UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 613 – 4 settembre 2016
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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ADDEBITO Separazione: niente addebito se il tradimento è noto e tollerato.
ADOZIONI Adottabilità anche senza una Ctu.
AMORIS LAETITIA AL favorisce strade meno rischiose. Grillo.
CHIESA CATTOLICA Burkini e velo alle donne non è una storia cristiana. Virgili.
Due Sinodi sul ministero ordinato? Il terzo sogno di Martini e …..
CINQUE PER MILLE Finalmente basta alle domande da presentare ogni anno.
CONSULENZA FAMILIARE La pubblicazione “Famiglie forti, comunità forti”.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Padova. Mediazione familiare.
DALLA NAVATA 23° Domenica del tempo ordinario – anno C – 4 settembre 2016.
Commento di Enzo Bianchi, priore a Bose (BI).
DEMOGRAFIA Trentino: “Qui si fanno più figli: vi spieghiamo perché”.
DIACONATO Dibattito sul diaconato femminile. Zorzi.
FERTILITY DAY Perché un brutto spot dice la verità.
Non servono polemiche, ma più figli, pena l’estinzione degli italiani.
Facciamo pochi figli ma servono più incentivi. Rosina.
La famiglia senza figli è malata: le dichiarazioni del presidente SIPPS
FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI Fertility day. De Palo: bene, ma denatalità è problema sociale.
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Il Papa: no ai pregiudizi sulla donna.
Il tempo è superiore allo spazio?
GENITORI Obbligatorio ascoltare i figli.
MATERNITÀ La scelta difficile di diventare madre. Marzano.
MATRIMONIO Continuiamo a chiamarlo matrimonio. Melloni.
OBIEZIONE DI COSCIENZA Consultori. La sentenza del Tar.
Intervento scritto all’Assemblea Soci UCIPEM 2 settembre 2016.
PASTORALE FAMILIARE Tre giorni a Lucca su Amoris Laetitia.
WELFARE Sostegno alle famiglie: al via l’inclusione attiva.
ZIBALDONE Addio al tradimento, ora c’è il Poliamore
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ADDEBITO
Separazione: niente addebito se il tradimento è noto e tollerato
Il tradimento non è da solo sufficiente a fondare la pronuncia di addebito se manca la prova della specifica efficienza causale nella determinazione della crisi. La scoperta di un tradimento mette a dura prova la vita di relazione e rappresenta frequentemente l’incipit che porta alla disgregazione della coppia. Non di rado, infatti, il tradimento rappresenta un elemento preso in considerazione ai fini dell’addebitabilità della separazione nei confronti del coniuge fedifrago, il cui atteggiamento ha portato alla crisi della relazione.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha più volte evidenziato che la violazione dei doveri coniugali non è sufficiente a fondare la pronuncia di addebito della separazione se non vi è altresì la prova che tale violazione abbia avuto una specifica efficienza causale nella determinazione della crisi coniugale e della intollerabilità della convivenza (Cass. civ. sez. I, n. 2059 del 14 febbraio 2012).
Sulla base di tale principio, la Corte di Cassazione, sentenza n. 6017/2014, in una causa di separazione tra coniugi ha confermato la non addebitabilità della separazione al marito, incolpato dalla moglie di aver provocato la fine del matrimonio a causa di una relazione extraconiugale (ancora in corso al momento della separazione). La donna, infatti, pur conoscendo la relazione tra il marito e l’amante, aveva tollerato il tradimento per diverso tempo.
Come già evidenziato dalla Corte d’Appello, la relazione extraconiugale dell’uomo non può essere considerata la causa della crisi coniugale, dato che i coniugi erano disposti a proseguire la convivenza e a non chiedere la separazione nonostante fosse ben nota tale relazione, come risulta da una scrittura privata; inoltre, il successivo allontanamento del marito dal domicilio familiare è stato interpretato dalla Corte distrettuale come la presa d’atto della intollerabilità della convivenza, ormai concepita come mera conservazione formale dello status coniugale e priva di affectio coniugalis.
Anche il Tribunale di Roma, nella sentenza n. 15488/2015, ha negato l’addebito della separazione al coniuge fedifrago laddove l’altro, consapevole del tradimento, abbia continuato la convivenza per diversi anni finché l’intervento del giudice era stato sollecitato dal partner.
Il tradimento, ribadisce il Tribunale secondo l’insegnamento della Cassazione, non è da solo sufficiente alla costruzione dell’addebito in capo al coniuge resosene responsabile, occorrendo per contro un nesso di causalità tra la violazione del dovere di fedeltà e la rottura del consortium familiae, nonché l’effettuazione di un’indagine comparativa delle condotte dei coniugi, non valutabili separatamente, volta ad evidenziare se la condotta incriminata sia la causa e non invece la conseguenza di una crisi coniugale già in atto.
Nel caso di specie la coppia viveva separata in casa, senza condividere il letto e in continuo disaccordo, poiché a seguito della rivelazione del tradimento, il marito aveva deciso di continuare la convivenza per circa tre anni e non aveva fatto il primo passo per la separazione. In una tale situazione appare evidente un preesistente contesto di disgregazione della comunione spirituale e materiale, in una situazione stabilizzata di reciproca sostanziale autonomia di vita, non caratterizzata da alcuna affectio coniugalis.
Lucia Izzo Studio Cataldi 4 settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23246-separazione-niente-addebito-se-il-tradimento-e-noto-e-tollerato.asp
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ADOZIONI
Adottabilità anche senza una Ctu.
Corte di Cassazione, Sezione civile, sentenza n. 17442, 31 agosto 2016
Il giudice può decidere per l’adottabilità del minore senza ricorrere a una preventiva consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) sulla capacità genitoriale della madre quando risulti chiaro e ampiamente incontrastato il giudizio negativo su tali capacità in rapporto alle urgenti necessità del bambino. Il minore è adottabile se i risultati della terapia intrapresa e poi interrotta dal genitore non hanno portato benefici alla crescita del bambino.
Lo afferma la Cassazione confermando la decisione di merito e rigettando il ricorso della madre di un minore contro la dichiarazione di adottabilità del figlio. Padre assente, carenze nell’accudimento e incapacità della donna di sostenere un percorso di sostegno alla genitorialità facevano sì che il Tribunale per i minori dichiarasse il minore adottabile. Decreto confermato dalla Corte di Appello. Secondo i servizi sociali il bambino, aggressivo coi compagni, non aveva rispetto per le regole e viveva in «cattive» condizioni igieniche, condizione che tendeva a peggiorare ogni volta che il bambino rientrava a scuola dopo il weekend trascorso con la madre. La Corte d’Appello quindi formulava «una prognosi di irrecuperabilità delle capacità genitoriali» della ricorrente, sebbene le numerose opportunità di recupero offerte. La Cassazione conferma: l’esito negativo dell’esperimento dell’attività di sostegno è stato «ampiamente documentato e motivato, con un ragionamento del tutto convincente, senza che possa valere l’ennesimo tentativo della madre di riprendere il percorso di sostegno già interrotto».
Valeria Mazzotta 1 settembre 2016 www.valeriamazzotta.it/?p=4717
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AMORIS LAETITIA
Dagli incroci alle rotatorie: Amoris Laetitia favorisce strade meno rischiose
Come è noto, da sempre trivi e quadrivi sono stati ritenuti luoghi rischiosi, non solo per Edipo o per Don Abbondio. Anche gli incroci stradali non hanno fatto eccezione a questa antica regola. Per questo si son dotati, col tempo, di diritto di precedenza, di segnali di stop, di semafori. Tutto questo finché dal Regno Unito non è arrivata la “rotatoria”. Con la rotatoria l’incrocio si converte: le due grandi direttrici non si incrociano più direttamente, ma con un garbato accompagnamento, sono piegate ad un discernimento comune, che fa ruotare intorno ad un punto, che nessuno attraversa, ma intorno al quale tutti passano. In tal modo, abbassando la velocità di tutti, e orientando tutti ad una rotazione nella medesima direzione, ognuno è infine restituito alla direzione voluta, ma con una composizione del conflitto meno pericolosa e complessa.
Questa evoluzione della circolazione stradale può suggerire una immagine efficace per comprendere efficacemente la funzione che Amoris Laetitia può svolgere nel complesso della “circolazione” in materia di pastorale familiare. Come è evidente, una linea di “dottrina oggettiva” sul vincolo matrimoniale, e una linea di “esperienza soggettiva” dei legami familiari, quando si incrociano, possono determinare un quadro molto complesso di mediazioni, ma anche una alta percentuale di incidenti. Proprio per il fatto che le due strade, con la loro tendenza perpendicolare, confliggono con più forza precisamente nel punto di incontro. Una lunga tradizione, negli ultimi duecento anni, ha conosciuto comunque solo l’incrocio come modalità di gestione del conflitto. E spesso ciò ha determinato una lacerazione tra ragioni oggettive e esigenze soggettive, con conseguenze molto gravi per entrambe.
Oggi, con Amoris Laetitia cambia la gestione del conflitto. Dall’incrocio si passa alla rotatoria. Non c’è più perpendicolarità tra norma oggettiva e condizione soggettiva, ma si introduce quello stile dell’accompagnare, del discernere e del reintegrare che, metaforicamente, possiamo chiamare “pastorale della rotatoria”. Il punto qualificante è che non si pone più una alternativa drastica tra dottrina e pastorale, tra “foro esterno” e “foro interno”, i quali non si incrociano più direttamente. Si introduce invece un “foro pastorale” – la rotatoria, appunto – che si frappone proprio nel punto in cui le due logiche e i due fori potrebbero confliggere.
Nel “foro pastorale”, infatti, i tre verbi qualificanti – accompagnare, discernere e reintegrare – aiutano a “camminare insieme”, per una via meno breve ma più sicura. La rotatoria non è mai la “via più breve”: allungando la strada, la rende per tutti non solo meno rapida, ma anche più sicura.
Amoris Laetitia è una meravigliosa complicazione, come la rotatoria. Nell’aggirare sapientemente il conflitto e nel riorientarlo in un “circuito comune”, ha bisogno di una chiesa che trasformi, gradualmente, i propri incroci in rotatorie. Che sappia perdere tempo e strada nell’accompagnare e nel discernere, perché a ciascuno sia consentito di trovare la propria via, in modo più sicuro e più umano. I cantieri sono aperti.
Andrea Grillo blog: Come se non 4 settembre 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/dagli-incroci-alle-rotatorie-amoris-laetitia-favorisce-strade-meno-rischiose
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CHIESA CATTOLICA
Burkini e velo alle donne non è una storia cristiana.
Citare un testo biblico ‘tagliando’ è un fatto inevitabile, lo sanno i liturgisti. Ma prendersi la libertà di farlo dove si creda, è un trucco antico, caro ai vecchi dogmatici e poco rispettoso verso le scienze bibliche: a seconda di dove metti le forbici, infatti, il tessuto che resta assume un senso, fa passare un messaggio, fonda una verità. Un vizio altresì, trasversale, a credenti e laici, quello di estrapolare un versetto dal suo contesto per eleggerlo – nudo e crudo – a legge universale e necessaria.
Qualcosa del genere fa Vito Mancuso su un passo di Paolo, tornato di grande interesse per i fatti relativi al burkini e al velo delle donne di religione islamica. L’approccio a questo argomento, utilizzato in un articolo apparso su ‘Repubblica’ del 27 agosto scorso, si fonda su una tesi, quella della «comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne».
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/08/26/lislam-il-cristianesimo-e-la-polemica-sul-burkini37.html?ref=search
Un’identità suffragata dalla citazione di otto versetti della Prima Lettera di Paolo ai Corinti (1Cor 11,3-10) che vengono messi in una sorta di sinossi con altrettanti testi del Corano ad attestare come «sia per il cristianesimo, sia per l’islam l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione (…) ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima».
La stessa cosa, insomma. A partire dalla citazione di Paolo: «l’uomo non deve coprirsi il capo, dal momento che è immagine e gloria di Dio; dall’altra, invece, la donna è gloria dell’uomo…» il teologo conclude: «Qui San Paolo dice tre cose precise: 1. Che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente 2. Che la donna non solo è sottoposta, ma è addirittura finalizzata all’uomo nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata ad essere la ‘gloria’; 3. Che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta». E finisce col dire: «L’islam rappresenta la medesima impostazione».
Non so se teologhe e teologi di religione islamica ed esperti del Corano sarebbero d’accordo su tale «medesima impostazione», ma veniamo a Paolo. Sulla prima cosa «precisa» (che la donna è sottoposta all’uomo) c’è un primo ostacolo: nei versetti seguenti a quelli citati Paolo conclude: «Tuttavia nel Signore non c’è donna senza uomo, né uomo senza donna. Come infatti la donna proviene dall’uomo, così l’uomo è mediante la donna. Tutto poi viene da Dio» (vv.11-12). Il commento che fa Rinaldo Fabris – uno dei più grandi biblisti italiani ed esperti di Paolo – è questo: quanto Paolo dice che: «capo della donna è l’uomo e capo dell’uomo è Dio» risale al racconto della creazione di Genesi e al diverso rapporto dell’uomo e della donna con Dio che lì è descritto (cf Genesi 2,20ss), ma: «Questo argomento viene integrato con una riflessione che rileva la reciprocità dell’uomo e della donna nell’ottica cristiana – nel Signore – e davanti a Dio» (Prima Lettera ai Corinti, Paoline, 1999, p.142).
C’ è insomma uno sviluppo dal testo di Genesi a quello di Paolo e le cose non sono, poi, così ‘precise’. Un altro testo fa vacillare ancor più la tesi in questione ed è questo: «La moglie non ha potere sul proprio corpo, bensì il marito e, allo stesso modo, anche il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie» (1Cor 7,4). Chi, allora, ha potere su chi? Quale esclusiva sottomissione del corpo della donna al marito? E, mentre il testo citato del Corano dice di «battere» le proprie mogli (4,34), nella Lettera agli Efesini si legge: Anche il caso della vedova che «è legata al marito per tutto il tempo in cui egli vive, ma quando il marito muore è libera di sposare chi vuole» documenta tale non subordinazione della donna al marito, nella scala che sale fino a Dio.
Infine, sulla terza «precisazione» di Mancuso: la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta. Gli ostacoli sono almeno due: uno scritturale e l’altro di sociologia delle Chiese delle origini. Lo stesso Paolo dice, infatti, nella lettera ai Galati: «rivestiti di Cristo non c’è più giudeo, né greco, schiavo, né libero, maschio, né femmina» (Gal 3,28).
