NewsUCIPEM n. 677 –26 novembre 2017

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02 ADOZIONE Affidamento del minore e adozione mite: la continuità affettiva.

07 AFFIDO Partecipazione genitori affidatari nel giudizio di adozione dei minori

07 AFFIDO CONDIVISO Diritto di visita e residenza del minore.

08 Ecco come verranno determinate spese extra dei figli a Milano.

09 ALIENAZIONE GENITORIALE Ravvisata la condotta di alienazione nei confronti della madre.

09 AMORIS LÆTITIA Amoris lætitia e discernimento, ecco il compito dei preti.

12 CASA CONIUGALE Separazione: fuori casa il padre se è per il bene dei figli

12 CENTRO INTERN. STUDI FAMIGLIA Newsletter CISF – N. 42, 15 novembre 2017.

13 CHIESE CRISTIANE La Chiesa di Svezia boccia i termini maschili per riferirsi a Dio.

13 CODICE DELLA VITA Il codice materno e il codice paterno

15 CONSULENTI COPPIA E FAMIGLIAAssemblea AICCeF a Bologna il 3 dicembre 2017

15 CONSULTORI FAMILIARI Emilia e Romagna: Dati dei consultori familiari.

15 Il ruolo del Consultorio Familiare in una società che cambia.

17 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Brescia. Gruppi di parole per donne in menopausa e anziane.

17 Cosenza. Convegno “Papà dove sei? Guai a te se scompari!”.

17 Mantova. Parlarsi ed ascoltarsi in famiglia.

18 Parma Famiglia più. Incontro con i genitori.

18 Portogruaro. L’adolescenza tra regole trasformazioni.

18 Trento. Pisoni presidente Forum Associazioni Familiari Trentino.

19 CONVIVENZA Reato il matrimonio rom con una minorenne

19 DALLA NAVATA XXXIV domenica del tempo ordinario – Anno A – 26 novembre 2017.

19I peccati di omissione. (Enzo Bianchi)

21 ETS (già onlus) NON PROFIT Si sblocca il fondo da 91milioni, 1° bando per il Terzo settore “unito”

22 FRANCESCO VESCOVO DI ROMAPapa: nuovo processo matrimoniale vicino a chi è ferito.

23 GARANTE PER L’INFANZIA Le politiche x l’infanzia richiedono una visione di lungo periodo.

24Famiglie in crisi, al via il progetto Gruppi di Parola.

24 MATERNITÀ SURROGATA Attesa la Consulta. Il nodo del riconoscimento del minore.

25 MOBBING Il Mobbing: che cos’è e come ci si può difendere.

28 OMOGENITORIALITÀ Indicazione di due donne quali genitori.

28 PARLAMENTO CD 2°Commis. Assegno divorzile.

29 POLITICHE PER LA FAMIGLIA La famiglia dimenticata.

29 SEPARAZIONEAffido, giudice italiano incompetente se il minore risiede all’estero

30 SEPARAZIONI E DIVORZI Vademecum senza ricorrere ai tribunali davanti al sindaco.

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ADOZIONE

Affidamento del minore e adozione mite: la continuità affettiva nuova frontiera in tema di adozione

Affidamento e adozione. Entrambi gli istituti dell’adozione e dell’affidamento sono attualmente disciplinati dalla L. 4 maggio 1983, n. 184. Come è noto, ai fini dell’adozione legittimante, è previsto che il minore debba essere in stato di adottabilità, che presuppone una situazione di abbandono (mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori, se esistenti, o da parte dei parenti tenuti a provvedervi).

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/legge-4-maggio-1983-n.-184(3).pdf

www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/legge184%20del%201983.htm

La legge 4 maggio 1983, n. 184 sull’ adozione (titolata significativamente, a seguito della riforma introdotta dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, «Diritto del minore a una famiglia») delinea un ampio sistema di misure finalizzate a tutelare l’interesse del minore a crescere e ad essere educato nel proprio nucleo familiare.

www.camera.it/parlam/leggi/01149l.htm

Questo diritto “naturale” del minore può “affievolirsi” solo in presenza di specifiche condizioni. La sottrazione del minore alla famiglia, dopo l’attivazione degli interventi di tutela temporanea previsti dalla legge, è quindi da ritenersi una soluzione “limite” che ricorre ove risultino insuperabili le difficoltà della famiglia di origine nell’assicurare al minore un ambiente idoneo.

È utile una breve ricostruzione storica dell’istituto, alla luce del fatto che oggigiorno vi è la tendenza, sia della prassi che del legislatore, a smussare alcune rigidità insite nella disciplina dell’adozione, recuperando, sia pure in chiave di adeguamento ad una mutata situazione sociale, della cosiddetta piccola adozione prevista in precedenza, che non recideva i rapporti con la famiglia di origine.

L’affidamento era invece visto in funzione assistenziale, in collaborazione con gli enti locali. Il concetto di abbandono del minore, presupposto della dichiarazione di adottabilità, è un’acquisizione tutt’altro che recente nell’elaborazione giuridica e nelle formulazioni legislative del nostro paese; di minori abbandonati, infatti, parla già la L. 17 luglio 1890, n. 6972 sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, oltre che varie altre leggi più particolarmente volte all’assistenza minorile; ai minori moralmente o materialmente abbandonati, inoltre, si richiama l’art. 403 c.c., prevedendo il loro collocamento in luogo sicuro, a cura della pubblica autorità. Tuttavia, l’interesse delle istituzioni ai minori in condizioni di abbandono non era – inizialmente – finalizzato alla (ri)costruzione di un valido legame familiare alternativo a quello, inesistente o gravemente carente, del nucleo di origine, ma all’attuazione di tutta una congerie di interventi, aventi natura esclusivamente o prevalentemente amministrativa.

Si trattava, dunque, di un concetto disgiunto da quello di adozione, essendo quest’ultima originariamente finalizzata a fornire una discendenza alle coppie (abbienti) che ne fossero prive e non ad offrire una famiglia a bambini abbandonati.

È stato giustamente affermato che non più tardi di qualche decennio fa allontanare un bambino equivaleva a disporne l’istituzionalizzazione, sicché la popolazione delle strutture di accoglienza era tanto numerosa quanto composita nella tipologia dei problemi presentati.

Circa il merito delle ragioni che portavano alla scelta della soluzione istituzionale, va ricordato che esistevano fatti di costume che sembravano renderla obbligata e che, in quella fase storica, essa era avallata da convinzioni diffuse ed accreditate presso molta parte di operatori sociali e sanitari. Ad esempio, erano numerosi i figli di madri nubili, abbandonati od esposti, che (in alternativa al cosiddetto “baliatico”, che svolse una funzione socialmente preziosa) venivano accolti presso strutture in grado di ospitarli fino al sesto anno di età. Raggiunto tale limite, se non era ancora possibile che le madri se ne facessero carico, i minori, ormai portatori di sindromi carenziali di vario genere, venivano trasferiti negli istituti medico – psico – pedagogici (IMPP), la cui situazione interna non differiva sostanzialmente da quella delle “istituzioni totali per adulti”, di cui rappresentava spesso l’anticamera; infatti, allo scadere del diciottesimo anno di età, per molti di questi ragazzi – per lo più psichicamente deteriorati e divenuti socialmente inabili anche a causa della vita da internati condotta negli anni cruciali del loro sviluppo – la “carriera” istituzionale doveva obbligatoriamente proseguire e concludersi all’interno dell’ospedale psichiatrico.

Era prevista l’adozione dei maggiorenni, ovvero l’affiliazione, come forma di adozione minore, che aveva natura eminentemente assistenziale e si esauriva con il raggiungimento della maggiore età dell’affiliato, salvo la conservazione del cognome assunto o aggiunto.

È con la legge 5 giugno 1967, n. 431, istitutiva dell’adozione allora definita “speciale” – ma che ora a tutti gli effetti è da considerarsi ordinaria – che lo stato di abbandono diventa il presupposto per un intervento che potremmo definire ricostruttivo del legame familiare, sulla base dell’affermazione, resa esplicita dalla legge n. 184/1983, del diritto del minore di vivere all’interno della famiglia, possibilmente la propria, ma – quale extrema ratio – anche in un’altra.

Ecco, dunque, che la definizione sostanziale dell’abbandono assume un’importanza di primissimo piano nell’ambito dell’intera materia civilistica minorile, atteso che la rescissione del legame con la famiglia naturale d’origine, che ne costituisce la conseguenza, è il più drastico (e doloroso) degli interventi che il giudice possa operare, unitamente al successivo atto di costruzione “artificiale” di un nuovo legame.

Sebbene i lavori parlamentari della legge 5 giugno 1967, n. 431 avessero suggerito l’indicazione di un “catalogo” di fatti e circostanze costituenti abbandono, la scelta del legislatore fu di segno esattamente opposto, sostanziandosi nella “mera” enunciazione di un concetto – contenitore, da doversi “riempire” a cura dell’interprete di contenuti concreti.

Lo stato di abbandono nella legislazione vigente. Non vi è dubbio che il problema non si pone solo in caso di totale mancanza della famiglia d’origine, come accade allorché il minore non sia stato riconosciuto da alcuno dei genitori, ovvero sia stato materialmente abbandonato, cioè privato dell’essenziale per vivere; ma anche quando egli sia stato fatto oggetto di condotte commissive costituenti reato contro la vita, la libertà o la dignità della persona (si pensi a minori oggetto di abusi o sfruttamento sessuali, sevizie, maltrattamenti reiterati, etc.).

La consolidata giurisprudenza valorizza quella che potremmo definire una valutazione degli effetti, ritenendo sussistente la condizione di abbandono allorché il contegno dei genitori, lungi dal risolversi in una mera insufficienza dell’apporto indispensabile per lo sviluppo e la formazione della personalità del minore, comprometta o determini grave pericolo di compromissione per la salute e le possibilità di armonico sviluppo fisico e psichico del minore stesso. Di fronte ad un siffatto nocumento o al rischio di esso, successivi atteggiamenti o progetti genitoriali per un miglioramento della situazione in tanto rilevano in quanto, oltre che seri, siano oggettivamente idonei al recupero della situazione medesima.

Nell’ottica di una valutazione del pregiudizio subito dal minore, la Cassazione stabilisce che lo stato di abbandono che giustifica la dichiarazione di adottabilità di un minore presuppone l’individuazione, all’esito di un rigoroso accertamento, di carenze materiali ed affettive di tale rilevanza da integrare di per sé una situazione di pregiudizio per il minore, tenuto anche conto dell’esigenza primaria che questi cresca nella famiglia di origine, esigenza che non può essere sacrificata per la semplice inadeguatezza dell’assistenza o degli atteggiamenti psicologici e/o educativi dei genitori (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 13 gennaio 2017, n. 782, secondo la quale lo stato di abbandono deve desumersi da precisi elementi idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio).

Il bambino è dunque in stato di abbandono quando vi sia una obiettiva e non transitoria carenza di quel minimo di cure materiali, calore affettivo ed aiuto psicologico necessario a consentirgli un normale sviluppo psico – fisico.

Come è noto, quanto agli effetti dell’adozione il minore adottato acquista lo stato di figlio degli adottati e ne assume il cognome e cessano i rapporti giuridici tra adottato e famiglia d’origine.

L’adozione, dunque, è vista come una seconda nascita del minore, nella convinzione che si possa cancellare la sua storia precedente. Il rigore della previsione sulla cessazione dei rapporti con la famiglia di origine è stato smussato dalla prassi, che ricorre, anche nell’adozione legittimante, a forme di “adozione aperta”, in cui, pur essendoci l’interruzione dei rapporti con la famiglia di origine, viene disposta la prosecuzione dei rapporti di fatto con la stessa. Tale modalità applicativa dell’adozione legittimante, è stata in una certa misura recepita dalla legge sulla continuità affettiva del 2015 (l. 19 ottobre 2015, n. 173).

La finalità dell’affidamento. L’istituto dell’affidamento familiare, come alternativa rispetto al ricovero in un istituto di assistenza, soddisfa l’esigenza di allontanare un minore dall’ambiente di origine, quando questo non sia idoneo alla sua educazione (art. 2 l. n. 184/1983, come modificata dalla legge n. 149/2001). Esso può soddisfare sia momentanee difficoltà del nucleo familiare, sia carenze più profonde e durature, che potrebbero condurre ad un sostanziale abbandono del minore. A seconda della natura di tali difficoltà, si configurano diversi tipi di affidamento.

Nella logica dell’affidamento, il bambino si trova perciò ad avere due famiglie o comunque due nuclei affettivi di riferimento: quello in cui è nato e quello in cui è cresciuto per un certo periodo della sua vita. L’affido raggiunge il suo scopo quando gli affidatari consentano al minore di avere rapporti con la sua famiglia di origine, in funzione di supporto rispetto alla stessa, essendo essi destinatari dei doveri, ma non già dei poteri del genitore. È peraltro previsto in capo all’affidatario l’obbligo di agevolare i rapporti tra il minore ed i genitori e di favorirne il reinserimento nella famiglia di origine.

Presupposto necessario per l’istituto dell’affido è che la difficoltà in cui viene a trovarsi la famiglia di origine, seppure non sia a carattere momentaneo, non debba comunque sconfinare nello stato di abbandono materiale e morale, che potrà dar vita alla procedura di adottabilità (art. 8 L. n. 184/1983).

La situazione che giustifica l’affidamento etero-familiare, a norma degli artt. 2 e ss., L. n. 184/1983, come sostituiti dai corrispondenti articoli della L. n. 149/2001, e quella che conduce alla pronuncia di adottabilità si differenziano, dunque, in quanto la mancanza di “un ambiente familiare idoneo” è considerata nel primo caso, temporanea e superabile con il detto affidamento, mentre nel secondo caso, si ritiene che essa sia insuperabile e che non vi si possa ovviare se non per il tramite della dichiarazione di adottabilità.

La determinazione della linea di demarcazione tra le due situazioni potrà diventare assai problematica nei casi di affidamento di competenza del Tribunale dei Minori, laddove la durata dell’affido può anche protrarsi per anni.

La condizione del minore che si trovi in una situazione di affidamento sine die, che non sfoci in un’adozione e neppure in un rientro in famiglia, crea una situazione di incertezza nella definizione della sua identità personale, sicché questa tipologia di minore viene definita come “bambino nel limbo”, sospeso tra instabili appartenenze, lasciate nella confusione e ambiguità. Invece, nei casi di competenza del Giudice tutelare, presupposto fondamentale ed imprescindibile è costituito dalla provvisorietà dell’affido.

Nel provvedimento va indicato il tempo dell’affido che non può superare i 24 mesi, prorogabili dal Tribunale dei Minori. Non è determinato il tempo massimo. Tuttavia è prevalsa un’interpretazione giurisprudenziale per cui esso può al massimo durare per tre anni, sulla base del vecchio istituto dell’affiliazione (abrogato dall’art. 77 l. n. 183/1984), che serviva a stabilizzare gli affidi di oltre 3 anni (art. 404 c.c.) e che deduceva dall’abrogazione dell’istituto dell’affiliazione lo sfavore del legislatore per gli affidi ultratriennali.

Il principio della continuità affettiva nella giurisprudenza sovranazionale. Il rigore delle categorie giuridiche va coniugato con il principio della continuità degli affetti, secondo quanto è stato autorevolmente affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti c. Italia, relativa a un caso in cui una bimba fu sottratta agli affidatari per essere data in affidamento a fini adottivi di altra coppia. Essa distingue i casi in cui l’affidamento familiare abbia dato luogo al realizzarsi di relazioni familiari di fatto tra affidatari e minore, tali da integrare una famiglia, da quelli in cui ciò non avvenga. Secondo l’orientamento della Corte, pur escludendosi che possa essere affermato il diritto all’adozione degli affidatari, tuttavia, qualora risulti in concreto che il minore affidato abbia realizzato con i suoi affidatari un valido rapporto familiare, ben può pervenirsi all’accoglimento della domanda di adozione da costoro proposta.

La CEDU configura la nozione di vita familiare di cui all’art. 8 L. 4 maggio 1983, n. 184, come inclusiva di rapporti di fatto (Marcks/Belgio e Nyluhd/Finlandia), in particolare in un’ipotesi in cui i ricorrenti avevano vissuto per il tempo apprezzabile di 19 mesi con la bambina, che si era perfettamente inserita nel nucleo familiare. Dal punto di vista procedurale, la Corte osservava che non era stata valutata la domanda di adozione in casi particolari formulata dalla coppia affidataria. Il principio della continuità affettiva e la connessa esperienza dell’ “adozione mite”, sono stati valorizzati nella sentenza CEDU del 21 gennaio 2014, relativa al caso Zhou c/ Italia, in un caso di madre in condizioni di disagio psichico, che affidava sistematicamente il figlio ai vicini di casa ritenuti dai servizi non idonei, mentre la stessa era al lavoro, laddove (confronta par. n. 26) si afferma che «secondo le informazioni fornite dal Governo, diversi tribunali per i minorenni hanno applicato l’art. 44 l. n. 184/1993, oltre ai casi previsti dalla legge (…). La procedura si è conclusa con la condanna dell’Italia, in quanto (…) nessuna spiegazione convincente per giustificare la soppressione del legame di filiazione tra la ricorrente e suo figlio è stata fornita dal Governo» (cfr. par. 59). In senso analogo, cfr. anche la sentenza Todorova c. Italia 13 gennaio 2009, in un caso in cui la madre aveva optato per il parto anonimo, chiedendo tuttavia solo dopo quattro giorni dallo stesso, di riflettere sul riconoscimento nonché di essere ascoltata dal giudice.

