UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 609 – 7 agosto 2016
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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ADDEBITO Tradimento: anche quello platonico può causarlo in separazione.
No per chi se ne va di casa solo per far reagire il coniuge.
ADOZIONI INTERNAZIONALI Croazia: via libera ai cittadini stranieri.
AMORIS LAETITIA Ancona: giornata di studio su “Amoris Laetitia”
Ouellet. Documento pieno di controversie che saranno fruttuose.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Cosa rischia chi non versa il mantenimento ai figli?
Non lo paga, ma ha proprietà immobiliari: venda gli immobili
Se lei si occupa dei figli non può trovare facilmente lavoro.
ASSISTENZA FAMILIARE Condanna x padre se non ha rapporti col figlio anche se ostacolati.
CASA CONIUGALE Quando è lecito abbandonare la casa coniugale
CHIESA CATTOLICA La guerra dei tradizionalisti a Papa Francesco.
Papa Francesco e la “paralisi” della teologia di corte.
DALLA NAVATA 19° Domenica del tempo ordinario – anno C – 7 agosto 2016.
Non temere, piccolo gregge! Commento di Enzo Bianchi, priore.
DIACONATO Commissione di studio sul Diaconato delle donne.
Il Papa crea la commissione sul diaconato femminile.
Una notizia per tutte le donne: Maria di Magdala Apostola.
MATRIMONIO Matrimonio telematico: nessuna contrarietà all’ordine pubblico.
OBIEZIONE DI COSCIENZA Consultori. Il Tar Lazio respinge ricorso dei medici obiettori.
TAR Lazio. Il personale del Consultorio non è coinvolto nell’IVG.
PARLAMENTO Camera. Assemblea Interrogazione: incontri di promozione per maternità surrogata.
2°C. Giustizia Indagine attuazione della legislazione adozioni ed affido.
PENSIONE DI RIVERSIBILITÀ Criteri di ripartizione tra coniuge superstite e coniuge divorziato.
UCIPEM Oristano ospiterà il congresso nazionale dei consultori.
La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
VIOLENZA Non commette reato il marito che impedisce a moglie di lavorare.
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ADDEBITO
Tradimento: anche quello platonico può causare l’addebito della separazione.
Violato il dovere di fedeltà se il comportamento del partner diffonde concretamente il dubbio dell’infedeltà. Un tradimento può costare caro alla coppia e non solo per quanto riguarda le conseguenze di un rapporto ormai incrinato. Il partner fedifrago, infatti, rischia di vedersi addebitata un’eventuale separazione, posto che l’art. 151 c.c. afferma che “la separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole. Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”. I doveri di cui parla la norma sono quelli disciplinati dall’art. 143 c.c., ossia la fedeltà reciproca, l’assistenza morale e materiale, la collaborazione nell’interesse della famiglia e la coabitazione.
Se in passato la scappatella veniva rivelata oppure scoperta perché il partner veniva “colto sul fatto” o del rinvenimento di inequivocabili lettere e messaggi, oggi la situazione si è indubbiamente evoluta e nutrita di nuove situazioni. In particolare, nell’epoca di internet e dei social network, pullulano le condotte dei cosiddetti “tradimenti virtuali”, spesso platonici, ossia un adulterio di tipo diverso limitato a contatti telefonici o via internet con persone spesso residenti a grandi distanza.
Tuttavia, una relazione extraconiugale, non connotata da rapporti sessuali, è idonea a configurare violazione del dovere di fedeltà ai fini dell’addebitabile della separazione? A dare una risposta ci ha pensato la Corte di Cassazione nella sentenza n. 8929/2013 chiamata a valutare la condotta di una moglie scoperta a intrattenere una relazione amorosa con un uomo, coltivata via internet e contatti telefonici, ma priva di alcun incontro personale e di congressi carnali. I giudici, pur avendo escluso che, nel caso di specie, lo scambio interpersonale, extraconiugale, avesse potuto assumere i concreti connotati di una relazione sentimentale adulterina, hanno affermato che la relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione, ai sensi dell’art. 151 cod. civ., non solo quando si sostanzi in un adulterio, ma anche quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge.
Quello che la Corte mira a tutelare è la dignità del partner, che rischia di essere compromessa a causa del comportamento sospetto del compagno o della compagna, tale da diffondere concretamente il dubbio e i sospetti che sussista un’effettiva infedeltà, indipendente da una consumazione carnale. In teoria, ciò potrebbe emergere nel caso in cui il rapporto via internet sia corroborato da messaggi particolarmente espliciti, chiaramente allusivi, accompagnati dall’invio di materiale video o fotografico, che mettono a repentaglio l’onore del coniuge tradito. Un simile comportamento, infatti, darebbe adito all’apparenza di una sistematica violazione del dovere di fedeltà, con un sospetto fondato su elementi oggettivi.
La mancanza di una relazione atta a suscitare plausibili sospetti di infedeltà coniugale, traducibili o tradottisi in contegni offensivi per la dignità e l’onore, ha “salvato” la moglie dall’addebito della separazione, dal momento che il legame intercorso tra lei e “l’amante virtuale” si era rivelato platonico, essenzialmente concretatosi in contatti telefonici o via internet, data anche la notevole distanza tra i luoghi di rispettiva residenza, e non connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale, con condivisione e ricambio di lei dell’eventuale infatuazione di lui
Lucia Izzo Studio Cataldi.it 1 agosto 2016
www.studiocataldi.it/articoli/22922-tradimento-anche-quello-platonico-puo-causare-l-addebito-della-separazione.asp
Separazione: niente addebito per chi se ne va di casa solo per far reagire il coniuge.
Corte di appello di Roma, sentenza numero 2991/2016.
Per la Corte d’appello di Roma, l’abbandono del tetto coniugale non è da solo motivo idoneo a far scattare l’addebito, salvo provare che sia stato proprio questo a causare la crisi. Abbandonare la casa coniugale per provocare il coniuge, tentando per tale strada di spronarlo e renderlo più collaborativo, non può essere considerato, da solo, motivo idoneo a causare la crisi di coppia e a far scattare, quindi, l’addebito.
Per la Corte, come chiarito nella sentenza, è ben possibile che l’allontanamento, nelle intenzioni di chi lo pone in essere, sia volto al miglioramento del sodalizio coniugale. Tanto era accaduto nel caso di specie, nel quale la donna, sentitasi trascurata dal marito, aveva deciso di abbandonare il tetto coniugale nella speranza che, così facendo, l’uomo avrebbe compreso le sue ragioni e cambiato atteggiamento. Purtroppo, però, le cose non erano andate così e i due erano giunti alla separazione.
In primo grado l’uomo, proprio in ragione del gesto compiuto dall’ormai ex moglie, riusciva ad ottenere che in capo a questa scattasse l’addebito dello scioglimento del legame coniugale. Ma la Corte di appello ha cambiato completamente prospettiva: abbandonare la casa dove la donna viveva insieme al marito non è un comportamento di per sé sufficiente a far addebitare la separazione.
Se manca (come nel caso di specie) la prova che è stato proprio tale allontanamento a determinare la crisi di coppia e la rottura del matrimonio, l’addebito non può scattare. Altre incomprensioni caratteriali, sussistenti tra i due, avrebbero infatti potuto già da sole determinare la separazione. La richiesta dell’uomo, quindi, è rigettata: nonostante quanto stabilito dal Tribunale in primo grado, alla donna non va addebitata la separazione.
Avv. Valeria Zeppilli – Studio Cataldi 1 agosto 2016
www.studiocataldi.it/articoli/22941-separazione-niente-addebito-per-chi-se-ne-va-di-casa-solo-per-far-reagire-il-coniuge.asp
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Croazia. Adozioni internazionali: via libera ai cittadini stranieri
I bambini croati che per più di due anni non vengono adottati, potranno essere affidati in adozione a famiglie straniere. A metterlo nero su bianco è il “Protocollo sulle adozioni internazionali” varato dal Ministero delle Politiche sociali con cui la Croazia tenta di risolvere la questione dei tanti bambini non adottati. La legge croata ad oggi dice che gli stranieri possono adottare bambini croati solamente se i cittadini croati in lista d’attesa non sono interessati.
E tra gli stranieri potenziali genitori adottivi gli italiani si sono sempre distinti, seguiti dagli svedesi, tedeschi e olandesi.
Il “Protocollo sulle adozioni internazionali” nasce dal calo costante che si è registrato negli ultimi anni. Dalla Croazia gli italiani hanno adottato in media dai 5 ai 10 bambini all’anno fino al 2012. Da allora ci sono state solamente due adozioni. Dal primo aprile del 2014 con l’entrata in vigore della Convenzione de L’Aja, nessun bambino è stato adottato da cittadini stranieri. Per questo per risolvere il problema, il Ministero ha varato il protocollo che per la prima volta regolamenta a tutto tondo la questione. “Da quando abbiamo firmato la convenzione de l’Aja, che dà forti garanzie a coloro che adottano i bambini – ha dichiarato il viceministro delle politiche sociali Dina Topcic-Rosenberg – abbiamo avuto diverse richieste da persone e organizzazioni sociali relative al sistema delle adozioni in Croazia. Non sapevamo cosa rispondere ma da adesso in poi le cose cambieranno”.
Come prima cosa alla luce delle nuove disposizione, il ministero si metterà in contatto con le istituzioni straniere delegate per le adozioni e verificherà se queste adempiono a tutti i criteri richiesti. Poi verificheranno tutta la documentazione relativa ai richiedenti. “Dopo questo passaggio, queste persone entreranno a fare parte di un apposito registro – ha precisato Topcic-Rosenberg – che permetterà a loro di essere visibili a tutti i centri per l’assistenza sociale che si prendono cura dei bambini in attesa di una famiglia che voglia adottarli”.
Fonte: La Voce del Popolo News Ai. Bi. 01 agosto 2016
www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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AMORIS LAETITIA
Ancona: giornata di studio su “Amoris Laetitia”
Ad Ancona, in occasione della presentazione della Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia”, (10 maggio 2016) ci sono stati tre momenti di riflessione, al quale hanno partecipato teologi, sociologi, psicologi e filosofi. Ora tutto il lavoro è disponibile in 4 video, che riportano tutti gli interventi e li rendono accessibili al vasto pubblico.
Indico qui sotto i link per poter partecipare, a distanza, al prezioso lavoro organizzato dagli amici di Ancona e al quale ho partecipato con grande piacere. A cose fatte lo riconosco come uno dei primi approfondimenti complessivi sul testo della Esortazione.
Si possono trovare i video sul canale Youtube dell’ISSR “Lumen gentium”
www.youtube.com/channel/UC_pEvy45swY4JgaTpaG9gsA
Oppure sulla pagina facebook dello stesso Istituto www.facebook.com/issrancona
I video sono 4, hanno numero progressivo (da 1 a 4) e coprono tutto il programma del pomeriggio-serata, che qui riproduco per comodità:
- Giovanni Varagona: Presentazione del Seminario.
- Andrea Grillo: Matrimonio e famiglia da Leone XIII a Francesco.
- Francesco Giacchetta: Il tempo è superiore allo spazio. Pluralismo teologico e inculturazione(AL, 3)
- Massimiliano Colombi: La situazione e l’autocritica.
- Gaetano Tortorella: visione dinamica della legge naturale e primato della coscienza.
- Interventi.
- Andrea Grillo: La via sacramentale come terapia.
- Giovanni Varagona-Luciano Palucci: Cosa cambia nella pastorale?
- Palmira Marconi: L’esperienza della Arcidiocesi di Ancona-Osimo.
- Interventi e domande.
- Andrea Grillo: presentazione della Amoris Laetitia (per un pubblico allargato)
Blog: Come se non 3 agosto 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/ancona-giornata-di-studio-su-amoris-laetitia-10-maggio-2016
Card. Ouellet: “Documento pieno di controversie che però saranno fruttuose”.
Il prefetto della Congregazione dei Vescovi interviene a Toronto al convegno annuale dei Cavalieri di Colombo ed elogia l’esempio di carità offerto da papa Francesco verso l’umanità ferita. La Amoris Laetitia è effettivamente un documento non privo di “controversie”, che però potranno stimolare un dibattito assai “fruttuoso”. Lo ha affermato il prefetto della Congregazione dei Vescovi, cardinale Marc Ouellet, intervenendo due giorni fa a Toronto, al convegno annuale dei Cavalieri di Colombo.
Le controversie sull’ultima esortazione apostolica di papa Francesco, ha puntualizzato il porporato canadese, sono “comprensibili”, tuttavia la sua valutazione della Amoris Laetitia è decisamente positiva: si tratta, ha commentato Ouellet, di “un documento che è utile leggere e rileggere, con calma, capitolo per capitolo, in particolare il meraviglioso Capitolo 4, sull’amore”. Anche il contestato e dibattuto Capitolo 8, secondo il prefetto della Congregazione dei Vescovi, si presta ad un “discernimento attento ed aperto da parte di sacerdoti e vescovi nei confronti di persone che necessitano di carità e misericordia”.
Ouellet, che proprio a ridosso dell’ultimo Sinodo sulla famiglia (ottobre 2015) ha ripubblicato Mistero e sacramento dell’amore. Teologia del matrimonio e della famiglia per la nuova evangelizzazione (Cantagalli), suo saggio del 2007, in linea con il pensiero del Pontefice e della maggior parte dei padri sinodali sulla famiglia, ha ribadito che la Amoris Laetitia non propone alcun cambiamento dottrinale, bensì “un nuovo approccio pastorale: più paziente e rispettoso, più incline al dialogo e alla misericordia”. Il capodicastero si è detto fiducioso in un “processo di discernimento” in grado di “portare frutti per tutte le famiglie cristiane”.
L’approccio che papa Francesco ha avuto nei confronti delle famiglie ferite, ha osservato il cardinale, è il medesimo che egli stesso mostra nei confronti di tutti gli emarginati e dei peccatori. “Il Santo Padre – ha detto Oullet – è consapevole delle nostre ferite, errori e peccati” e si avvicina ai più sofferenti, ad esempio ai “carcerati”, non “guardandoli dall’alto in basso” o “esigendo rispetto” ma “chiedendo il perdono”. Se da un lato, la vita di preghiera “lo avvicina allo Spirito Santo”, Francesco è anche “imprevedibile”, proprio “come lo Spirito Santo”, ha aggiunto il porporato.
