NewsUCIPEM n. 650 – 21 maggio 2017

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ABBANDONI Non lasciamo sole le gestanti in gravi difficoltà e preveniamoli.

ABORTO

ABORTO VOLONTARIO

ADOZIONE

ADOZIONE INTERNAZIONALE

ADOZIONI PLANETARI

AFFIDAMENTO CONDIVISO

AFFIDATARI

AMORIS LÆTITIA

ASSEGNO DI MANTENIMENTO

ASSEGNO DIVORZILE Non più «uguale tenore di vita»: così cambia l’assegno di divorzio.

Criteri per la valutazione dell’an e del quantum debeatur.

Mirabelli: «Viene meno riconoscimento contributo a vita familiare»

Non serve provare l’assoluta inesistenza di lavoro.

CASA CONIUGALE

06 CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF Newsletter n. 18/2017, 10 maggio 2017.

CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA Essere adolescenti oggi – età di paure e conflitti

CHIESA CATTOLICA

CINQUE PER MILLE

11 COMM. ADOZIONI INTERNAZION.

14 CONSULTORI FAMILIARI

19 CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

CONVIVENZE

 

DALLA NAVATA 4°Domenica – Anno A – 7 maggio 2017

Gesù, il pastore bello e buono.Commento di Enzo Bianchi,

DIVORZIO

EMBRIOLOGIA

18 ETICA

FAMIGLIA

FAMIGLIE NUMEROSE

FECONDAZIONE ETEROLOGA

FIGLIO

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

GESTAZIONE PER ALTRI

GRAVIDANZA

GRUPPI DI PAROLA

INFERTILITÀ

LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA

MEDIAZIONE FAMILIARE

MINORI

19 MINORI MIGRANTI

NATALITÀ

20 NULLITÀ DEL MATRIMONIO

21 OBIEZIONE DI COSCIENZA

23 OMOADOZIONE

OMOFILIA

ONLUS – NON PROFIT

OSSERVAT.x INFANZIA-ADOLESCNZA

PARLAMENTO Camera

PASTORALE FAMILIARE

PATERNITÀ

PEDAGOGIA

PENSIONE DI RIVERSIBILITÀ

POLITICHE FAMILIARI

 

25 PRESBITERI

26 P. M. A.

27 SCIENZA & VITA

28 SEPARAZIONE

SESSUOLOGIA

SINODO DEI VESCOVI

TRADIMENTO

TRIBUNALE ECCLESIASTICO

UCIPEM

UNIONI CIVILI

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Amoris Lætitia

Andrea Grillo blog: Come se non 1 marzo 2017

Blog de Il Regno sui Sinodi dei vescovi 3 marzo 2017

Notiziario Radio vaticana -25 febbraio 2017 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

news ai. bi. 2 maggio 2017

newsletter studio cataldi 4 maggio 2017

Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 2770, 2 febbraio 2017

corte di cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 6509, 16 febbraio 2017.

corte di cassazione – sesta sezione penale, sentenza n. 2666, 14 marzo 2017

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ABBANDONI

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ABORTO

 

Non lasciamo sole le madri in attesa. La vita ci chiede di essere accolta

[La vita ci chiede di essere accolta]

Gian Luigi Gigli* martedì 16 maggio 2017

 

Caro direttore,

l’editoriale di don Maurizio Patriciello pubblicato su ‘Avvenire’ di sabato 13 maggio 2017 ci ha colpito come un colpo nello stomaco mentre era in corso il Consiglio direttivo del Movimento per la Vita italiano. Non che si trattasse di qualcosa di nuovo: i problemi economici (la mancanza di lavoro, in primis) sono una delle cause principali di interruzione della gravidanza e i Centri di aiuto alla vita sono nati proprio per aiutare le gestanti in difficoltà.