In definitiva, il principio che emerge da questa giurisprudenza della CEDU è quello della pari dignità culturale e giuridica, ai fini della tutela del superiore interesse del minore, dell’adozione piena e chiusa, che comporta l’interruzione dei rapporti giuridici di fatto con la famiglia di origine, e l’adozione piena e aperta, che rompe i legami giuridici e mantiene solo i rapporti di fatto con alcuni membri della famiglia di origine. La scelta tra i due modelli di adozione va, dunque, effettuata in concreto, in base a ciò che è meglio per il bambino.

La legge n. 173/2015 Le riforme ultime in materia di affidamento e di adozione, mirano a dare attuazione all’interesse del minore ad una famiglia fondata su validi legami affettivi, piuttosto che su meri requisiti di tipo formale.

Si segnala che con l’entrata in vigore della L. 19 ottobre 2015, n. 173 (che ha avuto grande risonanza mediatica) sono state apportate diverse modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/10/29/15G00187/sg

Essa ha inteso introdurre un favor verso i legami costruiti in ragione dell’affidamento, avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia di fatto determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria. Il testo prevede una “corsia preferenziale” per l’adozione a favore di quest’ultima, allorquando – dichiarato lo stato di abbandono del minore – risulti impossibile ricostituire il rapporto del minore con la famiglia d’origine. Inoltre, laddove sia dichiarata l’adottabilità, il Tribunale dei minorenni, nel decidere in ordine alla domanda di adozione legittimante presentata dalla famiglia affidataria, deve tenere conto dei legami affettivi “significativi” e del rapporto “stabile e duraturo” consolidatosi tra la stessa e il minore.

In definitiva, tale corsia preferenziale opera soltanto a condizione che la coppia affidataria soddisfi tutti i requisiti per l’adozione legittimante previsti dall’art. 6 L. n. 184/1983 (stabile rapporto di coppia, idoneità all’adozione e differenza d’età con differenza d’età con l’adottato), nonché quando l’affidamento, contrariamente alla natura dell’istituto, si sia sostanziato di fatto in un rapporto stabile e prolungato sul piano anche affettivo tra la famiglia (o la persona) affidataria e il minore.

L’art. 4, comma 5-ter, l. n. 184/1983 prevede poi che, nel caso in cui il minore faccia ritorno nella famiglia di origine o sia dichiarato adottabile o sia adottato da famiglia diversa da quella affidataria, sia comunque tutelata, se rispondente all’interesse del minore, la continuità delle positive relazioni socio-affettive consolidatesi durante il prolungato periodo di affidamento.

Ai sensi dell’art. 4, comma 5-quater, L. n. 184/1983 il giudice nel decidere deve non solo tenere conto della valutazione dei servizi sociali, ma anche procedere all’ascolto del minore ultradodicenne e, se capace di discernimento, anche del minore infradodicenne.

L’art. 2 L. n. 173/2015 interviene sul comma 1 dell’art. 5 della legge n. 184/1983, che riguarda i diritti e doveri dell’affidatario, garantendo alla famiglia o alla persona cui sia stato affidato il minore la legittimazione ad intervenire nei procedimenti che riguardano il minore. Più in particolare la norma impone l’obbligo, a pena di nullità, di convocare l’affidatario in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato, riconoscendogli nel contempo la facoltà di presentare memorie nell’interesse del minore.

L’art. 3 L. n. 173/2015 introduce un ulteriore comma, il comma 1-bis, nell’art. 25 l. n. 184/1983. La nuova disposizione prevede che le norme di cui al comma 1 dell’art. 25 in tema di adozione, trovino applicazione anche nell’ipotesi di prolungato periodo di affidamento. Essa sembra dunque contemplare l’ipotesi, di frequente verificazione, in cui l’affidamento abbia luogo in situazioni di difficoltà non transitorie, suscettibili di sfociare in stato di abbandono. Proprio in tali ipotesi, l’affidamento rappresenta un titolo preferenziale per l’affidamento preadottivo, pur non computandosi ai fini del compimento di tale periodo.

Nella prassi si verificano molteplici casi di questo tipo, sicché, in assenza di ricorso del PM per la dichiarazione di adottabilità, e non potendo ricorrere allo strumento dell’art. 10 Legge n. 184/1983, si anticipano già in questa fase le valutazioni comparative, anche in vista di un’adozione ex L. n. 184/1983.

La legge sembra contemplare l’ipotesi in cui l’affidamento duraturo sfoci sia in adozione legittimante, anche nella forma di adozione aperta, sia nell’adozione in casi particolari.

L’art. 4 L. n. 173/2015, infine, risolve i dubbi giurisprudenziali sorti in relazione all’art. 44 L. 184/1983, nella parte in cui fa riferimento alla “adozione in casi particolari”. Il testo, nel confermare la linea interpretativa favorevole a considerare positivamente i legami costruiti in ragione dell’affidamento, specifica che essi hanno rilievo solo ove il rapporto che si è instaurato, in ragione del protrarsi anomalo del periodo di affidamento, abbia di fatto creato una speciale relazione affettiva tra il minore e la famiglia affidataria. Lascia perplessa la previsione per cui l’anzidetta trasformazione in adozione in casi particolari possa avvenire nella sola ipotesi di cui alla lett. a). Sembra più naturale il collegamento con la lett. d), laddove il minore abbia mantenuto rapporti con la famiglia di origine.

Secondo le prime applicazioni giurisprudenziali, la finalità della legge n. 173/2015 è quella di preservare «il diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» sancendo, in tal direzione, anche una sorta di preferenza nel caso di procedimento adottivo, in favore delle famiglie che hanno instaurato con il fanciullo un «legame significativo affettivo»: solo ove sussista tale legame opera il novellato art. 5 legge n. 184/1983, mentre in caso di affidamento all’ente – quando il tribunale quindi applica una limitazione della responsabilità genitoriale, ma non instaura un legame affettivo tra l’ente e il minore – il Tribunale non è tenuto alla convocazione dell’affidatario o del collocatario.

È comunque inammissibile l’impugnazione contro la sentenza di adottabilità proposta dagli affidatari, non essendo parti del giudizio.

In definitiva, pur essendo stata valutata positivamente la legge n. 173/2015, è stata criticata sotto il profilo della mancata innovazione della disciplina sui poteri e doveri degli affidatari ex art. 5 L. n. 184/1983.

Semi-abbandono permanente e sperimentazione dell’adozione mite. La sperimentazione della cosiddetta “adozione mite” è cominciata nel giugno 2003 come semplice prassi giudiziaria autorizzata dal CSM nel Tribunale per i Minorenni di Bari e fondata sul parziale insuccesso della legislazione in tema di affidamento familiare e sull’esigenza di dare maggiore impulso al processo di deistituzionalizzazione dei minori (in vista della scadenza del dicembre 2006 per la chiusura degli istituti).

Il punto di partenza del discorso è costituito dalla constatazione che il numero dei bambini dichiarati adottabili e poi adottati era andato notevolmente diminuendo negli ultimi anni, a conferma che le situazioni di pieno abbandono morale e materiale tendevano a ridursi, mentre restava sempre alto quello delle domande di adozione. A ciò si aggiungeva che l’adozione internazionale, verso cui molte coppie si orientano, ha costi alti, che spesso scoraggiano gli aspiranti adottanti.

La sperimentazione si innestava sulla constatazione che l’impostazione normativa aveva trascurato del tutto il caso frequente della famiglia inidonea parzialmente, ma in modo continuativo, a rispondere ai bisogni educativi del figlio; che è cioè incapace di rispondere alle sue esigenze educative, ma che non lo ha abbandonato e, anzi, ha con lui un rapporto affettivo significativo, anche se inadeguato. In tal caso, da un lato, non è opportuno nell’interesse del minore che tale rapporto venga del tutto cancellato, ma, dall’altro, non esiste una ragionevole previsione di pieno recupero di esso. Si tratta del cd. semiabbandono permanente, che è privo di qualunque riconoscimento normativo, in quanto riceve quale risposta solo l’affidamento familiare: viene, cioè, gestito come se si trattasse di un’inidoneità familiare di carattere temporaneo, mentre si tratta di cosa ben diversa.

Una riflessione in termini giuridici sulla nozione dottrinaria di semi – abbandono permanente si fonda sulla dicitura contenuta nell’art. 44 L. n. 184/1983 «quando non ricorrono le condizioni dell’art. 7», che ha indotto la prevalente giurisprudenza a ritenere che l’adozione in casi particolari prescinda dalla dichiarazione di adottabilità dello stesso, se sussistono i presupposti sostanziali dello stato di abbandono. Un’interpretazione evolutiva muove dalla lettura coordinata tra l’art. 44 con riferimento all’esclusione dell’art. 7 e la lett. d., che fa riferimento all’impossibilità di affido preadottivo, per ritenere che possa pervenirsi all’adozione in casi particolari, anche quando non ricorrano situazioni di abbandono del minore tali da giustificare una pronuncia di adottabilità.

Uno studio effettuato dal Dipartimento di Psicologia presso l’Università di Bari ha acclarato il successo dell’esperienza, essendosi proceduto ad adozione cd. mite in 168 casi, nella maggior parte dei quali con il consenso dei genitori biologici. L’opinione manifestata dai soggetti coinvolti in focus – groups omogenei evidenziava come criticità dell’esperienza il rischio di ambiguità e insicurezza nella costruzione delle relazioni parentali e il timore negli adottanti di pericolose interferenze della famiglia di origine, mentre come punto di forza si evidenziava la più serena accettazione della sua storia da parte del minore e la salvaguardia di esigenze di continuità affettiva. Un ulteriore rischio era quello di strumentalizzazione dell’adozione mite, al fine di pervenire in modo indiretto ad un’adozione piena. Si evidenziava inoltre la necessità, per la riuscita del percorso, di una costante opera di sostegno da parte dei servizi, anche nel post –adozione.

Quanto agli esiti dei casi di adozione mite, si evidenziava che nella grande maggioranza dei casi i bambini non mantenevano rapporti con la famiglia di origine, salvo che con i fratelli, per loro scelta. Rispetto agli altri adottati, questi bambini parevano più sereni, anche se, rispetto ai minori in adozione chiusa, presentavano una maggiore insicurezza nell’attaccamento. Solitamente venivano anche meno i rapporti tra la famiglia biologica e quella adottiva.

In conclusione. La sperimentazione barese sull’adozione mite è stata oggetto di accese polemiche, essendo stata accusata di aver forzato il dato normativo della legge n. 184/1983 dilatando l’ambito di applicazione dell’istituto, concepito dal legislatore come residuale, dell’adozione in casi particolari. Un profilo di criticità di tale sperimentazione è peraltro ravvisabile nel dato di realtà per il quale le coppie che propongono istanza di adozione sono in generale poco propense ad accettare il mantenimento dei rapporti tra il minore e la famiglia di origine. Sta di fatto, peraltro, che tale sperimentazione ha avuto il merito di anticipare i recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, seguiti dallo stesso legislatore, che hanno valorizzato il principio della continuità affettiva, così depotenziando una superata visione massimalista dell’adozione fondata sulla cancellazione della storia precedente del minore, ferma restando la valutazione delle peculiarità dei casi concreti.

Alla luce di tale evoluzione, sembra possibile recuperare il patrimonio di esperienza della cosiddetta ‘adozione mite’, valorizzando esperienze di coordinamento tra tribunale, servizi sociali e privato sociale, al fine di istituire un bacino condiviso di coppie o di persone singole, adeguatamente selezionate e formate, disponibili all’affidamento a lungo termine di minori con una storia personale e relazionale significativa, suscettibile di evolvere in provvedimenti adottivi.

Resta purtroppo confermato dalla prassi giudiziaria diffusa, salvo alcune lodevoli eccezioni come il territorio di Catania, il mancato funzionamento dell’affidamento familiare di durata limitata nel tempo come fase di passaggio rispetto al rientro in famiglia o al reperimento della famiglia adottiva. Ne consegue che ancor oggi i periodi di permanenza in regime comunitario tendono a prolungarsi, con il progressivo aggravarsi dello stato di deprivazione affettiva del minore.

Valeria Montaruli, presidente del Tribunale per i minori di Potenza il familiarista 20 novembre 2017

http://ilfamiliarista.it/articoli/focus/affidamento-del-minore-e-adozione-mite-la-continuit-affettiva-come-nuova-frontiera

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AFFIDO

Imprescindibile la presenza e la partecipazione dei genitori affidatari nel giudizio di adozione dei minori.

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 27137, 15 novembre 2017.

A fronte della sentenza della Corte di Appello che revocava lo stato di adottabilità del minore, affidandolo al padre naturale, proponevano ricorso per cassazione, il tutore ed il Procuratore generale, adducendo, fra gli altri motivi relativi alla mancata valutazione di gravi motivi inerenti l’inadeguatezza del genitore naturale, che i genitori affidatari del minore non fossero stati convocati, nonostante essi debbano essere convocati a pena di nullità.

La Corte ribadisce che, come modificato dall’art. 2, L. 173/2015, l’affidatario o l’eventuale famiglia collocataria devono essere convocati, a pena di nullità, nei procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, di affidamento e di adottabilità relativi al minore affidato e hanno facoltà di presentare memorie scritte nell’interesse del minore. Il ruolo degli affidatari consiste nella costruzione del contesto relazionale del minore, spesso primario, e nella conseguente conoscenza della sua indole e dei suoi comportamenti, bisogni e criticità, secondo una valutazione fondata sull’esperienza relazionale.

Osservatore nazionale sul diritto di famiglia 18 novembre 2017

http://www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17507208/imprescindibile-la-presenza-e-la-partecipazione-dei-genitori-affidatari-nel-giud.html

Il giudice non può revocare l’affidamento e decidere che il minore faccia ritorno alla famiglia di origine senza aver assolto all’obbligo di convocazione dei genitori affidatari, i quali hanno il diritto di partecipare al giudizio stante il ruolo degli stessi nello sviluppo psico-fisico del minore. La L. n. 184 del 1983, art. 5, comma 1, a seguito della modifica operata con la L. n. 173 del 2015, prevede espressamente tale diritto degli affidatari, con i quali il minore instaura spesso una relazione affettiva di media o lunga durata, riconoscendo in loro delle figure significative e caratterizzanti fasi decisive della propria vita.

Sentenza file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/cass-civ-n-27137-2017.pdf

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AFFIDO CONDIVISO

Diritto di visita e residenza del minore

Cos’è il diritto di visita e come si intreccia con la questione del collocamento prevalente dei figli.

Il diritto di visita è il diritto/dovere di ciascuno dei genitori di conservare il proprio rapporto affettivo ed educativo con i figli minori anche a seguito della separazione dal coniuge e a prescindere dal fatto che i piccoli siano collocati prevalentemente presso l’ex.

Esso, nel tempo, è stato elevato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza da mero interesse riconosciuto a favore dei genitori a vero e proprio diritto soggettivo.

La residenza del minore. In linea generale, a seguito della separazione dei genitori il minore conserva la residenza posseduta in costanza di matrimonio o di convivenza della mamma e del padre, rimanendo all’interno della casa coniugale. Si tratta, infatti, di una scelta idonea ad attutire le conseguenze psicologiche che la fine della relazione dei genitori può avere sui figli.

Tuttavia ciò non esclude che, per esigenze di vario genere della famiglia, il minore si trovi a cambiare casa e ad abbandonare l’abitazione ove è cresciuto (ad esempio perché la stessa viene venduta o perché, per le più disparate ragioni, egli viene collocato presso il genitore che si allontana dalla casa familiare).

In generale, il principio di riferimento è quello per cui il minore detiene la stessa residenza del genitore convivente. Ciò pur sempre nel rispetto del supremo interesse della prole, che è il criterio di valutazione centrale che deve sempre orientare le scelte del giudice della separazione.

Diritto di visita e collocamento del figlio. Come detto, il diritto di vista è strettamente connesso alla questione del collocamento prevalente del figlio: ha diritto di visita, infatti, il genitore diverso dal collocatario.

A tale proposito, la prassi più diffusa è da sempre quella di collocare il minore presso uno dei genitori e di stabilire dei giorni, dei periodi e degli orari durante i quali il piccolo trascorrerà il suo tempo con l’altro genitore, al fine di mantenere un legame solido e costante sia con la mamma che con il papà.

In criterio che ha a lungo orientato la scelta del genitore collocatario è stato quello della “maternal preference”, che individua nella madre il genitore con il quale i figli devono convivere in maniera prevalente e che trova la sua ragione nel rapporto di dipendenza fisica e materiale che lega, generalmente, i figli alla figura materna specie in relazione alle loro esigenze primarie di vita.

Oggi, tuttavia, il criterio della “maternal preference” ha iniziato ad essere scalfito, specie a seguito dell’affermazione del principio della bigenitorialità e di quello della parità genitoriale. Si pensi, ad esempio, alla posizione del Tribunale di Milano che ha recentemente elevato a criterio ispiratore per la scelta del collocamento dei minori quello della “neutralità del genitore affidatario”, che non fa distinzione tra madre e padre ma guarda al “solo preminente interesse del minore” considerando che non può essere “il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale”

L’abbandono del collocamento prevalente. A proposito di collocamento del figlio e diritto di visita va comunque dato conto del fatto che, negli ultimi tempi, alcuni Tribunali hanno deciso di andare al cuore dell’affidamento condiviso, interpretandolo nel senso di escludere il collocamento prevalente del figlio presso uno dei genitori, a favore della parità tra madre e padre.

