UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 607 – 24 luglio 2016
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ADDEBITO Il marito diventa testimone di Geova. No all’addebito.
Violazione dei doveri coniugali.
Abbandono della casa coniugale.
Trattare la moglie come una colf è reato.
ADOZIONI INTERNAZIONALI Così cambierà il pianeta adozioni.
AFFIDO ESCLUSIVO Nell’affido esclusivo spese straordinarie decise dall’affidatario, se.
AMORIS LAETITIA La gioia dell’amore e lo sconcerto dei teologi.
ANONIMATO Sì al diritto all’origine se è morta la madre del parto anonimo.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Circostanze sopravvenute.
CHIESA CATTOLICA La speranza della novità cristiana. Un paradiso pieno di sorprese.
Disagio tra vescovi e papa. Come si esprime.
C. A. I. Boschi: a settembre riunirò la Cai.
CONDUTTORI DI GRUPPI di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Cremona. Corso training prenatale.
Padova. Iniziative in preparazione
Pescara. Percorso di conoscenza di se stessi
Rieti. Consultorio familiare sabino: 14 mesi insieme, guardiamoci.
Venezia Mestre. Area benessere: Centro d’ascolto.
DALLA NAVATA 17° Domenica del tempo ordinario – anno C -24 luglio 2016.
La preghiera secondo Gesù. Commento di Enzo Bianchi, priore.
GESTAZIONE PER ALTRI Genitorialità: deriva giurisprudenziale. La madre disconosciuta.
MATRIMONI La verità, vi prego, sul matrimonio. Il direttore Censis.
Il buon esempio dei territori “family friendly”-
NULLITÀ MATRIMONIALI Via libera del Papa.
Nullità del matrimonio arriva la sentenza breve.
OMOGENITORIALITÀ Omogenitorialità e filiazione tra diritto e scienza.
ONLUS Iscrizione anagrafe onlus e successive modifiche
PARLAMENTO Camera. Assemblea Interrogazione: Monitoraggio obiezione di coscienza L. 194\1978.
2°C. Giustizia Indagine attuazione della legislazione adozioni ed affido.
Punire i clienti della prostituzione è il primo passo.
PASTORALE Online corso di educazione affettivo sessuale.
PENSIONE Illegittima la riduzione della reversibilità.
UCIPEM Congresso: La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
UNIONI CIVILI Via libera del Consiglio di stato.
Gli uniti civilmente devono separarsi, prima di sciogliere l’unione?
Prime riflessioni su applicazione in campo penale della L.76/2016.
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ADDEBITO
Il marito diventa testimone di Geova. No all’addebito.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 14728, 19 luglio 2016.
Legittima la scelta dell’uomo di abbandonare la fede cattolica, originariamente condivisa con la consorte e certificata anche dal matrimonio celebrato in chiesa.
studio Sugamele 20 luglio 2016 ordinanza
www.divorzista.org/sentenza.php?id=12231
Violazione dei doveri coniugali.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, sentenza n. 14414, 14 luglio 2016.
Ai fini della pronuncia di addebito, non è sufficiente la sola violazione dei doveri previsti a carico dei coniugi dall’art. 143 c.c., (diritti e doveri reciproci dei coniugi) ma occorre verificare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza
Avv. Renato D’Isa 21 luglio 2016 sentenza
https://renatodisa.com/2016/07/21/corte-di-cassazione-sezione-vi-civile-sentenza-14-luglio-2016-n-14414
Abbandono della casa coniugale.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 11785, 8 giugno 2016.
Niente addebito della separazione a chi lascia la casa poco prima della separazione quando l’altro coniuge lo trascura
Avv. Renato D’Isa 20 luglio 2016 ordinanza
https://renatodisa.com/2016/07/18/corte-di-cassazione-sezione-vi-civile-ordinanza-8-giugno-2016-n-11785
Trattare la moglie come una colf è reato-
Ma se lei non cucina, non stira e sbatte fuori dalla camera da letto il marito può beccarsi una denuncia per maltrattamenti. Il punto della giurisprudenza
Donna = casalinga, un binomio ancora molto diffuso nella cultura nostrana, nonostante i tempi siano cambiati e la parità di genere abbia sdoganato la libertà di essere mogli, madri, lavoratrici e qualunque cosa una donna voglia essere. Tuttavia, come dimostra la giurisprudenza, non di rado la questione è finita direttamente nelle aule di Tribunale, come avvenuto, ad esempio, nella vicenda che ha coinvolto la sesta sezione penale della Suprema Corte di Cassazione (cfr. sentenza n. 24746/2006).
Nella pronuncia citata, gli Ermellini, infatti, hanno precisato che umiliare la moglie obbligandola alle pulizie di casa è reato. Va considerata definitiva, secondo i togati, la condanna che la Corte d’Appello di Torino aveva inflitto ad un uomo per maltrattamenti alla moglie, poiché questi la umiliava e la vessava in tutti i modi, giungendo ad imporle di pulire il pavimento in ginocchio come punizione dell’insufficiente cura che secondo lui la donna dedicava ai lavori domestici. Un comportamento indubbiamente umiliante e vessatorio, tanto da aver costretto la donna, esasperata dal comportamento del coniuge, ad abbandonare il tetto coniugale per tornare dai genitori; una fuga che, secondo i giudici, è sintomo dell’intolleranza della convivenza a causa dell’atteggiamento dell’uomo, corroborato dal fatto che la moglie nel lasciare la casa, insieme al figlio, non si era neppure vestita completamente, né aveva preso con sé denaro.
Ben diversa, invece, la vicenda affrontata di recente dal Tribunale di Latina, che ha raccolto la denuncia di un uomo nei confronti della moglie, accusata di maltrattamenti in famiglia in quanto non avrebbe né cucinato né si sarebbe occupata delle pulizie di casa. Il giudice, in sede di udienza preliminare, ha ritenuto l’accusa fondata e ha rinviato la donna a giudizio per il prossimo 12 ottobre 2016, con il rischio che costei, di sette anni più giovane del marito, potrebbe andare incontro a una condanna da due a sei anni di carcere per non aver badato al consorte come si confà ad una “moglie perfetta”. Sono diversi gli atteggiamenti lamentati dal denunciante: la donna, nel corso degli ultimi due anni, lo avrebbe insultato, sbattuto fuori dalla camera da letto e costretto a vivere in una casa sporca senza neppure preparargli da mangiare e dove, anzi, il cibo acquistato veniva sprecato. Non pago, il coniuge lamenta altresì di non aver avuto sempre le camicie stirate alla perfezione.
Tanto basta per il sostituto procuratore a configurare il reato di maltrattamenti e, pertanto, per il giudice del Tribunale di Latina, deve essere disposto il processo.
Lucia Izzo newsletter studio Cataldi 24 luglio 2016
www.studiocataldi.it/articoli/22870-trattare-la-moglie-come-una-colf-e-reato-.asp
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Così cambierà il pianeta adozioni.
Procedure più snelle, valorizzazione delle buone pratiche esistenti, costi ridotti, tavoli di confronto con le Regioni, riduzione del numero degli Enti autorizzati e, finalmente, convocazione a settembre della Commissione per le adozioni internazionali, la cui ultima riunione plenaria risale al giugno 2014. È l’elenco dei buoni propositi espressi dal Ministro per le riforme e presidente della Commissione per le adozioni internazionali, Elena Boschi, in un’audizione alla Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione e affido.
In un quadro sempre più difficile, con un numero di adozioni internazionali passato dalle 8.274 domande del 2004 alle 3.857 del 2014, in un clima di conflittualità crescente tra Cai e Enti autorizzati, le parole del ministro Boschi avevano lo scopo di ridare fiducia a chi opera nel settore ma, soprattutto, alle famiglie che si sottopongono a lunghe attese con costi spesso molto impegnativi, nella convinzione che la scelta dell’adozione –donare una famiglia a un bambino che ne è privo- conservi un valore umano e sociale di assoluto valore. Il programma tracciato dalla presidente della Commissione internazionale si inserisce nella linea operativa più volte auspicata da enti e associazioni.
«C’ è la necessità non solo di garantire la fase precedente dell’adozione ha sottolineato Boschi ma soprattutto di rafforzare e lavorare molto sul post adozione», perché il percorso di una famiglia non si interrompe quando il bambino arriva in casa, e c’ è sempre bisogno di sostegno e assistenza psicologica. Altrettanto importante il lavoro con le Regioni. Boschi ha ammesso che oggi la situazione italiana è troppo eterogenea. Ci sono Regioni virtuose e altre in cui l’attesa è prolungata: «Non rispettiamo la tempistica prevista dalla legge, andiamo oltre i 6 mesi e mezzo previsti, e su questo dobbiamo intervenire». Da qui la proposta di tavoli di lavoro per condividere le buone pratiche adottive.
Quelle che in questi ultimi 16 anni hanno portato in Italia circa 46mila minori stranieri con una percentuale di fallimenti adottivi che non raggiunge il 4%. Per rendere il sistema più snello ed efficiente è però necessario che la Commissione per le adozioni internazionale, dopo la stasi di questi ultimi due anni, torni a girare a pieno regime. Boschi ha sottolineato la necessità di un «aggiornamento del Dpr che disciplina la Cai, perché le esigenze dopo dieci anni sono cambiate e forse anche il tipo di competenze che possono essere chiamate a contribuire al buon funzionamento» della commissione si sono evolute. Il ministro ha accennato alla possibilità di un rapporto diretto tra la Cai e le famiglie. Ma anche alla riduzione degli Enti autorizzati. «Oggi sono 60. Forse –ha concluso- d’accordo con loro, si possono valutare possibilità di coordinamento e di aggregazione per limitare il frazionamento».
Luciano Moia Avvenire 21 luglio 2016
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Cos-cambier-il-pianeta-adozioni-.aspx
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AFFIDO ESCLUSIVO
Nell’affido esclusivo spese straordinarie decise dall’affidatario
Tribunale di Roma, prima Sezione, Sentenza n. 13182, 21 giugno 2016
Se definite nel divorzio. Nel caso di affido esclusivo con voci di spese straordinarie in favore del figlio previamente specificate dalla sentenza di divorzio, queste ultime possono essere decise solo dall’affidatario senza previo accordo con l’altro genitore. Nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, con cui era stato richiesto il rimborso di tali spese straordinarie, la domanda riconvenzionale dell’opposto/debitore non è stata, inoltre, ammessa.
La sentenza ha specificato come la richiesta formulata nel decreto ingiuntivo per il pagamento delle spese straordinarie non coperte dal servizio sanitario nazionale e per le spese scolastiche trovi la sua ragione d’essere nella sentenza d’appello sulla pronuncia di divorzio che, sostanzialmente, ricalca l’assetto “esclusivo” dell’affidamento del figlio alla madre, già disposto in primo grado, caricando alcuni specifici oneri interamente in capo al padre. Per il Tribunale romano, «dal momento che l’affido monogenitoriale consente al solo affidatario l’esercizio della responsabilità genitoriale sulle questioni maggiormente rilevanti concernenti la salute, l’educazione e l’istruzione della prole, nelle quali sostanzialmente s’iscrivono le spese straordinarie, ne consegue che le decisioni concernenti queste ultime» (salute e scuola) spettino, ove previsto dalla sentenza, in via esclusiva al genitore esercente la responsabilità mono-genitoriale sulla prole, e ciò al fine di non rendere, di fatto, “impossibile” la gestione di ambiti così rilevanti. In altre parole, l’esclusiva facoltà di scelta resta onere e responsabilità del «genitore affidatario, sia in punto di an che di quantum».
La sentenza d’appello, riconosce il giudice dell’opposizione ha specificato come la residua facoltà del padre d’interagire con la madre fosse stata limitata alle sole scelte relative alle spese dei viaggi culturali, «essendo escluse dalla previa concertazione le spese mediche non coperte dal Servizio sanitario nazionale, rientrando invece queste ultime, ovverosia quelle coperte dal Ssn (quali i ticket) necessariamente nel mantenimento ordinario, non essendo – ricorda il giudice – logicamente ipotizzabile attribuire all’onerato le spese già coperte dal Servizio sanitario nazionale». Diversamente si deve ritenere per le spese extra scolastiche, avendo la sentenza espressamente fissato in favore del figlio minore una discrezionalità esclusiva in capo al genitore unico affidatario solo in riferimento «all’effettuazione di esborsi straordinari di natura medica e scolastica per i figli, anche se imprevedibili nell’an e nel quantum».
Nel caso in esame, l’opposizione relativa al fatto che le spese mediche affrontate per il figlio e attivate con il decreto ingiuntivo fossero già state rimborsate dall’assicurazione privata attivata dalla madre, e quindi non ripetibili, è stata correttamente considerata priva di pregio, risultando la copertura assicurativa «negoziata e pagata esclusivamente dalla (madre) senza alcuna contribuzione da parte del marito», circostanza della quale, quindi, non può beneficiare lo stesso così da essere dispensato da un obbligo che era stato posto a suo esclusivo carico dal giudice del divorzio.
Giorgio Vaccaro Il sole 24 ore 25 luglio 2016
www.oua.it/sentenze-nellaffido-esclusivo-spese-straordinarie-decise-dallaffidatario-il-sole-24-ore
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AMORIS LAETITIA
La gioia dell’amore e lo sconcerto dei teologi.
Ricordo di aver visto, molto tempo fa, una vignetta su un giornale francese, credo «L’Aube». Un gran numero di teologi, ciascuno su una collinetta tutta sua, scruta l’orizzonte alla ricerca di Cristo. A valle, dei bambini Gesù invece l’hanno trovato. Lui li ha presi per mano e passeggiano insieme tra i teologi, che non lo riconoscono. I teologi guardano lontano, lui invece è in mezzo a loro.
Mi veniva in mente questa vignetta di tanti anni fa mentre leggevo alcuni commenti su Amoris laetitia e, più in generale, sul pontificato di Papa Francesco. Il sensus fidei del popolo cristiano lo ha immediatamente riconosciuto e seguito. Alcuni sapienti invece fanno fatica a intenderlo, lo criticano, l’oppongono alla tradizione della Chiesa e in modo particolare al suo grande predecessore san Giovanni Paolo II. Sembrano sconcertati per il fatto di non leggere nel suo testo la conferma delle loro teorie e non hanno voglia di uscire dai loro schemi mentali per ascoltare la novità sorprendente del suo messaggio. Il Vangelo è sempre nuovo e sempre antico. Proprio per questo non è mai vecchio.
Tenteremo di leggere la parte più controversa di Amoris laetitia con gli occhi di un bambino. La parte più controversa è quella in cui il Papa dice che, a certe condizioni e in certe circostanze, alcuni divorziati risposati possono ricevere l’eucaristia.
Quando ero bambino ho studiato il catechismo per fare la prima comunione. Era il catechismo di un Papa sicuramente antimodernista: san Pio X. Ricordo che spiegava che per ricevere l’eucaristia bisogna che l’anima sia libera dal peccato mortale. E spiegava anche cosa è un peccato mortale. Perché ci sia un peccato mortale sono necessarie tre condizioni. Ci deve essere una azione cattiva, gravemente contraria alla legge morale: una materia grave. Rapporti sessuali al di fuori del matrimonio sono senza dubbio gravemente contrari alla legge morale. Era così prima di Amoris laetitia, continua a essere così in Amoris laetitia e naturalmente anche dopo Amoris laetitia. Il Papa non ha cambiato la dottrina della Chiesa.
San Pio X ci dice però anche altro. Per un peccato mortale altre due condizioni sono necessarie, oltre la materia grave. È necessario che vi sia piena avvertenza della malvagità dell’atto che si commette. Piena avvertenza significa che il soggetto dev’essere convinto in coscienza della malvagità dell’atto. Se è convinto in coscienza che l’atto non è (gravemente) malvagio l’azione sarà materialmente cattiva ma non potrà essere imputata come un peccato mortale. Inoltre il soggetto deve dare all’azione malvagia il suo deliberato consenso. Questo significa che il peccatore è libero di agire o non agire: è libero di agire in un modo oppure in un altro e non si trova in una condizione di soggezione o di timore che lo obbliga a fare qualcosa che preferirebbe non fare.
Possiamo immaginare circostanze nelle quali una persona divorziata risposata può trovarsi a vivere una situazione di colpa grave senza piena avvertenza e senza deliberato consenso? È stata battezzata ma mai veramente evangelizzata, ha contratto il matrimonio in modo superficiale, poi è stata abbandonata. Si è unita con una persona che l’ha aiutata in momenti difficili, l’ha amata sinceramente, è diventata un buon padre o una buona madre per i figli avuti dal primo matrimonio. Potrebbe proporle di vivere insieme come fratello e sorella, ma che fare se l’altro non accetta? A un certo punto della sua vita tormentata questa persona incontra il fascino della fede, riceve per la prima volta una vera evangelizzazione. Forse il primo matrimonio non è veramente valido, ma non c’è la possibilità di adire un tribunale ecclesiastico o di fornire le prove della invalidità. Non proseguiamo oltre con gli esempi perché non vogliamo entrare in una casistica infinita.
Cosa ci dice in casi del genere Amoris laetitia? Forse sarà bene cominciare con quello che l’esortazione apostolica non dice. Non dice che i divorziati risposati possono tranquillamente ricevere la comunione. Il Papa invita i divorziati risposati a iniziare (o proseguire) un cammino di conversione. Li invita a interrogare la loro coscienza e a farsi aiutare da un direttore spirituale. Li invita ad andare al confessionale a esporre la loro situazione. Invita i penitenti e i confessori a iniziare un percorso di discernimento spirituale. L’esortazione apostolica non dice a che punto di questo percorso essi potranno ricevere l’assoluzione e accostarsi alla eucaristia. Non lo dice perché troppo grande è la varietà delle situazioni e delle circostanze umane.
Il cammino che il Papa propone ai divorziati risposati è esattamente lo stesso che la Chiesa propone a tutti i peccatori: va a confessarti e il tuo confessore, valutate tutte le circostanze, deciderà se darti l’assoluzione e ammetterti all’eucaristia oppure no. Che il penitente viva in una situazione oggettiva di peccato grave è, salvo il caso limite di un matrimonio invalido, sicuro. Che porti la piena responsabilità soggettiva della colpa è invece da vedere. Per questo va a confessarsi.
Alcuni dicono che dicendo queste cose il Papa contraddice la grande battaglia di Giovanni Paolo II contro il soggettivismo nell’etica. A questa battaglia è dedicata l’enciclica Veritatis splendor. Il soggettivismo nell’etica dice che la bontà o la malvagità delle azioni umane dipende dall’intenzione di chi le compie. L’unica cosa di per sé buona al mondo è, per il soggettivismo nell’etica, una buona volontà. Per giudicare l’azione dobbiamo dunque considerare le conseguenze volute da chi la compie. Ogni azione può essere buona o cattiva, secondo questa etica, a seconda delle circostanze che l’accompagnano. Papa Francesco, in perfetta sintonia con il suo grande predecessore, ci dice invece che alcune azioni sono di per se stesse cattive (per esempio, l’adulterio) indipendentemente dalle circostanze che le accompagnano e anche dalle intenzioni di chi le compie. San Giovanni Paolo II non ha mai dubitato, però, che le circostanze influissero sulla valutazione morale di chi compie un’azione, rendendolo più o meno colpevole dell’atto oggettivamente cattivo che commetteva. Nessuna circostanza può rendere buono un atto intrinsecamente cattivo ma le circostanze possono aumentare o diminuire la responsabilità morale di chi lo compie. Di questo appunto ci parla Papa Francesco in Amoris laetitia. Non c’è dunque in Amoris laetitia nessuna etica delle circostanze, ma il classico equilibrio tomista che distingue il giudizio sul fatto dal giudizio su chi lo compie in cui vanno valutate le circostanze attenuanti o esimenti.
Altri critici oppongono direttamente Familiaris consortio (n. 84) ad Amoris laetitia (n. 305, con la famigerata nota 351). San Giovanni Paolo II dice che i divorziati risposati non possono ricevere l’eucaristia e invece Papa Francesco dice che in alcuni casi possono. Se non è una contraddizione questa! Proviamo però a leggere il testo più in profondità. Una volta i divorziati risposati erano scomunicati ed esclusi dalla vita della Chiesa. Con il nuovo Codex iuris canonici e con Familiaris consortio la scomunica viene tolta ed essi vengono incoraggiati a partecipare alla vita della Chiesa e a educare cristianamente i loro figli. Era una decisione straordinariamente coraggiosa che rompeva con una tradizione secolare. Familiaris consortio ci dice però che i divorziati risposati non potranno ricevere i sacramenti. Il motivo è che vivono in una condizione pubblica di peccato e che bisogna evitare di dare scandalo. Questi motivi sono così forti che sembra essere inutile una verifica delle eventuali circostanze attenuanti.
Adesso Papa Francesco ci dice che questa verifica vale la pena farla. La differenza fra Familiaris consortio e Amoris laetitia è tutta qui. Non c’è dubbio che il divorziato risposato sia oggettivamente in una condizione di peccato grave; Papa Francesco non lo riammette alla comunione ma, come tutti i peccatori, alla confessione. Lì racconterà le eventuali circostanze attenuanti e si sentirà dire se e a che condizioni può ricevere l’assoluzione. San Giovanni Paolo II e Papa Francesco certamente non dicono la stessa cosa ma non si contraddicono sulla teologia del matrimonio. Usano invece in modo diverso e in situazioni diverse il potere di sciogliere e di legare che Dio ha affidato al successore di Pietro. Per capire meglio questo punto proviamo a porci la domanda seguente: c’è contraddizione fra i Papi che hanno scomunicato i divorziati risposati e san Giovanni Paolo II che ha tolto la scomunica?
I Papi precedenti hanno sempre saputo che alcuni divorziati risposati potevano essere in grazia di Dio a causa di diverse circostanze attenuanti. Sapevano bene che l’ultimo giudice è solo Dio. Insistevano però sulla scomunica per rafforzare nella coscienza del popolo la verità sulla indissolubilità del matrimonio. Era una strategia pastorale legittima in una società omogenea come quella dei secoli passati. Il divorzio era un fatto eccezionale, divorziati risposati erano pochi, ed escludendo dolorosamente dalla eucaristia anche quelli che in realtà avrebbero potuto riceverla si difendeva la fede del popolo.
Adesso il divorzio è un fenomeno di massa e rischia di trascinare con sé un’apostasia di massa se di fatto i divorziati risposati abbandonano la Chiesa e non danno più un’educazione cristiana ai loro figli. La società non è più omogenea, è diventata liquida. Il numero dei divorziati è molto grande ed è cresciuto ovviamente anche quello di coloro che si trovano in una situazione “irregolare” ma possono essere soggettivamente in grazia di Dio. È necessario sviluppare una nuova strategia pastorale. Per questo i Papi hanno cambiato non la legge di Dio ma le leggi umane che necessariamente l’accompagnano, dato che la Chiesa è una compagnia umana e visibile.
Crea problemi la nuova regola e comporta rischi? Certo. Esiste il rischio che alcuni si accostino in modo sacrilego alla comunione senza essere in stato di grazia? Se lo faranno mangeranno e berranno la loro condanna. Ma la vecchia regola non comportava anch’essa rischi? Non esisteva il rischio che alcuni (o molti) si perdessero perché lasciati privi di un sostegno sacramentale a cui avevano diritto? È compito delle conferenze episcopali dei singoli paesi, di ogni vescovo e in ultima istanza di ogni singolo fedele adottare le misure opportune per massimizzare i benefici di questa linea pastorale e minimizzare i rischi che comporta. La parabola dei talenti ci insegna ad accettare il rischio avendo fiducia nella misericordia.
Rocco Buttiglione, docente difilosofia e storia delle istituzioni europee, Pontificia università lateranense
L’Osservatore Romano 20 luglio 2016.
http://ilsismografo.blogspot.it/2016/07/italia-in-alcuni-commenti.html
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ANONIMATO
Sì al diritto all’origine se è morta la madre del parto anonimo.
