UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 606 – 17 luglio 2016
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AMORIS LAETITIA Jean-Paul Vesco: il papa invita ad una rivoluzione dello sguardo.
Amoris Laetitia, una rivoluzione dello sguardo.
Perché dissento da Card. Caffarra e concordo con Card. Schoenborn
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Conta più il conto o la dichiarazione dei redditi?
Assegno di mantenimento alla ex moglie: stop in 2 casi
Ridotto l’assegno se l’ex ha nuova famiglia e figli.
CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF Newsletter n. 13/2016, 13 luglio 2016.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Senigallia. Presentazione di “Donne tra noi” di Renata D’Ambrosio.
DALLA NAVATA 16° Domenica del tempo ordinario – anno C -17 luglio 2016.
Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.
DIRITTO DI FAMIGLIA Novità dalla legge europea 2015-2016, in vigore dal 23 luglio.
DIVORZIO E SEPARAZIONE Divorzio congiunto: cos’è e come procedere.
Matrimonio senza rapporti sessuali: divorzio senza separazione.
Niente trasferimenti patrimoniali con procedimenti semplificati.
Negli accordi più spazio ai legali, dopo la bocciatura della circolare.
GESTAZIONE PER ALTRI Utero in affitto, l’Italia esca dall’ambiguità.
Regole efficaci, o si premia chi viola la legge.
MATERNITÀ Scatti di carriera: si contano anche i congedi di maternità
La maternità vale per la carriera.
MATRIMONI Quell’insopprimibile voglia di sposarsi
PARLAMENTO Camera 2°C. Giustizia Assegnata Pdl sulla punibilità degli utenti della prostituzione.
Prostituzione, piano per punire i clienti.
UCIPEM Congresso: La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
UNIONI CIVILI Famiglia, unioni civili e convivenze
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AMORIS LAETITIA
Jean-Paul Vesco: “In Amoris Laetitia, il papa invita ad una rivoluzione dello sguardo”
Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano, domenicano, autore di Tout amour véritable est indissoluble [Ogni vero amore è indissolubile] (Cerf, 2015), si esprime sull’esortazione apostolica sulla famiglia. Fin dal 2014 aveva proposto una via per uscire dalla nozione di «persistenza nello stato di peccato», all’origine dell’impossibilità per i divorziati risposati di ricevere l’assoluzione e quindi di poter fare la comunione.
«Nell’esortazione apostolica, giustamente chiamata Amoris Laetitia, papa Francesco invita ad una rivoluzione dello sguardo. Non cambia nulla della dottrina della Chiesa eppure cambia tutto nel rapporto della Chiesa col mondo. Cambia tutto nello sguardo che siamo invitati a rivolgere alle situazioni umane sempre complicate e singolari, così spesso ferite e fragili. Siamo di fatto invitati a rivolgere lo sguardo che Gesù rivolgeva alle persone che incontrava. È proprio estremamente semplice. Ed estremamente esigente.
Papa Francesco avverte subito che “non tutte le discussioni dottrinali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero (3)”. Ci invita anche a “rinunciare a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, al fine di accettare veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e di conoscere la forza della tenerezza (308)”. Alla sequela di Gesù, che non è venuto per abolire la legge di Mosè ma per portarla a compimento pur affermando che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, papa Francesco ci manda sulla via dell’incontro in umanità, a mani nude. E questo senza rinunciare a proporre e ad annunciare l’aspetto più bello e più esigente del messaggio evangelico iscritto nel cuore delle aspirazioni umane più profonde.
Riguardo alla pastorale specifica dei divorziati-risposati e delle persone in situazioni coniugali “irregolari”, né coloro che l’attendevano, né coloro che la temevano, troveranno la frase fatidica che autorizza l’accesso al sacramento della riconciliazione e quindi anche alla comunione eucaristica. Ed è bene così.
Papa Francesco avverte che se si tiene conto delle “innumerevole varietà di situazioni concrete, si può comprendere che non ci si dovesse aspettare dal sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi (300)”. Il Santo Padre continua affermando che “un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando le leggi morali a coloro che vivono in situazioni ‘irregolari’ (305)”. È immergendosi nel cuore delle storie singolari di ognuno, con per sola arma “la misericordia di colui a cui è stata fatta misericordia (307)” che i pastori saranno a servizio della verità del Vangelo.
Più che una legge generale applicabile a tutti, sono degli elementi di giudizio che sono offerti. Sono molto chiari e vanno tutti nella stessa direzione data precedentemente. “La strada della Chiesa, dal concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: quella della misericordia e dell’integrazione (…). La strada della Chiesa è quella di non condannare nessuno eternamente, di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero. Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita (296)”.
