questo vale per ogni argomento si voglia affrontare che riconosca la famiglia come soggetto principale.

Quando l’amore è fecondo? Humanæ vitæha rappresentato per cinquant’anni il paradigma sul quale impostare ogni discorso sulla fecondità dell’amore; Amoris lætitia parla dello stesso tema in termini di discernimento.

Evidentemente non si tratta di stabilire chi sbaglia e chi abbia ragione, ma piuttosto di interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo e sostenere la parola fecondità con significati che vanno ben al di là del risultato biologico della procreazione.

Se l’amore di una coppia è fecondo, lo è non solo nei termini della numerosità della propria fertilità biologica, ma anche e soprattutto se l’uomo e la donna che compongono quella coppia, sappiano «rendersi a vicenda più uomo e più donna» (AL, n. 221).

In altri termini, se l’uomo e la donna coinvolti nella relazione, vedono sé stessi divenire negli anni sempre di più chi desiderano e vogliono essere, alla luce di una crescita della propria persona, che fugge da descrizioni stereotipate e da imposizioni che vengono dall’esterno. Ogni coppia fa storia a sé, ogni donna è donna come lei stessa è, ogni uomo è uomo come lui stesso è.

Modelli e ruoli, nessuna imposizione. Una tale prospettiva impone che il primo punto da cui partire perché una coppia sia feconda è che ci sia il più assoluto rispetto dei generi maschile e femminile al suo interno. Che non vi sia cioè alcuna sottomissione, se non quella reciproca; alcun obbligo nell’assunzione di ruoli specifici, se non quelli che la coppia decide di assumere liberamente; alcun incarico precostituito sulla base dell’appartenenza sessuale, se non quelli che sanciscono una collaborazione alla pari fra i sessi.

La fecondità dell’amore vuol dire assenza di pretese in una dimensione di affetto e onore reciproci, da desiderare e realizzare quanto più possibile nella relazione di coppia.

Non esiste omologazione, non esistono modelli di riferimento che giustifichino l’asfissia che viene dalla richiesta culturale implicita o esplicita, che tutti e tutte debbano comportarsi in un unico modo per dirsi uomini e donne e che vi sia un solo modo di essere coppia.

Le conferenze pubbliche in (Pontificia Università) Gregoriana hanno messo in luce quanto la complessità del fenomeno “famiglia” – anche e soprattutto se composta da persone credenti – non sia descrivibile da un unico prototipo, ma sia una specifica narrazione di quella relazione altrettanto specifica, nella quale quella donna e quell’uomo hanno voluto costruire un progetto comune, fatto di intese e di realizzazioni, lente, impegnative, ma anche costruttive di sé e della storia.

Un discernimento rispettoso. Il rispetto della diversità, tanto decantato, ha il suo primo fondamento qui: nel rispetto cioè dell’unicità di ogni uomo e di ogni donna e di ogni relazione essi costruiscano. In questo modo il discernimento assume un ruolo centrale nella dinamica feconda di coppia, tanto in funzione della crescita personale di chi quella coppia la compone, quanto in relazione alla capacità biologica di generare.

È anacronistico e presuntuoso oggi imporre alle coppie stili di contraccezione che non scelgono loro stesse, ma è soprattutto paradossale: da una parte infatti si proclama la libertà che essi hanno nella gestione della loro famiglia e di quanto e come possano decidere in relazione alla generazione; ma dall’altra si smentisce la precedente affermazione, non appena i vincoli del discernimento si stringono su binari stabiliti dall’esterno.

Ogni occasione di riflessione, di approfondimento e di confronto su questi temi è anche occasione di crescita e di rinnovamento interiore ed esteriore. Non fermiamo la nostra valutazione al rispetto di poche voci di un “manuale di istruzioni” redatto da altri e non da chi vive in prima persona quello che si intende (erroneamente) regolamentare.