 

Certamente, anche quelle che abortiscono per paura di possibili malformazioni nel nascituro, e oggetto spesso di terrorismo psicologico. Certamente anche quelle lasciate sole da chi le aveva messe incinte, o spinte all’aborto dagli stessi genitori; ma anche e soprattutto quelle a cui basta talora una mano tesa per dire sì alla vita. Per questo scopo è nato anche Progetto Gemma, che ogni anno raccoglie 2-3 milioni di euro per adottare per 18 mesi, prima e dopo il parto, 800-1000 gestanti, poi mamme, e i bambini che portano in grembo. Per le volontarie dei Cav storie come quelle di Alfio e Antonella sono purtroppo ordinaria amministrazione, problemi che danno senso all’impegno di ogni giorno. Malgrado questa quotidianità non possa mai generare in noi l’abitudine, la riflessione-appello di don Patriciello ci ha sconvolti per la forza con cui ha posto il problema e per l’evidenza della nostra debolezza nel rispondere. Aiutiamo ogni anno decine di migliaia di famiglie.

 

Aiutiamo 10-12 mila donne all’anno a dire sì alla vita. Vorremmo poter dare anche opportunità di lavoro, ma non siamo in grado purtroppo di farlo. Prevenire l’aborto causato da motivi economici dovrebbe essere interesse dello Stato, tanto più di uno Stato afflitto dalla denatalità. Lo dice la stessa legge 194, la quale aveva persino previsto fondi per proporre soluzioni alternative alle donne tentate dall’aborto. Fondi destinati a questa finalità specifica, ma dispersi presto nei rivoli indistinti della sanità regionale, come ha ammesso il ministro della Salute in risposta a una mia interrogazione parlamentare. Che fare dunque? Da subito mettiamo a disposizione di questa coppia i fondi di un Progetto Gemma. Il Consiglio ha inoltre deciso di trovare i fondi per incrementare l’importo, portandolo a 6.000 euro complessivi. A questi si possono aggiungere gli 800 euro del nuovo bonus mamme. Abbiamo inoltre sollecitato le nostre realtà della Campania ad attivarsi alla ricerca di un qualunque lavoro. Ad Alfio e Antonella chiediamo di darci tempo per intervenire, per evitare al bambino una fine crudele e a loro stessi la sofferenza che ne seguirà, inevitabilmente. Speriamo infatti di riuscire a dare loro, insieme alla certezza di un aiuto immediato, anche la risposta di lungo periodo da loro attesa. Tuttavia, se anche non riuscissimo in questa impresa, gli chiediamo comunque di non compiere scelte irreparabili. Non spengano la speranza. Non soffochino la vita da loro stessi generata.

 

La legge italiana consente il parto in anonimato. Salvino almeno così la loro creatura, dandole un futuro. Potranno non riconoscere il bambino, nella certezza che qualcuno in grado di amarlo se ne prenderà cura. Cogliamo questa occasione per chiedere alla nostra Chiesa di potenziare Telefono Rosso. Con una cifra modesta si potrebbe dare il conforto di una risposta scientificamente ineccepibile sui reali rischi malformativi che corre il nascituro, evitando paure immotivate alle loro mamme, aiutandole a compiere una scelta non animata da fantasmi. Infine, mentre ringraziamo don Maurizio per la sua denuncia, chiediamo alle autorità regionali e nazionali di raccogliere il grido di dolore di tante donne in trepidante attesa. Se solo alla maternità si assicurassero le stesse energie e le stesse somme spese nel garantire l’interruzione volontaria della gravidanza, l’Italia sarebbe un Paese più felice e migliore.

 

*presidente del Movimento per la Vita Italiano

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-vita-ci-chiede-di-essere-accolta

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ABORTO VOLONTARIO

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

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AFFIDATARI

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AMORIS LÆTITIA

orale

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

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ASSEGNO DIVORZILE

 

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CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA FAMIGLIA

Newsletter n. 18/2017, 10 maggio 2017.

 

 

http://newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/maggio2017/3037/index.html

Testo e link integrali http://newsletter.sanpaolodigital.it/Cisf/maggio2017/2037/index.html

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CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA

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CHIESA CATTOLICA

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CINQUE PER MILLE

COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

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CONSULTORI FAMILIARI

 

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

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CONVIVENZE

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DALLA NAVATA

5° Domenica di Pasqua –- Anno A – 14 maggio 2017

Atti 06, 03 [3]Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. [4]Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola»

Salmo33, 05 5] Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.

