NewsUCIPEM n. 684 – 14 gennaio 2018

NewsUCIPEM n. 684 – 14 gennaio 2018

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

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02 ABBANDONO CASA CONIUGALE Via dalla casa familiare per pochi giorni: è reato?

03 ABORTO VOLONTARIO Relazione del Ministro della Salute su Legge 194/1978. Dati 2016.

07 La realtà che pesa. Aborti in Italia: dentro i dati e oltre.

08 Legge 194. Meno aborti, ma sempre più «invisibili».

09 ADOZIONI INTERNAZIONALI Adozioni, la prima fotografia del 2017 ha ancora il segno meno.

10 Regione Lazio: fondo di 2,76 milioni di euro per famiglie adottive.

11 Adottare in Africa: difficile? Quasi impossibile.

11 Etiopia, stop alle adozioni. In attesa cento famiglie italiane.

12 AMORIS LÆTITIA Francesco: famiglia, non modello astratto ma realtà da vivere.

13 ASSEGNO DIVORZILE Quando si ha diritto all’assegno dopo la Cassazione n. 11504/2017.

14 CENTRO INTERNAZ. FAMIGLIA Newsletter CISF – N. 1, 10 gennaio 2018. Nuovo Rapporto CISF.

14 CHIESA CATTOLICA Perché Ratzinger non è eretico. La parola alla difesa.

16 Radici culturali di Bergoglio.

17 COM. ADOZIONI INTERNAZIONALI Comunicato relativo all’Etiopia.

17 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIA AICCeF. Compleanno della legge 4 del 2013.

17 CONSULTORI FAMILIARI Torino. Punto Familia. Attività 2018 in corso.

18 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Milano 1 Sedi e punti d’appoggio per le adozioni internazionali.

18 Padova. Il potere della lettura.

18 CORRESPONSABILITÀ Il problema del ministero ecclesiastico per la Chiesa che verrà.

19Corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa.

24 DALLA NAVATA II Domenica del tempo ordinario- Anno B –14 gennaio 2018

25 Tu sei il Figlio mio, l’amato. Commento di Enzo Bianchi.

26 DEMOGRAFIA Pochi figli. Mancano opzioni mirate.

27 DIVORZIO La Corte di Giustizia Europea sui “divorzi privati”.

28 ETS (già onlus) NON PROFIT Hanno tempo fino al 3 febbraio 2019 per modificare gli statuti.

29 Codice del Terzo settore 2017: prime indicazioni.

30 MINORI Autorità sollecita tavolo di concertazione su politiche educative.

30 NULLITÀ MATRIMONIALE Riconoscimento della responsabilità del coniuge in mala fede.

30 OMOFILIAGay, la Chiesa tedesca suona la marcia nuziale.

31 POLITICHE PER LA FAMIGLIA Hai tre figli? Nasce la Carta della famiglia.

32 Carta Famiglia 2018, come funziona.

33Congedo obbligatorio 2018: 4 giorni per i papà.

34 SCRITTI Il crollo del “Noi”.

34 I ruoli nell’ambito familiare.

36 SEPARAZIONE Una casa per i separati.

37 Case ai padri separati con l’8‰. Venite a viverci con i vostri bambini

38 SESSUOLOGIA Contraccezione. L’«ignoranza» giovanile e l’educazione che serve.

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ABBANDONO CASA CONIUGALE

Via dalla casa familiare per pochi giorni: è reato?

Abbandono del tetto domestico: quando il marito e la moglie se ne vanno per una o qualche notte senza commettere illecito o subire l’addebito per la separazione.

Non è isolato che le liti tra marito e moglie finiscano in sfuriate e, a volte, uno dei due abbia la tentazione di sbattere la porta di casa e andare a dormire altrove. Se i rapporti poi non si ricuciono velocemente, è possibile che l’assenza si prolunghi di qualche giorno. A questo punto però è lecito chiedersi fino a quando questo comportamento non integra l’illecito dell’abbandono della casa coniugale, condotta quest’ultima che – come noto – autorizza l’altro coniuge a chiedere la separazione con addebito. In altri termini, se uno dei coniugi va via dalla casa familiare per pochi giorni è reato?

Immaginiamo una coppia di coniugi che litighi spesso. Marito e moglie hanno gli animi “caldi” e, di certo, non si fanno problemi a rinfacciarsi le reciproche colpe. A volte uno dei due minaccia l’altro di andarsene di casa, lasciarlo per sempre e chiedere la separazione. Una sera, però, a seguito dell’ennesima scenata, il marito decide di fare la valigia e di andare a dormire in hotel. In questo modo spera di sensibilizzare maggiormente la moglie e di farle temere che l’unione matrimoniale è a serio rischio. Il giorno dopo, non ricevendo alcuna telefonata di scusa, l’uomo decide di restare ugualmente a dormire fuori. E così anche il terzo giorno. È chiaramente in atto un vero e proprio braccio di ferro e, pur volendo tornare insieme, ciascuno dei due aspetta che sia l’altro a fare la prima mossa. Senonché, il marito comincia a temere che, dietro al silenzio della moglie, si nasconda l’intenzione di separarsi e, magari, chiedergli mantenimento e addebito per via dell’abbandono del tetto coniugale. Non volendole offrire quest’occasione su un piatto d’argento, inizia a chiedersi se è il caso di tornare da lei e cosa rischierebbe invece restando via dalla casa familiare per pochi giorni.

Secondo la giurisprudenza, in generale, ogni volta che uno dei due coniugi si allontana dalla residenza familiare senza una giusta causa o senza il consenso dell’altro, senza volervi tornare, commette un «allontanamento ingiustificato» che costituisce violazione di un preciso obbligo matrimoniale: si tratta di una causa sufficiente di addebito della separazione, in quanto rende impossibile proseguire la convivenza.

In particolare, per chiedere l’addebito, non basta il semplice allontanamento dalla casa familiare ma devono ricorre altre due condizioni:

  1. L’abbandono della casa deve essere confermato dal rifiuto di volervi più tornare. Frasi come «Stanotte vado a dormire dai miei», oppure «Me ne vado finché non sarai rinsavito: fammelo sapere!», «Devo andare a sfogarmi: per oggi non voglio dormire in questa casa» rappresentano una situazione provvisoria e passeggera, non sono sintomatiche della volontà di non fare più ritorno dal coniuge. In tali casi, quindi non si può chiedere la separazione;

  2. L’abbandono della casa familiare non deve essere determinato da una giusta causa, vale a dire dalla presenza di situazioni di fatto (ma anche di avvenimenti o comportamenti altrui) di per sé incompatibili con la protrazione di quella convivenza, ossia tali da non rendere esigibile la pretesa di coabitare. È il caso della donna che scappa via di casa per non essere picchiata dal marito o dell’uomo che va via perché scopre il tradimento della moglie. Non c’è possibilità di chiedere l’addebito pertanto se:

a) l’abbandono del tetto coniugale è determinato da un comportamento dell’altro coniuge;

b) o quando tale abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata per via di un’altra ragione (a cui è da attribuirsi a monte la causa dell’intollerabilità della convivenza).

Risultato: chi si allontana dalla casa coniugale solo per qualche notte non commette illecito.

L’abbandono della casa coniugale integra sicuramente un illecito civile, la violazione cioè di uno dei doveri del matrimonio. La conseguenza è la separazione con addebito. L’effetto principale dell’addebito è, per chi lo subisce, di non poter chiedere eventualmente il mantenimento; vien da sé che, se a subire l’addebito è il coniuge economicamente più ricco (che comunque non avrebbe avuto diritto al mantenimento), alcuna conseguenza deriva da tale situazione.

Eccezionalmente l’abbandono della casa coniugale è reato tutte le volte in cui si lascia la famiglia – e in particolare i figli – senza in mezzi di sussistenza e le condizioni economiche per il sostentamento. In tal caso scatta il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. In particolare, il penale scatta tutte le volte in cui l’allontanamento dal tetto domestico ha come conseguenza cosciente e volontaria il mancato adempimento degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge. Il sottrarsi a tali obblighi è considerato evento dannoso indispensabile per la sussistenza del delitto in oggetto.

Risponde del reato anche chi, dopo aver lasciato la casa coniugale, continua a somministrare i mezzi di sussistenza, ma si disinteressa completamente della moglie e dei figli, rendendosi quindi inadempiente agli obblighi morali inerenti alla qualità di coniuge e di genitore.

In ogni caso la sanzione penale è stata applicata solo di rado.

Sentenze della Corte di Cassazione: n. 2539/2014, n. 1696/2014, n. 16285/2013, n. 4540/2011, n. 2740/2008, n.1202/2006.

Redazione La Legge per tutti 9 gennaio 2018

www.laleggepertutti.it/190683_via-dalla-casa-familiare-per-pochi-giorni-e-reato

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ABORTO VOLONTARIO

Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della Legge 194/78 per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza – dati definitivi 2016.

La Relazione è stata trasmessa al Parlamento il 29 dicembre 2017. Contiene i dati definitivi relativi al 2016 sull’attuazione della L.194/1978 che stabilisce norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG). (…). Il monitoraggio avviene a partire dai modelli D12 dell’Istat che devono essere compilati per ciascuna IVG nella struttura in cui è stato effettuato l’intervento.

Dai dati emerge che anche nel 2016 prosegue l’andamento in diminuzione del fenomeno, anche se in entità minore rispetto agli anni precedenti. Lo scorso anno, infatti, il numero di IVG è stato pari a 84.926, una diminuzione del 3.1% rispetto al dato del 2015, quando ne erano state registrate 87.639. Le IVG cioè si sono più che dimezzate rispetto alle 234.801 del 1982, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia.

http://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=2686

Allegati in Download

Relazione al Parlamento IVG 2017, dati 2016 (completa di allegati) pag. 131.

www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2686_allegato.pdf

Indice

001 Presentazione

010 Sistema di raccolta dati

012 Dati definitivi ed analisi delle ivg effettuate nel 2016

045 Offerta del servizio ivg e obiezione di coscienza (dati 2015 e 2016)

060 Tabelle 2016

095 Appendice: stima aborti clandestini

105 Allegato: elaborazione ISTAT “verso i 40 anni dalla legge sull’aborto“

 

Tabelle IVG 2016 pag. 34.

www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2686_ulterioriallegati_ulterioreallegato_0_alleg.pdf

Tabella 16 – IVG e luogo di rilascio documento o certificazione, 2016

Tabella 17 – N. Consultori Familiari funzionanti, 2016 (Dato non corretto per quelli privati) da aggiornare

Tabella 22 – IVG ed assenso per le minorenni, 2016

 

Relazione al Parlamento IVG 2017, dati 2016 Ministra Beatrice Lorenzin

Passim Estratti

Presentazione. pag. 1 (3 del pdf)

[Omissis] Presentiamo inoltre anche i risultati del monitoraggio ad hoc sull’obiezione di coscienza; dall’inizio del mio mandato questo ambito della legge 194/1978 è oggetto di particolare attenzione e di un monitoraggio estremamente dettagliato e articolato, nel territorio, a livello sub-regionale, che richiede ogni anno una interrogazione ad hoc alle regioni. Quest’anno i dati del carico di IVG settimanali per ciascun ginecologo non obiettore sono stati raccolti e calcolati per ogni singola struttura di ricovero. [Omissis]

  • Nel 2016 il numero di IVG riferito dalle regioni è stato pari a 84.926, con una diminuzione del 3.1% rispetto al 2015, anno in cui la riduzione delle IVG rispetto all’anno precedente è stata sensibilmente maggiore (-9.3%). Per il terzo anno di seguito il numero totale delle IVG è stato inferiore a 100.000, più che dimezzato rispetto ai 234.801 del 1982, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia.

  • Considerando solamente le IVG effettuate da cittadine italiane, per la prima volta il valore scende al di sotto di 60.000: la riduzione dal 1982 ha subìto un decremento percentuale del 74.7%, passando da 234.801 a 59.423 nel 2016.

  • Tutti gli indicatori confermano il trend in diminuzione: il tasso di abortività (numero di IVG per 1000 donne tra 15 e 49 anni), che rappresenta l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza del ricorso all’IVG, è stato 6,5‰ per 1000 nel 2016, rispetto a 6,6‰ nel 2015, con una riduzione dell’1.7%. Il dato italiano rimane tra i valori più bassi a livello internazionale.

  • Il rapporto di abortività (numero delle IVG per 1000 nati vivi) nel 2016 è risultato pari a 182.4, con un decremento pari a 1.4% rispetto al 2015, anno in cui questo valore è stato pari a 185.1. E’ da considerare che in questi due anni i nati della popolazione presente sul territorio nazionale sono diminuiti di 7.910 unità. Figura 1 – Tassi e Rapporti di abortività – Italia 1978-2016

  • Caratteristiche delle donne che fanno ricorso a IVG. Il ricorso all’IVG nel 2016 è diminuito in tutte le prime fasce di età, mentre è leggermente aumentato nelle donne dai 35 anni in su. I tassi di abortività più elevati restano fra le donne di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Per quanto riguarda la distribuzione percentuale, nel 2016 il 46.5% delle donne italiane che hanno abortito era in possesso di licenza media superiore, mentre il 45.9% delle straniere aveva la licenza media. Il 47.4% delle italiane risultava occupata (in aumento rispetto al 2015, quando le occupate erano il 42.9%), mentre per le straniere la percentuale delle occupate è del 39.2%. Per le italiane la percentuale delle nubili (57.8%) è in aumento e superiore a quella delle coniugate (35.6%), mentre nelle straniere le percentuali sono molto più simili (46.8% le coniugate, 47.3% le nubili). Il 43.9% delle donne italiane che ha eseguito una IVG non aveva figli.

  • IVG di donne straniere. Dopo un aumento importante nel tempo, le IVG fra le straniere si sono stabilizzate e negli ultimi 3 anni cominciano a mostrare una tendenza alla diminuzione: sono il 30.0% di tutte le IVG nel 2016 rispetto a 31.1% nel 2015. E’ in diminuzione anche il loro tasso di abortività (15.7 per 1000 nel 2015 rispetto a 17.2 per 1000 nel 2014 e 40.7 nel 2003), permanendo comunque una popolazione a maggior rischio di abortire rispetto alle italiane: per tutte le classi di età le straniere hanno tassi di abortività più elevati delle italiane di 2-3 volte.

  • Aborto fra le minorenni. Tra le minorenni, il tasso di abortività per il 2016 è risultato essere pari a 3.1‰, valore identico a quello del 2015, ma in diminuzione rispetto agli anni precedenti (3.7 nel 2014, 4.4 nel 2012), con livelli più elevati nell’Italia centrale; i 2.596 interventi effettuati da minorenni sono pari al 3.0% di tutte le IVG (erano il 2.9% nel 2015). Come negli anni precedenti, si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa Occidentale

  • Aborti ripetuti. La percentuale di IVG effettuate da donne con precedente esperienza abortiva è risultata pari al 26.4% (26.9% nel 2014), valore simile a quello rilevato negli ultimi 10 anni. Le percentuali corrispondenti per cittadinanza nel 2016 sono 22.1% per le italiane e 37.0% per le straniere (erano 20.8% e 37.7%, rispettivamente, nel 2012). La percentuale di aborti ripetuti riscontrata in Italia è più bassa rispetto a quella degli altri Paesi. [Omissis]

  • Modalità di svolgimento dell’IVG. La metodica secondo Karman, rappresenta la tecnica più utilizzata anche nel 2016 (52.2% dei casi). È in aumento l’uso dell’aborto farmacologico: nel 2016 il mifepristone con successiva somministrazione di prostaglandine è stato adoperato nel 15.7% dei casi, rispetto al 15.2% del 2015 e al 12.9% del 2014. Il ricorso all’aborto farmacologico varia molto fra le regioni.

  • Si riscontra una tendenza all’aumento della percentuale di IVG oltre le 12 settimane di gestazione: 5.3% nel 2016, 5.0% nel 2015, 4.7% nel 2014, rispetto al 3.8% nel 2012. Una percentuale che rimane comunque fra le più basse a livello internazionale. Le donne straniere vi ricorrono per il 2.9%, mentre le italiane per il 6.4%, probabilmente per il minore accesso delle straniere alle analisi prenatali.

  • Continua la tendenza all’aumento del ricorso alla procedura d’urgenza: è avvenuto nel 17.8% dei casi rispetto al 16.7% dei casi nel 2015, l’11.6% del 2011. Percentuali superiori alla media nazionale si sono osservate, come negli anni passati, in Puglia (33.6%), Piemonte (31.9%), Lazio (29.4%), Emilia Romagna (24.0%) e in Toscana (22.6%).

{E’ un fenomeno da indagare. Il superamento dei 90 giorni di gestazione non è di per sé motivo del rilascio del certificato d’urgenza. L. 194\1978 art.5.3. NDR}

  • Anche per il 2016 il consultorio familiare ha rilasciato più documenti e certificazioni (42.9%) degli altri servizi. [Peritaliane 38,2%, straniere 54,5%]

  • Tempi di attesa. Sono in diminuzione i tempi di attesa tra rilascio della certificazione e intervento (possibile indicatore di efficienza dei servizi) [omissis]

  • Mobilità regionale. [Omissis]

  • Offerta del servizio e obiezione di coscienza (anni 2015 e 2016) [omissis]

Per il 2016, delle 356 strutture IVG per le quali le Regioni hanno fornito i dati, solo 5 presentano valori di carico di lavoro per ginecologo non obiettore che si discostano [molto dalla media regionale (outlet).

[Omissis] Nel 2016il 6.6% dei non obiettori [aumentati in numero assoluto negli ultimi 2 anni], pari a 69 ginecologi, è assegnato ad altri servizi e non a quello IVG, cioè non effettua IVG pur non avvalendosi del diritto all’obiezione di coscienza. [Omissis]

  • Consultori familiari. [Omissis]. In generale, il numero degli obiettori di coscienza nei consultori, pur nella non sempre soddisfacente copertura dei dati, è molto inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere, e tende a diminuire (29.7% vs 70.5% nel 2015 e 23.1% vs 70.9% nel 2016).

Il fatto che il numero di colloqui IVG sia superiore al numero di certificati rilasciati, potrebbe indicare l’effettiva azione per aiutare la donna “a rimuovere le cause che la porterebbero all’IVG” (art. 5 L. 194\1978). {Il dato sarebbe più valido se si confrontasse con il numero di IVG effettuate dopo i 7 giorni di riflessione previsti. NDR}

[A differenza degli anni precedenti non è stato necessario integrare le informazioni ottenute dal flusso del Sistema di Sorveglianza dell’IVG, basato sui D12/Istat, con il dato proveniente dalle schede di dimissione ospedaliera (SDO). pag. 12\14]

[(pag. 34\36). [Omissis] Questo documento è spesso chiamato impropriamente certificato, dalla dizione presente nel modello D12/ Istat. ” (art. 5 Legge 194/1978).

https://www.istat.it/it/files/2011/01/Modello_D12edit_2017-1.pdf?title=Interruzioni+di+gravidanza+e+aborti+spontanei++-+17%2Ffeb%2F2017+-+Modello+D12+editabile+2017.pdf

In realtà il certificato viene rilasciato solo quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento o in caso di IVG oltre i 90 giorni {ipotesi non indicata nella legge se non quelle indicate nell’art. 6. Ndr}, secondo le modalità previste dalla legge (art. 5). Anche per il 2016 il consultorio familiare ha rilasciato più documenti e certificazioni (42.9%) degli altri servizi (Tab. 16). Le regioni in cui si osservano nel 2016 valori di molto superiori alla media nazionale, indicatore di un ruolo più importante del consultorio, sono le stesse degli anni precedenti: Emilia Romagna (68.1%), Piemonte (63.1%), Umbria (60.2%) e PA di Trento (58.9%). In generale si osservano percentuali più basse nell’Italia meridionale ed insulare, probabilmente a causa della minor presenza dei servizi e del personale. (Tabella)

Negli anni si è osservata una tendenza all’aumento del ruolo dei consultori familiari, specialmente a partire dalla metà degli anni ’90. Prevalentemente questo andamento può essere determinato dal contributo delle donne straniere, le quali, come rilevato dalla tabella precedente, ricorrono più frequentemente a tale servizio, in quanto a più bassa soglia di accesso e dove è spesso presente il mediatore culturale. È confortante che le straniere, che per quanto riguarda il ricorso alle metodiche per la procreazione responsabile sono spesso nella stessa condizione delle italiane di 35 anni fa, utilizzino i servizi sanitari, in particolare i consultori familiari, visto il ruolo positivo che tali servizi hanno avuto nella riduzione del rischio di aborto tra le italiane. Forse la riduzione del tasso di abortività tra le cittadine straniere osservato recentemente, come riportato nel capitolo sulla cittadinanza, può essere in parte imputabile al lavoro svolto da questi servizi. Si ha così una ulteriore ragione al potenziamento e riqualificazione dei consultori familiari secondo le indicazioni del POMI, con particolare riferimento alla mediazione culturale e a un modello dipartimentale dei servizi ospedalieri e di quelli territoriali.

La tabella mostra l’andamento % nel tempo del luogo di rilascio del documento o certificato, 1983-2016

passim Medico di fiducia Servizio Ost. Ginec. ConsultorioAltro {??? non specificato? NDR}

1983 52.9 21.4 24.2 1.4

2000 36.0 32.2 30.1 1.7

2010 26.0 30.9 40.4 2.6

2011 25.3 30.5 40.7 3.4

2013 22.9 32.3 41.6 3.1

2014 21.7 33.0 41.9 3.4

2015 21.4 33.0 42.3 3.3

2016 21.6 31.7 42.9 3.7

Nel 2016 il tasso di presenza dei consultori familiari pubblici è risultato pari a 0.6 per 20000 abitanti (Tab. 17), valore uguale a quello del 2015 e leggermente più basso di quello degli anni precedenti, mentre la legge 34/96 ne prevede 1 per lo stesso numero di abitanti. [Omissis]. Viene così vanificata una preziosa risorsa per la maggiore disponibilità ed esperienza nel contesto socio-sanitario e, grazie alle competenze multidisciplinari, più in grado di identificare i determinanti più propriamente sociali, al fine di sostenere la donna e/o la coppia nella scelta consapevole, nella eventuale riconsiderazione delle motivazioni alla base della sua scelta, di aiutarla nel percorso IVG e ad evitare che l’evento si verifichi nuovamente.]