Ai Cavalieri di Colombo, il cardinale Ouellet ha chiesto di mantenere un approccio al dialogo che sia sempre “delicato, rispettoso, consapevole dei nostri errori” e di proseguire sempre le loro opere di carità sociale. “Questo aspetto della carità è sottolineato dagli Apostoli” ed anche dal Santo Padre, il quale “ci mostra che la carità va al di là dell’essere per le persone. Dobbiamo essere anche con le persone, è qualcosa che ci trasformerà”, ha quindi concluso il capodicastero.
Luca Marcolivio ZENIT 5 agosto 2016
https://it.zenit.org/articles/amoris-laetitia-card-ouellet-documento-pieno-di-controversie-che-pero-saranno-fruttuose
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Cosa rischia chi non versa il mantenimento ai figli?
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 33700, 1 agosto 2016
Separazione e divorzio: il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento integra il reato di sottrazione agli obblighi di assistenza familiare; tuttavia non si rischia il carcere, ma solo una multa.
La legge sul divorzio è molto chiara a riguardo [Art. 12 sexies L. n. 898/1970] e, nel disciplinare il reato di “sottrazione agli obblighi di assistenza familiare”, stabilisce la reclusione fino a un anno oppure la multa da 103 euro a 1.032 euro [art. 570 C. p.] La legge quindi pone una alternativa: o la pena detentiva (reclusione) o quella pecuniaria (multa). Ma quale delle due va applicata in via preferenziale? Il chiarimento arriva da una sentenza di questa mattina della Cassazione [n. 33700/2016]: secondo la Corte bisogna privilegiare la multa rispetto al carcere.
Nel caso del genitore che non versi, all’ex coniuge (di norma la ex moglie), l’assegno di mantenimento per i figli, violando così gli obblighi di assistenza familiare, la pena pecuniaria e quella detentiva sono tra loro alternative e non cumulative: in pratica, o l’una o l’altra, ma mai tutte e due insieme. Inoltre, la multa va privilegiata rispetto alla reclusione in carcere. Si tratta di una opzione più favorevole all’imputato, in linea con principi di proporzione e di stretta necessità della sanzione penale.
Tuttavia, scattano entrambe le pene (ossia multa e reclusione insieme) nel caso in cui il genitore compia una delle seguenti azioni:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge; si tratta di una fattispecie criminosa volta a tutelare i beni del figlio minore e del coniuge, quindi il patrimonio appartenente a soggetti legati, all’autore del reato da un particolare rapporto di fiducia. Nella “malversazione” rientra la cattiva amministrazione che si concreti in appropriazioni o in distrazioni di beni a proprio profitto; il termine dilapidare significa invece disporre degli altrui beni in modo da causare una totale o parziale distruzione patrimoniale. Oggetto materiale del reato sono i beni del figlio minore o del coniuge siano essi mobili o immobili. Non è necessario che i beni siano di proprietà del figlio o del coniuge, è sufficiente che siano beni di cui tali soggetti abbiano, a qualsiasi titolo, il godimento.
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, oppure inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa. A riguardo, quando la legge parla di “mezzi di sussistenza” presuppone che la famiglia sia in condizioni di estrema povertà e il genitore, disinteressandosene, non versi neanche lo stretto necessario per sopravvivere.
Il reato è perseguibile a querela, ma quando è commesso a danno di minori diventa procedibile d’ufficio: i l che vuol dire che se anche viene ritirata la querela, il procedimento penale prosegue lo stesso.
Chi può compiere il reato? Le pene appena viste scattano sia nel caso di coppia di genitori separata che ancora unita dal matrimonio. Può trattarsi anche di genitori adottivi. In caso di separazione, divorzio o annullamento del matrimonio l’obbligo di assistere i figli continua ad applicarsi a entrambi i genitori, anche a quello non affidatario. Diversamente in caso di accoglimento dell’azione di disconoscimento della paternità oppure di revoca dell’adozione o dell’affidamento il genitore non può più commettere il reato.
Si esclude che possa sussistere il reato per il convivente di fatto.
Il reato sussiste anche se non c’è alcun provvedimento del giudice – nella causa di separazione o divorzio – che impone al familiare di pagare un assegno (in caso di separazione o divorzio, per il mantenimento del coniuge o dell’ex coniuge o dei figli), poiché gli obblighi sanzionati derivano, ancora prima che dall’ordinamento, da inderogabili principi di solidarietà e da esigenze morali radicati nelle coscienze.
Quelle che abbiamo visto sono solo le conseguenze di carattere penale. A questo si aggiungono anche quelle civili che concernono il pignoramento dei beni ed, eventualmente, la trattenuta sullo stipendio. Oltre a ciò sono possibili i normali rimedi come il pignoramento del conto, della pensione o della casa.
Redazione Lpt 1 agosto 2016 sentenza
www.studiocataldi.it/visualizza_allegati_news.asp?vai=ok
www.laleggepertutti.it/127968_cosa-rischia-chi-non-versa-il-mantenimento-ai-figli
Il marito non lo paga, ma ha diverse proprietà immobiliari: l’uomo venda gli immobili
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 34211, 3 agosto 2016
Il marito non paga il mantenimento alla moglie e ai figli, ma ha diverse proprietà immobiliari: l’uomo venda gli immobili e faccia fronte alle difficoltà economiche momentanee. Per la Corte di Cassazione questa è la soluzione.
Studio Sugamele 4 agosto 2016 sentenza
www.divorzista.org/sentenza.php?id=12301
Cassazione: questo divorzio s’à da pagà! Se lei si occupa dei figli non può trovare facilmente lavoro.
Anche se la donna in grado di lavorare può procurarsi un reddito adeguato, il principio va contemperato con le circostanze concrete. Se è vero che la Cassazione ha recentemente affermato che la moglie in grado di lavorare può dire addio al mantenimento è anche vero che questo principio può essere mitigato da alcune concrete circostanze di fatto come la presenza di figli di cui la ex moglie si deve occupare. In una sentenza “vintage” ma pur sempre attuale la Cassazione ha rigettato il ricorso di un ex marito che non ne voleva sapere di versare l’assegno divorzile alla ex moglie che, a suo dire, sarebbe stata in grado di procurarsi un reddito adeguato da sé.
Inizialmente il tribunale di Napoli nel pronunciare il divorzio aveva disposto l’affidamento dei figli ad entrambi i genitori, che però rimanevano a vivere con la madre. La signora, C.G., aveva ottenuto l’assegnazione della casa di familiare e un assegno mensile di mantenimento per i figli (una figlia minorenne e un figlio maggiorenne) di 950 euro. La donna, però, aveva chiesto di poter avere anche lei un assegno di mantenimento, facendo la casalinga ormai da anni e non riuscendo a trovare assolutamente nulla di stabile o abbastanza remunerativo per poter vivere dignitosamente. Il Tribunale aveva escluso però il contributo economico per la donna sulla base del fatto che l’ex moglie non aveva dimostrato la sua impossibilità di procurarsi un reddito adeguato.
Il verdetto veniva poi ribaltato dalla Corte di appello di Napoli che faceva notare come la dedizione della donna al menage familiare e all’accudimento dei figli le avesse reso obiettivamente difficile procurarsi un lavoro. In effetti la donna aveva tentato varie strade per “ricollocarsi” nel mondo del lavoro: dalle liste di collocamento alle agenzie interinali. Senza mai ottenere nulla di concreto. Secondo in giudici dell’appello, dunque, la sua richiesta doveva considerarsi più che legittima, in quanto diritto di una ex è mantenere “un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio”. Inoltre essendo il marito un ex-ufficiale in pensione dell’Esercito italiano esistevano i mezzi necessari per passare l’assegno richiesto, cioè 250 euro mensili. Nemmeno un’esagerazione visti i tempi e la svalutazione!
La Cassazione, a cui l’uomo si era rivolto per rigettare le richieste della moglie (oltre che per ridurre la cifra destinata ai figli), ha dato ragione alla donna. Con sentenza 10540/2012, la Sesta Sezione Civile ha ricordato inoltre che la legge (L. 01.12.1970, n. 898, art. 5) “impone di tener conto dei miglioramenti della condizione finanziaria dell’onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza” e che quindi la cifra stabilita va rivalutata annualmente. Gran smacco agli spilorci!
Barbara LG Sordi studio Cataldi 03 agosto 2016
www.studiocataldi.it/articoli/12222-cassazione-questo-divorzio-s-a-da-paga-se-lei-si-occupa-dei-figli-non-puo-trovare-facilmente-lavoro.asp
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ASSISTENZA FAMILIARE
Condannato il padre che non ha rapporti col figlio anche se ostacolati dalla madre
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 34443, 4 agosto 2016
La Cassazione conferma la condanna ex art. 570 c. p e la non rilevanza della giustificazione legata all’ostruzionismo del partner. Rischia una condanna in sede penale per violazione degli obblighi di assistenza familiare il padre che non intrattenga alcun rapporto con i figli, anche se ad ostacolarli è stata la madre.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso di un uomo condannato per il reato di cui all’art. 570, commi 1 e 2 c.p.. Inutile per l’imputato il ricorso in sede di legittimità, deducendo l’omesso o incompleto esame dei motivi d’appello e l’omessa valutazione e il travisamento della prova in relazione ad entrambi gli addebiti formulati nei suoi confronti. Sia pure in maniera concisa, la Corte d’Appello ha verificato che il padre aveva trascurato il figlio omettendo completamente e colpevolmente qualsiasi tipo di rapporto.
L’imputato si era giustificato lamentando di essere disoccupato e privo di capacità economica, e di aver dovuto scontare un periodo di detenzione. La Corte territoriale si è pronunciata, tuttavia, riconoscendo una residuale capacità economica in capo al ricorrente, prendendo altresì in debita considerazione il dato costituito dal breve periodo di detenzione.
Anche relativamente al rapporto col minore i giudici d’appello hanno valutato la giustificazione fornita dal ricorrente ossia gli ostacoli asseritamente opposti dalla madre e dai suoi familiari, disattendendone la rilevanza. Da qui, il rigetto dell’impugnazione e la condanna al pagamento delle spese processuali, anche nei confronti della parte civile costituitasi.
Lucia Izzo Studio Cataldi 6 agosto 2016 Sentenza
www.studiocataldi.it/articoli/22979-condannato-il-padre-che-non-ha-rapporti-col-figlio-anche-se-ostacolati-dalla-madre.asp
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CASA CONIUGALE
Quando è lecito abbandonare la casa coniugale
Coniugi sull’orlo della separazione, abbandono della casa coniugale e addebito: quando non scatta la responsabilità. L’abbandono della casa coniugale, quale causa di responsabilità del marito o della moglie in caso di separazione (cosiddetto “addebito”,) è uno dei problemi che maggiormente affligge le coppie sposate: questo perché, in presenza di litigi, è molto più facile sbattere la porta di casa e andarsene piuttosto che affrontare il problema e cercare di superarlo. Chi se ne va dall’appartamento e abbandona l’altro compie un illecito civile, perché viola i doveri del matrimonio, e in alcuni casi anche penale, facendo mancare l’assistenza al coniuge e ai figli. Tuttavia, in determinati casi, è lecito abbandonare la casa coniugale. Questi casi sono stati individuati dalla giurisprudenza e, più di recente, da una sentenza della Corte di Appello di Roma [sent. n. 2991/2016].
Innanzitutto è lecito abbandonare la casa coniugale quando vi sia una grave ragione, come nel caso di violenze poste da uno dei due coniugi ai danni dell’altro. Non si deve necessariamente trattare di violenze fisiche, che possano comportare un rischio all’incolumità del coniuge. Si può trattare anche di violenze morali, perpetrate contro la dignità del marito o della moglie. Rileva, dunque, la tutela della salute psico-fisica.
Senza arrivare a situazioni da “codice penale”, secondo la giurisprudenza anche un comportamento dispotico consente di andare via di casa e sbattere la porta alle proprie spalle. E così anche in caso di mancanza di rapporti sessuali.
Altre valide ragioni che consentono di abbandonare la casa coniugale sono, ad esempio, quelle legate alla salute, come nel caso di un lungo ricovero necessario per curarsi (si pensi alla degenza in una casa di cura psichiatrica).
È altresì possibile abbandonare il tetto coniugale tutte le volte in cui la crisi della coppia era già sorta in precedenza. Si pensi al caso del marito che, avendo scoperto il tradimento della moglie e non avendo alcuna intenzione di perdonarla, decida di andare via di casa. È anche l’ipotesi in cui uno dei due coniugi confessi all’altro di non amarlo più e, pertanto, quest’ultimo non ritenga più produttivo continuare a convivere sotto lo stesso tetto.
Dunque l’infedeltà – che si presume comportamento di per sé sufficiente e valido ad addebitare la separazione in quanto causa della crisi di coppia – legittima l’abbandono della casa coniugale.
Se uno dei due coniugi ha già depositato in tribunale una domanda per chiedere al giudice la separazione o l’annullamento del matrimonio, l’altro può andare tranquillamente via di casa senza bisogno di temere l’addebito. Anche in questo caso, infatti, è legittimo l’abbandono del tetto domestico. La prassi, spesso diffusa per eccessivo scrupolo, di firmare una sorta di “liberatoria” con cui il coniuge che resta nella casa autorizza l’altro ad andare via, è solo volta ad evitare possibili ritrattazioni in corso di giudizio. È quindi sempre più prudente far seguire, agli accordi verbali, anche quelli scritti.
Anche i frequenti litigi domestici sono, per la giurisprudenza, una causa che rende legittimo l’abbandono della casa coniugale. Ovviamente non si deve trattare di semplici divergenze di opinioni, di quelle cioè che si inseriscono nelle normali dialettiche matrimoniali (anche quelle più burrascose), ma di liti che rendano del tutto intollerabile la convivenza, sino a logorare il rapporto e rinunciare persino ai rapporti sessuali. L’accesa conflittualità tra marito e moglie, difatti, oltre a rendere invivibile l’ambiente domestico ai figli, può essere causa di danni psichici alla stessa coppia.