1Pietro02, 09 Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

Giovanni 14, 07 Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.

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DIVORZIO

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EMBROLOGIA

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EUROPA

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

http://www.forumfamiglie.org/2017/05/03/cuneo-torna-famiglia-sei-granda/

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

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GENETICA

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GESTAZIONE PER ALTRI

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GOVERNO

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GRAVIDANZA

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LEGGI

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MEDIAZIONE FAMILIARE

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MINORI MIGRANTI

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NATALITÀ

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NULLITÀ DEL MATRIMONIO

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OBIEZIONE DI COSCIENZA

 

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OMOFILIA

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OMOGENITORIALITÀ

 

Il caso. Gli psicologi ci ripensano: «No ai processi alle idee»

L’Ordine lombardo: ruolo di madre e padre? Nessuna crociata contro gli specialisti cattolici. Il presidente Bettiga dopo il caso dello psicologo accusato di aver difeso l’essenzialità dei ruoli

Gli psicologi ci ripensano: «No ai processi alle idee»

 

«L’Ordine degli psicologi non contesta la libertà di manifestazione del pensiero o la libertà di coscienza, né ha mai utilizzato la deontologia a scopo ideologico o persecutorio». Riccardo Bettiga, presidente dell’Ordine della Lombardia parla con calma, sorridendo. Come se anche il tono delle parole fosse determinante per trasmettere la sensazione di una volontà. Quella di appianare i dissidi e far passare il messaggio che non c’è alcun ‘caso’.

 

Lui lo ribadisce in modo ancora più chiaro: «Nessuna crociata contro gli psicologi cattolici e nessun procedimento disciplinare su pensieri, idee e opinioni». Il ‘caso’ invece c’è, eccome. Ed è stato proprio l’Ordine degli psicologi ad avviarlo, approvando l’apertura di un procedimento disciplinare nei confronti di Giancarlo Ricci, psicologo e psicoterapeuta milanese di vasta e indiscussa esperienza, ‘colpevole’ di aver tra l’altro affermato che la «funzione di padre e di madre è essenziale e costitutiva del processo di crescita », come abbiamo riferito nel dettaglio lo scorso 4 maggio. Madre e padre ‘essenziali’ per un bambino. Ovvietà, sembrerebbe, più che opinione su cui discutere o, addirittura, posizione ideologicamente connotata su cui imbastire un processo.

 

Il presidente Bettiga risponde alzando gli occhi al cielo. «Non posso entrare nel merito. Questa è stata una decisione presa a maggioranza. Il 25 maggio ci sarà la riunione e decideremo. Non siamo un tribunale corporativo ma un’interfaccia corporativa». Risposta doverosa per chi deve comunque tutelare un organismo professionale e non intende assumere posizioni divergenti rispetto agli altri consiglieri. Ma se potesse svestirsi un attimo dal suo ruolo e valutare da ‘uomo della strada’, non c’è dubbio che anche Bettiga riconoscerebbe l’inconsistenza degli addebiti. Ma non può. E allora si trincera dietro un ragionamento che la dice lunga: «C’è una complessità dietro i nostri atti, anche quelli disciplinari, che rischia di far cogliere dall’esterno situazioni molto più grandi di quello che in realtà sono». Non è abbastanza per tradurlo in un auspicio di archiviazione nei confronti di Ricci. Ma abbastanza per cogliere la volontà di de-ideologizzare la questione, per ribadire che gli psicologi lombardi – e speriamo anche quelli di altre regioni – sarebbero liberi di affrontare e di dibattere qualsiasi problema scientifico. Anche quello relativo all’accompagnamento terapeutico di persone a disagio con la propria identità sessuale? Anche se orientata verso l’omosessualità?