L’umanità nuova in Cristo fa decadere qualsiasi gerarchia: quella antropologica, della superiorità di genere – del maschile sul femminile; quella socio-economica – del padrone sullo schiavo; e perfino quella dell’elezione: la superiorità del popolo di Abramo su tutti gli altri. Questo testo rappresenta un vero ostacolo per i detrattori di Paolo, circa l’accusa di misoginia. Ma anche il rilievo sociologico che l’epistolario paolino – specialmente quello considerato autentico – insieme al libro degli Atti degli Apostoli permette di fare, esprime una chiara dignità delle donne. Pensiamo a Priscilla, moglie di Aquila, nella cui casa a Corinto visse Paolo: insieme a suo marito Priscilla era docente di Vangelo per gente come Apollo (cf At 18,26). E a Lidia, che ospitò la prima chiesa di Filippi, in Macedonia, o ad Evodia e Sintiche, grandi collaboratrici di Paolo che, della stessa chiesa, divennero responsabili. A Maria, madre di Giovanni Marco che governò la prima chiesa-casa di Gerusalemme, o a Febe, diacona della chiesa di Cencre. A Giunia, apostola ‘insigne’ del Vangelo, che aveva preceduto Paolo stesso nella fede; alla ‘sorella Apfia’, al cui indirizzo è inviato – tra gli altri – l’incantevole biglietto a Filemone.
Non si può negare una presenza autorevole e per nulla ‘sottoposta’ delle donne nelle comunità cristiane, che indossassero o meno il velo quando pregavano, o che tacessero durante le assemblee. L’esegesi scientifica invita a tener conto dei condizionamenti culturali in cui nasce e cresce la Bibbia, così come delle ragioni catechetiche e teologiche dei suoi contenuti. Nessuno può limitarsi a darne una lettura parziale e letterale. Il pensiero di Paolo sulle donne e sul loro capo che andrebbe velato non si può dedurre dai versetti 3-10 della Prima Corinti, ma occorre sottoporre a un’analisi critica ogni passo delle sue lettere, accettando che non si troverà mai una definizione ‘precisa’ e univoca per essere servita come un precetto eterno e immutabile. Tra i suoi testi, infatti, ci sono differenze, incoerenze, molte contraddizioni. Questo vale per tutta la Bibbia. Non c’è esegesi senza ermeneutica.
Mancuso fa cosa molto buona se ricorda a tutti come alcuni passi della Scrittura siano stati utilizzati da diversi sistemi religiosi – anche nelle loro elaborazioni teologiche – per sottoporre le donne al potere maschile e negar loro la piena dignità. Ma fa cattiva informazione biblica quando utilizza quanto è scritto in pochi versetti come sacra dottrina senza il vaglio di una critica e ragionevole mediazione. Grazie a Dio e grazie anche ai preziosi stimoli culturali dei Paesi dove essa vive, la Chiesa cattolica ha ormai da più di mezzo secolo, ufficialmente fatto propri i canoni dell’esegesi biblica con la Costituzione conciliare Dei Verbum. Ispirandosi ai metodi storico-critici questa invita a distinguere – nei testi sacri – la «parola di Dio» dalle «parole umane» in cui essa si esprime. Di queste ultime anche il velo delle donne fa parte e le donne cattoliche lo hanno imparato da tempo.
La scomparsa del velo dal capo delle donne non è dovuta solo all’ «affermazione della parità giuridica tra uomo e donna in Occidente», ma anche alla Riforma Liturgica dello stesso Concilio Vaticano II.
Perché non aggiungere questo, magari come nota, sotto una citazione? «Voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo amò la Chiesa e diede sé stesso per lei» (Ef 5,25). E ancora, in merito alla morale coniugale: «Non sottraetevi l’uno all’altro se non di comune accordo temporaneamente per dedicarvi alla preghiera e per stare, poi, di nuovo insieme» (1Cor 7,5): nella coppia è previsto un vicendevole rispetto e una piena reciprocità! Che dire? Sulla seconda cosa «precisa» secondo Mancuso (la donna addirittura finalizzata all’uomo) si trova un altro ostacolo, sempre nella Prima Corinti: le parole rivolte alla «donna non sposata»: «Chi è sposato si prende cura delle cose del mondo, di come piacere alla moglie ed è diviso. E anche la donna non sposata e la giovane si prende cura delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; invece quella sposata si prende cura delle cose del mondo, di come piacere al marito» (1Cor 7,33-34). Uomo e donna vengono messi sullo stesso piano e la donna – che senza un marito viveva all’epoca una oggettiva precarietà – assume la stessa dignità dell’uomo dinanzi a Dio e alla comunità. Non è certo ‘finalizzata all’uomo’, al contrario, è libera di accedere autonomamente a Dio. Molta letteratura del femminismo cristiano contemporaneo considera la condizione delle ‘vergini’ come una vera esperienza di emancipazione della donna.
Rosanna Virgili Avvenire 1° settembre 2016
Relatrice al Congresso UCIPEM di Vicoforte del maggio 2003
www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Burkini-e-velo-alle-donne-non-una-storia-cristiana–2.aspx
Due Sinodi sul ministero ordinato? Il terzo sogno di Martini e il terzo sinodo di Francesco
Nell’ottobre del 1999, Carlo Maria Martini pronunciava nel Sinodo dei vescovi dedicato all’Europa un famoso discorso, nel quale presentava alcuni “sogni” che lo avevano visitato. In particolare il terzo sogno era di un sorprendente profezia: “«Un terzo sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, un’esperienza di confronto universale tra i vescovi, che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee. Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’Eucaristia. Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazie e valori e tra leggi civili e legge morale.”
Nei progetti di papa Francesco possiamo scorgere una sorta di provvidenziale “attuazione” di questo sogno. In vista del Sinodo Ordinario del 2018 si potrebbe ipotizzare – o sognare – un cammino simile a quello realizzato sul tema della “famiglia”: far precedere al Sinodo ordinario del 2018, un Sinodo straordinario nel 2017. La cui preparazione dovrebbe iniziare in autunno 2016. Dunque tra pochissimo.
Il tema – sulla base di quanto è emerso in questi anni nel dibattito ecclesiale – potrebbe essere il “ministero ordinato nella Chiesa”. In particolare potrebbe riguardare:
L’esercizio collegiale dell’Episcopato e la restituzione al Vescovo della piena autorità sulla liturgia diocesana.
La formazione dei presbiteri (con il ripensamento della forma tridentina del seminario) e la possibilità di ordinazione di uomini sposati.
La teologia del diaconato e la possibilità di un diaconato femminile
Accanto a questi temi emergenti, e sulla scorta della esperienza del Sinodo sulla famiglia, dovrebbero essere considerate anche due modalità procedurali:
Anche per un sinodo sul “ministero ordinato” sarebbe assai raccomandabile procedere “dal basso”; consultando la base e formulando un questionario per ogni Sinodo, con il quale richiedere opinioni qualificate alle comunità ecclesiali. Nella formulazione delle domande sarebbe assai utile che si evitassero “false domande”;
Sarebbe molto opportuno pensare alla ripresa di una “felice esperienza conciliare”, che affiancò ad ogni Vescovo un “esperto”. Un vistoso deficit teologico è emerso con grande evidenza nel percorso sinodale più recente. Se ogni Vescovo avesse con sé un esperto – come accadeva al Vaticano II – questo potrebbe aiutare la mediazione, la formulazione, la ideazione e l’esercizio stesso della autorità.
I sogni di Martini e i progetti di Francesco: in questa corrispondenza, a distanza di meno di 20 anni, proviamo a recuperare il terreno perduto.
Andrea Grillo blog: Come se non 1 settembre 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/due-sinodi-sul-ministero-ordinato-il-terzo-sogno-di-martini-e-il-terzo-sinodo-di-francesco
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CINQUE PER MILLE
Finalmente basta alle domande da presentare ogni anno.
Nuove regole per la rendicontazione e una sacrosanta semplificazione: sono questi i punti cardine di un decreto (il Dpcm 7 luglio 2016) pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 185 del 9 agosto 2016 e che contiene nuove disposizioni in materia di trasparenza ed efficacia.
www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2016-08-09&atto.codiceRedazionale=16A05895&elenco30giorni=true
Partiamo dall’efficacia. Il provvedimento stabilisce quello che da più parti sembrava ovvio: non è più necessario ripresentare ogni anno la domanda di iscrizione negli elenchi del 5 per mille e la contestuale dichiarazione sostitutiva sulla persistenza dei requisiti per l’ammissione. A partire dal 2017 gli enti verranno finalmente vengono inseriti in un apposito elenco, integrato, aggiornato e pubblicato sul sito dell’Agenzia delle Entrate entro il 31 marzo di ciascun anno. Se ci fossero errori o integrazioni (sempre possibili), questi potranno essere segnalati, entro il 20 maggio, dal legale rappresentante alla Direzione delle Entrate competente per territorio. Con un’importante avvertenza: se per caso è il rappresentante legale a cambiare, la dichiarazione sostitutiva già presentata perde valore, e il nuovo rappresentante dovrà sottoscriverne un’altra, indicando la data della sua nomina e quella dell’iscrizione dell’ente, pena la decadenza di quest’ultimo. Quindi occorre prendere bene nota di quest’obbligo, per non essere depennati dal contributo. Ovviamente, dovessero venire meno i requisiti, il rappresentante legale deve trasmettere all’amministrazione la revoca dell’iscrizione.
Veniamo ora alla trasparenza. Si precisano meglio, nel decreto, le caratteristiche del documento di rendicontazione, quello che entro un anno dalla ricezione delle somme gli enti devono redigere sul modulo delle Entrate, accompagnandolo da una relazione illustrativa. Tale rendiconto deve includere, oltre ai dati del beneficiario e del rappresentante legale e l’anno di erogazione, la data di ricevimento, l’importo e le spese sostenute, comprese quelle per risorse umane e per acquisto di beni e servizi, dettagliate per singole voci. Non bisogna dimenticarsi di mettere in evidenza, per ogni voce di spesa, la «riconducibilità alle finalità istituzionali» e gli eventuali accantonamenti diretti a progetti pluriennali. Se, a seguito di controlli, si accerteranno finalità diverse, le somme dovranno essere restituite. Sono esonerati dal rendiconto le associazioni che ricevono meno di 20mila euro.
Le novità riguardano però anche le Entrate e i ministeri interessati dall’operazione 5 per mille. Le amministrazioni che erogano il 5 per mille, infatti, dovranno pubblicare sul proprio sito gli elenchi dei soggetti ai quali è stato assegnato, con data e importo. Devono inoltre pubblicare, entro un mese da quando li ricevono, i rendiconti e le relazioni illustrative trasmessi dai beneficiari.
Gabriella Meroni Vita news letter 1 settembre 2016
www.vita.it/it/article/2016/08/29/5-per-mille-finalmente-basta-alle-domande-da-presentare-ogni-anno/140528
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CONSULENZA FAMILIARE
La pubblicazione “Famiglie forti, comunità forti”
L’Agenzia per la famiglia ha dato alle stampe la pubblicazione “Famiglie forti, comunità forti. Sostenere le relazioni familiari per generare bene comune”, che è il compendio della tre giorni di Meeting internazionale tenutosi il 17-18-19 giugno a Trento e promosso da ICCFR (Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia).
I promotori dell’evento:
ICCFR (Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia)
Agenzia per la famiglia, natalità e politiche giovanili (Provincia autonoma di Trento)
AICCEF (Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari)
CISF (Centro Internazionale Studi Famiglia)
Forum nazionale delle associazioni familiari
Nell’estate del 2015 all’Agenzia per la famiglia, natalità e politiche giovanili della Provincia autonoma di Trento è stata selezionata a livello internazionale per ospitare nel giugno 2016 la 63° edizione della Conferenza annuale ICCFR, la Commissione internazionale per le relazioni della coppia e della famiglia (International Commission on Couple and Family relations).
Iccfr ha sede a Cardiff, è stata fondata nel 1953 ed è la più antica Commissione dell’Unione Internazionale delle Organizzazioni familiari. Finora aveva ospitato le sue conferenze annuali soltanto due volte in Italia. La scelta è cascata sull’Agenzia per la famiglia, che in quest’ultimo triennio ha avuto numerose occasioni di “espatriare” le proprie “buone pratiche” e di farsi conoscere a livello internazionale per l’innovazione delle proprie politiche per il benessere familiare. La Provincia autonoma di Trento rappresenta, dunque, un territorio ideale per ospitare eventi specifici di settore che vedono al centro la promozione della famiglia, vista la spiccata sensibilità del territorio trentino verso la dimensione della famiglia e, soprattutto, alle sue soluzioni mettendo in essere strumenti d’intervento che possono considerarsi all’avanguardia nel panorama sociale italiano ed internazionale.
Il richiamo fuori Nazione è stato forte ed è stato raggiunto il ragguardevole risultato di quasi 400 corsisti provenienti da tutto il mondo: Australia, Stati Uniti, India, Camerun ed Europa (Finlandia, Inghilterra, Germania, Malta, Spagna, Francia, Polonia, Ungheria, Belgio, Italia). L’evento ha raccolto a Trento vari professionisti tra cui esperti di settore, assistenti sociali, avvocati familiaristi, mediatori familiari, psicologi, docenti, counsellor, associazioni familiari, consulenti della coppia e della famiglia, docenti e studenti universitari, stakeholders locali dell’Agenzia per la famiglia, Distretti famiglia.
Vedi news UCIPEM n. 612, 28 agosto 2016, pag. 8
www.trentinofamiglia.it/Attualita/Archivio-2016/Settembre/La-pubblicazione-Famiglie-forti-comunita-forti
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Padova. Mediazione familiare.
La mediazione familiare è un processo nel quale un terzo equidistante e qualificato aiuta la coppia ad elaborare la separazione e a riorganizzarsi come genitori per continuare ad essere protagonisti delle proprie scelte riguardo ai figli.
La mediazione è:
Un servizio offerto alla coppia che si separa, affinché sia possibile riuscire a rimanere entrambi genitori al di là della rottura coniugale
Uno spazio di incontro confidenziale offerto in un ambiente neutrale, con la presenza di mediatori esperti e con la garanzia della più assoluta riservatezza
Un aiuto a comunicare senza litigare, nonostante il conflitto, con la possibilità di affrontare gli argomenti scelti dai due genitori, con l’obiettivo concreto di trovare degli accordi costruttivi e personalizzati che tengano conto dei bisogni di ognuno
Un lavoro motivato dall’affetto verso i figli e dal riconoscimento dei loro bisogni.