  • Quaranta anni. La disponibilità di una serie storica di dati di applicazione della Legge 194/1978, che copre quasi un quarantennio, consente di leggere il fenomeno dell’aborto volontario attraverso le generazioni delle donne che in questo arco di tempo lo hanno sperimentato almeno una volta nella loro vita. [Omissis]. Il quadro risultante è articolato e complesso. Di seguito sono indicate alcune fra le osservazioni principali, non certo esaustive dell’intero studio effettuato:

  1. L’aborto volontario, dopo una prima fase iniziale, è costantemente diminuito, anche secondo l’analisi generazionale, e non è mai stato un mezzo di controllo delle nascite;

  2. La separazione sempre più netta fra sessualità e procreazione aumenta il tempo che intercorre fra l’inizio della attività sessuale e la nascita del primo figlio: è questo un periodo in cui le gravidanze sono spesso indesiderate;

  3. Sia per le donne italiane che per le straniere, nelle ultime generazioni sono le ventenni a mostrare un ricorso più elevato all’IVG;

  4. I tassi di abortività delle giovanissime (tra i 15 e i 20 anni) delle generazioni più recenti mostrano un andamento diverso rispetto a quello di altre fasce d’età: pur restando fra i valori più bassi dei Paesi occidentali, hanno avuto negli ultimi anni prima un aumento, seguito da una stabilizzazione e poi da una diminuzione, quest’ultima meno evidente nelle 15-16enni. Ciò potrebbe essere legato alla tendenza all’aumento nelle giovanissime del numero dei partner, che si ridimensiona con l’età, e all’inizio sempre più precoce dei rapporti sessuali. Al tempo stesso, tuttavia, si osserva in Italia, in questa fascia di età, una minore diffusione della contraccezione ormonale, rispetto ad altri Paesi europei con cui siamo soliti confrontarci (Svezia, Gran Bretagna, Francia), dove a un utilizzo nettamente maggiore della pillola contraccettiva corrisponde tuttavia un altrettanto maggiore tasso di abortività;

  5. Dati recenti sulla contraccezione mostrano tra i giovani (15-24enni di entrambi i sessi) una diffusione sempre maggiore del profilattico, che ha la duplice funzione di minimizzare il rischio di gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili. Rispetto agli altri Paesi europei siamo ancora distanti dalla diffusione più massiccia della pillola contraccettiva, notoriamente più efficace del profilattico. Nonostante ciò fra le giovani italiane si osserva una percentuale bassa di gravidanze e una bassa abortività. Ciò può essere parzialmente spiegato dal fatto che i nostri giovani, rispetto ai paesi Nord Europei, restano più a lungo in famiglia, trovandosi a gestire anni di attività sessuale (non solo in età adolescenziale) continuando a vivere con i propri genitori. Questo fa sì che la frequenza dei rapporti sessuali e il numero dei partner, seppur in aumento rispetto alle generazioni precedenti, siano comunque inferiori rispetto ai coetanei di altri paesi europei;

  6. Il livello di istruzione è risultato fortemente associato al ricorso all’IVG: donne con titolo di studio più basso presentano valori di abortività più elevati in tutte le generazioni. L’empowerment delle donne rappresenta quindi uno strumento efficace per indirizzare le loro scelte riproduttive in maniera più consapevole.

  • Conclusioni

 Dal 1983 l’IVG è in continua e progressiva diminuzione in Italia; attualmente il tasso di abortività del nostro Paese è fra i più bassi tra quelli dei paesi occidentali;

 UN terzo delle IVG totali in Italia continua ad essere a carico delle donne straniere: un contributo che è andato inizialmente crescendo e che, dopo un periodo di stabilizzazione, sta diminuendo in percentuale, in numero assoluto e nel tasso di abortività;

 In generale sono in diminuzione i tempi di attesa, pur persistendo una non trascurabile variabilità fra le regioni; la mobilità fra le regioni e province è in linea con quella di altri servizi del Servizio Sanitario Nazionale;

 Riguardo l’esercizio dell’obiezione di coscienza e l’accesso ai servizi IVG, si conferma quanto osservato nelle precedenti relazioni al Parlamento: per quanto riguarda i carichi di lavoro per ciascun ginecologo non-obiettore, sia su base regionale che considerando le singole strutture, pur in presenza di casi che si discostano dalla media, non emergono particolari criticità nei servizi di IVG. [Omissis]

 IL numero degli obiettori di coscienza nei consultori, pur nella non sempre soddisfacente copertura dei dati, è sensibilmente inferiore rispetto a quello registrato nelle strutture ospedaliere;

 L’analisi dei quaranta anni di applicazione della legge 194, effettuata dall’Istat, conferma il calo costante dell’abortività in Italia, anche nell’analisi longitudinale delle generazioni. La diminuzione di donne in età fertile e il calo della loro fecondità, i cambiamenti importanti per la nuzialità, la condizione occupazionale delle donne e la loro maggiore autonomia nelle scelte riproduttive, la separazione netta fra sessualità (sempre più precoce) e genitorialità (sempre più tardiva) che fa aumentare il periodo di tempo in cui si vuole evitare una gravidanza: all’interno di questi fattori, principalmente, è stata collocata la lettura dell’abortività volontaria in Italia, dalla quale emerge che non è mai diventata un mezzo di controllo delle nascite, nonostante gli importanti cambiamenti generazionali avvenuti. Le giovanissime (15-20 anni) delle generazioni più recenti sono l’unico gruppo per cui si è verificato un (lieve) aumento del ricorso all’IVG, fenomeno che sta comunque rientrando e che si presenta a livelli inferiori rispetto a molti Paesi occidentali. Lo stare a lungo in famiglia, in Italia, può rappresentare una sorta di“protezione”da quei comportamenti rischiosi che portano a concepimenti indesiderati;

 IL quadro generale descritto dall’Istat è ricco, articolato e complesso: vogliamo offrirlo alla società italiana tutta, in allegato alla presente Relazione, come autorevole riferimento per le riflessioni che sicuramente si svilupperanno nei prossimi mesi, in occasione Della ricorrenza dei quaranta anni di applicazione della legge stessa.

La presente Relazione sarà integralmente tradotta in inglese e resa disponibile alla comunità nazionale e internazionale sul sito del Ministero della Salute (www.salute.gov.it).

Beatrice Lorenzin

 

La realtà che pesa. Aborti in Italia: dentro i dati e oltre

In tre anni, quasi 21mila in meno. Il trend ribassista degli aborti nel nostro Paese, chiaramente leggibile anche nell’annuale relazione sulla legge 194/1978 resa nota ieri, conferma che in Italia le gravidanze si interrompono assai meno che in passato. Tanto che nel solo ultimo triennio è stata evitata la soppressione dapprima di 9.182 bambini (nel 2014), poi di 8.939 (l’anno successivo) e infine di 2.713 (nel 2016, ultimo dato disponibile, quello diffuso in Parlamento dal Ministero della Salute), per un totale appunto di 20.834. Sono tre anni, questi, nei quali gli aborti sono scesi ormai stabilmente sotto i 100mila, una soglia che suona spaventosa, ma che è ben lontana dal record nero delle 233.976 interruzioni di gravidanza del 1983, cinque anni dopo il varo della legge.

Il dato diffuso ieri – poco meno di 85mila aborti nel 2016 – è il più basso nei 40 anni della 194 che dal 22 maggio 1978 ha depenalizzato l’aborto sotto determinate condizioni, e comunque sempre con la premessa che dovesse introdurre norme anzitutto «per la tutela sociale della maternità» e solo in seconda battuta «per l’interruzione volontaria di gravidanza», tanto che al primo comma dell’articolo 1 tuttora si legge che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio».

Affermazione che suona tragicamente beffarda quando si mette mano alla calcolatrice e, relazione dopo relazione, si scopre che in un quarantennio la legge ha consentito sinora 5.814.635 aborti, con i 6 milioni di vite mancate che di questo passo saranno valicati nel giro di un paio d’anni.

I numeri certo non dicono tutto, ma di numeri vive il bilancio annuale di qualsiasi legge, con la differenza rispetto ad altri che in quello sulla 194 si avverte nitida l’eco generata dal vuoto in un Paese che invece mostra di saper amare la vita e proteggerla quando è più fragile, e lo fa per una sua radicata sapienza umanistica che non cessa di mostrarsi dov’è in gioco il destino del prossimo, dall’anziano al malato terminale, dal disabile al migrante.

E allora, è vero che 84.926 aborti sono “pochi” rispetto anche solo a cinque o dieci anni fa, ma sono lì a dirci ancora con l’evidenza assoluta di un numero pari a quello degli abitanti di Como (o se preferite appena meno di Brindisi e appena più di Treviso) che siamo al cospetto di una piaga che seguita a sanguinare, e con la quale dobbiamo fare i conti, tutti, anche i sostenitori del “diritto” insindacabile di fermare la vita nel grembo materno. Senza più stornare lo sguardo, solo perché sono “sempre meno”, da quella città di bambini non nati che ogni anno l’Italia deve conteggiare nella colonna delle perdite.

Ognuno di quei numeri – ogni vita alla quale per qualunque disperato o banale motivo si è consapevolmente rinunciato – parla a tutte le coscienze, all’intera collettività, senza distinzioni di giudizio sul diritto a vivere o a non far vivere. E chiede di essere ascoltato in tutto ciò che può dirci. Perché i 21mila aborti in meno non si sono trasformati in altrettanti neonati in più, anzi: un Paese che vede prosciugarsi lentamente il mare degli aborti assiste nel medesimo tempo all’inaridimento della natalità, con la ‘perdita’ dentro lo stesso triennio di quasi 30mila bambini.

Da quel 1983 che registrò il vertice delle interruzioni di gravidanza le nascite sono arretrate di un quarto, con 150mila bimbi in meno. Il calo progressivo, e tuttavia ora più rallentato, delle maternità interrotte è andato di pari passo con l’irrigidimento dell’inverno demografico, senza un travaso da consultori e chirurgie alle sale parto. Non si è scelta più vita, ma una specie di attesa, di ripiegamento, che tuttavia – a una lettura più sensibile della relazione – rivela una forma di occultamento: il crescente ricorso al metodo chimico per fermare la gravidanza, raddoppiato in cinque anni e ormai oltre il 15% dei casi, mostra come si stia facendo strada l’idea che l’aborto può essere smaterializzato, riconsegnato alla solitudine della donna, reso invisibile. Una pasticca, e via.

È la stessa rimozione della realtà che ha spianato la strada all’esplosione nel consumo di ‘pillola dei cinque giorni’, pudicamente definita «contraccettivo di emergenza», ma che mirando a sopprimere l’embrione eventualmente appena formato non può che essere classificata tra le cause di aborti, sebbene precocissimi e materialmente impossibili da quantificare. Il triennio dei 21mila aborti in meno e delle 30milla culle vuote è anche lo stesso della liberalizzazione del farmaco e delle 172mila confezioni di EllaOne in più, con un aumento delle vendite che supera il mille per cento. Non si può più comprendere un dato senza sovrapporgli l’altro, e l’altro ancora. I 40 anni della 194 potranno allora fornire il pretesto per una nuova spaccatura tra interpretazioni contrapposte della realtà, oppure diventare un’occasione perché osserviamo insieme tutte le facce di una realtà complessa e allergica alle semplificazioni. Come lo è la stessa vita.

Francesco Ognibene Avvenire 12 gennaio 2018

www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-realt-che-pesa

 

Legge 194. Meno aborti, ma sempre più «invisibili»

Interruzioni di gravidanza al minimo da 40 anni, ma con il boom delle pillole del giorno dopo. A legislatura finita, mentre la campagna elettorale è ai nastri di partenza – e forse alcuni temi possono risultare scomodi –, è stata depositata in Parlamento senza troppi annunci la Relazione annuale del Ministero della Salute sulla legge 194/1978 relativa all’anno 2016. Che traccia un quadro in chiaroscuro della situazione italiana, facendo emergere numeri e tendenze tutto fuorché trascurabili. A partire da quelli sulla tanto vituperata obiezione di coscienza: che resta stabile al 71% (era al 70,9 nel 2015) e che tuttavia nessun problema crea all’“offerta” di interruzioni di gravidanza, come dimostrano i dati per la prima volta quest’anno raccolti struttura per struttura.

E se certo è una buona notizia che gli aborti siano ancora in calo (-3,1%), anche se meno marcato rispetto agli ultimi due anni e da ascrivere in buona parte al picco inaudito della denatalità, indiscutibile è l’aumento notevole del ricorso alle pillole del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Segno che della cosiddetta “contraccezione d’emergenza” – che nel caso una gravidanza si sia instaurata, quella gravidanza ha il potere di interrompere – bisognerà tenere sempre più conto in futuro per analizzare il tasso reale di abortività nel nostro Paese.

Meno aborti. Nel 2016 il numero di aborti riferito dalle regioni è stato pari a 84.926, con una diminuzione del 3,1% rispetto al 2015. Anno in cui la riduzione era stata sensibilmente maggiore (-9,3%). In ogni caso per il terzo anno di seguito il numero totale delle interruzioni volontarie di gravidanza è stato inferiore a 100mila, più che dimezzato rispetto ai 234.801 del 1982, anno in cui si era riscontrato il valore più alto in Italia. Di più: considerando solamente gli aborti effettuati da cittadine italiane, per la prima volta il valore scende al di sotto di 60mila (con un decremento percentuale del 74.7%). Stabili invece, e ancora altissime, le percentuali relative alle interruzioni di gravidanza delle donne straniere: sono un terzo di tutti gli aborti, e questo nonostante le immigrate siano molte meno di un terzo delle italiane. Seppur in leggera diminuzione, il loro tasso di abortività (15,7 per mille) resta quasi 3 volte più alto di quello delle donne italiane.

Obiettori e offerta del servizio. Stabile, si diceva, è anche la percentuale dei medici obiettori di coscienza: 71 su cento. Questo rende impossibile abortire, in Italia? Nient’affatto. Mentre il numero di aborti è pari al 18% delle nascite (era il 20% nel 2014), il numero di punti dove è possibile abortire è pari all’82% del numero di punti nascita (era il 74% nel 2014), di molto superiore rispetto a quello che sarebbe se si rispettassero le proporzioni fra aborti e nascite. Quanto al carico di lavoro medio settimanale di aborti per ogni ginecologo non obiettore, anche in questo caso si confermano i dati del passato: considerando cioè 44 settimane lavorative in un anno, il numero di aborti per ogni ginecologo non obiettore, settimanalmente, è stato mediamente di 1,6 nel 2016 (va ricordato che per un’interruzione di gravidanza si richiede un intervento della durata media di 20 minuti, fatta eccezione per gli aborti oltre le 12 settimane che rappresentano poco più del 5% del totale). Interessante notare che le criticità, quest’anno, per la prima volta sono state individuate dal Ministero. Che ha analizzato i carichi di lavoro struttura per struttura: risultato, su 356 strutture soltanto 5 hanno presentano valori di carico di lavoro per ginecologo non obiettore che si discostano molto dalla media regionale. È l’esempio di un ospedale siciliano, per esempio, dove si sono effettuati 18,4 aborti a settimana rispetto alla media regionale di 2,1: tornando al tempo richiesto per un intervento di questo tipo, si sta parlando di circa 6 ore di lavoro a settimana.

Le pillole «d’emergenza». La relazione rileva come l’andamento degli aborti in questi ultimi anni «potrebbe essere almeno in parte collegato alla determina Aifa del 21 aprile 2015» che ha eliminato per le maggiorenni l’obbligo di prescrizione medica dell’Ulipristal acetato, meglio noto come “pillola dei 5 giorni dopo” (EllaOne). I dati continuano a mostrare, infatti, un incremento significativo nel numero di scatole vendute: dalle 145.101 del 2015 si passa alle 189.589 del 2016 (+44.488).

Stesso discorso per la “pillola del giorno dopo”: tolto l’obbligo di prescrizione medica del Levonorgestrel (Norlevo), nel 2016 quest’ultimo ha registrato un dato di vendita pari a 214.532 confezioni, in aumento di 52.644 rispetto al dato del 2015 (161.888). [Relazione ministeriale pag. 13/15].

Viviana Daloiso Avvenire 11 gennaio 2018

www.avvenire.it/famiglia-e-vita/pagine/aborto-in-diminuzione-sotto-60mila

[Quindi alle 84.926 IVG ex legge 194\1978 sarebbero da addizionare (almeno in parte – la gravidanza è solo ipotizzata) le 189. 589 da assunzione di ElleOne. Questo se si ritiene fondatamente che la gravidanza inizia con il concepimento e non solo dopo l’annidamento in utero. NDR]

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Adozioni, la prima fotografia del 2017 ha ancora il segno meno

Da una prima analisi dei dati pubblicati sui siti degli enti autorizzati, il 2017 segna un calo del 32% di bambini adottati rispetto all’ultimo report ufficiale del 2015. Attraverso i 25 enti che già hanno pubblicato i dati relativi all’anno appena trascorso, sono 857 i bambini che nel 2017 hanno trovato una famiglia in Italia grazie all’adozione internazionale

Hanno in media 5 anni e mezzo, i loro genitori li hanno attesi per poco più di due anni, arrivano prevalentemente dalla Cina, dalla Federazione Russa, dalle Filippine. Sono i bambini che nel 2017 hanno trovato una famiglia in Italia, con Cifa, che con 139 bambini adottati si conferma anche nel 2017 l’ente che ha concluso il maggior numero di adozioni internazionali. Gli 87 minori adottati in Italia nel 2017 con AiBi, accolti da 64 coppie, sono invece nati in Cina, in Colombia, in Brasile, in Bulgaria, ad Haiti.

È presto ovviamente per i numeri ufficiali complessivi, ma la preoccupazione di Marco Griffini, presidente di AiBi, come quella di Gianfranco Arnoletti, presidente del Cifa, è che l’Italia chiuda il 2017 con soltanto 1.200 adozioni, registrando l’ennesimo calo. «È davvero inaccettabile per rispetto di tutti i bambini del mondo, che prima di ogni altra cosa devono poter crescere in una famiglia, perché dietro a ogni numero c’è un bambino in carne e ossa e il suo diritto ad avere una famiglia», commenta Arnoletti. Resta quindi «la preoccupazione per un futuro decisamente incerto per questa preziosa forma di genitorialità, spesso dimenticata dalle istituzioni. I figli che vengono adottati non sono figli di serie B, così come non sono di serie B i genitori che adottano: proprio per questo ci auspichiamo che l’adozione possa tornare ad avere l’attenzione che merita».

Griffini sottolinea infatti il preoccupante calo delle domande di disponibilità e di idoneità, sia per le adozioni nazionali sia per quelle internazionali: 500 coppie all’anno in media rinunciano. Con NAAA, nel 2017, 77 bambini sono stati accolti da 58 famiglie: questi tre enti si confermano così, nonostante il calo diffuso, i primi tre enti autorizzati in Italia per numero di adozioni concluse. I bambini adottati in Italia con i soli tre enti più grandi sono stati quindi nel 2017 il 20% in meno rispetto al 2016 (quando con questi enti erano entrati in Italia 380 minori) e complessivamente il 42% in meno rispetto al 2015, ultimo dato ufficiale della CAI, anno in cui attraverso i tre enti erano stati adottati complessivamente 522 bambini).

Consultando i siti degli enti autorizzati, ecco una prima visione d’insieme sui numeri delle adozioni internazionali nel 2017, secondo quanto pubblicato dagli enti. Sono 53 i bambini adottati nel 2017 con SOS Bambino International Adoption, di cui oltre la metà (31) dalla Federazione Russa, 26 le adozioni concluse al 31.10.2017 da Fondazione Patrizia Nidoli, 58 i bambini adottati al 4.12.2017 con SPAI, 22 i minori adottati con AIAU, quasi tutti dall’Ungheria. Anche per ASA onlus l’Ungheria è stato il primo paese di provenienza dei bambini, con un totale di 50 minori adottati (di cui 49 proprio dall’Ungheria). Due i bambini che in Italia hanno trovato mamma e papà con AMI-Amici Missioni Indiane nel 2017, entrambi dalla Colombia e 2 anche con l’Associazione Amici Trentini. Federazione Russa e Senegal sono i paesi d’origine dei 10 bambini adottati con l’Associazione Arcobaleno (dati aggiornati al 29.9.2017), Federazione Russa e Vietnam per i 20 bambini arrivati con Ariete nel periodo compreso fra gennaio 2017 e 1° Giugno 2017. Con Associazione Ernesto sono stati adottati 44 minori (aggiornamento al 18.12.2017), mentre sono 7 le adozioni completate con Pro ICYC, 5 quelle concluse con I cinque pani (al 20.11.2017), 18 quelle concluse con Mehala, prevalentemente dall’India, 13 da Anpas, da Taiwan, Costa Rica e Armenia.

Nel 2017 le adozioni concluse grazie al Ciai sono state 34 (Colombia 13, Thailandia 4, India 6, Cina 4, Burkina Faso 5, Etiopia 1, Costa D’Avorio 1), 18 gli ingressi con La Maloca di cui 4 (su Ucraina e India) in intesa con alti enti, 11 i minori adottati con l’ente Famiglia Insieme, 17 i bambini adottati con AVSI (ottobre 2017), 58 i bambini arrivati in Italia nel 2017 con International Adoption, 23 i bambini adottati al 19 ottobre 2017 con NOVA. Nel 2017 Senza Frontiere Onlus ha dato il benvenuto a casa a 11 bambini. Con AFNonlus sono stati accolti 52 bambini da sei Paesi del mondo, tra cui 9 gruppi di fratelli. Si arriva così a 857 bambini adottati nel 2017: alcuni enti pubblicano le loro statistiche in maniera aggregata, con lo storico complessivo delle adozioni concluse, non suddiviso per singolo anno, altri non hanno ancora pubblicato il dato relativo al 2017, altri non prevendono sul sito una sezione dedicata alle statistiche.

Come è andato quindi l’anno, almeno sulla base dei dati di questi 25 enti? Ricordiamo innanzitutto che gli enti autorizzati sono 62 e che stando all’ultimo report della CAI disponibile, quello sul 2015, con questi stessi 25 enti erano stati adottati fra i 1.263 e i 1.268 minori sui 2.216 totali (un ente fra questi 25 nel 2015 aveva adottato meno di cinque minori, quindi non ha nella tabella CAI un dato specifico), quindi poco più della metà. Ricordiamo anche che i dati rilevati oggi sui sito sono in alcuni casi ancora parziali (uno per tutti Ariete, che per il momento ha sul sito solo le coccarde dell’arrivo fino all’estate) e che alcuni enti pubblicano solo il dato sulle adozioni concluse (i bambini adottati potrebbero quindi essere anche più di uno per ogni adozione). Posto tutto ciò, possiamo dire che rispetto all’ultimo numero ufficiale del 2015, il 2017 registra un -32% di bambini adottati da famiglie italiane. Il calo di adozioni concluse nel 2017 però si è ridotto rispetto a quello che si era verificato fra il 2015 e il 2016.

Da questo viaggio nei siti di tutti i 62 enti autorizzati emerge come gli enti stiano optando progressivamente per una sempre maggior chiarezza nella comunicazione dei dati, distinguendo sempre più spesso le voci adozioni concluse e minori adottati, come pure evidenziando i minori entrati attraverso intese con altri enti. Fra le novità, da registrare come nel 2017 l’ente La dimora Onlus si è fuso con l’ente ASA Onlus.