Emilia Palladino il Regno19 giugno 2018

www.ilregno.it/blog/ogni-coppia-e-unica-come-la-sua-fecondita-emilia-palladino

Generazione, dall’etica del dovere al paradigma della complessità

Il nuovo approccio sfida il pensiero a superare approcci ideologici che idealizzano un passato mai esistito o che non esiste più

Le intenzioni sottese al progetto delle lezioni pubbliche su “Il cammino della famiglia a cinquant’anni da Humanæ vitæ” nell’ambito del progetto presentato dalla Pontificia Università Gregoriana sono state quelle di offrire un’occasione di confronto interdisciplinare, soprattutto con le Scienze sociali, per un dialogo che coinvolgesse interlocutori di altri atenei e pensatori laici.

Quali sono le novità del matrimonio e della famiglia secondo i contributi ricevuti in questo corso?

Maria Grazia Contini (Relazioni di coppia e famiglie: disincanto, resistenze e speranze) ha illustrato il passaggio dal paradigma della morfologia in cui è sorta l’Humanæ vitæ (HV), al paradigma della complessità, assunto da Amoris lætitia (AL). Mentre nel primo la famiglia era pensata secondo un’etica del dovere, nel secondo, invece, si presenta la sua complessità, conseguenza di nuovi parametri e condizioni: viene meno, soprattutto il modello autoritario patriarcale della famiglia e al suo posto sorge un modello di parità dei generi nella coppia e democratico nella famiglia, dando più spazio a libertà e autonomia personali.

Lucia Vantini (Il genere nella coppia) ha evidenziato la problematicità della realtà attuale, che oggi emerge più chiaramente come condizione non facilmente rappresentabile con vecchi schemi e antiche idealizzazioni, come avviene quando si osservano il rapporto di coppia e i ruoli genitoriali e familiari attraverso lo sguardo di genere. Inoltre, il richiamo di Paolo VI alla fecondità dell’amore coniugale non sembra aver avuto un influsso nell’arrestarsi del fenomeno delle “culle vuote”. Questo non va superficialmente interpretato, ma analizzato con attenzione in una realtà sociale che diventa ogni giorno più complessa e meno accogliente per le nuove nascite.

I contributi di Rosella Rettaroli (La famiglia tra cambiamenti demografici e modelli di sviluppo) e di Giovanna Rossi (Politiche sociali per la famiglia: un bilancio) hanno evidenziato da una parte l’ampiezza e la velocità delle trasformazioni della famiglia in Italia, e parimenti la mancanza del sostegno sufficiente da parte dello Stato con una legislazione a supporto delle famiglie e delle coppie che hanno figli. A questo si aggiunge l’influenza del movimento femminista che ha posto le condizioni culturali e sociali per mettere in discussione le rappresentazioni tradizionali della donna nel suo ruolo esclusivo di maternità e di sposa, a fianco della ricerca di nuove forme e diritti a tutela delle pari dignità nei ruoli all’interno della coppia, della famiglia e della società. Questo movimento ha evidenziato quanto delicato sia l’esercizio di articolazione del rapporto uomo-donna, e fragile sia la conseguente tenuta identitaria degli uomini, con il conseguente avvilimento delle aspirazioni alla maternità. Inoltre, la crescente mobilità umana fa emergere nuove problematiche nella configurazione della famiglia e nella configurazione sociale, ponendo all’evidenza la valutazione dell’impatto della multiculturalità sociale con il fenomeno dei matrimoni misti.

René Micallef e Giorgio Bartolomei (Il nuovo della multiculturalità: migrazioni, isole culturali, conflitti generazionali) hanno rilevato la problematica legata alla migrazione nel mondo globalizzato, con le sue contraddizioni e le sue opportunità. Anche lo sviluppo tecnico, e i suoi effetti nell’ambito della procreazione (generazione), a cui la enciclica paolina vuole rispondere, diventa un paradigma culturale e sociale, così come tematizzato dalla enciclica Laudato sì (LS).

A questo proposito Paolo Benanti e Carlo Cirotto hanno indicato l’insufficienza di linguaggio e di categorie adoperate al tempo di HV, ponendo ad esempio la questione della differenza tra naturale e artificiale a fronte dell’emergere della questione del “sintetico” che intercetta la domanda sulla vita umana lì dove la tecnologia fa emergere forme di vita nuove, e l’interrogazione domanda sul tecnicamente possibile e l’eticamente accettabile, di fronte al rischio dell’assolutizzazione del primo e all’oblio del secondo.