Ad esempio, a inizio 2017 la sezione famiglia del Tribunale di Brindisi ha diffuso delle linee guida nelle quali ha decretato la necessità che sia la mamma che il papà siano coinvolti quotidianamente nella crescita e nell’educazione dei figli prevedendo che questi ultimi vengano domiciliati presso entrambi i genitori, con pari possibilità per ognuno di frequentarli, senza un’imposizione definita a priori dei tempi da trascorrere con ciascuno, e lasciando quindi alla residenza dei minori una rilevanza meramente anagrafica.

Esclusione o limitazione del diritto di visita. Il diritto di visita può essere escluso o limitato soltanto in casi particolari, accertati giudizialmente a seconda delle circostanze del caso concreto (ad esempio, nel caso in cui uno dei genitori commetta un crimine nei confronti della famiglia) e soltanto laddove la concessione della visita rischi di trasformarsi in una potenziale lesione dell’equilibrio psicofisico del minore.

In tutte le altre ipotesi, posto che il diritto di visita a favore dei genitori è anche un vero e proprio dovere a carico degli stessi, a fronte di gravi inadempienze di un genitore sul punto, l’altro può ricorrere al giudice ex art. 709-ter del codice di procedura civile per segnalare i pregiudizi arrecati al minore e l’irregolare svolgimento delle modalità dell’affidamento.

Il giudice, a questo punto, può modificare i provvedimenti in vigore e può decidere, anche congiuntamente, di ammonire il genitore inadempiente, di disporre il risarcimento dei danni a suo carico nei confronti del minore e/o dell’altro genitore e di condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra 75 euro e 5mila euro a favore della Cassa delle ammende.

Per approfondimenti vai alla guida: “Il diritto di visita”

www.studiocataldi.it/guide_legali/affidamento_dei_figli/il-diritto-di-visita.asp

Guida legale Newsletter Giuridica Studio Cataldi 23 novembre 2017

www.studiocataldi.it/guide_legali/affidamento_dei_figli/diritto-visita-residenza-affidamento-figli.asp

 

Ecco come verranno determinate spese extra dei figli a Milano

Una delle ragioni su cui i genitori separati litigano maggiormente riguarda le spese straordinarie, ovvero quelle spese non preventivabili che non rientrano nell’assegno di mantenimento fisso, che un genitore anticipa e che l’altro dovrebbe rimborsare: la visita medica, la gita scolastica, le medicine, i libri, il corso di nuoto e altre.

Proprio per cercare di dipanare la matassa e sminare il contenzioso molti Tribunali italiani si sono dotati, nel tempo, di Protocolli o Linee Guida sulla determinazione delle spese extra assegno.

In questi giorni sono state approvate quelle del Tribunale e della Corte d’appello di Milano; il lavoro, fatto di concerto tra i Giudici specializzati e gli Avvocati, sarà presentato ufficialmente a Palazzo di giustizia il prossimo 11 dicembre 2017.

Le scuse per litigare sono le più svariate: dalla divergenza su quali spese fare, alle tipologia. Alla fine il conto, salato, lo pagano i figli sempre e, in alcuni casi, il sistema giustizia, obbligato a impiegare tempo, soldi (pubblici) ed energia nel dirimere contrasti sciocchi. In tutto questo, poi, è intervenuta molte volte anche la Cassazione con decisioni che, però, non sempre hanno contribuito a fare chiarezza.

La grande novità riguarda l’applicazione “territoriale” non limitata, come succede per gli altri protocolli, a un singolo Tribunale ma destinata a un’intera Corte d’appello e, dunque, a una platea potenziale di oltre sei milioni di persone. Giudici e avvocati si sono fatti carico di individuare una serie di criteri che dovrebbero permettere ai genitori di non litigare più o almeno di litigare meno: sono state classificate le spese che devono essere concordate (ad esempio le gite con pernottamento) preventivamente e quelle che non devono esserlo (come ad esempio le tasse delle scuole pubbliche); è stato chiarito che la mensa rientra nell’assegno fisso, così come il cambio di stagione dell’abbigliamento. Prevista anche una regola “antiabusi”: chi vuol fare una spesa straordinaria deve coinvolgere l’altro genitore (per evitare di considerarlo alla stregua di un bancomat) che a sua volta avrà 10 giorni di tempo per esprimere il proprio dissenso motivato (per evitare di premiare chi dice di no per il gusto di farlo).

I nuovi criteri riguardano anche i figli maggiorenni non economicamente indipendenti: l’accordo sulle spese straordinarie (ad esempio l’università) dovrà essere preso anche con loro, non essendo sufficiente la sola volontà dei genitori.

E’ vero che chi vorrà “cavillare” a tutti i costi o fare “la cresta” continuerà a farlo, ma è indubbio che le Linee guida lombarde, così come quelle da tempo in vigore presso altri Tribunali, sono uno strumento utilissimo e un esempio di quanto la cooperazione avvocati/giudici possa aiutare il cittadino.

Alessandro Simeone Comitato Scientifico di Il Familiarista di Giuffrè Editore 24 novembre 2017

http://www.repubblica.it/economia/diritti-e-consumi/famiglia/2017/11/24/news/divorzio_ecco_come_determinare_spese_extra_a_milano-182006455/

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ALIENAZIONE GENITORIALE

Ravvisata la condotta di alienazione genitoriale nei confronti della madre.

Tribunale di Cosenza, seconda Sezione civile, Sentenza n. 2044, 18 ottobre 2017.

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/tribunale_cs_sentenza_2044_2017.pdf

Il Tribunale di Cosenza, a seguito di consulenza tecnica nell’ambito di giudizio di cessazione di effetti civili del matrimonio, rileva nel figlio della coppia, un minore di 13 anni, un atteggiamento di ripudio ed odio nei confronti della madre, assolutamente immotivato, se non sorretto da scuse generiche. La Consulenza Tecnica d’Ufficio rileva altresì un comportamento manipolativo e aggressivo nei padre del ragazzo, che non perde occasione per denigrare la madre agli occhi dello stesso, demolendo di fatto l’altra figura genitoriale.

Il tribunale decide, nell’esclusivo interesse del minore, di non sradicare comunque il ragazzo dalla casa del padre, per disporre l’affidamento alla madre, ma affida il minore ai servizi sociali competenti, con collocamento prevalente nella residenza paterna e ampliamento dei tempi di permanenza presso la madre, incaricando i servizi sociali di monitorare gli incontri madre –figlio e fornire, altresì, idoneo supporto psicologico al minore.

Osservatore nazionale sul diritto di famiglia 24 novembre 2017

www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17507210/ravvisata-la-condotta-di-alienazione-genitoriale-nei-confronti-della-madre.-trib.html

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AMORIS LÆTITIA

Amoris lætitia e discernimento, ecco il compito dei preti.

Il cardinale Stella, Prefetto del clero: «I sacerdoti si accostino alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio». https://it.wikipedia.org/wiki/Beniamino_Stella

«C’è bisogno di sacerdoti pienamente umani, cioè persone interiormente risolte, che hanno potuto riconoscere le proprie ombre e lavorare sui propri conflitti, che siano affettivamente e psichicamente stabili e sereni», perché «quando manca questa equilibrata umanità di fondo, il prete rischia di assumere posizioni di rigidità o di distanza, anche per il timore di non saper gestire le quotidiane sfide del ministero. L’insicurezza, infatti, si sposa sempre con una certa inflessibilità».

Il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione del Clero, spiega in questa intervista con Vatican Insider il compito certamente non facile che l’esortazione sul matrimonio e la famiglia affida ai sacerdoti. Chiamati ad accostarsi «alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio».

Eminenza, in questi mesi di discussioni sull’esortazione Amoris lætitia si è vivisezionato il documento, soprattutto in merito alla questione della possibile riammissione in alcuni casi dei divorziati risposati ai sacramenti, ma si è parlato poco della figura centrale del sacerdote. Perché?

«Penso che quanto rientra nella materia della fede ha sempre bisogno, da parte nostra, di ciò che chiamerei una “conversione dello sguardo”. Cioè, non si possono guardare e interpretare le cose della fede e della vita della Chiesa con occhiali pregiudiziali o ideologici. Lo sforzo che dobbiamo fare è scrutare l’orizzonte più ampio in cui una singola affermazione o un intero documento si situa. Il Sinodo è stato convocato per incoraggiare la riflessione sulla bellezza della famiglia e sulla vocazione matrimoniale, anche alla luce di alcuni realtà socio-culturali e di nuove problematiche. Ridurre questo panorama a singole questioni, per quanto importanti, non è corretto. Le valutazioni divergenti, infatti, sono nate solo sull’aspetto riguardante la possibile riammissione ai sacramenti per i divorziati risposati, mentre Amoris lætitia è un documento che invita ad adottare la prassi del discernimento per accompagnare le famiglie ferite, che è tutt’altra cosa. In tal senso, si parla ancora poco del compito affidato ai sacerdoti, e richiamato anche dalla nuova Ratio Fundamentalis (le nuove linee guida sul sacerdozio, pubblicate nel 2016, ndr): essere uomini del discernimento, cioè che si accostano alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio, accompagnando i processi reali della loro vita e della loro fede, portandoli a sentire il bisogno di misericordia e di vivere il Vangelo».

Può spiegare che cosa significa fare “discernimento? come chiede Amoris lætitia?

«Per riprendere un’immagine usata da Papa Francesco, direi che significa non rinchiudere la vita e la realtà nel “tutto bianco o tutto nero”. Questo approccio rigido, alimentato dall’ideologia e dal legalismo, è insufficiente per “leggere” davvero l’esistenza nella sua complessità. Certo, è più facile chiudersi in una gabbia ed essere, così, protetti dai rischi e dai pericoli che vediamo intorno a noi; ma se prevale soltanto la paura rimaniamo immobili e, per quanto in alcuni momenti possa servirci, restare sempre nella sicurezza della gabbia alla fine significa non vivere più. Si comprende che alcuni vorrebbero evitare la fatica di cercare e di interpretare le cose in profondità, accontentandosi di soluzioni facili e comode; tuttavia, sia nella vita quotidiana che nella fede, ci accorgiamo che esistono molte “zone grigie”, situazioni che non possono essere incasellate rigidamente nel “o bianco o nero. A proposito di Amoris lætitia e dei cosiddetti “dubia”, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, nella prefazione all’ultimo libro del filosofo Rocco Buttiglione, evidenzia proprio questa tensione tra l’oggettività della norma, che rimane fondamentale e illumina sulla verità del matrimonio, e “le situazioni esistenziali che sono molto differenti e complesse” e che, in certi casi, possono attenuare la colpa o comunque far emergere una sincera ricerca di Dio. Per evitare sia un facile adattamento allo spirito del relativismo che una fredda applicazione dei precetti, afferma il cardinale, “c’è bisogno di una particolare capacità di discernimento spirituale”.

Mi viene in mente il Concilio di Gerusalemme narrato negli Atti degli Apostoli: per risolvere una questione pratica della vita della Chiesa, gli Apostoli non fanno subito riferimento alla legge o alla tradizione, ma spalancano gli occhi e il cuore sul vissuto della grazia dello Spirito Santo. Un po’ come diceva il cardinale Canestri, un pastore venuto a mancare di recente: l’importante è stare nel fiume della Chiesa; se uno ci sta un po’ più a destra o un po’ più a sinistra è solo lecita varietà che non dobbiamo restringere in modo forzato. Ecco, penso che il discernimento è l’arte di vedere, con gli occhi della fede, come lo Spirito Santo si trovi spesso all’opera anche in situazioni di vita complesse o apparentemente lontane da Dio, per cogliere tutte le possibilità umane, spirituali e pastorali, rimanendo sempre “dentro il fiume”».

Amoris lætitia mette un carico considerevole di responsabilità sulle spalle dei sacerdoti. Sono formati e preparati per questo?

«Abbiamo davanti a noi una grande sfida che investe in particolare la formazione sacerdotale. Mi ha colpito molto, nel colloquio di Papa Francesco con padre Antonio Spadaro, pubblicato nel libro “Adesso fate le vostre domande”, l’accenno ai piani di formazione sacerdotale che rischiano di educare con idee troppo chiare e secondo limiti e norme definite a prescindere dalle situazioni concrete della vita; abbiamo bisogno, invece, che il prete sia “uomo del discernimento”. Ma per questo occorre puntare in modo speciale sulla formazione umana dei sacerdoti. Con la nuova Ratio Fundamentalis si è cercato di scoraggiare una formazione impiantata e organizzata con un accento, direi eccessivo e assorbente sul piano degli studi accademici o fondata su una spiritualità astratta, quasi esterna alla persona. C’è bisogno – se così posso dire – di sacerdoti pienamente umani, cioè persone interiormente risolte, che hanno potuto riconoscere le proprie ombre e lavorare sui propri conflitti, che si sono lasciati aiutare a integrare le proprie fragilità in un processo di maturazione integrale, che siano affettivamente e psichicamente stabili e sereni».

Che cosa accade se manca questo equilibrio?

«Quando manca questa equilibrata umanità di fondo, il prete rischia di assumere posizioni di rigidità o di distanza, anche per il timore di non saper gestire le quotidiane sfide del ministero. L’insicurezza, infatti, si sposa sempre con una certa inflessibilità. Un prete pienamente umano, invece, cammina in mezzo alla gente, si lascia commuovere dalle sue ferite, incoraggia le sue gioie e vive una cordialità del tratto che lo rende squisito nelle relazioni; accompagnando i fratelli, egli sarà sempre meno centrato su sé stesso e si preoccuperà, invece, di far arrivare a tutti la carezza di Dio e il profumo della sua grazia. Un prete così, non guarda gli altri dall’alto di una cattedra, ma, pienamente consapevole di essere lui per primo un peccatore perdonato, cammina sulla stessa barca dei fratelli e fa insieme a loro la traversata della conversione a Cristo. Con compassione e paterna vicinanza, egli saprà accogliere la storia di ciascuno, come un uomo che sa bene che ogni storia e ogni persona è diversa dalle altre, e che non esistono manuali o prontuari già fatti una volta. È un uomo che sa proporre una fede e una vita cristiana fatta di relazioni, più che di regole astratte».

Ha colpito che a Firenze, nel novembre 2015, Papa Francesco alla Chiesa italiana abbia indicato il modello del Don Camillo di Guareschi. Perché secondo lei l’ha fatto?

«Il convegno di Firenze è stato dedicato all’umanesimo cristiano, che non è un concetto astratto, ma un modello dell’essere uomini che possiamo contemplare in Gesù e realizzare grazie a lui. Anche se le storie di Guareschi e la figura di don Camillo sono abbastanza lontane nel tempo, e fotografano un contesto italiano che ormai non c’è più, il Papa ha voluto richiamare l’immagine “umana” di quel parroco: un uomo umile, per certi versi esuberante, che si definisce “povero prete di campagna”, ma che sta in mezzo alla gente e si dedica interamente ad essa, mostrando forza, determinazione e coraggio profetico quando si tratta di difendere i più deboli, di educare, di intervenire nelle situazioni. Si tratta di una figura di prete direi “essenziale”, che centra tutta la sua vita sacerdotale su Gesù. Come non ricordare la famosa scena del film “Don Camillo, Monsignore…ma non troppo”, in cui il parroco dialoga con il Crocifisso, proprio subito dopo aver ricevuto la nomina di monsignore; nel colloquio, il Cristo smaschera con tenerezza qualche bugia di don Camillo, il quale, tra l’ironico e l’impacciato risponde: “Signore, avevo tanta voglia di rivedervi…”. Una figura di prete dotata, quindi, anche di un sano umorismo, che lo aiuta a non “prendersi troppo sul serio” e, così, a restare profondamente umano. Insomma, non un “funzionario da sacrestia”, ma un pastore che sa commuoversi e piangere per il popolo».

Che cosa vuol dire, allora, essere prete in una società come la nostra, sempre più secolarizzata?

«Anche questa situazione culturale ha bisogno di prudente e attento discernimento. Bisogna stare attenti alle generalizzazioni che, magari, partendo da una riflessione disfattista sulla realtà attuale, ci fanno volgere indietro e ci fanno diventare, come afferma Evangelii gaudium, “pessimisti scontenti e dalla faccia scura”. Certo, oggi viviamo in un mondo secolarizzato, nel quale sono venute meno alcune certezze consolidate e sono profondamente mutati alcuni contesti ospitali e favorevoli per la trasmissione della fede. Tuttavia, anche questa può essere una benedizione».

Addirittura una benedizione?

«La storia ci insegna che quando il cristianesimo non ha dovuto né lottare né faticare per annunciare il suo messaggio, ha rischiato di diventare tiepido, di accomodarsi nella sicurezza sociale o, ancor peggio, di stringere legami ambigui col potere politico per mantenere la garanzia dei propri privilegi. Oggi, invece, abbiamo la possibilità di recuperare lo spirito profetico del Vangelo e di annunciare il suo messaggio alternativo e controcorrente; in un mondo che cambia velocemente, spesso segnato dall’incapacità di amarsi e di ascoltarsi, e che restringe la vita nella logica del consumismo e del mercato, il sacerdote può essere il testimone di una Parola nuova, capace di far riflettere le persone e di inaugurare stili e modelli di vita diversi.