 

«Sì, dobbiamo avere la libertà di esplorare, senza posizioni pregiudiziali – ribadisce Riccardo Bettiga – l’orientamento sessuale dei nostri clienti. Naturalmente ogni corrente psicoterapeutica che mirasse con la propria azione professionale a condizionare verso eterosessualità o omosessualità, andrebbe segnalata perché contraria alla deontologia professionale». Ma questo non è il caso di Giancarlo Ricci a cui non viene imputata alcuna ‘terapia’ vietata ma – al di là di quanto sostiene Bettiga nelle sue vesti di presidente dell’Ordine – soltanto opinioni diverse rispetto al pensiero unico della lobby lgbt imperante tra gli psicologi. Opinione nostra, naturalmente, non certo di Bettiga, che conclude limitandosi a comunicare un dato statistico: «Il 90% dei procedimenti disciplinari viene archiviato».

Luciano Moia Avvenire 16 maggio 2017

 

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/contrordine-psicologi-no-ai-processi-alle-idee

 

La psicanalista Aloi. «Da genitori di sesso diverso codici essenziali per crescere»

Quale psicoterapia per i problemi di identità sessuale? «Ritengo innanzi tutto necessaria una precisazione. Noi “addetti ai lavori” abbiamo l’obbligo deontologico di accettare chiunque …

La psicanalista Grazia Aloi

 

La psicanalista Grazia Aloi

 

Quale psicoterapia per i problemi di identità sessuale? «Ritengo innanzi tutto necessaria una precisazione. Noi “addetti ai lavori” abbiamo l’obbligo deontologico di accettare chiunque si rivolga a noi per “qualsiasi” problematica, altrimenti con le dovute spiegazioni, si procede all’invio a un collega. È l’opinione di Grazia Aloi, psicoterapeuta e psicanalista milanese che da molti anni si confronta con sofferenza legate alla sessualità.

 

Tra le persone che si rivolgono a voi con disagi di tipo identitario, quanto pesa l’orientamento omosessuale?

Dobbiamo distinguere innanzi tutto le origini di questo disagio. Il pensiero non è mai libero, in nessuno, fintanto che vi sia la ‘coazione a ripetere’ di freudiana memoria, tuttora valida: finché ripetiamo che siamo (e vogliamo essere) lgbt non siamo liberi di esserlo perché ci tradisce il comportamento di esserlo. Nella maggior parte dei casi l’omosessualità – e lo dico sulla base della mia esperienza – nasce da ‘fatti psichici’ che hanno lasciato segno. Sia ben chiaro che non sto ‘psichiatrizzando’ la sessualità non etero. za d’oggetto’, l’impossibilità di ben attraversare le fasi evolutive fino alle peripezie della vita adolescenziale e di quelle dell’età adulta.

 

Condivide l’atteggiamento di chi sostiene che lo psicologo debba accompagnare il paziente senza ‘orientare’ le sue scelte? Da psicoanalista con i capelli bianchi sono obbligata a non giudicare, ma pensare, formulare un piano, ossia una prognosi. ‘Non giudicare’ non significa non avere in mente il problema, che esiste, eccome, altrimenti nessuno verrebbe spontaneamente da noi. Tenendo ben presente che qui non si tratta di fare una classifica tra persone più o meno ‘normali’. La persona è sempre normale, talvolta sono i suoi comportamenti esasperati in ambito sessuale che non lo sono.

 

L’accusa più clamorosa rivolta al suo collega Giancalo Ricci riguarda un riferimento all’essenzialità della funzione di madre e padre nel percorso di crescita. È così inaccettabile secondo la psicanalisi?

Se è vero che i figli sono di chi li cresce e non tanto di chi li genera, è altrettanto assolutamente indubitabile che i figli debbano avere due genitori di sesso opposto, pena la confusione di ruoli, di immagini, di interiorizzazioni. Tutto si può delegare in una società del pret-a-porter, ma non il concepimento di figli. Questi bimbi, venendo al mondo, hanno bisogno di due ‘zainetti’ diversi.

 

Cosa c’è nello ‘zainetto’ materno che è impossibile trovare altrove?

La mamma – e solo la mamma-donna – metterà la generosità della generatività, che non è cosa da poco. Metterà i principi del nutrimento (qualsiasi cosa si voglia intendere), metterà un ‘utero’ pronto ad accogliere i dolori, metterà l’insegnamento alla uguaglianza, al rispetto per il proprio

 

Omosessualità e condizione trangender determinano sempre un disagio psicologico?