Che cosa non è la mediazione
Non è una consulenza di coppia (che eventualmente la precede). La mediazione si attiva solo quando i coniugi hanno deciso di separarsi e/o in funzione della separazione.
Non è una terapia, ma un intervento delimitato nel tempo (circa una decina di incontri, ciascuno della durata massima di due ore) e circoscritto su obiettivi concordati e predefiniti: accordi funzionali e soddisfacenti per la gestione della nuova vita con i figli (una eventuale terapia personale si potrà affiancare o, preferibilmente, effettuarsi dopo).
Non è una consulenza alla famiglia in genere ma si attiva per problemi connessi con la separazione e il divorzio (anche se alle volte vi possono essere consulenze alla famiglia che utilizzano modalità e tecniche della mediazione).
Non è una forma di assistenza legale in quanto la verifica e la definizione giuridica degli accordi rimangono di pertinenza degli avvocati.
Non è una consulenza tecnica per il giudice e non fornisce informazioni di alcun genere ai magistrati o agli avvocati.
Chi è il mediatore. E’ un professionista con formazione specifica, esperto nella gestione dei conflitti. E’ equidistante, non dà giudizi, non fornisce risposte, ma facilita la comunicazione nella coppia perché siano i genitori stessi, nella loro autonomia decisionale e quali esercenti la potestà sui figli, a individuare gli accordi possibili.
La mediazione e l’attività dell’avvocato non sono in concorrenza, ma sono in rapporto di collaborazione:
Il mediatore si fa carico degli aspetti emotivi e relazionali delle persone per aiutarle a trovare degli accordi condivisi sui figli;
L’avvocato normalmente interviene dopo la mediazione orientando le parti sulle questioni relative alla procedura della separazione o su altri aspetti giuridici, in particolare economico-patrimoniali e redige il ricorso per la separazione o definisce il procedimento, tenendo conto degli accordi presi dai genitori e accompagnandoli nel procedimento giudiziario.
1 settembre 2016 www.consultorioucipem.padova.it/index.php/mediazione.html
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DALLA NAVATA
XXIII Domenica del tempo ordinario – anno C – 4 settembre 2015.
Sapienza 09, 13. Quale, uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
Salmo 89, 12. Insegnaci a contare i nostri giorni. E acquisteremo un cuore saggio.
Filèmone 10, 17. Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Luca 14, 27. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose (BI)
Le esigenze della sequela di Gesù.
Dopo il pranzo a casa di uno dei capi dei farisei (cf. Lc 14,1-24), Gesù riprende il suo cammino verso Gerusalemme, seguito da una folla numerosa. La sua predicazione ha successo, gli ascoltatori pronti ad accompagnarlo lungo la strada sono molti, ma Gesù, che vuole accanto a sé discepoli, non militanti, si volta indietro per guardare quella folla in faccia e rivolgerle alcune parole capaci di fare chiarezza e di non permettere illusioni o addirittura menzogne. Parole dure, che ci urtano e ci dispiacciono perché ci chiedono di combattere contro noi stessi, contro i nostri sentimenti naturali.
Infatti Gesù avverte: “Se uno viene a me, cioè vuole stare con me, e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. Gesù mette in contrasto lo stare con lui e l’amore famigliare, nonché l’amore per la propria vita. Perché tanta radicalità? Semplicemente perché egli conosce il cuore umano, conosce il potere dei legami di sangue, conosce la possibilità che la famiglia sia una gabbia, una prigione. L’intenzione delle parole di Gesù consiste nella liberazione, che egli vuole portare a ogni uomo e a ogni donna, da tutte le presenze idolatriche, tra le quali è possibile annoverare anche legami e affetti di sangue e di famiglia.
Quanto alla paradossale espressione “Se uno non odia…”, essa ha certamente un retroterra semitico, ma va intesa bene. Infatti viene tradotta correttamente: “Se uno non mi ama più di quanto ami suo padre, sua madre…”. Negli affetti è questione di ordine. Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20,12; Dt 5,16), e Gesù lo conferma (cf. Mc 7,9-13; Mt 15,3-6), ma può succedere che questo amore impedisca l’adesione al Signore, la pratica della sua volontà, la sequela materiale di Gesù. In tal caso i legami con la famiglia che trattengono e imprigionano vanno addirittura odiati!
La storia delle vocazioni cristiane conosce bene questi conflitti, questa sofferenza nelle famiglie, che a volte si ribellano alla vocazione del figlio o della figlia, e conosce bene anche le vocazioni abortite perché il legame con la famiglia è più forte del legame con il Signore che la vocazione richiede. Certo, oggi la mondanità entrata anche nella vita ecclesiale banalizza le relazioni tra chiamato e famiglia, così che non si pone più un aut aut che indichi una rinuncia, una separazione necessaria per seguire con cuore unito il Signore. L’esito è poi quello di chiamati che hanno una vita astenica, che sono “tirati qua e là” (cf. Lc 10,40), mai veramente decisi a compiere un cammino imboccato con tutto il cuore. Misere vocazioni! In verità non possiamo amare tutti nello stesso tempo, ma solo dando ai nostri amori un ordine chiaro sappiamo dov’è il nostro tesoro e dunque il nostro cuore (cf. Lc 12,34).
D’altronde, anche le dieci parole (cf. Es 20,1-17; Dt 5,6-22) richiedono come prioritario l’amore per Dio, e quando Gesù menziona il comandamento “Onora il padre e la madre”, dal quarto posto lo retrocede all’ultimo (cf. Lc 18,20). Anche i leviti dovevano abbandonare la famiglia per essere assidui al Signore, e la comunità di Qumran richiedeva ai suoi membri la separazione dalla famiglia per essere vigilanti in attesa del giorno del Signore (cf. 4QTestimonia 14-20; cf. Dt 33,8-11). Sì, Gesù chiede un atto, che lui stesso ha compiuto nei confronti della sua famiglia (cf. Lc 8,19-21), chiede una rottura che permetta un amore diverso, esteso, universale, un amore nel quale Dio ha il primato e la famiglia ha il suo posto, ma senza il potere di legare. Nello stesso tempo, amo ricordare che Dio, e dunque Cristo, non è totalitario: non esclude altri amori, come quello coniugale o quello dell’amicizia, ma anche questi vanno vissuti sapendo che l’amore per Cristo è primario, egemonico, e gli altri amori non possono porre ostacoli, dilazioni e tanto meno contraddizioni a quello per il Signore.
Questo regime degli affetti è duro, costa fatica, ma è il “portare la propria croce”, cioè il portare lo strumento di esecuzione del proprio io philautico, egoista. Ognuno ha una propria croce da portare, nessuno ne è esente, ma non si devono fare paragoni. Gesù, infatti, sa che quanti lo seguono fedelmente si troveranno coinvolti anche nella sua passione e morte, quando egli porterà la croce. Si tratterà di imparare da Gesù, quando egli parla, agisce, ma anche quando sarà condannato, torturato e ucciso nell’ignominia della croce. Essere discepoli di Gesù non è l’esperienza di un momento (cf. Mc 4,12-13; Mt 13,20-21), non è un provare per verificare, ma è la decisione di rispondere a una chiamata, è un “amen” che va detto con ponderazione, con discernimento, senza obbedire alle emozioni del momento.
Per questo Gesù annuncia due parabole che suonano come un avvertimento, una messa in guardia: egli non fa propaganda per le vocazioni, ma piuttosto dissuade… Avremmo molto da imparare da questo atteggiamento di Gesù, soprattutto quando la scarsità di vocazioni ci angoscia e ci fa paura: cattiva consigliera quest’ultima, che spinge ad accogliere tutti con molta superficialità e a non riconoscere e comunicare le difficoltà oggettive della sequela di Gesù. Con la prima parabola Gesù avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se ha i mezzi per portare a termine i lavori?”. Seguire Gesù– e si faccia attenzione a una lettura poco intelligente dei racconti evangelici di vocazione! – richiede non il fuoco di un momento, non l’entusiasmo, non solo l’innamoramento, ma anche un tempo di calma, di silenzio, di esame di se stessi. È l’azione del discernimento, difficile ma assolutamente necessaria per percepire la voce del Signore non fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un altro, ma nel nostro cuore più profondo, là dove Dio ci parla personalmente. Ascoltando il profondo, la propria intimità, discernendo la parola di Dio dalle altre parole che ci abitano, guardando con realismo a ciò che siamo e alle nostre possibilità, noi possiamo giungere a una scelta; magari facendoci aiutare da chi è più avanti di noi nella vita secondo lo Spirito, ma sempre coscienti che l’amen può solo essere nostro, personalissimo, e un amen per sempre, non a tempo o con scadenza!
Similmente la seconda parabola avverte che occorre misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è un combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Perché la sequela di Gesù esige la capacità di fare guerra contro il nemico, il diavolo che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Dunque il chiamato lo sa: ascoltata la parola di invito, deve innanzitutto “stare fermo”, rimanere in solitudine e in silenzio (cf. Lamentazioni 3,28) per discernere bene cosa ha ascoltato e cosa il cuore gli dice; poi deve consigliarsi (come dice letteralmente il verbo bouleúomai); infine deve pervenire alla decisione personalissima, fidandosi soltanto della grazia del Signore.
Gesù aggiunge poi una parola non presente nel brano liturgico, ma collegata con quanto precede. Egli dice che accade per una storia di vocazione quello che accade per il sale: “Il sale è buono, ma se perde la capacità di salare, a cosa potrà servire? Lo si butta via!” (Cf. Lc 14,34-35). Allo stesso modo una vocazione può essere buona, ma nella vita può essere contraddetta, abbandonata, e allora quella resta una vita sprecata.
Diceva il mio padre spirituale: “Quando qualcuno pensa di incrementare il numero di vocazioni nella chiesa, e impone la vocazione agli altri, non crea dei santi ma delle persone miserabili!”.
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10778-le-esigenze-della-sequela-di-gesu
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DEMOGRAFIA
Trentino: “Qui si fanno più figli: vi spieghiamo perché”
È il Trentino il luogo ideale per le famiglie italiane. Lo dimostrano i dati sulla natalità, i servizi e la soddisfazione dei cittadini e soprattutto le politiche sociali che hanno messo la famiglia al centro dell’attenzione. Nella Provincia Autonoma di Trento vivono le donne che, statisticamente, fanno più figli di tutta Italia: 1,44 a testa, a fronte dell’1,29 della media nazionale. Ma lo stesso territorio è anche quello in cui i bambini da 0 a 2 anni ricevono il maggior numero di servizi e in cui il 43,6% dei cittadini si dichiara molto soddisfatto delle proprie relazioni familiari, mentre in Italia la media è del 33,8%.
Qual è il segreto di questo benessere delle famiglie trentine? Una politica sociale che non mira tanto a rimuovere un disagio, quanto piuttosto a sostenere un benessere. “Perché la famiglia non è un problema, ma una risorsa e bisogna leggere tutte le politiche in maniera familiare”, dice Luciano Malfer, dal 2011 alla guida dell’Agenzia per la famiglia della Provincia di Trento, una struttura parallela agli assessorati istituita appositamente per sostenere la famiglia, la natalità e le politiche giovanili. Lo stesso Malfer spiega il funzionamento dell’Agenzia che ruota attorno a due valori fondamentali: Family Friendly e Family Audit.
Il primo è una sorta di marchio assegnato a chi rispetta determinati criteri. “Fino a oggi sono 100 le organizzazioni che hanno aderito – dice Malfer -: il 70% private e il 30% pubbliche, tra cui Comuni, Asl, imprenditori, commercianti, albergatori, aziende, cooperative sociali e associazioni”. Il Family Audit, invece, riguarda “l’idea di aggiungere alle tante certificazioni quella sulla conciliazione famiglia-lavoro”, per creare “flessibilità e cultura aziendale”. Il tutto “a costo zero – rassicura Malfer -, perché non si investe denaro pubblico. Non contano i soldi. In queste politiche la vera carta vincente è un modello di gestione che concepisce la famiglia come risorsa della società. Nella logica classica si distribuiscono assegni. Nella nostra Provincia invece abbiamo protocolli con Regioni e Comuni per verificare l’applicabilità in altri territori”.
Che cosa ha spinto il Trentino a compiere queste scelte? Lo spiega il presidente della Provincia Ugo Rossi: “Siamo un territorio di montagna e per noi è molto importante evitare lo spopolamento mantenendo i servizi”. Una strategia che richiama anche famiglie da fuori regione. È stato così, per esempio, per Simona e Giuseppe, pugliesi e genitori di 4 figli. Oggi sono coordinatori provinciali dell’Associazione nazionale famiglie numerose. E hanno il ruolo di “mettere il ‘becco’ un po’ dappertutto: perché la famiglia, cellula primaria della società, abbia voce”. Una voce che in Trentino sembra davvero essere ascoltata.
Fonte: Famiglia Cristiana www.aibi.it/ita/trentino-qui-si-fanno-piu-figli-vi-spieghiamo-perche
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DIACONATO
Dibattito sul diaconato femminile.
Il Coordinamento Teologhe Italiane: Uno studio ancora attuale.
Dalle discepole di Gesù alla abbadesse: ruoli femminili nella storia del cristianesimo
Selene Zorzi 20 dicembre 2015
Newsletter CTI 29 agosto 2016
Ci sono molte testimonianze documentarie che parlano di ruoli femminili assunti da donne all’interno della cristianità. In questo contributo intendiamo darne una breve rassegna senza entrare nel merito di una loro valutazione teologica. C’è infatti un problema metodologico da affrontare: quando si parla di ruoli femminili, soprattutto nel cattolicesimo, la ricognizione storica rischia di essere imbrigliata dalle questioni circa il dibattito sull’ordinazione delle donne. Così, chi attualmente ritiene che le donne debbano essere ordinate, prenderà le testimonianze storiche a favore della sua posizione, mentre chi non lo è, tenderà a screditare tali testimonianze quando non addirittura a negarle. Bisogna però sottolineare che non è affatto implicito che vi sia un collegamento tra queste due cose.
La questione circa l’ordinazione femminile diventa infatti un problema solo se e quando nelle ricostruzioni storiche si fanno interagire con la ricerca altre due domande a cui bisognerebbe rispondere e cioè:
Se le donne siano mai state validamente ordinate;
Se le donne debbano essere ordinate oggi.
Si tratta di due questioni distinte e metterle assieme rischia di modificare troppo i risultati della ricerca soprattutto se la prima domanda è finalizzata alla seconda.