Secondo la Corte di Appello di Roma è legittimo l’abbandono della casa coniugale al fine di invogliare il coniuge a un atteggiamento più rispettoso e collaborativo: insomma, si tratterebbe di un allontanamento “a fin di bene”, per far sentire la propria mancanza e consentire all’altro/a di meditare sulle proprie colpe. Salvo che proprio tale comportamento “provocatorio” sia stato l’effettiva causa della rottura dell’unione.
La prova della responsabilità in caso di abbandono della casa. Senza la prova che l’abbandono del tetto coniugale è causa della crisi di coppia, non può essere addebitata la separazione a carico del coniuge che si allontana di casa. In altre parole, il coniuge che, durante la causa di separazione, voglia ottenere a carico dell’altro l’addebito per via dell’abbandono dalla casa, deve riuscire a dimostrare che proprio detto allontanamento sia stato la causa scatenante della crisi di coppia. Diversamente, in mancanza di tale prova, chi va via di casa non può essere considerato responsabile.
Redazione Lpt 1 agosto 2016
www.laleggepertutti.it/127966_quando-e-lecito-abbandonare-la-casa-coniugale
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CHIESA CATTOLICA
La guerra dei tradizionalisti a Papa Francesco.
In questi giorni Massimo Franco, notista politico ed esperto di cose vaticane per il Corriere della Sera, in un pezzo dal titolo “I tradizionalisti contro Francesco” riporta, nell’articolo, l’appello, ripreso dal blog ultraconservatore “Corrispondenza romana”, di 45 teologi e storici in cui si chiede al collegio cardinalizio di intervenire sul Papa affinché si ripudino “gli errori presenti nel documento in modo definitivo e finale, e di dichiarare autorevolmente che non è necessario che i credenti credano a quanto affermato dall’Amoris laetitia». E’ l’ultimo di una serie di episodi della guerra dei tradizionalisti contro Francesco. Ne parliamo con Andrea Grillo, docente di Teologia Sacramentaria e Filosofia della religione al Pontificio Ateneo “Sant’Anselmo” di Roma.
Professore, l’impressione che si ha è che il dissenso si stia allargando. È così? Oppure è solo una enfatizzazione mediatica?
Penso che sia buona norma, anche per i giornalisti famosi, di controllare le fonti su cui basano i loro articoli. Il documento di cui si parla nel pezzo citato è un testo scritto nel linguaggio di 150 anni fa, e firmato da pochi sconosciuti. Gli unici firmatari noti appartengono a settori isolati, marginali e autoreferenziali della Chiesa cattolica. Far passare questa per opposizione a Francesco è una operazione mediatica senza alcun fondamento. Fa sorridere. Al di là dei giornalisti, io direi a coloro che hanno problemi, di esibire qualche argomentazione fondata, qualche ragionamento convincente. Fino ad ora hanno esibito solo propaganda vecchia e presuntuosa disperazione.
Quanta presa hanno sul Popolo di Dio queste posizioni?
Queste posizioni trovano attenzione – e sono anche sollecitate – soltanto da alcuni ambienti curiali – romani o periferici – che nulla hanno a che fare con il popolo di Dio. Sono giochi di potere di chi vede messo in discussione il proprio ruolo clericale, che prima sfuggiva ad ogni controllo e che ora non gode più di libertà. Papa Francesco, come è inevitabile, viene attaccato da chi ha paura della Riforma della Chiesa e di perdere potere. Il popolo di Dio non c’entra nulla e giustamente non si interessa di questo.
Cosa fa paura ai tradizionalisti dell’approccio di Francesco? La lettura complessa della modernità?
Papa Francesco esce in modo esplicito da quell’antimodernismo che ha caratterizzato moltissima cultura cattolica prima e anche dopo il Concilio Vaticano II. Noi confondevamo spesso il cattolicesimo con l’antimodernismo. Essere cattolici era essere “contro i treni”, “contro la luce elettrica”, “contro il cinema”, “contro il voto alle donne”, “contro gli anticoncezionali”. In modo molto semplice, ma con estrema coerenza, Francesco rifiuta una lettura unilaterale e ostile della modernità. Questo suo tratto è insopportabile per i tradizionalisti, ma è anche difficile da comprendere per coloro che, senza essere tradizionalisti, hanno accettato supinamente una lettura “di comodo” del rapporto tra Chiesa e mondo. In fondo inquieta coloro che si sono rifugiati in una consolante “autoreferenzialità”, contenti di restare senza vie di uscita e di non dover mai “uscire”.
Una delle critiche che il fronte conservatore rivolge al Papa è quella di essere più attento alla “realtà” che alla “verità”. Francamente questo lo trovo un insulto a Francesco. Ha fondamento quest’accusa?
Questo mi sembra uno dei punti che Francesco ha portato ad una svolta decisiva. Il primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea – affermato con grande forza in tutti i grandi testi magisteriali di Francesco, Evangelii Gaudium, Laudato Si’, e Amoris Laetitia – costituisce una “traduzione della tradizione” che rimette in relazione verità e realtà. L’accusa mossa a Francesco ha la presunzione che il rapporto con la verità possa prescindere dalla realtà. Con questa impostazione – che dipende dall’antimodernismo di fine ottocento e primi novecento – la Chiesa ha perso il rapporto con la realtà e si è chiusa in una autoreferenzialità pericolosa e sterile.
Un’altra “operazione” che fa il fronte tradizionalista è quella di contrapporre Wojtyla e Ratzinger a Bergoglio. Lei non vede una continuità?
Tutte queste posizioni risentite – che sono di tradizionalisti radicali, ma anche di qualche Vescovo e Cardinale – cercano di enfatizzare le “contraddizioni” tra Francesco e i suoi due predecessori. Ora qui bisogna intendersi bene. Non c’è nessuna rottura. Ma non c’è nemmeno una semplice continuità. La tradizione continua traducendosi in modo nuovo. Questo è anche il senso più autentico delle parole di Benedetto XVI, quando nel 2005 parlò della “ermeneutica della riforma” come rimedio alle due ermeneutiche sbagliate del Concilio, ossia quelle della pura continuità e della pura rottura. Francesco non rompe, ma riforma. Ma è consapevole della urgenza della riforma, mentre coloro che gli si oppongono, con il pretesto di una presunta rottura, hanno solo paura del nuovo, che nella Chiesa è sempre intervenuto come una benedizione nei passaggi di crisi.
Il comportamento del Papa emerito nei confronti del Papa regnante è esemplare. Anzi Ratzinger ha manifestato grande affetto nei confronti di Bergoglio. Eppure continua questa strumentalizzazione contro Francesco. Perché?
Non vi è dubbio che il rapporto personale tra papa regnante e papa emerito sia buono e cordiale. Il punto però non è questo. Tra il magistero di Benedetto e quello di Francesco ci sono tuttavia alcune differenze significative, soprattutto in rapporto al Concilio Vaticano II. Francesco è pienamente convinto della riforma invocata dal Vaticano II, mentre Benedetto fu esitante, incerto, talora anche spaventato e puramente difensivo. In tre anni Francesco ha ritrovato la fiducia in un magistero che si assume nuove responsabilità, mentre il magistero di Benedetto – e quello dell’ultimo Giovanni Paolo II – era paralizzato dalla tradizione e puramente negativo. Nell’assumere questa grande iniziativa Francesco ha dovuto scontare, non senza difficoltà, le scelte diverse dei suoi predecessori.
Un altro fronte di critica, da parte tradizionalista che trova sponda nell’area politica della destra, è quello del giudizio sull’Islam. Insomma, per loro, Bergoglio è troppo buonista. Un’altra infamia nei confronti di Francesco. Qual è il suo pensiero al riguardo?
Anche qui bisogna considerare solo le cose serie. In questa materia le opinioni autorevoli non sono molte e le chiacchiere moltissime. La posizione verso l’Islam trova la sua origine in un approccio conciliare alle “altre religioni” che con Francesco ha trovato profondo rilancio. Nessuna concessione alle generalizzazioni propagandistiche e considerazione della complessità delle singole tradizioni. Nella intervista di ritorno dalla GMG, Francesco ha ricordato che il fenomeno del “fondamentalismo” non identifica nessuna tradizione religiosa. “Anche tra di noi”, ha ricordato, ne abbiamo molti. Va aggiunto che sul tema del rapporto con l’Islam dobbiamo anzitutto aver chiara la qualità e lo spessore della nostra tradizione. Affermare, come ha fatto un noto giornalista, che i musulmani non possono partecipare alla messa “perché non credono alla presenza reale” mi sembra la dimostrazione di una approssimazione teologica ed ecclesiale piuttosto preoccupante. E sulla base di questa ignoranza evidente costoro pensano pure di dover dare consigli al papa.
Anche nei confronti della pastorale della “misericordia” si muovono critiche. Si troviamo di fronte a due visioni opposte della Chiesa. Come fanno a coesistere?
Come ha scritto Stella Morra, in un bel libro che si intitola “Dio non si stanca”, il tema della “misericordia/perdono” è centrale nel magistero di Francesco non come un “contenuto”, ma come un modo di comprendere la Chiesa e il rapporto con Dio. E’ lo “stile della misericordia” a levare la Chiesa dalla sua autoreferenzialità, a costringerla ad “uscire per strada”, a non “stare alla finestra”, a costruire “ospedali da campo” e “campi profughi”. Questo linguaggio dà sui nervi a tutti i monsignorini con macchine lunghe, gemelli ai polsi, domestiche al servizio, case piene di stanze-E’ un modello di Chiesa e di Vangelo ad essere rimesso in campo e in gioco, dopo decenni di assuefazione all’esercizio del potere formale e del riconoscimento puramente autoritario.
Sul piano liturgico, anche qui i tradizionalisti sembrano soffrire Francesco. E’ così?
Da un lato non sembra che Francesco sia interessato alla liturgia quanto lo era Benedetto…ma d’altra parte le modifiche introdotte nella “lavanda dei piedi” e la recente richiesta di “evitare di usare la espressione ‘riforma della riforma’” indicano chiaramente un orientamento verso la piena valorizzazione della “partecipazione attiva” come logica “popolare” della liturgia e della preghiera cristiana. Anche qui chi vorrebbe tutelato il suo diritto a “restare indietro” si sente, come dire, a disagio. Quando i piedi delle donne e la riforma liturgica tornano al centro, molte preoccupazioni curiali e fissazioni sulle rubriche si ritrovano d’improvviso all’estrema periferia!
Ultima domanda: Quello che appare, in realtà, l’obiettivo finale dei conservatori è la messa in mora della creatività del Concilio Vaticano II. E’ questa la vera posta in gioco?
Effettivamente è molto utile non “personalizzare” troppo la questione. Con Francesco noi abbiamo trovato, 50 anni dopo il Concilio, il primo papa “figlio del Concilio” – ossia che è “nato alla vita ministeriale nella Chiesa non pre-, ma post-conciliare – che propone il Concilio non anzitutto teoricamente, ma con il suo modo di pensare la realtà, di comunicare, di intrecciare relazioni, di pregare o di scherzare. Tutto questo è “concilio reso vivo ed efficace”. Chi pensava che con Giovanni Paolo II e poi con Benedetto XVI avessimo “messo sotto tutela” lo slancio conciliare, ora è sorpreso, amareggiato, in qualche caso adirato. Ma Francesco procede sereno. Come ha detto più volte, dorme bene la notte. Sarebbe cosa buona che anche i suoi interlocutori più accesi si mettessero il cuore in pace e riuscissero a prendere sonno la sera.
Pierluigi Mele blog RaiNews24 2 agosto 2016
http://confini.blog.rainews.it/2016/08/02/la-guerra-dei-tradizionalisti-a-papa-francesco-intervista-ad-andrea-grillo
Papa Francesco e la “paralisi” della teologia di corte.
Come scriveva, molti anni fa, il grande Karl Barth: “Fra tutte le scienze la teologia è la più bella, quella che tocca più profondamente l’intelligenza e il cuore, quella che si avvicina di più alla realtà umana ed offre la visione più chiara della verità. Ma fra tutte le scienze la teologia è anche la più difficile e la più pericolosa, quella in cui, quando ci si impegna, si può facilmente cadere nella disperazione ovvero – ed è quasi ancor peggio – nell’orgoglio, la scienza che può diventare la cosa peggiore che si possa immaginare: la caricatura di se stessa”
Uno degli effetti più sorprendenti del magistero di papa Francesco – letto alla luce di questa citazione – rimane quasi sotto traccia, spesso addirittura viene ignorato o perfino capovolto: ma non vi è dubbio che da quando Francesco è Vescovo di Roma il pensiero teologico ha subìto allo stesso tempo una accelerazione e una paralisi. E’ diventato terreno di accurata e spavalda riflessione, ma anche ha patito una paralisi, un arresto, un blocco, una bruciatura. Cerchiamo di capirne i motivi.
La accelerazione di una “profezia dall’alto”. Lo abbiamo visto, con grande chiarezza, durante il recente itinerario sinodale: il teologo più sciolto, più ricco e più profondo è stato Francesco. Rispetto a lui molti dei discorsi di contorno, anche quando ben fondati, erano come esitanti, ipercalibrati, prudentissimi, quasi chiedendo scusa per le piccole aperture che ritenevano possibili. Questa è in larga parte una condizione che nella Chiesa cattolica non si è realizzata se non raramente. Due esempi dell’ultimo secolo sono: la iniziativa di Pio X di “fare il codice”, agli inizi del 900, e le posizioni “contro la guerra” di Giovanni Paolo II, negli anni ‘90. Ma anche questi esempi appaiono molto più limitati e meno centrali. Nel nostro caso, invece, Francesco assume una iniziativa di “uscita dalla autoreferenzialità” che esibisce, immediatamente, una “mens nuova”. Ha cioè bisogno di predisporre argomentazioni, dimostrazioni, esempi, principi e “luoghi comuni” che trasformano il “sapere tradizionale”: e lo fa non per prender congedo da esso, ma per rivitalizzarlo, rilanciarlo, ripensarlo a fondo. In tutto questo la eredità dello “stile conciliare”, la provenienza geografica e storica dalla “America”, l’appartenenza ad una “nuova generazione” e la freschezza del rapporto con il linguaggio offrono a Francesco il “presupposto” per una operazione teologica allo stesso tempo efficace e raffinata.