Cassazione. Impossibile conoscere la volontà. Ogni figlio ha diritto a conoscere l’identità della madre post mortem in caso di parto anonimo. Così si è espressa la Corte di cassazione con la sentenza numero 15024 depositata ieri, a proposito di una donna adottata che voleva conoscere i dati relativi alla nascita, basandosi su quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale 278/2013.
Il tribunale dei minorenni di Torino aveva accettato in un primo tempo la domanda poi opponendosi una volta avuta la notizia della morte della madre, e quindi dell’impossibilità di interpellarla sulla volontà di mantenere l’anonimato. La Corte d’appello di Torino respinse l’appello. Ora la Cassazione dà ragione alla signora. La richiamata sentenza della Consulta era stata impugnata dal tribunale per i minorenni di Catanzaro a proposito della legittimità del Dlgs 196/2003 – Codice in materia di protezione dei dati personali – nella parte in cui esclude «la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origine senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica». La Consulta riteneva legittimo questo principio voluto per «salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento». Ma riteneva invece illegittima la possibilità di accedere alla cartella clinica solo «cento anni dopo la formazione del documento stesso». Questo il vulnus costituzionale da rimuovere, quest’«irreversibilità del segreto la quale risulta in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione». E come i cento anni anche la morte rientra in questa inaccettabile cristallizzazione della scelta. Per cui la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso nel merito, nella sentenza di ieri ha deciso di autorizzare l’accesso ai dati.
Nel testo della sentenza trovano molto spazio le citazioni delle sentenze Cedu Godelli contro Italia (2012) e Odièvre contro Francia (2002).
Enrico Bronzo il sole 24 0re 22 luglio 2016
www.oua.it/cassazione-si-al-diritto-allorigine-se-e-morta-la-madre-del-parto-anonimo-il-sole-24-ore
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Circostanze sopravvenute
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 14175, 12 luglio 2016.
La libertà di formare una nuova famiglia dopo la separazione o il divorzio costituisce l’espressione di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione e dall’ordinamento sovranazionale e se è vero altresì che la stessa giurisprudenza non riconduce automaticamente alla formazione di un nuovo nucleo familiare l’effetto di determinare una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati precedentemente alla nuova unione familiare è altresì pacifico che la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, determinando la nascita di nuovi obblighi di carattere economico, deve essere valutata come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni stabilite nella separazione o nel divorzio ovvero nel provvedimento del giudice in merito al mantenimento dei figli nati da una unione di fatto
Avv. Renato D’Isa 18 luglio 2016 ordinanza
https://renatodisa.com/2016/07/18/corte-di-cassazione-sezione-vi-civile-ordinanza-12-luglio-2016-n-14175
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CHIESA CATTOLICA
La speranza della novità cristiana. Un paradiso pieno di sorprese
La Chiesa ha come missione quella di essere il segno e la testimonianza di Gesù Cristo nel mondo; ora, questa missione si avvera, se il suo sguardo e il suo desiderio sono incessantemente rivolti anzitutto e totalmente a lui e quindi al Padre. La Chiesa è, senza dubbio, dedita al mondo, ma non lo è perché sottrae un po’ di amore a Dio per riservarlo agli uomini. Al contrario, essa si occupa del mondo e delle sue vicissitudini proprio amando in modo assoluto e con cuore indiviso il Padre, a imitazione di Gesù. A Gesù, il Figlio eterno di Dio, al quale nulla importava più del Padre e nulla aveva più a cuore del compimento fedele e premuroso della volontà del Padre: «Io — egli ha dichiarato — faccio sempre quello che a lui piace».
La vita di Cristo, infatti, è stata tutta un’attenzione e un ascolto di quanto maggiormente piacesse al Padre. Certo, egli ha amato il mondo; anzi, per la salvezza del mondo si è fatto uomo e come salvatore il Padre lo ha donato a noi. Nel Credo diciamo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è incarnato e si è fatto uomo». Mentre nel suo Vangelo Giovanni scrive che «Dio ha tanto amato il mondo, da offrire al mondo il suo Unigenito» (3, 16). Ma questo amore per l’umanità non ha attenuato la totale e assoluta dedizione di Gesù a Dio, né ha diviso il suo amore, riservandone parte a Dio e parte al mondo. Al contrario, amando supremamente e assolutamente il Padre, Gesù ha ritrovato in lui tutti gli uomini come figli di Dio e come fratelli da salvare. Coerenti col modello offerto da lui, quindi a imitazione di lui, i cristiani danno, a loro volta, nel mondo la testimonianza di questo sguardo amoroso e di questa passione unica per il Padre.
D’altronde è quanto illustra e insegna la storia della Chiesa, in particolare la storia dei santi, che nelle loro opere attestano e descrivono l’essenza stessa della vita ecclesiale. Quando si fa la storia della Chiesa, ci si sofferma ai dati che appaiono, diremmo alla fenomenologia dei santi, mentre la storia più autentica sta oltre quello che si percepisce. «Tutta la gloria della figlia del Re, risiede nell’intimo», ricorda il salmista. Da questo profilo dobbiamo riconoscere i limiti inevitabili delle nostre storie della Chiesa. Intanto, solo Dio può conoscere in verità la storia della Chiesa; essa per lo più sfugge ai nostri giudizi e alla nostra possibilità di narrarla. Ed è la ragione per la quale non ci deve premere per nulla che il bene che facciamo sia riconosciuto e propalato. Anzi, è sempre rischioso quando questo avvenga. C’è il rischio che la nostra azione venga sciupata e perda la sua fragranza. Al riguardo mi viene in mente che, quando da ragazzi si coglievano dei fiori per porli dinanzi a una immagine della Madonna, non potevamo odorarli e gustarne prima noi il profumo. I grandi ce lo vietavano, mostrando il senso profondo di quell’omaggio devoto, che doveva essere riservato tutto all’onore e al piacere della Vergine. Credo che una delle sorprese del Paradiso sarà quella di vedere chi sono i santi. E potrebbero essere quelli che non avremmo mai immaginato proprio per il riserbo in cui quella santità era stata avvolta. Si potrebbe ritenere che la vera santità sfugge a quegli stessi che ne sono i portatori, i quali non ne sono affatto coscienti e quindi saranno i primi giunti in Paradiso a meravigliarsene.
La storia della Chiesa, del resto, documenta largamente questa antropologia teologica, questo interesse per gli uomini e per le loro più concrete necessità in santi impegnati nell’adorazione e intensamente dediti alla preghiera. E non sorprende: il loro animo, infatti, si avvicina alla “sensibilità” del Padre celeste, premuroso per i piccoli uccelli dei cielo e per i gigli del campo (cfr. Matteo, 6, 25 ss). Vengono in mente Vincenzo de’ Paoli, il Cottolengo, don Bosco, il Cafasso, don Orione e tanti altri, forse della porta accanto, che donano senza far rumore, come direbbe Manzoni, con «quel tacer pudico, che accetto il don ti fa» (La Pentecoste).
Ma torniamo da dove siamo partiti, per ritrovare il tema dello sguardo della Chiesa e dei cristiani, che, fissandosi su Gesù, si ritrovano insieme e in comunione con lui interessati al mondo: un mondo assunto con lo stesso amore del Signore, che ha amato il mondo non alienandosi dal Padre, ma, al contrario, redimendolo e consacrandolo al Padre, suo “termine fisso” e unificante nella varietà delle vicissitudini terrene. Se così non fosse, la Chiesa perderebbe la sua identità di Corpo di Cristo e di Sposa, da lui amata fino al sacrificio della croce e a lui sempre indissolubilmente unita. E per questo, segno e causa di salvezza per tutti i popoli.
Inos Biffi, teologo L’Osservatore Romano 20 luglio 2016.
http://ilsismografo.blogspot.it/2016/07/italia-la-speranza-della-novita.htmldi
Disagio tra vescovi e papa. Come si esprime.
I nostri vescovi hanno tutte le ragioni di temere il nuovo, il papa fa bene a spingerli ad affrontarlo. La posta in gioco è alta, la situazione è creativa: rispondevo così – nei giorni dell’Assemblea della CEI – a una domanda televisiva sul disagio che da tre anni segna il rapporto tra il nostro episcopato e Bergoglio. Tanti ne parlano, pochi lo indagano. Ci provo, mettendo in ordine gli spunti di conversazioni con vescovi nei miei giri per conferenze. In una precedente puntata di questa rubrica (cf. Regno-att. 6,2016,191s) avevo descritto il «contagio» che gesti, parole e scelte del papa vanno trasmettendo al nostro episcopato e facevo i nomi di chi ha scelto di non risiedere in episcopio, di chi celebra nei giorni feriali per il popolo e tiene l’omelia e così via.
Spinge a muoversi ma dove ci vuole portare? Dal contagio al disagio. Stavolta descrivo il rovescio della medaglia, ma senza fare nomi: l’ho promesso agli interlocutori, ma assicuro chi legge che le parole che metto tra virgolette sono tutte coperte da zucchetti viola.
«Ammiro la sua generosità. C’era in giro tanta demotivazione, il suo arrivo è stato un riscatto psicologico. Ma perché tanta inquietudine, qual è il disegno?» è la domanda che pone un vescovo che, prima di reggere una diocesi, era in Vaticano. Prendendo a prestito parole schiette di padre Lombardi, provo a rispondere che Francesco non ha un disegno organico alternativo da attuare, ma la sua ansia è piuttosto la risposta a una situazione che chiede di mettersi in cammino. Non sa dove si andrà: si affida allo Spirito.
«Rimprovera, spinge a muoversi: ma dove ci vuole portare?» chiede un altro per niente tranquillizzato dalla risposta che tranquillizza me. «Ho l’impressione che abbia un giudizio negativo su noi vescovi e non capisco da dove gli venga. L’Italia è pur sempre lo zoccolo duro della Chiesa cattolica. Perché ci bastona?».
Diversi vescovi insistono sui «rimproveri» del papa. Faccio osservare che Francesco trova ammirevole per tanti aspetti la Chiesa italiana e ogni tanto lo dice ma ritiene che essa – e i vescovi per primi – non avverta l’urgenza epocale di «uscire» con il Vangelo verso l’intera umanità che la circonda. Urgenza che invece è il logo del pontificato. Tutte le sue spinte alla CEI – argomento – sono leggibili nel segno dell’uscita missionaria, come avviamento a essa.
«Ma che vuol dire uscita?» – contro chiede uno degli interlocutori – «È facile dirlo, ma farlo? In una situazione data, nella mia diocesi, che cosa comporta?». Tra i vescovi c’è chi ammira la capacità del papa di porre gesti di misericordia «in uscita», poniamo verso i diseredati, verso i non credenti; ma si chiedono che ne sia di tutto il resto: del catechismo, del Codice, dei seminari, delle parrocchie, delle leggi sempre più lontane dal sentimento cristiano. «Che dire, che fare?». «Ha bloccato il tormentone dei valori non negoziabili ma con che cosa l’ha sostituito?»: la domanda viene da uno che non condivideva il tormentone ma non s’accontenta dell’attuale mezza parola. «Perché è una mezza parola, o no?».
Azzardo che probabilmente il papa ritiene che lo stesso impegno tradizionale di contrasto alla secolarizzazione legislativa in realtà sia stato condotto – e continui a essere condotto – più per esigenze interne, ovvero per assicurare e confermare i praticanti, che per uscita missionaria, ovvero come un momento dell’annuncio cristiano ad extra.
Mi sento mandato allo sbaraglio. Insisto sull’argomento chiave del riequilibrio della predicazione della Chiesa che era sbilanciata sulle implicazioni morali dell’annuncio e che il papa vorrebbe invece incentrata sul kerigma, come ha detto tante volte. Soprattutto sull’andare fuori per portare il Vangelo ai non credenti. Un vescovo mi dice che ascoltando i moniti di Francesco sull’uscita ha l’impressione di essere mandato allo sbaraglio: «È come se il papa gesuita si comportasse nell’Europa del terzo millennio come si comportava il gesuita Matteo Ricci nella Cina del 1600». I più disponibili tra i nostri vescovi ammirano l’audacia apostolica bergogliana ma preferiscono restare al già noto. Sentono la vertigine dell’ignoto.
Ci sono anche «disagi» più puntuali e più puntuti. «Accenna ai padrini di battesimo e cresima, dice che non è giusto escludere chi è in situazione matrimoniale irregolare, ma poi non modifica le regole esistenti e così ci mette in difficoltà di fronte al popolo». «I fedeli continuamente ci obiettano che “il papa ha detto”. Per lo più hanno capito male ma vai a convincerli. Lui fa presto a parlare e purtroppo non tiene conto di noi che siamo in trincea. Sembra che non sia stato vescovo».
«Nell’Amoris laetitia, al paragrafo 300, ha scritto che il discernimento delle situazioni personali va condotto nel dialogo con il confessore “secondo gli insegnamenti della Chiesa e gli orientamenti del vescovo” (cf. Regno-doc. 5,2016,193): li devo dare io – vescovo – questi orientamenti? Non li ha dati il papa, immagino perché non li aveva, e come posso darli io?». «L’ultimo Sinodo gli aveva posto la domanda su quali servizi ecclesiali potessero essere affidati a chi è in situazione matrimoniale irregolare e lui al paragrafo 299, invece di onorare quella richiesta, riaffida la questione a noi, che siamo incalzati dall’attesa della gente».
Quella minaccia di rimuovere i vescovi. «Al paragrafo 122 afferma che “non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa” (cf. Regno-doc. 5,2016,154): la considero un’affermazione imprudente. Facciamo un paragone con il clero: diremo che non si deve gettare sul prete il peso di doversi porre come figura del buon pastore?». «Nella riforma del processo per le nullità ha posto il vescovo come giudice unico e ora vengono da me – povero – come se io potessi affrontare ogni caso: è lei il giudice, l’ha detto il papa. E tutti vogliono il processo breve».
«Quello che interessa ai fedeli è la comunione. Se il discernimento arriva ad autorizzare l’accesso ai sacramenti, del riconoscimento della nullità non importa più». Ampia è la lamentazione sulle nomine. «Non segue la prassi, fa di testa sua. Si capisce che vuole contraddire il carrierismo e le filiere, ma la prassi era un salvagente per evitare errori. Procedendo senza rete che garanzia ha di non sbagliare?». «Si prende una libertà che mette in imbarazzo i collaboratori di curia e i responsabili della CEI. Per tanti è come se fosse venuto meno il rapporto di fiducia». «Non solo bastona preti e vescovi ma ora è arrivato a minacciare la rimozione dei vescovi che non s’adoperano per contrastare la pedofilia del clero. Quest’uscita proprio non l’ho capita: è un terreno delicato, il vescovo è un padre e deve anche trovare il modo d’essere un padre misericordioso, o no?».
C’è il timore che vada troppo oltre. Anche tra i vescovi corrono critiche piccole, accanto a quelle grandi. «Capisco che voglia apparire povero ma portare una veste trasparente che mostra il nero dei pantaloni non è trascuratezza? Quando noi vescovi veniamo nominati ci danno istruzioni severe sull’abbigliamento, di presentarci sempre in ordine, guai! Per il papa non vale?».
«Parla sempre delle periferie: e chi non è in periferia? L’Italia del nord non ha periferie. Quella non conta? È andato in visita solo in piccoli centri e non va mai al Nord. Sono atteggiamenti mortificanti». Ho fatto osservare che questa faccenda delle città non è vera: è andato a Napoli, a Torino, a Firenze. Dunque le grandi città ci sono e c’è anche il Nord. Ma la semplificazione è indicativa del disagio.
«Parla tanto della sinodalità ma poi decide da solo. Dice che bisogna decentrare ma un accentramento personale del governo così forte non si era mai visto». Osservo che è vero e che la contraddizione può essere intesa nel giusto verso: essendo il sistema cattolico tutto incentrato sul papa, è necessario che sia il papa, motu proprio, ad avviare il decentramento.
Molte delle conversazioni delle quali ho dato conto e altre a loro simili sono avvenute tra i due Sinodi, segnate quasi tutte da un qualche o un grande allarme su «come andrà a finire». Non ho riportato quegli allarmi perché non più attuali, ma essi erano significanti il disagio che vado descrivendo. Si trattava per lo più di vescovi simpatizzanti con il papa argentino ma timorosi che andasse troppo oltre e si esponesse al rischio di clamorose contestazioni di cardinali o di sinodali, i quali magari potevano impedirgli di dire il suo grande cuore. Io rassicuravo: il papa sa, è preparato, è abile, non farà passi falsi, le sue intenzioni non sono così aggressive; l’insieme degli episcopati non è lontano dai suoi sentimenti. Verrà autorizzato a fare qualche passo e le novità che infine affermerà troveranno il consenso più ampio.
Non sappiamo discutere e non sopportiamo il conflitto. Esattamente quello che è avvenuto. Ma dando assicurazioni avvertivo la scena surreale nella quale recitavo: un giornalista rassicura un vescovo sul papa, sul Sinodo. In una delle situazioni ero addirittura a tavola con quattro vescovi. Fibrillavano peggio dei colleghi giornalisti. A rassicurare i colleghi mi ci vedo: sono nato per quello. Ma i vescovi come li rassicuro?
Anche oggi, guardando indietro, trovo inverosimili quei timori e mi chiedo come abbiano potuto lievitare tanto. Azzardo una risposta: nella Chiesa non siamo abituati al dibattito. Soprattutto non sopportiamo il conflitto. Esso fu grande e fece scuola in zona conciliare ma i protagonisti di quella stagione sono emeriti da tempo e oggi neanche i vescovi ne hanno una vera memoria. Ma il conflitto è salute. E trovo salutare che ve ne sia, un poco o un tanto, tra i vescovi e il papa.
Luigi Accattoli Il Regno Attualità – n. 10, 15 maggio 2016
www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno;jsessionid=C28264D07F2B88B42208BC9A2CD5333A.jvm1?idArticolo=992975
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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI
Boschi: a settembre riunirò la Cai
Questo l’annuncio della neopresidente della Commissione Adozioni. Dopo l’estate arriverà anche la firma finale di alcune intese bilaterali. Sul tema costi, il ministro ipotizza l’introduzione dell’Isee per i rimborsi. Mentre sul caso Congo «là dove la Cai ha ritenuto ci fossero situazioni da segnalare alle autorità giudiziarie sono state fatte, è una questione che ora attiene non alla Cai ma magistratura».
Il ministro Maria Elena Boschi, presidente della Commissione Adozioni Internazionali, è stata audita in Commissione Giustizia della Camera, nell’ambito della indagine conoscitiva che la Commissione sta svolgendo sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido. Il ministro ha ribadito i dati molto positivi delle adozioni internazionali in Italia, nella storia circa 46mila minori sono diventati cittadini italiani, stanno crescendo insieme a noi: gli Usa hanno visto fra il 2005 e il 2015 una riduzione che supera il 70% delle adozioni, in Italia le coppie che hanno fatto domanda di adozione sono state 3.857 nel 2014, con riduzione progressiva che parte da lontano, costante negli ultimi dieci anni. Sulle procedure di adozione, «sappiamo che il nostro paese ha delle pratiche che sono considerate punto di riferimento» e infatti le adozioni che presentano criticità, «con dati di minori a un nuovo affidamento o in un centro di assistenza o a una nuova esperienza di adozione, i dati ci dicono che sono meno del 4%». Abbiamo però «procedure con tempi molto lunghi anche in fase iniziale, che precede la dichiarazione di adottabilità».
Ha parlato anche di assistenza medica, psicologica, socioeducativa, affermando che «sarebbe opportuno, lavorando congiuntamente con Regioni ed Enti locali, una fase in cui cerchiamo di sostenere maggiormente le famiglie nella fase successiva all’adozione». «È molto importante che anche nell’affrontare scelte di carattere legislativo si tenga presente l’importanza dell’equilibrio fra accelerare le procedure e garantire la tutela dei minori, tutela che attualmente le nostre leggi garantiscono, con valutazioni preliminari magari a volte un po’ faticosi ma che vanno nell’interesse del minore. Quindi occorre cercare di mantenere alto il livello dell’attenzione, salvaguardare il rispetto della legalità e della trasparenza, anche con gli enti autorizzati che sono chiamati a svolgere questo ruolo.
E qui è arrivata la prima notizia: «Ho intenzione di convocare nuovamente la CAI, che non è stata convocata negli ultimi due anni, per riavviare un rapporto periodico con gli enti autorizzati. La mia prima iniziativa da presidente è stato chiedere che venissero individuati i membri della Commissione, perché nel frattempo alcuni componenti sono decaduti o si sono dimessi: mi auguro già a settembre di essere in grado di convocare la Commissione. Salvaguardare la legalità e la trasparenza significa anche affrontando – su singoli casi – iniziative che non competono alla CAI ma agli organi giudiziari affrontare, senza fare sconti rispetto alle responsabilità eventuali ma anche salvaguardando il buon nome che sia gli enti sia il Paese hanno acquisito in questi anni per la propria correttezza e capacità di gestire i rapporti con i Paesi, cercare di ripristinare anche un maggior confronto, collaborazioni, una periodicità del rapporto anche con gli enti».
Il ministro ha parlato della «possibilità di valutare forme di coordinamento e aggregazione, ovviamente più sono gli enti, più è complicata la gestione del rapporto con gli altri Paesi» e indirizzandosi al legislatore ha ricordato che «nel prendere iniziative legislative occorre valutare nel suo insieme il funzionamento della legge sulle adozioni e il regolamento stesso della CAI anche prescindendo da disfunzioni o carenza organizzative che nell’ultimo periodo obiettivamente ci sono state e che tutti vogliamo superare ma cercando di non farsi influenzare dalle difficoltà organizzative che potrebbero essere risolte con un altro tipo di intervento, non legislativo. Pur nella necessità di individuare dei punti miglioramento – sia nei tempi che precedono l’adozione sia un impegno maggiore nel post-adozione, di ripristinare una maggiore collaborazione con EEAA e associazioni che rappresentano le famiglie, cercando di continuare con il lavoro svolto con i Paesi stranieri – credo si debba cercare di salvaguardare il lavoro che il nostro Paese ha saputo svolgere in questi anni, perché abbiamo rappresentato spesso un punto di riferimento molto affidabile e molto credibile».
Diversi gli interventi degli onorevoli presenti. Marisa Nicchi (SEL), Emanuele Scagliusi (M5S), Vanna Iori (Pd) hanno parlato ri-sottolineato la questione costi e disparità di costi fra enti, l’importanza del post-adozioni. Palmieri ha citato l’importanza della scuola (il ministro peraltro ha citato le linee di indirizzo entrate all’interno della legge 107, la Buona Scuola), Rossomando (Pd) ha parlato di “cantiere aperto”, Santerini ha ribadito che la regolarità del funzionamento della CAI è prima garanzia per il buon funzionamento delle adozioni e aggiunto il tema del rapporto con i Paesi di origine. Quasi tutti hanno fatto riferimento al recente caso sollevato dall’Espresso, che riguarda l’operato di AiBi in Congo (AiBi ha annunciato ieri di aver presentato querela per il reato di diffamazione, definendo le pagine di Gatti «un coacervo di menzogne», mentre alcuni enti stanno promuovendo una lettera per chiedere che la Cai «non venga riunita fino a quando non solo non vengono rimosse tutte le incompatibilità ai sensi del Decreto del Presidente del consiglio del 13 marzo 2015 e/o altre che siano state o venissero individuate, ma anche in ragione della necessità di garantire la prosecuzione delle indagini senza che ci possa essere inquinamento delle prove o violazione del segreto istruttorio»).