Si rende qui necessaria una precisazione che riguarda la differenza tra storia della teologia e teologia. Quando si parla di «ministeri» di donne nella tradizione cristiana, bisogna distinguere i differenti ruoli dello storico e del teologo, distinzione cruciale per comprendere la natura di uno studio come questo. La storia infatti è piena di riferimenti a donne «ordinate»: rituali, requisiti canonici, storie di donne ordinate, ruoli assegnati a donne inclusi in liste di ministri ordinati, donne che furono considerate ordinate da molti cristiani per molti secoli. I teologi però hanno il compito di determinare la definizione di «ordinazione»: essi specificano cosa rende valida un’ordinazione, distinguendo i criteri eternamente validi da quelli che possono mutare. Questo non è compito certamente dello storico: il suo è quello di rilevare se delle donne siano state considerate ordinate o no nel passato, secondo la definizione che al tempo si dava di ordinazione. Ovviamente il teologo può considerare la definizione di ordinazione data in un certo periodo, come invalida o inadeguata.
Dal momento che il Magistero cattolico esclude l’ordinazione delle donne, ritengo si possa trattare questa tematica lasciandola a livello storico senza essere determinati nel ragionamento da una qualche paura di giustificare teologicamente l’ordinazione delle donne. Non è detto infatti che la storia debba essere ripetuta. Il fatto che vi siano testimonianze storiche di ruoli che attualmente non abbiamo, non implica che dobbiamo averli anche oggi o che bisogna rimetterli. D’altra parte la storia della Chiesa ha conosciuto anche ruoli come quello dei portinai, degli ostiari, e tanti altri ministeri ecclesiali che a suo tempo erano considerati «ordinati» e per cui era previsto un rituale di «ordinazione» che oggi non abbiamo più e che non c’è esigenza di reintrodurre. Se pensiamo che il Concilio di Trento riconosceva sette gradi dell’ordine, escluso l’episcopato, e che infliggeva la scomunica a chi non riconoscesse tale numero di gradi (Concilio di Trento D. B. 961-967), capiamo che la questione del presbiterato oggi è teologicamente più complessa di quella che la lega all’esistenza o no nella tradizione di un ministero ordinato.
Una ulteriore precisazione va fatta circa il dibattito odierno che riguarda il diaconato: papa Benedetto XVI modificando alcuni canoni del Diritto Canonico ha infatti distinto l’ordine del diaconato da quello del presbiterato che ha associato all’episcopato. Questo, e non il diaconato, configura l’ordinato all’in persona Christi. Sembra quindi che la teologia cattolica potrebbe essere chiamata in futuro a discutere, qualora entrasse nel dibattito il problema di un diaconato femminile, se esso sia da considerarsi tra gli ordini sacri superiori o no e se si tratti di una ordinazione sacramentale o meno (sulla scia delle affermazioni del Motu Proprio questo viene escluso).
L’emergenza di un termine in un dato momento storico di per sé non significa molto. I termini assumono infatti lungo la storia significati diversi anche a seconda dei contesti e potrebbero non significare in quel tempo ciò che noi intendiamo oggi, o potevano non includere le funzioni che noi vi proiettiamo. Il passato insomma non detta necessariamente legge al presente e al futuro. La continuità dell’unico soggetto Chiesa nella storia non significa immobilismo dei suoi contenuti dottrinali, dal momento che l’annuncio esige di essere declinato in contesti e scenari diversi. Segue passim
1. Apostole
2. Profetesse
3. Ordo virginum/viduum
4. Diaconesse. Non potendo negare la loro presenza nella storia, il dibattito contemporaneo si è occupato di definire se la loro sia stata una vera ordinazione o solo una istituzione (con le questioni sulla terminologia che ha distinto cheirothusia/cheirotonia), se fossero da associare alla gerarchia ecclesiastica e se tale ruolo fosse associato a mansioni diaconali. Va anzitutto chiarito che sembrano chiamate così:
Le mogli di diaconi,
Le vedove-diaconesse,
Le diaconesse come ordo (tarma),
Le diaconesse-abbadesse.
5. Episcopae/Episcopale
6. Presbyterae
7. Abbatissae
8. Come interpretare? Normalmente uno status quaestionis viene prima della trattazione. Poiché questo è solo uno studio riepilogativo, ecco di seguito le posizioni di alcuni dei maggiori studiosi di queste questioni. (…) Tra il 1960 e il 2001 sono state circa 800 le pubblicazioni sull’argomento, tra articoli e libri. Tra i maggiori contributi: (…)
9. Il problema della definizione di Ordinazione
10. Studi più recenti
11. Per finire…
Dal Diario di Helder Camara, Roma 25/26. 10. 1964
98 citazioni bibliografiche http://mondodomani.org/reportata/zorzi18.htm
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FERTILITY DAY
Perché un brutto spot dice la verità.
Da quindici mesi consecutivi l’Italia si fa più piccola. Nonostante l’arrivo di immigrati, nonostante la maggiore natalità delle donne straniere, non si riescono a compensare i decessi di una popolazione sempre più vecchia: tra il gennaio 2015 e il marzo 2016 sono sparite 167.537 persone, oltre 10mila al mese. Un saldo negativo senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sotto accusa è il tasso di natalità, sceso ad appena 1,35 figli per coppia, vale a dire un livello con il quale si dimezza la popolazione nel breve giro di due generazioni. Il tasso di equilibrio è invece di due figli per coppia, un livello oggi in Europa presente solo in due paesi: Irlanda e Francia.
Tutti gli altri tendono a spopolarsi, con una situazione particolarmente grave in Italia e Germania. Perché le donne – o, meglio, le coppie – fanno così pochi figli? La polemica sollevata dalla (brutta) campagna per il «Fertility Day» mostra che ci sono in giro non poche idee confuse. Non fa eccezione il ministro per la Salute, Beatrice Lorenzin, che in una intervista alla Stampa per difendere la sua iniziativa afferma: «In Italia c’è un allarme demografico: se si continua così si rischia la crescita zero nel 2050».
Altro che crescita zero! Siamo già in campo negativo e, se si continua così, nel 2050 invece di 60,6 milioni saremo 5 milioni in meno. Resta il fatto che l’allarme demografico c’è e che lo scarso numero di culle viene attribuito alla carenza di servizi e lavoro stabile. Lo si coglie in molti commenti rilanciati dai social, ma anche nelle parole del premier Matteo Renzi: «Devi creare le condizioni strutturali, gli asili nido, i servizi, creare lavoro». I freddi dati però mostrano un quadro diverso. L’Italia, è cosa nota, è spaccata in due su tantissimi parametri: Centronord e Mezzogiorno appartengono a due mondi diversi per occasioni di lavoro, servizi sociali, reddito, sistemi di trasporto, sanità e così via.
Sulla natalità, però, il quadro è assolutamente omogeneo. I figli per coppia sono 1,47 a Milano e 1,43 a Palermo; 1,38 a Torino e 1,37 a Napoli; 1,31 a Venezia e 1,28 a Bari. L’età al momento del parto è sempre sopra i 30 anni con un massimo di 32 anni a Roma e Milano e un minimo poco sotto i 31 a Napoli e Palermo. Differenze piccole, che statisticamente sembrano non avere alcuna relazione – per esempio – con gli asili nido, che pure sono necessari. La città che ne è più fornita, Bologna, ha una natalità di 1,40 figli per coppia e garantisce al 33% dei bambini da zero a tre anni il posto in un asilo nido.
La città che ne è meno fornita è Napoli, dove i piccoli che possono trovare posto in un asilo nido sono appena 2,3 su cento, eppure la natalità è praticamente la stessa di Bologna: 1,37. Anche avere, o meno, un’occupazione non incide sulla propensione a riprodursi. La città con il più alto tasso di occupazione femminile è Milano, con quasi il 70% delle donne al lavoro nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni. Sul fronte opposto, con appena il 25-26% di occupate, ci sono Napoli e Palermo ma, come si è già visto, l’indice di fecondità non sembra risentirne o beneficiarne. Se si restringe l’osservazione alle sole donne di cittadinanza italiana, la situazione non cambia: Napoli e Milano restano allineate intorno a quota 1,3 figli per coppia nonostante la grande differenza in termini di servizi sociali e di opportunità di lavoro.
Si afferma: un conto è avere un lavoro, altro è avere un lavoro «sicuro», il solo che dia la tranquillità sufficiente per metter su famiglia. E in effetti dal 1997 con il primo «pacchetto Treu» si è detto addio al posto fisso e si sono moltiplicate le forme di lavoro precario. Le statistiche dovrebbero quindi mostrare un calo di natalità dopo quell’anno. E invece nel 1996 – vent’anni fa – l’indice di fecondità in Italia era già di 1,22; quindi ancora più basso di oggi. Un quarto di secolo fa, nel 1991, l’indice era di 1,33. In pratica quello attuale. Scorrendo le statistiche, insomma, ci si accorge che la denatalità viene da lontano e non può essere spiegata con questo o quel provvedimento normativo, né con l’azione di un governo.
Viene da lontano ma è un fenomeno che si è presentato in modo repentino: la natalità crolla in Italia in soli 10 anni passando dai 2,4 figli per coppia del 1971 agli 1,6 del 1981. Il fenomeno inizia nel Nord Italia e si diffonde lungo la penisola. Il Mezzogiorno nel 1971 è ancora a un livello di 3 figli per coppia e impiega dodici anni per arrivare a quota 2 per coppia (il livello ottimale) ma il declino non si arresta: nel 1992 siamo a 1,6 figli per coppia fino agli 1,3 scarsi attuali. Negli stessi anni, per l’esattezza dal 1973, in Francia il numero di figli per coppia rimane stabile intorno a quota 2. Al contrario in Germania, nonostante il buon andamento dell’economia e uno stato sociale di prim’ordine, il calo è persino più forte che in Italia e oggi i tedeschi sono il popolo che fa meno figli al mondo.
Marco Esposito il mattino 2 settembre 2016
www.ilmattino.it/primopiano/cronaca/perche_un_brutto_spot_dice_la_verita-1942447.html
Fertility Day: non servono polemiche, ma più figli, pena l’estinzione degli italiani.
Un anno fa sugli schermi delle tv danesi andò in onda un curioso spot dal titolo “Fallo per la mamma”. Con immagini che lasciavano poco spazio alla fantasia, si invogliavano i giovani a fare figli. Così le emittenti del Paese nordico lanciarono una campagna di sensibilizzazione sul tema della natalità, che in Danimarca si attestava nel 2014 a 1,69 figli per donna.
Qui in Italia, dove il tasso di fertilità scende all’1,37, uno dei più bassi al mondo, il Dicastero della Salute ha dimostrato di avere a cuore il problema. Già nel 2014 il ministro Beatrice Lorenzin annunciò di voler avviare un Piano nazionale per la fertilità, con l’intento di favorire la nascita di più figli.
È in questo contesto che si colloca il Fertility Day, in programma il 22 settembre2016, quando un’ampia gamma di professionisti – da ginecologi ad andrologi, da endocrinologi a pediatri, finanche psicologi, sociologi ed economisti – si metterà a disposizione per illustrare i rischi legati alla gravidanza oltre una certa età. Nel Belpaese, tuttavia, l’operosità istituzionale su questo tema ha scatenato un vespaio di polemiche. Ad innescarle, un commento negativo pubblicato su internet da Roberto Saviano, che ha definito il Fertility Day “un insulto a tutti: a chi non riesce a procreare e a chi vorrebbe ma non ha lavoro”. Allo scrittore campano hanno fatto eco numerose persone sui social network. Di diverso avviso è invece il parere di chi segue il tema della natalità e delle implicazioni dell’inverno demografico.
Ad esempio Roberto Volpi, statistico e studioso di demografia. Intervistato da ZENIT, non esita a definire “becere” e “molto provinciali” queste critiche. Volpi premette che “il Fertility Day di per sé servirà a poco”, è il segno però di un’attenzione finalmente sorta all’interno del mondo politico intorno a questo “grave problema.” E secondo lo statistico, il perno del problema è proprio l’età in cui le donne decidono di voler mettere al mondo il primo figlio. Di qui la sua proposta: abbassare l’età media del matrimonio di cinque anni, dagli attuali 32 ai 27-28. Del resto – rileva Volpi – “la fecondità è massima intorno ai 18-20 anni, si tiene alta fino ai 27-28 e poi, intorno ai 30, comincia a decadere fino a perdere l’80% della sua forza all’arrivo dei 40 anni”. Pertanto, se la donna italiana continua a entrare nell’ordine di idee di diventare madre a 32-33 anni, “altrettanto mediamente avrà un figlio, un solo figlio”. Infatti, “anche se ne volesse un secondo, incontrerebbe evidenti difficoltà”. La “terapia” indicata da Volpi nell’abbassare l’età matrimoniale delle donne, passa anzitutto per l’università. Egli reputa “folle” che gli studi universitari tendano a “prolungarsi sempre più nel tempo”, facendo sì che una ragazza finisca l’iter accademico in un’età in cui la fertilità conosce una flessione. Si tratta per l’appunto di ragazze che, se avranno un figlio, ne avranno verosimilmente uno solo. E la prevalenza del figlio unico – commenta laconico Volpi – “ci trascina filati alla tomba”. In un contesto in cui nell’ultimo anno sono nati appena 488mila bambini, si rende infatti necessario che le donne che mettono su famiglia, “abbiano almeno due figli”. Per consentire quindi alle donne di procreare prima, Volpi invita ad “abbreviare il corso degli studi, concentrando i programmi, accorciando i percorsi, avvicinando già dall’università il mondo del lavoro”.
È consapevole, Volpi, che la sua proposta verrà interpretata come una sgradevole provocazione dai fautori radicali dell’autodeterminazione delle donne. Ma che l’elemento anagrafico sia determinante nella crisi delle nascite è – soggiunge – “una scoperta dell’acqua calda”, che “solo in Italia diventa un motivo di polemica”. Per Volpi “chi ha a cuore le sorti del Paese non può non preoccuparsi della crisi demografica”, che rischia di portarci “all’estinzione”. Chi invece si cimenta a proferire giudizi negativi su iniziative pro-natalità, o è un ignaro oppure – commenta Volpi senza giri di parole – “è un egoista a cui non gliene importa nulla”.
Per inciso. È forse impossibile dimostrare che non si tratti solo di un caso, ma in Danimarca, a un anno dalla messa in onda dello spot a favore della fecondità, c’è stato un boom di nascite: 1.200 in più rispetto a 12 mesi prima.
Luca Marcolivio Zenit 1 settembre 2016
https://it.zenit.org/articles/fertility-day-non-servono-polemiche-ma-piu-figli-pena-lestinzione-degli-italiani
Facciamo pochi figli ma servono più incentivi.