Come accogliere questi contributi nella pastorale familiare?

Il paradigma della complessità. L’idea di complessità ha guidato i diversi approcci al tema proposto, mostrando come essa sia conseguenza dei cambiamenti inarrestabili della società e della famiglia sottoposta alle mutazioni delle forme di realizzazione dei rapporti interpersonali, familiari e sociali. Complessità che ci impedisce di emettere giudizi semplicisti o ridurre la realtà a stereotipi con cui stigmatizzare gruppi o persone diverse. Piuttosto ci spinge ad aprirci quanto possibile alla realtà nella sua multiformità che sfida il pensiero a superare approcci ideologici che idealizzano un passato mai esistito o che non esiste più, oppure negano ogni legame con le generazioni precedenti prospettando un futuro senza radici.

Non di rado la famiglia è stato terreno di lotte ideologiche, le quali non giovano a un progresso nella comprensione del fenomeno e a trovare delle soluzioni giuste, adatte ai nuovi scenari che si presentano. Basta pensare alla mancanza di una legislazione di supporto e di promozione della famiglia in Italia, compresa quella dei migranti, dopo anni di dichiarazioni formali, mai tradotte in adeguate proposte concrete.

Maria Grazia Contini ha affrontato l’opposizione del paradigma della complessità a quello morfologico dentro il quale tutto andava a posto obbligato dall’ approccio doveristico della morale cattolica che in Italia, e non soltanto, fu mutuato da una morale rigorista d’ispirazione giansenista incentrata sulla legge senza tener conto del ruolo che la tradizione tomista assegnava alla virtù della prudenza, e la morale alfonsiana alla coscienza.

La complessità non è soltanto un paradigma per interpretare il presente, ma è la caratteristica della realtà in cui le persone interagiscono e le famiglie svolgono la loro vita. Dal punto di vista dell’etica, questa attenzione è già presente in Aristotele e Tommaso d’Aquino, quando si accorsero che per articolare un sistema morale non serve la ragione teoretica che si adopera nella teologia dogmatica, ma la ragione pratica, che cerca nelle contingenze la norma operativa dell’agire in situazione. Questo non vuol dire non tenere conto della morfologia della famiglia, cioè del suo carattere monogamo e fecondo. Esso non può presumersi in maniera scontata, ma deve essere accolto come promessa, come progetto di un amore che per propria natura tende a una compiutezza che solo in Dio si può attingere.

Quando le condizioni non consentono di mettere in pratica una norma, già la tradizione manualistica aveva coniato il detto: Ad impossibilia nemo tenetur (“nessuno è tenuto a fare cose impossibili”). Poi, si distingueva tra impossibilità fisica e morale, la quale indica la non convenienza per motivi gravi. Riguardo questo punto, don Maurizio Chiodi (Rileggere Humanæ vitæ (1968) a partire da Amoris Lætitia (2016)), nel contesto di una morale frequentemente incentrata unilateralmente sul rapporto tra coscienza e norma, ci ha offerto un ripensamento radicale del rapporto tra coscienza e atto, cercando di allargare gli orizzonti della prospettiva della morale coniugale che va inserita nell’insieme delle condizioni che sono state, almeno in parte, rilevate in questo percorso.

La proposta del discernimento. Sono queste le dimensioni che Paolo VI in HV tentava di tenere insieme in una società che si prevedeva sottoposta a profondi cambiamenti, con caratteristiche antropologiche irrinunciabili (HV 1). Queste, però, sono affidate alla coscienza, alla libertà e alla responsabilità dei credenti, come il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes (nn.16-17) ribadisce. Paolo VI riservò a sé la risoluzione della questione della regolazione delle nascite, che in GS 50 era già collocata nel contesto delle condizioni oggettive che dovevano essere prese in considerazione, così come avviene in HV 10 riferendosi alla “giusta gerarchia dei valori”. Proprio per questo le Conferenze episcopali, in accordo con la Santa Sede, avevano evidenziato i “conflitti di doveri” in cui la coscienza degli sposi cristiani si potevano trovare.