Ci sono «domande che attengono a casi specifici che è meglio affrontare in altre sedi e non rientrano nell’ambito dell’indagine conoscitiva e che richiederebbero il confronto con la vicepresidente che ha un ruolo operativo», ha premesso il ministro nella replica. E tuttavia ha dato qualche notizia.
Sul tema costi e disomogeneità nei costi ha detto che «la Commissione sta trattando i rimborsi per il 2011 e la vicepresidente si è incaricata di approfondire in modo puntuale le spese documentate, i fondi trasferiti consentono di far fronte a quell’impegno». Per il futuro, «forse si potrebbe immaginare di tener conto dell’Isee delle famiglie, dovendo gestire risorse non illimitate questo può garantirci la possibilità di andare incontro alle famiglie che hanno maggior necessità di un sostegno pubblico».
Il ministro ha anche parlato di «possibili modifiche» al DPR che regolamenta la Cai, che dopo quasi dieci anni necessita di «un aggiornamento, forse anche nelle professionalità e competenze che sono chiamate a dare il loro contributo, ad esempio competenze che possono riguardare anche il tema delle relazioni con i Paesi esteri, con le famiglie, il percorso socioeducativo successivo all’adozione».
Rispetto ai chiarimenti chiesti sul Congo, «ci sono più piani, rapporti internazionali fra Paesi complessi e vicende specifiche su singoli enti. Questo rientra nella attività svolta dalla presidente Della Monica, che là dove ha ritenuto ci fossero situazioni da segnalare alle autorità giudiziarie sono state fatte, è una questione che attiene non alla CAI ma magistratura, noi come soggetto vigilante possiamo segnalare la nostra preoccupazione. Voglio però ricordare che in alcuni casi, dove le famiglie hanno scelto di revocare incarico a un ente, la Commissione si è fatta carico di seguire i minori fino al loro ingresso in Italia. La valutazione puntuale del caso attiene davvero a un soggetto diverso. Credo però importante che non passi – anche a seguito dell’inchiesta giornalistica citata – un concetto generalizzato che porti ad aver sfiducia da parte della famiglie rispetto alle adozioni. Sarebbe un elemento negativo non solo per gli enti coinvolti, è giusto che le responsabilità se ci fossero siano individuali, ma anche verso una possibilità – l’adozione – che va salvaguardata. Non vorrei passasse un messaggio di diffidenza o di generalizzata valutazione negativa delle adozioni».
Un cenno brevissimo è stato fatto anche a intese da tempo pronte per essere chiuse, «situazioni in sospeso con alcuni Paesi, confidiamo dopo l’estate di poterli siglare perché sono realtà importanti che possono consentire a tanti bambini di avere una nuova famiglia in Italia». Sul tema dei rapporti tra enti privati ed enti pubblici, che oggi è uno, «credo che gli enti privati in molti casi abbiano svolto egregiamente il loro lavoro, nessuno vuole fare soppressioni forzate ma stimolare aggregazioni per conseguire economie di scala e maggior efficienza».
Sara De Carli Vita it 20 luglio 2016
www.vita.it/it/article/2016/07/20/boschi-a-settembre-riuniro-la-cai/140218
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CONDUTTORI DI GRUPPI
Conduttore di gruppi di coppie e genitori. I Percorsi di Enrichment Familiare.
Da ottobre 2016 parte la sesta edizione del Corso di Alta Formazione in Università Cattolica a Milano. Il corso, che si rivolge a psicologi, assistenti sociali, educatori, operatori pastorali e giuristi, intende trasmettere un quadro teorico di riferimento utile per realizzare interventi di gruppo rivolti alla famiglia; favorire un confronto e una riflessione sull’esperienza di conduzione di gruppi di coppie e di genitori; acquisire le competenze necessarie per l’utilizzo di strumenti operativi; trasmettere una conoscenza e un’esperienza nell’ambito della progettazione di interventi per la famiglia e la comunità.
Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia
http://apps.unicatt.it/formazione_permanente/milano_scheda_corso.asp?id=9975
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Cremona. Corso training prenatale.
www.ucipemcremona.it/content/corso-prenatale-agostosettembre-2016
Padova. Iniziative in preparazione
Il Consultorio sta organizzando alcune iniziative con le seguenti tematiche
v Vita di coppia (incontri per coppie con progetto di vita a due)
v Nascita e oltre (incontri per neo-genitori)
v Improvvisamente soli (incontri per separati)
www.consultorioucipem.padova.it/index.php/iniziative-formative.html
Pescara. Percorso di conoscenza di se stessi
Alla scoperta di nuove possibilità e relazioni soddisfacenti. Il percorso mira, attraverso l’utilizzo di dinamiche esperienziali, a favorire la capacità di auto-ascolto, l’esplorazione di sé e del proprio mondo interiore, per acquisire maggiore consapevolezza di ciò che siamo.
Obiettivi del percorso
- Facilitare il riconoscimento e la valorizzazione delle proprie risorse e l’accettazione/integrazione dei propri limiti.
- Favorire le relazioni all’interno del gruppo, attraverso stili comunicativi improntati all’autenticità e al rispetto di sé e degli altri.
- Facilitare l’ascolto dei propri bisogni e la comprensione dei propri stili comportamentali.
Il quadro di riferimento teorico-applicativo è basato sul modello della psicologia umanistica e fornisce ai partecipanti griglie di lettura e modalità di intervento integrate, al fine di offrire agli utenti sostegno e aiuto altamente personalizzati, partendo dalle esigenze e dalle caratteristiche di unicità e soggettività di ogni persona.
Il Percorso si articola in 10 moduli di 3 ore ognuno, per complessive 30 ore. Si specifica, inoltre, che:
- non è possibile partecipare in coppia (partner, amici, conoscenti, ecc);
- pur trattandosi di moduli a contenuto differenziato è consigliata la partecipazione per tutta la durata del percorso;
- non verranno accolte nuove richieste di accesso a percorso iniziato.
La metodologia di apprendimento è teorico-esperienziale. Attraverso esercitazioni tecnico-pratiche si vuol favorire lo sviluppo e l’integrazione di abilità comunicative e di ascolto utili a migliorare la relazione con l’altro sia in ambito professionale che personale.
Il 30% delle ore è dedicato alla parte teorica, il 70% alla pratica guidata.
Periodo di inizio attività: i prossimi gruppi ripartiranno a Settembre 2016, il sabato mattina e un feriale serale
Per l’autunno è previsto un Percorso Conoscenza di Sé di secondo livello (SE 2.0), per coloro che hanno già partecipato al primo anno; sempre svolto in 10 moduli di 3 ore ognuno, più una giornata di approfondimento
Referente del progetto: Ivana De Leonardis, consulente familiare
www.ucipempescara.org/percorsi/home/v
Rieti. Consultorio familiare sabino: 14 mesi insieme, guardiamoci allo specchio.
«Sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe» (Madre Teresa di Calcutta)
Fare una sintesi delle attività svolte dal Consultorio aiuta sia a guardare cosa è andato bene che a cogliere ciò che occorre migliorare, aiuta a progettare il futuro con maggiore consapevolezza ed ispirazione ed è anche l’occasione per porsi delle domande, per dare slancio e solidità a prospettive adeguate e significative alla mission del Consultorio. Ecco quindi il senso del presente articolo, un doveroso ripercorrere gli ultimi 14 mesi del Consultorio, per rendere conto a tutti e ciascuno delle attività di una realtà importante e di riferimento per la nostra Diocesi. Le domande chiave e doverose sono quindi: Come Consultorio, dove stiamo andando? Con chi siamo? Che tipo di fisionomia sta assumendo rispetto al nostro territorio? E soprattutto, perché?
Abbiamo iniziato con la politica dei “dei piccoli passi”, credendo fortemente nella presenza irrinunciabile del Consultorio Familiare nel nostro territorio come realtà in grado di garantire sostegno, accompagnamento ed assistenza per tutti e ciascuno, per ogni persona, accolta a partire dal suo valore unico e irripetibile, come unico e irripetibile è il valore di ogni famiglia. Il Consultorio quindi come un punto di riferimento quanto mai necessario, vista la fragilità attuale del tessuto socio-economico e del disagio di cui spesso è esso stesso portavoce. Una sfida che abbiamo accolto con non poca preoccupazione ma con il coraggio della competenza, con l’entusiasmo di chi sa che la cura della relazione con l’altro, non può che essere la chiave di volta di ogni disagio e sofferenza. Ecco il nostro perché, il nostro orizzonte di riferimento. Essere con la gente e tra la gente, concretamente e virtualmente, presentandoci in piazza e nei luoghi della cultura, nelle scuole e nella rete, con la radio e la carta stampata, in video e nella rete, anche quindi con una rubrica proprio su Frontiera. È stata riaperta la segreteria, in modo da garantire agli utenti un primo contatto diretto.
Nel corso dei mesi sono arrivate figure professionali importanti che offrono gratuitamente la loro competenza: un’assistente sociale, un’ostetrica, una pediatra, una fisioterapista, un legale, una psicologa in formazione. Figure queste, che hanno affiancato quelle già tradizionalmente presenti della psicologa-psicoterapeuta e dello psichiatra, attive nell’ambito della consulenza e dell’ascolto.
Una scommessa vinta è stata quella di credere che “insieme si può”, riuscendo a creare una forte collaborazione con altre associazioni di volontariato sul territorio che, senza indugio, ci ha portato a condividere eventi importanti come, ad esempio, la giornata del sollievo, sia nell’edizione 2015 che dell’anno in corso, consapevoli della nostra vocazione ad essere vicino a chi soffre e a coloro che, in modo più specifico, sono toccati dalla malattia. Credere nella forza della rete è certamente la strada maestra alla quale abbiamo guardato con convinzione, realizzando una sorta di “cordata”, come quella che tiene insieme gli scalatori che si impegnano nel raggiungere una cima. Il 24 ottobre 2015 è stato così inaugurato il Progetto “non sei solo” Rieti con 10 associazioni diverse, del quale il Consultorio è promotore, che hanno come obiettivo il servizio, gratuito, alla persona.
I frutti della “cordata” sono ormai noti: “L’albero della solidarietà e della Speranza”, posto in piazza del Comune, è stato addobbato dai pensieri di tanti bambini e giovani, ma anche di diverse riflessioni di adulti che hanno voluto regalare le loro parole di amore e coraggio e che noi abbiamo accolto. Stiamo lavorando perché nel prossimo autunno si possano rendere pubblici questi “pensieri” donati. “Non sei solo”, nei mesi successivi, ha condiviso un prezioso momento di riflessione, reso ancora più intenso dall’apporto di testimonianze di vita, sui temi dell’Alzheimer e della dislessia.
Proprio per queste due tematiche sono stati attivati nella sede del Consultorio, in collaborazione con le associazioni interessate, specifici sportelli di ascolto per l’Alzheimer e per i disturbi specifici dell’apprendimento. I giovani e gli adolescenti sono stati al centro di un importante intervento realizzato nel mondo della scuola, con il progetto dedicato alla “Consapevolezza del sé”. Un percorso attraverso il quale gli studenti sono stati inviati a riflettere su di sé, a verbalizzare i propri vissuti e le proprie difficoltà, su come instaurare relazioni sociali soddisfacenti, a maturare un’immagine positiva di sé e un buon livello di efficacia personale.
Un impegno realizzato grazie al lavoro di 15 counselor provenienti da una qualificata scuola romana, a titolo gratuito, sotto la supervisione dei direttori della medesima, psicologi- psicoterapeuti di comprovata esperienza. Un altro passo lo abbiamo fatti verso i bambini, mediante il programma di lettura a voce alta di narrazioni adatte a loro. Accanto all’iniziale narrazione della fiaba, è partito un laboratorio gruppo-crescita strutturato con attività e giochi, aventi come obiettivo quello di aiutare i piccoli a riconoscere le proprie emozioni nella costruzione di un sé autentico e positivo.
Ultimo e recente passo riguarda l’incontro e la riflessione, condivisa anche con le Istituzioni, di aspetti legati al tema della dipendenza da alcool e sull’importanza, in questo settore, della prevenzione, specie tra i giovani. Insomma, un sentiero che si è via via colorato ed arricchito grazie alla collaborazione preziosa di volontari che danno spazio nella propria vita, al servizio al prossimo con gratuità e responsabilità, condividendo quindi l’esserCI per l’Altro, aspetto qualificante e peculiare del Consultorio che vuole essere presente nel “qui ed ora”.
Il Consultorio quindi come luogo dell’incontro e del sostegno, come possibile “ponte” tra realtà diverse che consente di aprire prospettive e soluzioni utili a chi è nel bisogno, una realtà che intende coltivare e servire, non tradire, quell’umanità così ricca, unica e sorprendente che è in ciascuno di noi. Di fronte c’è l’altro con le sue risorse: è possibile con lui ed in lui restare Umani. Sartre diceva: “l’altro è l’Inferno”. Non è così: per noi l’altro è il Cielo.
Silvia Vari – Presidente Consultorio Familiare Sabino il giornale di Rieti. 22 luglio 2016
www.ilgiornaledirieti.it/leggi_articolo_f2.asp?id_news=43385
Venezia Mestre. Area benessere: Centro d’ascolto.
Il consultorio familiare Ucipem di Mestre e l’Istituto Comprensivo “Giulio Cesare” hanno continuato anche quest’anno il progetto di sportello di ascolto dedicato ai ragazzi della scuola secondaria. Quest’importante iniziativa ci permette di rispondere al bisogno dei ragazzi di aprirsi e di scaricare alcune delle tensioni di un momento della loro vita così denso di cambiamenti, offrendo una possibilità di confronto con un adulto diverso da genitori e insegnanti.
Anche attraverso questi gesti concreti, la nostra scuola dimostra la sua attenzione per i ragazzi ed il suo impegno per garantire un contesto sereno di apprendimento e di vita. Tutto ciò è però reso possibile solo dalla generosa disponibilità e professionalità di Federica Fardin, counselor e conduttrice del centro d’ascolto, e di Gianna Cozzi, coordinatrice dei progetti “Punto d’ascolto” del consultorio Ucipem. A loro un ringraziamento sincero da tutto l’Istituto. http://lnx.scuolagiuliocesare.net
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DALLA NAVATA
XVII Domenica del tempo ordinario – anno C -24 luglio 2016.
Genesi 18, 30 Riprese: dicendo: Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora.
Salmo 138, 01 Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore: hai ascoltato le parole della mia bocca.
Colossesi 02, 12 Con Cristo sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Luca 11, 01 In quel tempo Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.
La preghiera secondo Gesù. Il brano del vangelo di questa domenica è in realtà composto di tre parti: la preghiera di Gesù (vv. 1-4), la parabola dell’amico insistente (vv. 5-8) e infine la sua applicazione (vv. 9-13). Tutto il brano si regge sull’informazione dataci da Luca a proposito degli atteggiamenti di Gesù durante il viaggio verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51). Anche in questo camminare Gesù si fermava, sostava e pregava: i discepoli lo vedevano impegnato in questa azione fatta certamente in un modo che li colpiva e li interrogava.
Proprio alla fine di una di queste soste in preghiera, non sappiamo in quale ora della giornata, se al mattino o alla sera, un discepolo gli chiede di insegnare a tutta la comunità come pregare, sull’esempio di ciò che aveva fatto Giovanni il Battista con quanti lo seguivano. In risposta, Gesù consegna una preghiera breve, essenziale che Luca e Matteo (cf. Mt 6,9-13) ci hanno trasmesso in due versioni. Quella di Luca è più breve, costituita innanzitutto da due domande che hanno un parallelo nella preghiera giudaica del Qaddish: la santificazione del Nome e la venuta del Regno. Seguono poi tre richieste riguardo a ciò che è veramente necessario al discepolo: il dono del pane di cui si ha bisogno ogni giorno, la remissione dei peccati e la liberazione dalla tentazione. Preghiera semplice quella del cristiano, senza troppe parole, ma piena di fiducia in Dio – invocato come Padre – nel suo Nome santo, nel suo Regno che viene. Avendo commentato più volte il “Padre nostro”, vorrei qui sostare piuttosto sui versetti seguenti, quelli che contengono la parabola e la sua applicazione.
Questa parabola è riportata solo da Luca, il quale vuole presentare la preghiera di domanda come preghiera insistente, assidua, che non viene meno ma che sa mostrare davanti a Dio una determinazione e una perseveranza fedele. Gesù intriga gli ascoltatori, li coinvolge e per questo, invece di raccontare una storia in terza persona, li interroga: “Chi di voi…?”. È una parabola che narra ciò che può accadere a ciascuno degli ascoltatori: Chi tra voi, se ha un amico e va a casa sua a mezzanotte e gli dice: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, lo sente rispondere dall’interno: “Non procurarmi molestie! La porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me! Non posso alzarmi per darteli”? Vi dico: anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua insistenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Parabola semplice, che vuole mostrare come l’insistenza di una domanda provochi la risposta anche da parte di chi, pur essendo amico, sulle prime non è disposto a esaudirla. Sì, è l’insistenza (persino noiosa!) dell’amico e non il sentimento dell’amicizia a causare l’esaudimento e il conseguente dono: con la sua ostinata domanda un amico importuno può fare cambiare parere a un altro amico importunato. Proprio perché le cose vanno così, Gesù allora commenta: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
È vero che non si usa esplicitamente il verbo “pregare”, ma è evidente che Gesù si riferisce sempre alla preghiera, proprio in risposta alla domanda iniziale del discepolo. Chiedete – raccomanda Gesù – cioè non abbiate paura di chiedere a Dio che è Padre, chiedete con semplicità, sicuri di essere esauditi da chi vi ama, e chiedete senza stancarvi mai. Si tratta di cercare con la convinzione della necessità della ricerca, con la convinzione che c’è qualcosa che vale la pena di essere cercato, a volte faticosamente, a volte lungamente, ma occorre essere certi che prima o poi si giungerà a trovare. Dove c’è una promessa, si tratta di attendere vigilanti, di cercarne l’esaudimento. Si tratta anche di bussare a una porta: se si bussa, è perché c’è speranza che qualcuno dal di dentro apra e ci accolga, ma a volte occorre bussare ripetutamente.
Di conseguenza, ci poniamo subito la domanda: perché Dio ha bisogno di essere più volte supplicato, perché vuole essere cercato, perché vuole che bussiamo ancora e ancora? Ne ha così bisogno? No, siamo noi che abbiamo bisogno di chiedere, perché siamo dei mendicanti e non vogliamo riconoscerci tali; siamo noi che dobbiamo rinnovare la nostra ricerca di ciò che è veramente necessario; siamo noi che dobbiamo desiderare che ci sia aperta una porta, in modo da poter incontrare chi ci accoglie. Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza.
Ma a questa parabola e al suo primo commento Gesù aggiunge un’altra applicazione, sempre breve e sempre in forma interrogativa: Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà forse una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà forse uno scorpione? O se gli chiede un pane, gli darà forse un sasso (quest’ultima aggiunta è presente solo in una parte della tradizione manoscritta)? Ecco, questo non avviene tra un padre e un figlio, perché il legame di sangue impedisce un simile comportamento paterno, anche in caso di scarso affetto. A maggior ragione – dice Gesù– se questo non avviene tra voi che siete cattivi, eppure sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre che è nel cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono.
Quest’ultima parola di Gesù è stata meditata poco e con poca intelligenza dalla chiesa stessa negli ultimi secoli. Gesù sa, e per questo lo dice con franchezza, che noi umani siamo tutti cattivi (poneroí), perché in noi c’è una pulsione, un istinto a pensare a noi stessi, ad affermare noi stessi, alla philautía, l’amore egoistico di sé. Eppure, anche se questa è la nostra condizione, siamo capaci di azioni buone, almeno nel caso di un rapporto famigliare tra padre e figlio. Ebbene, se noi, pur nella nostra cattiveria, diamo cose buone ai figli che ce le chiedono, quanto più Dio, che “è il solo buono” (agathós: Lc 18,19), darà cose buone a chi gliele chiede! Ma come dimenticare che sovente abbiamo fatto di Dio un padre più cattivo dei nostri padri terreni? Scriveva Voltaire: “Nessuno vorrebbe avere come padre terreno Dio”, ed Engels gli faceva eco: “Quando un uomo conosce un Dio più severo e cattivo di suo padre, allora diventa ateo”. È così, ed è avvenuto così perché la chiesa ha dato un’immagine di Dio come giudice severo, vendicativo e perverso, fino a spingere gli umani ad abbandonare un tale Dio e a negarlo! Gesù invece ci parla di un Dio Padre più buono dei padri di cui abbiamo fatto esperienza, insegnandoci che sempre Dio ci dà cose buone quando lo invochiamo.
Ma in questo brano c’è una precisazione importante e decisiva a proposito della preghiera. Luca si discosta dalla versione di queste parole di Gesù fornita da Matteo, perché sente il bisogno di chiarirle e di spiegarle. Sì, è vero che Dio ci esaudisce con cose buone (cf. Mt 7,11), ma queste non sempre sono quelle da noi giudicate buone. La preghiera non è magia, non è un “affaticare gli dèi” – come scriveva il filosofo pagano Lucrezio (La natura delle cose IV,1239) – o uno stordire Dio a forza di parole moltiplicate, dice altrove Gesù (cf. Mt 6,7-8). Dio non è a nostra disposizione per esaudire i nostri desideri, spesso egoisti ma soprattutto ignoranti, in senso letterale: non sappiamo ciò che vogliamo! Ecco perché – precisa la versione lucana – “le cose buone” sono in realtà “lo Spirito santo”. Sempre Dio ci dà lo Spirito santo, se glielo chiediamo nella preghiera, e lo Spirito che scende nella nostra mente e nel nostro cuore, lui che si unisce al nostro spirito (cf. Rm 8,16), è la risposta di Dio. Ma è bene fare un esempio, a costo di essere brutali. Se io, affetto da una grave malattia, chiedo a Dio la guarigione, non è detto che questa si verifichi effettivamente, ma posso essere certo che Dio mi darà lo Spirito santo, forza e amore per vivere la malattia in un cammino in cui continuare ad amare e ad accettare che gli altri mi amino. Questo è l’esaudimento vero e autentico, questo è ciò di cui abbiamo veramente bisogno!
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10629-la-preghiera-secondo-gesu
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GESTAZIONE PER ALTRI
Genitorialità: deriva giurisprudenziale. La madre disconosciuta.
La Corte di Strasburgo ha condannato la Francia per non avere riconosciuto la paternità di bambini biologicamente figli di uomini francesi che li hanno avuti grazie alla maternità surrogata in India. Non è la prima pronuncia che favorisce, di fatto, la maternità surrogata sostenendo che lo Stato deve rispettare la vita privata delle persone, tutelata dall’art. 8 della Convenzione Europea, secondo l’interpretazione che ne dà la giurisprudenza. Nel 2015, la stessa Corte aveva legittimato il riconoscimento di figli ottenuti con la surroga di maternità, ma che non avevano alcun legame naturale con i genitori (Sent. Paradiso e Campanelli c. Italia).
Nel caso di oggi – dal punto di vista giuridico assai complesso – il dato saliente è che la maternità surrogata è considerata illegale in Francia, e tale illegalità è sostanzialmente superata dalla Corte di Strasburgo, che apre di fatto la strada al riconoscimento generalizzato di una pratica che è rifiutata e contestata da molte leggi nazionali e da movimenti e organizzazioni che chiedono in Europa e nel mondo che essa venga respinta a livello internazionale. Siamo di fronte, in altri termini, a un ulteriore intervento della giurisprudenza europea che tende a negare al legislatore nazionale il diritto di intervenire, valutare, dettare norme, in materie centrali come quelle della trasmissione della vita, e, in questo caso, di tutela della dignità della donna che non può essere utilizzata come strumento, materiale e corporeo, per soddisfare desideri ed esigenze altrui.