È vero, gli italiani fanno pochi figli, da molti punti di vista. Ne fanno molti meno rispetto ai francesi, agli americani, agli inglesi, agli svedesi e a gran parte del mondo occidentale. Ne fanno molti meno anche rispetto a quanto considerato auspicabile per un equilibrato rapporto tra generazioni. Il numero medio di figli per donna è infatti persistentemente e marcatamente inferiore a due. Il dato Istat più recente è pari a poco più di un figlio e un terzo. Questo significa che stiamo viaggiando con generazioni di figli via via meno consistenti rispetto a quelle dei genitori. In prospettiva ciò porta, anche tenendo conto dei flussi migratori, a rendere il nostro paese uno di quelli con carico maggiore al mondo di anziani sulla popolazione attiva.
I dati ci dicono che il tema quindi esiste. Perché allora il Fertility day sta producendo divisioni? Dopotutto il Ministero della Salute fa il suo mestiere informando sulle scelte che producono benessere per i cittadini. Quello che risulta più discutibile è il mettere al centro della questione della bassa natalità la necessità di convincere gli italiani di quanto sia utile per il paese fare figli e quanto sia bello diventare madri e padri. In primo luogo un approccio di questo tipo, come dimostrano anche le reazioni sui social, rischia di ottenere per molti l’effetto contrario. In secondo luogo molte ricerche evidenziano come il numero di figli desiderato dai ventenni italiani non sia più basso rispetto ai coetanei francesi, americani e svedesi. La differenza sta soprattutto nel fatto che i progetti di conquista di una propria autonomia e di formazione di una propria famiglia sono più facilmente realizzabili negli altri paesi avanzati. Se una giovane donna italiana si trova con maggior difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro, ad ottenere una remunerazione adeguata, a conciliare lavoro e famiglia, possiamo pensare di convincerla ad avere figli, nonostante tutto questo, informandola maggiormente sul fatto che se aspetta troppo rischia definitivamente di non averne?
È vero che le possibilità di concepimento si riducono con l’età e più si rinvia e più si rischia di trovarsi a rinunciare. Il Ministero fa bene a ricordarlo e a cercare di promuovere maggior consapevolezza delle implicazioni, individuali e collettive, delle proprie scelte o non scelte. Ma è anche vero che il bello della maternità e della paternità più che con pressioni o suscitando timori, si trova potendo, nei tempi desiderati, realizzare e vivere con successo l’esperienza di avere un figlio grazie a politiche che funzionano.
Alessandro Rosina La Repubblica 1 settembre 2016
www.alessandrorosina.it/facciamo-figli-servono-piu-incentivi
Fertility Day, “la famiglia senza figli è malata”: le dichiarazioni forti del presidente SIPPS
La famiglia senza figli è malata. Così il Dott. Giuseppe Di Mauro, presidente della Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), ai microfoni della trasmissione “Genetica oggi”, condotta da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.
“La procreazione è il principio fondamentale della famiglia –ha affermato Di Mauro-. Due persone si mettono insieme fanno una famiglia, potrebbero convivere o stare per fatti loro, avere una compagnia e ogni tanto vedersi. Invece no, la famiglia: quella di due persone messe insieme e che fanno figli è un’altra cosa, diventa un nucleo. Famiglie con pochi figli sono famiglie deboli. Sono deboli perché una famiglia con un bambino o due bambini sono famiglie più deboli rispetto a quelle con 4, 5 o 6 bambini. Sono famiglie moralmente e socialmente deboli. Per mantenere il nucleo della famiglia è quello. Per mantenere la nostra esistenza almeno ogni nucleo familiare deve avere due figli. “
“Ci sono i single e coppie che non possono avere i figli. Allora dico bisogna mirare in modo forte alla famiglia con i figli. Bisogna spingere i single che stanno bene senza bambini a fare i figli? Si, chi dice che non si può permettere il secondo figlio sbaglia perché se c’è una gestione corretta e giusta il secondo figlio rispetto al primo (economicamente) costa meno.
Fare più di un figlio. “La donna, che diventa mamma, è una delle persone più preziose. Se sta bene la mamma sta bene tutta la famiglia. La famiglia è allo sbando ma perché? Perché si fanno meno figli, se in una famiglia ci sono figli e bambini il quotidiano è tutta un’altra cosa. Quindi la famiglia è malata senza figli? Esatto, è anche meno importante e con più problematiche. Più figli danno maggiore serenità, maggiore forza di mantenere insieme la famiglia”. Alla domanda del conduttore: Se non ci sono soldi si tira la cinghia e si fanno ugualmente figli? Di Mauro risponde: “Ma certo, certo. Bisogna partire dalla coppia. Con la convivenza poi si fanno meno figli. Con il matrimonio quando ci si sposa si diventa un tutt’uno. In tutto il mondo con i figli c’è più rispetto, c’è più aiuto, c’è più vicinanza più tutto. “
“Sicuramente un figlio è un valore aggiunto per una vita più tranquilla e più rispettosa. Le violenze ci possono stare in tutte le famiglie ma quelle con più bambini ci possono essere meno violenze meno aggressività.” Peppe Caridi meteoweb 1 settembre 2016
http://www.meteoweb.eu/2016/09/fertility-day-la-famiglia-senza-figli-e-malata-le-dichiarazioni-forti-del-presidente-sipps/737215/
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Fertility day. De Palo: bene, ma denatalità è problema sociale.
Il prossimo 22 settembre è il giorno scelto dal Ministero della Salute per il primo Fertility day, giornata dedicata alla sensibilizzazione sulla prevenzione dell’infertilità. L’iniziativa è tesa soprattutto ad arginare il crollo inarrestabile delle nasciate che attanaglia l’Italia. Tuttavia la campagna di lancio che precede il Fertility day ha sollevato accese proteste contro una serie di locandine che recitano slogan come ‘La bellezza non ha età, la fertilità sì’, ‘Datti una mossa! Non aspettare la cicogna’. Ma quali politiche mettere in campo per dare una risposta strutturale alla denatalità?
Intervista al presidente del Forum delle Associazioni familiari, Gigi De Palo:
R. – Sicuramente c’è una intuizione positiva, quella cioè di andare a dare una risposta ad un inverno demografico che è sempre più imminente: anzi ci stiamo già da troppo tempo! Dall’altra parte, però, c’è anche il dover leggere un dato: oggi come oggi, secondo una interessante ricerca fatta lo scorso anno dall’Istituto Toniolo, in particolar modo dal prof. Rosina, emerge che i giovani italiani vogliono fare famiglia, vogliono fare figli; il 40 per cento degli intervistati vorrebbe addirittura due o più figli. Quindi non è un problema di desiderio di fare figli: il problema è che in Italia non ci sono le condizioni perché ciò avvenga. Ci sono le premesse, in Italia, affinché si possano realizzare i desideri e i sogni dei giovani? Ecco, io credo invece che oggi, in Italia, per mettere al mondo un figlio, al di là di un desiderio che c’è, ci sono tutta una serie di difficoltà legate al tema del lavoro, al tema della casa, al tema della precarietà.
D. – Infatti molte contestazioni fanno notare che questo desiderio delle giovani coppie è ostacolato da lavori sempre più precari e paghe insufficienti.
R. – Se mettere al mondo un figlio è diventata una delle prime cause di povertà, se una mamma deve nascondere il pancione quando va dal datore di lavoro perché altrimenti rischia di essere licenziata o di non vedere prorogato il suo contratto, questo è un problema! Io credo che le famiglie, oggi, in Italia, abbiano bisogno di sentire uno Stato che ha fiducia in loro, uno Stato che non sia un concorrente, non sia un nemico, ma che sia un complice dinanzi a qualcosa di importante, che è – appunto – la costruzione di cittadini del futuro. Senza figli non c’è futuro; senza figli non c’è crescita economica; senza famiglia non c’è tutto questo! Quindi, che finalmente si possano concretizzare delle politiche fiscali ed economiche adeguate, perché – oggi come oggi – non si tiene conto dell’art. 53 (della Costituzione) che prevede di gestire e di pagare le tasse in base alla capacità contributiva che tenga conto della composizione della famiglia.
D. – Spesso il crollo delle nascite è attribuito alla crisi economica. Si può anche girare il ragionamento: una società che invecchia, non produce ricchezza e lavoro.
R. – Una società che invecchia non produce ricchezza e lavoro, ma soprattutto è una società che dice in maniera chiara: “Ho smesso di pensare al futuro!”. E’ un problema sociale, ma è anche un problema antropologico, un problema culturale, che però l’Italia mi sembra paradossalmente in parte superato: un conto se mancasse il desiderio di mettere al mondo figli e di fare famiglia, un conto se questo desiderio c’è, ma non ci sono le premesse per realizzarlo.
D. – Vediamo, però, che anche nei Paesi con maggiore welfare c’è una sostanziale frenata delle nascite. Su questo fronte si può lavorare, incidendo quindi sul percorso scolastico? Che cosa si può fare anche per aiutare la fertilità, che in fondo era il tema della campagna?
R. – Sicuramente uno dei grandi problemi è che oggi una persona finisce gli studi – se trova lavoro – a 25-26, che è una età comunque elevata; se poi ci si aggiunge il fatto che c’è una precarietà diffusa dai 25 anni in poi, perché non è semplice trovare lavoro stabile, questo aumenta ancora di più e sposta ancora più l’asticella. Il tema della fertilità – per carità! – è una intuizione interessante, ma rischia di sanitarizzare un tema che dovrebbe invece essere visto tenendo conto di un aspetto antropologico, ma anche sociale. Faccio un esempio: in Francia, in Inghilterra, si sono fatte tante volte delle campagne sul tema della fertilità, ma a noi non interessa fare figli tout court, a noi interessa che i figli siano messi all’interno di una composizione familiare, che possa produrre dei frutti, che possa essere un investimento per il futuro: investiamo sulla famiglia e automaticamente avremo ancora più figli e automaticamente avremo ancora più futuro.
D. – Comunque, c’è la necessità che, a livello sanitario, si possa parlare serenamente di queste tematiche?
R. – Io credo che interessante sia il fatto che, per la prima volta, si è fatto qualcosa per andare a dare un segnale relativamente all’inverno demografico. Io credo che l’errore sia il fatto di non aver fatto una campagna capace di unire e di aggregare su un tema che dovrebbero accomunarci tutti, perché passa il tempo, ma la demografia è inesorabile e se noi non giochiamo e non vinciamo questa partita poi saranno affari non solo nostri, ma anche dei nostri figli!
D. – Voi siete molto impegnati su questo fronte e il 22 settembre si celebra il primo “Fertility Day”.
R.- Molte associazioni del Forum, quelle legate soprattutto ai centri della regolazione naturale della fertilità, parteciperanno. L’idea è, appunto, di portare un valore aggiunto e cioè che il tema della fertilità è qualcosa di importante, anche perché è legato alla differenza tra uomo e donna, è legata al fatto che c’è un modo anche di vivere l’affettività e la sessualità molto propositivo e molto bello. Quindi abbiamo voluto esprimere queste chiavi di lettura, perché ci sembra importante che il governo, al di là di questa iniziativa, cerchi anche di togliere le cause che limitano la fertilità. Lavoriamo sul lavoro, lavoriamo sulla prima casa dei giovani, lavoriamo su un fisco più equo sulle famiglie, lavoriamo sull’armonizzazione tra lavoro e famiglie per quanto riguarda le donne, allora automaticamente – come per incanto – sono certo che avremo anche più figli
Marco Guerra Notiziario Radio vaticana -1 settembre 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Il Papa: no ai pregiudizi sulla donna
«Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità». Lo ha detto il Papa, nel corso dell’udienza generale in piazza San Pietro, commentando il Vangelo di Matteo che racconta l’episodio dell’«emorroissa», la donna che aveva perdite di sangue e che riesce a toccare il lembo del mantello di Gesù. Che si volta, la incoraggia e la guarisce. Una comportamento che, spiega Francesco, «indica alla Chiesa il percorso per andare incontro ad ogni persona». La donna, ha detto il Papa, «si avvicina per toccare il lembo del mantello» di Gesù, pensando: «Se riuscirò anche solo a toccare il mantello sarò salvata». «Quanta fede eh! – commenta Bergoglio – Quanta fede aveva questa donna! Ragiona così perché è animata di tanta fede e di tanta speranza e con un tocco di furbizia realizza quanto ha nel cuore. Il desiderio di essere salvata da Gesù è tale di farla andare oltre le prescrizioni stabilite della legge di Mosè, perché lei è ritenuta impura in quanto affetta da emorragie. E perciò esclusa dalle liturgie, dalla vita coniugale, dai normali rapporti con il prossimo».
Era una donna «scartata dalla società». «È importate considerare questa condizione di scartata – aggiunge Francesco – per capire il suo stato d’animo: lei sente che Gesù può liberarla dalla malattia, dal suo stato. Sa, sente, che Gesù può salvarla. Questo caso fa riflettere su come la donna sia spesso percepita e rappresentata: tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità». Invece, ricorda il Papa, «sono proprio i vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre a un punto di vista liberatorio».
Non sappiamo il nome della donna, osserva ancora il Pontefice, «ma le poche righe dei vangeli che ne parlano delineano un itinerario di fede capace di ristabilire la verità e la grandezza della dignità di ogni persona». Nell’incontro con Cristo «per ogni donna e ogni uomo» c’è la «via di liberazione e salvezza». Il Vangelo di Matteo, osserva ancora Francesco, «dice che quando lei toccò il mantello, Gesù si voltò e la vide: lei è timorosa, ha agito alle spalle per non esser vista, era una scartata. Gesù la vede e il suo guardo non è di rimprovero: non dice “Vattene via, sei una scartata!”. No, il suo sguardo è di misericordia e di tenerezza. Gesù non solo la accoglie, ma la ritiene degna di tale incontro al punto di farle dono della sua parola e della sua attenzione».
Nella parte centrale del racconto il termine «salvezza» è ripetuto tre volte. «Questo “Coraggio, figlia!” di Gesù – ha aggiunto Francesco – esprime tutta la misericordia di Dio per quella persona e per tutte le persone scartate. Quante volte ci sentiamo interiormente scartati per i nostri peccati, ne abbiamo fatti tanti, il Signore ci dice: “Coraggio, vieni, per me tu non sei uno scartato, una scartata. Coraggio figlia, tu sei un figlio, una figlia!”. Questo è il momento della grazia, del perdono, dell’inclusione». Dobbiamo «avere coraggio e andare da Lui e chiedere perdono dei nostri peccati e andare avanti, con coraggio, come ha fatto queste donna».