La paralisi della “teologia curiale”. In parallelo a questo fenomeno, che ha profondamente rinnovato il linguaggio e lo stile, oltre che i contenuti del magistero papale, assistiamo ad una grave paralisi, che ha colto molti “centri” di produzione teologica, abituati e “ripetere il medesimo”, da almeno 40 anni, e che ora, d’un tratto, si trovano spiazzati, si sentono screditati, di percepiscono periferici. La reazione di questi “centri” – allo stesso tempo accademici e istituzionali – è di varia natura. Vi è chi “ha messo il disco” e continua a ripetere il ritornello che ha imparato a memoria; vi è chi si sforza di “tenere il passo”, ma con una tale fatica e con così poca convinzione, che crea “ibridi senza forma”; vi è chi espone con ostilità tutti gli “errori” del nuovo corso; vi è, infine, chi si esercita ancora meglio del solito nell’arte della “mormorazione senza rispetto”. Ora, in una certa misura, questo è inevitabile. Ma a me sta a cuore semplicemente il profilo teologico della reazione. La Chiesa ha bisogno di una teologia capace di “pensare le questioni”. E di pensarle a 360 gradi, senza paura e senza autocensure. In questo senso considero importantissimo che all’inizio di AL, al n.2, papa Francesco chieda di pensare “con libertà” alle questioni che restano aperte intorno all’amore, al matrimonio e alla famiglia. Ciò che colpiva già durante il Sinodo, e poi in questi mesi di recezione di AL, è la povertà di pensiero e di audacia che scaturisce da moltissime prese di posizione, non solo di pastori, ma anche di teologi.
Abbiamo bisogno di “buona teologia”, da una parte e dall’altra. Se un bravo giornalista inizia il suo “pezzo” con la frase: “I nostri vescovi hanno tutte le ragioni di temere il nuovo” ciò dipende da una “cattiva teologia” che continua a paralizzare le menti e i corpi. Questo non è certo colpa dei giornalisti. Abbiamo costruito – per difenderci dal Concilio Vaticano II – una “linea Maginot” basata sulla idea che potessimo solo “ripetere cose antiche”, che il “nuovo” fosse tutto custodito nei musei. Su questo abbiamo basato molte posizioni magisteriali a partire dalla fine degli anni ‘80. Abbiamo anche allevato generazioni di pastori e di teologi pensandoli e progettandoli soltanto come “ripetitori”. E ora ci troviamo in grande difficoltà. Da quando papa Francesco, senza fare alcuna rivoluzione, ma tornando al “buon senso conciliare”, ha riattribuito a ciascuno la propria autorità, il sistema è entrato in crisi. Lo avevamo “tarato” perché il magistero romano facesse tutto dal centro, e perché gli altri “eseguissero lo spartito” in tal modo tutto poteva essere bloccato e controllato dal centro. Ora non è più così. Né i pastori possono solo “eseguire circolari”, né i teologi possono solo “ripetere argomentazioni o normative”. Questo deve valere per tutti. Sia per coloro che appoggiano in modo convinto il nuovo stile voluto da Francesco; sia per coloro che restano perplessi, hanno riserve, sollevano obiezioni. Per tutti è necessario “pensare in grande”. Forse tra tutti i più in difficoltà sono i giuristi e i canonisti, abituati da troppi decenni semplicemente ad amministrare il reale e non a meditare accuratamente sul possibile. Della loro arte nel “distinguere” avremmo oggi urgentissimo bisogno. Ma spesso li ascoltiamo soltanto irrigiditi su posizioni drastiche e massimaliste, proprio senza alcuna distinzione, nei due sensi del termine.
Confronto mancato ed effetto comico. Giudicando il dibattito sinodale e quello post-sinodale in corso, si ha l’impressione che esso sia mancato, proprio per carenza di risorse teologiche. Coloro che “avanzano riserve” spesso sono costretti o semplicemente a ripetere quella teologia che da 30 anni è risultata incapace di rispondere alle questioni, o a stracciarsi le vesti per tutte le “carenze” della nuova impostazione. Fino a denunciare una “irreparabile rottura” di una tradizione che vorrebbero poter identificare con la teologia matrimoniale antimodernista elaborata a partire dalla metà del 1800. La “res” del matrimonio non è più né quella di Pio IX, né quella di Pio XI e neppure quella di Paolo VI. Per onorare una “res” in cui Dio e uomo collaborano gomito a gomito, non si possono usare categorie che oppongono uomo e Dio. In questo senso Francesco ha avuto il merito di sbloccare nozioni giuridiche, ecclesiali e pastorali che si avvitavano su se stesse da almeno 40 anni. E che non pochi vorrebbero tenersi così come sono, raccontando la solita favoletta secondo cui non avrebbero alcun potere di cambiarla…senza tradire la tradizione. Quando fa così la teologia facilmente diventa ridicola. Francesco, con il suo sorriso, ha fatto la cosa più seria: ci ha costretto a trovare nuovi argomenti, nuovi percorsi, nuove risposte, nuovi linguaggi. Francesco ha fiducia che la tradizione possa essere tradotta. Chi pensa, invece, di poter vivere di rendita del lavoro fatto dai teologi di 150 anni fa – allora con le loro giustificazioni – diventa oggi la “caricatura” di un teologo: anche senza volerlo, cambia mestiere e diventa un clown (detto con tutto il rispetto per il circo).
Andrea Grillo Come se non 5 agosto 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non
www.cittadellaeditrice.com/munera/papa-francesco-e-la-paralisi-della-teologia-di-corte-vedute
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DALLA NAVATA
XIX Domenica del tempo ordinario – anno C -7 agosto 2016.
Sapienza 18, 09 I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.
Salmo 33, 22 Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.
Ebrei 11, 01 La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
Luca 12, 32 In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
“Non temere, piccolo gregge!”
Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.
Continua il cammino di Gesù e dei discepoli verso Gerusalemme, là dove avverrà il suo esodo (cf. Lc 9,31), la sua morte. Gesù sa cosa lo attende, perché ormai l’ostilità della gerarchia religiosa giudaica si è fatta ossessiva, mentre la simpatia della gente va scemando ogni giorno di più, perché non sembra realizzarsi quel Messia che pretendevano di trovare in Gesù. Egli appare sempre più deludente per la folla e il profilo del fallimento di una missione e di una vita si fa sempre più evidente.
È in questo contesto che Gesù pronuncia alcune parole che dopo due millenni vengono ascoltate dai credenti con commozione profonda e convinzione perseverante: “Non temere, piccolo gregge, perché è benevolenza del Padre vostro dare a voi il Regno!”. Gesù guarda la piccola realtà della sua comunità, una dozzina di uomini e alcune donne che lo seguono, sovente perplessi e ansiosi, e si rivolge loro con un linguaggio affettivo e fraterno: “Non avere paura, piccola realtà, che sembri inadeguata a compiere una missione riguardante tutto Israele, tutta l’umanità. Non avere paura, minoranza debole e visibilmente fragile, senza appoggi nel mondo. Non avere paura, realtà poco visibile, inerme, senza influenza e impotente nel mondo. Non avere paura, comunità che merita rimproveri e continuamente ha bisogno di richiami, di correzioni”.
Perché? Perché comunque il Padre, Dio, nel suo amore vuole dare a questa comunità il Regno, farla partecipare a quella vita che è la sua, la vita salvata, sensata, nella sua mano dalla quale nessuno potrà mai strapparla. Quella del piccolo gregge è un’immagine distante da noi e probabilmente anche poco eloquente, ma ciò che in essa è decisivo è il carattere della piccolezza. Gesù vede dietro a sé una piccola realtà, mentre grande è la realtà religiosa dei giudei, grandissima è la realtà del mondo in cui quella piccola comunità è apparsa ed è cresciuta poco. Essa però non tema, non si lasci assalire dall’ansia e dalla paura perché, in quella situazione così precaria, ciò che è decisivo è accogliere la promessa di Gesù di partecipare al Regno di Dio.
Certo, per accogliere tali parole di Gesù e, di conseguenza, non temere ma gioire, bisogna essere davvero il piccolo gregge che segue lui, coinvolto nella sua vicenda fino al fallimento e alla morte. Non basta dirsi cristiani, ma per esserlo veramente occorre essere “poveri”, peccatori che desiderano conversione, uomini e donne che non confidano in se stessi ma sanno mettere la fede e la speranza in Gesù e nel suo Regno veniente. Non diamo per scontato che queste parole abbiano noi come destinatari, poiché ci diciamo cristiani! Come dirsi figli di Abramo poteva essere un inganno (cf. Lc 3,8; Mt 3,9), così pure dirsi discepoli di Gesù può coincidere semplicemente con il vanto di un’appartenenza, con il darsi un’identità che copra il vuoto personale.
Comprendiamo allora l’affermazione seguente di Gesù: “Vendete ciò che avete e condividetelo; fatevi borse che non si consumano, un tesoro inattaccabile nei cieli, là dove il ladro non arriva e il tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. Per avere questa gioia del dono del Regno ci vuole poco, pochissimo: distaccarsi dai beni, condividendoli! Confesso che mi impressiona questa parola, unica condizione posta per essere piccolo gregge: spogliarsi e condividere. Spogliarsi di ciò che si ha – beni, denaro, terra – non per disprezzo, non in nome di un cinismo filosofico, ma semplicemente per condividere con quanti non hanno e non possiedono. Ognuno ha delle ricchezze: soldi, possessi, ma anche forza, tempo disponibile, doni personali. Basta condividere ciò con gli altri, che sono tutti fratelli e sorelle. Solo così un discepolo, una discepola, diviene veramente tale, smette di avere due padroni (cf. Lc 16,13; Mt 6,24), smette di porre sé al centro della vita e non è più tentato di essere alienato all’avere, al possesso.
Sì, lo ripeto, è così semplice, eppure richiede una conversione mai avvenuta una volta per sempre, ma che va rinnovata giorno dopo giorno alla sequela di Gesù, perché i beni, il denaro, quasi sempre ci accompagnano e crescono. Penso spesso alla nostra vita di monaci: giungiamo in monastero rispondendo alla vocazione e non abbiamo nulla, siamo veramente poveri, perché, se avevamo beni o denaro, li abbiamo lasciati; poi però, poco per volta, partecipiamo ai beni e al denaro, senza i quali una comunità non può vivere, e purtroppo li lasciamo crescere e finiamo per confidare in essi. Allora – occorre dirlo – non siamo più il piccolo gregge di Gesù!
Per questo Gesù chiede grande vigilanza e profonda intelligenza nella vita cristiana. Chiede di restare nell’atteggiamento e nella tenuta dei servi, che per servire si cingevano la veste ai fianchi; chiede di tenere le lampade accese, di restare in attesa della venuta del Signore, per ascoltare lui che bussa alla porta e potergli aprire quando arriva. Servi in attesa del Signore che viene: ecco chi sono i cristiani, per i quali risuona la beatitudine: “Beati quei servi che il Signore al suo arrivo troverà vigilanti”, cioè beato chi, avendo come suo tesoro il Signore, sarà in attesa di trovarlo e lo incontrerà alla sua venuta, a qualunque ora arrivi, anche se dovesse tardare.
Gesù aggiunge un brevissimo detto, performativo per i discepoli, seguito da un’esortazione: “Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi restate pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”. Vegliare, non dormire, non essere preda del sonnambulismo spirituale, tenere gli occhi aperti non è facile: la stanchezza del giorno, il lavoro, i molti servizi fatti, la lunghezza della vita cristiana, la monotonia del quotidiano, sono tutti attentati alla vigilanza, che significa anche consapevolezza e responsabilità. “Lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mc 14,38; Mt 26,41), dice altrove Gesù a tre discepoli che non riescono a vegliare con lui nella notte della passione.
E se è vero che tutti i discepoli, i servi, devono vigilare, c’è qualcuno che di questa attenzione è più responsabile degli altri. Nel piccolo gregge tutti sono fratelli e sorelle, tutti hanno ricevuto il compito di vigilare, ma non tutti hanno la stessa responsabilità. Ecco perché, sollecitato da Pietro, Gesù dice con chiarezza che nella comunità c’è una distinzione tra i semplici discepoli e i responsabili. C’è qualcuno che nella comunità ha un compito preciso, quello dell’oikonómos, del preposto alla casa, chiamato a svolgere il suo servizio nel dare da mangiare ai suoi fratelli e sorelle, nel dare il cibo della parola e della sapienza di Dio: questo è il sostentamento necessario, che fa vivere, di cui l’oikonómos è responsabile. Spetta a lui la cura spirituale e materiale dei fratelli, ed egli deve svolgere il servizio di servo affidabile (pistós) e intelligente, sapiente (phrónimos). Ma se questo servo si pone al centro della vita comunitaria, se afferma solo se stesso e non fa crescere gli altri, se pensa a mangiare e a bere senza una condivisione con i fratelli, se organizza il consenso intorno a sé perché ha nel cuore i sentimenti del tiranno, per il quale gli altri sono nient’altro che strumenti del suo potere e successo, allora…
Non aggiungiamo più nulla, basta leggere il brano evangelico fino alla fine. Allora il Signore veniente si separerà da quel servo e lo metterà tra le persone non affidabili… Attenzione dunque: più si è dotati di doni, più si è intelligenti, più sarà richiesto!
/www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10697-non-temere-piccolo-gregge
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DIACONATO
Commissione di studio sul Diaconato delle donne.
Papa Francesco, come espresso lo scorso 12 maggio 2016 nell’incontro con le superiori generali in Aula Paolo VI, ha ufficialmente istituito una Commissione incaricata di studiare la questione del Diaconato delle donne”, “soprattutto riguardo ai primi tempi della Chiesa”.