Per fare questo, direi semplicemente: dobbiamo ritornare a essere preti! Tornare cioè all’essenziale del ministero: offrire tempo alle persone perché possano trovare almeno uno spazio di ascolto e di dialogo, essere disponibili per le confessioni, pregare con la gente, essere testimoni di gioia, di servizio e di gratuità. Il nostro riferimento non può che essere il Vangelo: quando Gesù incontra le persone, stanche, ferite o cadute, poggia su di esse uno sguardo benedicente e amorevole, si commuove, se le prende a cuore e le rialza. Proprio questa, anche oggi, deve essere la missione di ogni sacerdote».

Andrea Tornielli vatican insider 25novembre 2017

www.lastampa.it/2017/11/25/vaticaninsider/ita/vaticano/stella-amoris-laetitia-e-discernimento-ecco-il-compito-dei-preti-o6dhsemCrQbxI2jHYcWIFP/pagina.html

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CASA CONIUGALE

Separazione: fuori casa il padre se è per il bene dei figli

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 26709, 10 novembre 2017

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/allegato_28130_1(5).pdf

Per la Cassazione la persistente conflittualità con la ex moglie non permette la co-assegnazione della casa coniugale. Il giudice non può disporre la co-assegnazione della casa coniugale tra i coniugi che si separano se tale scelta è contraria all”interesse dei figli.

Tale conclusione emerge chiaramente dall’ordinanza, con la quale la Corte di cassazione ha rigettato su tutti i punti il ricorso di un uomo che si era rivolto ai giudici di legittimità per veder riformata la sentenza della Corte d”appello di Brescia che, tra le altre cose e confermando in toto la decisione del Tribunale, non aveva accolto la sua domanda di assegnazione parziale della casa coniugale previa realizzazione di opere edilizie di suddivisione della stessa.

Per i giudici del merito, infatti, alla pretesa del marito ostava la forte conflittualità che caratterizzava i suoi rapporti con la ex moglie, cui la casa coniugale era stata assegnata già in primo grado. Conflittualità che persisteva in maniera significativa nonostante la separazione e che era contraria all”interesse dei figli.

Del resto, va ricordato che in forza dell”articolo 337-sexies del codice civile “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell”interesse dei figli”, dal quale quindi non può in alcun modo prescindersi.

Dinanzi alla Corte di cassazione, l’uomo aveva denunciato l’omesso esame ex art. 360, n. 5, c.p.c., in relazione alla persistenza di una situazione di conflittualità con la ex moglie, che la Corte d’appello avrebbe confermato in maniera errata, riprendendo in maniera pedissequa quanto era risultato all’esito dell’udienza presidenziale. Per il ricorrente, anzi, i figli minori, in virtù del legame che li unisce al padre, avrebbero ottenuto un grande giovamento dalla co-assegnazione della casa coniugale, senza considerare che gli interventi edilizi di divisione non erano, a sua detta, né costosi né difficili da realizzare come invece era stato affermato.

Per la Cassazione, tuttavia, tale motivo di ricorso deve essere considerato inammissibile perché con esso, in sostanza, non si fa altro che porre in discussione l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito senza evidenziare alcun fatto decisivo che la Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare e, quindi, al di fuori dei confini tracciati dalla nuova formulazione dell’articolo 360, numero 5, del codice di rito.

La casa, quindi, resta tutta a disposizione della ex moglie e dei figli, mentre l’uomo deve rassegnarsi a trovare un’altra sistemazione.

Valeria Zeppilli Newsletter Giuridica Studio Cataldi 20 novembre 2017

www.studiocataldi.it/articoli/28130-separazione-fuori-casa-il-padre-se-e-per-il-bene-dei-figli.asp

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter CISF – N. 43, 22 novembre 2017

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www.giornalisti.redattoresociale.it/edizioni/capodarco/2017-il-mio-giardino/programma.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_22_11_2017

www.istitutogp2.it/dblog/articolo.asp?articolo=412

http://i-can2017.blogspot.it

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/SEMINAIRES-THEMATIQUES-2017-2018-1.pdf

Fostering Active & Healthy Ageing: Harnessing the Demographic Transition in the EU(Promuovere l’invecchiamento attivo e sano: come regolare la transizione demografica nell’UE), evento promosso da Public Policy Exchange, Bruxelles, 18 gennaio 2018.

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/IA18-PPE2_flyer.pdf

Iscrizione alle newsletterhttp://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Con tutti i link http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/novembre2017/5056/index.html

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CHIESE CRISTIANE

La Chiesa di Svezia boccia i termini maschili per riferirsi a Dio: “Non è un uomo, Signore non va bene”

La decisione della chiesa nazionale, guidata da una donna dopo un lungo dibattito. Da ora in poi solo termini neutri. Basta con “Signore” e “Lui”. La parola “Dio” può bastare, anche perché è l’unica che è neutra dal punto di vista del genere sessuale.

La Chiesa di Svezia ha messo al bando dal linguaggio della liturgia i termini maschili riferiti a Dio perché Dio non ha sesso. Non è un Lui, ma nemmeno una Lei ovviamente.

La mossa della chiesa nazionale Evangelico Luterana arriva al termine di una riunione di 8 giorni a cui hanno partecipato 251 membri. Una specie di piccolo Concilio Vaticano II a livello nazionale che si è occupato anche di aggiornare il linguaggio di un libro di 31 anni da cui venivano prese le frasi della liturgia, degli inni e altri aspetti linguistici. Avrà effetto dal 20 maggio 2018, giorno della Pentecoste.

La Chiesa di Svezia è il riferimento religioso per 6,1 milioni di battezzati in un paese di 10 milioni. E forse non a caso ha a capo una donna, l’arcivescovo Antje Jackelén, che ha ricordato come il dibattito sul linguaggio sia iniziato già nel 1986. “Teologicamente – spiega – Dio è oltre i generi. Non è umano”.

Alcune critiche sono state mosse alla scelta. Christer Pahlmblad, professore di teologia all’università di Lund ha dichiarato che “così si sottovaluta la dottrina della trinità, non è una mossa intelligente, la Chiesa di Svezia sarà nota come la chiesa che non rispetta l’eredità teologica comune”.

Uppsala 25 novembre 2017

www.repubblica.it/esteri/2017/11/25/news/chiesa_svezia_dio_signore_lui_gender_neutral_maschile_femminile-182089567/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1

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CODICE DELLA VITA

Il codice materno e il codice paterno

La complementarietà e la completezza di maschile e femminile, insieme, guardati e indagati nella relazionalità genitori – figli. Nell’art. 30 comma 4 della Costituzione si parla di “ricerca della paternità”, mentre il comma 4 dell’art. 31, l’ultimo dei tre articoli costituzionali dedicati alla famiglia, detta: “[La Repubblica] Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Per il raggiungimento e compimento della gioventù, pertanto, occorrono paternità e maternità, fonte della vita, con i rispettivi codici di vita.

Il bioeticista Paolo Marino Cattorini scrive: “Una madre è buona (sufficientemente buona, come diceva Donald Winnicott, grande studioso dell’infanzia) quando sviluppa in gravidanza una condizione di premura primaria per il bambino. È grazie a questa speciale sensibilità, che la donna riesce a identificarsi col figlio e rispondere ai bisogni di quest’ultimo. Tale prossimità protegge il bambino e gli risparmia minacce di annientamento. Una donna è sana quando è in grado sia di raggiungere questo stadio, sia di uscirne quando il bambino la lascia libera. La fusione completa somiglierebbe invece a un pericoloso incantesimo magico. Nessun bambino può evitare le frustrazioni della crescita: deve fare i conti con la resistenza del mondo e ricordare che, anche quando la mamma non gli è addosso e sembra distratta, ella ha la possibilità di tornare, di rispondere. In questo modo la mamma (non quella presuntuosamente «perfetta») impara i tempi del figlio, promuove le sue prime rischiose esplorazioni”.

La figura materna, il ruolo materno e tutto quello che fa una madre costituiscono e trasmettono il cosiddetto codice materno. Una madre non può chiudersi a riccio, come spesso avviene, senza accettare consigli o confronti né chiudere il figlio in un mondo ovattato o esclusivo perché, prima o poi, deve rispondere del suo operato, delle sue scelte agli altri e in primis al figlio. Quella maternità che è “responsabile” insieme alla paternità, come si ricava dall’unico aggettivo al singolare usato nell’art. 1 della legge 405/1975 sull’istituzione dei consultori familiari, in quanto il codice materno e quello paterno scrivono e attribuiscono al figlio il codice della vita. www.trovanorme.salute.gov.it/norme/dettaglioAtto?id=25554

“E il «codice materno» – spiega la sociologa Chiara Giaccardi – ci viene in aiuto per una antropologia alternativa a quella, iperindividualistica, della cultura contemporanea. Non è un modello astratto, moralistico. Non è un ideale. Non è qualcosa che ci sta davanti come un (minaccioso, per qualcuno) dover essere, bensì qualcosa che sta alle nostre spalle: di tutti, uomini e donne. Tutti siamo nati da una madre. È qualcosa che ci precede e ci consente di essere qui, grati. È la radice di una memoria, corporea prima di tutto. Ed è universale, di tutti. Qualcosa che ci ricorda che noi non siamo «individui» che poi cercano goffamente di costruire relazioni, ma esseri relazionali fin dal principio. Noi siamo relazione, e solo dopo, e grazie a questo, individui. Nessuno di noi sarebbe qui senza essere passato da quella relazione. Dove siamo stati accolti, nutriti e accompagnati all’essere, a prescindere da quel che ci è successo dopo. Viviamo perché abbiamo ricevuto la vita da altri. Non ci siamo fatti da soli. Se conserviamo questa memoria, potremo essere capaci di relazione. Accoglienti, sapendo che siamo stati accolti. Empatici, perché sappiamo che non siamo il centro del mondo, e che guardandoci l’ombelico non vediamo noi stessi, ma il legame che ci ha consentito di essere qui. Con questa memoria grata, possiamo essere persone che generano vita anche senza mettere al mondo figli, nei tanti modi diversi che la nostra libertà e la nostra responsabilità sapranno trovare”. La maternità, uno dei due elementi costitutivi della genitorialità (quegli elementi che concorrono all’identità del fanciullo, disciplinata nell’art. 8 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia), è (o dovrebbe essere) generatrice, generativa e generosa. In tal modo esplica la “sua essenziale funzione familiare” di cui all’art. 37 comma 1 della Costituzione. www.unicef.it/doc/599/convenzione-diritti-infanzia-adolescenza.htm

Lo psicologo e psicoterapeuta Osvaldo Poli commenta [“Cuore di papà. Il modo maschile di educare“, San Paolo Edizioni 2008]: “Il codice materno tende a proteggere il figlio dal dolore e dalle fatiche della vita, il codice paterno tende a incoraggiarlo ad accettarle e superarle, a non nascondersi, a non evitarle, a non averne paura. A non scappare sempre dalla prova, ma ad accettarla. A “lasciarsi provare” acconsentendo di fare ciò che le circostanze richiedono come giusto, opportuno, necessario”. Sono fondamentali il codice materno e il codice paterno e che siano differenti (né diversi né duplicati) per fornire al figlio un adeguato codice della vita, come per la nascita e sin dalla nascita. In altre parole, i codici devono essere differenti, né divergenti né indifferenti l’uno dall’altro.

A proposito dell’esperienza del dolore la scrittrice Michela Murgia afferma: “Narrare la morte è affrontare un dolore che ci accomuna tutti, dargli un codice, farlo uscire dall’afasia culturale”. Nell’art. 23, relativo al fanciullo fisicamente o mentalmente disabile, par. 3 della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia si legge di “far raggiungere al fanciullo l’integrazione sociale e lo sviluppo individuale più completo possibile, incluso lo sviluppo culturale e spirituale”. Lo sviluppo culturale e spirituale (binomio usato una sola volta in tutta la Convenzione) riguarda ogni bambino e prevede anche l’educazione alla morte (morte che, fra l’altro, ha ispirato e ispira ogni forma d’arte e cultura) per non rendere menomati i bambini rispetto al normale flusso della vita. E in questo riveste un ruolo determinante il padre o almeno in passato lo ha rivestito.

Lo psicologo Poli aggiunge: “Più in generale si può affermare che nella attuale società il padre è stato ucciso destituendo di ogni fondamento le ragioni del suo istinto educativo, presentando come pericoloso e inadatto ciò che il codice maschile richiederebbe come decisivo per la crescita dei figli. Più o meno esplicitamente esso è ritenuto troppo duro, esigente, incapace di capire i figli, e implicitamente, contrario all’amore loro dovuto. Con il codice paterno sono state bandite le parole che lo qualificavano: prova, rinuncia, disciplina e soprattutto sacrificio. La cultura educativa che non comprende più il modo di amare maschile cresce figli più deboli, più difficili da gestire in famiglia e nelle istituzioni ma soprattutto incapaci di reggere la vita con le sue inevitabili difficoltà”. Con l’esautoramento della figura paterna è stata abbattuta ogni forma di autorità, da quella scolastica a quella statale. “Autorità” deriva dal verbo latino “augere”, “far crescere”, quindi è insita nella vita. “Nell’etimologia di autorità è dunque inclusa l’idea che nell’uomo si realizza l’humanitas quando un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e morale” (da Treccani.it). Ogni figlio per diventare quello che è scritto nella sua vita ha bisogno della figura paterna che sia tale: né assente, né deficiente, né subalterna alla madre, né “maternalizzata”, né altro. Il padre è padre e deve essere padre. Una delle prime leggi in cui si è cominciato a escludere la figura paterna è stata la legge 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ogni bambino ha diritto a un padre, che sia non solo certo, ma esistente ed evidente, non un “aborto di padre”.

Amare è dare e far sentire l’altro amato perché a sua volta sia capace di amare e dare. Questo è generare vita. Dare la vita perché così è nel codice della vita: questa è la genitorialità e non semplicemente un patrimonio genetico. Gli adulti danno ai bambini la vita, i bambini danno agli adulti la gioia della vita: insieme compongono l’inno alla vita. Così si esprime la “biofilia” (amore per la vita) della e nella genitorialità, la paternità e la maternità insieme.

Dott.ssa Margherita Marzario – Newsletter Giuridica Studio Cataldi 20 novembre 2017

www.studiocataldi.it/articoli/28143-il-codice-della-vita-il-codice-materno-e-il-codice-paterno.asp

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CONSULENTI DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA

Assemblea AICCeF a Bologna il 3 dicembre 2017

Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari

Si svolgerà il 3 dicembre prossimo l’Assemblea annuale dei Soci AICCeF, a Bologna, presso il Camplus Bononia, con orario in seconda convocazione delle 14, 30.

Durante l’Assemblea, che rappresenta uno dei momenti partecipativi più importanti per l’Associazione, si svolgeranno le relazioni della Presidente, della Segretaria, dei Revisori dei conti, per quanto riguarda i Bilanci consuntivo e preventivo, e del Redattore. Sarano illustrate anche le iniziative che verranno proposte per il prossimo anno ed ascoltate le proposte e le considerazioni dei Soci.

News 25 novembre 2017

www.aiccef.it/it/news/assemblea-dei-soci.html

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CONSULTORI FAMILIARI

Emilia e Romagna: Dati dei consultori familiari

La rilevazione dell’attività consultoriale è stata avviata nel 1993 e da allora è diventata una prassi sistematica e consolidata grazie al lavoro degli operatori delle aziende sanitarie. Ogni anno i dati sono raccolti, validati e pubblicati a cura del Servizio Assistenza territoriale della Regione Emilia-Romagna.

Di seguito è riportato l’elenco dei report dei dati di attività dei consultori familiari presenti nella regione Emilia-Romagna. In particolare i report di sintesi (aziendale e distrettuale) sono stati elaborati per consentire una lettura globale in termini regionali e per singola Azienda USL. I dati riportati nelle sintesi si riferiscono alle attività maggiormente significative del settore.

www.saperidoc.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/937

 

Il ruolo del Consultorio Familiare in una società che cambia

Il consultorio, luogo privilegiato per la prevenzione e promozione della salute, dove l’ostetrica ha un ruolo fondamentale: prevenzione delle malattie, contraccezione, assistenza sanitaria, presa in carico della salute della donna in gravidanza e del nascituro, ma anche importante e capillare punto di raccordo tra le varie professionalità che aiutano le donne e le loro le famiglie.

Il Consultorio familiare (CF) rappresenta tutto questo e anche qualcosa di più, in particolare” afferma la Federazione Nazionale dei Collegi delle Ostetriche (FNCO)“nell’attuale società che, a quarant’anni di distanza dall’istituzione di questo servizio con la Legge n. 405/1975, è profondamente cambiata e presenta nuove problematiche e nuovi scenari: aumento della povertà e delle diseguaglianze, fenomeni di violenza e abuso, soprattutto di genere, solitudine, fragilità e disagi emotivi, precarietà, immigrazione, nuove forme familiari, con aumento di quelle mononucleari, senza legami stabili”.

Quale funzione possano avere nella realtà odierna i Consultori familiari e analizzare le loro potenzialità per il futuro, è stato lo scopo del convegno “Il ruolo del Consultorio Familiare in una società che cambia”, organizzato dal Ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore con la partecipazione della Federazione Nazionale dei Collegi delle Ostetriche e il patrocinio del Centro della Pastorale familiare del Vicariato di Roma.