Gesù, ha detto il Papa, «la libera dalla necessità di agire di nascosto. Uno scartato sempre agisce di nascosto in qualcosa. I lebbrosi, noi peccatori. Sempre facciamo qualcosa di nascosto, abbiamo la necessità di fare di nascosto, perché ci vergogniamo di quello che siamo. Lui ci libera, ci rialza in piedi, come Dio ci ha creati: in piedi, non umiliati». Gesù, ha concluso Francesco, «con il suo comportamento pieno di misericordia indica alla Chiesa il percorso per andare incontro a ogni persona perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità dei figli di Dio». http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2016/documents/papa-francesco_20160831_udienza-generale.html
Andrea Tornielli La Stampa-Vatican Insider 31 agosto 2016
www.lastampa.it/2016/08/31/vaticaninsider/ita/vaticano/il-papa-no-ai-pregiudizi-sulla-donna-hO81ehOQaMDALI0JAZXmHN/pagina.html
Il tempo è superiore allo spazio?
Nell’ultima parte di Evangelii Gaudium, specificamente in un insieme di paragrafi dedicati alla pace (217-237), papa Francesco ha proposto quattro principi la cui attuazione costituirebbe un “autentico cammino verso la pace in ogni nazione e nel mondo intero”. Le parole usate sono estremamente generali: tempo/spazio, unità/conflitto, realtà/idea, tutto/parte, e il primo termine di ogni binomio viene proclamato superiore al secondo. Bisognerebbe quindi tenere fisso lo sguardo sui primi quattro termini: tempo, unità, realtà, tutto, e fare attenzione a subordinare loro i secondi.
Non è necessario essere un grande studioso della storia del pensiero umano per riconoscere che tali parole, insieme ad alcune altre simili, esistono da sempre nello spirito degli uomini in cerca di comprensione e di direzione per la guida della loro esistenza provata ed effimera. Anche qui, come spesso avviene, tali parole si presentano in coppie che sono e rimangono antagoniste: non si può sopprimere uno dei due termini a favore dell’altro, né identificare l’uno con l’altro, il che equivarrebbe a cancellarli entrambi. Bisogna quindi giocare con l’identità e la differenza. Tutte le sapienze giocano così con queste nozioni, le organizzano, le usano per contribuire ad un percorso di vita tendente alla felicità.
Per questo, i principi proposti da Francesco hanno evocato in me i due grandi presocratici: Parmenide ed Eraclito. Il primo e il terzo principio [«il tempo è superiore allo spazio», «la realtà è superiore all’idea»] ci collocano dalla parte di Eraclito: nella realtà, la nostra esperienza è davvero che “tutto scorre” e che “non ci si immerge mai nello stesso fiume”. D’altra parte, è certo che, per quanto sciolte, le nostre idee e parole (i nostri logos) non esauriscono il reale che scrutano. Stranamente, con il secondo principio [«l’unità prevale sul conflitto»] e con il quarto [«il tutto è superiore alla parte»], Eraclito indietreggia, per lui «in principio era la guerra» e Parmenide si reinsedia in una pace e in una globalità da sempre incrollabili, lui che rifiuta decisamente l’idea stessa di un divenire e quella della precarietà di un logos.
Questo avvicinamento spontaneo dei principi di Francesco a quelli dei grandi presocratici fanno pensare che in essi non ci sia niente di definitivo, tanto più che sono in posizione dialettica. Bisogna quindi prenderli come suggestioni intellettualmente fondate e praticamente utili per il discernimento oggi delle situazioni e delle “prese di decisione” costruttive. In fondo, nel loro «magistero», i vescovi e i papi hanno sempre agito così.
Ciò detto, mi sembra che l’originalità di papa Francesco si situi dal lato «eracliteo» delle sue affermazioni. Per ragioni che sarebbe troppo lungo presentare di nuovo qui e che dipendono da congiunture di civiltà, il pensiero cristiano si è volentieri sviluppato all’insegna dell’eterno, dell’identico, del ragionevole, di ciò che, in nome della realtà immutabile di Dio e del carattere terminale della resurrezione di Cristo, non cambia o non cambia più. E la parola spazio è simbolica di questa identità. Connota l’estensione, la consistenza, la coerenza, la permanenza, il solido, e suggerisce, per ciò che è al di là (il metafisico), la stessa qualità, quella che sembra esprimere la parola essere e quella, correlativa, di perfezione.
Cominciando, nell’esposizione dei suoi principi, con la superiorità del tempo, Francesco propone una simbologia diversa: quella delle successioni, delle avventure, delle rotture e ricomposizioni, della morte e della vita, della durata spesso ripetitiva certo, ma sempre di nuovo attraversata da un inatteso che cambia tutto. Illustra lui stesso le sue affermazioni con l’immagine del poliedro che oppone a quella (assolutamente parmenidea) del cerchio: il poliedro è immagine di elementi diversi che, pur mantenendo la loro originalità, confluiscono; che si articolano senza annullarsi.
L’immagine, presentata in EG 236, sembra pertinente al papa poiché la riprende, di concerto con il richiamo al primo principio proposto della superiorità del tempo (AL 3-4), per caratterizzare l’insieme del Sinodo sulla famiglia. A questo punto vorrei fare due riflessioni.
La prima è che la Sacra Scrittura è costruita sul tempo prima di considerare lo spazio. Quando gli scribi hanno raccolto in un volume l’insieme dei testi di cui disponevano, hanno scritto: “in principio” (Gen 1,1), e l’ultimo dei profeti pubblicati fa intravedere la fine: «il giorno del Signore, grande e terribile» (Mal 3,23). Solo in seguito hanno pubblicato gli scritti della sapienza. Il Nuovo Testamento non ha modificato l’ordine, e termina con la preghiera «Vieni Signore Gesù». In altri termini, gli autori della bibbia hanno subordinato la sapienza alla profezia. La teologia non ha avuto invece la tendenza a fare l’inverso? Anche se ha avuto delle ragioni per farlo, ci si potrebbe rallegrare di dover oggi restituire l’ordine primitivo – il che non vuol dire cancellare la sapienza, ma situarla all’interno della profezia e non al di sopra.
La seconda riflessione è che papa Francesco non si è limitato a proporre questi principi. Al primo posto della vita e della riflessione della Chiesa, ha invitato a mettere la misericordia, cioè la figura di Dio come Amore in eccesso. Lo ha fatto con la presa di coscienza drammatica dei pericoli incorsi dal mondo e delle cause della tragica situazione presente. Ha proposto (ed espresso con atti simbolici) una visione sinodale della Chiesa come piramide rovesciata il cui vertice è al di sotto, – posizione che gli dà tutta la sua fecondità. Ha indicato la dinamica di ascolto, di dialogo, di ricerca, di discernimento a tutti i livelli che deve permettere alla Chiesa di dire e di fare una parola efficace e credibile. Credo che tutto questo debba essere accolto con favore e giudicato sulla base non dei dati acquisiti di ieri, ma di una coerenza profonda con l’intenzione innovativa del Concilio Vaticano II, che forse aspettava questo genere di messaggi per sviluppare le sue potenzialità nella Chiesa, certo, ma anche per il mondo degli uomini che le aspetta senza saperlo.
Ghislain Lafont 28 agosto 2016 traduzione: www.finesettimana.org
www.cittadellaeditrice.com/munera/il-tempo-e-superiore-allo-spazio
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GENITORI
Genitori, obbligatorio ascoltare i figli
Tribunale di Milano, prima Sezione civile, ordinanza 3 giugno 2016
Genitori separati: nel caso di contrasto su una decisione riguardante il figlio minore, a decidere quale delle due soluzioni sia la migliore è il giudice, che deve ascoltare il minore. Se solo i genitori ascoltassero (e non semplicemente “sentissero”) i propri figli, come del resto è loro dovere, si eviterebbero tante discussioni e, soprattutto, cause: è questa la sintesi della riflessione fatta dal tribunale di Milano in una recente ordinanza.
Madre e padre ormai separati e in conflitto su una decisione inerente al figlio minore su cui entrambi hanno l’affidamento, devono sempre tentare di risolvere le proprie discussioni con il dialogo: dialogo che deve essere, prima ancora che tra di loro, con il minore stesso. Se, infatti, è vero che, per risolvere i contrasti, la prima cosa che fa il giudice è proprio chiedere l’audizione del figlio interessato (se ha almeno 12 anni o anche prima qualora dimostri capacità di discernimento), tanto più ciò vale a monte con i genitori. Peraltro è proprio da tale ascolto che può derivare la soluzione alla vicenda, verificando quali siano le effettive volontà del giovane con meno di 18 anni (dopo tale soglia è lui stesso a decidere per sé) e quali le sue ambizioni: del resto, proprio a tali criteri farà poi riferimento il tribunale nel momento in cui sarà chiamato a decidere.
La vicenda. Il caso si riferisce a una ragazza che aveva manifestato il desiderio di partecipare a un viaggio-studio in Australia. Mentre il padre le aveva dato il suo placet, la madre era stata di diverso avviso; a detta di quest’ultima, infatti, la minore avrebbe espresso una volontà non genuina in relazione a tale esperienza. L’ex marito ha così incaricato della decisione il giudice della famiglia che ha dato ragione al papà dopo aver ascoltato la giovane e aver verificato la sua effettiva volontà a voler intraprendere il viaggio.
Come risolvere i contrasti tra genitori. L’ordinanza sancisce un principio sacrosanto: come è obbligo dei genitori ascoltare il proprio figlio, è anche diritto del figlio essere ascoltato. Qualora il contrasto non si risolva da solo, i genitori potranno/dovranno rivolgersi al giudice della famiglia secondo le regole che seguono. In caso di contrasto, o di esercizio difforme dalle decisioni concordate, su questioni di particolare importanza o sugli atti di ordinaria amministrazione, ciascuno dei coniugi può rivolgersi, senza formalità particolari, al giudice ordinario, indicando i provvedimenti ritenuti più idonei.
Il giudice – il cui potere trova un limite nel superiore interesse rappresentato dalla autonomia della famiglia – non può imporre una propria decisione né sostituirsi ai genitori stessi, ma deve favorire un accordo tra i genitori. Se ciò non è possibile, deve allora decidere quale delle due scelte, operate dai genitori, sia più idonea a curare gli interessi del minore. Non può invece prospettare una terza soluzione – la propria – difforme da entrambe quelle indicate dai genitori.
Nei casi di urgenza, non potendosi attendere l’intervento del tribunale, la legge riserva al padre il potere di prendere una decisione, anche se in contrasto con la madre.
Dunque, in sintesi, in caso di contrasto tra gli ex-coniugi nell’esercizio della reciproca responsabilità genitoriale, la parola definitiva sull’autorizzazione compete al giudice della famiglia. A tal riguardo, il minore ha il diritto ad essere “ascoltato” in tutti i procedimenti che lo riguardino, per cui l’ascolto è “atto imprescindibile, soprattutto allorché il contrasto genitoriale afferisca ad una decisione che coinvolge in via diretta il minore medesimo, come nel caso di specie. Ma tutto ciò non toglie che in questo caso l’ascolto da parte del giudice deve ritenersi un compito «secondario rispetto a quello primario, dei genitori, di ascoltare i propri figli».
Se i coniugi – rimarca il giudice – avessero ascoltato, avrebbero evitato un ulteriore accesso all’autorità giudiziaria ed avrebbero attuato le migliori scelte nel rispetto dei desideri, delle aspirazioni e delle inclinazioni della propria figlia.
Redazione LPT 1 settembre 2016 Ordinanza
www.laleggepertutti.it/131055_genitori-obbligatorio-ascoltare-i-figli
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MATERNITÀ
La scelta difficile di diventare madre.
Il tempo che passa inesorabile, la maternità che sfuma, niente figli, è troppo tardi, ci si doveva pensare prima, ma di che s’impiccia ora il governo, come si permette, cos’è quest’intrusione nella nostra vita, nella nostra sfera privata e intima? E allora sono bastate poche ore, e una pioggia di critiche, per ottenere il dietrofront del ministero della Sanità sul Fertility Day e convincere la ministra Lorenzin a ripensare completamente la campagna di prevenzione sanitaria sull’infertilità.
www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_2_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=eventi&p=daeventi&id=431
Non perché il problema della denatalità non esista oggi in Italia, anzi. Semplicemente perché, prima ancora di parlare di fertilità e infertilità, forse sarebbe meglio chiedersi come sia cambiata la maternità in questi ultimi decenni, e interrogarsi sui motivi profondi che hanno fatto sì che tante donne di quaranta o cinquant’anni non abbiamo mai (o ancora) avuto figli. Non si dovrebbe d’altronde ricominciare proprio da lì, da ciò che significa oggi diventare madre che non è solo, o non più, fare figli, ma realizzare un desiderio, portare avanti un progetto di vita, sceglierlo e volerlo in modo consapevole (oppure anche decidere di lasciar perdere e di concentrarsi su altro)?
Un tempo, i figli arrivavano senza che le donne si ponessero troppe domande. Si facevano figli perché era così che facevano tutti; si facevano figli perché, dopo essersi sposati o aver cominciato a convivere, era ovvio, scontato, normale, automatico, naturale, biologico, anche quando non si lavorava ancora, forse non si sarebbe mai trovato un posto a tempo indeterminato. I figli li si facevano, punto e basta. Ma questo era prima, appunto. Poi le cose sono cambiate – il mondo, la cultura, le abitudini, le aspettative, i sogni, le esigenze, le ambizioni, i desideri. C’è stata la pillola e c’è stata la rivoluzione sessuale; c’è stata la realizzazione professionale e c’è stata l’autonomia femminile; c’è stato il desiderio di viaggiare e c’è stata la ricerca dell’amore. C’è stata, soprattutto, un’evoluzione del significato stesso della maternità.
La logica, oggi, non è più quella dell’avere figli, ma del diventare genitori, padri e madri responsabili che, al momento venuto, decidono, appunto, di fare della propria maternità o della propria paternità la realizzazione di un progetto di vita. E se poi non sono all’altezza del ruolo, non sono capace, sbaglio qualcosa? hanno cominciato a chiedersi tante ragazze, poi giovani donne, poi donne mature. Talvolta con l’illusione che il tempo non sarebbe mai passato – ora è meglio di no, meglio poi, avrò un lavoro sicuro, incontrerò la persona giusta, avrò i soldi per la casa, sarò maggiormente capace. Mentre il tempo passa inesorabile e, dopo un po’, è veramente troppo tardi.