No, se queste persone accettano e condividono in modo egosintonico la loro appartenenza psichica a quella fisiologica ed anatomica. Altrimenti sì.

 

E dal punto di vista della psicoanalisi?

Qui dobbiamo riconoscere che c’è quasi sempre un ‘trauma’: un rapporto troppo inibente oppure troppo gratificante, l’impossibilità di avere la cosiddetta ‘costanuale padre.

 

E nello ‘zainetto’ paterno?

Il padre – e solo il padre-uomo – metterà le istruzioni per l’uso di come funzionino le cose del mondo, metterà i codici del sipuò- non-si-può, sarà punto di riferimento (in modo differente) sia per una figlia che per un figlio. Ma soprattutto permetterà al figlio maschio la ‘castrazione’, ossia la liberazione dell’innamoramento della sua mamma.

 

Anche il modo del concepimento pesa sull’equilibrio psichico del bambino?

Forse alcuni genitori ‘non naturali’ pensano che i bimbi non abbiano una memoria prenatale. Mi spiace, non è così: ogni figlio ‘sa’ inconsciamente quello che è successo prima della sua nascita. Quando saremo in grado di studiare in modo sistematico gli effetti dell’utero in affitto sulla psiche dei bambini ne vedremo gli esiti in tutta la loro drammatica dimensione.

Avvenire 16 maggio 2017

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/da-genitori-di-sesso-diverso-codici-essenziali-per-crescere

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ONLUS – NON PROFIT

 

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OSSERVATORIO NAZIONALE PER L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA

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PASTORALE FAMILIARE

parenità

Azione di riconoscimento della paternità e test del Dna: che succede se il padre non vuol riconoscere come proprio il bambino nato da un’unione di fatto?

 

Tutte le volte in cui un figlio nasce da una coppia sposata, il padre e la madre sono – per riconoscimento automatico della legge – il marito e la moglie. Viceversa, tutte le volte in cui un figlio nasce da una coppia non sposata, se la madre è sempre certa (avendolo partorito), per quanto riguarda il padre è necessario un formale atto di riconoscimento. Con il riconoscimento l’uomo dichiara di essere il padre naturale del bambino e, in questo modo, ne consegue il rapporto di filiazione e tutti i diritti/doveri reciproci tra le parti. Ma non tutti gli uomini, purtroppo, adempiono a questo dovere morale e giuridico; così, a volte, qualche padre scappa davanti alle proprie responsabilità. Che prevede la legge in questi casi e quali sono le tutele per il bambino e per la madre? In altre parole, che fare se lui non vuole riconoscere il bambino? Cerchiamo di dare qualche dritta in questo articolo.

 

Ogni padre è obbligato a riconoscere, come proprio, il figlio avuto da un’unione di fatto (ossia fuori dal matrimonio): un obbligo a cui egli non può sottrarsi neanche se ha il consenso della madre (si pensi all’unione di una sera a seguito della quale la donna resta incinta e, pur di non cedere alle richieste di aborto del compagno, acconsente a che quest’ultimo si disinteressi del nascituro).

 

Ma come fare se lui non vuole riconoscere il bambino? Se il padre non vuole riconoscere il proprio figlio, tanto il figlio quanto la madre (quest’ultima agendo in rappresentanza del primo quando ancora minorenne) possono proporre una causa in tribunale detta «azione di riconoscimento della paternità». Lo scopo di tale causa è ottenere, da parte del giudice, l’accertamento della paternità naturale dell’uomo. In buona sostanza la pronuncia del tribunale si sostituisce all’atto di riconoscimento che avrebbe dovuto fare l’uomo e determina essa stessa il rapporto di filiazione tra il padre e il bambino. Se il tribunale accerta la fondatezza della domanda, emette una sentenza che produce gli effetti del riconoscimento. Si tratta della cosiddetta dichiarazione giudiziale di paternità (ossia la paternità dichiarata dal giudice).

Chi può proporre l’azione di riconoscimento della paternità?