“Grazie alle relazioni preordinate, agli interventi dei partecipanti e ai lavori dei quattro workshop, è stata scattata una fotografia dell’attuale situazione dei Consultori Familiari in Italia, il cui tratto dominante” riferisce la Federazione “è la forte disomogeneità del servizio offerto dalle Regioni, alcune delle quali hanno mantenuto e potenziato il mandato istitutivo del CF rafforzando attività di prevenzione e promozione della salute attraverso strumenti normativi ad hoc, in altre Regioni invece, complici la disorganizzazione o una condizione di partenza già svantaggiata, i CF non riescono a esprimere il proprio potenziale e offrire servizi di assistenza minima.

Ci sono però dati che indicano un denominatore comune tra le Regioni: la chiusura di molti Centri (passati da 2.725 nel 1993 ai 1.944 del 2016); la perdita di professionalità per la riduzione drastica dei professionisti sanitari che vi operano. Questi fattori hanno di fatto depotenziato e spesso svilito il servizio. Inoltre, è emersa l’urgenza di attivare un flusso informativo a livello nazionale, sull’esempio del CEDAP (certificato di assistenza al parto) con uno cruscotto di indicatori minimo che possa garantire un’omogeneità delle informazioni provenienti dai CF per attività di Benchmarking [confronto sistematico] regionale e programmazione delle politiche sanitarie. Ciò consentirebbe report dettagliati rispetto alle risorse impiegate e la performance assistenziale, in un’ottica multidimensionale che fotografi anche la capacità di accesso ai servizi, equità ed accoglienza.

Altro elemento chiave emerso durante i lavori è il riconoscimento dell’importanza e centralità della figura professionale dell’Ostetrica, in particolare nel CF, dove opera nell’équipe multidisciplinare ma, rappresenta la figura principe, alla quale le donne e le famiglie si rivolgono, in quanto le sue specifiche competenze abbracciano tutto il ventaglio utile per la promozione della salute globale della donna, del minore e famiglia.

Tra le buone pratiche infatti, ha avuto particolare risalto il progetto “Ostetrica di famiglia e di comunità” avviato grazie alla convenzione stipulata tra FNCO, Centro Pastorale familiare –Vicariato di Roma e onlus “Oltre l’orizzonte” che cureranno tutte le fasi progettuali nel CF diocesano “Al Quadraro” in una borgata della periferia sud di Roma, lontana dal centro e dagli itinerari turistici tradizionali nella quale vivono circa 21.000 abitanti con un alto tasso di immigrazione (soprattutto da Sri Lanka, Rumeni, Pakistan)”.

«L’ostetrica esprime l’identità della cura alla vita nascente e alla salute materna nella maniera più piena: dalla prevenzione, alla cura prenatale fino alla nascita, ai primi anni di vita – spiega Don Andrea Manto, Direttore del Centro per la Pastorale Familiare – Vicariato di Roma- C’è grande fiducia e valutazione positiva sul ruolo dell’ostetrica che può crescere e svilupparsi – continua Don Manto -. Questo è il senso del progetto di ostetrica di comunità, ma ancora di più l’ostetrica può diventare il naturale referente di accompagnamento della salute della donna nelle varie fasi della vita, penso all’età anziana così come alla prevenzione di tutta una serie di problemi quali la violenza in famiglia, la depressione post partum. Una ostetrica di comunità adeguatamente formata può giocare ruolo importantissimo».

Altra proposta condivisa tra i partecipanti è la necessità di rafforzare il percorso formativo di tutti i professionisti sanitari, curriculare (teorico-pratico) pre-service e in service (post base) prevedendo specifiche esperienze nei CF, così come rimarcato e auspicato dalla Presidente della Federazione Nazionale Collegi Ostetriche, Maria Vicario. Una competenza che ridà alla Categoria il ruolo che le è proprio e che la proietta al di fuori della sala parto. «Il consultorio è l’anello portante di tutta la catena della prevenzione e promozione della salute – afferma la Presidente FNCO, Maria Vicario – e la legge istitutiva 405 /1975 l’ha sempre previsto. L’ostetrica è la figura professionale che anche qui accoglie la donna con i tutti i suoi bisogni: dall’adolescenza, alla gravidanza, al puerperio, alla menopausa, il giovane, la famiglia. Perché ci sia la presa in carico, l’Ostetrica/o deve innanzitutto analizzare il problema: se è di gestione autonoma, come una gravidanza fisiologica, accompagna la donna per tutta la gravidanza, la segue durante i diversi appuntamenti di accompagnamento alla nascita e dopo il parto, durante il puerperio e l’allattamento. Inoltre ha un ruolo importante nella prevenzione per i tumori della cervice uterina e della mammella con la palpazione al seno e il pap test, o ancora dell’obesità o dei disturbi alimentari in genere. Laddove invece si ravvisano patologie, la competenza diventa interdisciplinare, e l’ostetrica – pur rimanendo sempre presente – opera in collaborazione con i diversi specialisti».

Dell’importanza del ruolo dell’Ostetrica ha parlato anche il Walter Ricciardi, Presidente dell’ISS [Istituto Superiore di Sanità] definendolo «cruciale, non soltanto nelle sue competenze tradizionali ma anche in quelle innovative. Oggi ha un compito più complesso: far nascere i bambini, farli crescere, educare le mamme, lavorare di più con le famiglie, fronteggiando una società fortemente multietnica. Un ruolo fondamentale che si deve adeguare ai tempi».

Una competenza a 360 gradi più volte evidenziata dalla FNCO, sempre più complessa e che, in particolare nella nuova società, non può più esaurirsi nell’assistenza in sala parto ma, vede proprio nel consultorio uno dei luogo in cui svolgere un lavoro determinante poiché «racchiude con la propria professionalità sia l’aspetto sanitario sia una visione più olistica e completa della salute rispetto ad esempio al medico specializzato» afferma Angela Spinelli, Centro Nazionale Prevenzione delle Malattie e Promozione della Salute dell’ISS, rispondendo alla domanda sul ruolo oggi dell’ostetrica nel Consultorio Familiare. «Un ruolo molto importante – continua Spinelli – che va affiancato da altre figure del settore sociosanitario, psicologico e naturalmente dalle figure mediche».

Un raccordo tra le professioni auspicato anche dal Preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Rocco Bellantone soprattutto nel percorso formativo: «Penso che sia opportuno avere dei master o corsi di perfezionamento in cui l’ostetrica stia assieme alla ginecologa, all’avvocato, alla psicologa. Non esiste nella nostra rete formativa – ha continuato Bellantone – un corso specifico che metta assieme le varie categorie contaminando i vari saperi per consentire che diventino sinergici».

“Su quale debba essere futuro dei consultori” afferma la Federazione “la risposta è stata unanime: oggi più che mai la società contemporanea necessita di una struttura come questa che offra un servizio per la promozione della salute globale della donna e della famiglia. Obiettivo che, in un’ottica di lungo periodo, attraverso la prevenzione delle patologie, si traduce in minor spesa sanitaria da parte dello Stato sul fronte delle cure medico-ospedaliere. Punto di forza del Consultorio è la sua specifica natura di presenza diretta sul territorio, una struttura di prossimità, lì dove vive e lavora l’utenza”. «Ogni giorno cerchiamo di intervenire sulle disparità di servizio dei Consultori attraverso tavoli interregionali, anche diffondendo le buone pratiche – ha spiegato Serena Battilomo, Direttrice dell’Ufficio Tutela della salute della donna, dei soggetti vulnerabili e contrasto alle diseguaglianze del Ministero della Salute -.

Il convegno vuole essere un’occasione per individuare le buone pratiche e lo faremo anche con la mappatura, che il Ministero finanzierà e che si svolgerà nel 2018, in modo da lasciare alle regioni che sono un po’ più indietro degli esempi, e documentazione validata, per far in modo di andare più spediti nell’attuazione di pratiche assistenziali che ormai risultano essere efficaci, efficienti, adeguate e appropriate. Se non cominciamo a investire su servizi di prossimità per prevenire i problemi di salute, la spesa sanitaria risulterà sempre più elevata».

News Panorama della sanità 24 novembre 2017

www.panoramasanita.it/2017/11/24/fnco-il-consultorio-luogo-privilegiato-per-la-prevenzione-e-promozione-della-salute-dove-lostetrica-ha-un-ruolo-fondamentale

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Brescia. Gruppi di parole per donne in menopausa e per quelle che hanno la fortuna di invecchiare

Il Consultorio Familiare Onlus, a partire da rilevanti tematiche interne e prestando attenzione ai bisogni del territorio, è costantemente impegnato nella realizzazione di progetti e cicli culturali, rivolti alla cittadinanza, agli operatori, agli studenti, in collaborazione con l’ASL di Brescia, la Regione Lombardia e le istituzioni locali.

  • Il consultorio offre alle donne che hanno la fortuna di invecchiare uno spazio d’incontro per condividere le proprie esperienze, le proprie emozioni, per vivere al meglio questa età della vita.

Ciclo di 8 incontri a cadenza mensile da dicembre 2017 a luglio 2018 condotto dalla Dott.ssa Giovanna Perucci, psicologa esperta di psicogerontologia.

  • Gruppo di parola per donne in menopausa, condotto da Alessandra Nodari e Vanda Romagnoli, da dicembre 2017 a gennaio 2018

www.consultoriofamiliare.org/iniziative.php

 

Cosenza. Incontro/Convegno con il seguente tema “Papà dove sei? Guai a te se scompari!”,

In occasione dei dieci anni di attività del Consultorio La Famiglia di Cosenza, per il prossimo 24 novembre alle ore 18, organizza, insieme all’associazione tagesmutter I nidi delle mamme, un Incontro/Convegno con il seguente tema “Papà dove sei? Guai a te se scompari!”, E’ relatore il dottore Ezio Aceti, psicologo, consulente psico-pedagogico scolastico.

Partecipa mons. Francesco Nolé, vescovo della diocesi di Catanzaro e Bisignano

Il Convegno del pomeriggio aperto a tutti, sarà preceduto da un incontro di formazione di quattro ore per i Consulenti Familiari e gli Educatori della Casa Famiglia della Cooperativa Sociale “La Terra” con tema “Relazioni e Resilienza”.

https://it-it.facebook.com/Consultorio-UCIPEM-La-Famiglia-Cosenza-162655843758957

 

Mantova. Parlarsi ed ascoltarsi in famiglia

Corso per la formazione di relazioni familiari umane e positive nella coppia e tra genitori e figli

  • Essere persona nel rapporto di coppia

  • Psicodinamica familiare:

  • I ruoli familiari e il loro significato

  • Parlare, capire e farsi capire

  • Ascoltare, rispondere e cambiare

  • Lo stile cooperativo nelle situazioni di conflitto

9 dicembre 2017. Relatore e conduttore del gruppo don dr Aldo Basso, sociologo e socio del centro di consulenza familiare.

Metodologia: Oltre ad alcuni spunti di carattere teorico, ai partecipanti verrà data soprattutto la possibilità di esercitarsi sulle varie modalità comunicative, che possono condizionare positivamente o negativamente i contesti familiari.

Il corso è rivolto a persone che sono prossime a formare una famiglia o che già vivono l’esperienza familiare. E’ preferibile la partecipazione di entrambi i partner e, qualora ciò non fosse possibile, possono partecipare anche persone singole. La partecipazione è a numero chiuso: massimo 30 partecipanti.

 

Parma Famiglia più. Incontro con i genitori

27 novembre 2017 Adolescenza, Amore, Sessualità ai tempi dei social

I genitori ne parlano con

Micaela Fusi, psicoterapeuta

Margherita Campanini, insegnante

Elena Bocchialini, ginecologa

http://www.famigliapiu.it/

 

Portogruaro. Consultorio Familiare Fondaco. l’adolescenza: tra regole trasformazioni.

Social media e famiglia. Opportunità e rischi. Verso un uso consapevole e responsabile

Quale atteggiamento avere come genitori ed educatori riguardo ai nuovi media e ai nostri figli sempre “connessi”? Social-media: fonte di distrazione e comunicazione al di fuori di controlli adulti e parentali e perciò anche occasione di comportamenti a rischio? o anche risorsa per conoscere, crescere, comunicare e relazionarsi in modo consapevole e responsabile?

Questi alcuni dei temi su cui i relatori, Giuliano Bidoli e Chiara Colombo, psicologi psicoterapeuti, si confronteranno con genitori ed educatori sul tema dell’uso dei social media da parte di giovani e giovanissimi nell’incontro che si svolgerà il 29 novembre 2017, nella sede del Centro civico di Pramaggiore.

L’attività è organizzata dalla Città di Portogruaro con la collaborazione del Consultorio familiare Fondaco di Portogruaro e del Comune di Pramaggiore e rientra tra le attività formative destinate alle famiglie nell’ambito dal Progetto “Alleanza per la famiglia dell’area portogruarese“, finanziato dalla Regione Veneto.

www.consultoriofamiliarefondaco.it

Trento. Paola Pisoni è presidente del «Forum delle associazioni familiari del Trentino».

Nei giorni scorsi si è tenuta l’assemblea dei soci del Forum delle Associazioni Familiari del Trentino, una realtà di secondo livello che rappresenta la maggior parte dell’associazionismo familiare del Trentino.

Dopo due mandati e sei anni di volontariato spesi con entusiasmo e spirito di servizio, Silvia Peraro Guandalini ha passato il testimone della presidenza a Paola Pisoni, avvocato libero professionista, da oltre 20 anni socio e consulente legale del Consultorio Familiare Ucipem di Trento e per molti anni attiva nel movimento Scout dell’AGESCI.

Nel Consiglio direttivo fa parte anche Lucia Fronza Crepaz per Consultorio Familiare UCIPEM

Appena eletta la neo presidente ha voluto subito tracciare un programma di lavoro e le priorità che il Forum dovrà affrontare nel prossimo triennio.

“Il Trentino è da molti anni un laboratorio di buone pratiche nel campo delle politiche familiari ed il dialogo e la collaborazione fra ente pubblico, Provincia di Trento in primis, e società civile sono già ad un livello avanzato” ha spiegato all’assemblea la neopresidente. “L’attività del nuovo direttivo sarà pertanto improntata, in un’ottica di continuità, a proseguire nel cammino intrapreso ed a sviluppare ulteriormente tale importante collaborazione. Il Forum continuerà a svolgere la propria funzione di impulso e stimolo nei confronti sia dell’ente pubblico che di tutte le realtà che operano sul territorio per fornire idee, ispirazioni e coordinamento.

Su un altro versante ci proponiamo di implementare la base sociale e di potenziare e rafforzare la rete fra le nostre associate. Rimane prioritario proseguire ed implementare il dialogo e la collaborazione con la Provincia autonoma di Trento ed in particolare con l’Agenzia per la Famiglia e con tutte le realtà che operano sul territorio”.

Alessio Andreani La voce del trentino 26 novembre 2017

www.lavocedeltrentino.it/2017/11/26/paola-pisoni-presidente-del-forum-delle-associazioni-familiari-del-trentino

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CONVIVENZA

Reato il matrimonio rom con una minorenne

Corte di Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 53135, 22 novembre 2017.

La convivenza more uxorio con una minorenne – anche se consenziente – configura sempre reato. E questo a prescindere che il convivente abusi della propria posizione dominante, o autorevolezza. Lo ha messo nero su bianco la Cassazione. Sotto i riflettori il caso di una coppia rom convivente a Sassari. L’uomo – trentenne – è stato condannato dal Tribunale di Sassari a un anno di reclusione (con le attenuanti generiche) per aver avuto rapporti sessuali con una quindicenne, con lui convivente. La sentenza è stata confermata dalla Corte di appello.

Partendo da una disamina dell’articolo 609-quater del Codice penale, il difensore dell’imputato ha tentato di dimostrare quanto poco si attagliasse al caso esaminato lo spirito della norma incriminatrice. Essa infatti – a detta del ricorrente – si riferisce a tutti quei rapporti in cui il minore versi in una situazione di soggezione rispetto a un genitore, anche adottivo, un tutore, o comunque un convivente, nell’ambito di una relazione di affidamento. Si tratta cioè di un rapporto sbilanciato, in cui il soggetto attivo predomina sul quello passivo, imponendo la propria autorevolezza e innescando una forma di suggestione. Nulla a che vedere, secondo il ricorrente, con il proprio rapporto di convivenza.

Non è dello stesso avviso la Cassazione che – enfatizzando la coincidenza della norma civile con quella penale – definisce reato i matrimoni o le convivenze contratti con persone sotto i 16 anni.

Poco importa se la cultura rom ammette i matrimoni anche sotto i 14 anni in forma “avuncolata” (ossia tra zio e nipote o zia e nipote): la giurisprudenza ha sempre ritenuto la non validità del matrimonio rom nell’ordinamento italiano.

Sul tema la stella polare è costituita da una sentenza della Corte Costituzionale risalente al 2000 (la numero 376), che valse l’espulsione a un rom coniugato e convivente con una donna della stessa etnia in stato di gravidanza.

L’articolo 609 quater del Codice penale (che punisce gli atti sessuali con minorenni), prevede una tutela crescente e differenziata per età: si considera reato l’atto sessuale compiuto con giovani under 14 (anche se consenzienti), ma il valido consenso si ritiene raggiunto anche a 13 anni compiuti, se la forbice tra i due soggetti della coppia è contenuta entro i tre anni.

Un caso a parte è rappresentato dai rapporti in cui l’imputato sia l’ascendente, il genitore – o il suo convivente – , il tutore o altra persona che abbia obblighi di vigilanza e di custodia sul minore. In questo caso il valido consenso agli atti sessuali è stato innalzato a 16 anni.