Il discernimento, infatti, va attuato dall’intero Popolo di Dio, pastori e laici, ognuno secondo il proprio carisma e competenze specifiche: i pastori nell’esercizio del loro magistero in ascolto del vissuto del Popolo di Dio; i laici nel cercare di vivere il Vangelo nelle mutate e disparate condizioni, avendo la guida della Parola di Dio e del magistero della Chiesa, secondo la propria competenza riconosciuta dal Concilio Vaticano II (LG 31; GS 43; AA 4-5.7). Il paradigma della complessità, già intravisto da Paolo VI, è interamente assunto da Francesco in LS (“tutto è collegato”) e AL quando si riferisce alla realtà delle famiglie, con uno sguardo pastorale e misericordioso, rivolto in particolare alla famiglia ferita.

Miguel Yáñez SJ, Direttore Dipartimento di teologia morale Pontificia Università Gregoriana

Noi famiglia e vita giugno 2018

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MATERNITÀ

Rischi per la gravidanza in ambiente lavorativo.

E’ stata pubblicata dall’INAIL una nuova scheda informativa per la valutazione dei rischi per la gravidanza in ambiente lavorativo. La scheda schematizza gli agenti e lavorazioni più pericolose che devono essere inserite nel Documento di Valutazione dei Rischi e per le quali va curata una precisa informazione e formazione delle lavoratrici.

www.ecolavservice.com/cgi-bin/allegati/614174718_FactSheetTutelaGravidanza.pdf

Nel contesto della definizione che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dà della salute come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non come la semplice assenza di malattia o infermità, la ‘salute riproduttiva’ è volta al sistema, ai processi e alle funzioni riproduttive in tutti gli stadi della vita umana.

Non bisogna dimenticare che in gravidanza si passa da uno zigote ad un bambino: è una fase delicatissima perché nel totale divenire del nuovo essere questo è esposto, soprattutto nei primi tre-quattro mesi di vita intrauterina, a possibili danni da parte di un gran numero di agenti chimici, fisici e biologici.

Promuovere le iniziative di educazione alla salute della donna con particolare riferimento ai fattori di rischio professionale, nasce dal cambiamento del mondo del lavoro in termini di forza lavoro e nuove tipologie contrattuali.

Negli anni il numero delle donne presente negli ambienti di lavoro è aumentato; il tasso di occupazione sale al 49,2% (Istat febbraio 2018). Questo fenomeno ha portato ad un incremento delle ricerche in campo epidemiologico che hanno permesso di riconoscere e studiare quei fattori di rischio presenti in diverse attività lavorative e che potrebbero avere effetti negativi sulla salute delle lavoratrici e/o dei loro bambini.

Di seguito vengono riportati i principali fattori di rischio correlati agli effetti sulla salute riproduttiva.

I fattori che possono risultare tossici sono suddivisi in diverse categorie e per ciascuno è indicato il tipo di lavorazione e gli specifici rischi connessi in rapporto alla salute riproduttiva. Si tratta di:

  • Agenti chimici: metalli pesanti (piombo, nichel, mercurio, cadmio, ecc.); solventi (toluene, policlorobifenili, ossido di etile, ecc.); altri fattori chimici (pesticidi, antineoplastici, gas anestetici, stirene, ecc.);

  • Agenti biologici: virus (morbillo, rosolia, ecc.); batteri (salmonella, stafilococco, ecc.); protozoi (toxoplasma); radiazioni ionizzanti;

  • Agenti fisici: rumore, vibrazioni, radiazioni elettromagnetiche; calore;

  • Fattori organizzativi come lavoro per turni, posture incongrue, stress psicosociale.

Il dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale INAIL raccomanda l’adeguata valutazione da parte dei datori di lavoro in collaborazione con il medico competente, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), ai fini di identificare le mansioni/lavorazioni vietate per la gravidanza e/o l’allattamento.

Fisco e Tasse 19 giugno 2018

www.fiscoetasse.com/rassegna-stampa/25291-tutela-maternit-nuove-indicazioni-inail.html?utm_campaign=Rassegna+Giornaliera&utm_medium=email&utm_source=Rassegna+quotidiana+&utm_content=Rassegna+Giornaliera+2018-06-19

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SEPARAZIONE

Spese sostenute dai coniugi per i bisogni della famiglia nel corso del matrimonio

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 10927, 07 maggio 2018.

Poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316 bis, primo comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio.

(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva dichiarato la compensazione tra quanto versato dall’attore per la Tarsu relativa all’immobile assegnato alla moglie in sede di separazione, con il credito vantato da quest’ultima a titolo di rimborso delle spese per le utenze domestiche sostenute durante il matrimonio

Testo dell’ordinanza http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/19997/divorzio

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SINODO DEI GIOVANI

Le 7 parole-chiave dell’Instrumentum Laboris

www.synod2018.va/content/synod2018/it/fede-discernimento-vocazione/instrumentum-laboris–i-giovani–la-fede-e-il-discernimento-voca.html

Pubblicato il Documento di lavoro della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, in programma in Vaticano dal 3 al 28 ottobre sul tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale

1,8 miliardi di persone tra i 16 ed i 29 anni, ovvero un quarto dell’umanità: tanti sono i giovani del mondo. L’Istrumentum Laboris ne descrive la varietà, le speranze, le difficoltà. Strutturato in tre parti – riconoscere, interpretare, scegliere – il Documento cerca di offrirne le giuste chiavi di lettura della realtà giovanile, basandosi su diverse fonti, tra cui un Questionario on line che ha raccolto le risposte di oltre centomila ragazzi.

Cosa vogliono i giovani dalla Chiesa. Cosa vogliono, dunque, i giovani di oggi? Soprattutto: cosa cercano nella Chiesa? In primo luogo, desiderano una “Chiesa autentica”, che brilli per “esemplarità, competenza, corresponsabilità e solidità culturale”, una Chiesa che condivida “la loro situazione di vita alla luce del Vangelo piuttosto che fare prediche”, una Chiesa che sia “trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva”. Insomma: una Chiesa “meno istituzionale e più relazionale, capace di accogliere senza giudicare previamente, amica e prossima, accogliente e misericordiosa”.

Ma c’è anche chi alla Chiesa non chiede nulla o di essere lasciato in pace, ritenendola un interlocutore non significativo o una presenza “fastidiosa ed irritante”. E c’è una ragione in questo atteggiamento critico: gli scandali sessuali ed economici, su cui i giovani chiedono alla Chiesa di “rafforzare la sua politica di tolleranza zero contro gli abusi sessuali all’interno delle proprie istituzioni”; l’impreparazione dei ministri ordinati, che non sanno intercettare la sensibilità dei giovani, e alla fatica della Chiesa stessa di “rendere ragione delle proprie posizioni dottrinali ed etiche di fronte alla società contemporanea”.

Tutto questo si articola secondo alcune parole-chiave che l’Istrumentum Laboris fa emergere:

  1. Ascolto: i giovani vogliono essere ascoltati con empatia, proprio “lì dove si trovano, condividendo la loro esistenza quotidiana”; desiderano che le loro opinioni vengano prese in considerazione, cercano sentirsi parte attiva della vita della Chiesa, soggetti e non meri oggetti di evangelizzazione. Tutti i giovani vogliono essere ascoltati, nessuno escluso, tanto che “l’ascolto è la prima forma di linguaggio vero e audace che i giovani chiedono a gran voce alla Chiesa”, e là dove vengono offerti “ascolto, accoglienza e testimonianza in modo creativo e dinamico, nascono sintonie e simpatie” fruttuose.

  2. Accompagnamento: spirituale, psicologico, formativo, familiare, vocazionale: in ognuna di queste forme, l’accompagnamento è fondamentale per i ragazzi. Esso, infatti, “non è un optional rispetto al compito di educare ed evangelizzare i giovani, ma un dovere ecclesiale e un diritto di ogni giovane”; serve a formare coscienze e libertà, a coltivare sogni ma anche ad intraprendere “passi concreti nelle strettoie della vita”. Centrale, quindi, il ruolo della famiglia che “continua a rappresentare un riferimento privilegiato nel processo di sviluppo integrale della persona”, pur necessitando di una riflessione sulla figura paterna, la cui “assenza o evanescenza” produce “ambiguità e vuoti”. Fondamentale anche il compito delle scuole e delle comunità cristiane che fanno sì che i giovani non si sentano soli, scartati, abbandonati nel loro percorso di crescita.