 

Vediamo ora, nel dettaglio e in termini processuali, come fare se lui non vuole riconoscere il bambino.

 

L’azione di riconoscimento della paternità può essere esercitata dal figlio. Ma se quest’ultimo è minorenne, l’azione può essere proposta, nel suo interesse, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale (quindi la madre). In mancanza del genitore o in caso di sua impossibilità, è esercitata dal tutore, previa autorizzazione del giudice.

 

Se il figlio muore l’azione può essere proposta anche dai suoi eredi. La domanda deve essere proposta nei confronti del presunto genitore. Tuttavia, se il genitore muore, il figlio può intraprendere l’azione nei confronti dei suoi eredi (purché entro 2 anni dalla sua morte). Perché mai esercitare l’azione di riconoscimento della paternità nei confronti degli eredi del padre naturale? A volte lo si fa per ottenere il cognome paterno, spesso collegato al prestigio sociale da questo raggiunto in vita; altre volte per ottenere i diritti ereditari.

 

L’azione si propone con ricorso da presentare presso il tribunale ordinario del luogo di residenza del convenuto.

Come provare la paternità?

 

La prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo.

 

La sola dichiarazione della madre di avere avuto un rapporto sessuale con il presunto padre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità. Ci vuole qualcosa in più. Questo «qualcosa in più» viene di solito raggiunto con l’esame del Dna. Il padre può rifiutarsi di sottoporsi alla prova del Dna poiché nessun giudice gli può imporre di sottoporsi all’analisi del sangue. Tuttavia, secondo la giurisprudenza, questo diniego, se ingiustificato, è esso stesso prova della paternità. In altre parole, se la madre o il figlio chiede l’esame del sangue sul presunto padre e questo non fornisce il consenso al prelievo ematico, il giudice può solo per questo accertare la paternità. La Cassazione ha infatti chiarito a riguardo che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice – anche in assenza di prove di rapporti sessuali tra le parti – in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti [1]. È dunque inutile per l’uomo (se non addirittura controproducente) non collaborare pienamente all’accertamento giudiziale della paternità.

Che succede se il giudice riconosce la paternità?

 

Nel momento in cui il giudice effettua l’accertamento della paternità, per il papà scatta l’obbligo di mantenere il figlio fino a quando questi non diventa indipendente economicamente (un momento che può essere anche successivo al compimento dei 18 anni).

 

Il figlio può anche agire contro il padre per ottenere il risarcimento del danno per tutto il tempo in cui questi è stato assente, facendogli mancare la sua presenza sia in termini affettivi che economici.

Entro quanto tempo si deve agire in tribunale?

 

Dopo aver visto come fare se lui non vuole riconoscere il figlio, parliamo di termini entro cui agire in giudizio. Se ad agire con l’azione di riconoscimento è il figlio, non ci sono termini. L’azione è infatti imprescrittibile e può essere esercitata in qualsiasi momento.

 

Se il figlio muore:

 

dopo aver intrapreso l’azione, questa può essere proseguita dai discendenti;

prima di aver iniziato l’azione, questa può essere promossa dai suoi discendenti entro 2 anni dalla sua morte.

 

Per il riconoscimento del figlio ci vuole il consenso della madre?

 

Se il padre intende riconoscere un figlio minore di 14 anni che è già stato riconosciuto dalla madre, quest’ultima deve prestare il proprio consenso.

 

Il consenso può essere rifiutato se il riconoscimento non risponde all’interesse del figlio. Sul punto leggi Il padre deve riconoscere il figlio; il figlio può impedirglielo.

Sentenza

Redazion e La Legge per tutti 17 maggio 2017

https://www.laleggepertutti.it/161561_come-fare-se-lui-non-vuole-riconoscere-il-bambino

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POLITICHE FAMILIARI

Decreto di riparto del fondo per le politiche della famiglia

 

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RETTIFICAZIONE DEL SESSO

 

Rettificazione di sesso e immediata rettificazione dell’atto di nascita

Tribunale di Mantova, 21 aprile 2017. Presidente relatore Mauro Pietro Bernardi.