Silvia Marzialetti Il sole24ore 22 novembre 2017

www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2017-11-22/reato-matrimonio-rom-una-minorenne-171459.shtml?uuid=AEwSlOGD

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DALLA NAVATA

XXXIV domenica del tempo ordinario – Anno A – 26 novembre 2017

Ezechièle 34, 16 Andrò in cerca della pecora ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.

Salmo 23, 01 Il Signore è il mio pastore non manco di nulla.

1Corìnzi 15, 20 Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti.

Matteo 25, 31 «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.»

 

I peccati di omissione. Commento di Enzo Bianchi, priore emerito del Monastero di Bose (BI)

Siamo giunti all’ultima domenica dell’anno liturgico, la quale nei tempi recenti (per l’esattezza dal 1925, ad opera di Pio XI) è stata istituita come “Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo”: festa di colui che reintesterà in sé tutte le realtà create, che si mostrerà “Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,16) e che nel giudizio finale emetterà la parola ultima sul bene e sul male della storia, inaugurando “cieli nuovi e terra nuova” (Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1).

L’ordo liturgico prevede un brano del Vangelo secondo Matteo, la conclusione del discorso escatologico (cf. Mt 24-25), pronunciato da Gesù a Gerusalemme nei giorni precedenti la sua passione e morte. Al cuore del lungo discorso riguardante la fine dei tempi, Gesù ha annunciato la venuta del Figlio dell’uomo, la sua parusia gloriosa: prima comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo, la croce, poi tutti vedranno lo stesso Figlio dell’uomo veniente nella potenza e nella gloria sulle nubi del cielo, attorniato da angeli inviati a radunare gli eletti da tutti confini della terra. Sarà un avvento di dimensione cosmica, un evento che s’imporrà a tutto l’universo e che provocherà nelle genti della terra un sentimento di accusa verso di sé per il male compiuto, fino a battersi il petto. Ognuno contemplerà questo Veniente nella gloria, trafitto, perché egli attirerà a se gli occhi di tutti (cf. Gv 19,37; Ap 1,7).

Dopo questo annuncio (cf. Mt 24,4-44), Gesù consegna un ammonimento (cf. Mt 24,37-44) e tre parabole sulla vigilanza e sulla responsabilità da assumere di fronte alla sua venuta gloriosa (cf. Mt 24,45-25,30). Infine, chiude il discorso con il brano che oggi meditiamo, testo difficilmente catalogabile all’interno dei generi letterari: è un racconto che sembra una parabola, ma non lo è pienamente; non è neppure un’allegoria; è piuttosto un racconto esemplare, la descrizione profetica di un quadro apocalittico. Aprendo il cuore e chiedendo allo Spirito santo di operare nella nostra intelligenza, cerchiamo ora di cogliere in queste parole di Gesù dove stia per noi, qui e ora, il Vangelo, la buona notizia.

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui”. Sì, all’orizzonte della storia c’è la venuta del Figlio dell’uomo, il Veniente da Dio, preesistente alla creazione del mondo presso Dio, che nell’umiltà è venuto nel mondo e ha annunciato il Regno in azioni e parole, che ora va verso la passione e morte, ma che verrà nella gloria alla fine della storia per un decreto estrinseco alla storia stessa, in obbedienza alla volontà del Padre, Signore e Creatore del cielo e della terra. Quando verrà nella gloria, apparirà con tutti i suoi angeli, creature a noi invisibili. Così avveniva, secondo l’Antico Testamento, la manifestazione, l’epifania del Dio vivente: quando Dio appare, è attorniato dalle sue schiere di messaggeri (cf. Dt 33,2) e dai suoi santi (cf. Zc 14,5). È lo jom ’Adonaj, “il giorno del Signore” (cf. Am 5,18.20; Is 2,12; Sof 1,7, ecc.) preannunciato dai profeti, nel quale si manifesterà il Veniente, incaricato di emettere il giudizio su tutta la storia. Egli ha le sembianze di un “umano” (ben enosh, hyiòs toû anthrópou), ed essendo giudice va a sedersi sul trono della gloria, il trono sul quale il Signore regna (cf. Sal 9,5.8; 11,4, ecc.).

La visione è grandiosa: davanti a lui saranno riunite tutte le genti della terra, di ogni luogo e di ogni tempo, tutta l’umanità! Si tratterà innanzitutto di operare una separazione, di fare un discernimento tra gli umani, allo stesso modo con cui un pastore deve separare le pecore dalle capre. Se la zizzania era cresciuta insieme al grano, ora la si deve separare da esso (cf. Mt 13,24-30.36-43); se la rete aveva catturato pesci buoni e pesci cattivi, è venuto il momento di fare la cernita, trattenendo quelli buoni e gettando nel mare i cattivi (cf. Mt 13,47-50). Questa operazione che il Figlio dell’uomo farà come pastore, è sempre stata annunciata ed è necessaria affinché l’ultima parola sul male e sul bene operato dagli umani nella storia sia di Dio: parola definitiva, parola di giustizia, che contiene in sé la misericordia ma che è nel contempo un giudizio. Guai se il cristiano dimenticasse questa realtà che lo attende, d’altronde confessata nel Credo: “Di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare (venturus estiudicare) i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”.

Davanti a questo Re universale, che ammette o esclude dal suo regno, vi è l’oikouméne, il mondo intero, l’umanità, i cristiani e i figli di Israele: tutti, veramente tutti! Nello stesso tempo, si avverte che il giudizio è dato a ogni persona, uomo e donna, perché il Re “renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16,27; cf. Sal 62,13). Ecco allora la seconda scena, quella del giudizio vero e proprio, costituita da un dittico che presenta elementi paralleli: una doppia sentenza emessa sull’umanità, la prima positiva, la seconda negativa. Che cosa considera il Re seduto sul trono della gloria, per formulare il giudizio? Ciò è molto interessante, e credo che poco ci si sia interrogati sulla scelta dei capi di approvazione o di accusa scelti e proclamati da Gesù. Non si tratta di questioni che riguardano la fragilità degli umani, il loro aver compiuto il male in quanto attratti da passioni umane. Non che questi non siano stati peccati, ma in vista della salvezza o della perdizione non appaiono come cause di vita o di morte eterna. Non sono neppure elencati i peccati contro Dio, quali la bestemmia o la mancata osservanza del sabato (di tradizioni religiose). Le colpe che causano l’esclusione o l’ingresso nel Regno sono invece quelle concernenti i rapporti, le relazioni tra gli umani, in particolare in riferimento alla situazione di bisogno o di disgrazia: la fame, la sete, l’emarginazione dello straniero, la nudità, la malattia, la prigionia. Rispetto a queste situazioni, come si sono comportati gli umani? Sulla risposta a tale interrogativo si fonda la benedizione o la maledizione.

Questo Re dell’universo può dunque dire: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Qui si gioca la salvezza: nella relazione concreta con ogni altro essere umano. Sulla terra avviene già il “processo”, quando di fronte a chi è nel bisogno facciamo qualcosa, quello che possiamo e sappiamo fare, oppure non facciamo nulla, perché passiamo oltre ignorando il suo grido di aiuto. Alla fine, nel giudizio, ci sarà solo la sentenza. Non nel culto, non nella liturgia ci si salva, ma nella relazione tra corpi, nel volto contro volto, mano nella mano, carne che tocca la carne… L’amore che Gesù richiede non è astratto, non è fatto di intenzioni e sentimenti, non è solo “preghiera per”: è azione, comportamento, concreta responsabilità. Se la liturgia, la preghiera e i sacramenti non ci conducono a questo, allora sono sterili e inutili, in quanto sono finalizzati all’amore, al vivere nell’amore, all’amare persino il nemico, il non amabile (cf. Mt 5,43-48).

Ma questa sentenza del Re, stupisce e meraviglia coloro ai quali viene rivolta. Per questo essi reagiscono con una domanda: “Quando mai, Signore, abbiamo fatto questo e quest’altro?”. Lo stupore dei giusti è altamente significativo: questi benedetti non sanno di essere stati misericordiosi anche verso Gesù! Ed è fondamentale non saperlo, perché Gesù, come Dio, è presenza nascosta, elusiva: se non lo si riconosce, si compie l’azione in piena gratuità, senza pensare di aver fatto un’opera meritoria che Dio ricompenserà in quanto rivolta al Figlio dell’uomo. La malvagità o la bontà dell’azione compiuta nascono dal modo in cui si vive la relazione con il fratello o la sorella, e non in riferimento al Dio che non si vede. Su ciò sono sempre istruttive le parole della Prima lettera di Giovanni: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è compiuto in noi … Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4, 12.20). Sì, tra queste persone davanti al Re ve ne sono alcuni che non conoscono Gesù, che mai hanno sentito parlare di lui: sia i suoi discepoli, sia quanti sono estranei al cristianesimo, tutti sono giudicati in base alla relazione con i più piccoli (oi eláchistoi), fratelli e sorelle di Gesù, il piccolo e il povero per eccellenza.

Al termine di questo ascolto, mi ardono gli orecchi, perché in quanto ascoltatore e lettore sono costretto a constatare quante volte ho compiuto omissioni, cioè non ho fatto il bene: i peccati di omissione sono i capi di accusa contro di noi nel giorno del giudizio. Benedizione per chi ha saputo prendersi cura, con la sua carne, della carne dei fratelli e delle sorelle; maledizione per chi è passato oltre, magari bisbigliando preghiere, ma non vedendo, non riconoscendo, non avvicinandosi all’altro che era nel bisogno. Questa pagina è un grande insegnamento per chi pensa di poter amare il Dio che non si vede senza amare il bisognoso che si vede. Eppure noi cristiani – confessiamolo – non siamo tra i benedetti: c’è chi ha fame all’entrata dei supermercati, e noi gli diamo solo le monete che appesantiscono le nostre tasche; c’è chi è straniero, e noi pensiamo a lui dando qualcosa di superfluo alla Caritas, magari per il pasto di Natale, ma mai lo invitiamo alla nostra tavola, a casa nostra, perché questo ci provoca troppo disagio; c’è chi è nudo, e tutt’al più gli diamo un abito da noi consumato, che riteniamo indegno di stare nei nostri armadi pieni; c’è chi è in carcere, e noi neanche ci sogniamo di andarlo a trovare, perché non lo conosciamo e perché pensiamo che se l’è meritata. Quanto siamo ipocriti! Il giudizio del Re lo mostrerà.

http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/11950-i-peccati-di-omissione

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ETS (già ONLUS) NON PROFIT

Si sblocca il fondo da 91 milioni, primo bando per il Terzo settore “unito”

Emanato l’atto di indirizzo che libera 91 milioni € previsti dalla recente riforma. Pubblicato l’avvio per i 45 milioni € che finanzieranno progetti contro il disagio sociale presentati da organizzazioni di volontariato, Aps e fondazioni, da sole o in partnership, anche con risorse di enti pubblici e privati. Scadenza 11 dicembre 2017.

Si chiama atto di indirizzo ed è “Il primo importante provvedimento applicativo della riforma del Terzo settore”, come lo ha definito il sottosegretario al Lavoro e Politiche sociali Luigi Bobba. In un comunicato in cui annuncia la firma dell’atto il 13 novembre 2017 da parte del ministro Poletti, Bobba sottolinea come sia stato liberato il fondo di 91 milioni di euro previsto dalla Riforma. In contemporanea è stato pubblicato l’avviso pubblico con cui ben 44,8 di quei milioni andranno a finanziare progetti di rilevanza nazionale presentati da organizzazioni di volontariato (ODV), associazioni di promozione sociale (APS) e le fondazioni del terzo settore, da soli o in partnership tra loro.

La prima novità introdotta del bando è che unifica in un solo bando gli stanziamenti per ODV e APS, mentre in passato le risorse, oltre che molto inferiori, erano rese disponibili attraverso due direttive distinte che prendevano il nome dalle rispettive leggi di settore (la 266 e la 383). Inoltre vengono inserite tra i destinatari anche le fondazioni del Terzo settore. Il riferimento del bando è agli articoli 72 e 73 del Codice del Terzo settore che prevedono questo fondo secondo quanto previsto dall’art. 9 della legge delega 106/16 (la riforma del Terzo settore). www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/08/2/17G00128/sg

I progetti nazionali dovranno prevedere lo svolgimento delle attività in almeno 10 regioni (sono equiparate le province autonome di Trento e Bolzano). Per lo svolgimento delle attività, i proponenti potranno chiedere fino all’80% del costo previsto (del 50% se a presentare il progetto sono le fondazioni). Per la quota restante dovranno provvedere a un cofinanziamento, al quale potranno contribuire con risorse finanziarie anche enti pubblici o privati non appartenenti al terzo settore, la cui partecipazione però dovrà essere a costo zero per il progetto. Il finanziamento per ogni singolo progetto non dovrà essere inferiore a 250 mila euro e non superiore a 900 mila.

In attesa che il Registro unico del Terzo settore previsto dalla riforma prenda corpo, possono presentare i progetti APS e ODV iscritte ai relativi registri regionali e le fondazioni registrate all’anagrafe delle onlus. Altra novità è che i progetti potranno essere presentati dagli enti anche in partnership con le reti associative (la nuova forma aggregativa prevista dal Codice).

Le iniziative dovranno prevedere lo svolgimento di una o più attività di interesse generale previste dall’art. 5 del Codice e riguardare diverse aree di intervento, tra cui: contrasto dello sfruttamento sul lavoro; sviluppo della cultura del volontariato; sostegno all’inclusione sociale; prevenzione e contrasto delle dipendenze e delle forme di violenza; interventi su marginalità e esclusione sociale (persone senza dimora o in povertà assoluta, migranti); rafforzamento della cittadinanza attiva; promozione del sostegno a distanza e sviluppo delle forme di welfare generativo di comunità. La durata dei progetti sarà compresa tra i 12 e i 18 mesi. Le domande andranno consegnate al ministero entro le ore 12.00 dell’11 dicembre 2017.

Altri 26 milioni del fondo saranno destinati a progetti di rilevanza locale, sempre eseguiti da eseguiti dagli stessi soggetti, ma secondo criteri che verranno presto stabiliti dalle regioni. Inoltre è previsto lo stanziamento di un fondo rotativo di 10 milioni per attività di interesse generale promosse dagli enti di terzo settore, che sarà gestito dalla neonata Fondazione Italia Sociale. Le risorse saranno messe a disposizione sotto forma di finanziamenti agevolati per l’acquisto di terreni agricoli o di fabbricati – anche da ristrutturare; macchinari impianti e attrezzature di fabbrica; programmi informatici e servizi per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, veicoli e autoveicoli. La Fondazione si occuperà dell’istruttoria delle domande, concessione ed erogazione delle agevolazioni, esecuzione dei monitoraggi e dei controlli sullo svolgimento effettivo delle iniziative agevolate.

Sono poi previsti altri 7 milioni e 750 mila euro per l’acquisto di autoambulanze, veicoli per le attività sanitarie e beni strumentali e 2 milioni e 580 mila euro per le APS che si occupano di soggetti disabili svantaggiati.

Nello stesso comunicato, Bobba ha infine annunciato “altri importanti atti amministrativi riguardanti la costituzione dell’Organismo nazionale di controllo dei Centri di servizio del volontariato e l’istituzione del Consiglio Nazionale del Terzo settore. Così come, ben presto, sarà sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Ministero del Lavoro e diverse amministrazioni territoriali e statali per l’avvio del Social bonus“.

Clara Capponi Newsletter n. 19, 23 novembre 2017

CSVnet – Associazione dei Centri di Servizio per il volontariato

http://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/2705-si-sblocca-il-fondo-da-91-milioni-primo-bando-per-il-terzo-settore-unito?Itemid=893

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa: nuovo processo matrimoniale vicino a chi è ferito

Discorso di Papa Francesco ai partecipanti al corso promosso dal Tribunale della Rota Romana ed incentrato sul tema “Il nuovo processo matrimoniale e la procedura Super Rato”.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/november/documents/papa-francesco_20171125_corso-rotaromana.html

La “consolazione pastorale” è il fine della nuova normativa matrimoniale. E’ quanto ha affermato stamani Papa Francesco rivolgendosi ai partecipanti al “Corso di formazione per chierici e laici”, tenutosi dal 20 al 25 novembre a Roma. L’iniziativa, promossa dal Tribunale della Rota Romana, è incentrata sul tema: “Il nuovo processo matrimoniale e la procedura Super Rato”. La nuova normativa – ha aggiunto il Santo Padre – è “espressione della Chiesa che è in grado di accogliere e curare chi è ferito in vario modo dalla vita e, al tempo stesso, è richiamo all’impegno per la difesa della sacralità della vita”.

Ha quindi rivolto una esortazione: “Nel vostro servizio, voi siete chiamati ad essere prossimi alla solitudine e alla sofferenza dei fedeli che attendono dalla giustizia ecclesiale l’aiuto competente e fattuale per poter ritrovare la pace delle loro coscienze e la volontà di Dio sulla riammissione all’Eucaristia”.