  3. Conversione: diverse le accezioni di “conversione” indicate dal Documento sinodale: c’è il dramma di giovani cristiani che “rappresentano una minoranza esposta alla violenza e alla pressione della maggioranza che pretende la loro conversione”, ma c’è anche la richiesta di una “conversione sistemica” in ambito educativo, affinché tutte le strutture formative ed i loro membri investano di più nella loro “formazione integrale” così da non “trasmettere solo contenuti”, ma da essere anche “testimoni di maturità umana”, in grado di rendere i giovani soggetti e protagonisti della loro stessa vita. Centrale anche il richiamo alla “conversione ecologica”: i giovani sono molto sensibili sull’argomento ed il loro apporto è indispensabile per avviare un cambiamento duraturo nello stile di vita di ciascuno. C’è, infine, l’appello ad una “necessaria e coraggiosa ‘conversione culturale’ della Chiesa” affinché sappia “riconoscere, dare spazio ed incentivare” la creatività “unica e necessaria” della vita consacrata, “luogo specifico di espressione del genio femminile”.

  4. Discernimento: tra le parole più presenti nel Documento, il discernimento viene inteso come “stile di una Chiesa in uscita”, per rispondere alle esigenze di giovani: “Mi trovo ora come di fronte a un muro, quello di dare senso profondo alla mia vita. Penso di aver bisogno di discernimento di fronte a questo vuoto”, scrive un ragazzo. “Dinamica spirituale” per “riconoscere e accogliere la volontà di Dio nel concreto” delle singole situazioni, il discernimento va offerto alle giovani generazioni come “strumento di lotta” che li renda “capaci di riconoscere i tempi di Dio”, per “non sprecare” le sue ispirazioni ed il suo “invito a crescere”. “Dono e rischio” allo stesso tempo, perché non immune dall’errore, il discernimento insegna ai ragazzi “la disponibilità ad assumere decisioni che costano”. In ambito vocazionale, inoltre, il giusto discernimento dovrà avvalersi di persone competenti e di “strutture di animazione adeguate, efficienti ed efficaci, attrattive e luminose per lo stile relazionale e le dinamiche fraterne che generano”.

  5. Sfide: discriminazioni religiose, razzismo, precariato lavorativo, povertà, tossicodipendenza, alcolismo, bullismo, sfruttamento sessuale, pedopornografia, corruzione, difficoltà di accesso allo studio, solitudine…Le sfide che i giovani devono affrontare oggi sono innumerevoli. Molte di esse – spiega l’Instrumentum Laboris – sono generate da fenomeni di esclusione, dalla “cultura dello scarto”, da un uso improprio delle nuove tecnologie digitali così pervasive, ma anche rischiose per quel fenomeno di “dark web” che possono generare. Importante, poi, la questione dei giovani migranti, spesso vittime di tratta, per i quali il Documento sinodale chiede di “attivare percorsi a tutela giuridica della loro dignità e capacità di azione e, al tempo stesso, di promuovere cammini di integrazione nella società in cui arrivano”. Tutta la pastorale, quindi, anche quella giovanile, è chiamata “a evitare forme di ghettizzazione e promuovere reali occasioni di incontro”. Fortunatamente, non mancano le sfide positive: la musica, con il suo valore socializzante; lo sport che, nell’ambito della sana competizione, permette di scoprire la cura e la disciplina del corpo, il lavoro di squadra, il rispetto delle regole e lo spirito di sacrificio; l’amicizia tra coetanei, vero e proprio “strumento di emancipazione dal contesto familiare, di consolidamento dell’identità e di sviluppo di competenze relazionali” di ciascuno.