 

Rettificazione di sesso – artt. 3 della legge 164/82 e 31 del d. lgs. 150/2011 – Trattamento chirurgico – Finalità – Immediata rettificazione dell’atto di nascita – Ammissibilità

 

Dovendosi ritenere accertato che l’interessata ha irrevocabilmente assunto una personalità maschile non solo può essere autorizzato il trattamento chirurgico onde adeguare i caratteri sessuali da femminili a maschili posto che lo stesso non costituisce un prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione bensì un possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico ma, onde garantire piena tutela della salute psico-fisica della ricorrente nelle more dell’intervento, va anche immediatamente disposta la rettifica del suo atto di nascita con modifica del prenome da femminile a maschile.

Redazione il caso.it 14 maggio 2016

http://news.ilcaso.it/news_3021?https://news.ilcaso.it/?utm_source=newsletter&utm_campaign=solo%20news&utm_medium=email

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SCIENZA & VITA

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SEPARAZIONE

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SESSUOLOGIA

 

Lo psichiatra. Cantelmi: «Su disagio sessuale e terapie psicologi ridotti al silenzio»

Non è un caso isolato quello di Giancarlo Ricci, che dovrà subire un procedimento disciplinare per avere sostenuto la centralità delle figure materna e paterna nel processo di crescita

Il caso di Giancarlo Ricci, lo psicologo milanese che subirà un procedimento disciplinare – il terzo della sua lunga carriera – per aver sostenuto la centralità delle figure genitoriali materna e paterna nei processi di crescita, non è un caso isolato. Sono almeno una decina i ‘processi’ avviati da vari Ordini professionali degli psicologi nei confronti di altrettanti specialisti che rifiutano il pensiero unico su omosessualità e gender. Le accuse sono spesso deontologicamente risibili e scientificamente fragili. Comunque difficilmente sostenibili, anche perché non arrivano mai dai pazienti (neppure da coloro che dichiarano la propria omosessualità), ma da altri psicologi. E quasi sempre chi punta il dito è anche un attivista Lgbt. Il risultato è comunque devastante. Nessuno degli psicologi sotto accusa intende uscire allo scoperto. Anche coloro che hanno già ottenuto l’archiviazione del procedimento a loro carico preferiscono dimenticare la questione. «Per favore, le racconto tutto, ma non faccia il mio nome», è la risposta che torna quasi identica. Anche un avvocato che da tempo segue questi casi e sta tentando di mettere insieme un dossier, chiede l’anonimato. A dimostrazione di quanto sia pesante il clima creato dal pensiero unico su sessualità, identità e generazione. Una dittatura che avanza e fa paura. Perché spesso, come nel caso degli psicologi, c’è in gioco il lavoro.

 

Accogliere ogni disagio anche in riferimento all’orientamento sessuale. Ma respingere ogni forma di persecuzione nei confronti di psicologi che non si allineano al ‘pensiero unico’. Tonino Cantelmi, presidente Aippc (Associazione italiana psichiatri e psicologi cattolici, 400 soci ordinari, 1.500 aderenti e simpatizzanti) interviene sul caso del collega Giancarlo Ricci. La vicenda dello psicoterapeuta milanese, nei cui confronti è stato avviato un procedimento disciplinare dall’ordine degli psicologi della Lombardia, l’abbiamo raccontata la scorsa settimana. Ricci è stato accusato tra l’altro di aver affermato che «la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita».

 

Come è possibile porre in stato di accusa un professionista con tanti anni di esperienza per aver affermato una verità non solo ovvia ma difficilmente contestabile?

 

Sorprende l’accanirsi contro il dottor Ricci, persona colta e saggia, oltre che psicologo professionalmente di gran valore. Tra le cose più sconcertanti c’è il richiamo ad un articolo del codice deontologico che sanziona inadeguatezze formative: il dottor Ricci ha un curriculum scientifico impressionante. Sorprende la decisione di avviare questo procedimento sia per il tipo di addebiti, davvero difficili da considerare tali (e quello su padre e madre sfiora il ridicolo: davvero è discriminante ritenere che la condizione più protettiva per la salute mentale sia una famiglia, come dimostrano recenti dati pubblicati da un rapporto internazionale?), sia per la raccolta firme che sostiene l’esposto: il fumus persecutionis andrebbe considerato.