Sara De Carli Vita.it aggiornato 10 gennaio 2018

www.vita.it/it/article/2018/01/08/adozioni-la-prima-fotografia-del-2017-ha-ancora-il-segno-meno/145561

 

Regione Lazio: fondo di 2,76 milioni di euro per famiglie adottive

Adozioni internazionali: prestiti agevolati fino a 25mila euro per le coppie residenti nella Regione. Un’ innovazione sociale quella messa in campo dalla Regione Lazio con l’istituzione di un Fondo di 2,67milioni di euro a sostegno delle famiglie adottive che arriva contestualmente alla decisione di un altro Paese africano – questa volta l’Etiopia – di chiudere le adozioni internazionali e alla pubblicazione dei primi dati relativi alle adozioni concluse nel 2017 che confermano il crollo verticale degli ultimi dieci anni con un calo del 75% delle adozioni.

“Una buona prassi inaugurata dalla Regione Lazio. Un primo passo per arrivare alla gratuità, oramai non più procrastinabile. Il nuovo governo dovrà farsi carico di tale incombenza perché l’adozione internazionale non resti l’unica genitorialità a pagamento” – così Marco Griffini commenta la scelta della Regione Lazio d’istituire un Fondo di microcredito di 2,76 milioni di euro dedicato alle famiglie che vogliono adottare ma non riescono a trovare le risorse necessarie per affrontare i costi dell’adozione internazionale

Potranno accedere al Fondo, richiedendo finanziamenti a tasso agevolato, tutte le famiglie residenti nella Regione Lazio che intraprendono percorsi di adozione internazionale. Se cittadini stranieri al momento della richiesta dovranno essere in possesso di regolare permesso o carta di soggiorno. Le richieste dovranno essere presentate a partire dal 15 gennaio 2018 e fino all’esaurimento delle risorse disponibili insieme ad un valido “Decreto di Idoneità” da cui risulti anche l’opzione per l’adozione internazionale.

Si tratta di prestiti personali, che possono essere cointestati ai due coniugi o intestati a uno solo di essi, da 5mila a 25mila euro, restituibili in un arco di tempo fino a 84 mesi (sette anni) con un tasso fisso dell’1%Per avere accesso al prestito non saranno richieste garanzie reali, patrimoniali, finanziarie, né personali. Il finanziamento è erogato esclusivamente per la copertura dei costi di pre-adozione, dettagliati nel bando, tra cui i viaggi, le imposte straniere e i servizi vari forniti da enti e privati.

News Ai. Bi. 12 gennaio 2018

www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-regione-lazio

 

Adottare in Africa: difficile? Quasi impossibile

L’Etiopia ha approvato una legge che proibisce le adozioni internazionale e favorisce quelle nazionali. I parlamentari di Addis Abeba hanno giustificato il provvedimento come una reazione alla morte di una ragazzina etiope adottata negli Stati Uniti, morte per la quale i genitori sono stati condannati per omicidio colposo. Di fatto, era da mesi (almeno da giugno) che si sapeva che l’Etiopia avrebbe chiuso le frontiere per i suoi bambini e bambine. Nel Paese del Corno d’Africa da tempo era in atto un ripensamento legato a evidenti difficoltà legate ad adozioni illecite e di cattive pratiche denunciate dai media internazionali. La speranza delle famiglie e degli enti autorizzati era che le istituzioni di Addis Abeba ci ripensassero. Così non è stato. Sono un centinaio le pratiche di famiglie italiane che non verranno evase. Un dramma per loro, che probabilmente hanno dovuto attendere anni per nulla, e per i bambini che rimarranno senza una famiglia.

La chiusura dell’Etiopia è, però, un problema per tutto il movimento delle adozioni internazionali. Il Paese è il terzo per provenienza dei bambini adottati in tutto il mondo (il primo è la Cina, il secondo è la Federazione Russa) ed è il principale «donatore» dell’Africa. Per quanto riguarda l’Italia, l’Etiopia è l’ottavo Paese di provenienza con 200 bambini adottati tra il 2014 e il 2015 (ultimi dati forniti dalla Commissione adozioni internazionale). La chiusura dell’Etiopia è quindi un brutto colpo anche per il nostro Paese che, negli ultimi dieci anni, sta già sperimentando un calo del 75% delle adozioni.

Su questo calo, non incide solo il caso Etiopia, ma anche una generale chiusura e difficoltà delle adozioni in tutto il mondo e, in particolare, nel continente africano. «In Africa – ha dichiarato all’agenzia Agi, Marco Griffini dell’Ong “Amici dei bambini” – ci sono milioni di bambini abbandonati. Parliamo di otto milioni solo nella Repubblica Democratica del Congo. La maggior parte dei Paesi africani ha chiuso le adozioni internazionali perché si sono verificati episodi di corruzione e di traffici illeciti». La Rd Congo era un Paese molto generoso. Nel 2015, secondo le statistiche della Commissione adozioni internazionali, aveva ancora concesso in adozione 152 bambini famiglie italiane.

Nel resto del continente, il panorama è desolante. Se si fa eccezione per il Burkina Faso, che nel 2015 ha dato in adozione in Italia 33 bambini, il Burundi (13) e il Mali (13), gli altri Paesi hanno numeri bassissimi che raramente superano la decina.

Ma perché in Africa è difficile adottare? Della corruzione abbiamo già detto. A questa vanno aggiunti anche motivi culturali. Nel continente, la famiglia allargata ha sempre limitato il ricorso a orfanotrofi e adozioni. Zii, zie, nonne, nonni si prendevano cura dei bambini rimasti soli. Questa rete sociale, in parte, funziona ancora. Ma oggi si aggiungono anche motivi più prosaici. «Le chiusure – ha dichiarato al “Corriere della Sera”, Gianfranco Arnoletti, presidente del Cifa, altro Ente autorizzato – tengono conto anche di esigenze economiche. Per esempio: se cresce l’indice di adozioni nazionali, aumenta la possibilità di ricevere fondi da investitori internazionali, come il Fondo monetario».

Rivista Africa 12 gennaio 2018

www.africarivista.it/adottare-in-africa-difficile-quasi-impossibile/118434/

 

Etiopia, stop alle adozioni. In attesa cento famiglie italiane

Gli orfani e i piccoli abbandonati non potranno più uscire dal Paese. La notizia è rimbalzata sui maggiori media internazionali: non si potranno più adottare bambini dall’Etiopia, il Parlamento di Addis Abeba ha votato una nuova legge secondo cui orfani e piccoli abbandonati devono essere presi in carico e curati all’interno del Paese africano e non dagli stranieri. Americani in testa: un’adozione internazionale su cinque negli Usa riguarda un minore etiope (anche Zahara Marley, figlia di Angelina Jolie, viene da qui). Lo Stato governato con il pugno di ferro da Desalegn è tra i primi per provenienza dei piccoli adottati anche in Italia. Sarebbero almeno un centinaio le coppie nel nostro Paese interessate dal dietrofront.

«Una doccia fredda, un provvedimento per noi inaspettato» racconta al Corriere Roberto Rabattoni, presidente del Centro aiuti per l’Etiopia, uno dei 7 enti italiani accreditati, il più rappresentativo con i suoi 2400 bambini etiopi fatti arrivare in Italia dal 1990 e le 60 pratiche all’attivo oggi. «Per ben due volte avevano provato a far passare il provvedimento in Aula senza riuscirci, non è chiaro cosa sia cambiato — considera amaro Rabattoni al telefono sulla strada che dalla capitale porta al centro di piccoli disabili gestito nel sud del Paese dalla sua associazione.

Non che non ci fossero stati dei preallarmi: a giugno l’ambasciata italiana aveva avvertito sulla decisione del governo etiope di sospendere a tempo indeterminato le adozioni; a novembre la Cai, la Commissione adozioni internazionali che fa capo alla presidenza del Consiglio, aveva invitato gli stessi enti a non avviare nuovi iter. Eppure anche Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa, altro ente autorizzato per l’Etiopia, è rimasto sconcertato: «Prima di Natale sembrava che l’allarme fosse rientrato, che fosse prevalso il buonsenso» spiega al termine di un incontro a Roma con la vice presidente del Cai Laura Laera. «”Fermi tutti, aspettiamo di capire cosa è successo” è stata l’indicazione data a Roma» riferisce Arnoletti. Proprio ieri una coppia italiana se ne è tornata a casa felice: «La nostra ultima sentenza di adottabilità è di poche ore fa» racconta Rabattoni.

Ma per altri in attesa il lieto fine si allontana: «Sono almeno un centinaio le famiglie interessate. Questa legge è un dramma per loro, ma lo è anche per quei bambini a cui viene negato un futuro» osserva Arnoletti. In realtà, a detta delle autorità di Addis, la legge serve a proteggere i piccoli, dopo il caso di una coppia americana condannata nel 2013 per aver ucciso la bimba adottiva etiope. «Una motivazione strumentale – la definisce il presidente del Cifa -. Ci sono altre valutazioni in ballo. Per esempio: se cresce l’indice di adozioni nazionali aumenta la possibilità di ricevere fondi da investitori internazionali come il Fondo monetario».

Alessandra Muglia Corriere della sera 10 gennaio 2018

www.corriere.it/esteri/18_gennaio_10/etiopia-stop-adozioni-attesa-cento-famiglie-italiane-c07d9632-f650-11e7-9b06-fe054c3be5b2.shtml

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AMORIS LÆTITIA

Francesco: famiglia, non modello astratto ma realtà da vivere

Intervista a don Francesco Pesce autore del libro “Oltre la famiglia modello. Le Catechesi di Papa Francesco” e di uno studio che uscirà prossimamente su come le famiglie stesse hanno recepito Amoris lætitia.

Francesco esorta le famiglie ad accogliere Gesù nella persona dei figli, del marito, della moglie, dei nonni; non propone “un modello astratto” da imitare ma una realtà concreta da vivere. Questo messaggio del Papa viene riproposto dal libro di don Francesco Pesce, presidente dell’ente diocesano “Centro della famiglia – Istituto di cultura e di pastorale” di Treviso. La riflessione si concentra sulle catechesi dell’udienza generale dedicate alla famiglia dal dicembre 2014 al novembre 2015, a cavallo fra i due Sinodi sulla realtà familiare che hanno portato all’Esortazione apostolica Amoris lætitia.

Non esiste la famiglia perfetta. Il Papa si cala nelle gioie e nelle sofferenze che vivono le famiglie ogni giorno, ricordando che “non esiste la famiglia perfetta” e che “non bisogna avere paura dell’imperfezione, della fragilità, nemmeno dei conflitti; bisogna imparare ad affrontarli in maniera costruttiva. Per questo la famiglia in cui, con i propri limiti e peccati, ci si vuole bene, diventa una scuola di perdono”.

Guardare la Famiglia di Nazareth per crescere nell’amore. “Usando l’espressione di Amoris lætitia– sottolinea don Francesco Pesce – è necessario “accettare che l’amore convive con l’imperfezione. Papa Francesco parla di amore coniugandolo sempre con situazioni di limite o di difficoltà”. Spiega che non è un ideale astratto: “Credo che il suggerimento sia questo: che l’amore sia un’esperienza umana da far crescere. In una delle prime catechesi dove parla della Famiglia di Nazareth, afferma che guardando la Famiglia di Nazareth, ogni famiglia può far diventare normale l’amore: coniugare la vita quotidiana con l’amore e l’amore con la vita quotidiana, quindi anche con i limiti, con le imperfezioni che non diventano una smentita. Su questo, mi aveva colpito una famiglia che, parlando delle catechesi del Papa, diceva: ‘Ci piace il nostro amore anche se è imperfetto’, perché è chiamato a crescere, perché è in cammino. Penso che questa sia una delle proposte che emerge dalle catechesi.

I commenti delle famiglie su Amoris lætitia. A marzo uscirà un suo studio su come le famiglie hanno recepito Amoris lætitia, non su come lo hanno recepito vescovi o sacerdoti, ma proprio le famiglie: “Mi sono basato sulle riflessioni delle famiglie che hanno letto il testo – afferma don Pesce – lo hanno approfondito e hanno cercato di paragonarlo alla propria vita. Da sacerdote, mi sono accorto che le famiglie, le coppie, si accorgevano di aspetti di cui io non mi ero accorto. L’altro aspetto immediato è che mentre televisioni, giornali, blog dibattono sui problemi di Amoris lætitia, la prima reazione delle famiglie è questa: si sentono incoraggiate. Più volte qualcuno diceva: ‘Amoris lætitia ci riconcilia, ci incoraggia, ci stima, ci dà tenerezza’.

L’altra reazione che mi ha colpito è quella di una mamma che ha detto: ‘Amoris lætitia contiene un sogno di Chiesa, Chiesa nuova, dove le famiglie sono protagoniste, quelle reali’. Sono questi, i due aspetti che mi sono sembrati interessanti ascoltando le famiglie. Da più parti emergeva che Amoris lætitia è in grado di vedere la realtà in modo realistico – anche questa è un’espressione usata da un papà – non tanto con gli occhi di chi guarda le famiglie, ma con gli occhi delle famiglie stesse”.

Un cammino possibile. Lo studio di don Pesce esorta, in sintesi, le famiglie a leggere Amoris lætitia, andando oltre un dibattito che si è focalizzato molto sulla questione della Comunione ai divorziati risposati. Bisogna “fare i conti con la parzialità dell’amore – ribadisce don Pesce – con questo amore che non è un ideale ma un’esperienza umana, che convive con l’imperfezione, chiamato a crescere. Sia nelle catechesi sia nell’ Amoris lætitia mi sembra che emerga un paradigma formativo di Papa Francesco: puntare sulla crescita, sul cammino possibile, sulla crescita possibile di una persona e puntare sul bene, cioè vedere il bene possibile e farlo vedere”.

Debora Donnini – Vatican news 8 gennaio 2018

www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2018-01/le-catechesi-di-papa-francesco-sulla-famiglia–intervista-a-don-.html

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ASSEGNO DIVORZILE

Divorzio: quando si ha diritto all’assegno dopo la Cassazione n. 11504\2017

www.personaedanno.it/dA/387930524c/allegato/Cass%2011504%20del%2010.5.2017.pdf

Con la rivoluzionaria ed oramai nota sentenza n. 11504 della Cassazione del 10 maggio 2017 gli Ermellini hanno stabilito che nella valutazione dell’an dell’assegno di divorzio non si deve più tenere conto del parametro del “tenore di vita”. A seguito di tale pronuncia, moltissimi ex coniugi obbligati al versamento stanno chiedendo la revisione del diritto all’assegno. Sebbene la sentenza sia un mero precedente, al quale nessun giudice è formalmente vincolato, è chiaro che la stessa sta orientando la maggior parte delle decisioni sul punto.

Assegno di divorzio: i parametri dell’art. 5 della legge sul divorzio. Preliminarmente, va ricordato che, dal punto di vista normativo, l’assegno di divorzio è previsto dall’art. 5 della legge sul divorzio n. 898/1970.

www.altalex.com/documents/leggi/2012/06/27/disciplina-dei-casi-di-scioglimento-del-matrimonio

Il diritto è riconosciuto se il Tribunale accerta che uno dei due coniugi si trova in una condizione di debolezza economica. Il giudice per determinarne la misura deve tenere conto:

  • Delle condizioni dei coniugi,

  • Delle ragioni della decisione,

  • Del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune,

  • Del reddito di entrambi,

  • Il tutto rapportato anche alla durata del matrimonio.

Il giudice, concretamente, giunge alla determinazione dell’an e del quantum dell’assegno attraverso due fasi distinte:

  1. Nella prima verifica in astratto se sussiste, in favore del coniuge più “debole”, il diritto all’assegno;

  2. Nella seconda stabilisce l’entità dell’assegno in modo concreto, tenendo conto di tutti i criteri elencati dall’art. 5, che possono incidere anche negativamente sulla somma astratta fino ad azzerarla, se il “tenore di vita goduto durante il matrimonio” non è compatibile con tutti gli altri parametri.

Quanto sancito dalla sentenza numero 11504/2017 incide solo sulla prima di tali due fasi, nella quale, secondo quanto in essa stabilito, non deve più farsi riferimento al tenore di vita.

Assegno di divorzio: cosa cambia dopo la sentenza. Se quindi lo scopo dell’assegno divorzile, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai da considerarsi superato, è quello di garantire all’ex coniuge lo stesso “tenore di vita” goduto durante il matrimonio, per la sentenza n. 11504/2017 esso deve assicurare la sola autosufficienza economica. Pertanto se l’ex coniuge può mantenersi con le proprie forze non gli spetterà alcun assegno; in caso contrario il contributo deve fornirgli il necessario per “raggiungere” l’autonomia economica. Il criterio di misurazione dell’assegno appare quindi svincolato anche dal reddito dell’obbligato. A fronte di uno stipendio elevato di chi deve corrisponderlo, infatti, non è detto che l’assegno di divorzio lo sia altrettanto.

Assegno di divorzio: come si desume l’autosufficienza.

Per accertare la sussistenza o meno dell’indipendenza economica di chi richiede l’assegno, l’adeguatezza o meno dei suoi mezzi e la possibilità o meno di procurarseli, occorre quindi ora fare riferimento a nuovi e diversi indici. In particolare, l’autonomia economica del beneficiario può essere dimostrata nel momento in cui egli:

  • È titolare di reddito da lavoro dipendente o autonomo;

  • Riceve aiuti economici dai familiari;

  • Risulta intestatario di proprietà immobiliari o mobiliari;

  • Percepisce canoni di locazione o d’affitto;

  • È giovane e abile al lavoro e ha la capacità e l’opportunità effettiva di trovare un impiego;

  • Gode stabilmente di un’abitazione.

www.studiocataldi.it/articoli/28507-divorzio-quando-si-ha-diritto-all-assegno-dopo-la-cassazione-11504.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 1, 10 gennaio 2018

Nuovo Rapporto CISF

Le relazioni familiari nell’era rete digitali

Edizioni San Paolo, 2017

Il Rapporto Cisf 2017 verrà presentato a Roma, presso la sede dell’AGCOM (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), via Isonzo, 21/b, giovedì 25 gennaio 2018, dalle 10.00 alle 17.30

Programmahttp://newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/attachments/newscisf0118_allegato.pdf

La sede AGCOM di Via Isonzo 21/b è raggiungibile da Roma Termini con l’autobus 910; dalla fermata Barberini (metro A) con l’autobus 80.

L’AGCOM ha concesso il proprio Patrocinio all’evento.

Per ragioni organizzative, è necessaria l’iscrizione, che può essere effettuata attraverso la scheda reperibile sul sito web

http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/eventi-cisf/presentazione-rapporto-cisf-2017—roma-25-gennaio-2018.aspx

Iscrizione alle newsletter http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/gennaio2018/5064/index.html

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CHIESA CATTOLICA

Perché Ratzinger non è eretico. La parola alla difesa

L’attacco frontale alla teologia di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI da parte di Enrico Maria Radaelli e Antonio Livi, di cui ha dato notizia a inizio d’anno Settimo Cielo, ha originato un dibattito molto vivace.

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/04/joseph-ratzinger-teologo-non-modernista-ma-moderno

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/02/leresia-al-potere

vedi news UCIPEM n. 683, pag. 11

Radaelli e Livi accusano Ratzinger di aver reinterpretato la fede cristiana “con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno, dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel“, con il risultato di invalidare proprio “la nozione base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio”. A loro giudizio, infatti, nella teologia di Ratzinger “questa nozione risulta irrimediabilmente deformata dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede”. (…)

Né Kant, né Hegel. Meglio Paolo ad Atene di Francesco Arzillo

Penso che la parte finale dell’indimenticabile discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi del 12 settembre 2008 possa offrire una chiave decisiva per comprendere sinteticamente – ma anche retrospettivamente – il nucleo vero del pensiero del “papa teologo”. Ecco che cosa disse testualmente.

“Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano ‘verso l’esterno’ – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: ‘Sembra essere un annunziatore di divinità straniere’ (At 17, 18). A ciò Paolo replica: ‘Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio’ (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà.

Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è ‘Logos’ – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. ‘Verbum caro factum est’ (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il ‘Logos’, il ‘Logos’ presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.

La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. ‘Quaerere Deum‘, cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”.

In questi densi passi di quel discorso di Benedetto XVI, i cultori di filosofia e teologia possono ritrovare i mille complessi fili della questione della Rivelazione, quale si pone oggi nella mente di coloro che vogliano essere fedeli alla ricchezza del dato rivelato e della comprensione elaborata dal magistero della Chiesa, soprattutto nei due concili vaticani. Questi concili vanno letti, come insegnava Leo Scheffczyk, secondo un criterio di stretta continuità – direi di reciprocità –, dal quale si può evincere che:

  • Da un lato, anche nel Vaticano I si trova il concetto dell’autorivelazione di Dio (DH 3004), che non è una novità del Vaticano II e che – preso in sé stesso – è più antico della ripresa che ne ha poi fatto l’idealismo filosofico in un diverso contesto di pensiero: se ne trova un riferimento, infatti, già in San Bonaventura;

  • Dall’altro lato, il Vaticano II va inteso nel senso che “le parole e le azioni operate da Dio comunicano anch’esse la verità e possono essere accettate con ragionevolezza nel loro senso solo come verità” (cfr. L. Scheffczyck, “Fondamenti del dogma. Introduzione alla dogmatica”, Roma, Lateran University Press, 2010, pp. 82-83).

Nel discorso parigino di Benedetto XVI, assai fine ma anche molto concreto, si ritrova quindi “in nuce” veramente tutto. Vi è una comprensione realistica dei “preambula fidei“. Vi è la domanda di salvezza. Vi è la ragione umana nelle sue varie forme e vi è il Logos/Avvenimento. Vi è la storia umana intrecciata con quella della salvezza.

Non vi si ritrova invece alcuna preliminare barriera di tipo kantiano o comunque di matrice irrazionalistica, pragmatistica o antimetafisica. A quest’ultimo riguardo è opportuno rilevare che nel discorso “La fede e la teologia dei nostri giorni” tenuto in Messico, a Guadalajara, nel maggio 1996, l’allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede Joseph Ratzinger non si limitava a criticare alcune forme di razionalismo neoscolastico, citando come “più fondata storicamente e obiettivamente la posizione di J. Pieper” (che era comunque un pensatore di matrice tomista), ma soprattutto, nel criticare le teorie relativiste di Hick, Knitter e di altri teologi, metteva in evidenza proprio il fatto che esse si fondano in ultima analisi “su un razionalismo che, alla maniera di Kant, ritiene che la ragione non possa conoscere ciò che è metafisico”; mentre invece “l’uomo possiede una dimensione più ampia di quanto Kant e le varie filosofie postkantiane gli abbiano attribuito”.