  6. Vocazione: in tale ambito, il Documento sinodale mette in luce una difficoltà oggettiva: i giovani hanno “una visione riduttiva” del termine “vocazione”, il che crea “un forte pregiudizio” poiché la pastorale vocazionale viene vista come “un’attività finalizzata esclusivamente al ‘reclutamento” di sacerdoti e religiosi’. Da qui nasce la necessità di ripensare la pastorale giovanile vocazionale in modo che sia “di ampio respiro” e “significativa per tutti i giovani”. Ogni ragazzo, infatti, ha una sua vocazione che può esprimersi in vari ambiti – la famiglia, lo studio, la professione, la politica…- divenendo “un fulcro di integrazione di tutte le dimensioni della persona”: i talenti naturali, le competenze acquisite, i successi ed i fallimenti “che ogni storia personale contiene”, “la capacità di entrare in relazione e di amare”, l’assunzione di responsabilità “all’interno di un popolo e di una società”. Nello specifico delle vocazioni sacerdotali, invece, la Chiesa è chiamata a riflettere, perché “è innegabile la sua preoccupazione per il calo numerico dei candidati – si legge nell’Instrumentum – Ciò rende necessaria una rinnovata riflessione sulla vocazione al ministero ordinato e su una pastorale vocazionale che sappia far sentire il fascino della chiamata di Gesù a divenire pastori del suo gregge”.

  7. Santità: il Documento sinodale si conclude con una riflessione sulla santità, poiché “la giovinezza è un tempo per la santità” ed essa va proposta come “orizzonte di senso accessibile a tutti i giovani”. In fondo, tutti i Santi sono stati giovani: la “narrativa” della loro vita, allora, possa permettere ai ragazzi di oggi di “coltivare la speranza” affinché – come scrive Papa Francesco nella preghiera finale del Documento – i giovani, “con coraggio, prendano in mano la loro vita, mirino alle cose più belle e più profonde e conservino sempre un cuore libero”.

Isabella Piro – Città del Vaticano Vatican news 19 giugno 2018

www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2018-06/sinodo-giovani-sette-parole-chiave-instrumentum-laboris.html

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI

Famiglia e risorse

La famiglia non corrisponde a quell’istituzione nostalgica, stabile e rassicurante oppure criticata, che forse deriva dalle nostre immagini infantili e che spesso i mass-media enfatizzano, ma non è neanche quell’istituzione moribonda che durante la rivoluzione culturale del sessantotto veniva data per spacciata La tendenza dell’essere umano ad aggregarsi in una famiglia è universale, cioè presente in ogni cultura attuale ed in ogni tempo, seppur coniugata in forme disparate.

La “famiglia”, quindi, va considerata frutto di una tendenza aggregativa naturale che avviene, per fortuna, al di là di qualunque decisione o sforzo umano a favorirla o sfavorirla… Come tale attiva continui processi di adattamento e si evolve in base a mutate condizioni.

Nel momento in cui ci apprestiamo a parlare di quali siano le risorse evolutive che consentono alla famiglia di affrontare i vari momenti evolutivi che incontra, dobbiamo renderci conto della profonda saggezza contenuta in un vecchio proverbio: “tra moglie e marito non metterci il dito”. Questo adagio popolare, in pratica, esprime il fatto che la famiglia è un’istituzione viva che, come autonomamente si forma, autonomamente si attiva per trovare nuove soluzioni adattive alle mutate circostanze.

Quanto sopra è dimostrato dalla banale constatazione che la maggioranza delle famiglie ha saputo durante la sua storia, e sa ancora oggi affrontare egregiamente infinite vicissitudini senza bisogno che nessuno vada a metterci il naso.

Detto questo va anche riconosciuto che alcune caratteristiche possono favorire la capacità di evoluzione e, pure, che una mano data in modo adeguato, a volte, può fare la differenza. A questo proposito, può risultare chiarificatrice una metafora botanica: “è insita nel DNA della pianta la spinta vitale a crescere adattandosi al terreno ed al clima, non è l’intervento umano, quindi, che fa crescere le piante, ma l’uomo può col suo comportamento favorirne lo sviluppo, orientarlo od ostacolarlo”. Fatta questa premessa, possono venir delineate due risorse importanti per favorire la capacità evolutiva della famiglia, risorse che risultano strettamente connesse tra loro ma che per comodità possono venir trattate distintamente: la capacità di ascoltare e la maturità.

a) La capacità di ascolto. Quando un evento, di qualsiasi genere, perturba una situazione di equilibrio in un sistema, succede che alcune parti del sistema stesso si trovino ad operare in condizioni non ottimali generando un cattivo funzionamento. In tali casi i sistemi complessi rilevano il disfunzionamento e prima che si creino danni apportano gli aggiustamenti necessari.