 

Di fronte ad accuse così stravaganti come si comportano in generale gli Ordini regionali degli psicologi?

 

In linea di massima hanno adottato un comportamento responsabile ed attento: gli esposti più palesemente strumentali (in una regione erano esposti- fotocopia, presentati da più psicologi che si sono accaniti con un loro collega) sono stati rapidamente valutati per quello che erano, altri hanno dato luogo a procedimenti che non hanno evidenziato condotte deontologicamente scorrette, salvo un caso. Comunque continuo a credere, sulla base di quanto mi riferiscono i tanti aderenti psicologi all’Aippc, che gli Ordini regionali, e anche quello della Lombardia, sapranno valutare con equilibrio la sottile demarcazione tra ideologia e libertà di espressione, tra pensiero unico e dibattito, tra intimidazione e libertà di opinione e libertà di ricerca scientifica.

 

Una delle accuse più frequenti rivolte a psicologi e psichiatri finiti nel mirino dei vari ordini regionali riguarda le ‘terapie riparative’. Perché queste pratiche suscitano tanta indignazione?

 

Ribadisco un no secco a terapie riparative o affermative. Esiste la psicoterapia. Comunque l’Aippc e i suoi aderenti hanno preso le distanze dalle terapie riparative (e affermative) da molto tempo. L’omosessualità di per sé non è una patologia. Dobbiamo accogliere il frutto della ricerca scientifica con serietà. Al momento attuale l’omosessualità è considerata una variante della sessualità senza una connotazione patologica a priori.

 

Cosa dovrebbe fare quindi uno specialista di fronte a un paziente che dichiara di essere a disagio con la sua omosessualità e non intende accettarla?

 

Accoglierlo in psicoterapia. Ogni disagio va ascoltato.

 

E rispetto a coloro che affermano la possibilità di autodeterminare l’orientamento sessuale e di cambiarlo anche varie volte ne corso della vita? Credo che assolutizzare l’autodeterminazione possa condurre verso territori dolorosi. Tuttavia il vero orizzonte è la felicità e il benessere: psichiatri e psicologi studieranno il tema della cosiddetta fluidità di genere e ne considereranno l’impatto sul benessere. Reclamo la libertà di ricerca scientifica: per esempio vogliamo studiare con libertà e senza pregiudizi se è vero o no che il tema dell’utero in affitto sia indifferente per la salute mentale o se la frantumazione del concetto di genitorialità fondato sulla complementarietà maschile/femminile abbia o no conseguenze.

 

È vero che esiste una larga parte di terapeuti cosiddetti ‘gay affermativi’, che incoraggiano chi ha problemi di identità sessuale, ad abbracciare la condizione omosessuale?

 

Ripeto il secco no a terapie riparative o affermative. Ogni disagio deve essere ascoltato e la psicoterapia è un ottimo strumento. Reclamo il rispetto per i pazienti: molti pazienti denunciano il non rispetto per le proprie convinzioni religiose, che psicoterapeuti rozzi liquidano come inutili o addirittura patologiche. Questa è una forma di discriminazione.

 

Che rapporto c’è tra questa posizione unilaterale e l’influenza esercitata dalla cosiddetta ideologia gender?

 

I gender studies sono stati davvero utili: hanno evidenziato come gli stereotipi di genere abbiano generato discriminazioni. La polverizzazione del maschile e del femminile è però a mio parere un eccesso strumentale. Ma i contributi scientifici porteranno a chiarire le forme di eccessi ideologici. Questo attiene al dibattito scientifico e non agli Ordini professionali. Non è sanzionabile il libero dibattito e la libera ricerca. Quello che è in gioco è la libertà degli psicologi.

 

Luciano Moia martedì 9 maggio 2017

 

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/il-disagio-sessuale-e-le-terapie-psicologi-ridotti-al-silenzio

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