Occorre fare attenzione a questo aspetto, perché da esso deriva la perdita quasi generalizzata di sovranità dello Stato in una materia nella quale devono essere contemperati i diritti di diversi soggetti. Non è in discussione, va detto subito, il diritto primario di tutelare i bambini che nascono in situazioni del tutto nuove rispetto al passato, perché i diritti dei minori sono al vertice dei diritti umani, a livello giuridico e sociale. Sono in discussione, però, altri diritti: quello del bambino a conoscere la verità sulla propria origine e nascita biologica, quindi anche il diritto a conoscere la madre; e il diritto della donna, in ogni parte del mondo, di non essere sottoposta a nuove forme di sottomissione, quasi a servizio di coppie che si trovino in condizioni agiate e riescano a sfruttare il suo stato di sudditanza oggettiva (sociale, economica, psicologica) per un rapporto che genera un figlio, che però poi scompare agli occhi della madre, non può avanzare pretese di affetto, di riconoscimento, di tutela.
Ancora una volta colpisce, nella sentenza della Corte, l’assenza di ogni considerazione su questo aspetto cruciale del tema affrontato, quasi che tutto si decida dentro il recinto del rapporto padre-figlio, e del diritto di chi fornisce il seme (padre biologico), ma poi utilizza il corpo altrui per ottenere un risultato che apparterrà a lui, soltanto a lui, cancellando dall’orizzonte la figura e il ruolo della madre. Torna quell’intrico, o viluppo, di ingiustizie, sottomissioni, umiliazioni che la realtà della maternità surrogata presenta agli occhi di tutto il mondo, e che la giurisprudenza dei Paesi ricchi sembra voler ignorare, di fatto legittimandola. E torna proprio in un Paese come la Francia che s’è distinta nei tempi più recenti per la coraggiosa e decisiva battaglia contro la maternità surrogata, organizzata e portata avanti anche da esponenti storiche del femminismo francese, come Sylviane Agacinski, e da personalità di diversa fede e idealità, come Rivka Weinberg, che sottolineano con insistenza lo scandalo di questa pratica perché «compromette la dignità della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come merce».
Anche importanti documenti di istituzioni collegate al Parlamento europeo, più volte ricordati su “Avvenire”, hanno interpretato e censurato la maternità surrogata come una pratica che umilia la donna e riduce la sua funzione materna a una logica commerciale e a strumento di altri.
La sentenza di Strasburgo, infine, pone un problema urgente ai legislatori nazionali, che è quello di impegnarsi per affrontare, in tutti i suoi aspetti una tematica nella quale convergono elementi antropologici e sociali decisivi: il diritto dei minori a conoscere padre e madre, a formarsi e crescere fruendo di una vera doppia genitorialità. E la tutela della dignità della donna, che non può essere ridotta a strumento passivo proprio sul tema della maternità, di cui dovrebbe essere protagonista attiva e felice, anziché strumento da usare e poi abbandonare da parte di uomini, o coppie, che tutto decidono sulla base del proprio ‘io’, dell’affermazione dell’esclusiva volontà individuale.
Sentenze come quella di Strasburgo, oltre a ignorare i diritti essenziali dei minori e della donna, sono frutti dell’oblio di una cultura umanistica che fa del diritto lo strumento per elevare la società, e difendere i diritti di tutti, anziché favorire il diritto del più forte. Non c’è tema come quello della famiglia, e delle nuove generazioni, che richieda una attenzione massima al profilo inter-relazionale tra bambino, padre e madre, alla realtà comunitaria domestica che rifugge dall’individualismo estremo, mentre chiede partecipazione, tutela della dignità di ciascuno, sensibilità massima per la crescita dei minori, i quali attendono tutto dagli adulti, anzitutto padre e madre, perché non hanno ancora niente di proprio.
Carlo Cardia Avvenire 22 luglio 2016
www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LA-MADRE-DISCONOSCIUTA-.aspx
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MATRIMONI
vedi newsUCIPEM n. 10 luglio 2016 pag.17
La verità, vi prego, sul matrimonio. Il direttore Censis e la provocazione sulle «nozze zero».
Siamo davvero destinati a diventare una società a matrimoni zero? Di qui ai prossimi anni, le nozze in Chiesa saranno solo un ricordo e le relazioni sentimentali saranno più fragili perché vissute senza sposarsi? E questa tendenza costituisce una minaccia al ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto nello sviluppo sociale del Paese? Parafrasando W.H. Auden: la verità, vi prego, sul matrimonio.
Lo studio del Censis diffuso in questi giorni analizza, in effetti, una crisi dell’istituto matrimoniale che appare epocale per gli sposalizi celebrati con rito religioso e in forte accelerazione anche per quelli civili. Nel 1974 nel nostro Paese i matrimoni erano stati 403mila, nel 2014 si sono ridotti a meno di 190mila (53%).
I matrimoni religiosi, in particolare, sono stati 108mila nell’ultimo anno, il 54% in meno rispetto a vent’anni fa, il 71% in meno dal 1974. Oggi le nozze in Chiesa costituiscono il 57% di tutti i matrimoni celebrati, vent’anni fa erano l’81%, il 92% quarant’anni fa. Con la crisi, poi, anche gli sposalizi in municipio hanno smesso di aumentare ai ritmi dei decenni passati, quando la laicizzazione del matrimonio aveva svolto una funzione di relativa compensazione, frenando il calo generale. Se il trend registrato negli ultimi vent’anni rimanesse costante in futuro, verosimilmente il 2020 sarebbe l’anno del sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi e il 2031 l’anno in cui non si celebrerebbero più matrimoni in chiesa, ha stimato il Censis sulla base delle proiezioni statistiche. Le previsioni possono suonare come un puro esercizio teorico, ma servono a mettere il dito nella piaga. Perché ogni proiezione dice molto sull’assunto su cui si basa, cioè sui fenomeni sociali che abbiamo alle spalle. Sarebbe limitativo ricondurre la crisi dell’istituto matrimoniale, che viene da molto lontano, alla deresponsabilizzazione affettiva delle giovani generazioni di oggi. Non siamo alla Tinder generation (dal nome del sito di appuntamenti), né all’apologia del dating, degli incontri mordi e fuggi, anche se tra i giovani appare innegabile una erosione della capacità progettuale di lungo periodo che dovrebbe essere associata alla scelta matrimoniale (non a caso, nel tempo aumentano i nuclei familiari unipersonali, cioè i single).
La verità è che il matrimonio ha smesso di essere il baricentro delle esistenze delle persone e della vita sociale. Coinvolge meno i giovani perché non è più una ragione primaria di uscita dalla famiglia d’origine; precede sempre meno l’esperienza della genitorialità; non funziona più come meccanismo di ascensione sociale per le donne. Rispetto al passato, infatti, ci si sposa sempre di più tra persone della stessa età e dello stesso status socioeconomico. Cenerentola oggi avrebbe poche chance di incontrare il suo Principe azzurro. A un’analisi più avveduta non sfugge che quanto è successo dagli anni ’70 in poi testimonia la vittoria del soggettivismo, che ha segnato fortemente la parabola di evoluzione della società italiana negli ultimi decenni. È un lungo corso di affermazione del primato dell’individuo che vuole decidere autonomamente sulle questioni centrali della sua esistenza, in cui si inscrivono anche i risultati dei referendum degli anni ’70 sul divorzio e sull’aborto, fino a contemplare la possibilità l’altra faccia della crisi del matrimonio di vivere l’autenticità della propria relazione affettiva attraverso un libero patto d’amore al di fuori della cornice formale dell’istituto matrimoniale, religioso o civile. Si invertirà la tendenza? Non saranno certo sufficienti eventuali incentivi economici per riportare il matrimonio al centro della nostra società. Così come non sarà un bonus bebè a fermare la denatalità che affligge il Paese. Perché, nell’epoca della disintermediazione (politica e sociale), la crisi del matrimonio va letta come il riflesso di una più generale tendenza a disconoscere l’autorità che c’è dietro quell’istituto statuale o sacramentale che sia. Ecco perché la fuga dai matrimoni benedetti dal sacerdote come le stesse culle vuote ci riportano a quella solitudine esistenziale di individui che protetti sempre meno dai sistemi di welfare pubblici e sempre meno capaci di elaborare il mistero e la fiducia come la fede richiede non rischiano più, consapevoli che ogni azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali. E questo vale anche, se non soprattutto, quando si tratta di sposarsi e mettere al mondo un figlio. Gli anni venturi ci diranno se sapremo ritrovare una nuova cultura del rischio, che significherà ritrovare un modo diverso di stare insieme.
Massimiliano Valerii direttore generale del Censis Avvenire 19 luglio 2016
www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LA-VERIT-VI-PREGO-SUL-MATRIMONIO-.aspx
La svolta può arrivare da scelte controcorrente. Il buon esempio dei territori “family friendly”.
Nel cuore della grande emergenza educativa c’ è un problema ancora Più vasto e profondo, che la comprende e la ingloba. E che, neppure tanto paradossalmente, ne sarebbe la soluzione radicale. Perché se si vuole davvero invertire il disagio educativo che inquina tanti rapporti pubblici e privati e determina situazioni acute di malessere sociale, non c’ è che una strada. Quella di ridare fiato a un’idea di matrimonio come motore pulsante della famiglia, architrave della società, grammatica di virtù che si irradiano dalla realtà domestica e diventano patrimonio civile. L’ equazione che dovremmo riproporre con forza, non si presta a equivoci. Ha l’immediatezza di uno slogan e la forza della verità: più matrimonio, più famiglia, più benessere sociale. Quanto più i giovani e meno giovani vengono aiutati a comprendere che il matrimonio è la via preferenziale per il raggiungimento della massima felicità possibile, quanto più le famiglie vengono poste nelle condizioni migliori per svolgere al meglio i propri compiti, tanto più si costruisce un futuro migliore per tutti, con comunità più vivibili perché più accoglienti, sorridenti e solidali.
Non si tratta di un’utopia, perché laddove, come in alcune aree del Trentino, si è avuto il coraggio di costruire una società quanto più ‘family friendly’ possibile, si è visto un aumento della natalità e un rallentamento della conflittualità familiare. Ma non solo, sostenere le reti familiari a livello locale, si è tradotto in un beneficio per quelle aziende che hanno adottato protocolli integrati per la promozione del benessere familiare. In questo modo sono diminuite le ore di malattia ed è aumentata la produttività dei dipendenti. Nessuna ricetta magica, ma una serie di buone pratiche come tariffe agevolate per le famiglie numerose, progetti di conciliazione famiglia-lavoro, aiuti per le mamme lavoratrici, redditi di garanzia con prestiti agevolati per le giovani coppie. Per risultare vincenti questi progetti devono però essere costanti nel tempo.
Quando la politica ha il coraggio e il buonsenso di abbandonare i conflitti ideologici per mettere al centro la bellezza e la bontà del ‘far famiglia’, si scopre che gli effetti, dall’ Italia alla Germania, dalla Finlandia all’ Australia come dimostrano le ricerche più attente vanno tutti nelle stessa direzione: alla radice del bene comune si può essere solo la valorizzazione della famiglia come soggetto sociale. E quindi il matrimonio come struttura portante, irrinunciabile e insostituibile della famiglia stessa. La grande rivoluzione culturale per rifondare la verità delle relazioni che la Chiesa da parte sua ha avviato con l’Esortazione postsinodale Amoris laetitia deve iniziare da qui. Rimettere il matrimonio tra uomo e donna in un circuito virtuoso in cui educazione e scelte politiche riescano a offrire proposte armoniche e non dissonanti. Capaci da un lato di debellare offerte devianti come le false suggestioni del relativismo affettivo o le teorie del gender dall’altro di confermare i giovani nel loro desiderio di affetti stabili e duraturi. La svolta è possibile. Non smettiamo di crederci.
Luciano Moia Avvenire 19 luglio 2016
www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LA-SVOLTA-PU-ARRIVARE-DA-SCELTE-CONTROCORRENTE-.aspx
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NULLITÀ MATRIMONIALI
Via libera del Papa.
Nulla, forse, come l’accertamento della validità di un matrimonio naufragato nei marosi dell’incomprensione e della fragilità, richiede di conciliare l’esigenza della misericordia con quella della giustizia. Da questa difficoltà oggettiva deriva l’estrema complessità dell’operazione avviata da papa Francesco nel settembre 2015 scorso, prima del Sinodo sulla famiglia, con la pubblicazione del Motu proprio finalizzato a snellire e semplificare l’accertamento della nullità matrimoniale. Un lungo iter, passato poi attraverso un “Rescritto” (7-11 dicembre 2015), un sussidio applicativo a cura del Tribunale apostolico della Rota Romana, e approdato infine a un Tavolo di lavoro voluto dal Papa, coordinato dal segretario generale della Cei, il vescovo Nunzio Galantino, a cui hanno preso parte il cardinale Dominique Mamberti, prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura apostolica; il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, e monsignor Pio Vito, decano della Rota Romana.
http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/12/11/0981/02193.html
Un percorso impegnativo ma con un esito del tutto soddisfacente, sancito l’altro ieri, giovedì, dall’incontro in cui monsignor Galantino ha sottoposto al Papa, per l’approvazione definitiva, i risultati del “Tavolo”. «L’impegno della Segreteria generale ha incontrato la disponibilità a collaborare dei principali responsabili della Santa Sede in ambito giuridico: il risultato è lusinghiero, sia sotto il profilo del metodo che delle soluzioni condivise». Non nasconde la sua soddisfazione, Galantino, nel commentare il percorso arrivato al traguardo.
L’intuizione del Santo Padre era nata per rispondere alle esigenze di chiarezza interpretativa e applicativa manifestate dai vescovi italiani in merito alla riforma del processo matrimoniale. «Il nostro episcopato ha manifestato fin da subito, in maniera convinta, piena disponibilità ad aderire e a dare attuazione alle indicazione del Papa», osserva il vescovo Galantino. Ma la buona volontà è stata messa alla prova da una serie di problemi oggettivi. «Le questioni sono sorte proprio quando – spiega ancora il segretario generale della Cei – ci si è misurati sul campo con una storia importante e con strutture consolidate, rispetto alle quali le domande giunte alla Segreteria miravano a capire come valorizzarle e farle evolvere, in fedeltà alla riforma». Da qui la decisione di papa Francesco che lo scorso 1 giugno2016, proprio all’indomani dell’Assemblea generale della Cei, ha deciso di istituire il Tavolo di lavoro.
L’assemblea – fa notare il Segretario generale Cei – è stato «momento fecondo di comunione spirituale e di fraterno dialogo», durante il quale ha trovato «particolare rilievo» il tema della riforma del processo matrimoniale. Istituito il “Tavolo”, il Papa ne ha affidato la responsabilità al segretario generale della Cei, affinché questi – «avvalendosi del supporto del prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, del decano del Tribunale della Rota Romana e del presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi – possa svolgere al meglio il proprio servizio di coordinamento, confidando nella mia paterna sollecitudine». In virtù di questo mandato, Galantino ha convocato il “Tavolo” mercoledì 6 luglio 2016 e ha sottoposto ai collaboratori del Papa le domande giunte alla Segreteria generale dalle diocesi. Cinque, in estrema sintesi, gli ambiti delle questioni poste: le modalità procedurali per la costituzione dei tribunali diocesani; il ruolo della Conferenza episcopale italiana nella costituzione dei tribunali d’appello; la condizione giuridica dei tribunali; alcuni aspetti inerenti all’organizzazione e alla gestione amministrativa dei tribunali; infine, problematiche collegate all’introduzione di un processo più breve, nei casi in cui la nullità è evidente e con il vescovo diocesano che giudica.
Il positivo clima di dialogo ha consentito di raggiungere un accordo sulla maggior parte delle questioni. Il giorno successivo papa Francesco ha ricevuto in udienza monsignor Galantino, gli ha sottoposto i risultati e ne raccolto ulteriori indicazioni. «Il testo finale, che abbiamo inviato a tutti i vescovi italiani e pubblicato sul portale della Conferenza episcopale – conclude il presule – ha ricevuto l’altro ieri l’esplicita approvazione di papa Francesco, che ha apprezzato sia le soluzioni individuate, sia il metodo sperimentato, tanto da far ritenere opportuno che il “Tavolo” rimanga aperto per rispondere a eventuali nuove domande dei nostri vescovi».
vedi 19\20 luglio 2016
www.chiesacattolica.it/chiesa_cattolica_italiana/news_e_mediacenter/00008338_Archivio_News.html
Luciano Moia Avvenire 23 luglio 2016
www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/Nullit-matrimoniali-via-libera-del-Papa-.aspx
Nullità del matrimonio arriva la sentenza breve.
Con la pubblicazione della sentenza emanata dall’ Arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, si è concluso in Emilia Romagna il primo processo più breve per la dichiarazione di nullità di un matrimonio secondo le procedure riformate da Papa Francesco. Il «libello», cioè la richiesta di avviare un processo davanti al Tribunale Ecclesiastico Regionale Flaminio, competente per le diocesi di Bologna e Romagna, era stato depositato il 18 marzo 2016; in 4 mesi e due giorni la conclusione del procedimento. «Si è così raggiunto uno degli obiettivi, fortemente voluti da Papa Francesco, di abbreviare i tempi dei processi per venire incontro alle attese delle persone ferite dal fallimento della loro esperienza matrimoniale», spiega la Curia.
La procedura continua a fare riferimento «all’ immutata dottrina sulla indissolubilità del matrimonio, perché solo quando si raggiunga la prova della nullità attraverso un regolare processo, si può emettere la sentenza». Oltre la celerità dei tempi, la riforma voluta dal Pontefice argentino, porta il Tribunale Ecclesiastico ad andare incontro alle persone perché gli interrogatori si svolgono presso le Curie del territorio di domicilio dei richiedenti.
Questo primo esempio, spiega la nota della Curia bolognese, ha dimostrato la praticabilità e l’efficacia della riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, entrata in vigore lo scorso 8 dicembre2015, «offrendo un ulteriore servizio alla verità del matrimonio e al bene della famiglia».
Valeria Arnaldi Il messaggero 22 luglio 2016
www.forumfamiglie.org/rassegna.php
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OMOGENITORIALITÀ
Omogenitorialità e filiazione tra diritto e scienza.
1. Omogenitorialità e filiazione: due concetti in divenire. Il recente dibattito sull’introduzione della adozione successiva (cd. stepchild adoption) riservata alle coppie omosessuali in Italia, porta alla ribalta il tema dell’omogenitorialità e della fonte della sua legittimazione. Il concetto di omogenitorialità è un neologismo inventato nel 1997 in Francia dall’Association des Parents et future parents Gays et Lesbiens, per descrivere «tutte quelle situazioni familiari in cui (almeno) un adulto, che si designa come omosessuale, è genitore di (almeno) un bambino»; una nozione sfuggevole, un teatro d’ombre e spesso di false sembianze che coinvolge problemi giuridici, umani, psicologici, politici ma che non corrisponde ad alcun istituto o nozione giuridica ben precisa. Nonostante questo, già da molti anni, con l’istituzione della possibilità di un’unione formale per le coppie formate da persone dello stesso sesso, alcune società hanno iniziato un processo di riconoscimento di questa struttura familiare, compiendo una vera e propria rivoluzione simbolica nel diritto di famiglia. Ma tale traguardo non è che una manifestazione di un lungo processo che ha portato, nel corso del tempo, ad una ridefinizione del concetto di “coppia”, di “procreazione” e soprattutto di “filiazione”. È nella separazione del concetto di coppia da quello di procreazione e la sua collocazione nell’alveo della dimensione scelta individuale e della conseguente dimensione sentimentale che può inquadrarsi l’inizio di questo cambiamento, grazie al quale la possibilità di avere o di allevare un bambino è, ormai da tempo, considerata come un aspetto eventuale, se non marginale, del rapporto coniugale eterosessuale. Allo stesso modo anche il legame che unisce un figlio ai genitori si separa dal semplice legame biologico, cioè dalla procreazione. Ma se è perfino banale sostenere che ogni figlio ha un padre e una madre agli occhi della legge, nella pratica, esistono, anche in coppie eterosessuali, molte situazioni di confine che alterano l’unicità di questa visione. Quando si parla di filiazione infatti ci si riferisce ad una pluralità di modelli: innanzitutto alla procreazione naturale (che è un evento tutt’altro che infrequente nella casistica delle famiglie omogenitoriali); in secondo luogo all’adozione, che può essere del singolo o congiunta; in terzo luogo alle tecniche di riproduzione assistita, che possono essere omologhe o eterologhe e quindi, in questo secondo caso, necessitano dell’utilizzo di una surrogazione genetica o strumentale (a seconda che sia donato l’ovulo, lo sperma o l’utero). A fronte di queste modalità fluide e molteplici di diventare genitori da parte di persone omosessuali, ci sono altrettante modalità di essere figli che impongono, a loro volta, tutta una serie di domande. Quale rapporto tra adozione e filiazione? Quali risvolti giuridici, sociali e psicologici porterebbe con sé il concetto di maternità surrogata? Di quali diritti è titolare il figlio prima ancora della sua nascita pianificata in un tale nucleo sociale? Ma – più importante di tutte – ci sono conseguenze nello sviluppo del minore dal suo essere cresciuto in famiglie cd. omosessuali? A quest’ultimo quesito (che in realtà è il primo dato che riguarda il cd. best interest of the child) cerca dare una risposta la prima parte questo scritto, presentando una rassegna delle più importanti teorie e ricerche sperimentali condotte sul tema della filiazione omosessuale e analizzando le modalità attraverso cui la scienza ha permeato (o meno) le più importanti decisioni di legislatori e giudici in alcuni rappresentativi Paesi negli ultimi anni. In un tempo dove la filiazione non è più esclusivamente sessuata, l’unico limite oggettivo alla concessione dell’adozione per le coppie omosessuali sembra essere ormai solo la valutazione dell’“impatto sul minore” che tanto nel dibattito sociale quanto in quello scientifico, divide i sostenitori dei “genitori sociali” dai “genitori biologici”, cioè coloro che sostengono la “volontà” e coloro che parteggiano per la “natura”.
2. La scienza applicata al nostro campo di indagine: varietà di metodi e di risultati. Ruolo essenziale nel rispondere a queste domande lo riveste la scienza. Ma a cosa ci si riferisce precisamente, nel campo della filiazione omosessuale, quando si parla di scienza? Ci si riferisce al sapere speculativo adottato da alcune branche delle scienze sociologiche e neuro-psicologiche (tra quest’ultime, fondamentalmente, la psicologia comportamentale, sociale e dell’età evolutiva). Nel campo della psicologia si distinguono due tipi di approcci: quello teorico e quello empirico sul campo. Il primo, costituito dalle “teorie” o “tesi”, consiste in un’indagine psicanalitica legata ad metodi psicoterapeutici di cura e non raramente connessa a teorie antropologiche se non addirittura filosofiche. Il secondo approccio è quello delle “ricerche” che, oltre a trattare una varietà di aspetti della persona, utilizzano diversi metodi di indagine (conduzione di esperimenti, la raccolta di dati sul campo o confronto statistico di quest’ultimi) per giungere ad una più possibile oggettiva conoscenza dei comportamenti umani su basi scientifiche. Gli approcci psicoterapeutici sono più deboli rispetto a quelli di ricerca, perché sono successivi (vengono cioè in essere quando c’è già una patologia o una disfunzione e il paziente chiede di farsi curare) e perché comunque sono indissolubilmente legati alla dimensione del vissuto (è difficile trasformare il vissuto in variabili e farne un disegno statistico) e per questo, non appena gli studi empirici hanno raggiunto un numero e un grado di affidabilità significativo, si sono imposti sulle teorie diventando il modello di riferimento per legislatori e giudici. Gli ultimi due decenni, in particolare, sono stati caratterizzati da un aumento delle attenzioni nei confronti di questi studi (teorie e ricerche) da arte dei Tribunali e degli organi parlamentari che vi hanno attinto per valutare il grado di tutela del superiore bene del figlio nelle coppie omosessuali. Ma a dispetto dell’esigenza di pervenire ad una conoscenza il più possibile obiettiva ed “uniformata”, l’aumento del numero delle indagini non ha portato a risposte univoche. Vero è che la varietà delle risposte è legata alla varietà delle metodologie utilizzate e ciò influisce sui modi attraverso i quali la tecnica si traduce in diritto, tanto che alcuni risultati sono considerati da parte della dottrina addirittura «immaturi, di parte e inaffidabili». Accuse di imperfezioni metodologiche, quali l’assenza di gruppi di controllo e di comparazione, come si vedrà, sono state oggetto di fuoco incrociato tra le varie correnti di pensiero ed hanno un fondo di verità, dato che le scienze sociali restano il campo delle “scienze bio-umane” più controverso e non immune da una certa faziosità da parte dei loro sostenitori, scienziati o giuristi che siano. Anche se la ricognizione esula dal campo di indagine prettamente costituzionalisti, ritengo opportuno inserire nel seguente saggio una parte ricognitiva sullo “stato dell’arte”, comunque utile per la comprensione dei dibattiti politici e giuridici intorno al valore delle procedure e dell’esito delle ricerche.