Un esempio semplice di questo fenomeno è l’impianto di riscaldamento. Se, con l’arrivo della bella stagione, la temperatura esterna sale di venti gradi si riduce la dispersione di calore dalla casa verso l’esterno e la temperatura interna tende a salire di venti gradi. Se la temperatura interna alla casa sale a quaranta gradi alcuni elettrodomestici possono danneggiarsi e pure le persone ne soffrono per cui il termostato rileva l’aumento e corregge la caldaia riportando la temperatura a livelli ottimali. Un buon termostato, ovviamente, non aspetta un aumento di venti gradi prima di intervenire. Nelle situazioni umane, invece, qualche volta succede che un individuo debba stare parecchio male e “urlare dei venti gradi in più” prima di venir ascoltato e anche allora può succedere che venga preso per matto perché urla.

Al di là dell’esagerazione, che serve per rendere l’idea, anche nei sistemi umani come la famiglia può succedere che una persona si trovi a sopportare condizioni disequilibrate di funzionamento, che non riesca a rendersi conto di quanto avviene e che esprima grezzamente un malessere incomprensibile o disturbante. A questo punto, se viene ascoltato solo il fastidio dell’urlo senza chiedersi cosa vuol dire, tendiamo a squalificare ed eliminare il problema con gravi conseguenze per il sistema; se invece, cosa più faticosa, abbiamo la capacità di porci in ascolto e alla ricerca delle reali problematiche, allora può darsi che, poi, riusciamo anche a trovare una soluzione riequilibrante ed evolutiva.

b) La maturità. La capacità di ascolto sopra presentata richiede da parte delle persone coinvolte la capacità di andare oltre al fastidio di un comportamento problematico ed oltre le apparenze per capire ciò che realmente sta accadendo e che provoca disagio. Questo modo di vedere implica che le persone coinvolte nel sistema debbano trovarsi a dover modificare la propria posizione e le proprie funzioni per qualche cosa di nuovo e questo può fare paura.

Per riuscire a realizzare quanto sopra è necessaria una certa dose di maturità, dove per maturità intendo una caratteristica ben precisa che alcuni studi psicoanalitici hanno ben definito.

Secondo questi studi psicoanalitici, l’essere umano, nel suo sviluppo, passa da una condizione in cui l’altro generico è un “oggetto parziale” ad una in cui l’altro è un “oggetto intero” o “persona”. Qualche cosa di simile, nel linguaggio comune, si intende quando si parla, ad esempio, di “donna oggetto” o di “soggetto”.

All’inizio, nella sua onnipotenza infantile, l’individuo crede che tutto giri intorno a lui: la mamma serve per sfamarlo ed accudirlo, il giocattolo serve per divertirlo e così via. La mamma, i giocattoli o altro vengono definiti oggetti parziali perché nella mente infantile esistono solo in quanto oggetti atti a determinate funzioni che se vengono svolte provocano benessere, se no malessere e rabbia. Non esiste la persona mamma ma un qualcosa che nutre. In questa fase non c’è considerazione per i sentimenti, i vissuti o i problemi dell’oggetto ma solo il suo effetto sul mio benessere o malessere. Considero, cioè, solo un aspetto o una parte dell’oggetto, da cui la definizione “oggetto parziale”.

Crescendo, normalmente, dovremmo emanciparci da questa situazione e vedere nell’altro una persona che – pur avendo degli effetti positivi o negativi su di noi – ha anche vita propria, autonoma, con tutto quello che ne consegue. La persona, quindi, è considerata interamente, un oggetto intero. È proprio l’avere acquisito la maturità necessaria a riconoscere nell’altro un “oggetto intero”, una persona distinta, autonoma, sensibile, con affetti, intelligenza e bisogni che mi permette, di fronte ad un comportamento fastidioso o irritante, di andare oltre e chiedermi come mai quella persona si comporta così, emancipandomi sia dal buonismo di chi tenderebbe ad assecondarla per il quieto vivere, sia dal moralismo di chi vorrebbe condannare il comportamento disturbante, per cercare, invece, soluzioni nuove.

Giuseppe Cesa, psicologo psicoterapeuta del Consultorio di Mantova.

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