Un elemento totalmente innovativo ed essenziale per la valutazione della situazione delle persone divorziate-risposate è comunque offerto: il tener conto del carattere irreversibile delle situazioni matrimoniali e familiari “che non permettono di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa (301)”. Dato che “nessuno può essere condannato per sempre perché questa non è la logica del Vangelo (297)”, il carattere definitivo di una situazione non può più essere un ostacolo insormontabile al sacramento della riconciliazione. A condizione, naturalmente, che il carattere obiettivamente “irregolare” della situazione sia riconosciuto dalla persona, che sia stato fatto un lavoro di verità e che la contrizione sia reale. Questa esortazione apostolica, che è ormai il testo normativo, non fa più menzione della condizione indispensabile di separazione o di una vita “da fratello e sorella”.
Dopo la lettura di questa esortazione, non sarà più possibile ad un prete rispondere in coscienza ad una persona divorziata-risposata: “Mi scusi, ma a causa della sua situazione matrimoniale, non sono autorizzato ad ascoltarla in confessione”. Occorrerà ormai che entri con questa persona nella singolarità della sua storia, consideri la consapevolezza che ha delle sue responsabilità nella situazione specifica e delle possibilità eventuali di far evolvere quella situazione, tenga conto del lavoro di riconciliazione e se necessario di riparazione che è stato intrapreso. Al termine di tale percorso, io come prete, e non solo il vescovo, mi sentirò autorizzato a dare in coscienza il sacramento della riconciliazione a delle persone che sono in una situazione matrimoniale obiettivamente “irregolare” divenuta definitiva, ma che si appellano in verità alla misericordia di Dio che, sola, ci rialza e ci salva».
Dichiarazioni di Jean-Paul Vesco, a cura di Anna Latron in “La Vie” dell’11 aprile 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut330
Amoris Laetitia, una rivoluzione dello sguardo.
Mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano (Algeria) ha redatto un lungo articolo che sarà pubblicato in ottobre sulla rivista Concilium sull’esortazione apostolica post-sinodale di papa Francesco, Amoris laetitia. La Documentation catholique pubblica una sintesi dell’articolo, anch’essa redatta da Mons. Vesco. Con Amoris laetitia, spiega il vescovo di Orano, papa Francesco fa “opera di tradizione”. In particolare citando, a diverse riprese, l’esortazione apostolica Familiaris consortio di san Giovanni Paolo II sull’indissolubilità del matrimonio cristiano o sull’incitazione a “discernere bene le diverse situazioni” nelle quali si trovano coppie e famiglie. Ricordato questo insegnamento, prosegue Mons. Vesco, viene offerto un elemento totalmente innovativo: quello della necessità di tener in considerazione “il carattere irreversibile di situazioni matrimoniali e familiari che non permettono di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa”. Dato che “nessuno può essere condannato per sempre perché questa non è la logica del Vangelo”, spiega ancora, “il carattere irreversibile di una situazione non può più essere de facto un ostacolo definitivo al sacramento della riconciliazione”. Papa Francesco, prosegue Mons. Vesco, riafferma che la Chiesa “non è in primo luogo dottrinale e questo cambia molto nel suo rapporto con il mondo.
Invita ad una rivoluzione dello sguardo e ci invita a rivolgere lo sguardo che Gesù rivolgeva alle persone che incontrava”. “È proprio estremamente semplice. Ed estremamente esigente”, conclude.
Anne Soupa www.baptises.fr, 4 luglio 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut89
Alla scoperta di AL(19): Perché dissento dal Card. Caffarra e concordo con il Card. Schoenborn
Nel dibattito intorno ad AL dobbiamo onorare gli argomenti più forti e più convincenti. Nel dialogo a distanza tra due cardinali provo a mettere alla prova gli argomenti del card. Caffarra. Una premessa doverosa. Conosco personalmente il card. Caffarra, che ho incontrato due volte, prima quando era Vescovo di Ferrara e poi da Arcivescovo di Bologna. E nelle due occasioni ho sempre notato la affabilità e la finezza del modo con cui si relazionava alle singole persone. Tanto più mi sorprende la veemenza con cui critica il papa e il card Schoenborn quando esplica con eleganza e finezza le buone ragioni di AL. Tanto da arrivare a chiedere loro, addirittura, di fare retromarcia e di smentire se stessi.