Inoltre, coerentemente con queste premesse, nel discorso al congresso internazionale sulla legge naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense il 12 febbraio 2007, papa Benedetto richiamò “un altro pericolo meno visibile, ma non meno inquietante: il metodo che ci permette di conoscere sempre più a fondo le strutture razionali della materia ci rende sempre meno capaci di vedere la fonte di questa razionalità, la Ragione creatrice. La capacità di vedere le leggi dell’essere materiale ci rende incapaci di vedere il messaggio etico contenuto nell’essere, messaggio chiamato dalla tradizione ‘lex naturalis’, legge morale naturale. Una parola, questa, per molti oggi quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico, ma solamente empirico”.

Non a caso, del resto, il pensiero di Ratzinger è stato oggetto piuttosto – e direi prevalentemente – di una critica di segno “progressista”. Klaus Müller, in una pacata e densa lettura dell’opera del papa teologo, nel ripercorrere la questione del “platonismo” e della “ellenizzazione del cristianesimo”, sottolineò infatti come “Ratzinger non abbia mai sviluppato una relazione positiva e creatrice con il pensiero moderno” e in primo luogo con la grande stagione dell’idealismo tedesco (K. Müller, “Il teologo papa”, in Supplemento a “Il Regno – Documenti” n. 3, 1 febbraio 2013).

Mi sembra che questi pochi cenni possano contribuire a riportare la “questione Ratzinger” sul giusto binario.

Sandro Magister Settimo cielo 10 gennaio 2018

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/01/10/perche-ratzinger-non-e-eretico-la-parola-alla-difesa

 

Radici culturali di Bergoglio

Si avvicina il compimento del quinto anno di governo di Papa Francesco (13 marzo 2013), un periodo storico dove è successo di tutto nel mondo: dall’ascesa e caduta dell’Isis all’elezione di Trump, dalle guerre devastanti alle rivoluzioni tentate e subito spente, dalle migrazioni ininterrotte ai muri alzati. Anche il pianeta ha fatto sentire la sua voce con uragani, inondazioni, carestie, terremoti e devastazioni.

La chiesa ha avviato cambiamenti e, seppur lentamente, lo “stile Francesco” offre un approccio diverso agli eventi e all’impegno dei cristiani nel mondo. Due encicliche, Lumen fidei e Laudato sì; due esortazioni apostoliche, Evangelii gaudium e Amoris lætitia.

La prima, con il suo dettagliato programma di lavoro dai toni forti e dalle parole chiave, ha subito contrassegnato il linguaggio, l’azione e l’immaginario del pontificato: Chiesa in uscita, pietà popolare, realtà superiore all’idea, opzione per i poveri, periferie esistenziali, misericordia. E poi l’insistente condanna della nuova idolatria del denaro.

Molto altro si potrebbe aggiungere. Eppure, dopo cinque anni, persiste nella chiesa europea e in quella italiana in particolare una sorta di resistenza all’uomo Bergoglio e al pontefice Francesco.

Perché? Una risposta arriva dall’osservazione di Massimo Borghesi, ordinario di Filosofia morale a Perugia e autore della prima biografia intellettuale del Papa. «Il successo planetario della figura di Francesco – scrive Borghesi – non ha coperto, come negli anni di Giovanni Paolo II, il vuoto progressivo delle chiese». Si potrebbe aggiungere che Bergoglio non nasconde il peccato della chiesa, anzi lo denuncia, unica via per ripartire credibili e genuini nella testimonianza di fede. Non è un caso che abbia indetto nel 2015 il Giubileo della misericordia e, a conclusione di un anno straordinario per manifestazione popolare, abbia scritto nella Lettera apostolica Misericordia et misera: «È il momento di dare spazio alla fantasia della misericordia per dare vita a tante nuove opere, frutto della grazia».

Borghesi ricorda quanto «tutto il pensiero di Bergoglio sia un pensiero della riconciliazione». Dove a predominare è un realismo che non teme nessuna scelta neppure quelle radicali. Sì, un radicalismo evangelico da non confondere con l’ideologia progressista lontana dal gesuita Bergoglio sia per cultura, sia per storia, sia per scelte di vita.

Fraintendimenti e incomprensioni (tipo la contrapposizione Francesco- Benedetto XVI) nascono piuttosto da una lontananza della chiesa, soprattutto europea, dalle contraddizioni della modernità e della globalizzazione. Esiste un’incomprensione del presente e della secolarizzazione di cui sono prigioniere la teologia e la chiesa europee. Bergoglio sta scuotendo tutto questo con la sua persona, con il suo cattolicesimo sociale e con la sua teologia centrata sul complesso rapporto tra unità e diversità che consente di tradurre nel mondo contemporaneo il rapporto tra misericordia e verità.

Chi pensa a un Papa di taglio strettamente latinoamericano sbaglia misure. Agiscono in lui le lezioni di Guardini (dialettica polare), di von Balthasar (la verità sinfonica), del cattolicesimo come coincidentia oppositorum di Adam Mohler, Erich Przywara, Henri de Lubac.

La pubblicistica italiana su Bergoglio è ininterrotta, ma finora è mancato un saggio che entrasse nelle origini e nella formazione di una vocazione, soprattutto collocandole nella cultura e nelle vicissitudini storiche di un paese e di un continente, rilevanti per le vicende ecclesiali del ’900.

Si pensi al ruolo politico e di pensiero della teologia della liberazione oppure alle conferenze di Puebla e di Aparecida, che con i loro documenti stanno tuttora segnando il cammino nel Sud del mondo; non solo, sul dramma della povertà e dello sviluppo diseguale incalzano le scuole di pensiero occidentali.

La biografia intellettuale, edita da Jaca Book, scandaglia in modo chiaro e minuzioso il percorso di fede e di studi dell’uomo Bergoglio che si misura ininterrottamente con la modernità: una questione tutta aperta che trova molto mondo cattolico culturalmente disarmato e in ritardo oppure diviso tra chi si rifugia in nostalgie del passato e chi opta per una accettazione acritica.

Proprio il rapporto Chiesa e modernità costituisce uno dei fronti più delicati del pontificato.

Due figure, anche su questo tema, si rivelano determinanti nella formazione di Bergoglio: il filosofo gesuita Gaston Fessard e il principale pensatore cattolico latinoamericano della seconda metà del ’900, Alberto Methol Ferré. Dal saggio emerge un pensiero originale in un uomo non comune.

Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano, pagg.300, € 20

Giovanni Santambrogio Il Sole 24 Ore 14 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180114santambrogio.pdf

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Comunicato relativo all’Etiopia

Questa Commissione per le adozioni internazionali, in relazione all’attuale situazione delle adozioni internazionali in Etiopia, ha appreso in via ufficiosa da mass media etiopi, radio e televisione, la notizia che, in seguito all’approvazione di una nuova normativa in materia, le adozioni internazionali sarebbero state bloccate, ma tuttavia, al momento, non vi è nessuna notizia né conferma ufficiale in merito da parte delle Autorità del Governo dell’Etiopia.

Si segnala, inoltre, che secondo la legislazione del paese, l’eventuale legge che avrebbe disposto il suddetto blocco, dovrebbe entrare in vigore dopo la sua pubblicazione ufficiale che, generalmente, avviene dopo quindici giorni.

Comunicato 12 gennaio 2018

www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2018/etiopia-comunicato.aspx

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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA

AICCeF. Compleanno della legge 4 del 2013

Auguri di compleanno alla legge n. 4 del 2013 che oggi, 14 gennaio 2018, compie 5 anni.

Da quando è stata promulgata questa legge, che disciplina le professioni non regolamentate molto è cambiato e si è fatta un po’ di chiarezza in questo vasto campo professionale che conta più di tre milioni di professionisti. Ma tanto altro rimane da fare.

Il CoLAP informa che sulla prima pagina di Italia Oggi la Presidente Alessandrucci interviene sull’argomento analizzando quanto è stato realizzato in questi anni e quanto ancora c’è da fare!

www.colap.eu/schede-1623-legge_4_2013_tra_conquiste_e_prospettive

Ad esempio vi sono ancora 140 associazioni professionali in attesa di iscrizione nell’elenco del MISE. Le istituzioni sottovalutano le esigenze delle Associazioni che sono in attesa del vaglio ministeriale, e che hanno lavorato, investito e cambiato per migliorare!

Senza contare che vi sono ancora molte incertezze da parte di queste Associazioni non ancora iscritte nell’Elenco ministeriale, sull’attribuzione dell’Attestazione di qualità ai propri iscritti e sulla validità della stessa.

www.aiccef.it/it/news/compleanno-della-legge-4-del-2013.html

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CONSULTORI FAMILIARI

Torino. Punto Familia. Attività 2018 in corso

  • 26 gennaio alle 19: un incontro per presentare il progetto “famiglia: una, due, nessuna o ricostituita?” un percorso rivolto alle coppie che hanno formato un nucleo familiare con figli nati da precedenti matrimoni o convivenze. Il percorso è di 8 incontri della durata di 2 ore e mezzo in orario preserale.

Lo scopo della proposta è di riflettere e confrontarsi sulle risorse e criticità delle Famiglie Ricostituite, una realtà affettiva e relazionale complessa quanto poco conosciuta, ma anche molto diffusa.

  • 7 febbraio alle 17: un incontro per le famiglie interessate al laboratorio di psicomotricità per bimbi tra 12 e 36 mesi.

  • 7 febbraio alle 21: un incontro di presentazione di Costruire in Due, il percorso di accompagnamento alla vita di coppia che il Punto Familia propone alle coppie che progettano il matrimonio, ma anche a quelle che vogliono ancora rifletterci.

www.puntofamilia.it

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Milano 1 Sedi locali e punti d’appoggio per le adozioni internazionali

  • Sede centrale Ente autorizzato n. 46 adozioni.lacasa@tin.it

Milano Istituto La Casa via Lattuada, 14 info@istitutolacasa.it

Sedi locali

  • Imola piazza Conciliazione, 1 lacasa.imola@libero.it www.lacasaimola.it

  • Napoli via San Sebastiano, 48/D adozionilacasa.na@libero.it

  • Palermo via F.P. Di Blasi, 15 adozionilacasa_pa@libero.it

  • Roma via della Pigna, 13/A adozionilacasa.roma@gmail.com

  • Scandicci via Della Pieve, 50 A adozionilacasascandicci@yahoo.it

  • Taranto via Plateja, 142 adozionilacasa_taranto@ilfocolare.it

  • Torino corso Matteotti, 11 adozionilacasa.torino@gmail.com

Sedi secondarie

  • Messina viale Annunziata, 72 consfam.messina@libero.it

  • Sondrio via Bassi, 2 segreteria@metafamiglia.org

  • Padova via Orus, 4 adozionilacasa.padova@gmail.com

Sportelli informativi

  • Cuneo via Senatore Toselli, 6 adozionilacasacuneo@gmail.com

  • Parma via Nino Bixio, 71 segreteria@famigliapiu.it

www.ist-lacasa.it/showPage.php?template=istituzionale&id=12

 

Padova. Il potere della lettura

In questo mese parliamo di: Adolescenza, da uno dei molteplici punti di vista dei ragazzi

“Divergent”, “Insurgent”, “Allegiant” la trilogia di Veronica Roth, DeAgostini

I libri presentati nei mesi precedenti seguivano un “filone di denuncia” della nostra società, adatti più agli adulti e utili per trarre ciascuno le proprie conclusioni da mettere eventualmente in atto con i ragazzi di riferimento, figli, alunni o pazienti.

In questo mese invece consigliamo letture proprio per i ragazzi, che mi sono state indicate da un gruppo di adolescenti. Questi libri (di cui esistono anche versioni cinematografiche) per molti versi simili ai ben più famosi “Hunger games” di Suzanne Collins, descrivono molto bene, in linguaggio magari anche troppo semplice per un adulto, ma efficace per un ragazzo, le divisioni “mentali” che gli adolescenti si trovano a vivere in questo periodo della vita, per arrivare a un’integrazione.

Anche il finale della serie è diverso, molto diverso, da quello che ci si aspetterebbe da questo tipo di romanzi: ovviamente non si può svelare, ma si può dire che, essendo più realistico, traghetta dalla dimensione protetta, a cui si abituano i bambini, a quella del mondo reale.

Naturalmente nulla vieta che siano letti anche dai genitori.

Conduttrice Silvia Crippa insegnante, psicologa, psicoterapeuta, mediatore familiare;

in consultorio opera come psicoterapeuta e consulente familiare.

www.consultorioucipem.padova.it/index.php/letture-proposte/letture-gennaio-2018.html

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CORRESPONSABILITÀ

Il problema del ministero ecclesiastico per la Chiesa che verrà

Che cosa ha significato per la Chiesa la reintroduzione del diaconato permanente da parte del Concilio Vaticano II? Quali sono le potenzialità rimaste inespresse e quali sono le strade da percorrere, oggi, per arrivare ad una più ampia corresponsabilità ministeriale?

Su queste piste di riflessione si è sviluppata la giornata di studio sul tema “Diaconato e diaconia. Per essere corresponsabili nella Chiesa», svoltasi a Vicenza il 28 ottobre 2017 scorso su iniziativa della Pia società San Gaetano, del Coordinamento delle teologhe italiane, del Centro documentazione e studi “Presenza donna” delle suore Orsoline, della Comunità del diaconato in Italia e della diocesi locale.

Invitati a dibattere sul tema, di fronte a oltre duecento persone provenienti da tutta Italia, Serena Noceti (ecclesiologa e vicepresidente dell’Associazione teologica italiana), Alphonse Borras (vicario generale della diocesi di Liegi e professore emerito all’Università Cattolica di Lovanio), Luca Garbinetto (pastoralista e presbitero della Pia società San Gaetano), Dario Vivian (docente di Teologia pastorale alla Facoltà teologica del Triveneto, che ha aperto la giornata di studio), Cristina Simonelli (patrologa e presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, che ha guidato il dibattito), Cettina Militello (direttrice della cattedra “Donna e cristianesimo” della Pontificia Facoltà Teologica Marianum), Matteo Cavani e Federico Manicardi (entrambi preti della diocesi di Modena).

Il tempo della corresponsabilità. La fondazione scritturistica del tema è stata indagata da Serena Noceti. A partire dall’esegesi di Ef4,11-16, Noceti ha sottolineato come l’unità plurale della Chiesa, concepita a immagine della Trinità, sia un dinamismo mai compiuto in cui tutti i credenti sono coinvolti, e compito dei diversi ministri sia quello di prepararli alla diaconia. Sulla stessa linea, Borras si è soffermato sullo specifico del diacono, individuandolo nell’essere garante dell’apostolicità della fede vissuta, nell’abilitazione al servizio di tutti con l’autorità di Cristo e il potere dello Spirito e nel suo ruolo di promotore della diaconia della Chiesa e dei fedeli. Solo una relazione quotidiana col Dio Uno e Trino, ha poi affermato Luca Garbinetto, permette di costruire relazioni e di generare organismi di autentica corresponsabilità fra tutti i membri del Corpo di Cristo. È dalla diaconia di Dio che deriva la diaconia della Chiesa, tratto caratterizzante della comunità cristiana nel mondo. Infine don Matteo Cavani e don Federico Manicardi, sacerdoti incardinati nella diocesi di Modena, hanno raccontato la propria esperienza di corresponsabilità pastorale, realizzata a partire dalla vita comune condivisa con altri dieci presbiteri.

Dedicato proprio al tema «Corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa», l’intervento di Cettina Militello si è strutturato intorno a uno schema preciso, sviluppato nella forma di “flash” suggestivi: a partire da un frammento testimoniale che documenta sinergie di genere (Rm 16), che dimostra come ci sia stato «un tempo, nella Chiesa, in cui uomini e donne hanno lavorato insieme, con mansioni analoghe» un tempo «non ci sono né gerarchia né sacralità», Militello è passata all’indagine sui fraintendimenti e i diversi e successivi modelli di Chiesa: dal modello “martiriale”, egalitario, anzi «l’unico profondamente e autenticamente egalitario», afferma Militello, perché davanti al martirio uomini e donne erano uguali, al modello “imperiale”, gerarchico, fondato sulla mistica dell’uno e dunque chiuso alla pluralità; al modello “societario”, fino alla riscoperta, con il Concilio Vaticano II, del modello koinonico e sinodale: è «l’utopia originaria della fraternità/sororità, emerge il disegno trinitario» ed «emerge un modello inclusivo». Si giunge dunque alla riscoperta della soggettualità battesimale (“Donne e uomini corresponsabili dell’‘annuncio’, della ‘lode’, del vicendevole ‘servizio’”), fino a immaginare la Chiesa che verrà: declericalizzata, degerarchizzata, decentrata, pluri-culturata, solidale, in uscita, a servizio.

La ricca giornata di studio sul diaconato si è conclusa con un ricco dibattito moderato da Cristina Simonelli, che ha approfondito vari aspetti della questione, sia di ordine teorico che pratico: dal rapporto tra presbiteri e diaconi alla necessità di evitare nuove “nomenklature ecclesiastiche”, sia pure allargate; dalla marginalità di cui soffre il diaconato nelle Chiese locali alla possibilità di immaginare un ministero diaconale esercitato in coppia con la moglie.

Di seguito pubblichiamo la relazione di Cettina Militello, in una trascrizione rivista dall’autrice.

Redazione Adista Documenti n. 42 9 dicembre 2017

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Corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa

Se una cosa mi rallegra dopo quarant’anni di insegnamento è constatare quanto le donne si siano moltiplicate su un percorso che quando io cominciai ne contava veramente poche. Più le generazioni vanno avanti e più mi rallegro e più si accresce la mia fiducia per il futuro. Detto ciò, ho preparato uno schema e brevemente riassunto quello che vorrei dire. Lo schema è alquanto articolato, e se volessi svolgerlo per intero ci vorrebbe assai più tempo di quello che mi è dato.

Proporrò piuttosto dei flash problematici per suscitare la discussione. Ho ascoltato con molto interesse e a tratti anche con molta insofferenza quanto è stato detto sinora. Per me il problema è quello di una articolazione strutturale della Chiesa che non è più sostenibile; di una pratica e di una teoria ecclesiale ed ecclesiologica che, secondo me, è arrivata al capolinea. E allora quanto evoca stereotipie stantie (anche con le migliori intenzioni e soprattutto con sentimenti di sincera apertura di cuore) suscita in me reazioni violente. Più trovo interlocutori sinceri nel riproporre il vecchio, più mi scopro intollerante. Devo aggiungere che avendo compiuto settant’anni e non essendo più obbligata alle strettoie di una missio canonica mi sento assolutamente libera di dire quello che penso. Invito se mai voi a operare il giusto discernimento. Devo dire ancora – ed ho avuto la fortuna di viverlo negli ultimi anni di insegnamento – che il tornado papa Francesco ci ha molto liberati. Personalmente io sono passata veramente da una fase di angoscia a una di autentica liberazione. Ricordo che all’inizio quasi del pontificato commentando le letture del giorno ebbe a dire (a noi teologi, è chiaro) che se pure ci arrivavano le lettere autorevoli di censura, le tenessimo nel cassetto e continuassimo a lavorare. Mi sono detta allora: “Finalmente sono finiti i tempi dei processi in contumacia!”.

La testimonianza di Rm 16. Comincio con l’evocare quello che, nello schema, ho indicato come un “frammento testimoniale di sinergia di genere”, non perché mi cimenterò in una lettura o in un’interpretazione del capitolo 16 della Lettera ai Romani, ma per richiamare come ci sia stato un tempo nella Chiesa in cui uomini e donne hanno lavorato insieme, con mansioni analoghe. Un tempo in cui un certo lessico relativo ai compiti era grosso modo uguale per gli uomini e per le donne. Sappiamo che in Romani 16 ricorre il termine diaconessa (che si è perduto nella traduzione ultima della CEI); ricorre il termine apostolo riferito a una donna (e in passato se ne è interpretato il nome come se fosse un maschio); ricorre il termine synergos e altri ancora che, se usati al maschile, tranquillamente ci avrebbero consentito di affermare che in questione fossero ministri “ordinati”. Questa poi è una evidente mistificazione perché, che io sappia, nel Nuovo Testamento non ci sono né ordinazioni né riti che riconducibili ad abilitazioni di tipo sacramentale.

Il lessico ministeriale in senso stretto comincia a venir fuori nel II-III secolo e la sua stessa comprensione va mutando sino a cristallizzarsi poi nel Medioevo. Però continuiamo acriticamente a farne uso e non pensiamo neppure che “sacerdote”, ad esempio, è una parola blasfema nel contesto della comunità cristiana. Per non parlare del termine “sacrificio” che poco ha a che fare con la prassi cristiana. Mi vengono in mente certe omelie dell’800 in cui Maria ai piedi della croce chiedeva a Dio padre: “Afferra il pugnale, trafiggilo, affretta la salvezza dell’umanità”. Immaginatevi se Maria ai piedi della croce poteva mai nutrire sentimenti di questo genere o se il sacrificio, sia nel senso di sacrum facere sia nel senso di una oblatività sanguinolenta grazie alla quale la divinità viene placata, è compatibile con la buona novella del Regno di Dio.

Senza dimenticare ancora che siamo noi i testimoni e i banditori della buona novella, ma abbiamo messo da parte sia la novella sia la gioia che le è propria.

Fraintendimenti e modelli di Chiesa. Per me, dunque, Romani 16, che è stato a lungo studiato, sul quale le mie colleghe bibliste hanno offerto una puntuale lettura di tutte le sfumature, è veramente uno spartito di Chiesa (anzi di “Chiese”) in cui uomini e donne hanno le stesse responsabilità; hanno anche pure le loro “beghe”, intendiamoci, perché non è che siano pacifiche alcune situazioni lì ricordate, ma quantomeno non ci sono né gerarchia né sacralità; non c’è niente di tutto quello che noi pian piano abbiamo aggiunto.

Quella, dunque, che oggi chiamiamo corresponsabilità di uomini e donne nella Chiesa, probabilmente era l’esperito, per quanto umanamente possibile, delle prime comunità cristiane (e anche lì non bisogna idealizzare e proiettare i nostri desiderata e le nostre acquisizioni). C’è stato in partenza un modello egalitario, assai evidente soprattutto nel contesto martiriale. Sappiamo bene come di fronte al martirio non c’è stata differenza tra uomini e donne. Ci insegna la storia che la differenza subentra non appena un gruppo acquisisce il potere. Fino a quando bisogna lottare, testimoniare e morire non c’è differenza tra uomini e donne. Anzi non ci sono discriminazioni né sociali né culturali, come mostra il caso di Blandina, una giovanissima schiava. Appena si stabilizza la situazione, la prima cosa che viene fatta fuori sono le donne.

Al modello martiriale, egalitario, anzi l’unico profondamente e autenticamente egalitario, è subentrato nella vicenda cristiana il modello imperiale, un modello gerarchico, un modello fondato sulla mistica dell’uno. L’uno per definizione non ammette la pluralità; anzi, ogni pluralità è offesa, è scissione, è decadimento. E badate bene, la fede cristiana è stata veramente geniale nel declinare insieme unicità e trinità di Dio. Il nostro Dio unitrino scioglie una delle aporie più tragiche: la contrapposizione uno-molti comprendendo Dio nel segno appunto dell’unità e della pluralità, di più della differenza che non ne annulla l’unicità ma la declina come ineffabile alterità. Come è stato ricordato stamattina, abbiamo un Dio plurale, un Dio differente, un Dio in reciprocità, nel vis-à-vis permanente e straordinario delle divine Persone.