Si recuperi la prassi sinodale. Di fronte “alle questioni più spinose che riguardano la missione evangelizzatrice e la salvezza delle anime – ha poi spiegato il Pontefice – è importante che la Chiesa recuperi sempre più la prassi sinodale della prima comunità di Gerusalemme”: “Lo spirito sinodale e la consolazione pastorale diventino forma del vostro agire nella Chiesa, specialmente in quell’ambito così delicato che è quello della famiglia alla ricerca della verità sullo stato coniugale dei coniugi. Con questo atteggiamento ognuno di voi sia leale collaboratore del proprio vescovo, al quale le nuove norme riconoscono un ruolo determinante, soprattutto nel processo breve, in quanto egli è il ‘giudice nato’ della Chiesa particolare”.

Il processo breve non è un’opzione. Nella nuova normativa è stata abolita la doppia sentenza conforme, e si è dato vita al cosiddetto “processo breviore”, rimettendo al centro la figura e il ruolo del vescovo diocesano o dell’eparca, nel caso delle Chiese orientali, come giudice delle cause. Il vescovo diocesano – ha precisato Papa Francesco – è “giudice personale ed unico nel processo breviore”. Tale processo – ha ricordato il Papa – “non è un’opzione che il vescovo diocesano può scegliere ma è un obbligo che proviene dalla sua consacrazione e dalla missio ricevuta”.

Misericordia, prossimità e gratuità. La figura del vescovo-diocesano-giudice è “l’architrave”, “il principio costitutivo e l’elemento discriminante dell’intero processo breviore”. “Egli – ha aggiunto il Pontefice – è competente esclusivo nelle tre fasi del processo breviore”: l’istanza, “che va sempre indirizzata al vescovo diocesano”, l’istruttoria e la decisione. Uno dei criteri fondamentali è “la misericordia”. Tale fondamento – ha affermato il Papa – richiede che “il vescovo diocesano attui quanto prima il processo breviore”. “La prossimità e la gratuità sono le due perle di cui hanno bisogno i poveri, che la Chiesa deve amare sopra ogni cosa”.

Tenere presenti due recenti lettere apostoliche in forma di “Motu Proprio”. Papa Francesco ha anche sottolineato che è necessario “riservare grande attenzione e adeguata analisi” alle due sue recenti lettere apostoliche, in forma di “Motu Proprio”, “scaturite da un contesto sinodale”, “espressione di un metodo sinodale” e “approdo di un serio cammino sinodale”:

  • Mitis Iudex Dominus Jesus” sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel codice di diritto canonico. Sono indicate disposizioni – si legge in questa lettera apostolica – per favorire “non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio”.

  • Mitis et misericors Iesus” sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio nel codice dei canoni delle Chiese Orientali. “I Sinodi delle Chiese orientali, che devono essere soprattutto spinti dall’ansia apostolica di raggiungere i fedeli dispersi, avvertano fortemente – si sottolinea in questo documento – il dovere di condividere la conversione, e rispettino assolutamente il diritto dei vescovi di organizzare la potestà giudiziale nella propria Chiesa particolare”.

Amedeo Lomonaco Radio vaticana 25 novembre 2017

http://it.radiovaticana.va/news/2017/11/25/discorso_del_papa_sul_nuovo_processo_matrimoniale/1351115

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GARANTE PER L’INFANZIA

Le politiche per l’infanzia richiedono una visione strategica di lungo periodo

La Garante Filomena Albano a Napoli per il convegno sui vent’anni della legge 285: “le politiche per l’infanzia richiedono una visione strategica di lungo periodo che metta al centro i diritti dei bambini”.

www.camera.it/parlam/leggi/97285l.htm

“La 285 del 1997 è stata una legge innovativa per tanti motivi e in particolare perché ha posto al centro il benessere delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi, creando le condizioni operative per l’attuazione dei diritti previsti dalla Convenzione di New York. Nonostante i passi in avanti fatti, in termini di politiche e in termini normativi, non si può non considerare che c’è ancora molto da fare per superare le attuali disuguaglianze tra bambini e ragazzi”. Lo ha detto stamattina l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, intervenendo a Napoli nel corso del convegno “Vent’anni dalla parte dei cittadini in crescita. I risultati e le potenzialità attuali della legge 285/97 per la promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, promosso dalla città di Napoli e dal Ministero del Lavoro e delle politiche Sociali.

Presente il Ministro Giuliano Poletti, che è stato accolto, insieme alla Garante Albano, al Sindaco di Napoli Luigi De Magistris e all’Assessore alle politiche sociali del comune di Napoli Roberta Gaeta, da un gruppo di bambine e bambini di Napoli che si sono esibiti con danze e musiche della tradizione partenopea e hanno dialogato con le autorità.

La Garante Albano ha posto l’accento, in particolare, sulla necessità di adottare “una pianificazione strategica generale e di lungo periodo” e di “attivare una cabina di regia unitaria per la gestione di tutte le misure in favore dell’infanzia e dell’adolescenza, in modo da superare le criticità esistenti. Alcune di esse sono di natura culturale: il ripiegamento individuale ha messo in crisi il modello di cittadinanza attiva. Dobbiamo lavorare in prospettiva e ripensare ai prossimi vent’anni – ha affermato – Immagino un futuro in cui le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, siano tutti cittadini della comunità Italia e cittadini attivi. Immagino un futuro in cui l’art. 2 della Convenzione di New York, il diritto di uguaglianza, possa trovare piena attuazione.”

News Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza 23 novembre 2017

http://www.garanteinfanzia.org/news/la-garante-filomena-albano-napoli-il-convegno-sui-vent%E2%80%99anni-della-legge-285-%E2%80%9Cle-politiche-l

 

Famiglie in crisi, al via il progetto Gruppi di Parola

L’iniziativa promossa da Autorità Garante per l’infanzia e adolescenza in collaborazione con Università Cattolica e Istituto Toniolo. In programma anche una campagna di sensibilizzazione

Esprimere i propri vissuti, porre le domande che affollano mente e cuore e dare un nome alle paure legate alla separazione. Nasce con questo obiettivo il progetto “Gruppi di Parola”, avviato all’inizio di novembre. Interventi brevi, destinati a bambini dai 6 agli 11 anni e adolescenti dai 12 ai 15, con genitori separati o divorziati. A promuoverli, l’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, in collaborazione con Università Cattolica del Sacro Cuore e Istituto Toniolo; a realizzarli, il Consultorio Familiare della Cattolica di Roma, il Centro di Ateneo di Studi e Ricerche sulla Famiglia con il Servizio per la coppia e la famiglia di Milano e il Consultorio Familiare dell’Istituto Toniolo di Napoli.

«I bambini devono essere aiutati ad affrontare il delicato passaggio del ciclo di vita della famiglia rappresentato dalla separazione», è il commento della Garante Filomena Albano, che ha fortemente voluto questo progetto in una linea di continuità tra l’attività di magistrato e quella di Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Anche questa iniziativa – continua – rientra nell’ambito del mese dedicato a ricordare i diritti dei bambini. E tra questi ci sono innanzitutto il diritto a crescere in un ambiente affettivo armonioso e il diritto a un sano sviluppo psico-fisico». Proprio per questo nella proposta, articolata in quattro incontri di due ore ciascuno a cadenza settimanale, sono coinvolti anche i genitori: dalla fase di informazione e autorizzazione per i figli alla partecipazione all’incontro conclusivo del gruppo, fino al colloquio di approfondimento realizzato a distanza di un mese.

A bambini e ragazzi, in concreto, viene offerta la possibilità di parlare, condividere pensieri ed emozioni, attraverso il gioco, il disegno e altre attività, con l’aiuto di professionisti specializzati. Attraverso lo scambio e il sostegno tra pari, il Gruppo «permette di uscire dall’isolamento e di trovare modi per dialogare con i genitori e per fronteggiare le difficoltà legate ai cambiamenti familiari», spiega ancora Albano. Non solo. Il progetto ha anche l’obiettivo di rilevare le esperienze realizzate sul territorio italiano e di promuovere un network nazionale di professionisti formati alla conduzione dei Gruppi di Parola, attraverso laboratori per il confronto e la revisione della pratica.

«Questo progetto è di grande interesse per le équipe dell’Università Cattolica e dell’Istituto Toniolo che dal 2005 hanno introdotto e diffuso i Gruppi di Parola in Italia», sottolinea la responsabile del progetto e direttore del Consultorio familiare dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma Paola Cavatorta. «I nostri servizi – prosegue – sono da sempre impegnati nel sostegno dei legami familiari e attenti ai bisogni dei più piccoli». E proprio loro saranno i protagonisti della campagna di sensibilizzazione che nascerà dal progetto, i cui risultati saranno presentati nell’ambito di un convegno finale. La campagna infatti sarà realizzata attraverso l’utilizzo dei materiali che saranno prodotti dai bambini e dai ragazzi nel corso della partecipazione ai gruppi di parola.

Redazione online Roma sette il 21 novembre 2017

www.romasette.it/famiglie-crisi-al-via-progetto-gruppi-parola

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MATERNITÀ SURROGATA

Attesa la Consulta. Maternità surrogata, il nodo del riconoscimento del minore

Il caso di una coppia che ha fatto ricorso all’utero in affitto in India. Di chi è figlio quel bimbo? La Corte Costituzionale si dovrà pronunciare. Il criterio di verità e l’interesse del minore.

La famiglia è ancora quella fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, così come previsto dalla Costituzione, oppure tale si può ritenere qualsiasi unione caratterizzata unicamente da sentimenti e volontà (di stare insieme, di avere figli…)? Anche su questo si è discusso ieri in Consulta, analizzando quella “vicenda complessa” – così l’ha definita il suo giudice relatore, Giuliano Amato – di una coppia milanese che aveva fatto ricorso in India alla maternità surrogata, e che – al rientro in Italia – si era dovuta confrontare con il divieto imposto in patria dalla legge 40\2004. www.camera.it/parlam/leggi/04040l.htm

Questa la prima domanda giuridica fatta propria dall’ufficiale di stato civile del Comune e dal Tribunale per i minorenni: di chi è figlio quel bimbo? Di entrambi i membri della coppia che l’ha “ordinato”? Oppure solo dell’uomo, unico dei due a fornire il proprio materiale genetico? Ed ecco la risposta della Corte d’appello meneghina, a conferma di una precedente sentenza del Tribunale minorile: secondo l’articolo 263 del codice civile, per cui “il riconoscimento (di un minore, ndr) può essere impugnato per difetto di veridicità”, quel bimbo è figlio solo dell’uomo. Ma attenzione: ritenendo questa norma lesiva del piccolo, nella misura in cui a detta della corte territoriale non consente di valutare la sua operatività in relazione al suo superiore interesse, i giudici di secondo grado ne hanno ravvisato un sospetto d’incostituzionalità. E per questo l’hanno posta all’esame della Consulta, insieme – per gli stessi motivi – al divieto di maternità surrogata imposto come detto dalla legge 40 del 2004.

Così, ieri, in aula non c’era solo il legale della donna (che vorrebbe figurare come madre nel certificato di nascita del piccolo). A sostenerne integralmente le posizioni pure il curatore speciale del minore, che nel precedente giudizio aveva sì impugnato il riconoscimento fatto dalla “madre d’intenzione”, ma solo per cercare di dimostrare come l’articolo 263 del codice civile lo obbligava a far ciò fosse contrario ai principi della nostra Costituzione. Questa la sua posizione: nei rapporti genitoriali, oggigiorno, il criterio di verità deve cedere a quello del supremo interesse del bimbo. Sul presupposto che “è cambiata la famiglia, è cambiato il senso di famiglia”, ed esistono “nuove leggi” (velata ma chiara l’allusione alla “Cirinnà” così come “recenti pronunce in tema d’adozione” (omogenitoriali). Ma di fronte a questa prospettiva è giunta ferma la replica dell’Avvocatura di Stato: «Non stiamo facendo una battaglia di retroguardia – ha esordito Chiarina Aiello –, ma semplicemente presentando l’interpretazione corretta dell’articolo 263»: una norma che «tutela il minore proprio perché posta a salvaguardia della naturalità della famiglia». Al contrario, ha argomentato l’avvocato di Stato, si porrebbero profili d’incostituzionalità se si consentisse – come richiesto da curatore e “coppia committente” del piccolo – che questa norma funzionasse solo con riguardo all’interesse del minore: «Pensiamo alle conseguenze dell’eventuale mancato disconoscimento che si genererebbero nei confronti degli eredi, o anche a quelle affettive che si produrrebbero su altri minori inseriti in quella stessa famiglia.». E a tutto voler concedere, ha concluso Aiello, lo stesso articolo recita «può» disconoscere, non «deve», essendo già ciò sufficiente a consentire una ponderazione di tutti gli interessi in gioco e a fugare così la proposta eccezione di legittimità costituzionale. La Consulta si pronuncerà nelle prossime settimane, consapevole – come ha ricordato ieri Amato – che la «maternità surrogata, nel nostro ordinamento, riscontra un disvalore molto forte».

Marcello Palmieri Avvenire 22 novembre 2017

www.avvenire.it/attualita/pagine/maternit-surrogata-il-nodo-del-riconoscimento-del-minore

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MOBBING

Il Mobbing: che cos’è e come ci si può difendere

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.

Quando si è in presenza di mobbing. Non esiste un criterio specifico per individuare le azioni che possono far configurare un caso di mobbing. In linea di massima, assume rilievo ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritiere.

Per avere un idea più completa sulle condotte che possono condurre a un simile illecito è possibile fare riferimento a www.studiocataldi.it/tag.asp?id=mobbing

Come difendersi dal mobbing: la tutela civile e penale

Nel nostro ordinamento possono rinvenirsi diverse norme che permettono alle vittime di tutelarsi rispetto a fenomeni di mobbing.

  • La prima fondamentale tutela può essere rinvenuta nella Costituzione. La carta fondamentale del nostro ordinamento, infatti, all’articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo, all’articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e all’articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

  • Spostandoci dal piano dei principi a quello pratico, nel nostro codice civile è possibile rinvenire due fondamentali norme in grado di aiutare le vittime di comportamenti mobbizzanti a trovare tutela rispetto alle lesioni subite.

  1. Si tratta, innanzitutto, dell’articolo 2043 che prevede l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.

  2. Si tratta poi dell’articolo 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale di lavoratori.

  • Con riferimento alle leggi speciali, una tutela contro comportamenti mobbizzanti può essere ravvisata innanzitutto nello Statuto dei lavoratori, nella parte in cui pone una specifica procedura per le contestazioni disciplinari a carico dei lavoratori e laddove punisce i comportamenti discriminatori del datore di lavoro.

  • Un’ulteriore tutela, di carattere più generale, è ravvisabile, infine, nel Testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

  • La tutela prevista dalle norme del codice penale. Il mobbing, nel nostro ordinamento può talvolta assumere rilevanza anche da un punto di vista penale, sebbene non esista una specifica figura di reato. I comportamenti mobbizzanti, infatti, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.

  • Il risarcimento del danno in sede civile. Le vittime di mobbing, quindi, trovano la loro principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento. Esse potranno, in altre parole, citare in giudizio il loro mobber dinanzi al giudice civile al fine di vederne accertata la responsabilità per i danni che ha cagionato nei loro confronti e ottenerne la condanna al risarcimento delle sofferenze patite. A tale proposito, va detto che le tipologie di danno che possono essere richieste in sede civile e per le quali il giudice può disporre il risarcimento sono molteplici e possono riguardare sia il danno non patrimoniale che il danno patrimoniale.

  1. Il mobbizzato, infatti, può essere risarcito innanzitutto per le sofferenze non patrimoniali subite in conseguenza delle condotte persecutorie, che vanno valutate globalmente dando rilevanza alla lesione della salute psico-fisica del danneggiato (danno biologico), alla sofferenza interiore derivante dalle condotte persecutorie (danno morale) e al peggioramento delle sue condizioni di vita quotidiane (danno esistenziale).

  2. Egli, inoltre, in alcuni casi può essere risarcito anche del danno patrimoniale subito in conseguenza del mobbing e che comporta, in sostanza, un’incidenza negativa sulla sua sfera economica. Ad esempio, il danno patrimoniale subito dal mobbizzato può identificarsi nell’essere stato costretto a sostenere delle spese mediche, farmaceutiche o per visite specialistiche in conseguenza delle lesioni psico-fisiche derivanti dal mobbing o, anche, nel mancato guadagno conseguente all’impoverimento delle sue capacità professionali che si verifica in tutti i casi in cui il mobbing comporta un’inattività forzata del lavoro, la sua perdita di chances, il mancato avanzamento di carriera, la compromissione della sua immagine professionale e così via.

L’onere della prova. Affinché possa essere risarcito del danno subito, tuttavia, è necessario che il mobbizzato fornisca una prova precisa e adeguata del mobbing. Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio. Costituiscono esempi di tali comportamenti, si ricorda, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.

  1. Il mobbizzato dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto di riferimento.

  2. Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.

  3. Infine, ed è questa la prova più delicata da fornire, dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.

Mobbing sul lavoro. Il contesto principale con riferimento al quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello lavorativo. In tal contesto, sostanzialmente, il mobbing si estrinseca in tutti quei comportamenti che il datore di lavoro o i colleghi pongono in essere, per svariate ragioni, al fine di emarginare e allontanare un determinato lavoratore.

Da tale definizione è possibile far discendere una prima forma di classificazione del mobbing: quella che distingue il mobbing verticale dal mobbing orizzontale.

  1. Il mobbing verticale o bossing è la classica forma nella quale si estrinseca il mobbing e consiste negli abusi e nelle vessazioni perpetrati ai danni di uno o più dipendenti da un loro diretto superiore gerarchico. In questi casi le possibilità di ribellarsi a tali atteggiamenti sono spesso molto limitate e di non facile attuazione, in ragione dei rapporti di forza sbilanciati tra mobber e mobbizzato.