Come presidente, Francesco ha nominato l’arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. I membri della Commissione sono 12, sei donne e sei uomini. Di seguito i loro nomi:
Rev.da Suor Nuria Calduch Benages, M.H.S.F.N., Membro della Pontificia Commissione Biblica;
Prof.ssa Francesca Cocchini, Docente presso l’Università “La Sapienza” e presso l’Istituto Patristico “Augustinianum”, Roma;
Rev.do Mons. Piero Coda, Preside dell’Istituto Universitario “Sophia”, Loppiano, e Membro della Commissione Teologica Internazionale;
Rev.do P. Robert Dodaro, O.S.A., Preside dell’Istituto Patristico “Augustinianum”, Roma, e Docente di patrologia;
Rev.do P. Santiago Madrigal Terrazas, S.I., Docente di Ecclesiologia presso l’Università Pontificia “Comillas”, Madrid;
Rev.da Suor Mary Melone, S.F.A., Rettore Magnifico della Pontificia Università “Antonianum”, Roma;
Rev.do Karl Heinz Menke, Docente emerito di Teologia dogmatica presso l’Università di Bonn e Membro della Commissione Teologica Internazionale;
Rev.do Aimable Musoni, S.D.B., Docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Università Salesiana, Roma;
Rev.do P. Bernard Pottier, S.I., Docente presso l'”Institut d’Etudes Théologiques”, Bruxelles, e Membro della Commissione Teologica Internazionale;
Prof.ssa Marianne Schlosser, Docente di Teologia spirituale presso l’Università di Vienna e Membro della Commissione Teologica Internazionale;
Prof.ssa Michelina Tenace, Docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana, Roma;
Prof.ssa Phyllis Zagano, Docente presso la “Hofstra University”, Hempstead, New York.
Notiziario Radio vaticana -2 agosto 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
Il Papa crea la commissione sul diaconato femminile
Papa Francesco ha creato, di ritorno dalla Polonia, la preannunciata commissione di studio sul diaconato delle donne. L’organismo, guidato dall’arcivescovo gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della congregazione per la Dottrina della Fede, è composta da dodici membri, metà uomini e metà donne.
«Dopo intensa preghiera e matura riflessione», si legge in una nota diffusa dalla Sala stampa della Santa Sede, «Sua Santità ha deciso di istituire la Commissione di Studio sul Diaconato delle donne». Il presidente è Ladaria Ferrer, i membri sono: monsignor Piero Coda, focolarino, preside dell’Istituto Universitario Sophia, Loppiano, e membro della Commissione teologica internazionale; suor Nuria Calduch-Benages, delle Misioneras Hijas de la Sagrada Familia de Nazaret, membro della Pontificia Commissione biblica; Francesca Cocchini, docente presso l’Università La Sapienzae presso l’Istituto Patristico Augustinianum di Roma; Robert Dodaro, agostiniano, preside dell’Istituto Patristico Augustinianum di Roma e docente di Patrologia, nonché curatore del volume «Permanere nella verità di Cristo: Matrimonio e Comunione nella Chiesa cattolica» (Cantagalli); Santiago Madrigal Terrazas, gesuita, docente di Ecclesiologia presso l’Università Pontificia Comillas di Madrid; suor Mary Melone, delle Suore Francescane Angeline, nominata dallo stesso Francesco nel 2014 rettore magnifico della Pontificia Università Antonianum di Roma; don Karl-Heinz Menke, docente emerito di Teologia dogmatica presso l’Università di Bonn e membro della Commissione teologica internazionale; Aimable Musoni, salesiano, docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Università Salesiana di Roma; Bernard Pottier, gesuita, docente presso l’Institut d’Etudes Théologiques di Bruxelles e membro della Commissione teologica Internazionale; Marianne Schlosser, docente di Teologia spirituale presso l’Università di Vienna e membro della Commissione teologica internazionale; Michelina Tenace, docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma; Phyllis Zagano, professoressa presso la Hofstra University, Hempstead, New York.
Fin dall’inizio del pontificato Jorge Mario Bergoglio aveva dichiarato l’intenzione di valorizzare il ruolo delle donne. «Il genio femminile – aveva detto nella nota intervista al direttore della Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro, a sei mesi dal Conclave – è necessario nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. La sfida oggi è proprio questa: riflettere sul posto specifico della donna anche proprio lì dove si esercita l’autorità nei vari ambiti della Chiesa».
La prima idea di una commissione per studiare la possibilità del diaconato femminile era stata prospettata dal Papa nel colloquio con l’Unione internazionale superiore generali (Uisg) lo scorso 12 maggio 2016 in Vaticano. «Nella Chiesa – domandò una religiosa nel colloquio a porte chiuse, riportato dapprima dalla stampa cattolica statunitense e successivamente pubblicato su L’Osservatore Romano – c’è l’ufficio del diaconato permanente, ma è aperto solo agli uomini, sposati e non. Cosa impedisce alla Chiesa di includere le donne tra i diaconi permanenti, proprio come è successo nella Chiesa primitiva? Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?».
La risposta di Francesco fu articolata: «Io ricordo – disse – che era un tema che mi interessava abbastanza quando venivo a Roma per le riunioni, e alloggiavo alla Domus Paolo VI; lì c’era un teologo siriano, bravo, che ha fatto l’edizione critica e la traduzione degli Inni di Efrem il Siro. E un giorno gli ho domandato su questo, e lui mi ha spiegato che nei primi tempi della Chiesa c’erano alcune “diaconesse”. Ma che cosa sono queste diaconesse? Avevano l’ordinazione o no? Ne parla il Concilio di Calcedonia (451), ma è un po’ oscuro. Qual era il ruolo delle diaconesse in quei tempi? Sembra – mi diceva quell’uomo, che è morto, era un bravo professore, saggio, erudito – sembra che il ruolo delle diaconesse fosse per aiutare nel battesimo delle donne, l’immersione, le battezzavano loro, per il decoro, anche per fare le unzioni sul corpo delle donne, nel battesimo. E anche una cosa curiosa: quando c’era un giudizio matrimoniale perché il marito picchiava la moglie e questa andava dal vescovo a lamentarsi, le diaconesse erano le incaricate di vedere i lividi lasciati sul corpo della donna dalle percosse del marito e informare il vescovo. Questo, ricordo. Ci sono alcune pubblicazioni sul diaconato nella Chiesa, ma non è chiaro come fosse stato. Credo che chiederò alla Congregazione per la Dottrina della Fede che mi riferiscano circa gli studi su questo tema, perché io vi ho risposto soltanto in base a quello che avevo sentito da questo sacerdote che era un ricercatore erudito e valido, sul diaconato permanente. E inoltre vorrei costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione: credo che farà bene alla Chiesa chiarire questo punto; sono d’accordo, e parlerò per fare una cosa di questo genere».
Il Papa stesso è tornato sull’argomento, lo scorso 26 giugno, in risposta a una domanda dei giornalisti che lo accompagnavano sul volo di ritorno dal recente viaggio in Armenia, lamentandosi di come la vicenda era stata riportata sui giornali («Il giorno dopo: “La Chiesa apre la porta alle diaconesse!”. Davvero, mi sono un po’ arrabbiato con i media, perché questo è non dire la verità delle cose alla gente»), e precisando: «Ho parlato con il Prefetto della Dottrina della Fede, che mi ha detto: “Guardi che c’è uno studio che ha fatto la Commissione Teologica Internazionale negli anni Ottanta”. Poi ho parlato con la presidente (delle Superiore Generali) e le ho detto: “Per favore, mi faccia arrivare una lista di persone che Lei crede che si possa prendere per fare questa Commissione”. E mi ha inviato la lista. Anche il Prefetto mi ha inviato la lista, e adesso è lì, sulla mia scrivania, per fare questa Commissione. Io credo che si sia studiato tanto sul tema nell’epoca degli anni Ottanta e non sarà difficile far luce su questo argomento». Oggi, infine, l’annuncio della nascita della commissione.
Iacopo Scaramuzzi La Stampa-Vatican Insider 2 agosto 2016
www.lastampa.it/2016/08/02/vaticaninsider/ita/vaticano/il-papa-crea-la-commissione-sul-diaconato-femminile-met-membri-sono-donne-tYT3baz1iLeQRZAfZmmnjL/pagina.html
Una notizia (cattolica) per tutte le donne: Maria di Magdala Apostola
Resurrectionis dominicae primam testem et evangelistam, Sanctam Mariam Magdalenam, semper Ecclesia sive Occidentalis sive Orientalis, summa cum reverentia consideravit, etsi diversimode coluit.
La Congregazione per il Culto Divino ha decretato che, a partire da quest’anno, la ricorrenza liturgica dedicata a Maria di Magdala diventa festa come quella degli altri apostoli. Questo significa che “la prima testimone della Resurrezione del Signore ed evangelista” è stata collocata allo stesso livello di Maria, è entrata nel novero degli apostoli e la sua messa avrà Gloria e il Prefazio proprio intitolato Apostolorum Apostola (così l’aveva definita già san Tommaso nel tredicesimo secolo).
E’ un riconoscimento che non solo risarcisce la discepola che il cardinal Ravasi ha riconosciuto “calunniata” e che la lunga tradizione ha trasmesso in decine di raffigurazioni artistiche – solo il Lanfranco la rappresenta assunta al cielo – come prostituta e penitente; ma valorizza la parità del femminile nella chiesa molto più di qualunque accesso a livello gerarchico in cui una donna sarebbe destinata a replicare il ruolo clericale maschile. E’ un riconoscimento di valore che si estende all’intero genere. Entra finalmente nella chiesa, riconosciuta dal Papa al massimo livello di santità quella Maddalena che Gesù aveva privilegiato per stima e amicizia. Dopo la resurrezione si era presentato a lei, una donna, perché andasse a dare l’annuncio agli altri apostoli, nascosti per paura delle retate. Non fa meraviglia che, secondo l’universale tradizione misogina, Pietro, pentito per aver rinnegato Gesù tre volte, inaugurò sia il ministero petrino del papato senza un analogo ministero mariano, sia l’esclusione del genere femminile dalla condivisione delle responsabilità dei cristiani. Intanto Maddalena entrava nella leggenda come prostituta mentre la tradizione (confermata dalla toponomastica) la portava da Gerusalemme fino all’isola della Maddalena e, attraverso il Passo della Maddalena, a Marsiglia dove è effigiata come predicatrice.
Giancarla Codrignani Comunità cristiane di base 2 agosto 2016
www.cdbitalia.it/2016/08/02/una-notizia-cattolica-per-tutte-le-donne-di-g-codrignani
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MATRIMONIO
Matrimonio telematico: nessuna contrarietà all’ordine pubblico.
Corte di cassazione, prima Sezione civile, Sentenza n. 15343, 25 luglio 2016
Il matrimonio contratto in via telematica secondo la legge straniera, tra un’italiana e un pakistano, supera il vaglio del limite dell’ordine pubblico. Di conseguenza, anche se i coniugi non sono presenti contestualmente nel luogo di celebrazione del matrimonio l’atto è valido. Lo ha stabilito la Corte di cassazione. La vicenda aveva preso il via dal no opposto dall’ufficiale dello stato civile alla trascrizione per contrarietà all’ordine pubblico dell’atto di matrimonio tra i due richiedenti, sposatisi in via telematica. L’assenza della contestuale presenza dei nubendi impediva la configurazione di un matrimonio valido. Una tesi non condivisa dal tribunale adito dalla coppia e dalla Corte di appello. Il ministero dell’interno ha così impugnato la decisione dinanzi alla Cassazione che, però, ha confermato il giudizio della Corte di appello. Per la Suprema Corte, infatti, il matrimonio risulta valido ai sensi dell’articolo 28 della legge 218/1995 perché, quanto alla forma, è stato contratto secondo la legge del luogo di celebrazione del matrimonio e secondo la legge di uno dei due coniugi al momento della celebrazione. Ad accogliere una tesi diversa, si dovrebbe ritenere una contrarietà all’ordine pubblico tutte le volte in cui la legge straniera ha una disciplina diversa da quella italiana. Tra l’altro – osserva la Cassazione – il giudizio circa la compatibilità con l’ordine pubblico deve essere effettuato tenendo conto unicamente del nucleo essenziale dei valori dell’ordinamento italiano la cui deroga non è consentita “nemmeno dal legislatore ordinario interno” che non può “modificare o alterare, ostandovi principi costituzionali inderogabili”. Tra l’altro, il limite dell’ordine pubblico opera solo con riguardo agli effetti dell’atto straniero, senza che sia previsto un sindacato contenutistico o di merito. A ciò si aggiunga che il matrimonio inter absentes è, seppure in via eccezionale, previsto nell’ordinamento italiano (articolo 111 del codice civile) e già in passato la Suprema Corte ha ammesso il ricongiungimento familiare di un coniuge che aveva contratto il matrimonio telefonico in presenza di testimoni.
Marina Castellaneta Diritto internazionale privato 5 agosto 2016
www.marinacastellaneta.it/blog/matrimonio-telematico-nessuna-contrarieta-allordine-pubblico.html
sentenza www.neldiritto.it/appgiurisprudenza.asp?id=13127
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NULLITÀ MATRIMONIALI
Un matrimonio «riparatore» può essere riconosciuto nullo?
Una domanda a partire dalle parole del Papa pronunciate durante un convegno della Diocesi di Roma. Ho sentito che recentemente il Papa si è espresso contro i matrimoni «riparatori», ha detto che quando era vescovo a Buenos Aires addirittura li aveva vietati: sposarsi non deve essere sentito come un obbligo sociale ma deve essere fatto in libertà. Questo significa che un matrimonio fatto da due ragazzi perché lei è incinta, e in seguito fallito, può essere riconosciuto come nullo, se si ammette che non c’era una piena consapevolezza del valore del sacramento?
Risponde padre Francesco Romano, docente di Diritto Canonico alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.