Il modello imperiale, la mistica e la gerarchia dell’uno che lo caratterizza, conosce figure diverse nella storia, ma in esso non cambia il rapporto uomini/donne. In partenza, voglio dire nell’età dei padri – e lo ha messo in risalto Kari Børresen – emerge il binomio “subordinazione/equivalenza”. Il cristianesimo, cioè, afferma l’equivalenza uomo- donna nell’ordine nella grazia – brave donne, fatevi sante, più sante degli uomini; ma lasciate perdere la storia, lasciate perdere la Chiesa perché non sono cose vostre. Questo modello le donne provano a metterlo in questione e spesso e volentieri ci riescono, ma non creano tradizione duratura. La cosiddetta tradizione alternativa, che pure c’è ed è significativa, è minoritaria; succede sempre qualcosa che riporta le donne nella condizione di subordinazione considerata loro propria. Il che mi induce ad allertare chi mi ascolta perché non è detto che la tendenza del presente sia risolutiva. Occorre proprio vigilare perché a ritornare indietro si fa presto (sempre che abbiamo del tutto raggiunto ciò per cui abbiamo lottato).

Il modello imperiale, ripeto, è incrinato dalle donne: lo incrinano le sante donne, le monache; lo incrina il diritto che il monachesimo dà alle donne di accedere alla cultura (cioè a pregare con la Bibbia e quindi a saperla leggere e commentare); lo incrina la teologia medievale delle grandi mistiche, delle grandi profetesse; lo incrina la loro nominazione al femminile di Dio, ecc. Ma permane sempre l’ipoteca gerarchica, che ripropone nell’umano il modello presunto di un divino onnipotente, eterno, immutabile, impassibile e di fronte al quale, visto che è il maschio a riproporlo nella sua interezza, la donna è seconda e dunque ontologicamente diversa: al punto tale che malgrado l’affermazione biblica della imago Dei ci si porrà il problema se le donne abbiano un’anima o meno. E nello stesso leggere l’imago Dei si dirà che la donna è immagine in quanto homo, non in quanto mulier, perché come femmina non può assolutamente essere ad immagine di Dio. Lo è (grazie per la gentilezza) in quanto fa parte dell’umanità. Però poi, nella vita concreta di ogni giorno, questo discorso giunge fino alle proposte ecclesiologiche recenti che continuano a ontologizzare la subordinazione della donna che è e resta seconda nell’ordine del “principio”. Inutile dire che non mi conforta che di questa secondarietà si faccia una nuvola melensa dove le donne e innanzitutto Maria brillino nel primato della grazia e della santità. Di fatto le donne non contano nella loro concretezza e restano subordinate.

Il modello societario comporta novità nella strutturazione della Chiesa. E, al riguardo, va rilevato come ci sia stato sempre detto che nulla muta, che noi crediamo sempre e soltanto le stesse cose. Il che è falso perché abbiamo costruito modelli di Chiesa assolutamente conformi ai modelli sociali e culturali che man mano sono elaborati. Oggi seguitiamo difenderli come se fossero modelli rivelati, come se la Chiesa dovesse essere monarchica per divina istituzione. La monarchia è una nostra invenzione: siamo diventati monarchici quando c’erano le monarchie; siamo diventati imperiali quando c’era l’impero; ci siamo definiti societas quando è prevalso il concetto di società e di patto sociale, e poi collezionando tutte queste cose siamo al punto in cui siamo. Per me il momento di svolta è il Vaticano II, che non spunta come un fungo ma è preceduto da una grandissima fatica, spesso repressa, condannata, ridicolizzata. Diciamo che dalla fine dell’800 sino agli anni ’50 è stata ingaggiata una lotta per provare a ridire la fede in termini che stabilissero un dialogo col mondo moderno. Poi è arrivato quel grandissimo profeta che è stato papa Giovanni, che non era né scemo, né devoto nel senso infantile del termine, ma era una persona colta, che aveva vissuto sulla sua pelle la temperie modernista e quindi sapeva cos’era successo. Da papa Giovanni si mette in moto la novità del Vaticano II e della sua svolta. Il mutamento, lo sapete, è nel pensare la Chiesa come evento koinonico e sinodale. Direi più in senso koinonico che sinodale perché la sinodalità è qualcosa che abbiamo acquisito dopo, per peso proprio del pensare la Chiesa come comunione. Se la Chiesa è popolo di Dio, se è comunione in quanto popolo di Dio, il popolo di Dio è un popolo pellegrinante e in cammino. La sinodalità, dunque, prima ancora di essere un esercizio di corresponsabilità, è un camminare insieme verso Cristo che torna. Ovviamente in questa riscoperta del modello koinonico e nelle sfaccettature del modello sinodale che cosa emerge? Emerge l’utopia originaria della fraternità/sororità, emerge il disegno trinitario (se lo avessimo messo in pratica avremmo davvero cambiato la società senza dar luogo a tutti gli scempi e le scelleratezze che l’hanno caratterizzata e che la caratterizzano), ed emerge un modello inclusivo, che è nel segno della differenza, perché al cuore del mistero trinitario – lo abbiamo detto – c’è l’alterità.

La riscoperta della soggettualità battesimale. Il popolo di Dio è dunque un popolo che parte dalla trinità e va verso la trinità; è un popolo di fratelli e sorelle, di uomini e donne, segnato da quegli elementi costitutivi che lo rendono, appunto, popolo di Dio. E il punto di partenza, la chiave di volta è l’iniziazione cristiana. Noi diventiamo cristiani attraverso il battesimo, la confermazione, l’eucarestia. Stamattina si poneva il problema dell’abilitazione: scusatemi, ma cos’è la crismazione se non l’abilitazione a ricevere il corpo e il sangue del Signore? Il rito dice che il credente che ha concluso la sua iniziazione si comunica perché è diventato cristiano pleno iure, ossia è passato dal lavacro battesimale, ha ricevuto l’unzione dello Spirito e dunque accede in pienezza a quello che è il vertice della koinonia, la partecipazione al corpo eucaristico del Signore. La Chiesa corpo si nutre del corpo del suo Signore. E anche qui potremmo aprire infinite parentesi perché la metafora del corpo è sicuramente tale, però c’è tutto un gioco che tra l’altro smentisce la nostra attitudine nei confronti del corpo, la sua demonizzazione, e una serie di cose connesse che hanno caratterizzato nel tempo la cristianità.

Cosa posso dire sulla corresponsabilità? Tutto è stato già detto. Si potrebbe dire che sia rispondere insieme all’interpellanza. Corresponsabilità è acquisire il diritto/dovere di fare tutti, nella Chiesa, tutto. Cioè in ordine a quello che costituisce la Chiesa – cioè la Parola, la lode, la cura reciproca – non ci sono persone che non hanno autorevolezza; tutti/e ce l’hanno alla stessa maniera, perché il discorso fondativo della loro autorevolezza è appunto l’iniziazione cristiana. Tutti siamo battezzati e battezzate, tutti siamo cresimati e cresimate, tutti siamo partecipi dell’eucarestia, uomini e donne, e da lì vengono fuori i diritti e i doveri. Naturalmente detto così il discorso può apparire semplicistico e riduttivo. Eppure a monte dell’iniziazione stanno i costitutivi ecclesiogenetici: cioè ciò a partire da cui diciamo la Chiesa, il compito della Chiesa, il compito nostro di cristiani e così via. L’archè, il cominciamento, è l’iniziazione cristiana e questo ce lo attesta la Scrittura: si diventa cristiani attraverso l’acqua battesimale e si partecipa alla cena del Signore secondo quelle che sono le diverse tradizioni. Ora essere portatori del diritto/dovere dell’annuncio è qualcosa da cui siamo stati, parlo dei laici e delle donne, lungamente privati anche se poi la storia della catechesi mostra una nostra permanente soggettualità. Pensate alla scuola catechetica di Alessandria fondata da un laico e nella quale hanno insegnato laici; pensate al ruolo catechetico delle donne, anche monache, nel contesto dello slancio missionario relativamente al quale i monasteri costituivano gli avamposti, magari subendo il martirio. Le donne c’erano e, ovviamente, c’erano anche gli uomini e non parlo solo dei chierici o dei religiosi.

E nell’ambito dell’annuncio, della parola, come dimenticare la profezia? Al riguardo non c’è mai stata discriminazione tra uomini e donne, parlo della profezia comune e dunque del discernimento e della testimonianza. Ma parlo anche della profezia carismatica, nel senso che non si può mettere il bavaglio allo Spirito: là dove egli soffia, che siano uomini o donne, per grazia di Dio profetizzano. Analogo è il discorso della lode: la soggettualità della comunità concelebrante (come l’ha giustamente chiamata Serena Noceti anche se la Congregazione del Culto in altri tempi ha trovato di che ridire). Che senso ha che un prete si dica la sua Messa? Che cos’è, devozione? È un servizio, ma non è un servizio “reso a”, è un’azione di convergenza degli uni e degli altri: Lumen gentium 10 mi pare abbastanza chiara al riguardo.

Vale lo stesso per la cura reciproca degli uni nei confronti degli altri. Pensare che la cura pastorale sia affidata soltanto ai chierici è veramente una cosa senza senso. Basterebbe pensare alla fatica che il magistero ha dovuto fare per riconoscere quello che poi fu chiamato “l’apostolato dei laici”, perché sembrava che l’espressione fosse un ossimoro, un’incongruenza: come potevano i laici fare apostolato? Se ad un certo punto siamo arrivati a questa formula è perché si è capito che non era possibile fare diversamente. Ora ripeto, tutte queste cose per me si concretizzano nel vissuto delle Chiese e appellano ai carismi che lo Spirito elargisce a ciascuno e che, comunque afferenti alla sfera o della Parola o della lode o della reciproca cura, caratterizzano ciascuno di noi in modo particolare.

Per cui la comunità è chiamata ad un discernimento continuo, visto che lo sport ecclesiale più diffuso è quello dello spegnere i carismi: tu hai il carisma della buona cucina, vai a fare la portinaia; tu hai il carisma della portinaia, vai a fare l’intellettuale… sto scherzando ma ricordo certe confidenze ricevute da religiose che si trovavano ad avere compiti per i quali erano completamente negate. Lo porto come esempio di ciò che avviene nelle nostre comunità. Sei fatto per fare il vescovo? Per miracolo sarai sacrestano. Sei fatto per fare il sacrestano? Ti facciamo vescovo. Sei un traffichino e dunque dovresti essere messo fuori? No, hai meriti, sei un manager, abbiamo bisogno di te per fare i soldi. Lo sport ecclesiale di vescovi e responsabili di comunità (anche religiosi) in questo momento è quello di far soldi. Visto che diminuiscono le risorse “umane”, bisogna vendere, investire, poi magari con la finanza creativa si perde tutto e si deve far fronte a perdite ingenti.

La Chiesa che verrà. Con altri – i miei colleghi della Società Italiana per la Ricerca teologica – da tempo sto fantasticando sulla Chiesa che verrà. Intendiamoci, la Chiesa che verrà, come è stato detto correttamente stamattina, verrà perché lo Spirito la vuole, non siamo noi che la possiamo determinare. Però come teologi e come popolo di Dio abbiamo il dovere di discernere i segni dei tempi e dunque di stare in guardia per capire qual è la direzione verso cui la spinge lo Spirito. Non so se l’Occidente vedrà la fine del cristianesimo; sicuramente le Chiese muoiono, pensate all’Africa dove c’erano Chiese fiorenti che non ci sono più; pensate al Medio Oriente dove c’erano Chiese fiorenti che non ci sono più. Potrebbe capitare tutto questo anche alla Chiesa di Roma o alle Chiese d’Europa; la Chiesa ci sarà altrove, questo non è un problema.

Però il nodo secondo me è quello dell’ecclesiogenesi: cioè dobbiamo reinventare la Chiesa assumendo come modello quella pluralità di accadimento che ha caratterizzato la comunità apostolica; nella quale non c’era la Chiesa ma “le Chiese”, non c’era il ministero ma c’erano “i ministeri”.

Se torniamo alla Scrittura, se riandiamo alla tradizione antiochena, alla tradizione delle Chiese paoline, alla tradizione giovannea, troviamo modelli diversificati di Chiese. E anche all’interno dell’epistolario paolino, come è stato stamattina ricordato, una cosa è Paolo “storico”, una cosa sono le Chiese paoline di seconda generazione, e una cosa sono le Chiese paoline di terza generazione, solo che noi abbiamo fatto delle scelte per motivazioni di tipo ideologico e politico che hanno visto il prevalere di un modello unico anziché una pluralità di modelli.

Come immagino la Chiesa che verrà? Come vorrei che fosse la Chiesa che verrà, una Chiesa di uomini e di donne? Vi ho proposto nello schema un settenario. Provo a riproporlo.

  1. Una Chiesa “declericalizzata”, cioè nella quale dichiarassimo impropri i termini laico, chierico, religioso/a, perché o compiamo la rivoluzione semantica che restituisce a questi termini la valenza onnicomprensiva che avevano alle origini, o altrimenti meglio lasciar perdere. Cleros era detto del popolo di Dio tutto, non di una sua porzione. Laos vuol dire popolo. É vero che è stato dimostrato che i suffissi in ikos dicono una “parte contrapposta”, ma ciò che occorre fare è operare una rivoluzione semantica che riconduce i laici al laos, i chierici al cleros sinonimo anch’esso del popolo. Una Chiesa declericalizzata è anche anche desacralizzata, perché il delirio di onnipotenza che caratterizza il sentirsi uomini del sacro, purtroppo, fa calpestare tutte le regole, morali, economiche, di buona educazione, non c’è decalogo o codice che tenga. Naturalmente ciò non vale per tutti, ma la presunzione ontologica d’essere diversi e altri, questa purtroppo è frutto di una formazione ben lontana dall’essere qualificata come umanamente deviante.

  2. Una Chiesa “degerarchizzata”. La gerarchizzazione non appartiene al cristianesimo. Non so – dialogo a distanza con il relatore del mattino – se la lavanda dei piedi ha un valore eucaristico o un valore emblematico, ma sicuramente colui che si mette il grembiule e lava i piedi si pone e propone un atteggiamento di servizio. D’accordo il diacono non sarà il dulos, lo schiavo, però in altri punti della Scrittura a Cristo viene attribuita proprio questo termine. Il modello è quello di stare tra gli altri come colui che serve; che il primo sia l’ultimo… Ciò è il rovesciamento di ogni presunta gerarchizzazione. Una Chiesa declericalizzata e degerarchizzata diventa autenticamente e pienamente inclusiva, perché non ha più fondamento ontologico la gerarchia di genere e finisce l’aura di sacralità che caratterizza il maschio; per contro cade la pretesa impurità che umilia ed esclude la donna. Perché siamo escluse? Perché considerate impure. Diventa tabù escludente la potenza femminile, e cioè il rapporto con il sangue, il rapporto con la vita. E questa oggi è farneticazione pura. Sono cose comprensibili in un contesto mitico o prescientifico, non oggi che abbiamo in mano altri strumenti. Dunque una Chiesa inclusiva perché declericalizzata e degerarchizzata, dove uomini e donne rivendichino la titolarità acquisita, rivendichino la competenza acquisita. Ma uomini e donne insieme, perché il problema della “conversione”, è stato detto anche questo, non riguarda solo le donne, ma uomini e donne insieme.

  3. Una Chiesa “decentrata”. Basta con la Chiesa romana che addirittura cambia il nome alle basiliche patriarcali e le fa diventare papali perché il papa è più del patriarca. Sono deliri. Non possiamo imporre a tutto il mondo, tranne a quelle piccole nicchie che appartengono alle Chiese orientali, l’uniformità del rito. È chiaro che clima e luogo interferiscono e che bisogna assecondarli; non posso rendere lode a Dio in Scandinavia così come rendo lode in centro Africa – basta solo la presenza del sole per imprimere un bioritmo diverso che esige un’espressività diversa. Dunque decentramento amministrativo, istituzione di una pluralità di patriarcati, revisione della struttura elettiva del vescovo di Roma, visto che un simulacro, un segno culturalmente e sociologicamente dobbiamo pure averlo che rappresenti l’unità. Ma segno, simbolo, non despota (che poi non comanda lui ma il vicario del vicario del vicario, come ricordava il Belli in un suo sonetto).

  4. Una Chiesa “pluri-culturata”. Il futuro è altrove. Ci sono culture che del nostro vocabolario religioso recepiscono solo una parte, perché concetti che per noi sono ovvi, sono loro estranei. Eppure la buona novella la dobbiamo portare. Bisogna, dunque, ad ogni costo che ci mettiamo in un atteggiamento di reciproco dialogo e ascolto cultura religiosa accanto a cultura religiosa altra, non per imporre il nostro punto di vista, ma per trovare nella reciproca ricchezza modalità nuove del dire la fede.

  5. Una Chiesa “solidale”. Capisco la crisi intimistica, capisco la mistica, capisco la spiritualità, ma non mi dite che ripristinando l’adorazione eucaristica abbiamo risolto i problemi! Adesso a Roma in qualsiasi chiesa andiate trovate scritto “adorazione dall’ora tal dei tali all’ora tal dei tali” oppure adorazione “tutto il giorno”. Questa, non vi scandalizzate, è idolatria. Non parlo ovviamente dell’adorare, del pregare riconoscendo presente il corpo e il sangue del Signore. Mi riferisco all’ostentazione d’ori e argenti, agli effluvi d’incenso, a tutte quelle forme trionfalistiche che con l’adorazione come riconoscimento del proprio creaturale hanno ben poco in comune. Nemmeno il Concilio di Trento – che pure ha scritto delle pagine non gloriose circa l’esibire ai protestanti, a loro vergogna, l’eucaristia solennemente portata in processione – ha detto che il fine dell’eucaristia è l’adorazione. L’eucaristia è fatta per essere consumata: è cibo. Un culto eucaristico slegato alla celebrazione è panacea che forse riempie la chiesa per i nostalgici ritorni ai riti dell’infanzia. Ma questo appunto fa regredire non rende coscienti di diritti e doveri. Non rende “corresponsabili”. Quando parlo di una Chiesa solidale mi riferisco ad una Chiesa che non si rifugia nell’intimismo, ma si sporca e va fuori, perché il problema nostro oggi è che siamo stati troppo dentro. Finiamola di guardarci l’ombelico. Usciamo fuori perché è fuori che bisogna portare la buona novella. Non possiamo rinunciare al primato dei poveri, degli esclusi, degli emarginati, delle nuove povertà, dei nuovi problemi, là si gioca la Chiesa, non si gioca dentro. Solidale significa prendere sul serio i problemi dell’oggi, e i problemi di oggi sono la discriminazione uomo donna, la discriminazione di classe, la discriminazione di reddito, la disoccupazione, e tutte le cose altre o consimili a cui bisogna far fronte.

  6. Questa Chiesa solidale è una Chiesa “in uscita” (lo sto dicendo e lo ripeto, era il sesto punto), perché non può che essere così. Leggiamo nel prologo degli Atti che disse loro di restare a Gerusalemme; ma poi partirono. Negli apocrifi abbiamo tante letture divertenti di questa partenza e poi del ritorno, in particolare per la vergine Maria al momento del suo transito. Il cristianesimo per natura sua deve essere in uscita. Sono sessantottina, e ai miei tempi si diceva: “Chiudiamo le chiese per dieci anni” – poi sembrò una posizione eccessiva. Dico ancora “chiudiamole nei giorni feriali” e andiamo nelle case degli altri, per fare eucarestia perifericamente. Non è dicendo messa, partecipando alla messa in Chiesa nei giorni feriali che realizziamo il nostro compito di lode.

  7. Infine, quella di cui io parlo è di una Chiesa “in servizio”. Una Chiesa che prende il servizio veramente come un metodo rivoluzionario e controcorrente. Oggi anche a livello civico il concetto di servizio è diventato un non senso. Siamo gli unici che, almeno in teoria, dovremmo rivendicare uno stile diverso, una disponibilità diversa gli uni verso gli altri. Secondo me, se la Chiesa che verrà realizzerà alcune di queste cose, possibilmente tutte, allora la corresponsabilità in essa degli uomini e delle donne non sarà un’utopia ma una realtà.

Vorrei aggiungere una cosa: sono convinta che il vero modo per ricominciare da capo è quella di ricordarsi come è cominciata l’avventura. Bisogna ripartire in piccoli gruppi, in piccole cerchie e in piccole unità, non in polemica con la grande Chiesa, ma affiancando la grande Chiesa.

Se non vogliamo essere fagocitati dalla preoccupazione pastorale, dall’organigramma pastorale, da tutti i compiti catechetici, caritativi, liturgici, l’unico modo è ridare fiducia e riconoscere come chiesa piccole unità che, non necessariamente con la presenza di un presbitero, ma partendo dal proprio battesimo e dalla propria iniziazione, si costituiscono con consapevolezza di Chiesa.

Allora magari ci sarà qualcuno che farà da coordinatore, lasciandole però nella loro identità e nella loro autentica libertà. Il problema non è di pensare a una pastorale efficiente, il problema è di quello di una conversione radicale a quello che deve essere il movimento di ripartenza della comunità cristiana, e ciò parte dal considerare Chiesa realtà che sino ad oggi non consideriamo tali. Papa Francesco ha parlato della “Chiesa del poliedro”.

Ne ha parlato anche riferendosi alle comunità pentecostali che sono quasi la negazione, per certi aspetti, del concetto di Chiesa. Molto più semplicemente dico che là dove due o tre battezzati, due o tre famiglie si riuniscono per riflettere sulla Parola di Dio, per pregare insieme, per porsi il problema del vicinato, per rispondere ai bisogni civici ed ecclesiali di chi sta loro intorno, lì abbiamo di nuovo una ripartenza di Chiesa e non c’è bisogno di autorizzazioni.

Anche perché il problema – è il mio chiodo fisso – non siamo noi laici, non sono i religiosi, non sono i chierici. Il problema è il ministero: o lo ripensiamo e lo cambiamo radicalmente o altrimenti la Chiesa morirà per asfissia. Perché per il ministero così com’è vissuto e così come ad esso ci si prepara non c’è futuro. Le vie di formazione che abbiamo elaborato, proprio perché sono “seminario” tradiscono la comunità.