Vorrei esporre gli aspetti più problematici di questo suo modo di leggere AL in 5 punti:
- Una ermeneutica della discontinuità. La prima cosa che mi sorprende è il fatto che il Card. Caffarra ipotizzi apertamente una “discontinuità insopportabile” nelle tesi magisteriali espresse da AL. Egli legge la storia della dottrina matrimoniale come se per 1900 anni si fosse sviluppata una dottrina coerente e monolitica, che avrebbe trovato la sua compiuta espressione nei testi che egli cita: Veritatis Splendor, Familiaris Consortio e Sacramentum Caritatis. Mentre AL sarebbe uno strappo inaccettabile, perché romperebbe il principio “rivelato” dell’esercizio legittimo della sessualità soltanto all’interno del matrimonio sacramentale. Ma il cardinale è costretto a costruire questo “teorema” prescindendo dalla storia, che ci racconta invece fatti ben diversi. L’assetto dottrinale degli ultimi decenni è il frutto di una esasperazione del tema, che nasce solo nel 1852, con Pio IX e diventa la sequenza di encicliche che dal Arcanum Divinae Sapientiae (1880) a Casti connubii (1930) arriva, sia pure attraverso il Vaticano II, a Humanae vitae (1968), con la dura istituzionalizzazione del Codex del 1917. Se Familiaris Consortio presuppone certo questa storia, apre tuttavia già sul nuovo, di cui ammette la rilevanza, senza assumerlo completamente. Da questo punto di vista AL deve essere letta come in continuità con Familiaris Consortio, nell’intento di superare pienamente l’assetto ottocentesco della dottrina matrimoniale, che già in quel testo aveva iniziato a vacillare. Caffarra utilizza una ermeneutica della discontinuità molto pericolosa, perché mette in dubbio la legittimità della evoluzione della dottrina, chiedendo addirittura a Francesco di ritirare il documento nei suoi passi più innovativi. Questo a me pare contraddire la intenzione – che certo Caffarra non vuole negare – di garantire la continuità con la grande tradizione ecclesiale, e non solo con la sua versione apologetica e irrigidita del XIX secolo.
- Una rigidità massimalista in morale. Il secondo aspetto su cui sollevo le mie perplessità riguarda il modo di considerare la “intrinsecità del male”. Qui a me sembra che il discorso scivoli su un piano di astrattezza talmente accentuato, che ogni fattore circostanziale viene giudicato in modo sospetto e con diffidenza. Non sorprende che Schoenborn venga accusato di una sospetta condiscendenza al male. Se qualcosa è intrinsecamente male, bisogna evitarlo a tutti i costi. Questo approccio, tuttavia, appare solo “pedagogico” e incapace di riconoscere i fatti. Tutto diventa compito e i fatti non hanno rilevanza alcuna, Questo approccio, in sé molto chiaro, è però privo di rapporto con la realtà. Impone alla realtà un modello idealizzato. Ma, come in ogni idealizzazione, esso unisce alla grande idea cristiana del matrimonio, la aggressione all’altro. Il massimalismo è inevitabilmente aggressivo, anche malgré soi.
- Una mancanza di articolazione tra piano morale e piano giuridico. Uno dei punti che creano maggiore difficoltà nelle parole del cardinale è il fatto che egli presupponga come evidente e scontata una relazione pre-moderna tra morale e diritto. Che una azione sia “intrinsecamente un male” – ad es. l’omicidio, il furto, l’adulterio – non implica immediatamente che non si debba tener conto delle “circostanze” in cui l’azione viene commessa, come anche del tempo nel quale tale azione assume rilevanza. Considero come un fatto molto strano che un uomo di cultura giuridica come Caffarra non tenga conto di come la correlazione tra gravità del reato e entità della sanzione non possa mai essere astratta dalla storia concreta dei fatti. Si consideri come la ostinazione nel valutare l’adulterio come fatto intrinsecamente malvagio impedisca al cardinale di giudicare adeguatamente come la condizione di adulterio nella società chiusa fosse molto diversa da quella di una società aperta. Ciò che è intrinsecamente male, resta male, senza dubbio. Ma cambia la sanzione e cambia la rilevanza del tempo. Come ha sottolineato bene un altro vescovo – non ancora cardinale – come J.-P. Vesco, nella nostra società l’adulterio si è trasformato da “reato permanente” a “reato istantaneo”. Questa differenza, che mi sembra sfugga completamente a Caffarra, non dipende anzitutto da categorie teologiche, ma dalle forme sociologiche, psicologiche e culturali degli uomini e delle donne di oggi, Ma questo nel matrimonio ha rilevanza originaria, che il massimalismo teologico dell’ultimo secolo non riusciva più a riconoscere. Viceversa è chiaro per i teologi medievali, che Schoenborn cita molto più di Caffarra.