Checché se ne dica, l’orologio biologico esiste – purtroppo esiste, inutile rigirare il coltello nella piaga, come hanno fatto gli ideatori della campagna pubblicitaria sul Fertility Day, è anche per questo che tante donne hanno reagito male, anzi malissimo, io per prima, c’era bisogno di buttare via tanti soldi per ricordarci quello che già sappiamo? L’orologio biologico, dicevo, esiste. Esattamente come esistono le difficoltà della vita, le ambizioni frustrate, le relazioni che si sfasciano e i soldi che mancano per arrivare alla fine del mese. E poi non siamo cresciute un po’ tutte con l’idea che ci si sarebbe dovute prima di tutto realizzare professionalmente e che no, non avremmo fatto come mamma che è stata mamma e basta, oppure mamma e anche altro ma con tanti sacrifici, troppi, perché poi è sempre così, i padri scaricano le responsabilità e sono sempre le donne a dover pensare a tutto, la scuola e la ginnastica, i corsi di lingua e le vacanze, i vaccini e i cambi di stagione – la famosa lista delle cose da fare, che poi possono anche essere fatte dai padri, ma se non sono le madri a redigerla questa benedetta lista, chi se ne occupa?
Prima il lavoro, quindi, magari ben retribuito perché altrimenti chi la paga la baby sitter o l’asilo nido privato visto che i posti nel pubblico sono pochissimi. Prima la certezza di essere all’altezza del ruolo materno, quindi – questo si fa, questo invece no, questo si dice questo non si pensa nemmeno, con tutte quelle “madri perfette” che aprono blog e danno consigli, criticano, talvolta colpevolizzano anche. Prima la persona giusta, quindi. Tanto c’è tempo, no? Prima di rendersi conto che il tempo è scaduto. Oppure no, ma i figli non arrivano, magari si è sterili, magari è sterile il marito o il compagno, magari si è omosessuali, e le file d’attesa per una procreazione artificiale sono lunghe, fino a poco fa l’inseminazione eterologa era vietata, una coppia omosessuale continua a non averci accesso.
Il problema della denatalità non lo si affronta con campagne pubblicitarie inopportune e imbarazzanti. Il non avere figli è un sintomo profondo, è il segnale del fatto che diventare madre è uno dei tanti desideri che si possono avere o meno, una delle tante scelte che si possono o meno fare, ma anche, talvolta, un desiderio profondo che non si realizza mai, una di quelle cose che sembravano evidenti quando si era piccole e che poi non capita, non accade, talvolta senza rendersi bene conto del perché. Come tanti desideri che ci si porta dentro e che non si realizzeranno mai, a volte si è persa l’opportunità, altre volte non ci si è accorti del tempo che passava, altre volte ancora, forse, non era poi veramente un desiderio.
Michela Marzano la Repubblica 3 settembre 2016
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/09/03/la-scelta-difficile-di-diventare-madre01.html?ref=search
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MATRIMONIO
Continuiamo a chiamarlo matrimonio
L’occidente postmoderno, inclusa la sua ultima italica ruota del carro, vivono con allarme o con entusiasmo le metamorfosi attuali della relazione d’amore: il coniugio, i suoi contenuti e il linguaggio con cui lo si definisce cambiano, e come spesso accade si accompagnano alla sensazione — allarmata o entusiasta — di vivere una transizione più profonda di quelle che hanno segnato il passato. Rafforzata dal fatto che aver rotto il divieto di dare il nome di amore all’amore omosessuale sul quale si erano costruiti sia il pregiudizio omofobo pubblico sia l’autocomprensione delle relazioni fra persone gay e lesbiche. A guardare la storia del coniugio degli ultimi cinque secoli, invece si ha l’impressione che il mutamento sia piccolo: quasi che fossimo ancora all’indomani di quell’11 novembre 1563 — in cui il concilio di Trento approva il decreto “Tametsi”. Dopo sedici anni di discussioni appassionate, esso fissava la cornice giuridica e concettuale del matrimonio, così come ancora oggi viene ambito o rifiutato. Quel decreto conciliare decise a maggioranza di rubricare come matrimoni “clandestini” tutti quelli difformi dalla norma conciliare: e di fare di queste nuzialità spontanee, che dal 1215 venivano riprovate e nulla più, un atto proibito e dunque da combattere. Una svolta epocale, dalla quale ci sentiamo emancipati. E invece ne siamo ancora prigionieri tutti, in una età nella quale solo coloro ai quali è negato dicono di desiderare un matrimonio che invece è pacificamente snobbato da chi può contrarlo e nella quale il sacramento matrimoniale incontra gli stessi naufragi dei più effimeri sposalizi di Las Vegas.
Prima di Trento la chiesa latina aveva cristianizzato con pochi ritocchi il matrimonio romano. Il “matrimonium”, complemento di fecondità corrispondente al “patrimonium” dei maschi, stabiliva il passaggio della donna dalla giurisdizione del padre a quella del marito; fissava dunque le caratteristiche di questa proprietà e anche gli obblighi sentimentali — “coitus matrimonium non facit, sed maritalis affectio” — connessi ad una subalternità piena.
L’eversivo vangelo di Gesù (la ricompensa di Mc 10,30 riguarda chi lascia la moglie per la sequela), quello che esigeva di mettere tutta la vita, e dunque sia il coniugio sia l’eunuchìa, in relazione all’attesa del Regno non era facile da incastrare in questa cornice. Così mentre introduceva nella cultura giuridica dell’impero cristiano l’espunzione del significato dell’omosessualità, la chiesa aggiungeva al patto matrimoniale piccoli segni di eguaglianza solo simbolica, come l’anello della catena che il marito metteva alla moglie nel rito romano e che in quello cristiano diventerà uno “scambio”. I passaggi storici (Il matrimonio in Occidente di Jean Gaudemet resta impeccabile dopo decenni) portarono a quel matrimonio di “puro consenso” che per secoli fu la regola delle terre della cristianità latina: un consenso libero, detto con parole al presente («prendo te», «ti tocco la mano»), che non aveva bisogno di autorità o testimoni o permessi e che creava un matrimonio indissolubile.
Il matrimonio di puro consenso apriva un gigantesco contenzioso etico e sociale che lasciava la sua scia nei tribunali ecclesiastici. Tribunali nei quali una studiosa attenta come Fernanda Alfieri ha trovato traccia dei matrimoni lesbici del Quattrocento: giunti a noi solo perché finiti davanti al giudice quando la vedovanza giungeva ad aizzare i parenti in lotte “patrimoniali” (!). Silvana Seidel Menchi, che di quelle indagini archivistiche indispensabili e meticolose è stata la mentore su scala mondiale, pubblica ora con Marriage in Europe, 1400- 1800 il seguito di quella storia rinascimentale su cui tanto ha detto e dato. E con una gigantesca indagine a più mani torna a guardare l’intero paesaggio continentale dallo spioncino del tribunale e delle norme post-tridentine: quelle che rifiutano la tesi protestante di un matrimonio che, sacro per natura e non in quanto sacramento, realizza il suo compito di ordinamento sociale grazie al consenso del padre. Il matrimonio tridentino esclude i padri e introduce le componenti che i lettori del Manzoni ben ricordano: l’autorità del parroco, la fisicità del luogo sacro, la socialità impersonata dai testimoni, l’autorità, il valore pubblico dei registri, la comprensione delle effusioni carnali come parte di quel contratto e dunque illecite fuori dai fini procreativi (da qui le polemiche novecentesche sulla contraccezione e sulla omosessualità). Tutte cose che la secolarizzazione del Diciottesimo secolo farà proprie, sostituendo la garanzia della chiesa in ordine alla salvezza con la garanzia dello Stato.
La forza di questo modello è stata tale che perfino le persone lesbiche e gay in lotta per una eguaglianza a lungo negata, hanno fatto di quel coniugio post-tridentino la loro ambizione di fondamentale: e, proprio mentre le persone eterosessuali lo disertano, l’hanno cercato e ottenuto. Ora con il termine “matrimonio” (termine assai meno romantico di “sposalizio”, in cui è incluso il desiderio di rispondersi che due persone assumono), ora con il termine “unione”: lasciando così che l’equiparazione avvenga là dove deve avvenire. In questa cornice qualcosa di nuovo in realtà c’è: e spiega la sensazione di essere in un cambio di epoca del coniugio. E, come ricorda Marriage in Europe, è ciò che in letteratura nasce con Pamela. Or Virtue Rewarded, il romanzo epistolare di Samuel Richardson del 1740, in cui l’amore per una quindicenne di umile origini e il “ricco Signor B.” rompe le convenzioni e le convinzioni. La sposina cede ai sentimenti che sperimenta e suscita, fino alle prima notte di nozze che sancirà la sua ascesa sociale. La morale di Richardson è rassicurante: se ci vuole un romanzo per raccontare la storia di una poverella che sposa un nobile è perché le poverelle non possono sposare un nobile, pena disordine e infelicità. Ma Pamela apre un primo squarcio sull’amore. Quel sentimento non è più il nemico del matrimonio o la sua tomba, ma ciò che lo fonda, come dimostra il dilagare delle convivenze e la stessa tendenza a creare figure giuridiche intermedie per puntare il cursore della relazione in interstizi sempre più stretti. Ma siccome era stata la chiesa ad aver sancito l’ingresso dell’autorità e l’eclisse dell’amore dal discorso, tocca a lei invertire i termini e dire che il desiderio del dono e il dono del desiderio bastano a fare di una vita monca una vita piena. In un certo senso la chiesa di Francesco l’ha fatto, con i due sinodi e una esortazione che si chiama “Amoris laetitia”. Ma anche questa transizione incontra resistenze che impediscono di interrogarsi non su diritti e allarmi astratti, ma su come ogni amore nella eguaglianza possa essere riconosciuto come un bene per tutti, dopo quattrocento anni di storia nei quali il rigorismo matrimoniale ha tenuto vivo ciò che voleva combattere, rendendolo più interessante di ciò che voleva difendere.
Alberto Melloni La Repubblica 30/08/2016
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/08/30/continuiamo-a-chiamarlo-matrimonio30.html?ref=search
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OBIEZIONE DI COSCIENZA
Consultori. La sentenza del Tar Lazio.
In merito alla sentenza del Tar del Lazio che ha respinto il ricorso dei medici obiettori e di alcune associazioni pro life e di cui ha dato notizia questo giornale e i commenti del presidente del Movimento per la Vita Gian Luigi Gigli sono necessarie alcune precisazioni.
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) sentenza n. 8990, 2 agosto 2016
www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=K24W35KNJYQUQMTSQDHZEU77WM&q=consultori%20or%20familiari
Il ricorso è nato in seguito all’emanazione, da parte della Regione Lazio delle linee guida per le attività dei Consultori familiari da parte del decreto del Commissario ad Acta del 12 maggio 2014, n. U00152 nella parte in cui esclude, nei consultori familiari, l’obiezione di coscienza ex legge 194/1978. Il decreto commissariale esclude l’obiezione in quanto riguarda “l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria della gravidanza” con la conseguenza che il “personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG”.
Il secondo punto di cui è stato chiesto l’annullamento riguardava la contraccezione di emergenza. Nelle linee guida della Regione Lazio si legge infatti che “il personale operante nel Consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post-coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi I.U.D. (Intra Uterine Devices)”.
Correttamente il Tar del Lazio – sul primo punto – ha ricordato i limiti dell’istituto dell’obiezione di coscienza presenti nella normativa vigente. Il primo comma dell’articolo 9 della legge 194/78, esenta il “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza e non dall’assistenza antecedente e conseguente l’intervento.” L’istituto dell’obiezione di coscienza non “copre” quindi tutte le attività del processo sanitario dell’interruzione della gravidanza, bensì solo le attività “specificamente e necessariamente” dirette all’interruzione. E’ utile ricordare, inoltre – lo sottolineano bene i giudici romani – quale è nel nostro ordinamento la finalità dell’interruzione volontaria della gravidanza: la tutela della salute della donna sia entro che oltre i novanta giorni.
Nel primo caso, infatti, l’aborto è consentito solo qualora la prosecuzione della gravidanza comporti “un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica” in relazione a una serie di circostanze. Nel secondo caso l’interruzione è consentita solo quando la “gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” e “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica delle donne”. Non quindi diritto di aborto, ma interruzione della gravidanza per motivi terapeutici. Giustamente il Tar del Lazio respinge un’idea di obiezione di coscienza che possa permettere al medico di astenersi dalla visita della donna per accertarne lo stato di gravidanza, raccoglierne la volontà e rilasciare un “documento” (non un certificato!) firmato anche dalla donna. Questo per le richieste entro i primi novanta giorni.
Dopo i novanta giorni l’obiezione di coscienza assume tratti addirittura inquietanti e tali da porre seri problemi di legittimità costituzionale sia rispetto al dettato che alla giurisprudenza della Consulta. Non mi riferisco solo al problema della certificazione che, ovviamente, non può comunque rientrare nell’oggetto dell’obiezione, ma proprio anche alle manovre atte a procurare l’interruzione. Ci si chiede come sia possibile che un medico preferisca obiettare in un contesto in cui la propria paziente, quella di cui ha seguito il percorso della gravidanza fino a quel punto, sia in una condizione clinica in cui la prosecuzione della gravidanza o il parto ponga nei suoi confronti “un grave pericolo per la vita”.
Siamo ben oltre a ogni possibile bilanciamento di interessi che, come disse la Corte costituzionale nel 1975 con la sentenza che depenalizzò l’aborto, non esiste un’equivalenza tra la salute della donna e il diritto del nascituro: prevale, sempre, il diritto alla salute di chi persona è già. Prevale sempre, non potrebbe essere altrimenti, il diritto alla salute e alla vita della donna. Questo se non vogliamo retrodatare i dettami della civiltà giuridica alle norme originarie del codice penale italiano del 1930 firmate da Benito Mussolini e Vittorio Emanuele III.
Il ricorso della associazione pro life però si sofferma anche sulla paradossale richiesta di obiezione di coscienza per le attività contraccettive. Non sono richieste nuove e sono state già respinte dallo stesso Tar del Lazio nel 2001 quando escluse che la commercializzazione della “pillola del giorno dopo” comportasse un aborto. Non cambia la natura contraccettiva neanche il successivo farmaco commercializzato, c.d. pillola dei cinque giorni dopo. {Non tutti i ginecologhi concordano} Siamo sempre – lo confermano l’Aifa, l’Ema, l’Oms solo per citare alcune autorità nazionali e internazionali – nella contraccezione di emergenza e non nell’interruzione della gravidanza. Antiche e superate sono anche le stantie argomentazioni sulla natura abortiva della spirale o I.U.D.