Se c’è un punto di ripartenza è quello di inventare luoghi formativi nuovi, nei quali per altro uomini e donne siano compresenti. Come deve fare un prete ad avere un rapporto di normale cordialità con una donna se per cinque, sei anni lo si educa ad averne paura e stigmatizzarla? Sì d’accordo, cameratismo, bacetti, rapporti che oggi sono molto diversi da quelli del passato, ma al dunque, quando questo ragazzo sarà interpellato–perché purtroppo si continua ad ordinarli troppo giovani–non avrà gli strumenti per verificare se la sua vocazione al ministero passava dal celibato o se viceversa passava da un’alterità di tipo sponsale.

Ed è una tragedia che i nostri ragazzi vivono. Poi ci scandalizziamo e corriamo ai ripari, ma il problema è questo. All’ordine del giorno, perdonatemi, il problema vero non è il diaconato. Il problema vero è il ministero ecclesiastico come tale.

Cettina Militello 30/11/2017 Adista Documenti n. 42, 09 dicembre 2017

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DALLA NAVATA

II Domenica del tempo ordinario- Anno B –14 gennaio 2018

1Samuèle 03, 19 Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

Salmo 40, 10 Ho annunciato la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiuse le labbra, Signore tu lo sai.

1Corinzi 06, 20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!

Giovanni 01, 37 E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.

 

 

Che cosa cercate? Commento di Enzo Bianchi, priore emerito nel convento di Bose (B

 

 

Pannello del soffitto dipinto, Chiesa di san Martino, Zillis (Svizzera),1109-1114.

In questa domenica che segue la festa del battesimo del Signore, l’ordo liturgico ci propone l’incontro dei primi discepoli con Gesù, secondo il racconto del quarto vangelo. Siamo nella settimana inaugurale della vita pubblica di Gesù (cf. Gv 1,19-2,12). Due giorni dopo l’interrogatorio di Giovanni il Battista da parte delle autorità sacerdotali venute da Gerusalemme, Gesù passa e cammina davanti a Giovanni e a due suoi discepoli. E fissando lo sguardo su Gesù, il Battista afferma: “Ecco, guardate l’Agnello di Dio!”. È una vera e propria presentazione di Gesù, l’indicazione che proprio lui è il Servo di Dio, l’Agnello pasquale che porta la liberazione al suo popolo (il termine aramaico talja contiene infatti entrambi questi significati). Giovanni, da vero rabbi e maestro, in-segna, fa segno ai discepoli e così dà un orientamento alla loro ricerca: non li aveva se-dotti (portati a sé), non li trattiene presso di sé, ma li e-duca, li conduce fuori, verso il Messia. Ascoltate le parole del Battista, subito i due si mettono a seguire Gesù, si pongono sulle sue tracce, vanno dove egli va.

Ed ecco che improvvisamente Gesù si volta indietro, li osserva con uno sguardo penetrante e chiede loro: “Che cosa cercate?”. Domanda, questa, ineludibile per chiunque voglia mettersi alla sequela di Gesù, dunque domanda rivolta ancora oggi a noi che tentiamo di seguirlo. “Che cosa cerchi veramente? Qual è il tuo desiderio più profondo?”. Queste sono le prime parole pronunciate da Gesù secondo il quarto vangelo; non un’affermazione, non una dichiarazione, come magari ci attenderemmo, ma una domanda: “Che cosa cerchi?”.

In tal modo Gesù mostra che la sua sequela non può avvenire per incanto, per infatuazione, per una semplice scelta di appartenenza: il discepolo può imboccare un cammino sbagliato, se non sa riconoscere che cosa e chi veramente cerca –“si revera Deum quaerit”, “se veramente cerca Dio”, dice la Regola di Benedetto (58,7)–, se non è impegnato a cercare, disposto a lasciare le sue sicurezze per aprirsi al dono di Dio. Cercare è un’operazione e un atteggiamento assolutamente necessario per ascoltare e accogliere la propria verità presente nell’intimo, là dove il Signore parla.

A questa domanda i due discepoli rispondono con un’altra domanda: “Rabbi, dove dimori (verbo méno)?”. Gesù è da loro definito “rabbi”, maestro e guida, quindi vogliono conoscerlo nella sua dimora, nel suo abitare, vogliono dimorare dove egli dimora: non solo ascoltare un insegnamento ma essere coinvolti nella sua vita. Gesù risponde loro con molta semplicità: “Venite e vedrete”, cioè venite e sperimentate, venite e vedrete con uno sguardo che potrà addirittura vedere la gloria di Gesù quale Figlio di Dio (cf. Gv 1,14; 2,11). Così è avvenuto l’incontro con Gesù, un incontro che ha cambiato profondamente la loro vita, perché da quell’ora (definita con precisione l’ora decima, ossia le quattro del pomeriggio) cominciano a vivere, a dimorare con lui.

Questi due primi discepoli di Gesù sono Andrea e l’altro che non ha un nome ma che è stato identificato dalla tradizione nel discepolo anonimo, “quello che Gesù amava” (Gv 13,23; 19,26, 20,2; 21,7.20), forse il figlio di Zebedeo. I sinottici presentano questa chiamata dei primi discepoli con un racconto molto diverso: in Galilea, sulle rive del mare, Gesù passa e vede due coppie di fratelli, li chiama dietro a sé (“Seguitemi!”) e questi lo seguono prontamente, senza dilazioni (cf. Mc 1,16-20 e par.). Nel quarto vangelo, invece, la vocazione è mediata dal Battista, non è diretta. In entrambi i casi, però, la testimonianza è concorde: prima di iniziare la sua predicazione, Gesù forma attorno a sé una comunità, i chiamati a farne parte si mettono alla sua sequela (verbo akolouthéo) e a loro egli chiede di condividere la sua vita sempre, nella perseveranza, fino alla fine. Certo, il discepolo anonimo, “quello che Gesù amava”, appare il modello di ogni discepolo che resta con il Signore anche durante la sua passione, anche sotto la croce, e rimane come segno profetico fino alla sua venuta nella gloria (cf. Gv 19,26; 21,22).

Ma ecco che Andrea, secondo la tradizione greca il primo chiamato, incontra suo fratello Simone e subito gli dice: “Abbiamo trovato il Messia, il Cristo”. Si sente spinto a comunicare la buona notizia del Messia tanto atteso e ora presente, operante in mezzo al suo popolo, innanzitutto a suo fratello. Lo conduce da Gesù, perché Simone condivideva tale attesa, essendo anch’egli in ricerca di colui del quale il Battista annunciava la venuta. L’attesa è finita, la ricerca ha avuto un esito positivo. L’espressione “abbiamo trovato”, al plurale, indica ormai il noi della comunità di Gesù, che da questo momento risuonerà in tutto il vangelo per confessare la fede e rendere testimonianza.

Secondo il quarto vangelo Simone non fa alcuna azione, non prende alcuna iniziativa, ma sta di fronte a Gesù e ascolta le sue parole inequivocabili. Gesù fissa lo sguardo su di lui, come il Battista lo aveva fissato su Gesù stesso, e gli proclama la sua vera identità, vocazione e missione: “‘Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Kephas’ – che significa Pietro”. Non è semplice interpretare la prima parte di questa dichiarazione: cosa significa “figlio di Giovanni”, detto a colui che è fratello di Andrea, mai chiamato con questo patronimico? Significa forse: “Tu sei Simone, il discepolo di Giovanni il Battista”? La questione resta aperta, ma in ogni caso le parole determinanti sono quelle che seguono: “sarai chiamato Kephas, Pietro”. Così Gesù rivela chi è veramente Simone all’interno della sua comunità: è una pietra, una roccia subito messa in posizione di autorità, lui che sarà il portaparola dei Dodici (cf. Gv 6,67), lui che sarà il pastore del gregge delle Signore (cf. Gv 21,15-18).

Ma se il quarto vangelo ci fornisce questa narrazione “altra” della chiamata dei primi discepoli, subito dopo, nella chiamata di Filippo che avviene il giorno seguente, ricompare quella parola efficace rivolta da Gesù al discepolo: “Seguimi!” (akoloúthei moi: Gv 1,43). Muovendosi dalle rive del Giordano verso la sua terra, la Galilea, Gesù incontra Filippo, un altro galileo di Betsaida (come Pietro e Andrea). Non ci viene detto né dove né in quale situazione Gesù gli rivolge tali parole, ma ciò che è essenziale è che gli chieda di seguirlo. Filippo prontamente lo segue ed entra a fare parte della comunità dei discepoli, come testimoniano anche i sinottici che lo collocano tra i Dodici (cf. Mc 3,18 e par.). Vocazione dunque senza mediazioni, ma non per questo meno contagioso. Non appena infatti Filippo incontra un altro galileo, Natanaele proveniente da Cana, gli comunica la buona notizia del compimento delle sante Scritture, la Torah di Mosè e i Profeti: “Abbiamo trovato colui del quale esse hanno scritto: Gesù, il figlio di Giuseppe, da Nazaret” (cf. Gv 1,45).

Natanaele risponde con scetticismo e ironia: “Proprio da questa periferia, da questa terra impura, da un villaggio sconosciuto della Galilea delle genti può forse venire qualcosa di buono?” (cf. Gv 1,46). Filippo ribatte: “Vieni e vedi! Vieni e sperimenta” (cf. ibid.), eco delle parole rivolte da Gesù ai primi due discepoli. Questi infatti sono i passi costitutivi della fede: venire a Gesù, sperimentare e conoscere la sua dimora e infine trovare dimora in lui. E mentre Natanaele va da Gesù insieme a Filippo, ecco che Gesù stesso mostra in realtà di precederlo nel suo itinerario. Egli non allontana chi si avvicina a lui (cf. Gv 6,37), nonostante le sue perplessità, ma descrive Natanaele come un figlio d’Israele vero, senza falsità, senza doppiezza (cf. Gv 1,47). Sorpreso da questa affermazione, Natanaele pone a Gesù una domanda: “Da dove (póthen) mi conosci?” (Gv 1,48). Ovvero, da dove attingi la conoscenza della mia persona? Gesù non gli risponde direttamente ma gli assicura di averlo visto e scelto prima di ogni sua decisione di andare a lui. Segue infine una confessione di fede piena: “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re d’Israele” (Gv 1,49). Natanaele, esperto delle Scritture, figlio d’Israele autentico, confessa immediatamente la signoria di Gesù, servendosi di titoli che esprimeranno la fede della chiesa nella passione e nella resurrezione del Signore.

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/12048-che-cosa-cercate

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DEMOGRAFIA

Pochi figli. Mancano opzioni mirate

«Il 2017 sarà probabilmente l’anno record per calo delle nascite. La causa? Una pluralità di fattori — denuncia il demografo Gian Carlo Blangiardo — a partire dalla mancanza di politiche mirate».

Mentre sono note le molteplici cause della «malattia», secondo Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università Bicocca di Milano, ancora non sono state messe in atto «cure efficaci». Ovvero: «politiche demografiche concrete, in grado di agevolare coppie o famiglie appartenenti a diverse fasce di reddito» — ipotizza il docente.

In Trentino, in meno di 20 anni, le nascite sono diminuite di quasi mille unità. Da 5.055 che erano nel 2000, sono diventate 4.156 nel 2017. Cento nati in meno rispetto al 2016. «La tendenza preoccupa, ma non è sorprendente. Ci aspettiamo un’ulteriore diminuzione anche nel bilancio nazionale ed è probabile che nel 2017 si registri il record negativo delle nascite. Nonostante il drastico calo, però, il Trentino-Alto Adige, rispetto alla realtà italiana, ha standard ancora accettabili grazie a un contesto economicamente più generoso».

Quindi il calo della natalità dipende dalle condizioni economiche precarie?

«Gli aspetti economici giocano un ruolo fondamentale: i figli costano quindi è facile che certe coppie vi rinuncino o si fermino al primogenito, rinviando, finché per motivi fisiologici è troppo tardi, l’idea di metterne al mondo un secondo. Un’altra causa del declino delle nascite è, infatti, l’aumento dell’età a cui si ha il primo figlio, di media intorno ai 35 anni».

Influiscono anche altri fattori?

«Esistono fattori esogeni, come le condizioni ambientali che agiscono sulla fertilità, ma sono soprattutto le difficoltà organizzative che incontrano i genitori, madri in primis, nel conciliare il nuovo ruolo con il lavoro, a provocare la diminuzione delle nascite».

C’è anche un freno culturale?

«Certo. Sempre più spesso la ricerca di affermazione personale trascende la genitorialità. Il singolo si sente realizzato da sé. Inoltre, le coppie sono poco motivate a mettere al mondo un figlio perché non ottengono degni riconoscimenti dalla società che grazie alle nuove nascite si arricchisce di capitale umano».

A monte ci sono politiche inadeguate?

«Se vogliamo interrompere il trend negativo delle nascite, servono politiche demografi- che. I bonus studiati finora non aiutano perché sono più che altro politiche per l’inclusione sociale di contrasto alla povertà. Interventi demografici mirati andrebbero invece dedicati sia a chi è economicamente più debole, ma anche a chi ha un reddito medio, in modo che non si fermi al primo figlio, ma arrivi al secondo e oltre».

Le famiglie a figlio unico sono in crescita?

«Le famiglie ferme ai primogeniti sono dominanti rispetto a quelle che hanno anche secondogeniti. Tuttavia, cresce la quota di chi è destinato, o per motivi di età o per scelte personali, a non averne per nulla. Una donna su 6, quasi il 20% della popolazione femminile, rischia di non avere figli».

Il contributo apportato dai nati da coppie straniere o dalle adozioni riesce a contrastare il crollo demografico?

«Il loro contributo è importante, ma non risolutivo. Le adozioni internazionali hanno subito una frenata negli ultimi anni e anche i nati da coppie straniere hanno cominciato a diminuire a partire dal 2012».

Margherita Montanari Corriere del Trentino 3 gennaio 2018

www.pressreader.com/italy/corriere-del-trentino/20180103/281535111373012

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DIVORZIO

La Corte di Giustizia Europea sui “divorzi privati”

Corte Giustizia UE, prima Sezione, causa C-372/16, 20 dicembre 2017.

L’articolo 1 del regolamento (UE) n. 1259/2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale va interpretato nel senso che il divorzio risultante da una dichiarazione unilaterale di uno dei coniugi dinanzi a un tribunale religioso, come quello oggetto del procedimento principale, non ricade nella sfera di applicazione ratione materiæ di detto regolamento (dalla motivazione: diversi Stati membri hanno introdotto nei loro ordinamenti giuridici, dopo l’adozione del regolamento Roma III, la possibilità di pronunciare divorzi senza l’intervento di un’autorità statale. Tuttavia, l’inclusione dei divorzi privati nell’ambito di applicazione di detto regolamento richiederebbe un riassetto che ricade nella competenza del solo legislatore dell’Unione”. In tal senso, alla luce della definizione della nozione di «divorzio» di cui al regolamento n. 2201/2003, risulta dagli obiettivi perseguiti dal regolamento n. 1259/2010 che esso ricomprende unicamente i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale, da un’autorità pubblica o con il suo controllo).

Giuseppe Buffone

La pronuncia della Corte di Giustizia del 20 dicembre 2017, resa nel procedimento Soha Sahyouni contro Raja Mamisch, assume indubbia importanza per l’ordinamento italiano: in particolare, nella misura in cui può avere effetti (a livello di circolazione nello spazio europeo) sulle misure interne di degiurisdizionalizzazione.

Il caso affrontato dalla Corte riguardava una dichiarazione unilaterale di divorzio resa davanti a un tribunale religioso. Tuttavia, la Corte di Giustizia si sofferma sul tema generale dei cd. divorzi privati (private divorce) ossia quelle ipotesi di scioglimento del matrimonio non derivanti da pronunce emesse da una autorità pubblica. Il caso riguardava il Regolamento cd. Roma III (Reg. n. 1259 del 2010: legge applicabile), ma il campo di applicazione di Roma IIII coincide con quello di Bruxelles II-bis (Reg. n. 2201 del 2003: giurisdizione) – v. Reg 1259/2010, considerando n. 10 – e quindi le riflessioni della Corte sull’esatto ambito applicativo riguardano entrambi i Regolamenti.

La Corte afferma che “diversi Stati membri hanno introdotto nei loro ordinamenti giuridici, dopo l’adozione del regolamento Roma III, la possibilità di pronunciare divorzi senza l’intervento di un’autorità statale. Per la Corte, tuttavia, l’inclusione dei divorzi privati nell’ambito di applicazione di detto regolamento richiederebbe un riassetto che ricade nella competenza del solo legislatore dell’Unione”. Secondo la CG dell’UE, “in tal senso, alla luce della definizione della nozione di «divorzio» di cui al regolamento n. 2201/2003, risulta dagli obiettivi perseguiti dal regolamento n. 1259/2010 che esso ricomprende unicamente i divorzi pronunciati da un’autorità giurisdizionale statale, da un’autorità pubblica o con il suo controllo”.

La pronuncia è molto importante.

Possono applicarsi gli strumenti di cooperazione giudiziaria (Roma3 – Bxl2-bis) SOLO se:

  1. Il divorzio è pronunciato da una autorità giurisdizionale;

  2. Il divorzio è pronunciato da una autorità pubblica;

  3. Il divorzio è pronunciato sotto il controllo di una autorità pubblica.

Ciò vuol dire che un tribunale europeo potrebbe rifiutare il riconoscimento di un atto integrante un “divorzio privato”, non essendo tenuto ad applicare le regole di cooperazione già citate. Certo occorre capire quali divorzi siano realmente “privati” e quali no (sulla base delle indicazioni della CGUE). Gli Stati che hanno introdotto delle forme di “divorzio privato” sono: Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Romania, Lettonia, Estonia.

L’Italia è tra gli Stati che hanno introdotto dei “divorzi privati” (v. cd. Misure di degiurisdizionalizzazione): 1) Accordi davanti al Sindaco; 2) Negoziazione assistita.

  1. Gli accordi davanti al Sindaco (in qualità di Uff. St. Civ.) sono “pronunciati” da una autorità pubblica? Sono sotto il suo controllo?

  2. Ma soprattutto: le negoziazioni assistite? “Pro” circolazione UE, si potrebbe sostenere che la vicenda è privatistica ma sempre nell’ambito di un “controllo pubblico” lato sensu inteso (ufficiale di Stato Civile; Pubblico Ministero). Il problema non è di poco conto perché riguarda migliaia di cittadini che hanno optato per questa forma di giurisdizione alternativa confidando sul fatto che è stata dichiarata come “uguale” negli effetti alle pronunce del giudice.

Alla luce di questa sentenza della CGUE potrebbero registrarsi dei casi di rifiuto di riconoscimento o, comunque, a livello interno, una “fuga” da questi modelli per evitare “problemi” nello spazio eurounitario.

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/giurisprudenza/archivio/18716.pdf

Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18716 – 11 gennaio 2018

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/18716/divorzio

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ETS (già ONLUS) NON PROFIT

Riforma del Terzo Settore. Le onlus hanno tempo fino al 3 febbraio 2019 per modificare gli statuti

Onlus, associazioni di promozione sociale e organizzazioni di volontariato hanno tempo fino al 3 febbraio 2019 per modificare i propri statuti alla luce di quanto richiede la Riforma del Terzo Settore.

Lo conferma la Direzione generale Terzo Settore del Ministero delle Politiche Sociali con la lettera direttoriale 29 dicembre 2017 “Codice del Terzo settore. Questioni di diritto transitorio. Prime indicazioni”

www.lavoro.gov.it/notizie/Documents/DG-III-Settore-lettera-Regioni-questioni-diritto-transitorio.pdf

La Direzione interviene sul tema della transizione alla nuova normativa introdotta dalla Riforma del Terzo Settore e fornisce indicazioni riguardanti la definizione di Ente del Terzo settore, le norme organizzative degli Enti medesimi, la disciplina del volontariato, il regime fiscale, il sistema del registro unico nazionale del Terzo settore, il nuovo sistema di governance dei Centri di Servizio per il Volontariato (CSV).

Uneba garantirà agli enti il supporto per gestire la fase di transizione e segue da vicino questa prima fase di applicazione della Riforma, in cui ci sono vari decreti attuativi ancora da emanare e sono ancora possibili revisioni della normativa.

UNEBA (Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale) è sorta nel 1950. Associa molti dei più importanti Enti religiosi, Fondazioni e Organizzazioni del terzo settore, che operano in Italia nell’ambito delle opere sociali, sanitarie e riabilitative.

Uneba 11 gennaio 2018

www.uneba.org/riforma-del-terzo-settore-le-onlus-hanno-tempo-fino-al-3-febbraio-2019-per-

 

Codice del Terzo settore 2017: prime indicazioni

Pubblicata sul sito del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, la prima circolare sul “Codice del Terzo Settore”.

www.fiscoetasse.com/upload/DG-III-Settore-lettera-Regioni-questioni-diritto-transitorio.pdf

Come chiarito all’inizio della lettera direttoriale, il codice del Terzo settore introduce un’articolata normativa attraverso la quale si intende fornire una disciplina organica in materia. La complessità del processo di adeguamento al nuovo quadro normativo è stata tenuta in conto dal legislatore:

  1. L’articolo 101, comma 2 assegna alle associazioni di promozione sociale, alle organizzazioni di volontariato e alle ONLUS 18 mesi dalla data di entrata in vigore del codice (3 agosto 2017), per apportare ai propri statuti le modifiche derivanti dall’obbligo di conformarsi alle novità.

  2. È stato diversificato il profilo temporale. Ad esempio, in materia fiscale, l’articolo 104 prevede che le disposizioni in esso indicate si applichino a partire dal periodo d’imposta successivo al 31.12.2017: in ogni caso, tutte le disposizioni fiscali contenute nel titolo X del codice, fatta salva l’applicazione transitoria sopra cennata, potranno essere applicate solo una volta ricevuta l’autorizzazione da parte della Commissione europea.

Il documento tratta delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato, per le quali sono operanti gli attuali registri nazionale (limitatamente alle associazioni di promozione sociale), regionali e delle Province autonome. Le iscrizioni agli attuali registri continueranno ad essere regolate dalle norme procedimentali in essere:

  • In sede di verifica della sussistenza dei requisiti richiesti per l’iscrizione, dovrà essere operata una distinzione tra gli enti che si sono costituiti prima della data di entrata in vigore del d.lgs.n.117/2017:

  • La verifica dovrà essere condotta sulla base della normativa vigente al momento della costituzione dell’organizzazione.

  • Quelli che si sono costituiti a partire dal 3.8.2017. Gli enti che si sono costituiti a partire dal 3 agosto 2017 sono tenuti a conformarsi ab origine alle disposizioni codicistiche, purché queste siano applicabili in via diretta ed immediata.

Coerentemente con tale impostazione

  • Non essendo operativo il registro unico nazionale, non potrà trovare ancora applicazione la procedura semplificata di acquisizione della personalità giuridica

  • Non possono trovare immediata applicazione gli obblighi di pubblicazione sul registro degli atti e degli elementi informativi.

  • Fino all’emanazione delle linee guida si deve ritenere che l’adozione del bilancio sociale da parte degli enti del Terzo settore assuma carattere facoltativo.