Il cosiddetto «matrimonio riparatore» fa riferimento a un antico costume della cultura occidentale di cui oggi qualche retaggio residuale continua a sopravvivere, almeno come mentalità. Questo tipo di matrimonio veniva considerato un mezzo risolutivo e risarcitorio per «riparare» un danno arrecato che nello specifico riguardava perlopiù la lesione dell’onore. Una antica attestazione di questo costume, che nel tempo si è istituzionalizzato trovando anche forme legali specifiche, è presente nel Libro del Deuteronomio in cui si descrive il caso di una fanciulla vergine non fidanzata che subisce una violenza carnale. L’aggressore potrà riparare il disonore arrecato con il pagamento di cinquanta sicli d’argento al padre di lei e con il matrimonio, oltre che con la perdita del diritto di fare ricorso alla legge del ripudio per tutto il tempo della sua vita (Dt 22, 28-29). Con il matrimonio riparatore, nella mentalità dell’epoca, la donna trovava una tutela rispetto alle conseguenze del disonore perché nella sua situazione nessun’altro uomo l’avrebbe presa in moglie.
Un’espressione tangibile del matrimonio riparatore è rimasta presente in Italia fino al 5 agosto 1981 quando venne abrogato l’art. 544 del codice penale. Il reo di violenza carnale punito con la reclusione prevista dall’art. 519 c.p. avrebbe potuto usufruire dell’estinzione della pena facendo ricorso al citato art. 544 c.p. nel contrarre matrimonio con la persona offesa e se la pena era già esecutiva, la condanna veniva a cessare insieme agli effetti penali. La legge offriva al reo la possibilità di usufruire del beneficio dell’estinzione della pena se si faceva carico di «riparare» con il matrimonio le conseguenze del disonore arrecato alla donna. In realtà i benefici della riparazione si muovevano in senso unilaterale a solo vantaggio del reo che in questo modo evitava per sé il male peggiore. La donna vittima dell’atto di violenza finiva per subirne un’altra dovendo sposare e convivere con il suo aggressore per evitare l’infamia sociale e non trovare più nessuno disposto a sposarla.
Oltre a quanto contemplato dall’ordinamento penale italiano, un fenomeno di costume assai radicato imponeva il matrimonio riparatore qualora fosse risultato evidente che una ragazza nubile si era compromessa o per il sopraggiungere di una gravidanza inopinata o per essersi allontanata e sottratta al controllo familiare con un uomo, anche se fosse stato il suo stesso fidanzato, come nel caso della cosiddetta «fuitina». Non una legge, ma una convenzione sociale imponeva l’obbligo del matrimonio riparatore che la stessa famiglia avrebbe dovuto accettare anche contro la propria volontà. Il disonore non riparato, invece, avrebbe potuto dare adito al delitto d’onore che in questo caso il diritto penale italiano all’art. 587 riconosceva come circostanza attenuante, quindi con una forte riduzione della pena, rispetto a uno stesso delitto, ma con diverso movente. L’art. 587 per il delitto d’onore e l’art. 544 per il matrimonio riparatore, furono abrogati il 5 agosto 1981, sei anni dopo la riforma del diritto di famiglia.
Fatta questa premessa, necessaria per comprendere l’alveo socio culturale in cui per secoli si è affermato il ricorso al matrimonio riparatore, la domanda della Lettrice è il segno di un particolare interesse che ha destato la risposta data da Papa Francesco ad alcune domande in occasione del convegno annuale della Diocesi di Roma soffermandosi sul matrimonio riparatore e sulla convivenza fuori dal matrimonio. La risonanza che si è registrata sui media ha dato adito a fraintendimenti costruendo sul pensiero del Papa conclusioni lontane dall’insegnamento che la Chiesa e lo stesso Pontefice continuano a ripetere a più riprese, soprattutto di fronte alla deriva che sta toccando la famiglia e il matrimonio ai nostri giorni.
In realtà il Papa non ha voluto presentare la libera convivenza come un’alternativa di valore rispetto al matrimonio, come una certa stampa ha tentato di interpretare. Ha voluto invece ribadire che per i cristiani il matrimonio è un sacramento e che deve essere celebrato secondo l’insegnamento del Signore così come viene presentato dalla Chiesa, con la consapevolezza, la libertà e l’assenza di condizionamenti oggettivi e psicologici. Pertanto, la circostanza della nascita di un figlio potrebbe essere il momento propizio per disporsi alle nozze già programmate o comunque mai viste come contrarie al proprio progetto di vita. Il punto che il Papa ha voluto indicare è piuttosto di non lasciar prevalere sulle esigenze dell’amore coniugale e della stabilità della comunità che si forma con patto irrevocabile, un altro tipo di esigenze da cui potrebbe scaturire un matrimonio riparatore o «de apuro», cioè «di fretta», come lui lo ha definito, dovute a un concepimento non previsto o ad altri fattori sociali.
All’ultima parte della domanda della lettrice non è possibile dare una risposta con una semplificazione che finirebbe per risultare fuorviante. Il giudizio, soprattutto quando entra nel vissuto delle persone, non è mai un’operazione matematica, come fare due più due, ma richiede sempre di soppesare il fatto oggettivo, l’aspetto soggettivo e le varie circostanze in cui ha preso forma la decisione di sposarsi. La lunga esperienza fatta nel giudicare problematiche matrimoniali mi consente con sicura certezza di poter affermare che ogni matrimonio è una storia a sé e non può essere letto secondo i criteri ermeneutici che hanno come fonte l’odierno quadro statistico fallimentare o alcuni clichés interpretativi ricorrenti. Resta vero, perché è anche di tutta evidenza logica, che solo coloro che hanno un matrimonio fallito si pongano l’interrogativo sulla sua validità e, comunque, non è matematico che il solo fallimento come tale sia la prova regina della sua nullità, altrimenti anche la stessa funzione di giudicare affidata dal Signore alla Chiesa che esercita attraverso i tribunali e i suoi ministri sarebbe superflua e verrebbe vanificata.
Per concludere con il richiamo iniziale posto dalla lettrice sul matrimonio riparatore, la finalità del matrimonio è inscritta nei suoi elementi essenziali intrinseci voluti dal Creatore, quali la procreazione, l’educazione della prole e il bene dei coniugi (can. 1055 §1). Altre specie di finalità possono essere la riparazione per una lesione arrecata all’onore personale o per il rischio di perderlo, oppure la riparazione per l’avvenuta trasgressione di certe convenzioni sociali, come ancora continuava ad accadere in tempi non lontani, ad esempio per l’inopinato concepimento da parte di una nubile. Se i nubendi perseguono tali finalità in modo prevalente ed esclusivo rispetto ai fini essenziali legati alla natura del matrimonio, esse sono incompatibili e certamente dovrebbero essere oggetto di seria valutazione da parte di chi ha la responsabilità di ammettere i fidanzati al matrimonio.
Il richiamo del Papa risponde soprattutto alla premura pastorale di sensibilizzare la comunità cristiana a riflettere sulla validità del matrimonio, prima della celebrazione piuttosto che dopo. D’altra parte il can. 1063 richiama i pastori d’anime all’obbligo di provvedere che la propria comunità ecclesiastica offra ai fedeli una preparazione remota e prossima perché lo stato matrimoniale perseveri nello spirito cristiano e progredisca in perfezione.
Francesco Romano Toscana oggi 31 luglio 2016
– www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Un-matrimonio-riparatore-puo-essere-riconosciuto-nullo#sthash.8ozio11U.dpuf
Osservazioni
Tale matrimonio è nullo in quanto invalidato sin dall’inizio, per essere un matrimonio valido, occorre il “Mutuo Consenso”, ma tale consenso deve essere esplicitato nella “piena consapevolezza e libero consenso”, in mancanza di uno di questi due termini il matrimonio è ispo facto invalido, cioè nullo. Questa è la sostanza, poi si potrebbe argomentare sul significato di libero consenso e piena consapevolezza, d’altra parte sono gli stessi requisiti che definiscono un peccato “grave o lieve”, mortale o veniale.
Va premesso che il cosiddetto “matrimonio riparatore” non esiste praticamente più, per un radicale cambiamento di mentalità. Un tempo in certe culture si riteneva che una ragazza “disonorata” fosse obbligata a “riparare lo scandalo” sposando l’uomo; in pratica per un uomo era possibile trovare una moglie semplicemente segregando una ragazza anche per poche ore, e magari senza nemmeno farci materialmente sesso, e lei era costretta dalle circostanze a sposarlo. In queste condizioni va da sé che il matrimonio è nullo, perché mancano elementi essenziali per la sua validità, in particolare manca la libera scelta della donna che viene invece costretta, talvolta con botte e minacce, talaltra semplicemente approfittando delle circostanze.
Oggi però è normale che si faccia l’amore fuori del matrimonio ed anche senza la minima intenzione di sposarsi in futuro (le mamme accompagnano le figlie adolescenti dal ginecologo per far loro prescrivere la pillola!), dunque certi retaggi del medio evo non hanno più alcun senso.
Aleteia 1 agosto 2016
http://it.aleteia.org/2016/08/01/un-matrimonio-riparatore-puo-essere-riconosciuto-nullo/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_i
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OBIEZIONE DI COSCIENZA
Consultori. Il Tar Lazio respinge ricorso dei medici obiettori.
I medici sono tenuti ad certificare lo stato gravidanza, attestazione necessaria per l’interruzione volontaria di gravidanza, e a prescrivere contraccettivi d’emergenza. Lo ha stabilito il Tar del Lazio, respingendo il ricorso conto il Decreto di Zingaretti che riorganizzava i servizi. Ma il Movimento per la Vita annuncia il ricorso al Consiglio di Stato.
“Il Tar del Lazio ha ritenuto infondati nel merito i ricorsi presentati dalle associazioni e dai movimenti per la vita contro il Decreto del Commissario ad acta sulla riorganizzazione delle attività dei consultori nella Regione Lazio”. A darne notizia è una nota della Regione che ricorda come il Tar si fosse già espresso contro la richiesta di sospensiva dei ricorrenti e ora, con un giudizio nel merito, “accoglie in pieno la posizione assunta dalla Regione Lazio”. La Regione spiega che “rispetto ai ricorsi presentati dalle associazioni, i giudici hanno stabilito che:
1) le cosiddette pillole del giorno dopo non sono farmaci abortivi ma semplici contraccettivi, come stabilito anche, con dati scientifici, dall’Agenzia italiana del farmaco – Aifa e dalla sua omologa europea, Ema;
2) l’obiezione di coscienza da parte dei medici, per quanto previsto dalla legge 194\1978, non si può applicare alla certificazione dello stato di gravidanza, attestazione necessaria per l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Tale certificazione, infatti, non riguarda l’IVG ma è la semplice attestazione di uno stato di salute”.
“Siamo soddisfatti per la sentenza del Tar del Lazio che chiarisce il territorio dell’obiezione di coscienza e della sua applicazione nel rispetto della legge. E’ la certificazione che La Regione Lazio ha avuto ragione e sta andando nella direzione giusta, quella della ricostruzione della rete dei consultori, dopo anni di tagli e ambiguità. Un cammino impegnativo sul quale vogliamo proseguire per restituire dignità ai consultori e per tutelare la salute delle donne”, è il commento del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che è anche commissario ad acta.
Ma Gian Luigi Gigli, Presidente del Movimento per la Vita, annuncia già il ricorso al Consiglio di Stato. “Il Movimento per la Vita Italiano – afferma in una nota – perplesso rispetto alle valutazioni scientifiche dei giudici amministrativi e alla loro considerazione del diritto all’obiezione di coscienza, continuerà la sua battaglia presso il Consiglio di Stato a difesa del diritto delle donne alla corretta informazione, della dignità della professione medica e, soprattutto, della vita dell’embrione umano, considerato dall’industria del farmaco un oggetto prima che esso possa annidarsi nell’utero materno”. Secondo Gigli, “il TAR ha stabilito che le ‘pillole dei giorni dopo’ non sono farmaci abortivi, ma semplici contraccettivi richiamandosi alla posizione dell’AIFA che ha pedissequamente recepito quella dell’Agenzia europea per il farmaco. Ciò non tiene conto dei rilievi avanzati dal Consiglio Superiore di Sanità e delle contraddizioni con la stessa letteratura scientifica che ha portato alla commercializzazione dei cosiddetti contraccettivi di emergenza. Ancora una volta gli interessi delle multinazionali del farmaco hanno prevalso sul diritto alla corretta informazione del medico prescrittore e delle pazienti che inconsapevolmente dovranno assumere il farmaco”.
“Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza – ha concluso il Presidente Gigli – appare singolare che questo diritto del medico venga aggirato con il pretesto che la certificazione dello stato di gravidanza sarebbe semplice attestazione di uno stato di salute e non già, come è evidente in questi casi, il primo indispensabile passo per l’esecuzione dell’aborto legalizzato”.
Quotidiano Sanità 03 agosto 2016 link per la sentenza
www.quotidianosanita.it/regioni-e-asl/articolo.php?articolo_id=42281
Il personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica (aborto volontario), bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione (documentazione) attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG.
estratto passim
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) il 2 agosto 2016 ha pubblicato la presente sentenza
(…) Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
1.Con ricorso notificato ai soggetti in epigrafe indicati in data 21 luglio 2014 e depositato il successivo 6 agosto, i ricorrenti insorgono contro il provvedimento con il quale la Regione nel disporre il riordino dei Consultori ha, in sostanza, adottato alcune prescrizioni configgenti a loro dire che la libertà di coscienza come nel prosieguo verrà indicato. Lamentano che la conseguenza pratica di tale provvedimento è che i medici obiettori di coscienza sarebbero spinti a non chiedere l’assunzione in un Consultorio familiare pubblico della Regione Lazio o a dimettersi da esso o a violare il dettato della propria coscienza.
2. Avverso il provvedimento impugnato i ricorrenti deducono: 1) Violazione dell’art. 9 in relazione all’art. 5 della Legge 22 maggio 1978, n. 194, 2) Violazione dell’art. 9 primo e terzo comma in relazione all’obbligo imposto anche al personale obiettore di prescrivere e somministrare “contraccettivi post-coitali”, 3) Violazione di legge, sviamento di potere, violazione dell’art. 2 della legge n. 194/1978; 4) Violazione degli articoli 2, 19 e 21 della Costituzione e 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (divenuta diritto vigente per effetto dell’art. 6 del Trattato di Lisbona). Concludono con istanza cautelare e per l’accoglimento del ricorso.