  2. Per mobbing orizzontale, invece, si intende l’insieme di atti persecutori messi in atto da uno o più colleghi nei confronti di un altro, spesso finalizzati a screditare la reputazione di un lavoratore mettendo in crisi la sua posizione lavorativa. Si tratta di comportamenti difficili da fronteggiare e denunciare soprattutto se attuati da un gruppo.

  3. Per quanto esse siano del tutto inusuali, talvolta possono comunque verificarsi anche ipotesi di mobbing dal basso o low mobbing. Si tratta di una serie di azioni che mirano a ledere la reputazione delle figure di spicco aziendali, magari a seguito di un loro comportamento ritenuto non idoneo da parte di un buon numero di dipendenti oppure per motivi semplici quanto futili, come antipatia o invidia per il potere mostrato o per la posizione raggiunta. E’ una situazione che, ad esempio, può verificarsi in ipotesi di crisi economica aziendale. In questi casi, infatti, non è raro che la figura del capo sia considerata alla base della crisi e di ogni altra problematica come disorganizzazione, cattiva reputazione dell’azienda, incapacità di essere competitivi.

Il mobbing verticale (o bossing). Tra le diverse tipologie di mobbing che possono estrinsecarsi nel mondo del lavoro, di certo quella più diffusa è il bossing. Innanzitutto occorre chiarire che questa pratica combina, in maniera premeditata, azioni a scopo intimidatorio con veri e propri atti di violenza psico-fisica e di esclusione dai privilegi aziendali solitamente riservati in forma equa ai vari dipendenti. Tali provvedimenti riguardano spesso l’assegnazione d’incarichi lavorativi specifici, l’esclusione dai meeting [riunione] del personale dipendente e il tenere nascoste solo ad alcuni dipendenti le informazioni che usualmente vengono diffuse tra tutti.

Tra gli altri atteggiamenti che caratterizzano il comportamento mobbizzante vi è poi, ad esempio, il fenomeno del ridimensionamento di ruolo nella comunità aziendale, che vede brillanti dipendenti (ritenuti potenzialmente pericolosi per lo status di alcuni alti membri del comitato direttivo a rischio) incaricati di mansioni di poco conto, come quella di fare fotocopie o gestire la posta di altri dipendenti di pari rango, che li demotivano e limitano l’espressione delle proprie capacità e conoscenze.

L’intento è quello di creare nella vittima, per varie ragioni, un senso di emarginazione e di cagionarle frustrazione e un’ansia sempre crescente e spesso insopportabile.

Mobbing in contesti diversi dall’ambito lavorativo. Sino ad ora, nel parlare di mobbing si è fatto riferimento esclusivo al mondo del lavoro.

Tuttavia, nonostante questo sia il contesto in cui il fenomeno assume la rilevanza maggiore, il mobbing riguarda anche altri contesti. Un individuo, infatti, può essere “preso di mira” e può divenire vittima di ripetute vessazioni in qualsiasi contesto sociale.

  • mobbing scolastico. Ciò accade, ad esempio, all’interno dell’ambiente scolastico, in cui i ragazzi possono divenire vittime del mobbing operato sia da altri studenti che dagli insegnanti.

  • www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_12378.asp

Si pensi ai casi di disapprovazione infondata di alcune abitudini o idee dello studente o, ancora peggio, ai casi di pregiudizio nei suoi confronti derivante dalle origini, dalle tradizioni o dalla diversa etnia. Anche nel caso di mobbing scolastico non sono da sottovalutare, seppur rari, i casi di mobbing dal basso che riguardano gruppi coalizzati di studenti che mirano a ledere le capacità organizzative e di dialogo di uno o più insegnanti ritenuti particolarmente deboli.

  • mobbing familiare. Un altro contesto sociale in cui il mobbing può estrinsecarsi è quello familiare,

www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_12379.asp

Esso ad esempio, riguarda i casi in cui un coniuge vuole ottenere il monopolio delle attenzioni della prole e, a tal fine, cerca di estromettere il partner dalle questioni familiari.

E’ chiaro che questo tipo di mobbing è nocivo non solo della stabilità del nucleo familiare e della salute della vittima diretta ma anche di quella dei figli e di tutto il nucleo familiare.

Etimologia. La parola mobbing è stata coniata ufficialmente da un etologo austriaco, Konrad Lorenz.

Il significato iniziale si riferiva, infatti, a tutti quegli atteggiamenti animali perpetrati da uno o più membri di un gruppo nei confronti di quello che potrebbe essere definito come l’anello debole dell’insieme, al fine di estraniare il soggetto dal resto branco e allontanarlo.

Più specificamente, il termine mobbing non è altro che una forma di gerundio sostantivato del verbo “to mob“, coniato, nella lingua inglese, nel corso del XVII secolo e diretto derivato di una comune espressione latina, mobile vulgus, con la quale ci si riferiva ai folti gruppi tipici di una parata o di un evento locale, che avevano la cattiva abitudine di muoversi in modo disordinato seminando il caos nei dintorni.

Con il termine “to mob”, in sostanza, si intende letteralmente: accalcarsi intorno a qualcuno, affollarsi, assalire tumultuando.

Oggi, tuttavia, l’accezione del termine si è sviluppata sino ad indicare, in generale, le persecuzioni psicologiche perpetrate da parte di uno o più individui nei confronti di un altro, nel contesto lavorativo e non solo. Oggi con il termine mobbing si intende quella forma di terrore psicologico, esercitato, con modalità e tempistiche ben precise, in danno di un collega di lavoro, di un subordinato, di un individuo più debole, con il chiaro intento di danneggiarlo ed emarginarlo.

Affinché il mobbing assuma rilevanza sul piano giuridico è più in particolare necessario che il terrore psicologico si estrinsechi in comportamenti aggressivi e vessatori, che si protraggano nel tempo in maniera ripetitiva, regolare e frequente.

Cause alla base del mobbing. Se i comportamenti individuati come mobbing hanno assunto rilevanza nei vari ordinamenti giuridici principalmente in relazione agli ambienti di lavoro, ciò è derivato dalle particolari caratteristiche che connotano il relativo ramo del diritto. Il mobbing, non a caso, riguarda spesso grandi aziende, le quali lo utilizzano per aggirare la normativa a tutela dei licenziamenti cagionando nel lavoratore “sgradito” una condizione di stress psico-fisico, idonea a determinarlo ad abbandonare di sua “spontanea volontà” il luogo di lavoro.

Tuttavia le motivazioni che possono celarsi dietro gli atti mobbizzanti sono molteplici.

  • Talvolta, ad esempio, l’intento dei mobber è quello di riversare su un “capro espiatorio” alcune problematiche interne di vario genere.

  • Altre volte il mobbing è dettato da motivazioni di carattere strettamente personale.

  • Esso può anche essere la conseguenza del rifiuto, da parte della vittima, delle avances del superiore o del collega poi divenuto mobber.

Da tutto ciò emerge chiaramente che le conseguenze dannose del mobbing non sono necessariamente connesse alla perdita del posto di lavoro che esso può illecitamente e indirettamente cagionare. Essere vittima di ripetute vessazioni, attacchi e umiliazioni può, infatti, indurre nel lavoratore paure e insicurezze, idonee ad incidere in maniera anche rilevante sulla sua salute psico-fisica.

Guide legali Newsletter Giuridica Studio Cataldi 20 novembre 2017

www.studiocataldi.it/guide_legali/il-mobbing

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OMOGENITORIALITA

Indicazione di due donne quali genitori

Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 14878, 15 giugno 2017

Deve essere accolta la domanda di “rettificazione” dell’atto di nascita del minore nato all’estero e figlio di due madri coniugate all’estero, già trascritto in Italia nei registri dello stato civile con riferimento alla sola madre biologica, non sussistendo contrasto con l’ordine pubblico internazionale italiano. (Massima ufficiale).

file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/18504.pdf

Il Caso.it, Sezione Giurisprudenza, n. 18504, 22 novembre 2017

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/18504/divorzio22 novembre 2017

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Camera dei Deputati. 2° Commissione Giustizia. Assegno divorzile.

C4605. «Modifiche all’articolo 5 della legge n. 898 del 1970, in materia di assegno di divorzio».

www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0054400&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=4605-e-sede=-e-tipo=

21 novembre 2017. La Commissione prosegue l’esame del provvedimento in oggetto, rinviato nella seduta del 5 ottobre 2017. Donatella Ferranti, presidente e relatrice rammenta che nella seduta del 15 novembre scorso si è conclusa l’indagine conoscitiva deliberata dalla Commissione sulla materia oggetto del provvedimento in discussione. Nessuno chiedendo di intervenire, dichiara concluso l’esame preliminare del provvedimento in discussione e fissa il termine di presentazione degli emendamenti alle ore 16 del 7 dicembre.

pag. 35 di

www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2017&mese=11&giorno=21&view=&commissione=02&pagina=data.20171121.com02.bollettino.sede00030.tit00020#data.20171121.com02.bollettino.sede00030.tit00020

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POLITICHE PER LA FAMIGLIA

La famiglia dimenticata

Nel campo delle politiche di sostegno alle famiglie si continua a procedere per frammenti dispersi e inefficienti. I servizi per la prima infanzia continuano a essere insufficienti, anche per incapacità, quando non esplicito ostruzionismo, delle amministrazioni locali, specie nel Mezzogiorno. Le scuole a tempo pieno vanno riducendosi di anno in anno. L’estate continua a estendersi come tempo vuoto di servizi accessibili a tutti i bambini e ragazzi a prescindere dalle risorse dei genitori. I servizi di cura domiciliare per le persone non autosufficienti sono un’araba fenice. Le misure di sostegno al costo dei figli sono un puzzle complesso di cui qualcuno riesce, almeno per un certo periodo, ad avere tutti i pezzi, mentre altri, spesso i più poveri, rimangono a bocca asciutta.

È comprensibile che, a fronte di questa situazione e di un dibattito pubblico tutto concentrato sulle pensioni, qualcuno si sia arrabbiato quando nel progetto di legge di stabilità il governo ha pensato bene di sfilare uno di quei frammenti: il bonus bebè. Ciò facendo, infatti, il governo ha segnalato esplicitamente come l’elettorato dei potenziali genitori conti meno di quello dei pensionandi e pensionati, per non parlare dei diritti dei bambini. Nulla di nuovo, ahimè, nella storia del welfare State italiano, in cui le politiche di sostegno alle responsabilità famigliari, insieme a quelle di contrasto alla povertà, sono state sempre la cenerentola delle politiche sociali, insieme residuali e casuali. Ma anche la richiesta di reintrodurre il bonus e di alzare la soglia di reddito al di sotto della quale un figlio (anche maggiorenne) è considerato dipendente, e quindi dà luogo a una detrazione fiscale, mi sembra seguire la stessa logica.

Invece di procedere a una riorganizzazione complessiva del sostegno alle famiglie con figli, se ne conferma la frammentazione e l’eterogeneità: assegno al nucleo famigliare destinato alle famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito, assegno per il terzo figlio per le famiglie a reddito molto basso e tre figli tutti minori, detrazione fiscale per i figli a carico, bonus bebè per i nati nel triennio. Ciascuna di queste misure usa non solo un criterio di reddito diverso, ma lo determina in modo differente. Per l’assegno al nucleo famigliare non si utilizza l’Isee, che si usa invece per l’assegno al terzo figlio, mentre per il bonus bebè non vale alcun limite di reddito. Quanto alle detrazioni fiscali (sul reddito individuale, non famigliare) sono accessibili solo a chi è fiscalmente capiente. I bambini con genitori poveri che non sono lavoratori dipendenti, se non hanno almeno due fratelli/sorelle minori non danno diritto né all’assegno al terzo figlio, né all’assegno al nucleo famigliare, né alla detrazione fiscale (per incapienza). E, se nati fuori dal triennio di validità del bonus, neppure al bonus bebè.

Eppure, se si fosse voluto davvero costruire un pezzo sensato di politiche famigliari per compensare una parte del costo dei figli, sarebbe bastato approvare una proposta di legge di iniziativa dei senatori, presentata un anno fa, intesa a razionalizzare la spesa che si perde in mille rivoli inefficaci unificandola in un un’unica misura, un assegno periodico per i figli fino alla maggiore età, universale ancorché decrescente con il crescere del reddito famigliare. L’occasione era stata già persa lo scorso anno quando, invece di battersi per una riforma organica, anche i “sostenitori della famiglia” si accontentarono di potersi vantare di aver ottenuto un ennesimo bonus. Passato un anno senza che nulla sia stato fatto e che neppure si sia aperto un confronto, lo stesso copione viene riproposto. Non è così che si sostengono le famiglie con figli né tantomeno si incoraggia la scelta di fare un figlio (in più).

Chiara Saraceno la Repubblica 24 novembre 2017

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/11/24/la-famiglia-dimenticata50.html?ref=search

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SEPARAZIONE

Affido, giudice italiano incompetente se il minore risiede all’estero

Cassazione Sezioni Unite Civili, sentenza n. 13912, 05 giugno 2017.

L’accettazione della giurisdizione italiana nell’ambito del giudizio di separazione personale non esplica alcun effetto nel successivo procedimento di modifica delle condizioni della separazione instaurato per ottenere l’affidamento di figli minori, sia perché quest’ultimo è un nuovo giudizio (come si evince anche dall’art. 12, par. 2, lett. a), del reg. CE n. 2201 del 2003), sebbene ricollegato al regolamento attuato con la decisione definitiva o con l’omologa della separazione consensuale non più reclamabile, in base al suo carattere di giudicato “rebus sic stantibus”, sia perché il criterio di attribuzione della giurisdizione fondato sulla cd. vicinanza, dettato nell’interesse superiore del minore come delineato dalla Corte di giustizia della UE, assume una pregnanza tale da comportare l’esclusione della validità del consenso del genitore alla proroga della giurisdizione. (Massima ufficiale) Il Caso.it – News 241 del 23 novembre 2017

Testo file:///C:/Users/Giancarlo/Downloads/18510.pdf

http://divorzio.ilcaso.it/sentenze/ultime/18510/divorzio

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SEPARAZIONI E DIVORZI

Vademecum per chi decide di dirsi addio consensualmente davanti al sindaco senza ricorrere ai tribunali

Dal 2014, per le coppie che decidono di dirsi addio consensualmente, può bastare recarsi dal sindaco senza passare dal tribunale. È una delle novità principali introdotte nel sistema dal c.d. “decreto giustizia” (D. L. n. 132/2014), convertito in legge n. 162/2014, con l’obiettivo di semplificare le procedure in materia di separazione e divorzio, snellendo il lavoro delle cancellerie ed evitando di ingolfare le aule giudiziarie con contenziosi tranquillamente risolvibili in via amministrativa.

www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/11/10/14A08730/sg

Separazioni e divorzi davanti: accordo davanti al sindaco. Secondo il disposto dell’art. 12 del decreto, infatti, i due coniugi potranno presentarsi di fronte al sindaco del comune di residenza (di almeno uno di loro) o presso il quale il matrimonio è stato iscritto o trascritto, per concludere un accordo di separazione personale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili ovvero di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio precedentemente stabilite.

Il primo cittadino, nella sua qualità di ufficiale dello stato civile, una volta ricevute le dichiarazioni da ciascuno dei coniugi personalmente (e con l’eventuale e facoltativa assistenza di un avvocato) farà sottoscrivere l’accordo che avrà valore di provvedimento giudiziale, a far data dalla conclusione dell’atto.

Fatta eccezione per l’accordo inerente la modifica delle condizioni di separazione e divorzio (che acquisisce immediato valore), per le altre ipotesi è previsto, tuttavia, un doppio passaggio procedurale.

Sulla base delle modifiche apportate al decreto in sede di conversione, al fine di concedere alla coppia un po’ di tempo per riflettere, il sindaco dovrà fissare, infatti, un termine minimo di trenta giorni, decorsi i quali i coniugi dovranno comparire innanzi a lui per confermare l’accordo, a pena di mancata conferma.

È importante chiarire che la procedura in esame non incide assolutamente sul decorso del tempo necessario per ottenere il divorzio, una volta conclusa la separazione.

È importante, altresì, sottolineare che, oltre al divieto di inserire nell’accordo patti di trasferimento patrimoniale, la procedura incontra altri limiti. Non è applicabile, infatti, in presenza di figli minori, maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti.

Separazioni e divorzi: quando ricorrere alla negoziazione assistita. In tal caso, i coniugi potranno ricorrere alla “negoziazione assistita”: tale istituto, introdotto dalla riforma, consente, infatti, alla coppia di separarsi, sciogliere o far cessare gli effetti civili del matrimonio ovvero di modificare le condizioni di separazione o di divorzio prefissate, con l’assistenza di uno o più legali di fiducia, anche in presenza di figli, previo nulla osta del procuratore della Repubblica.

NB: ll secondo comma dell’articolo 6 del D.L. 132/2014 (convertito con legge 162/2014), stabilisce tra le altre cose che: “In presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il quale, quando ritiene che l’accordo risponde all’interesse dei figli, lo autorizza. Quando ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli, il procuratore della Repubblica lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo”.

Redazione Newsletter Giuridica Studio Cataldi 20 novembre 2017

www.studiocataldi.it/articoli/16890-separazioni-e-divorzi-davanti-al-sindaco.asp

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