Per altro verso, si devono considerare immediatamente applicabili le norme afferenti ai requisiti sostanziali degli enti del Terzo settore: si fa in particolare riferimento alle disposizioni di cui agli artt.32 e 35 del codice, dedicate, rispettivamente alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni di promozione sociale, ove sono da ritenersi già cogenti le prescrizioni attinenti

  • Al numero minimo di soggetti (siano essi persone fisiche o soggetti superindividuali)

  • Alla forma giuridica necessari ai fini della costituzione di un’organizzazione di volontariato o di un’associazione di promozione sociale.

Indipendentemente dal relativo deposito presso il registro unico nazionale, tutti gli enti del Terzo settore sono tenuti alla redazione del bilancio di esercizio, nelle forme di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 13: l’attuale mancanza della modulistica, da definirsi con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, non esonera gli enti da tale adempimento, traducendosi detta mancanza esclusivamente nell’eterogeneità dei documenti contabili in questione.

L’applicazione della norma di cui all’articolo 14,comma 2, riguardante l’obbligo di pubblicazione annuale sul proprio sito internet degli emolumenti, compensi o corrispettivi, a qualsiasi titolo attribuiti dagli enti del Terzo settore ai componenti degli organi di amministrazione e controllo, ai dirigenti ed ai propri associati, non è in alcun modo condizionata dall’operatività del registro unico nazionale: essa, peraltro, in considerazione del riferimento temporale annuale ivi contenuto, dovrà cominciare a trovare attuazione a partire dal 1ˆ gennaio 2019, con riferimento alle attribuzioni disposte nel 2018, cioè nel primo anno successivo all’entrata in vigore della norma in esame.

Infine, nel documento del Ministero, viene affrontata la questione attinente la denominazione sociale dell’ente e all’utilizzo degli acronimi ETS, ODV, APS.

Fisco e tasse 9 gennaio 2018

www.fiscoetasse.com/rassegna-stampa/24510-codice-del-terzo-settore-2017-prime-indicazioni-.html

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MINORI

Autorità garante infanzia sollecita tavolo di concertazione su politiche educative

Conferenza di garanzia, istituiti quattro gruppi di lavoro. Prende il via una nuova organizzazione dei lavori della Conferenza nazionale per la garanzia dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, presieduta dall’Autorità garante Filomena Albano e composta dai garanti regionali e delle province autonome. Come spiegato dalla stessa Garante nel corso della seduta di questa mattina, tutte le questioni relative alle attività di selezione e formazione dei tutori volontari non verranno più trattate nell’ambito della Conferenza ma attraverso quattro gruppi di lavoro che si riuniranno all’incirca una volta ogni due mesi.

“Si tratta – ha spiegato la Garante Albano – di un’esigenza che nasce da recenti modifiche normative, ancora in corso di pubblicazione, che attribuiscono all’Autorità garante un compito di monitoraggio e prevedono che i garanti regionali e delle province autonome collaborino costantemente con l’Autorità, presentando una relazione sulle attività realizzate a cadenza bimestrale. La costituzione di quattro gruppi di lavoro consentirà di snellire e semplificare l’attività di monitoraggio, oltre che di promuovere la collaborazione e la messa in rete di buone pratiche”. La Garante ha poi precisato che l’obiettivo è quello di arrivare a una vera e propria “messa a sistema” delle attività attribuite ai garanti dalla legge 47/2017 (Disposizioni in materia di misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati) attraverso un allineamento e una standardizzazione delle procedure di selezione, formazione e trasmissione degli elenchi degli aspiranti tutori volontari ai Tribunali per i minorenni.

La riunione di questa mattina è stata anche l’occasione per fare il punto sull’attuazione della legge 47 regione per regione e, in particolare, sul numero aggiornato delle candidature di aspiranti tutori pervenute, sui corsi di formazione avviati e completati, sulla percentuale di cittadini che hanno confermato la disponibilità ad assumere l’incarico una volta completato il percorso formativo. Si è parlato inoltre delle principali criticità riscontrate e, in proposito, la Garante ha ricordato che nel mese di novembre è stata inviata una nota con la quale le istituzioni sono state sollecitate ad adottare provvedimenti che possano agevolare il tutore nello svolgimento delle sue funzioni.

www.garanteinfanzia.org/news/lautorit%C3%A0-garante-sollecita-l%E2%80%99adozione-di-misure-necessarie-lo-svolgimento-dei-compiti-dei

Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza 11 gennaio 2018

www.garanteinfanzia.org/news/conferenza-di-garanzia-istituiti-quattro-gruppi-di-lavoro

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Riconoscimento della responsabilità del coniuge in mala fede

Corte d’Appello Bari, Sezione famiglia civile, sentenza 939, 20 luglio 2017.

Deve essere riconosciuta una congrua indennità, ex art. 129 bis c.c., al coniuge in buona fede allorquando la nullità del matrimonio pronunciata dal giudice ecclesiastico per un vizio concernente la psiche di uno dei coniuge non può essere ritenuta imputabile all’altro coniuge atteso che quest’ultimo al momento del matrimonio era in buona fede.

Segnalazione dell’Avv. Francesco Indelli Sentenza

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/giurisprudenza/archivio/18732.pdf

Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18732 – 13 gennaio 2018

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/18732/divorzio

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OMOFILIA

Gay, la Chiesa tedesca suona la marcia nuziale

La chiesa tedesca apre ufficialmente la campagna per arrivare a qualche sorta di riconoscimento ecclesiale delle coppie omosessuali. Dopo la spinta vero i divorziati risposati, culminata nell’Amoris Lætitia, e mossa potentemente dal cardinale Walter Kasper, nel tentativo di colmare, abbassando le asticelle della dottrina e della morale, i buchi che ogni anno si aprono sempre più ampi nelle fila dei fedeli, cerca nuove strade.

L’ultima uscita in questo senso è del Vicepresidente della Conferenza Episcopale tedesca, mons. Fra-Josef Bode, che ha chiesto che si discuta della possibilità di benedire le relazioni omosessuali, perché crede che in queste relazioni “ci sia molto di positivo”.

Questa nuova iniziativa in realtà fa seguito a un’intervista concessa dal card. Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale, all’Herder Korrespondenz. Marx oltre a essere uno dei consiglieri più ascoltati dal Pontefice regnante, fa parte del C9, la commissione di cardinali incaricata di studiare la riforma della Chiesa e della Curia.

Marx propone che la Chiesa cattolica ridiscuta il suo pensiero, e insegnamento, in fatto di morale sessuale, e abbandoni atteggiamenti di “rigorismo cieco”. Secondo il porporato sarebbe difficile dire dall’esterno se qualcuno è in stato di peccato mortale. Un principio che si può applicare sia agli uomini e alle donne in situazioni irregolari, ma anche a chi vive una relazione omosessuale. È evidente da un lato l’influsso dell’ambiguità creata dalle noticine di Amoris Lætitia, e dall’altro il voluto abbandono dei criteri chiaramente stabiliti da quella che fino a prova contraria è la “Magna Charta” dell’essere cattolici, cioè il Catechismo.

Per Marx ci “deve essere rispetto per una decisione presa in libertà”, e “per la coscienza di ciascuno”. Non solo: bisogna tenere conto delle “circostanze concrete”, e ricordarsi della “responsabilità di ciascuno alla luce del Vangelo”. Anche se naturalmente “bisogna anche ascoltare la voce della Chiesa”.

Mons. Bode invece parlava al giornale Neue Osnabrücker Zeitung. “Credo che dobbiamo discutere di questo problema più in dettaglio all’interno della Chiesa”; perché, ha aggiunto, non serve “continuare a mantenere il silenzio” su questi temi. La proposta di cui vorrebbe discutere riguarda una qualche forma “benedizione” per le coppie omosessuali, anche se questa non deve essere scambiata per un matrimonio. Si chiede Bode, rispetto alle coppie omosessuali: “Come rendiamo loro giustizia? Come le accompagniamo pastoralmente e liturgicamente? Più in generale Bode, che ha partecipato ai Sinodi sulla Famiglia suggerisce di riconsiderare la posizione della Chiesa nei confronti dell’omosessualità attiva, che è considerata peccato grave. “Dobbiamo riflettere sul problema di come giudicare in un modo differenziato la relazione fra due persone omosessuali. Non c’è in essa così tanto di positivo, e di buono e di giusto, così che dobbiamo essere più giusti?”.

Al vescovo ha risposto Mathias von Gersdorff, un noto attivista cattolico in campo di vita e famiglia, oltre scrittore, che commenta sul suo blog le parole di Bode, e avverte “i cattolici tedeschi ortodossi” a essere pronti: “Il progressismo tedesco non vuole solo cambiare qua e là alcune cose, vuole cancellare tutto l’insegnamento cattolico e creare una religione fondamentalmente nuova”. L’intervista di Bode “introduce una nuova fase di distruzione”, e conclude: “Il cattolico ‘normale’ è perplesso e si chiede: quanto a lungo la Chiesa cattolica in Germania può continuare su questo cammino di distruzione e continuare a essere chiamata cattolica? Quando si giungerà a punto in cui ci sarà il dovere morale di rifiutarsi di pagare la tassa alla Chiesa?”.

Marco Tosatti La nuova bussola quotidiana 12 gennaio 2018

http://lanuovabq.it/it/gay-la-chiesa-tedesca-suona-la-marcia-nuziale

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POLITICHE PER LA FAMIGLIA

Hai tre figli? Nasce la Carta della famiglia

La Carta consentirà alle famiglie con tre o più figli di avere sconti sull’acquisto di beni e servizi. Era stata istituita con la legge di stabilità 2016, su spinta di Mario Sberna: per avere il regolamento ci sono voluti più di due anni. «Ora servono subito un paio di grossi accordi nazionali, per rendere concreta la Carta e farla partire. Ad esempio? Treni e musei», dice l’onorevole Sberna.

Ci sono voluti più di due anni. Il 9 gennaio 2018 in Gazzetta ufficiale n. 6 è stato pubblicato il decreto il decreto del Ministero del lavoro del 20.9.2017, che consentirà finalmente la nascita della Carta della Famiglia, due anni dopo la sua approvazione da parte del Parlamento italiano.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/01/09/18A00098/SG

La carta è destinata alla e famiglie con tre o più componenti minorenni, anche in affidamento familiare, con ISEE non superiore ai 30mila euro, anche con cittadinanza non italiana a patto che siano regolarmente residenti in Italia. Sarà rilasciata dai Comuni e consentirà l’accesso a sconti sull’acquisto di beni o servizi e la riduzioni tariffarie con i soggetti pubblici o privati: una rete tutta da costruire).

Cosa potrà essere scontato?

  • Prodotti alimentari, bevande analcoliche, prodotti per la pulizia della casa, per l’igiene personale, articoli di cartoleria e di cancelleria, libri e sussidi didattici, medicinali, prodotti farmaceutici e sanitari, strumenti e apparecchiature sanitari, abbigliamento e calzature.

  • Quanto ai servizi, potranno esserci sconti e riduzioni sulla fornitura di acqua, energia elettrica, gas e altri combustibili per il riscaldamento, sulla raccolta e smaltimento rifiuti solidi urbani, sui servizi di trasporto, sui servizi ricreativi e culturali, musei, spettacoli e manifestazioni sportive, su palestre e centri sportivi, su servizi turistici, alberghi e altri servizi di alloggio, impianti turistici e del tempo libero, per servizi di ristorazione, servizi socioeducativi e di sostegno alla genitorialità, istruzione e formazione professionale

La Carta era stata istituita il 28 dicembre 2015, con la legge di stabilità 2016 (legge n. 208/2015, art. 1, comma 391) per forte spinta di Mario Sberna, onorevole di Democrazia Solidale e già presidente dell’Associazione Famiglie Numerose. Da allora però la Carta era stata sostanzialmente dimenticata nei cassetti di Ministeri. Ecco quindi ora il decreto che fissa criteri e modalità per il rilascio della Carta della famiglia. La Carta sarà un tesserino cartaceo (il costo di emissione – precisa il regolamento – è a carico del richiedente), è biennale e viene emessa dal Comune dove il nucleo familiare ha la residenza anagrafica, su richiesta degli interessati, previa presentazione della Dichiarazione Sostitutiva Unica ai fini ISEE in corso di validità.

I benefici possono essere attivati – a seconda delle categorie merceologiche dei beni e delle tipologie di servizi – tramite convenzioni nazionali con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, con le Regioni e le Province autonome, con i Comuni. Una volta siglate le convenzioni, i titolari della Carta potranno poi ottenere i benefici previsti esibendo il tesserino e un documento di riconoscimento. D’altro lato i soggetti che stipulano queste convenzioni in favore delle famiglie con figli diventano «Amico della famiglia» se concedono sconti o agevolazioni pari o superiori al 5% rispetto al normale prezzo di listino o all’importo ordinario e «Sostenitore della famiglia» se le agevolazioni sono pari o superiori al 20%.

Per Mario Sberna, che ricorda di aver «quasi ogni settimana chiesto aggiornamenti al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali», l’unico commento oggi è un «finalmente! Possibile che bisognasse aspettare due anni per dare attuazione a una cosa tanto semplice?». La speranza ora è che la struttura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali «concluda rapidamente duo o tre grossi accordi nazionali, per dare contenuto alla Carta e lanciarla concretamente», afferma Sberna. «So che con i ministri Delrio e Franceschini i contatti sono già avviati da tempo e che c’è una buona disponibilità, ma ovviamente nessun discorso poteva essere concluso senza il decreto e il regolamento: avere sconti con Trenitalia e con i musei sarebbe un debutto significativo per la Carta, poi mi auguro che inizino a farsi vivi i privati».

Il secondo livello su cui attivarsi è quello locale e anche Anci aveva già in passato dato la propria disponibilità: «ad esempio sulle tariffe dei servizi comunali, gli abbonamenti per il trasporto pubblico… Ci sono molti Comuni che non aspettavano altro che avere questa possibilità. Diciamo che adesso la struttura c’è, nazionale, voluta dal Parlamento, ora occorre lavorarci dentro e anche le associazioni a livello locale dovranno avere.

Sara De Carli Vita.it gennaio 2018

www.vita.it/it/article/2018/01/15/hai-tre-figli-nasce-la-carta-della-famiglia/145622

 

Carta Famiglia 2018, come funziona

Arriva la carta Famiglia: sconti e agevolazioni per le famiglie numerose. Dopo due anni di attesa, arriva finalmente la carta Famiglia, istituita dalla legge di Stabilità 2016 [Art.1 Co. 391 L. 208/2015] e diventata ora operativa grazie alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del relativo decreto attuativo [Decr. Del Ministro del Lavoro 20/09/2017].

Questa carta, da non confondere con la carta Rei o con la vecchia Social Card, non eroga direttamente un contributo alle famiglie, ma dà diritto a diversi sconti e agevolazioni per l’acquisto di beni e servizi.

1 Chi ha diritto alla carta Famiglia 2018

  1. Nazionalità italiana o nazionalità straniera con regolare permesso di soggiorno

  2. Residenza nel territorio italiano,

  3. Almeno tre componenti minorenni, figli o affidatari

  4. ISEE non superiore ad euro 30.000.

2 Come si chiede la carta Famiglia 2018

La richiesta della Carta va effettuata al Comune di residenza da uno dei genitori o affidatari dei minorenni appartenenti al nucleo familiare. In caso di componenti del nucleo con diversa residenza anagrafica, la residenza familiare è quella dichiarata a fini ISEE.

3 Come funziona la carta Famiglia 2018

La carta Famiglia è una tessera che deve recare obbligatoriamente i seguenti elementi:

  • Sul retro, il logo del Comune che l’ha emessa;

  • Il numero progressivo della tessera, preceduto dal codice Comune;

  • I dati anagrafici e il codice fiscale dell’intestatario;

  • Il luogo e la data di emissione;

  • La data di scadenza.

La validità della carta è di due anni: la carta Famiglia in corso di validità permette di accedere a particolari sconti per l’acquisto di specifici beni o servizi.

Per fruire del servizio è necessario presentare a chi vende il bene o eroga il servizio, oltre alla carta, anche un documento di riconoscimento in corso di validità al partner convenzionato.

4 A quali sconti dà diritto la carta Famiglia 2018

Le agevolazioni potranno essere assicurate sia da soggetti privati che pubblici, a seguito di una regolare convenzione stipulata con il Ministero o gli enti locali.

Le famiglie potranno trovare online la lista delle aziende e enti che garantiscono i benefici, sia sul sito del Ministero del lavoro che sui siti istituzionali di ogni esercizio convenzionato. Questi si potranno distinguere per l’esposizione di un bollino con il logo dell’iniziativa che potrà avere due possibili diciture:

  1. «Amico della famiglia»

  2. «Sostenitore della famiglia»,

Noemi Secci Le Guide La legge per tutti 10 gennaio 2018

www.laleggepertutti.it/190823_carta-famiglia-2018-come-funziona

www.fiscoetasse.com/rassegna-stampa/24528-carta-famiglia-sconti-per-i-nuclei-numerosi.html

 

Congedo obbligatorio 2018: 4 giorni per i papà

Dal 2018 il congedo obbligatorio retribuito per i padri passa da due a 4 giorni. La misura era stata istituita dalla legge Fornero per un solo giorno e poi portata a due giorni dalla legge di stabilità 2015 per il 2016 e 2017.

La stessa legge aveva anche istituito il congedo facoltativo di due giorni poi ridotti a uno e sospeso del tutto l’anno scorso. Nel 2018 è ripristinata la possibilità di utilizzare un giorno come congedo facoltativo, al posto di un giorno del congedo materno, su libera scelta dei genitori.

Si ricorda che i giorni di astensione obbligatoria dal lavoro per i padri godono della retribuzione piena, erogata dall’INPS, e potranno anche essere effettuati in concomitanza con l’assenza della madre e quindi si aggiungono al congedo di maternità.

I giorni di congedo paterno possono essere utilizzati anche in forma non continuativa. Per utilizzarlo è sufficiente fare richiesta scritta all’azienda con almeno 15 giorni di anticipo sulla data presunta del parto. Le misure di congedo sia obbligatorio che facoltativo possono essere utilizzate per le nascite o adozioni che si verificano nel 2018.

Il beneficio va utilizzato entro i cinque mesi successivi alla nascita o alla adozione o affidamento del bambino. I giorni possono essere utilizzati anche in forma non continuativa.

Per il congedo facoltativo di un giorno va anche allegata una dichiarazione della madre in cui rinuncia ad un giorno del suo congedo di maternità e la comunicazione va trasmessa anche al datore di lavoro della madre.

In caso di mancato utilizzo non ci sono sanzioni né per il padre né per il datore di lavoro.

Congedi obbligatori per i padri utilizzo in aumento. Le misure di congedo per i padri in occasione della nascita o adozione dei figli sono stati un importante segnale anche se di portata limitata per contribuire a creare una diversa consapevolezza nella società riguarda la necessita di collaborazione di entrambi i genitori nella cura dei figli.

C’è stato un significativo incremento nell’utilizzo che è passato, per il congedo facoltativo dei dipendenti del settore privato, da circa 5mila del 2013 a più di 9mila unità nel 2016, mentre il congedo obbligatorio è passato da più di 50mila a 92.800 utilizzatori nel 2016.

In media i congedi sono utilizzati attualmente da circa il 50% dei genitori, con grandi differenze nelle percentuali delle diverse Regioni italiane: più del 50% degli utilizzatori è concentrato in tre Regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Susanna Finesso Fisco e tasse 15 gennaio 2018

www.fiscoetasse.com/approfondimenti/11296-in-vigore-il-congedo-obbligatorio-di-un-giorno-per-i-pap.html

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SCRITTI

Il crollo del “Noi”

Qui al cohousing [coresidenza] Ernesto ci versa il caffè seduti intorno al tavolo. E’ un Natale triste per Anna e Carlo. Ci parlano della loro crisi di coppia, della decisione di separarsi, del dolore di tutto questo, di quello di Emma, la loro bimba di 10 anni, e della decisione di andarsene entrambi via dal cohousing, lui alla ricerca della sua identità e lei perché non reggerebbe i ricordi di vita insieme qui.

Hanno abitato finora l’alloggio all’ultimo piano, con le finestre che vedono, nei mattini limpidi, il Monviso. Hanno sempre partecipato alla vita del cohousing, alle feste, alle riunioni. Li guardiamo, loro, che hanno creduto nella famiglia, nel vivere con altri, nel vivere in campagna, e che il loro amore durasse per sempre. E lui in pianto le dice che non smetterà mai di amarla, che è come prima, e lei con gli occhi velati, guarda in basso, impassibile: non capisce, non è possibile.

E’ da tempo che Carlo ci pensa. Non sa più chi è, ha bisogno di ritrovarsi: il suo tempo, spazio, i viaggi. Ne parliamo. La crisi non è determinata da un altro amore o dal carico recente di Anna che si occupa della madre inferma, né dal cambiamento di lavoro di Carlo. Carlo è portatore di una crisi più ampia, che sentiamo anche noi.

E’ la crisi del “Noi “. L’affermazione della soggettività è stata una grande conquista della modernità, della dignità della persona come soggetto di diritti, una rivoluzione culturale da difendere. Ma con la globalizzazione è nato un nuovo individualismo: l’individuo iper-moderno, concentrato sul sé, sul proprio tornaconto e godimento personale che porta all’indebolimento dei legami, alla perdita di senso delle relazioni.

E la famiglia, luogo di sicurezza e sostegno da sempre, è diventata crocevia di fragilità. E’ una crisi della socialità, di tante forme comunitarie.

Piero Amerio, professore di psicologia sociale, analizza questa crisi della solidarietà in un mondo globalizzato e disunito, nel libro “Vivere insieme. Comunità e relazioni nella società globale.” (Bologna, 2017). Anche Monsignor Vincenzo Paglia, nel libro “Il crollo del Noi” (Bari, 2017), descrive una società di individui, gli uni accanto agli altri, senza la passione di sognare “in grande”, una cultura individualista che penalizza il più debole. E ci troviamo così a subire una “individualizzazione” che ci rende soli e smarriti.

E ne parliamo sino a notte fonda. Il dialogo ci aiuta a fare chiarezza. Olga, citando Mons. Paglia, dritta negli occhi a Carlo, gli dice:” smetti di chiederti: “chi sono”, e prova a chiederti: “per chi, sono io?”.

Domanda che apre a nuove forme di vicinanza, e forse anche a speranza, per Anna e Carlo.

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180113cielo.pdf

 

I ruoli nell’ambito familiare

Secondo la definizione del sociologo Neil J. Smelser: [Manuale di sociologia, Il Mulino Prentice hall International, 1995, p.18] “Un ruolo consiste nelle aspettative che si creano riguardo al comportamento di una persona quando questa si trova in una certa posizione all’interno di un gruppo.”