3. La Regione Lazio si è costituita in giudizio contestando tutte le prospettazioni e rassegnando conclusioni opposte a quelle dei ricorrenti. (…)
6. Il Consiglio di Stato con ordinanza n. 588 del 5 dicembre 2015 ha riformato parzialmente la cautelare con riferimento alla fondatezza del ricorso nella parte in cui contesta il dovere del medico operante presso il Consultorio familiare di attestare, anche se obiettore di coscienza, lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di voler effettuare l’IVG, ai sensi dell’art. 5, comma 4 della legge n. 194 del 1978.
Diritto (..) Con esso la Federazione ricorrente, con l’intervento ad adiuvandum dell’Associazione Giuristi per la Vita e dall’Associazione Pro Vita Onlus, impugna la il D.C.A. del 12 maggio 2014 n. 152 con il quale la Regione Lazio ha dettato la ridefinizione ed il riordino delle attività dei Consultori familiari regionali. In particolare non concordano sulla disposizione relativa all’obiezione di coscienza e del seguente tenore: “In merito all’esercizio dell’obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, che dati recenti pongono al 69,3% in Italia (Relazione Ministeriale sullo Stato di attuazione della legge n. 194/1978…) si ribadisce come questa riguardi l’attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell’interruzione volontaria di gravidanza, di seguito denominata IVG. Al riguardo si sottolinea che il personale operante nel Consultorio Familiare non è coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG.
Per analogo motivo il personale operante nel Consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia routinaria che in fase post coitale, nonché all’applicazione di sistemi contraccettivi meccanici,…”.
2. Premessa una cospicua ricostruzione dei fondamenti umani, giuridici e costituzionali della obiezione di coscienza, della funzione consultoriale e degli effetti della cd. pillola del giorno dopo, con la prima censura rappresentano che nella misura in cui il decreto regionale intenda obbligare gli obiettori di coscienza ad effettuare le procedure per l’aborto di cui all’art. 5 della legge ne viola direttamente le disposizioni dell’art. 9 stante il quale: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione di gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.”. Con una ulteriore doglianza lamentano che la disposizione con la quale il personale operante nel Consultorio è comunque tenuto alla prescrizione dei contraccettivi ormonali anche post coitali, secondo parte ricorrente è comunque adottata in violazione dell’art. 9, commi primo e terzo.
Col terzo mezzo osservano ancora che la funzione consultoriale non è quella di preparare l’interruzione di gravidanza ma di fare il possibile per evitarla. Con l’ultima doglianza parte ricorrente lamenta che col decreto commissariale la Regione pretende di limitare in via amministrativa l’estensione dell’obiezione di coscienza in contrasto col suo carattere di diritto fondamentale.
3.1 Come del tutto correttamente rilevato dalla Regione, col ricorso le parti tentano di rimettere in discussione posizioni abortiste ed antiabortiste che hanno già trovato una loro composizione nella legge n. 194 del 1978 le cui disposizioni sono state confermate più volte dalla Corte Costituzionale in sede di pronunce sulla ammissibilità dei relativi referendum abrogativi: Corte Costituzionale, ordinanza del 10 febbraio 1981, n. 26 e ordinanza del 10 febbraio 1997, n. 35. Ciò premesso nel merito parte ricorrente fonda il ricorso estrapolando la disposizione di cui all’art. 9, comma 1 della legge n. 194 del 1978 e dandole un valore assoluto, avulso dal contesto in cui essa è collocata. In particolare non pare tener conto che se il comma 1 consente al medico o all’operatore sanitario obiettori di coscienza di non prendere parte alle attività di cui ai successivi articoli 5 e 7, il comma 3 del medesimo articolo 9 individua il rapporto tra l’obiezione di coscienza e l’impegno prestato eventualmente dal medico o dall’operatore in un Consultorio: “L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”. E cioè, nella estrema delicatezza dell’argomento trattato, mentre il medico o l’operatore di un Consultorio che abbiano proposto la preventiva dichiarazione di obiezione di coscienza devono essere esonerati dal compimento delle procedure e delle attività volte a dare “specificamente e necessariamente” pratica attuazione all’interruzione di gravidanza, non sono invece esonerati “dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”. Nel caso in specie dunque la disposizione del decreto commissariale impugnato con la quale si è consentito che il medico obiettore di coscienza rilasci il certificato dello stato di gravidanza della donna interessata o ne attesti la volontà di interrompere la gravidanza, comportano adempimento ai doveri professionali implicando quella serie di conoscenze mediche specialistiche che caratterizzano più propriamente la professione medica e non appaiono determinare la compressione della libertà di coscienza, laddove non siano rivolte ad attuare “specificamente e necessariamente” l’interruzione di gravidanza, ma a prestare la necessaria “assistenza antecedente e seguente all’intervento”, posto soprattutto che la decisione relativa alla interruzione della gravidanza pure in presenza di detta certificazione spetta all’interessata che può recedere da tale proposito. Oltre a ciò è pure da osservare che il confine dell’obiezione di coscienza nelle procedure per l’interruzione della gravidanza è costituito dalla individuazione delle fattispecie di cui all’art. 328 c.p. e cioè del reato di omissione o abuso di atti di ufficio, confine che la giurisprudenza sull’argomento individua nell’atto “direttamente ed astrattamente idoneo a produrre l’evento interruttivo” non potendosi dunque risolvere in una “attività preparatoria e fungibile non dotata di rilevanza causale e diretta” all’aborto. Anche di recente la Cassazione penale ha affermato il principio per cui: “Integra il delitto previsto e punito dalla norma di cui all’art. 328 c.p. il rifiuto del medico di guardia, obiettore di coscienza, di intervenire per prestare necessaria assistenza alla degente nella fase successiva all’aborto indotto per via farmacologica da altro sanitario (cd. secondamento), e dunque in una fase non diretta a determinare l’interruzione della gravidanza. Il diritto di obiezione di coscienza, invero, non può intendersi in modo tale da esonerare il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento di interruzione volontaria della gravidanza, in quanto si tratta di interpretazione che non trova alcun appiglio nella disciplina di cui alla legge n. 194 del 1978, la quale prevede che il diritto di obiezione di coscienza trova il suo limite nella tutela della salute della donna.” (Cassazione penale, sezione III, 2 aprile 2013, n. 14979). Risultano chiaramente individuati i termini entro i quali la libertà di coscienza di cui è espressione l’obiezione del medico ginecologo di un consultorio va coniugata col diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione. Sostanzialmente quindi è da escludere che l’attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell’obiettore, trattandosi, per quanto sopra chiarito, di attività meramente preliminari non “legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico” al processo di interruzione della gravidanza secondo quanto dalla giurisprudenza penale anche risalente è pure specificato.
3.2 . Ma non può essere condivisa neanche la seconda censura. Con essa sostanzialmente le ricorrenti e le intervenienti Associazioni fanno valere la illegittimità dell’obbligo dettato dal decreto in parola di prescrivere e somministrare “contraccettivi post coitali” in quanto tale espressione comprenderebbe sicuramente preparati contenenti sostanze idonee a provocare la morte dell’embrione già formato, rendendo inospitale l’endometrio. Anche tale posizione trova la sua contestazione nella giurisprudenza del Giudice delle leggi che nella sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 ha escluso “l’equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”, come sostenuto in un giudizio sulla legittimità costituzionale dell’art. 546 c.p. sul reato, allora ancora esistente, di aborto di donna consenziente. Analogamente in un giudizio di risarcimento del danno derivante da una nascita indesiderata per la mancata corretta diagnosi di accertamento di una malformazione congenita del concepito, la Corte di Cassazione ha rilevato che “nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della donna e il valore (e la tutela) del concepito l’ordinamento consente alla madre di autodeterminarsi ricorrendone le condizioni richieste ex lege a richiedere l’interruzione della gravidanza.” (Cassazione civile, sezione III, 2 ottobre 2012, n. 17754). Ma altri argomenti sulla legittimità dell’attività sanitaria ed assistenziale correlata alla somministrazione della cd. “pillola del giorno dopo” possono trarsi dalla stessa pronuncia addotta da parte ricorrente a sostegno della sua posizione e nella quale il TAR, nel decidere della legittimità di un decreto ministeriale di autorizzazione alla immissione in commercio di uno dei farmaci riportati in ricorso e considerati come abortivi, pur parzialmente accogliendo il ricorso del Movimento per la Vita, ha rilevato che le stesse “norme di rango costituzionale invocate (diritto alla esistenza e alla salute) non recano una nozione certa circa il momento iniziale della vita umana e l’estensione dell’ambito di tutela nel corso del suo sviluppo;” (cfr. Tar Lazio, sezione I, 12 ottobre 2001, n. 8465). Ha specificato ancora il TAR che: “l’esame sistematico della regolamentazione dettata dalla legge n. 194/1978 ….induce a ritenere che il legislatore abbia inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all’annidamento dell’ovulo nell’utero materno. Tale conclusione è avvalorata dall’art. 8 della legge n. 194/1978 che in dettaglio prende in considerazione le modalità interruttive della gravidanza e ne impone l’effettuazione con l’intervento di un medico specialista ed all’interno di strutture ospedaliere o case di cura autorizzate, circostanze non peculiari alle metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all’annidamento dell’ovulo” (TAR Lazio, sez. I n. 8465/2001 cit.).Tale decisione consente pure di rigettare il profilo della censura con cui parte ricorrente fa riferimento a due specifiche specialità medicinali attualmente in commercio che sortirebbero l’effetto di un aborto chimico, poiché non sarebbe possibile escludere che abbiano effetto anche in un momento successivo al concepimento, causando la perdita dell’embrione umano già formatosi, e tanto oltre che per le superiori considerazioni, anche perché l’aspetto di doglianza risulta affidato ad affermazioni apodittiche. Per il resto occorre fare integrale riferimento alle controdeduzioni della Regione Lazio che, al contrario delle prospettazioni di parte ricorrente, sono affidate alle risultanze degli studi della Società Italiana della Contraccezione e della Società Medica Italiana della Contraccezione. Ed appaiono superate pure dalle decisioni assunte dall’AIFA con delibera del 21 aprile 2015 in ordine ad uno dei ridetti farmaci in particolare, del quale l’Agenzia ha modificato il regime di dispensazione, escludendo anche per la c.d. “pillola dei cinque giorni dopo” la necessità di prescrizione medica per le pazienti maggiorenni e mantenendo l’obbligo di prescrizione per le sole pazienti minorenni e tanto sulla base del provvedimento dell’Agenzia Europea dei Medicinali – Ema assunta a sua volta sulla base del parere del Comitato per i medicinali di uso umano (CHMP), con ciò dovendosi ritenere rigettata la doglianza in tutti i suoi aspetti.
3.3 La terza censura con cui i ricorrenti e gli intervenienti fanno valere l’incoerenza dell’operato della Regione che, col provvedimento esaminato, pone ostacoli alla presenza nei consultori degli obiettori di coscienza, quando, invece, la funzione consultoriale è quella di fare tutto il possibile per evitare l’interruzione di gravidanza, introduce nel dibattito un argomento ad esso del tutto estraneo in specie laddove, anche nelle premesse in fatto del ricorso, si rappresenta che la conseguenza pratica del provvedimento sarebbe quella che “il personale medico e sanitario che ritiene l’aborto quale uccisione di un essere umano, che considerano esistente l’essere umano sin dal suo concepimento e che quindi sono obiettori di coscienza sarebbero spinti a non chiedere l’assunzione in un Consultorio familiare pubblico della Regione Lazio e a dimettersi da esso per non violare il dettato della propria coscienza”. Fermo restando che l’argomento introdotto appare proprio deviante rispetto alla rilevante tematica principalmente sollevata col gravame, va osservato che la circostanza che ben il 69,3% dei medici ginecologi in Italia è obiettore di coscienza, secondo quanto pure dal provvedimento esaminato è posto in rilievo, la rende del tutto inattendibile. Specie se poi si considerano le funzioni dei Consultori familiari come sono state disegnate dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 sui Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e stanti i quali sono ad essi attribuite le seguenti attività: “Assistenza sanitaria e socio – sanitaria alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie; educazione alla maternità responsabile e somministrazione e dei mezzi necessari per la procreazione responsabile; tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento, assistenza alle donne in stato di gravidanza; assistenza per l’interruzione volontaria della gravidanza, assistenza ai minori in stato di abbandono o in situazione di disagio, adempimenti per affidamenti ed adozioni”. Secondo quanto sopra osservato in ordine alla funzione di accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio a fini di tutela della salute della donna non pare proprio che tale funzione certificativa, siccome rientrante nelle attività prettamente assistenziali del Consultorio ai sensi della legge istitutiva n. 405 del 29 luglio 1975, costituisca un baluardo insormontabile all’esercizio dell’obiezione di coscienza del medico ginecologo che aspiri a svolgere la professione all’interno di tale struttura. Anzi le attività di attestazione dello stato di gravidanza e di certificazione della richiesta di effettuare l’IVG inoltrata dalla donna, e che, per quanto visto sopra non possono essere considerate direttamente causative dell’interruzione di gravidanza, costituiscono momenti dell’iter da seguire per l’accesso alle pratiche abortive che, con quegli atti non iniziano, potendo la donna discostarsene come sopra considerato, con la conseguenza che la regolare erogazione del servizio di IVG in ogni Regione non può non passare per tale attività consultoriale, che va garantita anche a causa del massiccio ricorso all’obiezione di coscienza nelle strutture ospedaliere deputate all’erogazione della prestazione de qua.
3.4 Non può essere condiviso neppure il quarto motivo di ricorso, secondo cui il decreto regionale appare contrastare pure con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. La problematica ha costituito il panorama nell’ambito del quale il Comitato europeo dei diritti sociali ha adottato la decisione recentemente resa in data 11 aprile 2016 nell’ambito del sistema della Carta sociale europea del Consiglio di Europa.