3. Lo stato della letteratura psicologica sul tema. L’attuale letteratura in tema di filiazione omosessuale si divide in due grandi correnti: la posizione psicoanalitica classica, che fa leva sulla definizione freudiana del triangolo edipico, architrave dell’inconscio, ritiene essenziale per un corretto sviluppo del figlio il riferimento ad un padre e ad una madre. L’identità si costruisce attraverso un processo di identificazione che coinvolge tanto la psiche quanto il corpo sessuato dei genitori e che si delinea nella differenza. Si preferisce talvolta parlare di “incorporazione” ancor prima che di identificazione: la persona del figlio si incorpora infatti nella storia familiare, cioè ne è parte costitutiva. In Italia, allineata su questa posizione è la Società italiana di Pediatria, l’Associazione nazionale Sociologi e l’Osservatorio sui Diritti dei Minori. All’opposto troviamo la teoria che sostiene che i buoni genitori non sarebbero tali sulla base del loro orientamento sessuale, ma sul clima e l’attenzione che, di fatto, distinguono una buona famiglia da una che non lo è. Si parla in questo caso di sessualità come accoppiamento tra le menti e di funzioni paterne e materne intercambiabili che possono essere esercitate prescindendo da qualsiasi riferimento al corpo sessuato. La domanda che questa letteratura si pone non è più se le famiglie diverse da quella etero-nucleare siano in grado di assolvere alle funzioni familiari, quanto su come lo facciano. In questo senso, l’omosessualità non sarebbe più una qualificazione della genitorialità, ma una delle condizioni entro cui la genitorialità può essere esercitata. In linea con questa tesi si pone il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e l’Associazione Italiana di Psicologia.
4. La ricerca empirica: la tesi “tradizionale” dell’equivalenza delle strutture familiari. Passando all’analisi dell’approccio sperimentale, è d’uopo rilevare che fino a qualche anno fa la totalità dei risultati delle ricerche socio-psicologiche concludevano che la crescita dei bambini da parte di genitori omosessuali o in coppie formate da genitori dello stesso sesso non avesse alcuna ripercussione psicologica negativa sulla crescita dei figli. È la cd. teoria della “qualità del rapporto familiare” sulla base della quale i buoni genitori non sarebbero tali sulla base del loro orientamento sessuale, ma sul clima di affetto, di serenità, di ascolto e sull’attenzione che rivolgono verso i figli. Questa è ancora la tesi di gran lunga prevalente tra la dottrina maggioritaria americana ed è supportata da alcuni studi condotti su questo tema dai maggiori centri di ricerca su tematiche familiari in America. Nel novero troviamo la American Psychological Association (APA), la American Psychiatric Association, la American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, la American Psyicoanalytic Association, la American Association for Marriage and Family Therapy, la National Association for Social Workers e la American Academy of Pediatrics. In particolare, nella ricerca condotta nel 2005 dall’APA, che ha valore di direttiva per l’Associazione stessa e che è forse la più dibattuta, si conclude: «Not a single study has found children of lesbian or gay parents to be disadvantaged in any significant respect relative to children of heterosexual parents». Tra le altre ricerche più significative e citate si prenda in considerazione quella condotta nel 2005 (e ulteriormente sviluppata nel 2009) dalla Università della Virginia su un campione di 44 ragazzi vissuti in famiglie omosessuali ed eterosessuali. La domanda di partenza è la seguente: «Does parental sexual orientation have an important impact on child or adolescent development?» La ricerca, che si articola sullo studio relazionale di 106 famiglie, eterosessuali ed omosessuali, con figli provenienti da adozione, conclude che «non ci sono prove a supporto della tesi dell’influenza. Al contrario i risultati suggeriscono che l’orientamento sessuale è meno importante della qualità dei rapporti familiari, della interazione quotidiana e la profondità della relazione come tra i genitori». E ancora: «non ci sono differenze significative tra i primi teenager ed i secondi in termini di corretta crescita psicologica così come di ansia e di autostima. Allo stesso tempo risultati analoghi sono rilevabili per quanto riguarda l’andamento scolastico, il rapporto con i genitori, l’affetto ricevuto da questi. Gli adolescenti di entrambi i gruppi sono stati coinvolti allo stesso modo in una relazione sentimentale [romantic] negli ultimi 18 mesi», con questo dimostrando di saper sviluppare un affettività equilibrata. La ricerca arriverebbe a provare che i figli di coppie dello stesso sesso sarebbero addirittura avvantaggiati: «L’unica differenza statistica rilevabile tra i due gruppi favorisce i giovani conviventi con coppie dello stesso sesso che provano un più grande senso di connessione con le persone a scuola. Non ci sono differenze significative nell’uso di sostanze stupefacenti, nel tasso di delinquenza o di vittimizzazione tra i due gruppi». La conclusione è dunque che «l’orientamento sessuale del partner non è importante ai fini della crescita corretta dell’adolescente, al contrario di altri aspetti, come la qualità delle relazioni familiari». Anche in un altro studio comparato condotto dall’Università della California, che esamina e compara le altre ricerche sul tema, si arriverebbe alle medesime risultanze: i dati indicherebbero che le relazioni omosessuali ed eterosessuali non differiscono nelle loro dimensioni psicosociali essenziali; che l’orientamento sessuale di un genitore è estraneo alla sua capacità di fornire un ambiente familiare sano e che il matrimonio dà benefici psicologici, sociali e sanitari notevoli; che – e questa è la conclusione – le coppie dello stesso sesso e i loro figli potrebbero trarre numerosi benefici dal riconoscimento giuridico delle loro famiglie. Da segnalare sul punto anche la “ricerca Rosenfeld”, pubblicata sulla rivista Demography, che utilizza i dati nazionali sul censimento scolastico negli Stati Uniti per valutare la capacità di progressi scolastici dei minori cresciuti in famiglie omosessuali rispetto a quelli cresciuti in altri tipi di famiglie. I dati dimostrerebbero che i figli di coppie sposate hanno una più bassa percentuale di bocciature rispetto ai figli di coppie omosessuali, ma il punto della ricerca sta che questo vantaggio sarebbe in gran parte causato dal loro status socioeconomico più elevato. Infatti esaminando la situazione di quei minori conviventi con omosessuali, ma appartenenti alle famiglie più benestanti sembrerebbe quasi che i minori con genitori omosessuali abbiano un rendimento superiore agli altri. Insomma, le differenze deriverebbero solo dalla condizione socio-economica e dalla stabilità affettiva della famiglia d’origine. A questo studio, nel giugno 2013 fa seguito, sempre sulla stessa rivista, una sua riesamina e una sua critica. Elaborando diversamente gli stessi dati emergerebbe che gli esiti dello “studio Rosenfeld” sarebbero differenti se usati gruppi di comparazione alternativi o restrizioni nella scelta dei gruppi. Nello stesso mese, la rivista procede alla pubblicazione della risposta dello stesso Rosenfeld. Uscendo dal mondo statunitense, possiamo vedere che alla stessa conclusione è pervenuto anche lo studio condotto (su richiesta del Governo australiano) da un’organizzazione di ricerca para-statale, l’Australian Institute of Family Studies, secondo cui i bambini cresciti nelle famiglie con genitori dello stesso sesso coinvolte nella ricerca «crescono e si comportano altrettanto bene a livello emozionale, sociale e educativo, di quelli cresciuti in famiglie eterosessuali». Anche qui ci sarebbero addirittura bambini cresciuti in famiglie di coppie lesbiche in cui si ravvisano migliori esperienze relazionali con “le genitrici”, con gradi più alti di coinvolgimento affettivo e maggiore flessibilità mentale rispetto agli omologhi delle coppie tradizionali. La ragione potrebbe risiedere nel fatto che «due madri lesbiche tendano a possedere una doppia dose di “genitorialità femminile” da cui deriva un maggior senso di responsabilità e di prendersi cura del figlio, rispetto ai padri eterosessuali». Anche la più completa ricerca tedesca sul campo che si concentra sulla situazione familiare delle coppie che hanno stretto un’unione civile (la cd. Eingetragene Lebenspartnerschaft), arriva alle stesse conclusioni: lo sviluppo psicologico dei bambini nati e cresciuti in famiglie omogenitoriali in Germania non si differenzia da quello di altre forme familiari (da intendersi eterosessuali). I risultati mostrerebbero come la situazione dei bambini e degli adolescenti di unioni omosessuali in termini di qualità del rapporto con i genitori e di inserimento psichico si differenzi solo impercettibilmente dalla situazione di altre forme di famiglia. Una «differenza significativa», al contrario, si può rintracciare nel sentimento di autostima e nella maggiore autonomia nei rapporti con i genitori che i figli delle coppie omosessuali riportano rispetto ai loro coetanei delle altre famiglie, tanto che «Il risultato dello studio mostra nel complesso che i bambini e gli adolescenti nelle cd. “famiglie arcobaleno” crescono altrettanto bene che i bambini delle altre forme di famiglia»
4.1. La tesi della necessità del vincolo biologico come fattore necessario per il corretto sviluppo del figlio. Nel luglio 2012 viene condotta nell’Università del Texas la prima ricerca che confuterebbe la teoria per cui non esisterebbero delle significative differenze a livello sociologico tra figli cresciuti in famiglie omogenitoriali e figli cresciuti in famiglia eterosessuali: il cd. NFDD (New Family Structures Study). La critica di partenza consiste nel sostenere che gli studi pro-omogenitorialità condotti fino ad allora abbiano teso a campionare soprattutto genitori omosessuali appartenenti ad un particolare modello: «sesso femminile, razza bianca, un alto grado di istruzione e di origine metropolitana». Inoltre, sotto l’aspetto procedimentale, ci sarebbero almeno due limitazioni: da una parte i risultati di alcuni sarebbero stati basati il più delle volte non su indagini compiute direttamente con e su i bambini, ma sulle risposte dei genitori (reports), che spesso sarebbero stati selezionati tra gli attivisti o comunque tra persone engagé in fatto di rivendicazioni civili. Dall’altra parte, altri studi sarebbero stati semplicemente condotti su scala troppo piccola, cosa che inficerebbe il loro valore statistico «e che impedirebbe di rilevare le differenze significative che dovevano esistere». Dopo la doverosa “calibrazione” per razza, sesso ed età del figlio, educazione della madre, contesto e condizione socio-economica familiare e Stato d’origine, si arriverebbe a misurare che i figli delle coppie omosessuali sarebbero più portati ad una crescita e ad una vita squilibrata sotto molti aspetti: più soggetti a depressione, salute precaria, disoccupazione, infedeltà, uso di droghe e alcool, auto-vittimismo sessuale e ricordi infelici dell’infanzia. Si legge inoltre che i risultati scolastici e professionali di coloro i cui genitori erano coinvolti in relazioni omosessuali sarebbero – in assoluto – peggiori rispetto ai figli di genitori (eterosessuali) sposati. La conclusione del ricercatore è che lo studio «riveli chiaramente che i bambini sono più suscettibili di avere successo da adulti quando passano la loro intera infanzia con le loro madri e padri sposati e specialmente quando questi rimangano insieme fino alla loro età adulta» e che «il modello di due “stabili” genitori biologici sposati [sarebbe] il modello di gran lunga più benefico per la stabilità della famiglia e – secondo i risultati dello studio – il posto più sicuro per un bambino» .Critiche anche accese non sono mancate e toccano due aspetti. In primo luogo si accusa lo studio texano di aver comparato situazioni di “perfezione” familiare ovvero di famiglie composte da genitori eterosessuali sposati (le cd. intact biological families) con altre caratterizzate da vari livelli di instabilità dove solo una piccola percentuale di figli di genitori omosessuali hanno passato tutta l’infanzia con i loro genitori mentre il resto di loro avrebbe visto la propria famiglia dissolversi o neppure formarsi. Lo studio in sostanza, secondo i suoi detrattori, non prenderebbe tanto in considerazione le conseguenze psicologiche derivanti dalla separazione o dal divorzio, ma metterebbe l’accento solo sulla questione di genere. E, come sostiene uno dei critici, è «anzi molto probabile che la maggior parte degli svantaggi di questi giovani derivino dal fallimento dei matrimoni eterosessuali dei loro genitori piuttosto che dall’orientamento sessuale di questi ultimi». I risultati fallimentari non sarebbero prodotti dalle strutture familiari omogenitoriali, ma da vite familiari distrutte. Parte delle critiche si orienterebbero in secondo luogo sulla strategia di campionamento: sarebbero incorrette alcune definizioni di “imparentamento” che avrebbero qualificato come figli di gay o lesbiche persone che non hanno materialmente vissuto con i loro genitori omosessuali, aspetto questo che non avrebbe permesso la corretta differenziazione delle diverse situazioni in cui essi venivano a trovarsi. Un altro studio finalizzato a contestare le conclusioni della teoria comportamentale è quello condotto dal prof. Loren Mark, dell’Università della Luisiana. Nella sua pubblicazione Same-sex parenting and children’s outcomes: A closer examination of the American psychological association’s brief on lesbian and gay parenting, procede dalla critica della celebre presa di posizione della American Psychological Association del 2005 (precedentemente citata). L’Autore passa in rassegna le 59 ricerche pubblicate dalla APA sulla inesistenza di studi che dimostrino differenze delle strutture familiari e pone 7 condizioni in forma di domanda che, a suo parere, dovrebbe rispettare ogni serio studio scientifico e di cui gli studi dell’APA sarebbero deficitari. Le condizioni riguardano fondamentalmente la dimensione e la strategia di campionamento e in generale la (mancanza di) rilevanza statistica e di rigore metodologico. Innanzitutto viene evidenziato che i tre quarti di quegli studi (il 77%) esaminano un campione ristretto, poco rappresentativo e opportunamente scelto di meno di cento soggetti. Molti coinvolgono addirittura meno di cento partecipanti alla ricerca, fino al limite estremo rappresentato da un lavoro del 1998 che di soggetti ne analizza solo cinque. In secondo luogo, non sempre è specificato che genere di famiglia eterosessuale si sia presa in esame: se si tratta di una coppia di sposi o di conviventi, se gli sposi siano al primo matrimonio o se i conviventi arrivino da una precedente unione ed, anzi, 26 studi su 59 mancavano di includere “gruppi di controllo” (nella specie famiglie eterosessuali). In terzo luogo, in alcuni studi comparati (13 di questi) le madri single sono state inserite tra i nuclei tradizionali di famiglie eterosessuali e nessuno tra gli studi comparati avrebbe la evidenza statistica necessaria per rilevare un sufficiente effect size (l’ampiezza dell’effetto). In conclusione, nessuna delle ricerche APA, a parere di Marks, sarebbe empiricamente giustificata e quindi in grado di dare risposte definitive sul tema. L’ultima ricerca in ordine di tempo giunta a conclusioni simili è stata pubblicata dal British Journal of Education, Society & Behavioural Science39. L’autore, Donald Paul Sullins, ha utilizzato come fonte di analisi i dati contenuti nel National Health Interview Survey (NHIS)40. Tra i minori conviventi nelle coppie omosessuali è stata esplorata la presenza di eventuali problemi emotivi, comportamentali o relazionali tenendo conto di variabili tra le quali anche l’età, l’etnia, la scolarità dei genitori, il reddito familiare, eventuali episodi di bullismo di cui sono stati vittime, la proprietà o meno della casa. «La probabilità di problemi psicologici risulta più che raddoppiata (2,1 volte) tra i ragazzi che vivono con genitori omosessuali […] e otto dei dodici parametri psicometrici indagati sono risultati deteriorati». Lo studio avrebbe poi riscontrato che il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività mostrerebbe incidenza più che doppia tra i figli conviventi in coppie omosessuali, i disturbi dell’apprendimento più frequenti del 76% e i medici di medicina generale sarebbero stati interpellati per problemi psichici dei minori «con una frequenza due volte e mezzo più elevata»
La struttura familiare biologica avrebbe quindi un ruolo determinante nella spiegazione delle differenze tra i risultati dei minori di coppie etero e quelli di coppie omosessuali e i figli con genitori dello stesso sesso risulterebbero avere maggiori problemi non solo dei figli con genitori eterosessuali sposati, ma addirittura di quelli adottivi, conviventi e persino single: «Joint biological parents are associated with the lowest rate of child emotional problems by a factor of 4 relative to same-sex parents, accounting for the bulk of the overall samesex/opposite-sex difference». Critiche del presente studio provengono da chi afferma che esso sia basato su una rilevazione esclusivamente indiretta di dati. Un altro studio da poco pubblicato (ancora da Sullins), prende in esame i risultati di alcuni degli studi pro-filiazione omosessuale tra i più citati (tra cui Patterson e APA) e li confronta con due studi rappresentativi della popolazione generale. Il raffronto dimostrerebbe, all’interno dei primi, l’uso massiccio di inconvenience samples ovvero di campioni reclutati intenzionalmente e non casuali (random samples). Genitori, ad esempio, che fanno parte di associazioni per la promozione dei diritti GBLT. Per questa ragione, questi studi avrebbero dato risultati favorevoli alla tesi della filiazione omosessuale. Analizzando gli stessi studi attraverso lo Strength and Difficulties Questionnaire (un sistema di selezione delle domande) e basandosi sull’analisi delle caratteristiche di persone “casuali”, egli dimostrerebbe, al contrario, l’esistenza di problemi emozionali di cui sono affetti i minori di coppie omosessuali. Più
il campione si ingrandisce e più le differenze sono statisticamente significative.
4.2. La “terza via”: l’invito a diffidare della scienza sociale. Dallo scontro tra queste due posizioni sono emerse posizioni intermedie, di conciliazione tra tesi opposte e di critica a quelle ricerche che tendono a schierarsi troppo nettamente. Paul Amato, ad esempio, oppositore della teoria strutturalista, ma critico anche di alcune posizioni di quella comportamentale, da lui giudicate estreme, ritiene che «sebbene numerosi studi concordino oggi nel ritenere che non sia più possibile sostenere che non ci siano affatto differenze tra bambini allevati in famiglie con genitori dello stesso sesso o di sesso diverso (Amato, 2012; Biblarz & Savci, 2010; Biblarz & Stacey, 2010; Eggebeen, 2012; Goldberg, 2010; Marks, 2012; Regnerus, 2012; Stacey & Biblarz, 2001), c’è però al momento una chiara conferma (strong evidence) che [anche le] famiglie omogenitoriali costituiscano ambienti favorevoli per la crescita dei figli. Infatti, se prendiamo in considerazione quei bambini che hanno vissuto fin dalla nascita all’interno di coppie lesbiche, sembrano esistere evidenti vantaggi per quanto riguarda: la qualità dei rapporti con i genitori, la tolleranza per la diversità sessuale e una flessibilità di genere, soprattutto per quanto riguarda i figli maschi (Biblarz & Stacey, 2010)». Ma la vera difficoltà di discernimento per valutare la correttezza di una ricerca consiste non tanto nella raccolta dei dati quanto nella loro valutazione: sicuro è il fatto che le conoscenze in proposito dipendono sempre dalla loro interpretazione. Quel che da una parte viene negato, può capitare che, dall’altra, venga accettato. Anche se la tesi scientifica prevalente resta quella della equiparazione dei modelli di famiglia, in questi ultimi anni si parla sempre meno di “conoscenze consolidate” o di “consenso degli esperti”. Vi è anche un secondo problema: nonostante le molteplici ricerche sul campo, i casi analizzati restano un numero relativamente limitato e soprattutto eterogeneo, con riferimento agli obiettivi e ai metodi utilizzati da ogni ricerca. Per tutti questi motivi – nonostante quanto affermino le ricerche “pro” e “contro” – nessuno sarebbe riuscito finora a trarre dei risultati inequivocabili (o anche solo con un grado di certezza sufficiente) dagli studi condotti sul tema e il mondo della ricerca si può dire ancora diviso sulle conseguenze della crescita di bambini nelle nuove strutture familiari omogenitoriali. Ma c’è di più: su questo tema, alcune ricerche tra le più recenti, si spingono ad ammonire gli stessi legislatori e i giudici dal ricorrere troppo disinvoltamente alla scienza: «i detrattori così come i fautori del matrimonio tra persone dello stesso sesso hanno profuso una sfilata (have produced a parade) di testimonianze della scienza sociale per provare la qualità e la stabilità di questi matrimoni e il relativo adattamento dei figli di queste unioni […]. Troppa attenzione è stata data a questa prova: la legittimità del matrimonio e dell’adozione omosessuale è un tema costituzionale e non può essere deciso sulla base di ricerche della scienza sociale».
5. L’erompere della tecno-scienza nel campo della politica e i suoi rischi: i fatti legislativi e la “politica della scienza”. Negli ultimi anni, sulla base delle teorie e delle ricerche empiriche sovraesposte legislatori e giudici hanno cercato di approcciarsi alla realtà dell’omogenitorialità, con stili, attenzione e profondità diversa, ma con un denominatori comune: un generale affidamento alla scienza per la risoluzione di tali questioni. Il dibattito è stato sempre più attratto da argomentazioni di carattere “oggettivo” e sempre meno da considerazioni morali, antropologiche o, appunto, giuridico-costituzionali. L’aumento del ricorso all’ausilio delle teorie e, soprattutto, delle ricerche empiriche, nell’approccio a queste tematiche ha portato allo sviluppo dei cd. fatti legislativi. I fatti legislativi possono essere definiti come fattori a rilevanza sociale e oggettività scientifica che, pur essendo extra-giuridici, sono strettamente connessi con la questione e per questo assumono un ruolo nella formazione di una legge (o di una sentenza). Ma in che misura, su un tema così delicato che coinvolge il prioritario interesse del minore, la politica e il diritto sono legittimati a rivolgersi alla scienza per la loro individuazione? E, soprattutto, attraverso quali lenti possono leggere e tradurre questa realtà? A quali parametri ci si deve riferire? E in ultimo, dove finisce, ma anche dove inizia l’autonomia del legislatore e del diritto su tali questioni? Nel proseguo dello scritto si analizzerà dapprima l’impatto della scienza sulle decisioni del legislatore e in secondo luogo la sua influenza sulla giurisprudenza, prendendo a parametro alcuni cases studies tratti dall’esperienza comparata.