Il ruolo può nascere dalla necessità, dai bisogni o dalle scelte effettuate dalle singole persone, ma può venire affidato e richiesto da qualche responsabile o da qualche società e gruppo organizzato. Da queste necessità, bisogni o scelte nasce l’affidamento di un certo compito ben preciso, al quale è collegata anche una chiara e netta responsabilità. Qualunque ruolo, per essere funzionale, deve in qualche modo essere accettato dagli altri.

Nel mondo della marineria, il “ruolino” prescriveva a ciascun membro dell’equipaggio il compito che gli era affidato nella conduzione della nave. Naturalmente il comandante o l’ufficiale addetto affidava i vari ruoli tenendo presenti le necessità della nave ma anche e soprattutto, le caratteristiche, la preparazione e le capacità dei singoli marinai.

Il ruolo può però concretizzarsi anche in modo automatico. Ad esempio nel momento in cui una donna o un uomo hanno un figlio, questi diventeranno automaticamente, anche se solo nominalmente, padre e madre, mentre i loro fratelli acquisteranno il ruolo di zii e i genitori di questa donna e di quest’uomo saranno nonni.

In altri casi il ruolo può essere scelto dalle stesse persone allo scopo di trovare, in un determinato impegno, una nuova realizzazione o maggiori piaceri e gratificazioni: “Io voglio essere tua moglie; io voglio essere tuo marito”. “Io voglio essere madre per questo bambino adottato”.

Da quanto abbiamo detto si deduce facilmente che il ruolo:

  • Può essere scelto dalle singole persone

  • Può nascere da una necessità individuale o collettiva;

In ogni caso, per essere ben svolto, necessità di specifiche qualità e preparazione; ha bisogno di essere accettato dagli altri; richiede una grande responsabilità ma anche impegno, sacrificio e molta attenzione nella sua conduzione e realizzazione.

La molteplicità dei ruoli. Ognuno di noi può avere, e spesso ha più ruoli: si può essere contemporaneamente padre, zio, nonno, fratello, marito, responsabile aziendale, scrittore, sindacalista, volontario ecc. Per gli adulti avere più di un ruolo è la norma e non l’eccezione. Ed è forse per tale motivo che cercare di assumere molti e diversi ruoli e cambiarli a volontà ci appare non solo naturale ma anche molto facile e desiderabile: “Perché essere soltanto madre o padre e non anche insegnante, politico, scrittore e quant’altro?”

Sicuramente questo comportamento ci appare più interessante, stuzzicante, moderno e in linea con i tempi: “Che noia fare sempre le stesse cose” “Che bello cambiare e rimettersi in gioco”.

Tuttavia non sempre è facile e conveniente cambiare il proprio ruolo o assumerne uno nuovo o peggio aspirare a eccessive pluralità di ruoli, a volte tra loro contrastanti.

E ciò per vari motivi:

  1. È evidente che per ogni ruolo assunto che si aggiunge ai precedenti, aumentano gli oneri, gli impegni, le responsabilità e i sacrifici necessari per assolverli bene tutti e ciò comporta un grande dispendio di tempo ed energie che non sempre sono a nostra disposizione. Il buon senso e la visione reale e non illusoria della vita vorrebbe allora che assumessimo i ruoli che siamo in grado di affrontare e assolvere bene e correttamente e non tutti quelli che l’entusiasmo o le mode del momento ci suggeriscono o che ci vengono offerti.

  2. Spesso anche un ruolo apparentemente semplice ha bisogno di una lunga e attenta preparazione. Ciò è soprattutto vero oggi giacché per ogni compito che le moderne società notevolmente complesse e articolate richiedono sono necessari lunghi studi, master e tirocini che si protraggono spesso per decine d’anni. Pertanto il dispendio di tempo e di energie necessari per assumere un ruolo difficilmente potrà essere replicato e attivato per molti altri. In questi casi il rischio è di affrontare alcuni compiti essenziali per la famiglia e la società, senza la necessaria preparazione, rischiando di far male ogni cosa affrontata. Ciò evidentemente comporta delle conseguenze negative anche sul piano dell’autostima personale. Quando si cerca d’affrontare mansioni troppo diverse e contrastanti spesso siamo coinvolti dall’ansia e dai dubbi: “faccio bene o faccio male?”. “E’ corretto quello che faccio oppure no?”. Se cerchiamo di uscire da queste ansie e da questi dubbi trascurando alcuni compiti a favore di altri è evidente che deluderemo innanzitutto noi ma anche gli altri che si aspettano molto di più di quanto in realtà siamo capaci e siamo disposti a offrire.

  3. Ci sfugge, spesso, anche la considerazione che il ruolo è qualcosa di più di un compito momentaneo, esso tende a incidere e penetrare in profondità nel nostro essere, legandosi fortemente all’Io del soggetto segnando e modificando anche profondamente le caratteristiche di quest’ultimo. Pertanto se a volte una particolare personalità ha bisogno di esprimersi in una certa mansione, altre volte, al contrario è la mansione assunta che, in qualche modo, plasma e modifica la personalità del soggetto. Facciamo qualche esempio. Se una personalità tendente alla precisione cercherà e si attiverà per dei compiti confacenti alle sue caratteristiche personologiche, come fare il contabile o l’orologiaio, può tuttavia capitare anche il contrario: e cioè che un certo stile richiesto da questi compiti modifichi, anche se in parte, la personalità del soggetto e il modo con il quale questi si porrà nei confronti degli altri. Un altro esempio, fra i tanti che possiamo fare, è quello di un comandante militare il quale, volente o nolente, a motivo della lunga preparazione e della intensa disciplina alla quale deve sottostare per effettuare correttamente il suo lavoro, assume ben presto le classiche caratteristiche presenti in un buon militare: grinta, aggressività, impeto, resistenza, ubbidienza. Caratteristiche queste che non sempre sono confacenti con altri compiti nei quali lo stile militaresco non è necessario o addirittura è controproducente. Non solo i militari o gli orologiai avranno problemi nell’affrontare ruoli diversi e contrastanti. In generale possiamo dire che lo stile che si acquisisce nel mondo economico e dei servizi può risultare e spesso risulta scarsamente adeguato e confacente nei rapporti affettivi, educativi e relazionali E ciò in quanto nelle attività manageriali e professionali hanno molto valore la grinta e il dinamismo; l’intraprendenza e la determinazione; le parole e i ragionamenti; la capacità di cambiare e aggiornarsi. Mentre nel mondo degli affetti e delle relazioni, al contrario sono importanti: la serenità e la distensione; la dolcezza e la tenerezza; la disponibilità e l’accoglienza; le capacità di ascolto e di cura; le capacità di sacrificio ma anche la stabilità e continuità nel rapporto.

  4. Spesso quando si assumono più ruoli si entra in competizione con le altre persone con le quali si è costretti a condividere quel ruolo, in special modo quando non vi è un chiaro e netto punto di riferimento e un ben definito responsabile al quale far capo. In questi casi le gelosie e i contrasti anche intensi e violenti sono all’ordine del giorno. Il caso più frequente e grave lo troviamo proprio dentro le nostre case. Se a entrambi gli uomini e donne sono affidati, come avviene oggi nella nostra società, gli stessi ruoli educativi, di ascolto, attenzioni e accudimento verso i minori, gli anziani e le persone bisognose di cure e assistenza e, nello stesso tempo, viene ad entrambi data la stessa responsabilità sull’indirizzo sociale ed economico della famiglia, saranno facili e spesso gravi i contrasti sia per un diverso modo di giudicare, gestire e affrontare i vari compiti e le varie situazioni, sia per il nascere di confronti, gelosie e invidie: “Perché lui deve guadagnare più di me?” “Perché lei deve avere buona parte delle coccole dei figli e io no?” “Perché devo sottostare a quello che lei/lui dice o preferisce e non deve prevalere la mia idea, la mia opinione o la mia volontà?” “Perché lui/lei deve spendere non solo i suoi soldi ma anche i miei?”. Purtroppo affidare ad entrambi i coniugi stessi compiti e medesime funzioni e ruoli si è rivelato -e non era difficile prevederlo- il modo migliore per mettere uomini e donne l’uno contro l’altro e rendere stabilmente e perennemente conflittuale il rapporto tra i sessi.

  5. Vi è infine un altro problema del quale si parla poco: se un certo ruolo è affidato solo a una persona questa sentendosi pienamente responsabile del risultato si impegnerà a svolgerlo nel migliore dei modi, dando il massimo di sé, se non altro per soddisfare il suo orgoglio e la sua autostima, ma se lo stesso ruolo è affidato a due o più persone l’impegno sarà sicuramente più modesto in quanto, in caso di fallimento è facile dare la colpa all’altro o agli altri: “Che non hanno collaborato”; “Che non si sono impegnati abbastanza”; “Che hanno sbagliato nella loro condotta”; “Che sono stati dei pigri o degli incapaci”; e così via. Ancora una volta un importante esempio l’abbiamo nelle nostre famiglie. L’aver affidato lo stesso ruolo agli uomini e alle donne ha comportato un disinvestimento negli impegni e nelle responsabilità familiari specie nelle responsabilità educative. In quanto se qualcosa non funzione e purtroppo sono tante le cose che non funzionano nell’ambito delle famiglie e dell’educazione dei figli, è sicuramente colpa dell’altro; se invece qualcosa va bene è sicuramente merito nostro. Pertanto non è valorizzato adeguatamente il personale contributo e impegno.

  6. Per quanto riguarda i ruoli di responsabilità o autorità questi comportano non solo “onori” ma anche tanti “oneri”, che spesso superano le gratificazione dovute agli onori. Questo spiega molto bene il fatto che quando le leggi sulla famiglia hanno sottratto l’autorità di capo famiglia al marito, molto uomini come si direbbe oggi “non hanno fatto una piega”. Hanno cioè accettato di buon grado questa perdita del loro ruolo di “capo” ma in compenso hanno ceduto ben volentieri la responsabilità, la fatica, l’impegno, il sacrificio che questo ruolo comportava. La responsabilità condivisa in definitiva si è trasformata in una comune irresponsabilità giacché ogni componente della coppia non essendo investito formalmente in uno specifico compito ha pensato bene di scrollarsi di dosso ogni responsabilità, impegno e sacrificio. E ciò in quanto, come abbiamo detto prima, quando la responsabilità è condivisa è facile scaricare ogni impegno ma anche ogni eventuale colpa sull’altro.

Emilio Tribolato UCIPEM 8 gennaio 2018

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=593:i-ruoli-nell-ambito-familiare&catid=10&Itemid=163

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SEPARAZIONE

Una casa per i separati

Sarebbe bello che in ogni diocesi restasse un’opera strutturale di misericordia come ricordo di questo Anno Santo”. L’augurio di papa Francesco all’apertura del Giubileo della misericordia ha trovato terreno fertile in molte diocesi italiane. Del resto la prossimità quotidiana agli uomini e alle donne del loro tempo da sempre consente a diocesi, parrocchie, associazioni e organismi come la Caritas, a presbiteri e laici di cogliere sul nascere i disagi e le difficoltà in cui si trovano o cadono repentinamente molte persone, guardando anche al di là e più in profondità della varie “emergenze” evidenziate dai mass media.

La chiesa italiana può essere una chiesa che fa ancora fatica a sintonizzarsi sulla “conversione pastorale” chiesta da papa Francesco, ma va riconosciuto che nell’impegno verso i bisognosi mostra una rara capacità di ascolto. Basterebbe pensare a quanti, anche poco noti, fanno la vita di “preti di strada”, capaci di prestare ascolto e dare voce ai sofferenti, ai poveri, agli scarti della società, a quante iniziative vengono prese e rinnovate con intelligenza e compassionevole carità. Come dimenticare, agli albori della crisi del 2008, la tempestiva creazione da parte del cardinale Tettamanzi a Milano di un fondo diocesano di solidarietà per le famiglie di lavoratori disoccupati?

E se oggi la chiesa è accusata di “buonismo unidirezionale” nei confronti dei migranti è anche perché ha saputo cogliere, prima e meglio di altre istituzioni, l’impatto devastante che una gestione irrazionale del fenomeno migratorio avrebbe avuto sul tessuto sociale.

Così domani apre ad Albano una “opera strutturale di misericordia” che risponde efficacemente a una povertà nascosta: quella degli uomini separati che, pur avendo magari conservato un lavoro e il necessario alla semplice sussistenza, hanno perso una casa in cui vivere. Il progetto “Per essere ancora papà” offrirà un tetto e un focolare ad alcuni uomini – a scanso di obiezioni xenofobe, va sottolineato che sette su otto sono italiani – ritrovatisi soli, così da metterli in condizione di condurre un’esistenza dignitosa e poter, per esempio, accogliere con calore i figli affidati all’altro coniuge nei giorni in cui questo è loro consentito.

È un gesto semplice che ha richiesto un’elaborazione complessa e che testimonia come la chiesa si sforzi sempre di vedere l’essere umano in difficoltà, senza giudicarlo, senza discriminare su eventuali “colpe” che lo hanno condotto in una determinata situazione. È il vangelo che riprende il suo primato sulla legge, sulla dottrina e sulla disciplina, necessarie sì, ma non sufficienti ad aprire cammini di speranza e di comunione per quelli che si sentono ai margini o addirittura condannati ed esclusi. Un vangelo che non piace ai rigoristi né a chi ama esercitare un ministero di condanna, ma che è il vangelo di Gesù Cristo. La cura per le persone e la ricerca di alleviare la sofferenza ha il primato su ogni teoria o considerazione: così, di fronte a una famiglia andata in frantumi, non ci si interroga solo su un eventuale precetto violato né si soppesano le percentuali di colpevolezza, ma ci si fa carico anzitutto del peso che grava sul cuore delle persone, a cominciare dai più deboli.

E questo, per essere fatto con intelligenza, necessita anche di strutture, di programmazione, di attenzione agli aspetti più concreti e quotidiani, come l’iniziativa assunta da monsignor Semeraro nella diocesi di Albano. È un segno tangibile di quella “pastorale” che, lungi dall’ignorare la dottrina, si fa carico di calare nella carne viva delle persone i principi e i valori che nascono dal vangelo.

Per fare questo è indispensabile una prossimità quotidiana, un discernimento delle necessità anche nascoste, un ascolto del grido di dolore anche quando è sommesso e soffocato, una vigilanza sul tessuto sociale che si deteriora a poco a poco. Così il segno posto si rivela capace di andare al di là di ogni appartenenza confessionale: i cristiani nella società sono chiamati a restare vicini ai più deboli, a venire incontro ai bisogni dei più poveri, per quanto non appariscente e silenziosa possa essere la loro povertà e la loro sofferenza.

Enzo Bianchi la Repubblica 12 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180112bianchi.pdf

 

Case ai padri separati con l’8 per mille “Venite a viverci con i vostri bambini”

La Chiesa in campo per un’emergenza diffusa in tutta Italia La prossima struttura aprirà sabato ad Albano. Come in Kramer contro Kramer, il film del 1979 tratto da libro di Aver Corman, spesso dopo le separazioni restano solo macerie. In particolare quelle dei padri, costretti a combattere con l’indigenza se non, addirittura, a vivere per strada dormendo in macchina. Se ne sono accorte tante diocesi italiane che da qualche mese hanno deciso di utilizzare per i separati e i divorziati i fondi dell’8‰ destinati alla carità. L’ultima diocesi in ordine di tempo è Albano. Sabato, monsignor Marcello Semeraro, vescovo della cittadina laziale e segretario del C9, il Consiglio dei cardinali che aiuta il Papa nella riforma della Curia, inaugurerà la casa “Monsignor Dante Bernini”. Situata sul litorale di Tor San Lorenzo, ospiterà otto uomini (sette gli italiani) divorziati e separati — «non faccio distinzioni», dice Semeraro — che potranno vivere lì anche con i propri figli durante il tempo in cui sono loro affidati.

«La carità non va in vacanza», disse Francesco a Varginha, nel 2013, durante una visita nella favela di Rio de Janeiro. Lo sanno i tanti presuli che tutti i giorni vedono padri separati bussare alle proprie porte. Spesso usano le mense della Caritas per mangiare insieme ai figli. Ma la sofferenza più grande, per loro, è non avere un luogo in cui poter vivere insieme, una casa in cui poter dormire assieme.

Dal 2013, a Fano, grazie a 65mila euro messi a disposizione dalla Cei, la parrocchia San Cristofaro ha potuto realizzare un centro di accoglienza per quelli che il parroco, don Mauro Bargnesi, fondatore della casa “Padre sempre”, definisce «i nuovi poveri». Così a Foggia, la diocesi ha messo a disposizione quella che per molti anni è stata la Casa del clero. Per i separati, è stata prevista anche una «coppia tutor» incaricata di cercare di migliorare il rapporto con la coniuge e i figli. Per i vescovi, infatti, così anche ad Albano, lo scopo non è soltanto quello di dare accoglienza, ma se possibile di aiutare i separati a recuperare il rapporto interrotto.

La “Casa Francesco” per padri separati di Prato è stata inaugurata dalla Caritas della parrocchia di Santa Maria delle Carceri con l’associazione “Insieme per la famiglia”. Ha spiegato monsignor Carlo Stancari: «È una riposta ai papà separati. Esistono strutture per minori o donne ma non per quegli uomini che si sono divisi dalle rispettive mogli. Queste persone hanno subìto un fallimento affettivo con la separazione, ma è giusto che continuino ad avere un rapporto con i loro figli. Abbiamo voluto, quindi, dare una risposta, un aiuto a quei papà che hanno uno o più figli».

La Caritas di Palermo ha messo a disposizione un appartamento. La struttura può ospitare fino a dieci persone. Anch’essa si avvale dei fondi dell’8‰ e rientra nel programma “Housing first” che coinvolge 15 Caritas siciliane. Michele — il nome è di fantasia — è stato il primo padre separato a essere accolto. Quando ha bussato alle porte del centro d’ascolto aveva 51 anni. Aveva perso il lavoro e dopo mesi di crisi con la moglie, con cui è sposato da 30 anni, era in fase di separazione. Dopo la permanenza nell’appartamento ha ritrovato il lavoro ed è riuscito a riavvicinarsi alla moglie. Dice: «Essermi ritrovato a 50 anni senza un’occupazione, dopo aver lavorato una vita intera e con le difficoltà economiche che un licenziamento ha comportato, è stato anche motivo di forte crisi familiare e coniugale. Adesso desidero ricostruire la mia famiglia».

Paolo Rodari la Repubblica 12 gennaio 2018

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201801/180112rodari.pdf

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SESSUOLOGIA

Contraccezione. L’«ignoranza» giovanile e l’educazione che serve

Un’importante azienda farmaceutica diffonde un dossier secondo cui le ‘millennial’ avrebbero informazioni approssimative sulla sessualità. Come le loro madri.

Sessualità come merce di consumo o come dono prezioso che, nella relazione personale, arricchisce se stessi e costruisce futuro per tutti? Risposta quasi scontata, da quando il mercato ha fatto proprio l’argomento nelle sue infinite declinazioni e anche un problema serio e complesso come la pianificazione delle nascite è stato trasformato in una guerra commerciale tra case farmaceutiche e industrie elettroniche.

Su Amazon si possono trovare una ventina di apparecchi digitali diversi per il controllo dell’ovulazione e per la regolazione della fertilità, mentre per aggirarsi nell’universo delle pillole anticoncezionali, tra quelle a diverso dosaggio ormonale, ad azione prolungata, a lento rilascio, sottocutanee e tanto altro ancora, non basta ormai più nemmeno una laurea in ginecologia. Ma a fronte di un’offerta contraccettiva così ampia e così capillare, i giovani continuano ad ignorare il problema se è vero che il 41% delle gravidanze nel mondo (circa 208 milioni l’anno) arrivano al di fuori di qualsiasi pianificazione e – soprattutto – il 25% dei giovani ha rapporti sessuali senza alcuna precauzione. Sono i dati diffusi in questi giorni da una delle maggiori industrie farmaceutiche mondiali, la Bayer che, con un sintetico ma significato dossier, ha lanciato l’allarme contraccezione.

Allarme, naturalmente, secondo il punto di vista di una grande multinazionale che ha come obiettivo non mascherato quello di promuovere i suoi prodotti. Ma, nel perseguire l’intento, delinea una situazione, analizza una serie di dati raccolti in modo scientifico e trae delle conclusioni. Che possiamo riassumere in questo modo: le giovani di oggi, le cosiddette millennial, sono disinformate su sessualità, riproduzione e contraccezione più o meno come lo erano le loro madri e le loro nonne. Ma la libertà sessuale sommata al pressapochismo e alla presunzione frutto dell’ignoranza gioca loro brutti scherzi – il dossier Bayer non usa naturalmente queste parole – e troppo spesso arriva una gravidanza indesiderata.

Se gli aborti non aumentano è perché le nostre millennial, a differenza delle mamme – le baby boomer– hanno a disposizione la cosiddetta ‘contraccezione di emergenza’, cioè la pillola abortiva (per non lasciarci invischiare nei tranelli dell’antilingua), e provvedono in tempi rapidi. La relazione ministeriale di cui parliamo nella pagina accanto, conferma un dato che il dossier già anticipava. La duplicazione delle vendite di EllaOne, appunto la pillola dei cinque giorni dopo, soprattutto dopo che si può acquistare senza obbligo di ricetta, è frutto proprio della dilagante inconsapevolezza delle giovani generazioni. Ma, come abbiamo più volte documentato, il ricorso frequente alla contraccezione d’emergenza può avere pesanti conseguenze sulla salute e, al di là degli aspetti etici, non dev’essere archiviato come prassi a cui ricorrere in modo superficiale.

Un quadro drammatico che, secondo il dossier, specchio della cultura dominante sempre più orientata dal patto di ferro mercato-medicina-media, si risolve con «una scelta contraccettiva consapevole» in dialogo con il proprio medico. Più contraccezione insomma. Noi diciamo invece, più educazione, più scelte valoriali, più sforzi per dare ai ragazzi risposte di senso, non farmaci che vorrebbero risolvere il ‘problema’ senza però risolvere l’inquietudine che soffoca il cuore dei nostri ragazzi. E questo ruolo tocca per primo – e in modo insostituibile – ai genitori. Lo stesso dossier ci dice che le ragazze, nonostante internet, nonostante le pressioni mediatiche per medicalizzare le informazioni sessuali, si fidano in modo quasi esclusivo delle loro mamme. Il problema è che la maggior parte delle mamme dispone a sua volta di informazioni imprecise o approssimative. Il 51% ha dichiarato che a suo tempo «non possedeva informazioni necessarie per intraprendere una scelta consapevole».

Quasi la stessa sorte delle figlie che oggi, con una percentuale comunque ragguardevole, il 35%, rivela la stessa disinformazione. Ma un ragazzo, proprio su argomenti così intimi e delicati, desidera da un genitore informazioni ‘tecniche’ o una testimonianza di vita credibile e coerente?

Luciano Moia Avvenire 12 gennaio 2018

www.avvenire.it/attualita/pagine/giovani-sesso-e-pillole-ignoranza-ad-alto-rischio

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