Il Comitato ha accolto il ricorso proposto da una sigla sindacale italiana nel 2013 ed ha accertato la violazione dell’art. 11 (che protegge il diritto alla salute) letto unitamente all’art. E (che stabilisce il divieto di discriminazione), dell’art. 1 par. 2 primo profilo (che tutela le condizioni di lavoro) e dell’art. 26 par. 2 della Carta (che protegge la dignità sul lavoro). Ancorché il ricorso tendesse a tutelare la posizione della minoranza dei medici italiani non obiettori di coscienza, come applicazione del principio di non discriminazione sul luogo di lavoro, il Comitato ha, fra l’altro, osservato la persistenza di carenze nella fornitura del servizio di aborto in Italia a causa dell’obiezione di coscienza ed ha dunque sottolineato che queste situazioni possono comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne, in contrasto, dunque, con il diritto alla tutela della salute, come garantito dall’art. 11 della Carta sociale europea. E tutto ciò senza pretermettere i precedenti della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno affermato l’obbligo positivo degli Stati di strutturare il servizio sanitario in modo da non limitare in alcun modo le reali possibilità di ottenere l’aborto e per altro verso di assicurare che l’obiezione di coscienza dei medici non impedisca in concreto l’accesso ai servizi abortivi cui le pazienti hanno diritto: CEDU P. e S. v. Portogallo 20 ottobre 2012; CEDU RR v. Polonia 20 novembre 2011; CEDU Tysiac v. Polonia 20 marzo 2007; CEDU A.B.C. c. Irlanda 16 dicembre 2010. A tale scopo è preposta in Italia la legge 22 maggio 1978, n. 194 che dunque appare rispondere ai principi enucleati sulla questione dalla Corte di Giustizia Europea, oltre che ribaditi dal Comitato europeo per i diritti sociali, assicurando da un lato il bilanciamento dei diversi interessi coinvolti nella vicenda, permettendo cioè ad alcuni di astenersi dal proprio ufficio e garantendo però la continuità del servizio cui gli obiettori sarebbero preposti e dall’altro tutelando così il diritto alla salute della donna, bilanciamento cui appare rispondere il provvedimento impugnato anche con riferimento alle più recenti incrementate percentuali di obiezione di coscienza (nel Lazio si giungerebbe ad oltre l’80% di ginecologi obiettori di coscienza), con conseguente reiezione del ricorso in ogni sua censura. (…)
www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/cdsintra/AmministrazionePortale/DocumentViewer/index.html?ddocname=K24W35KNJYQUQMTSQDHZEU77WM&q=obiezione%20or%20di%20or%20coscienza
vedi inoltre Tar Puglia, sentenza n. 3477, 14 settembre 2010
www.olir.it/documenti/index.php?argomento=84&documento=5494
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PENSIONE DI RIVERSIBILITÀ
Criteri di ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato.
Tribunale Roma, sentenza n. 64, 3 agosto 2016.
La ripartizione del trattamento di reversibilità non può ridursi ad un mero calcolo matematico i cui addendi siano costituiti dalla durata dei rispettivi matrimoni delle due parti, ma deve tener conto di ulteriori criteri di valutazione, quali la durata della convivenza prematrimoniale del solo coniuge superstite, stante la parificazione ormai consolidata che assimila la convivenza more uxorio al rapporto matrimoniale, mentre del tutto neutrale è l’eventuale convivenza che abbia preceduto il primo matrimonio, la misura dell’assegno attribuito al coniuge divorziato che non abbia contratto nuovo matrimonio, le complessive condizioni economiche degli aventi diritto, l’età raggiunta e ogni altro elemento utile in relazione alle particolarità del caso concreto
Nel caso in cui il coniuge superstite, dal decesso del coniuge titolare della pensione, abbia percepito integralmente la pensione di reversibilità in parte dovuta anche al coniuge divorziato, spetta all’ente previdenziale l’obbligo di corrispondere al coniuge divorziato gli arretrati, salva la facoltà per l’ente previdenziale di recuperare dal coniuge superstite le somme versate in eccesso.
avv. Francesco Mainetti il caso 3 agosto 2016 http://news.ilcaso.it/news_1450
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
Oristano ospiterà il congresso nazionale dei consultori matrimoniali.
Attesi in città un centinaio di delegati. L’assise durerà tre giorni e vedrà al centro del dibattito la realtà della famiglia in continuo mutamento. Si svolgerà a Oristano il XXIV congresso nazionale dell’Ucipem, l’Unione consultori italiani prematrimoniali e matrimoniali. In programma dal 2 al 4 settembre prossimo, avrà per tema “La famiglia crocevia di relazioni e opportunità”.
Il congresso sarà ospitato nei locali dell’Hotel Mistral 2 e vi prenderanno parte un centinaio di operatori dei consultori familiari della penisola associati con l’Unione. L’assise è organizzata in collaborazione con il Consultorio familiare diocesano di Oristano.
Il tema del congresso mette al centro l’istituto familiare con argomenti che spaziano in diversi ambiti: dalla famiglia intesa come incrocio di differenze, opportunità e cambiamenti; alle nuove famiglie degli immigrati, al rapporto di coppia, senza trascurare l’odierno diritto di famiglia e l’importanza di educare alla generatività le coppie e le famiglie. Sarà l’occasione, inoltre, per soffermarsi su “Amoris Laetitia”, l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco “sull’amore nella famiglia”.
“Il motivo che ci ha indotti a scegliere questo argomento, ha spiegato il presidente dell’Ucipem, Francesco Lanatà, “è determinato dal fatto che la famiglia si sta trovando in una fase storica in cui forse come mai prima d’ora questa istituzione sembra indebolita e messa in crisi”. “Le crisi della famiglia, come quelle dei singoli e della società”, ha aggiunto Lanatà, “possono essere trasformate in occasioni di riflessione costruttiva, rinnovato impegno, crescita e fiducia”. “L’evento metterà a confronto le esperienze degli operatori dei Consultori per offrire un momento di riflessione nella prospettiva di rileggere le differenze tra le persone, nella famiglia come nella società, come una possibilità di arricchimento e di crescita umana”.
Il programma del congresso. Il XXIV congresso nazionale dell’Ucipem sarà aperto dal presidente Francesco Lanatà venerdì 2 settembre alle ore 17 con i saluti rivolti alle autorità e l’introduzione ai lavori. A seguire è prevista la relazione dal titolo “La famiglia che cambia in una società che cambia”, a cura di Giuseppe Anzani, presidente emerito del tribunale di Como. Seguirà il dibattito.
La seconda giornata del Congresso è in calendario per sabato 3 settembre e inizierà alle 9 con la relazione dal titolo “Cercarsi, perdersi, ritrovarsi: il cammino della coppia tra lontananza e vicinanza”, a cura di Beppe Sivelli, psicoterapeuta e docente universitario. A seguire l’intervento dello psicologo e neuropsichiatria infantile Emidio Tribulato, che affronterà l’argomento dal titolo “Figli in difficoltà: tra legami familiari fragili e pressione sociale e mediatica”. I lavori riprenderanno alle 10.15 con la tavola rotonda condotta e coordinata da Luca Proli, psicologo e psicoterapeuta. Sarà poi la volta di Alice Calori, responsabile del Servizio Adozioni dell’Istituto la Casa di Milano che illustrerà un tema di grande attualità dal titolo “Le nuove famiglie immigrate: tra identità e immigrazione”. Atteso anche l’intervento della presidente del Consultorio familiare di Belluno, Rosalisa Sartorel che interverrà su “Il Diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso alle origini nelle adozioni”.
Il nutrito calendario degli appuntamenti proseguirà con il tema ”Educare alla generatività le coppie e le famiglie”, a cura di Domenico Simeone, presidente della Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di ispirazione cristiana. La conclusione dei lavori è prevista per le 12.30. Alle 13 invece, i partecipanti al Congresso partiranno in autobus per il pranzo a San Giovanni di Sinis e la visita a Tharros, con tappa poi, al museo di Cabras per la visita ai giganti di Mont’e Prama.
I lavori riprenderanno domenica 4 settembre con la relazione dal titolo “Amoris Laetitita”: una road map per le relazioni familiari” di padre Alfredo Feretti, direttore del Consultorio La Famiglia di Roma. Seguiranno i lavori di gruppo presentati e coordinati da Maria Grazia Antonioli, direttore del Consultorio Familiare di Cremona. Il Congresso si concluderà alle 12 con i saluti e i ringraziamenti del presidente dell’Ucipem Francesco Lanatà.
L’iniziativa è aperta agli operatori dei consultori, dei servizi sociali e a quelli ospedalieri ma anche a quanti sono interessati alle tematiche sulla famiglia.
Franca Mulas linkOristano 3 agosto 2016
www.linkoristano.it/prima-categoria/2016/08/03/100652/#.V6SlUzWAR0g
La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.
Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84
Programma, scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=399:congresso-ucipem-di-oristano-bozza-del-programma&catid=61&Itemid=203
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UNIONI CIVILI E CONVIVENZE DI FATTO
Il 5 giugno 2016 è entrata in vigore la Legge 20 maggio 2016, n. 76, “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale – Serie generale – n. 118 del 21 maggio 2016.
Si tratta di una norma importante che regola due istituti sociali distinti – Le Unioni civili e le Convivenze di fatto – riguardanti rispettivamente le unioni tra persone dello stesso sesso il primo (commi da 1 a 35) ed i rapporti affettivi tra persone dello stesso sesso o di sessi diversi (commi da 36 a 65).
La legge 76/2016 è già efficace dal 5 giugno per la parte dedicata alle Convivenze di fatto, mentre, per le Unioni civili, per poter dare una prima applicazione concreta, sono stati emanati un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e un decreto del Ministro dell’Interno sulle procedure applicative dello Stato Civile, in vigore dal 29 luglio 2016.
Queste norme temporanee dovranno essere seguite entro il 5 dicembre prossimo da uno o più decreti legislativi che armonizzeranno tutta la legislazione nazionale per consentirne l’applicazione anche alle Unioni civili
L’Unione civile, definita dalla legge come una “specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione, può essere costituita da due persone maggiorenni, dello stesso sesso, mediante una dichiarazione di fronte all’Ufficiale di Stato Civile alla presenza di due testimoni”; impediscono l’unione civile l’esistenza di rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o altra unione civile e gli impedimenti già previsti per il matrimonio dal codice civile. La competenza è dell’Ufficio di Stato civile, che iscrive, registra, annota e certifica le dichiarazioni relative all’Unione civile.
La Convivenza di fatto, invece, è definita come il rapporto tra “due persone maggiorenni (dello stesso sesso o di sessi diversi ndr) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”; la stabile convivenza, dice la legge, viene accertata verificando l’iscrizione i anagrafe nello stesso stato di famiglia. La competenza è dell’Anagrafe, che deve anche registrare e certificare l’eventuale “contratto di convivenza” stipulato dalle parti presso un notaio o avvocato. La legge non ne parla, ma è opportuno che le coppie interessate, in occasione della iscrizione anagrafica, dichiarino, se ricorre il caso, di costituire una convivenza di fatto, anche al fine di opponibilità ai terzi della Convivenza di fatto senza la necessità di dover, in seguito adire le vie giudiziarie per ottenerne l’eventuale riconoscimento.
Queste norme temporanee dovranno essere seguite entro il 5 dicembre prossimo da uno o più decreti legislativi che armonizzeranno tutta la legislazione nazionale per consentirne l’applicazione anche alle Unioni civili.
Trattandosi di formazioni sociali nuove, il cui riconoscimento genererà molti cambiamenti, è opportuno che ne venga approfondita la conoscenza dagli interessati (sia coloro che vorranno utilizzare le nuove possibilità o gli uffici pubblici e privati che dovranno riconoscerle e applicarle) attraverso la lettura della legge e delle disposizioni applicative che interverranno; è naturale infatti aspettarsi un periodo di adattamento delle modalità applicative in seguito agli aggiustamenti che, come sempre in presenza di novità così rilevanti, il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza suggeriranno.
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VIOLENZA
Non commette reato il marito che impedisce alla moglie di lavorare
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 43960, 30 ottobre 2015.
La condotta non può integrare il delitto di maltrattamenti, salvo non vi sia violenza fisica o psicologica. La condotta del marito che impedisce alla moglie di trovare un’occupazione, rendendosi economicamente indipendente, può integrare il reato di maltrattamenti ai sensi dell’art. 572 c.p.? La risposta della giurisprudenza sul tema parrebbe essere negativa. Quella che, prima facie, appare come una violenza economica, potrebbe in realtà essere frutto di una scelta giustificata da scelte organizzative interne della famiglia.
In questi termini si è occupata della faccenda la Corte di Cassazione. La vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte riguardava un uomo, imputato dei delitti di maltrattamenti e lesioni personali aggravate in danno della moglie, che i giudici di merito hanno ritenuto insussistenti. Decisione confermata anche a seguito del ricorso della parte civile: in particolare, per i giudici di legittimità, il comportamento dell’uomo che ha impedito alla persona offesa di essere economicamente indipendente non può ritenersi circostanza tale da integrare una “violenza economica” riconducibile alla fattispecie ex articolo 572 del codice penale.
Detta fattispecie incriminatrice, precisa la Cassazione, richiede che siano provati comportamenti vessatori suscettibili di provocare un vero e proprio stato di prostrazione psico-fisica della persona offesa, mentre le scelte economiche ed organizzative in seno alla famiglia, per quanto non pienamente condivise da entrambi i coniugi, non possono di per sé integrare gli estremi dei maltrattamenti.
Ben diverso è il caso in cui venga provato che tali scelte costituiscono il frutto di comprovati atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica, poiché in quest’ultima situazione ben può essere integrata la fattispecie prevista dal codice penale e il coniuge potrebbe andare incontro ad una contestuale condanna per maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Lucia Izzo Studio Cataldi 7 agosto 2016 Sentenza
www.studiocataldi.it/articoli/22980-cassazione-non-commette-reato-il-marito-che-impedisce-alla-moglie-di-lavorare.asp
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