6. Il caso olandese e quello belga: quando la ricerca empirica non gioca un ruolo fondamentale. Se è vero che il ricorso all’aiuto della scienza – o per meglio dire, della tecno-scienza, intesa come quel procedimento scientifico e di applicazione pratica – è una caratteristica di tutti i Paesi che hanno introdotto l’opzione omogenitoriale all’interno della loro legislazione. è bene precisare che non tutti i Paesi vi hanno attinto allo stesso modo. L’Olanda è stato il primo Paese al mondo ad introdurre, insieme con il matrimonio, la possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali. Questa normativa era stata auspicata già nel 1997 da una pronuncia della Corte Suprema, avocata da una coppia di lesbiche che chiedeva il riconoscimento della compagna della madre come genitore della figlia. La Hoge Raag, pur rifiutandosi di decidere in quanto questione rimessa al legislatore, sulla base di perizie di psicologi ed assistenti sociali aveva concluso che, nel miglior interesse psicologico (ed anche economico) del bambino, il Parlamento avrebbe dovuto estendere lo status di secondo genitore al partner della madre (o del padre). Come emerge chiaramente dalla lettura della sentenza, in questo caso la Corte intendeva colmare un gap, cioè di dotare il bambino (con soltanto un genitore omosessuale) di due figure genitoriali. Va ricordato che la legislazione olandese, oltre che proibire la surrogazione di maternità, resta incentrata sul ruolo della madre e il suo corpo creatore. Tutt’ora le pronunce della Corte Suprema olandese sono funzionali a garantire al figlio la conoscibilità delle sue origini fino a spingersi a tutelare, a certe condizioni, il semplice donatore di sperma a discapito della stessa partner della madre. Tutto ciò è estremamente interessante e gioca senz’altro a favore della tesi che vuole la legislazione dei Paesi Bassi, nonostante quanto appaia prima facie, un sistema ancora molto incentrato sul rapporto fisico tra genitori-generatori e figlio. Per questa ragione la famiglia omosessuale olandese è soprattutto “femminile”. Infatti i (pochi) dibattiti che hanno preceduto l’approvazione della legge sono stati incentrati sull’importanza data dalla letteratura psicologica al rapporto fisico tra genitori-generatori e figlio, considerazioni che hanno portato appunto ad ammettere l’adozione, ma ad escludere ogni forma di fecondazione artificiale per i maschi. In Belgio, il secondo Stato europeo a introdurre il matrimonio omosessuale (2003) e la possibilità di adozione congiunta (2006) il dibattito parlamentare è stato caratterizzato, da una parte e dall’altra, da un’accesa lotta più sulle conseguenze etiche dell’homoparentalité che sulle esigenze connesse alla salute psicologica del minore. Sono gli stessi esperti (psichiatri, psicologi e operatori sociali) che insistono su considerazioni di adeguatezza filosofico-antropologica: nei dibatti parlamentari si richiamano continuamente concetti come l’edonismo, il complesso edipico, lo «snaturamento del concetto di filiazione» fino al «bouleversement anthropologique», paventando un «changement de la vision anthropologique de la société». Anche Consiglio di Stato, nel parere preventivo, ha utilizzato linguaggio e parametri di valutazione simili. Il riferimento alle ricerche, cioè all’analisi empiriche sulle eventuali ricadute del superiore bene del figlio, è invece quasi assente. In tutto ciò gioca certamente un ruolo anche il fatto che all’epoca le indagini non erano ancora troppo articolate e perciò non considerate base sufficiente né necessaria per la discussione, perché tacciate tacciati poca obiettività scientifica e di mancanza di attenzione, appunto, sull’aspetto psicoidentitario. Inoltre (e questo non vale solo per il Belgio) l’analisi dei lavori parlamentari dimostra che i legislatori sono nella maggior parte dei casi (anche se non in tutti) più propensi a prendere in considerazione le risultanze di indagini scientifiche quando vogliono aprirsi a legittimare “nuove consapevolezze” nei campi dell’estensione dei diritti e delle libertà già esistenti. Al contrario i membri della Commissione Giustizia contrari all’introduzione della legge, disconoscevano la funzione determinante della «objectivité scientifique», i deputati favorevoli ne facevano largo uso. È importante notare che l’attribuzione a realtà familiari “differenti” di diritti che originariamente appartenevano alla cd. famiglia tradizionale non avviene mai attraverso il ricorso a nuove categorie di diritti, ma è il frutto dell’estensione di libertà già presenti nell’ordinamento. Queste ultime trovano adesso riconoscimento per il fatto che viene meno l’ostacolo che ne impediva la realizzazione: l’interesse del minore che da limite si trasforma addirittura in incentivo, dato che la possibilità di un’adozione (congiunt) della coppia che lo alleva gli permetterebbe adesso una stabilità economico-affettiva prima negata.
7. Le ricerche commissionate dai Governi: il caso tedesco e quello francese. Ci sono stati casi, invece, in cui gli stessi Governi hanno costituito Commissioni di ricerca ad hoc o hanno incaricato istituti pubblici (di solito università statali) sullo studio dell’omogenitorialità. È il caso ad esempio delle già citate indagini dell’Australian Institute for Families Studies e dell’Università di Bamberga (v. §2.5). Quest’ultima, in particolare, commissionata dal Ministero della Giustizia federale, ha avuto grande eco in Germania per la sua accuratezza e per il fatto di essersi basata sulla situazione, le condizioni e le esigenze specifiche della realtà omogenitoriale tedesca. Per questo motivo i risultati di questa indagine sono serviti da base sia per la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 19 febbraio 2013 sia per la successiva legge di implementazione della sentenza stessa con cui il Parlamento ha ufficialmente concesso l’adozione successiva (cioè l’adozione del figlio del partner) per le coppie omosessuali unite da convivenze registrate60. Riferimenti a questa indagine si trovano in molte sentenze e proposte di legge sull’argomento, in particolare nelle Ausarbeitungen, le relazioni valutative ufficiali del Bundestag (condizioni necessarie per la presentazione delle leggi al Parlamento), i cui paragrafi relativi al bene del figlio (Kindeswohl) e alla disamina di eventuali conseguenze psicologiche negative sul minore, richiamano molto spesso i risultati di questa ricerca. Anche in Francia, in seguito alle polemiche per l’emanazione della nota legge sull’adozione omosessuale, il Governo ha cercato di porre delle basi di legittimità non solo giuridiche, ma anche psicologiche per un eventuale riforma della legge stessa costituendo, a poche settimane di distanza dalla sua approvazione (ovvero già nell’ottobre 2013) una commissione di esperti operanti sotto l’egida del Ministère des Affaires Sociales e quello della Famiglia. Il gruppo di lavoro presentava già a metà del 2014 il rapporto “Filiation, origines,parentalité” il quale, dopo aver studiato e delineato il concetto attuale di famiglia, conteneva, tra le altre cose, alcune proposte di ulteriore apertura della legislazione sul tema. Le proposte più importanti consistevano nella possibilità di accedere alla fecondazione artificiale da parte delle coppie lesbiche, attribuire una porzione di autorità genitoriale al beau-parent convivente (il cd. “mandato di educazione quotidiana” attraverso il quale egli avrebbe goduto di alcuni poteri di autorità genitoriale), permettere l’accesso all’adozione anche per le coppie conviventi e facilitare l’accesso alle informazioni relative alle proprie origini per quelle persone nate da un donatore esterno alla coppia. La riforma (denominata Loi Famille) non è passata al vaglio dell’Assemblea Nazionale e per il momento sembra che non sarà riproposta. Ciò nonostante la costituzione del gruppo di lavoro dimostra come l’approccio francese al problema si faccia sempre più strutturato e come il legislatore senta il bisogno crescente di capire e di dotare di legittimità scientifica le proprie scelte in tema di filiazione. In conclusione si può affermare che il processo di ricorso diretto alla scienza nel processo decisionale attraverso la commissione di ricerche porta senz’altro notevoli vantaggi in termini di concretezza ed adattabilità della ricerche alla realtà nazionale di riferimento. Differenti culture e situazioni sociali comportano differenti esigenze e rimedi e senza dubbio lo strumento delle ricerche para-ministeriali è un ausilio contro il rischio di genericità e di dispersività. Dall’altra parte, però, in ognuno di questi rapporti, gli esperti non si limitano a considerazioni meramente scientifiche, ma invitano il legislatore a riformare il diritto di famiglia, indicando molto spesso le aree specifiche di intervento. Fino a dove può spingersi lo scienziato senza intaccare il suo stesso ruolo?
8. Il contributo degli scienziati nelle recenti audizioni parlamentari in Italia. In Italia, nel corso del procedimento legislativo per l’approvazione del progetto originario della cd. Legge Cirinnà, che prevedeva anche la possibilità di adozione, sono state condotte audizioni di esperti in materia scientifico-giuridica. Oltre ai molti giuristi, la Commissione Giustizia del Senato, nel gennaio 2015, ha ospitato gli interventi di (soli) cinque esperti in campo medico (tutti psicologi) e di due associazioni familiari. Nessun rappresentante dell’assistenza sociale è stato invece ascoltato. Il bene del figlio è il punto principale attorno al quale orbitano gli interventi, la maggior parte dei quali si limitano a riportare i risultati delle ricerche statunitensi precedentemente citate (v. §§ 2.3, 2.4, 2.5) e le prese di posizioni pubbliche di alcune associazioni di categoria (come la British Psychological Society e le già citate APA e Associazione Italiana di Psicologia). Gli interventi degli psicologi contrari alla filiazione da parte di coppie dello stesso sesso pongono l’attenzione soprattutto sulle teorie psicoanalitiche classiche, mentre quelli favorevoli si appoggiano soprattutto sui risultati della ricerca. Molti interventi contengono una parte iniziale e/o finale (o l’intera esposizione) che esula dal punto di vista strettamente clinico e di ricerca («Prima di entrare nel merito delle mie osservazioni…»), nel quale vengono sviluppate considerazioni di tipo prettamente giuridico, politico o letterario. Interessante poi notare che la più ampia rassegna della recente letteratura scientifica sulla questione sia pervenuta ai senatori italiani sotto forma di memoriale spontaneo inviato dall’Ordine degli psicologi del Lazio.
9. L’ipertrofia della tecnica nel campo giurisdizionale: i tribunali statunitensi. I modi attraverso cui le ricerche scientifiche penetrano nel campo giurisdizionale possono essere di due tipi: citazioni di ricerche esterne o richiami ad interventi di periti o semplici esperti che intervengono nella causa. La già citata sentenza della Corte di Karlsruhe che nel 2013 ha introdotto nel sistema tedesco l’istituto dell’adozione successiva a favore del partner omosessuale è un esempio dei casi del primo tipo. L’utilizzo dei contributi prodotti dagli esperti in udienza per la definizione di problematiche di interesse generale va oltre la classica natura della perizia processuale (che verte solo su fatti e su persone connesse al caso di specie): attraverso questa modalità, infatti, il tribunale che è alle prese con una questione di diritto che è, allo stesso tempo, di rilevanza sociale e di carattere politico, è messo in condizioni di decidere sì, sul caso concreto, ma facendo riferimento anche alle grandi questioni sociali e ai fatti del “mondo di fuori”. Nel sistema di common law, per la sua natura casistica e per il ruolo creativo dei giudici, questo sistema ha potuto svilupparsi in particolari modo nei tribunali dove il ruolo della “scienza” è più marcato. Anche una ricerca dell’Università di Chicago attribuisce al diritto anglo-americano una particolare propensione al ricorso agli esperti per la definizione delle controversie: da nessuna parte come negli Stati Uniti i giudici accolgono e le parti utilizzano strumenti tecnico-peritali per supportare la propria tesi. Ma da nessuna parte come negli Stati Uniti il dibattito sulla omogenitorialità ha messo in luce, allo stesso tempo, la forza e la debolezza delle Corti come luogo dove trattare e risolvere le nuove concezioni della famiglia. Le domande a cui la scienza deve dare una risposta sono ad esempio, cosa si definisce per “maternità”, o per “filiazione”, oppure se gli omosessuali sono in grado di garantire una crescita psico-sociale equilibrata ai minori loro affidati. Lo strumento principale per contribuire al processo da parte degli esperti sono le cd. Amicus curiae briefs, liberi interventi di singoli esperti o enti in sostegno di una parte processuale o volte ad informare la corte su tematiche tecnico-scientifiche. Il primo caso USA che iniziò a mettere in crisi la concezione tradizionale di maternità (quella biologica) e in cui una Corte ha utilizzato in maniera massiccia l’apporto scientifico si potrebbe individuare in In Re Baby M. Nel 1987 per la prima una volta negli USA, fu portato davanti ad un tribunale un contratto di maternità surrogata. Il problema si pose quando la gestatrice, una volta partorito, decise di tenere il bambino e non tenere fede all’accordo prenatale. La Corte del New Jersey, rifiutò di applicare le leggi statali in materia di adozione che avrebbero dato ragione alla gestatrice, ritenendole obsolete e perciò incapaci di considerare l’esistenza dei metodi di procreazione sopravvenuti, e condannò la gestatrice, giustificando tale scelta sulla base della prevalenza della teorie sociale di maternità, rispetto a quella biologica. Si noti che il neonato non era stato allevato, nemmeno per un giorno, dalla coppia “committente”, non si poteva dunque sostenere che, nel caso di specie, potesse essersi perfezionato nessun rapporto genitoriale sociale. Non a caso, in appello, la Corte Suprema statale dichiarò il contratto nullo (perché contrario all’ordine pubblico) e dichiarò che la gestatrice era madre per «il suo ruolo nel permettere la nascita del figlio». La scienza sociale fu utilizzata in questo caso per negare il riconoscimento della filiazione sociale e riaffermare quella strettamente biologica. Come in una successiva sentenza su un caso simile, In Re Anna J., emanata in California, per sostenere la caratterizzazione biologica della filiazione, i giudici attingono a corpi di conoscenza e affermazione di periti (anche in contraddizione tra loro). Sono cause che richiamano l’attenzione sulla scarsa capacità di riflessione e di valutazione critica del pensiero giudiziario, colpiscono per la passiva accettazione di una presunta dicotomia tra biologico e sociale. Tra i casi recenti in materia si può segnalare il cd. Goodridge v. Dipartimento di pubblica sanità. Il caso in questione, in realtà, affronta il tema del matrimonio omosessuale, ma nella stesura della decisione i giudici hanno preso in considerazione anche la letteratura scientifica riguardante il benessere del minore cresciuto nelle famiglie omogenitoriali. Sette coppie omosessuali biasimavano il rifiuto del dipartimento in questione a rilasciare loro licenze matrimoniali che avrebbero non solo dato loro accesso all’adozione, ma soprattutto avrebbe ovviato – secondo i ricorrente – alla situazione di discriminazione in cui versavano i propri figli, rispetto a quella degli altri bambini cresciuti in famiglie sposate. Se in primo grado il giudice aveva dato loro torto, asserendo una mancata previsione legislativa, davanti alla Supreme Judicial Court del Massachussets i ricorrenti hanno visto accogliere la loro domanda. La Corte Suprema statale si spinge ancora oltre: rifiuta di riconoscere una competenza esclusiva al legislatore in materia di definizioni del diritto di famiglia ed asserisce che quest’ultimo, “conoscendo verosimilmente gli studi sulla genitorialità omosessuale, avrebbe dovuto trarne le dovute conseguenze”. Dal parere dissenziente del giudice Cordy si legge «Many social science organizations have joined in an amicus brief on behalf of the plaintiffs’ cause. A body of experience and evidence has provided the basis for change».
Anche la Corte Suprema federale, recentemente, ha dimostrato di seguire attentamente i pareri degli esperti. Nei casi Hollingsworth/Perry e United States/Schlain Windsor, partendo dalle conclusioni del parere (amicus curiae brief) dell’American Sociological Association – associazione che riunisce 14.000 sociologi statunitensi – in sostegno dei due convenuti e, più in generale, della tesi dell’assenza di conseguenze negative per lo sviluppo nei minori conviventi con coppie omosessuali, la Corte dichiarava incostituzionale l’intero Defence of Marriage Act. Più recentemente ancora, nella Opinion alla ben nota sentenza di “legalizzazione costituzionale” dei matrimoni gay, il giudice Kennedy, ago della bilancia per la decisione, afferma di avere preso questa decisione per salvaguardare i bambini e le famiglie che, come le ricerche dimostrano, hanno soffrirebbero di difficoltà e incertezze legate alla loro situazione. È stato detto che il ricorso alla scienza sociale in alcuni casi è attivato per raggiungere tre obiettivi: informare sul tema dell’omosessualità e abbattente gli stereotipi, “de-moralizzare” il tema rendendolo quanto più possibile “scientifico” ed, infine, deresponsabilizzarsi dalla decisione o, peggio, mascherarne i motivi politici sotto il manto dell’inoppugnabilità sperimentale. Un esempio al proposito potrebbe essere la già citata sentenza Goodridge in cui la Corte, facendo riferimento al contenuto di molte amicus briefs pervenutele, afferma che «proibire il matrimonio tra persone dello stesso sesso porterebbe a far credere alla comunità che la condotta omosessuale è immorale». È stato studiato come le “nuove scoperte” della scienza fungano quasi sempre, nel diritto anglo-sassone ma non solo, da ago della bilancia per ribaltare una precedente politica o un precedente orientamento. Ma quando, specialmente in campo giurisdizionale, dove si applicano conoscenze generali ad un caso particolare, se non si agisce con cautela c’è sesso ha l’effetto di creare un sistema nel quale i bambini di coppie omosessuali sono incapaci di godere di quella protezione legale e di quei benefici sociali garantiti alle famiglie tradizionali».
sempre il rischio di andare al di là del caso particolare e di ridurre la decisione ad una mera
ordinanza giudiziale degli studi socio-psicologici stessi.
10. Gli ultimi pericoli: soggettività e pluralismo come limiti al ricorso alle scienze umane. Dall’analisi di alcuni dibattiti parlamentari e di alcune sentenze, emerge come talvolta il legislatore e il giudice si uniformino acriticamente al sapere tecnico-scientifico e talvolta lo utilizzino per sostenere e legittimare ex post le proprie convinzioni. Tutto ciò rivela chiaramente una crisi del diritto e della sua interpretazione. Era già stato previsto che il progresso tecnico-scientifico non avrebbe potuto che scatenare come reazione «un’assillante ansia di giuridicità», cioè un bisogno di porre confini e di riconoscere limiti il più possibile “costituzionali” agli immensi spazi di libertà create dalle aumentate possibilità della tecnica. Ci sono due elementi che non vanno dimenticati quando si parla di scienze umane come la sociologia e la psicologia e il diritto: la soggettività e il pluralismo delle risposte. Nel loro compiersi queste scienze non sono mai, come direbbe Max Weber, wertfrei, e cioè libere da condizionamenti morali: esse cioè non possono prescindere da un giudizio etico o un ordine di valori di fondo. Ogni loro conoscenza, incidendo sui bisogni e scopi umani, contiene in ogni caso una componente necessariamente soggettiva. Inoltre, all’aumentare delle risposte della tecno-scienza, non corrisponde una riduzione delle soluzioni da adottare, che anzi sono sempre meno univoche: a prescindere dal metodo e dai criteri seguiti per arrivare ad un determinato risultato, le domande si moltiplicano e si giustificano le conclusioni più diverse. Si è visto, ad esempio, come nei dibattiti parlamentari esaminati ogni parte abbia cercato di esibire la conformità scientifica della propria idea a (molte volte nemmeno specificate) “ricerche”; è anche per questi motivi che le argomentazioni di tipo scientifico, nelle loro conclusioni, permettono molto spesso di aprire un varco che la rivendicazione militante – qualsiasi essa sia – trasforma in opportunità. Quando ad esempio si sostiene che l’omogenitorialità rappresenta «un’opportunità per la famiglia» c’è sempre il presentimento diessere al di là di considerazioni meramente scientifiche. La scienza è talvolta utilizzata come ideologia, a chiaro detrimento del giuridico, ma anche, come si è visto, scientifico. L’equilibrio tra queste due esigenze, cioè il grado di accettazione, ma anche di valutazione e rielaborazione del sapere scientifico da parte della politica e del diritto, sarà il banco di prova per giudicare la legittimità concreta della futura legge sull’omogenitorialità nel nostro Paese, che dovrà essere conforme tanto “a costituzione” quanto “a scienza”.
11. Una riflessione sul rapporto tra politica e scienza: la co-produzione come soluzione allo scontro? Tutte queste considerazioni ci riconducono a due principi che sono considerati, non a caso, i Leitmotive di orientamento degli ultimi anni nel campo del indirizzo politico, ovvero la democraticità e il primato dell’interesse conoscitivo sulla sfera decisionale: i pareri hanno senza dubbio un chiaro valore di legittimazione e si pongono senz’altro come strumento di espressione della ragionevolezza del procedimento legislativo o della decisione giurisprudenziale. Ma la domanda che si pone riguarda il modo e le basi sulle quali sia possibile determinare il fondamento di legittimità e di esigibilità giuridica di una conclusione frutto di indagine scientifica. Fino a che punto questo rinvio alla scienza ostacola un’interpretazione politico-discrezionale, ad esempio, del concetto di “famiglia” o di “bene del figlio”? Si possono fondare oggettivamente i giudizi di valore? E come ci si può avventurare, in maniera non arbitraria, nell’area del discrezionale, cioè del “politico”, e, come si è visto, anche del tecnico? È a tutti chiara la natura non puramente logico-formale ma anche politico-valutativa del diritto che lo rende perciò disciplina non autosufficiente da altre branche di scienza umane. Se è vero che «compito del giurista è lo studio delle regole alla stregua delle quali una comunità conduce effettivamente la sua vita» e che è necessaria una copertura scientifica alla scelta legislativa o giurisdizionale, è altrettanto vero che restano fuori dal suo orizzonte i meri concetti socio-psicologici che «esso potrà prendere in considerazione solo nella misura in cui si traducono in valori reali del diritto positivo». Si tratta dunque di un procedimento di traduzione della scienza in diritto e di accettazione della scienza da parte del diritto. Entrambi i procedimenti, se compiuti nel rispetto delle autonomie proprie dei due ambiti, non daranno luogo né a un relativismo destinato a esautorare lo sforzo normativo, né ad un’imposizione di meri valori ascrittivi sulla realtà. Essi si scopriranno piuttosto come strumenti di interpretazione conoscitiva e di consapevolezza critica da offrire a chi svolge il lavoro di creazione e applicazione del diritto stimolando una co-produzione normativa tra concetti scientifici e valori politico-giuridici. La scienza si situa così, secondo la felice intuizione di Shelia Jasanoff sotto forma di procedura, all’interno di un grande archivio ermeneutico nel quale ci sono molti saperi (non solo il mero approccio scientifico) e i cui contenuti si integrano reciprocamente. Sotto questa ottica risulta necessario che il legislatore (che è anche giurista) sia aiutato (ma non sostituito) da una dimensione scientifica che può essere definita come “procedurale” poiché richiede sì «il riconoscimento [da parte del legislatore] di un importante ruolo degli esperti nella formazione delle finalità ultime a cui la legge si deve ispirare» e da cui essa trae la sua autorevolezza, ma, nello stesso tempo “sa” che esiste tutto un enorme bacino di conoscenze politiche, etiche, filosofiche, sociali e perfino tradizionali che deve essere preso in considerazione su temi così difficili ed incerti come quello della filiazione omosessuale. Queste conoscenze potranno incidere sui meri dati scientifici che verranno, attraverso di esse, interpretate, trasformate, adattate. Tutto ciò comporta un continuo (e benefico) confronto tra scienza, politica e diritto. Peraltro, con riferimento allo specifico tema della filiazione omosessuale e del conseguente valore supremo del “bene del figlio”, la struttura teleologica del sistema costituzionale italiano permetterebbe e favorirebbe questa interazione tra assetto normativo (e giurisprudenziale) e pluralismo sociale e scientifico. In teoria tutto semplice; restano però alcuni dubbi sull’applicazione pratica di questo principio: se le scienze bioumane rientrano nel campo di quelle sociali, come la politica e il diritto, è evidente che ci troviamo di fronte ad uno squilibrio tra sapere puramente scientifico e conoscenza intesa come produzione sociale. Se anche la psicologia e la sociologia sono necessariamente influenzate, nel loro stesso compiersi, dal contesto in cui nascono, dove si posizionerà questo punto di incontro tra “scienza” e “diritto”? Non saranno la stessa scienza bio-umana e il suo materiale umano di riferimento parzialmente prigionieri di presupposti simili a quelli della politica, della filosofia, del diritto? Al di là di queste pur legittime considerazioni il problema è riconoscere a ciascuna branca il suo ruolo secondo una ragionevolezza (anche scientifica) che si basa su una diversa visione della sussidiarietà. Il primo ruolo del legislatore è quello di introdurre una gerarchia di valori come il primo ruolo del giudice è quello di applicare tale gerarchia. Così come un principio troppo astratto non può da solo fornire la struttura di un intero universo di aspettative e di comportamenti sociali (la “famiglia naturale”, il “bene del figlio” sono concetti che non possono definirsi in sé, ma spiegarsi solo per relationem nel tempo e nello spazio), allo stesso modo una singola “scoperta” o teoria scientifica non può rivoluzionare (di per sé) una disciplina complessa e multi-livello come quella della filiazione. E quando il diritto recupera una sua dimensione di contributo valutativo nella definizione dei contenuti normativi senza cadere nella “trappola” del giusnaturalismo, esso è capace di integrare i valori e i saperi di entrambi gli ambiti. È questa la direzione seguita anche dalla nostra Corte costituzionale che ha affermato come l’intervento sul merito delle scelte terapeutiche (nel caso di specie una legge della Regione Marche che vieta la terapia dell’elettroshock) non possono nascere e basarsi sulla mera discrezionalità politica, ma deve essere avallata dalle conoscenze scientifiche e dalle evidenze sperimentali: è l’attenzione alle risultanze della scienza che diventa, nel confronto, un vero e proprio «parametro interposto di costituzionalità». Solo attraverso questo procedimento di traduzione, la legge (positiva o “naturale positivizzata” che dir si voglia) ritornerebbe ad appropriarsi del criterio finale di decisione, senza rischiare di ignorare o stravolgere la realtà, contraddicendo la scienza.