La finalità di questi ricorsi non è strettamente giuridica: le questioni sono chiare da molti decenni, bensì politica. Lo stigmatizzano anche i giudici romani quando specificano che con il ricorso le parti “tentano di rimettere in discussione” un antico dibattito che ha già trovato risposta nella legge 194/78. La piaga dell’istituto dell’obiezione di coscienza – perché di piaga si tratta – ha raggiunto livelli percentuali, soprattutto in alcune aree geografiche intollerabili e incompatibili con l’organizzazione dei servizi nel silenzio colpevole del Ministero della salute che continua a sottostimare il fenomeno e le sue conseguenze.
La finalità politica è confermata anche dalla doppia veste dell’attuale presidente del Movimento per la Vita: militante dei gruppi pro life ma anche deputato della Repubblica. Gigli ha presentato recentemente una proposta di legge per l’estensione dell’obiezione di coscienza ai farmacisti. In questo caso siamo ancora più lontani dalle “attività specificamente e necessariamente dirette” all’interruzione di gravidanza e siamo in un contesto ancora più pericoloso e illegittimo costituzionalmente. Secondo la Pdl ogni “farmacista”, pubblico o privato, avrebbe diritto “adducendo motivi di coscienza” di rifiutarsi “di consegnare a chi lo chiede” “qualsiasi dispositivo, medicinale o sostanza che il professionista giudichi, in scienza e coscienza, atto a produrre effetti anche potenzialmente abortivi, ovvero che risulti prescritto a fini della sedazione terminale”.
Gian Luigi Gigli, nella sua professione di origine è un medico [ordinario di neurologia all’università di Udine, (in aspettativa per mandato parlamentare)] e non trova di meglio che rispolverare il vetusto principio dell’etica medica storica dell’agire in “scienza e coscienza”. La scienza, è sottinteso, non è quella “ufficiale” bensì quella personale del professionista. Laddove il professionista ritenga che, secondo la sua personale concezione della scienza, la pillola del giorno dopo sia abortiva avrebbe diritto a non consegnare il relativo farmaco. Ovviamente estendibile anche alla spirale.
Se la scienza è quella personale e dichiarata ancora più evanescente è il ricorso a una indefinibile, per definizione, “coscienza”. Bisogna tenere presente che l’obiezione si allargherebbe anche alle tematiche di fine vita con farmaci, che sempre con la stessa concezione premoderna della “scienza e coscienza”, vengano prescritti per una sedazione terminale (anche senza prova, basta che il farmacista la giudichi così). In questo ultimo caso sarebbe a rischio ogni terapia seria sul dolore. Gli effetti dell’approvazione di un tale progetto di legge sarebbero devastanti: l’accesso al farmaco da parte del cittadino e della cittadina dipenderebbe sempre dalla “scienza e coscienza” del monopolista sanitario incaricato dall’ordinamento a dispensare i farmaci al pubblico e alle strutture. L’etica del farmacista a danno dei cittadini. Un risultato inaccettabile e improponibile.
Un rimedio in questo caso ci sarebbe. Provocatoriamente potremo sostenere la caduta del monopolio di distribuzione dei farmaci vista l’impossibilità di garantirne l’accesso da parte del sistema delle Farmacie e da parte dei farmacisti.
Luca Benci giurista quotidiano della sanità 29 agosto 2016
www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=42498
Vedi newsUCIPEM n. 609, 7 agosto 2016, pag. 17
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=431:newsucipem-n-609-7-agosto-2016&catid=84&Itemid=231
Intervento scritto all’Assemblea dei Soci dell’UCIPEM ad Oristano – 2 settembre 2016
Definire il campo dell’obiezione di coscienza nei Consultori familiari, di ispirazione cristiana.
Occorre prendere atto delle sentenze dei TAR, ultima quella del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) sentenza n. 8990, 5 luglio 2016, pubblicata 2 agosto 2016.
www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=K24W35KNJYQUQMTSQDHZEU77WM&q=obiezione%20or%20di%20or%20coscienza
e quella del Tar Puglia, sentenza n. 3477, 14 settembre 2010
www.olir.it/documenti/index.php?argomento=84&documento=5494
Gli operatori pro life nei Consultori familiari di ispirazione cristiana possono liberamente attuare l’art. 5 della legge 194 del 22 maggio 1978 “Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.
Secondo l’indicazione data il 17 giugno 1978 dal card Antonio Poma, allora presidente della CEI al Consiglio direttivo dell’UCIPEM, presieduto dal prof. Sergio Cammelli, qualora fosse chiarita l’interpretazione da parte dello Stato italiano a riguardo dell’obiezione di coscienza nei Consultori familiari, dovrebbero ridimensionarsi le generiche, non specifiche e articolate prescrizioni in materia fornite frettolosamente nel comunicato datato 9 giugno 1978 “paragrafo 5. Il personale sanitario, medico e paramedico, ha il grave obbligo morale dell’obiezione di coscienza, che è prevista pure dall’art. 9 della legge in corso.”
Gli operatori consultoriali pro life nel loro intervento hanno possibilità e determinazione per aiutare la donna e, anche la coppia e la famiglia, secondo le indicazioni espresse nella legge. Nei Consultori familiari di ispirazione cristiana si può fare molto, rispetto a quello che hanno operatori non obiettori di coscienza fanno. Si sono persi anni preziosi per interpretazioni della legge, risultati fallaci. Questa è la tesi dell’UCIPEM, già sostenuta nel 1978 anche se poi, a livello operativo, si è stati rispettosi dell’indicazioni della CEI espressa nella Notificazione della Presidenza del 19 luglio 1978. “b) la legge, però, contiene, per il comma 6 dell’art. 9, incertezze e ambiguità, delle quali non è possibile attualmente prevedere l’interpretazione, e per le quali – ferma restando l’inaccettabilità della legge stessa – sarebbero auspicabili almeno delle modifiche. Ad evitare inconvenienti, pertanto, e fino a quando non risulti la compatibilità della obiezione di coscienza con la partecipazione ad alcune procedure previste dalla legge, è opportuno che il personale medico e paramedico si esprima in favore dell’obiezione, e non soltanto il personale ostetrico-ginecologico”.
Il Consiglio di Presidenza della CEI, inoltre ha diramato poco dopo, il 19 luglio 2016 una sua Notificazione in cui, tra altro, è scritto: “b) la legge, però, contiene, per il comma 6 dell’art. 9, incertezze e ambiguità, delle quali non è possibile attualmente prevedere l’interpretazione, e per le quali – ferma restando l’inaccettabilità della legge stessa – sarebbero auspicabili almeno delle modifiche. Ad evitare inconvenienti, pertanto, e fino a quando non risulti la compatibilità della obiezione di coscienza con la partecipazione ad alcune procedure previste dalla legge, è opportuno che il personale medico e paramedico si esprima in favore dell’obiezione, e non soltanto il personale ostetrico-ginecologico;
c) questo, però, non esclude che ogni medico di fiducia o esercente in ambulatori o consultori – preavvertendo dell’avvenuta dichiarazione di obiezione di coscienza e dell’impossibilità di rilasciare alla conclusione la certificazione scritta – possa condurre il colloquio e fare le visite e gli accertamenti in forza del rapporto professionale tra medico e paziente anche nel caso in cui la donna formuli l’ipotesi di interruzione.”
Il punto in discussione è l’interpretazione è il testo della Legge 194\1978 sempre dell’art. 5, è” il medico (omissis) le rilascia copia di un documento firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni”. La stessa CEI equivoca clamorosamente il “documento attestante” diviene “certificazione scritta” e non si citano i termini successivi: gravidanza, richiesta, pausa di almeno 7 giorni. Il certificato per l’urgenza dell’intervento (gravidanza extrauterina, –) è simile, ma non prevede solante la pausa di sette giorni.
I Tar hanno chiarito e definito. Quindi l’ipotesi di un servizio consultoriale a tutto campo dei pro life è pienamente sostenibile.
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PASTORALE FAMILIARE
Tre giorni a Lucca su Amoris Laetitia.
Si è svolta nei giorni 1-2-3 settembre 2016, nell’Arcidiocesi di Lucca, un corso di formazione su “Amoris Laetitia” come criterio di lettura del sacramento del Matrimonio.
Ecco le relazioni, che è possibile vedere ed ascoltare – in toto o in parte – sul canale di you tube:
prima relazione prof. Andrea Grillo (I parte): https://www.youtube.com/watch?v=ty7q0S4BUPY
prima relazione prof. Andrea Grillo (II parte): https://www.youtube.com/watch?v=lYTtX_RCjqY
seconda relazione di don Luca Bassetti: https://www.youtube.com/watch?v=4Peyv6r4JGY
terza relazione prof. Grillo (frammento iniziale): www.youtube.com/watch?v=o2GErSdD6Jc
quarta relazione di Mons. Enrico Solmi: https://www.youtube.com/watch?v=g4ETpzKrHz4
Ne emergono prospettive teologiche, storiche, bibliche e pastorali di ripensamento della tradizione familiare e matrimoniale. 4 settembre 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/tre-giorni-a-lucca-su-amoris-laetitia
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WELFARE
Sostegno alle famiglie: al via l’inclusione attiva
Dal 2 settembre 2016 è possibile recarsi in Comune per presentare la domanda. Il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) è una misura a contrasto della povertà che prevede un sussidio economico alle famiglie economicamente svantaggiate nelle quali siano presenti minorenni, figli disabili o donne in stato di gravidanza accertata.
Questo sussidio è subordinato ad un progetto di collaborazione che viene predisposto dai servizi sociali dei Comuni, in rete con i servizi per l’impiego, i servizi sanitari e le scuole nonché con soggetti privati ed enti no profit. Il progetto coinvolge tutti i componenti del nucleo familiare e prevede specifici impegni per adulti e minori sulla base di una valutazione globale delle problematiche e dei bisogni. L’obiettivo è quello di aiutare le famiglie a superare la condizione di povertà e riconquistare gradualmente l’autonomia.
I cittadini interessati in possesso dei requisiti richiesti, potranno presentare le domande a partire dal 2 settembre, direttamente al proprio Comune di appartenenza che, successivamente, provvederà ad inoltrarle all’Inps, ai fini della verifica automatica delle condizioni previste dal Decreto 26 maggio 2016 (ISEE, presenza di eventuali altre prestazioni di natura assistenziale, situazione lavorativa ecc.) e della conseguente disposizione dei benefici economici, che saranno erogati dal Gestore del servizio attraverso una Carta precaricata.
Con i Messaggi 3275 del 2 agosto 2016 e 3322 del 5 agosto 2016, sono stati forniti il modulo di domanda da presentare al Comune di residenza ed il tracciato informatico al quale i Comuni devono attenersi per l’invio dei flussi all’Istituto con il modulo definitivo da inviare e le istruzioni operative per il corretto svolgimento di tutte le attività legate al SIA.
Con il Messaggio 3451 del 30 agosto 2016, si precisano le modalità d’invio delle domande all’Inps da parte dei Comuni, evidenziando inoltre che, come da Decreto interministeriale 26 maggio 2016, questi ultimi possono operare anche attraverso il sistema SGAte direttamente o per il tramite degli enti delegati.
Sarà possibile visualizzare lo stato della lavorazione della domanda accedendo con il PIN personale al portale Inps.
Per saperne di più:
Domanda di Sostegno per l’inclusione attiva.
Messaggio 3451 del 30 agosto 2016.
Messaggio 3275 del 2 agosto 2016.
Messaggio 3322 del 5 agosto 2016.
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA)
Quotidiano della Pubblica Amministrazione 1 settembre 2016
Link www.ilquotidianodellapa.it/_contents/news/2016/settembre/1472734090786.html
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ZIBALDONE
Addio al tradimento, ora c’è il Poliamore
Tradimenti cronici ed istituzionalizzati? No, meglio parlare di “poliamore”, ossia “amare più persone nella piena consapevolezza di tutti”. Una modalità relazionale dunque e, per un’altra corrente di pensiero, addirittura un orientamento relazionale.
Ma chi è il poliamoroso? Ecco un identikit: si tratta di una persona che ha più relazioni contemporaneamente, eterosessuali o omosessuali. Esulano da questo contesto dunque infedeltà, tradimenti e amanti. Il fondamento del poliamore è il consenso consapevole di tutti gli individui coinvolti ossia totale onestà sulle altre relazioni che si intrattengono. Si parte dalla convinzione di poter amare più partner, quindi si possono avere molti amanti e intrattenere comunque relazioni emotive profonde e coinvolgenti. La relazione poliamorosa ideale è egualitaria, aperta al dialogo e sincera. Più semplicemente per i poliamorosi l’esclusività non è un fattore necessario per instaurare legami affettivi anche profondi.
Per entrare in una nuova relazione non serve solo il consenso, ma anche il sostegno di tutti i partner. Le regole delle relazioni poli vengono discusse tra le persone coinvolte e modificate quando si aggiungono altri partner. Tante utili informazioni sono contenute nel libro “Polyamory: The New Loving Without Limits”, scritto da Deborah Anapole. In primis, in una relazione poliamorosa, è necessario muoversi al passo del partner più lento.
Il movimento è nato negli Stati Uniti, negli anni Settanta. Oggi i poliamorosi sarebbero più di 500mila. Anche nel nostro Paese si susseguono, in molte città, “polimeriggi” e”poliaperitivi” in cui la comunità locale si incontra, anche per accogliere i curiosi, e sfatare i luoghi comuni che pensano al poliamore come ad un coacervo di orge e perversioni. Dall’unico, piccolo sondaggio finora fatto in Italia, risalente al dicembre 2013 sembrerebbe esserci una prevalenza di persone fra i 25 e 34 anni, con un buon equilibrio fra i due generi principali e una buona rappresentanza di generi non binari, con orientamento eterosessuale nel 30% dei casi, tendenzialmente etero nel 27% dei casi, omosessuale o tendenzialmente omosessuale nell’8% dei casi e bi/pansessuale nel 35% dei casi.
Il concetto di più unioni cozza innanzitutto con la monogamia, uno dei principi fondamentali del sistema in materia matrimoniale. La bigamia è pertanto un reato, previsto dall’articolo 556 del codice penale che stabilisce “Chiunque, essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pur avente effetti civili, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi, non essendo coniugato, contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili”.
E anche se i poliamorosi non combattono la monogamia, piuttosto rivendicano la libertà di scegliere per conto proprio, i tempi non sono ancora maturi per questo tipo di rivoluzione amorosa e la monogamia resterà probabilmente la prima scelta per gli individui per ancora moto tempo.
Gabriella Lax News Studio Cataldi 1 Settembre 2016
www.studiocataldi.it/articoli/23180-addio-al-tradimento-ora-c-e-il-poliamore.asp
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