Andrea Gatti Rivista Associazione Italiana Costituzionalisti 18 luglio 2016
testo con 97 note www.rivistaaic.it/omogenitorialit-e-filiazione-tra-diritto-e-scienza.html
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ONLUS
Iscrizione anagrafe onlus e successive modifiche
Per essere Onlus e usufruire dei relativi benefici fiscali, lo ricordiamo, è necessario iscriversi ad apposito “registro”. Per fare questo, l’ente interessato deve inviare alla Direzione Regionale delle Entrate nel cui ambito territoriale si trova il proprio domicilio fiscale (di seguito anche la “DRE”) la seguente documentazione:
- comunicazione di iscrizione secondo apposito modello fornito dall’Amministrazione finanziaria insieme alle istruzioni per la compilazione;
- dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.
In alternativa alla dichiarazione sostitutiva, possono essere inviati l’atto costitutivo e lo statuto, opzione, quest’ultima, da ritenere preferibile. La documentazione deve essere spedita in plico raccomandato, senza busta, con avviso di ricevimento, oppure consegnata in duplice esemplare alla DRE che ne restituisce uno timbrato e datato per ricevuta, completo degli estremi di protocollazione.
Ricevuta la documentazione, la DRE procede al cosiddetto controllo formale preventivo, cioè alla verifica:
– della regolarità della compilazione del modello di comunicazione;
– della allegazione della dichiarazione sostitutiva o dell’atto costitutivo / statuto;
– della sussistenza dei requisiti formali.
Nel corso di questo esame, essa può invitare l’ente interessato, anche con l’invio di apposito questionario, a fornire chiarimenti nel termine di 30 (trenta) giorni.
Al termine di questa procedura, la DRE procede all’iscrizione del soggetto interessato, dandogliene notizia, oppure alla comunicazione della mancata iscrizione del soggetto interessato evidenziando i motivi.
La Direzione Regionale delle Entrate deve provvedere entro 40 (quaranta) giorni dal ricevimento della documentazione secondo le modalità descritte, oppure entro i 20 (venti) giorni successivi alla scadenza del termine concesso affinché l’ente interessato fornisca i chiarimenti eventualmente richiesti. Decorsi questi termini senza che la DRE abbia comunicato il risultato del controllo la Fondazione s’intende iscritta. In ogni caso, è salva la facoltà dell’amministrazione finanziaria di effettuare successivi ulteriori controlli, sia formali sia sostanziali, ai sensi del decreto ministeriale del 18 luglio 2003, n. 266.
I soggetti iscritti usufruiscono delle agevolazioni fiscali a partire dal momento dell’invio della comunicazione. Se la comunicazione dell’iscrizione, insieme al resto della documentazione richiesta, viene inviata entro 30 (trenta) giorni dalla costituzione dell’ente, quest’ultimo usufruisce delle agevolazioni fiscali dal momento della costituzione.
Ricordiamo che ogni variazione dei dati forniti in sede di comunicazione iniziale, comprese quelle che potrebbero comportare la perdita della qualifica di Onlus, deve essere comunicata entro 30 (trenta) giorni alla Direzione Regionale competente, utilizzando il medesimo modello, mediante indicazione specifica della variazione intervenuta in apposito riquadro.
Non profit on line 20 luglio 2016 www.nonprofitonline.it/default.asp?id=508&id_n=6879
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PARLAMENTO
Camera dei deputati. Assemblea Interrogazioni a risposta immediata.
20 luglio 2016. Iniziative per il monitoraggio dell’applicazione della legge n. 194 del 1978, al fine di garantire il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario (Binetti – AP).
Paola Binetti. Tre date: l’11 aprile la CGIL presenta un esposto al Comitato per i diritti sociali, accusando il Ministero della salute di non garantire sufficientemente il cosiddetto diritto all’aborto, che in quanto diritto non esiste, accusando in quanto tale il personale obiettore di coscienza di sottrarsi a responsabilità concrete, di caricare sui medici non obiettori di coscienza un surplus di lavoro francamente non tollerabile e evidenziando quella che peraltro invece è una constatazione che ripetutamente facciamo tutti ovvero la diversità di modelli organizzativi tra le diverse regioni e quindi la differenza di accesso ai servizi in questo senso. La seconda data: il 24 maggio il Ministero presenta una sua documentazione precisa e concreta che smentisce alcuni di questi passaggi. Il 6 luglio il Consiglio d’Europa, in qualche modo, rende atto all’Italia di essere in grado di garantire per le donne che desiderano abortire la possibilità di farlo. Il quesito è quello di come garantire invece l’obiezione di coscienza su tutto il territorio nazionale.
Beatrice Lorenzin, Ministra della salute. Ringrazio gli onorevoli interroganti perché mi consentono di ribadire quanto avevo avuto modo di affermare in occasione dell’informativa resa in quest’Aula il 4 maggio 2016 ovvero che il Consiglio d’Europa non aveva e, adesso lo possiamo dire, non ha mai condannato l’Italia per la mancata applicazione della legge n. 194 del 1978 in relazione al rapporto fra obiezione di coscienza e accesso ai servizi di interruzione volontaria della gravidanza, come purtroppo erroneamente riportato da molti organi di stampa. Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa infatti, lo scorso 6 luglio, si è pronunciato sulla decisione del Comitato dei diritti sociali del Consiglio d’Europa che, nell’ottobre del 2015, aveva parzialmente accolto un reclamo proposto della CGIL in merito alla presunta mancata applicazione della legge n. 194 del 1978. Quest’ultima decisione, per come avevo evidenziato nel corso dell’informativa dello scorso mese di maggio, scaturiva dal fatto che il predetto Comitato non aveva potuto prendere in considerazione i dati più recenti sull’applicazione della legge in materia di interruzione volontaria di gravidanza contenuti nella relazione trasmessa al Parlamento in data successiva a quella in cui il Comitato stesso aveva preso la sua decisione. Da questi dati rilevati, per la prima volta anche in forma disaggregata, a livello sub-regionale per ogni singola ASL, emerge con chiarezza che il carico di lavoro per ciascun ginecologo non obiettore è congruo rispetto alle interruzioni volontarie di gravidanza effettuate e non sembra tale, quindi, da impedire ai non obiettori di svolgere anche altre attività oltre al servizio di interruzione volontaria di gravidanza.
Sono proprio questi dati che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha valutato positivamente lo scorso 6 luglio. Ma non intendo fermarmi a questo riconoscimento internazionale, che non nascondo mi faccia piacere atteso che un monitoraggio così capillare e articolato dell’applicazione della legge n. 194 non era mai stato effettuato da nessun Ministro della salute. Intendo, infatti, proseguire su questa strada che ho avviato appunto tre anni fa e, consapevole che gli eventuali problemi di accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza sono dovuti a criticità organizzative locali e non al numero degli obiettori di coscienza, ho dato quindi disposizione ai miei uffici perché le regioni siano sollecitate a predisporre report regionali sull’applicazione della legge n. 194 del 1978 sulla base di un format di riferimento messo a disposizione delle stesse regioni. All’esito di questo ulteriore monitoraggio potranno essere meglio individuate le specificità locali riguardanti l’accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza, sia in senso positivo, sia che negativo, che potrebbero non essere emerse dalle rivelazioni regionali, il che metterà le amministrazioni regionali, cui come è noto compete l’organizzazione dei servizi sanitari, nelle condizioni di assicurare una completa attuazione della legge n. 194 del 1978 su tutto il territorio nazionale.
Quindi, la nostra intenzione è quella non solo di continuare questo monitoraggio straordinario che abbiamo avviato da tre anni, ma anche di fare un format più particolare per le regioni, individuare le singole specificità dove ci possono essere degli elementi critici, se ci sono, e poi accompagnarli anche in una soluzione.
Paola Binetti. Che il tema dell’aborto sia un tema delicato, un tema sensibile, un tema davanti al quale, anche a distanza di quasi quarant’anni, ci si proietta con una posizione che riflette una visione della vita, un’ideologia rispetto a una serie di cose, che in qualche modo intenda contrapporre quelli che sono i diritti della salute riproduttiva, di cui l’aborto non è una parte integrante. L’aborto è semplicemente una risposta drammatica a una situazione in cui la donna si può trovare, ma non è che la salute riproduttiva e il diritto alla salute riproduttiva che tutti quanti noi riconosciamo con pienezza si identifichi necessariamente con il diritto all’aborto. Viceversa, sì che ci sono dei diritti altrettanto importanti, come il diritto alla vita per il bambino, come il diritto all’obiezione di coscienza per il professionista, che, nel momento di giungere a quello che potrebbe essere il punto di equilibrio, il punto di caduta, diciamo, di una complessità di situazioni che si confrontano, renda necessario che, ogni volta, ogni situazione venga in qualche modo presa in carico con tutta la dovuta delicatezza, con tutta la dovuta prudenza e anche con tutta la possibilità di venire incontro a quelli che sono i bisogni che in quel momento la donna esprime in quella che è una condizione universalmente riconosciuta di fragilità.
La legge n. 194 parla anche di parti di servizi che, attraverso i consultori, dovrebbero essere offerte alle donne, parla anche di misure concrete perché si possa giungere in qualche modo a un obiettivo tendenza, per cui nessuna donna debba abortire e tanto meno debba abortire per motivi, che so io, di povertà, per motivi di fragilità, per motivi di contesto. Viceversa, su quella che è una parte positiva che riguarda la legge n. 194, mi sembra che ben poco è stato fatto. Quindi, io chiedo al Ministro, da un lato, senz’altro, di monitorare perché tutti i disservizi vengano risolti e perché nessuna donna si debba trovare, in qualche modo, esposta a una situazione di ulteriore drammaticità rispetto a quella che sta vivendo, ma di vigilare anche perché vengano garantiti, in primo luogo, il diritto all’obiezione di coscienza per medici, ostetriche e ginecologi, e, in secondo luogo, perché quella parte della legge n. 194, che in quarant’anni non è mai stata applicata, e che è quella che in qualche modo tende a ribaltare la percezione della legge, che non è soltanto la legge sull’interruzione di gravidanza, ma è la legge per la tutela sociale della maternità, venga una volta per tutte applicata a pieno titolo.
pag. 25
www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0658&tipo=stenografico#sed0658.stenografico.tit00070.sub00090
2°Commissione Giustizia Indagine attuazione della legislazione adozioni ed affido.
20 luglio 2016 Indagine conoscitiva sull’attuazione della legislazione in materia di adozioni ed affido. Audizione di Maria Elena Boschi, Ministro per i rapporti con il Parlamento con delega in materia di adozioni internazionali e pari opportunità.
www.camera.it/leg17/1105?shadow_organo_parlamentare=2076&id_commissione=02
http://www.camera.it/leg17/203
Proposta di legge C. 3890, presentata il 9 giugno 2016
Bini ed altri: “Modifica all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, concernente l’introduzione di sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione” Assegnata alla Commissione Giustizia. vedi news UCIPEM n. 606, pag. 21
Prostituzione, punire i clienti è primo passo.
La proposta di legge presentata nei giorni scorsi, che prevede sanzioni per chi si avvale di prestazioni sessuali da parte di prostitute, ha riaperto il dibattito sul tema della prostituzione in Italia, spostandolo sulla faccia meno ‘sorvegliata’ del fenomeno: quella della ‘domanda’. Ovvero dei milioni di clienti che ogni giorno acquistano sesso a pagamento.
Non è più solo questione – come altri continuano a proporre – di riaprire le ‘case chiuse’ o di creare zone a luci rosse nelle città, magari facendo pagare le tasse alle prostitute. Ma di porre l’attenzione su chi contribuisce allo sfruttamento di migliaia di donne sulle nostre strade o in locali e appartamenti, acquistandole come se fossero merci ‘usa e getta’. Ribaltando la prospettiva, emergono con più evidenza due aspetti sostanziali che spesso sono messi in secondo piano: da un lato, il fatto che lo sfruttamento della prostituzione in Italia si lega a doppio filo con il fenomeno della tratta e della riduzione in schiavitù di migliaia di giovani donne immigrate, costrette a vendere il proprio corpo; dall’altro, quello appunto della ‘domanda’, stimata attorno ai 9-10 milioni di prestazioni sessuali acquistate ogni mese.
Ecco perché è importante – nell’uno come nell’altro caso – affrontare il tema nella sua complessità, promuovendo innanzitutto un discorso culturale che crei maggiore conoscenza e sensibilizzazione rispetto al traffico di persone per lo sfruttamento sessuale, ma che contribuisca anche alla riduzione della ‘domanda’.
In questo senso, la riflessione va necessariamente allargata alle questioni relative alla relazione tra i generi, l’affettività, l’educazione a una sessualità responsabile a partire dalla famiglia e dalla scuola, la crisi dei ruoli, il rapporto tra denaro e potere, nonché all’immagine e all’uso spesso degradante del corpo della donna a fini commerciali e, infine, alla mancanza di reali pari opportunità tra i sessi.
La proposta di legge depositata in Parlamento si ispira al cosiddetto ‘modello nordico’, ovvero ai quei Paesi come Svezia, Norvegia e Islanda (e, più recentemente, Francia), che ha hanno introdotto pesanti sanzioni contro i clienti per scoraggiare il fenomeno della prostituzione. Ma accanto alla penalizzazione dell’acquisto di sesso a pagamento, la Svezia ha cominciato per prima, già nel 1999 – quasi vent’anni fa! – a portare avanti un preciso percorso di tipo culturale, che ha prodotto anche un cambiamento di mentalità. Il concetto di base è che la compravendita del sesso è una forma di violenza, svilisce l’essere umano e mina la parità di genere. E se nel 1996, il 45 per cento delle donne e il 20 per cento degli uomini erano favorevoli alla criminalizzazione dei clienti, nel 2008 la percentuale delle donne è salita al 79 per cento e quella degli uomini al 60 per cento.
Secondo la polizia svedese, il provvedimento avrebbe contribuito anche a ridurre il numero di persone che si prostituiscono e avrebbe esercitato un notevole effetto deterrente sulla tratta a fini di sfruttamento sessuale. Se lo guardiamo dall’interno della nostra società, il tema della prostituzione andrebbe affrontato pure qui a partire da uno sguardo più ampio innanzitutto su certi retaggi culturali di tipo maschilista e paternalista ancora ben presenti, e poi scandagliando soprattutto le relazioni tra uomo e donna, profondamente cambiate con il progressivo processo di emancipazione della donna.
Processo che ha cambiato sostanzialmente anche il modo di vivere la sessualità e il rapporto della donna con il proprio corpo. E che ha messo in discussione il ruolo dell’uomo. Negli ultimi decenni, gli uomini hanno perso la tradizionale situazione di dominio che avevano acquisito anche nelle relazioni di genere. Alcuni, la ricercano e la ritrovano nel rapporto mercificato e a pagamento con la prostituta, accompagnato talvolta da un sentimento di trasgressione, ma anche e soprattutto dalla sensazione di completo dominio su una persona disponibile e ubbidiente. In molti casi, vi si annida anche un sentimento di rivalsa nei confronti di donne che chiedono maggiori attenzioni, complicità e intimità, e che non sono sempre disponibili né tanto meno assoggettate al maschio-padrone.
Ma chi sono i ‘clienti’ delle prostitute? Impossibile fare un identikit del ‘cliente tipo’. Anche perché, in questi ultimi anni, l’acquisto di sesso a pagamento è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, che riguarda tipologie di uomini molto diverse. E, molto più di quanto si creda, persone con un elevato livello di istruzione, una buona posizione sociale e un buon lavoro, professionisti e manager, che pensano di potersi permettere di acquistare anche questo genere di ‘servizi’. Che in qualche modo li riconferma nella loro posizione di ‘potere’ (anche da un punto di vista sessuale).
Quasi sempre l’aspetto economico è centrale nella relazione. Anzi, ne determina la natura stessa, che è meramente strumentale. Il denaro dà il potere di ‘acquistare’ l’altro e dunque di dominarlo, di imporre le regole del gioco e di ottenere ciò che si vuole, di ‘usare’ la ‘merce’, a prescindere dai bisogni o dai desideri dell’altra persona. Che peraltro non viene neppure considerata come tale: non persona, ma corpo-oggetto, da ‘consumare’ esclusivamente per il soddisfacimento di un proprio bisogno. La rappresentazione del corpo, specialmente di quello femminile, da parte dei mass media non aiuta certo a far passare un’idea di donna nella sua completezza e complessità. Il corpo femminile è uno degli ‘strumenti’ privilegiati di un meccanismo di rappresentazione, in cui viene separato dalla persona per farne un mero oggetto di piacere o che dà piacere.
Basti guardare l’utilizzo che ne viene fatto nella campagne pubblicitarie, in cui ‘serve’ per vendere qualsiasi cosa e – più o meno implicitamente – viene percepito come in vendita. Oltre a ciò, i media troppo spesso esaltano modelli di riferimento e stili di vita e di consumo che fanno apparire tutto facile, accessibile, acquistabile. Mentre, in parallelo, si creano scenari di relazioni sempre più virtuali (o superficiali) che moltiplicano e alimentano un sistema di contatti epidermici e occasionali, spesso privi di un confronto reale e che producono processi di spersonalizzazione. E così il rapporto con l’altro si riduce al luogo della prevaricazione e della manipolazione, che non avviene solo nel mondo della prostituzione, ma spesso anche in quello della vita di tutti i giorni in forme più subdole, ma non meno pericolose.
Non solo in Italia, ma in tutte le società occidentali, si sono consolidati processi di ‘sessualizzazione’ delle società sulla base di relazioni di potere. I rapporti umani sono sempre più sottomessi alla legge del denaro e della mercificazione di qualsiasi cosa. Persone comprese. Specialmente le più vulnerabili, ovvero donne e bambini, spesso provenienti da contesti svantaggiati, usati come ‘prodotti’ sui mercati sessuali – ma anche per lo sfruttamento lavorativo o in altre varianti delle moderne schiavitù – dove possono essere acquistati, venduti, affittati, posseduti, scambiati, secondo una logica mercantile dell’’usa e getta’. Punire i clienti può servire a cambiare questa mentalità? Sì e no. O meglio, non basta.
Il fenomeno della prostituzione è talmente complesso che non può essere affrontato solo attraverso la criminalizzazione dei clienti. Ma chiedendosi il ‘perché’ delle cose. E lavorando molto di più soprattutto con e sui giovani. Per prevenire e ridurre la ‘domanda’, ma anche per promuovere un modello di società in cui i rapporti uomo-donna siano basati sul riconoscimento della dignità e della libertà dell’altro, su una reale uguaglianza e sul reciproco rispetto.
Anna Pozzi Avvenire 20 luglio 2016
www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Nella-lotta-alla-prostituzione-punire-i-clienti-il-primo-passo-.aspx
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PASTORALE
Dicastero Famiglia: online corso di educazione affettivo sessuale
Il Pontificio Consiglio per la Famiglia presenta a Cracovia, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, un progetto di educazione affettivo-sessuale per adolescenti e giovani. Elaborato in collaborazione con esperti della Conferenza episcopale spagnola, il progetto mira a una educazione integrale dei giovani entro cui la dimensione affettiva e sessuale si sviluppa armonicamente, attraverso scelte e passaggi maturati progressivamente. Il materiale, disponibile gratuitamente online in cinque lingue (italiano, inglese, spagnolo, francese e portoghese), offre una presentazione organica dell’intero progetto dedicata agli educatori e una serie di schede (per educatori e ragazzi) articolata in sei grandi unità. Arricchiscono il percorso numerosi contributi multimediali offerti in una playlist disponibile sul canale Youtube del Pontificio Consiglio per la Famiglia. vedi www.educazioneaffettiva.org
Mons Carlos Simon Vazquez, sottosegretario del Dicastero, ha sottolineato come “questo progetto si iscrive nella logica indicata da Papa Francesco, dove l’educazione sessuale è inserita in un quadro più complessivo di educazione all’amore e alla reciproca donazione (cf. Amoris Laetitia 280). E’ un progetto in crescita e in evoluzione, che si potrà arricchire dell’esperienza di quanti vorranno sperimentarlo e adottarlo.
Notiziario Radio vaticana – 22 luglio 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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PENSIONE
Illegittima la riduzione della reversibilità.
Corte costituzionale – Sentenza n. 174, 15 giugno 2016.
Illegittima la disposizione che prevede la riduzione della pensione di reversibilità a favore del coniuge nel caso in cui il de cuius abbia celebrato il matrimonio ad età superiore a 70 anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a vent’anni. La corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5 del decreto legge 6 luglio 2011 n. 98 convertito con legge 15 luglio 2011 n. 111 per violazione degli artt. 3, 36 e 38 Costituzione.
La norma dichiarata illegittima prevedeva per le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2012 che l’aliquota percentuale della pensione di reversibilità a favore del coniuge superstite fosse ridotta, nei casi di matrimonio contratto dal de cuius ad età superiore a 70 anni con una differenza di età tra i coniugi superiore a 20 anni, del 10% in ragione di ogni anno del matrimonio con il de cuius mancante rispetto al numero di 10, per cui il coniuge superstite avrebbe dovuto dal 2012 ricevere una pensione nella misura percentuale sopra riferita.
La questione di legittimità è stata rimessa alla Corte costituzionale dalla Corte dei conti della regione Lazio. La Corte ha osservato come la pensione di reversibilità configuri “una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell’interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici” e ciò ex art. 3, 2° comma della Costituzione, rilevando come “la pensione di reversibilità erogata al coniuge superstite si colloca nell’alveo degli art. 36, 1° comma e 38, 2° comma, della carta fondamentale, che prescrivono l’adeguatezza della pensione quale retribuzione differita e l’idoneità della stessa a garantire un’esistenza libera e dignitosa” osservando, inoltre, che “la finalità previdenziale della pensione di reversibilità si raccorda ad un peculiare fondamento solidaristico, in quanto tale prestazione mira a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire lo stato di bisogno che può derivare dalla morte del coniuge”.
La Corte, su tali presupposti, ha rilevato come la disposizione impugnata si riveli “disarmonica” rispetto ai principi costituzionali sopra ricordati, chiarendo come “la disposizione dichiarata incostituzionale abbia introdotto una regolamentazione irragionevole, incoerente con il fondamento solidaristico della pensione di reversibilità che ne determina la finalità previdenziale, presidiata dagli art. 36 e 38 cost.”, precisando che, operando a danno del solo coniuge superstite più giovane, “si conferisce, in tal modo, rilievo a restrizioni a mero fondamento naturalistico (sentenza. N. 587 del 1988, punto 2 del considerato in diritto”) che la giurisprudenza della stessa consulta ha già ritenute estranee “all’essenza e ai fini del vincolo coniugale”, con peculiare riguardo all’età avanzata del contraente e alla durata del matrimonio”.
Secondo la corte, il sistema introdotto dalla norma dichiarata incostituzionale appare tanto più “inaccettabile quando la durata del matrimonio sia inferiore all’anno”, ipotesi secondo la quale “la durata del matrimonio azzera il trattamento previdenziale”, per cui “il meccanismo di riduzione, concepito in termini graduali dal legislatore, si risolve in una esclusione pura e semplice del diritto”. Correttamente la corte ha evidenziato che “il nesso tra durata del matrimonio e ammontare della pensione di reversibilità non si correla ad una previsione generale e astratta, eventualmente incentrata su un requisito minimo di convivenza, valido per tutte le ipotesi. Tale nesso, articolato nei termini singolari di un progressivo incremento dell’importo della pensione al protrarsi del matrimonio riguarda la sola ipotesi in cui il matrimonio sia scelto da chi ha già compiuto i 70 anni e la differenza di età tra i coniugi travalichi i 20 anni.”
Conclude la corte precisando che “il rilievo peculiare della durata del matrimonio, nella sola ipotesi regolata dalla disciplina in esame, ne palesa, da altra e ugualmente pregnante angolazione, – il contrasto già segnalato con l’art. 3 Cost.”. Da tali considerazioni la Corte fa discendere la fondatezza della questione di legittimità costituzionale sopra ricordata.
La questione appare di rilevante interesse sociale per la sempre maggior diffusione di matrimoni tra ultrasettantenni e persone con più di 20 anni in meno.
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.
Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84
Programma, scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=399:congresso-ucipem-di-oristano-bozza-del-programma&catid=61&Itemid=203
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UNIONI CIVILI
Unioni civili, via libera del Consiglio di stato.
Parere favorevole del Consiglio di stato al decreto sui registri per le unioni civili. Tra i punti sotto osservazione il nodo della possibile obiezione di coscienza dei sindaci è superata dal fatto che il testo parla di ufficiale di stato civile la cui platea è molto ampia, è stato spiegato in conferenza stampa. Quindi il sindaco non è obbligato a “celebrare” unioni civili.
I contenuti del parere sul decreto che regola il regime transitorio di trascrizione delle unioni civili nei Registri di stato civile sono stati illustrati dal consigliere Franco Frattini che presiede la sessione consultiva sui provvedimenti legislativi. “Il Consiglio di Stato – ha detto Frattini – accende la luce sull’attivazione di un diritto che si fonda sull’articolo 2 della Costituzione, il quale indica l’unione della coppia come una formazione sociale da tutelare”.
Quattro gli elementi fondamentali segnalati: “c’è un diritto assoluto dei partner alla trascrizione nei registri – ha detto Frattini – che il decreto tutela con la formula “Ufficiale di stato civile” e questo evita che, attraverso dichiarazioni di coscienza individuale, si possa non dar corso all’attuazione. Non solo i sindaci, infatti, possono trascrivere le unioni ma possono delegare altre figure che rivestono altra qualifica. La platea è molto ampia e si evita il rischio che si paralizzi l’attuazione della normativa”.
Il Consiglio di Stato suggerisce inoltre che vengano varati insieme il decreto sui Registri e quello che deve emanare il ministero degli Interni relativo alle formule da usare. “Sarà così possibile in 15 giorni registrare la prima unione civile”, rileva Frattini.
Un suggerimento che arriva dal Consiglio di Stato è quello di sottoporre al parere del garante della privacy, da qui a dicembre, l’impianto complessivo delle norme in materia dal momento che vengono utilizzati dati sensibili. Infine, un ulteriore appello ad adottare nei termini i decreti attuativi e a non perdere la scadenza indicata del 5 dicembre prossimo: “Una cosa è un registro disposto con un provvedimento d’urgenza, altra è disciplinare un’intera situazione – ha detto Frattini – da qui il consiglio a compiere un monitoraggio sul funzionamento del decreto e il suggerimento a produrre circolari informative”.
Avvenire 21 luglio 2016 www.avvenire.it/famiglia/Pagine/unioni-civili-consiglio-di-stato.aspx
Gli “uniti civilmente” devono separarsi, prima di sciogliere l’unione?
La legge cd. Cirinnà ha introdotto, come noto, l’istituto delle «unioni civili»: le coppie formate da persone dello stesso sesso, a far data dal 5 giugno 2016 (una volta emanati i decreti attuativi), potranno rivolgersi all’ufficiale di stato civile e chiedere la registrazione della loro unione. Pertanto, come accadeva già in molti altri Stati, le coppie dello stesso sesso potranno vantare il riconoscimento di una serie di diritti e obblighi che equiparano il civilmente unito al coniugato. Dall’esame del recente intervento normativo, a parere di alcuni commentatori, emergerebbe un trattamento legislativo più favorevole per le coppie omosessuali rispetto alle coppie eterosessuali, con riferimento al momento dello scioglimento del vincolo civile.
L’art. 1 comma 23 della Legge cd. Cirinnà prevede che l’unione civile si scioglie nei casi previsti dall’articolo 3, n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e) della legge 10 dicembre 1970, n. 898.
L’art. 1 comma 24 della L. Cirinnà prevede, altresì, la risoluzione dell’unione civile quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell’unione civile è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di scioglimento dell’unione. Dunque il venir meno dello status può derivare da cause di carattere oggettivo (art. 1 comma 23) o da cause di carattere strettamente soggettivo (art. 1 comma 24).
In caso di scioglimento dell’unione civile – per effetto di richiesta congiunta o unilaterale – si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 4, 5, primo comma e dal quinto all’undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nonché le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162. Dunque, salvi i casi di scioglimento automatico (morte, morte presunta e rettifica del sesso), l’unione civile può essere sciolta su domanda congiunta o disgiunta degli uniti; in altri termini, è sufficiente che uno dei due partner si rivolga all’ufficiale di stato civile e dichiari l’intenzione di voler sciogliere l’unione.
Decorsi tre mesi dalla suddetta manifestazione di volontà, il civilmente unito potrà rivolgersi al Tribunale, da solo o congiuntamente all’altro partner, per ottenere una pronuncia di scioglimento dell’unione. In via alternativa, i civilmente uniti possono ottenere lo scioglimento dell’unione, ricorrendone i presupposti, rivolgendosi al Sindaco (art. 2 D.l. 132/2014) o agli avvocati per il perfezionamento di un accordo da redigersi a seguito di negoziazione assistita.
Ma si applica agli uniti civilmente la separazione? Alcuni indici normativi lascerebbero intendere una risposta affermativa e, quindi, un’estensione, al nuovo istituto, dell’intera disciplina sulla separazione e il divorzio: Ai sensi dell’art. 1 comma 25 della L. Cirinnà, agli uniti civilmente si applicano le norme di cui al titolo II del Libro IV del codice di procedura civile: questo richiamo include, dunque, almeno formalmente, gli articoli 706 e ss c.p.c. ossia le norme che regolano la separazione personale dei coniugi.
Ai sensi dell’art. 1 comma V della L. Cirinnà, agli uniti civilmente si applica, tra l’altro, l’art. 126 c.p.c. (separazione dei coniugi in pendenza del giudizio): «quando è proposta domanda di nullità del matrimonio, il tribunale può, su istanza di uno dei coniugi, ordinare la loro separazione temporanea durante il giudizio; può ordinarla anche d’ufficio, se ambedue i coniugi o uno di essi sono minori o interdetti». Anche questa disposizione, dunque, presupporrebbe l’applicabilità della separazione.
Ma vi è di più, l’art. 13 della legge Cirinnà prevede l’applicabilità al nuovo istituto anche delle disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del titolo VI del libro I del codice civile. Quindi vi è un espresso rinvio all’art. 191 c.c. il quale prevede, tra le cause di scioglimento della comunione, anche la separazione.
Inoltre, ai sensi dell’art. 21 della legge medesima, trovano applicazione le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V bis del titolo IV del libro secondo del codice civile e, in particolare, gli articoli 548 e 585 cc i quali, in materia successoria, equiparano il coniuge separato (al quale non è stata addebitata la separazione) al coniuge non separato. In ultimo l’articolo 25 della legge Cirinnà sancisce l’applicabilità alle unioni civili degli art. 6 e 12 del d.l. 132/2014 e successive modificazioni. Tali norme prevedono la possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita nei casi di soluzione consensuale di separazione personale, cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione.
Gli indici normativi a cui si è fatto rifermento non consentono, tuttavia, di affermare che agli uniti si applichi l’istituto della separazione. Il richiamo alle norme del titolo II, libro IV è fatto in quanto esse siano “compatibili”: non sono, dunque, richiamate, perché incompatibili, le disposizioni sulla separazione (artt. 706 – 711 c.p.c.) atteso che, nel caso di unione civile, è prevista la procedura di scioglimento diretto. Ciò risulta anche dalla relazione illustrativa all’originario DDL n. 2081 ove espressamente si precisa che «lo scioglimento dell’unione civile è regolato dalle stesse disposizioni vigenti in materia di scioglimento del matrimonio»
Richiamando le disposizioni divorzili, la legge cd. Cirinnà esclude espressamente l’art. 3, n. 2, lett. b legge 898 del 1970 ove è previsto che il divorzio possa essere richiesto «quando è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale»: è un chiaro indice normativo nel senso che non è affatto previsto l’istituto separativo. Quanto al richiamo all’art. 126 c.c., la sua previsione si giustifica per il richiamo all’art. 146 c.c.: quest’ultima norma sanziona la condotta del coniuge o dell’unito che interrompa ingiustificatamente la coabitazione; l’art. 126 c.c. evita che, la cennata sanzione possa intervenire, a seguito della introduzione del giudizio invalidatorio dell’unione, su specifico provvedimento del giudice che abilita alla interruzione della coabitazione.
In conclusione, può affermarsi che la separazione non è prevista per gli uniti civilmente. Escluso che gli uniti debbano prima separarsi per sciogliere l’unione, resta da chiedersi se, però, debbano essere “autorizzati” a vivere separati (anche agli effetti dell’art. 191 c.c.), con statuizione, ovviamente, resa nell’ambito del rito divorzile. Le osservazioni sin qui svolte conducono, in realtà, a escludere le necessità, nell’ambito del giudizio divorzile, di uno specifico provvedimento di autorizzazione alla interruzione della coabitazione, in ciò registrandosi una diversità strutturale tra il procedimento di “scioglimento” del vincolo matrimoniale e quello di scioglimento dell’unione civile. Peraltro, nello scioglimento per volontà dell’unito, già per effetto della dichiarazione resa all’ufficiale di Stato civile competente, si realizza il diritto alla interruzione della coabitazione.
A questo punto, una riflessione si impone: colgono nel segno i commentatori che ritengono i coniugi (persone di sesso diverso unite in matrimonio) trattati legislativamente in modo deteriore, rispetto agli uniti (persone dello stesso sesso, vincolate da unione), nel momento dello scioglimento del vincolo? Infatti, solo per i coniugi e non anche per gli uniti, è obbligatoria la preventiva separazione, peraltro, in un regime che ormai ha ridotto e di molto il lasso temporale necessario per passare dall’un regime all’altro (v. legge 55 del 2015).
La questione è quella di comprendere se la disciplina diversificata sia o no fondata su ragionevolezza. E qui assume rilevanza il “valore” e il “senso” della separazione, nei costumi sociali contemporanei e nella rilevazione statistica giudiziaria. A tacer d’altro, forse è appena il caso di ricordare le parole di Coulon: «Le divorce est un remède ; la séparation n’est qu’un palliatif» (COULON H., Le divorce et la séparation de corps, I, Paris, 1890, 2).
Francesca Mauro e Giuseppe Buffone Newsletter Altalex 24 luglio 2016
Unioni civili: prime riflessioni sull’applicazione in campo penale della legge 76/2016.
La Legge 76/2016 (Cirinnà) contiene un generico rinvio con il quale rende applicabili alle unioni civili fra persone dello stesso sesso (quasi) tutte le norme che riguardano il matrimonio a condizione che ciò renda effettivi diritti e doveri derivanti dall’unione. Per la materia penale si pone, però, un problema di costituzionalità e, in ogni caso, un non semplice problema di interpretazione.
Premessa. La Legge n. 76 del 2016, nell’introdurre nel nostro ordinamento le unioni civili fra persone dello stesso sesso, ha evitato accuratamente di utilizzare termini propri dell’istituto del matrimonio per ragioni di opportunità politica. Tuttavia, il legislatore era evidentemente mosso dall’intento di riconoscere ai componenti l’unione civile una tutela e uno status nella sostanza non dissimili da quelli coniugali. Infatti, il comma 20 dell’unico articolo di cui la legge si compone recita “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Si può, dunque, sostenere che le norme del codice penale e del codice di procedura penale che contengono le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti o che si riferiscono, in ogni caso, al matrimonio si applicano automaticamente anche alle unioni civili?
Nel codice penale diverse fattispecie incriminatrici, così come diverse norme che prevedono aggravanti o attenuanti o cause di non punibilità contengono le parole indicate dal comma 20. In particolare contengono la parola “coniuge”:
- l’art. 556 c.p. (Bigamia);
- l’art. 558 c.p. (Induzione al matrimonio mediante inganno);
- l’art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare);
- l’art. 577 c.p. (Altre circostanze aggravanti [dell’omicidio]. Ergastolo);
- l’art. 591 c.p. (Abbandono di persone minori o incapaci);
- l’art. 602 ter c.p. (Circostanze aggravanti [dei reati di cui agli artt. 600, 601, 602 c.p.]);
- l’art. 605 c.p. (Sequestro di persona);
- l’art. 609 ter c.p. (Circostanze aggravanti [della violenza sessuale]);
- l’art. 612 bis c.p. (Atti persecutori);
- l’art. 649 c.p. (Non punibilità e querela della persona offesa per fatti commessi a danno di congiunti).
Anche nel codice di procedura penale troviamo riferimenti al coniuge:
- nell’art. 199 (Facoltà di astensione dei prossimi congiunti);
- nell’art. 282 bis (Allontanamento dalla casa familiare).
Problemi di tecnica legislativa e riflessi di costituzionalità. Secondo le indicazioni contenute nella legge sulle unioni civili tutte le norme sopra elencate dovrebbero trovare applicazione anche alle persone unite civilmente a condizione che così facendo si assicuri “l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Prima di valutare se la finalità sopra riportata ricorre in ciascuna delle norme elencate, è necessario affrontare un’altra questione. E’ necessario, infatti, verificare se una tecnica legislativa quale quella utilizzata nel comma 20 dell’art. 1 soddisfi il requisito della tassatività, della precisione e della sufficiente determinatezza della fattispecie penale, corollari dell’art. 25 della Costituzione. A tale proposito è superfluo ricordare che la norma penale non è suscettibile di interpretazione analogica. Il divieto di analogia nella materia penale contenuto espressamente nell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale – Le leggi penali … non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati – ed espresso, in via implicita, anche nell’art. 1 del codice penale – Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge – viene considerato costituzionalizzato dall’art. 25 Cost.
Sulla base di queste premesse, si può sostenere che la condotta descritta in una norma incriminatrice è imputabile alla persona unita civilmente, e non solo alla persona coniugata, sulla base del generico richiamo operato “ad ogni altra legge… che contenga le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti”? Non solo. E’ sufficientemente determinata una fattispecie incriminatrice che, per le persone unite civilmente, trova applicazione solo se finalizzata a garantire l’effettiva tutela dei diritti e il pieno adempimento dei doveri derivanti dall’unione civile?
Il giudice penale, infatti, potrà applicare determinate fattispecie incriminatrici o determinate aggravanti alle persone unite civilmente solo dopo aver valutato se l’applicazione della norma ottiene l’effetto di tutelare i diritti o rendere effettivi i doveri nascenti dall’unione civile. Una fattispecie penale che delega all’interprete un simile compito e un simile potere è ancora rispettosa del principio di legalità?
Esula dalla scopo di queste brevi note approfondire queste tematiche. La risposta verrà dall’applicazione pratica, ma già è possibile prevedere che la Corte costituzionale sarà chiamata a decidere se una simile tecnica legislativa sia compatibile con l’art. 25 della Carta fondamentale.
Effettività della tutela dei diritti e pieno adempimento degli obblighi: fattispecie incriminatrici e aggravanti. Tralasciando la questione di costituzionalità appena tratteggiata, resta da verificare se e in quali casi l’applicazione delle fattispecie penali elencate anche alle persone unite civilmente realizzi l’effettività dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dalle unioni civili.
La fattispecie meno problematica è quella prevista dall’art. 570 c.p. sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare. In questo caso sembra difficile sostenere che la possibilità di applicare la sanzione penale anche alla persona unita civilmente, oltre che al coniuge, non abbia a che fare con l’effettiva tutela delle posizioni giuridiche nascenti dall’unione civile. Il comma 11 dell’articolo 1 della legge 76 del 2016 fa, infatti, derivare dall’unione civile “l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale” e l’art. 570 c.p. punisce chi “abbandonando il domicilio domestico o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie si sottrae agli obblighi derivante dalla qualità di coniuge”.
Lo stesso può dirsi per l’abbandono di persone incapaci previsto dall’art. 591 c.p. che contempla un aumento di pena se l’autore dell’abbandono è il coniuge. Appare evidente che l’inasprimento della sanzione a carico del coniuge tende proprio a stigmatizzare la violazione di quegli obblighi di assistenza che sono connaturati al matrimonio. L’aggravante risulta, per tanto, applicabile anche per la violazione degli obblighi di assistenza derivanti dall’unione civile.
Le letture giornalistiche della legge 76 del 2016 tendono ad escludere, invece, che la persona unita civilmente possa rispondere del reato di bigamia perché l’applicazione dell’art. 556 c.p. non realizzerebbe il fine di rendere effettivi diritti e doveri nascenti dall’unione civile. La ratio dell’incriminazione, infatti, è tradizionalmente ravvisata dalla dottrina nella “tutela dell’ordinamento monogamico del matrimonio”. Ci si può domandare se tale ratio non abbia a che fare con la volontà di assicurare effettiva applicazione ai diritti e ai doveri nascenti dal matrimonio e, quindi, dall’unione civile. Torna a riproporsi, dunque, il problema della tecnica legislativa, dal momento che all’interprete è demandato decidere se una condotta sia penalmente rilevante, o meno, sulla base di una finalità quale quella posta dal comma 20 dell’articolo 1.
Esistono, infine, numerose fattispecie incriminatrici quali gli atti persecutori, l’omicidio, la violenza sessuale, il sequestro di persona in cui al reo viene applicata un’aggravante se coniugato con la persona offesa. Anche in queste ipotesi è, quanto meno, dubbio che la ratio della responsabilità aggravata vada rinvenuta nella finalità di accordare effettiva tutela ai diritti e applicazione ai doveri nascenti dal matrimonio e che la norma possa essere, conseguentemente, estesa anche alle persone unite civilmente. Si può sostenere, infatti, che la ratio dell’aggravante vada, invece, ricercata nella volontà di punire più gravemente chi abbia approfittato della propria vicinanza alla persona offesa per commettere con maggiore facilità il crimine. Si tratta di una ratio che certamente ricorre anche nel caso dell’unione civile, ma che è chiaramente diversa da quella indicata nel comma 20 dell’art. 1.
Attenuanti e cause di non punibilità. I codici penale e di procedura penale contengono disposizioni in favore del coniuge che, in tale sua veste, non risponde di determinati reati. Egli non è punibile ex art. 649 c.p. per la maggior parte dei reati contro il patrimonio commessi a danno del coniuge. In base all’art 299 c.p.p., il coniuge ha la facoltà di astenersi dal deporre contro il marito o la moglie. Anche in queste ipotesi non sembra si possa dubitare che lo scopo della norma è tutelare la solidarietà coniugale alla quale, nel caso previsto dall’art. 299 c.p. p. è dato rilievo maggiore rispetto all’interesse della collettività all’amministrazione della giustizia. Dunque, la norma sembra applicabile anche alle persone unite civilmente allo scopo di dare effettiva tutela ai diritti derivanti dall’unione.
A proposito di tali disposizioni, va rilevato che, trattandosi di norme di favore, si può sostenere che esse si sottraggano ad una rigida applicazione del divieto di analogia.
La persona unita civilmente come “prossimo congiunto”. Nel codice penale esistono, infine, numerose norme che si riferiscono ai “prossimi congiunti”. Esse, dunque, non contengono la parola “coniuge” o “coniugi”, ma contengono un termine che può dirsi “equivalente” per usare la formula utilizzata dal com.20.
Le norme a cui ci si riferisce sono:
- l’art. 307 (Assistenza ai partecipi di cospirazione o banda armata);
- l’art. 323 (Abuso d’ufficio);
- l’art. 384 (Casi di non punibilità [nei reati contro l’amministrazione della giustizia]);
- l’art. 386 (Procurata evasione);
- l’art. 390 (Procurata inosservanza di pena);
- l’art. 418 (Assistenza agli associati);
- l’art. 597 (Querela della persona offesa [nel delitto di diffamazione]).
Proprio per evitare problemi interpretativi incompatibili con i principi di legalità e tassatività della disciplina penale, l’art. 307 c.p. stabilisce che “agli effetti della legge penale si intendono per prossimi congiunti, gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli e le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”. La Corte costituzionale, chiamata in passato a pronunciarsi sulla legittimità dell’esclusione del convivente dal novero dei prossimi congiunti, aveva dichiarato inammissibile la questione affermando che rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore ogni intervento diretto ad uniformare la disciplina della convivenza con quella del matrimonio (Corte cost. 20 aprile 2004, n. 121). Dopo l’approvazione della legge 76 del 2016 bisognerà accertare, ancora una volta, se l’applicazione di tali norme alle unioni civili soddisfa la finalità più volte richiamata. Tale finalità sembra potersi ravvisare nelle norme che considerano il vincolo come causa di non punibilità o come attenuante o che attribuiscono al prossimo congiunto il diritto di proporre querela nei casi di cui all’art. 597 c.p..
Sembra, invece, escluso che l’abuso di ufficio possa essere contestato al pubblico ufficiale che abbia omesso di astenersi in caso di interesse della persona a cui è unito civilmente perché in questa ipotesi l’applicazione della fattispecie penale non ha lo scopo di realizzare i diritti e i doveri nascenti dall’unione, ma quello di tutelare il buon funzionamento della pubblica amministrazione. Tale conclusione si sottrae ad ogni ragionevolezza, ma appare conclusione obbligata alla luce della legge 76 del 2016.
Claudia Balzarini Il Quotidiano Giuridico Wolters Kluwer Newsletter Altalex 24 luglio 2016
www.altalex.com/documents/news/2016/06/11/unioni-civili-riflessioni-legge-76-2016
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