- Una dipendenza da categorie superate e da modelli giuridici datati. La traduzione che del matrimonio offriva la società chiusa tradizionale poteva tranquillamente sovrapporre morale e diritto e ragionare in modo massimalistico su un piano come sull’altro. La strategia fondamentale di questa lettura apologetica, inaugurata a metà del XIX, è stata la “ontologizzazione” del matrimonio, ossia la sua trascrizione in categorie metafisiche e razionalistiche. Ma questa scelta non ha tenuto conto che il sistema ecclesiale non può sopportare troppo a lungo un eccesso di ontologismo, senza generare una reazione incontrollabile sul piano della nullità. Infatti, più insistiamo sulla “ontologia del vincolo” e più siamo costretti a tematizzare la “nullità” come unica via di uscita di fronte ai problemi. Da un lato la ontologia classica si trasforma in ontologismo apologetico, ma dall’altra parte la teoria dei capi di nullità diventa facilmente una forma di “nichilismo canonico”. Caffarra mi sembra che sia uno dei pochi pastori a ripetere con grande lucidità il modello ottocentesco di risposta ecclesiale alla sfida del mondo moderno. Ma non si avvede che AL intende uscire proprio da quel modello riduttivo di considerazione della esperienza alla luce del Vangelo, mentre non intende affatto uscire dalla grande tradizione ecclesiale. Anzi, AL garantisce continuità alla dottrina mediante una opportuna traduzione e conversione, mentre la posizione di Caffarra – che egli pretende chiara e limpida – genera un continuo cortocircuito tra dottrina ecclesiale, esperienza dei soggetti e mediazione ecclesiale. Caffarra parte dalla ipotesi che AL porti confusione ad una condizione sostanzialmente chiara, mentre io credo che AL porti un inizio di chiarificazione in una situazione che Familiaris Consortio, iniziando ad alterare la logica ottocentesca, aveva reso molto confusa e ambigua.
- Adulterio pollakòs lèghetai. Ontologismo dogmatico e nichilismo canonico si implicano a vicenda. Il card. Caffarra, che è anche il fondatore dell’Istituto Giovanni Paolo II, dove matrimonio e famiglia dovrebbero essere studiati a fondo, sembra non voler ascoltare altra voce che non sia quella di Giovanni Paolo II. Così fanno anche, in pieno accordo con il fondatore, gli attuali principali docenti di quell’Istituto, tutti uniti in questa sorprendente ermeneutica della discontinuità di fronte ad AL. Sorprenderebbe non poco chi invitasse Caffara – o uno dei docenti dell’Istituto citato – a presentare ufficialmente il testo di AL. Chi rifiuta il testo nel suo cuore pulsante – ossia nella fuoriuscita dal modello ottocentesco di dottrina del matrimonio – non può certo presentarlo ufficialmente al clero, se non avvalorando quella “ermeneutica della rottura” che fino a ieri questi stessi docenti presentavano come il male peggiore. Confuso, qui, non è il testo di AL, ma lo sguardo di chi non coglie il senso epocale di questo passaggio di conversione ecclesiale e pretende di usare il CCC come uno scudo contro la conversione di cui la Chiesa ha bisogno. Credo che questa reazione ponga una questione decisiva: la discontinuità e la rottura non è quella promossa da AL, ma quella che scaturisce dalla pretesa secondo cui, a partire dalla fondazione dell’Istituto Giovanni Paolo II in poi, e fino all’apocalisse, qualcuno possa monopolizzare la teologia del matrimonio, costringendola in una visione unilaterale, clericale, apologetica e massimalista della tradizione. Credo che il card. Caffarra, con grande chiarezza, abbia messo in luce i limiti di questa breve tradizione massimalista, con aspetti di fondamentalismo, da cui AL ha saputo prendere la giusta distanza. E’ naturale e comprensibile che Caffarra e successori non ne siano contenti. Cionondimeno, il fatto che essi pretendano di dettare a Schoenborn e a Francesco la “agenda matrimoniale” appare quanto meno come un eccesso di zelo, che sconfina pericolosamente in una mancanza di senso del limite e che può talvolta giungere anche ad una sorta di nera disperazione sul ruolo che lo Spirito Santo gioca nella vita della Chiesa.
Andrea Grillo Munera 16 luglio 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-19-perche-dissento-dal-card-caffarra-e-concordo-con-il-card-schoenborn
www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Mantenimento: conta più il conto o la dichiarazione dei redditi?
Separazione e divorzio: il giudice stabilisce l’assegno di mantenimento all’ex moglie in base non solo ai redditi dichiarati, ma anche del tenore di vita, delle spese e del conto in banca del coniuge.
In caso di separazione e divorzio, il momento della quantificazione dell’assegno di mantenimento è certamente quello più delicato di tutta la causa: in questo si accaniscono spesso le richieste dei due coniugi, consapevoli del fatto che basta un minimo elemento (di reddito o spesa) a spostare l’ago della bilancia da un lato o dall’altro. Ed è chiaro che il giudice, nel fissare quanto il marito debba versare alla moglie a titolo di mantenimento, non tiene solo conto delle esigenze di quest’ultima e del tenore di vita che la coppia ha avuto durante il matrimonio, ma anche delle concrete possibilità del marito; a rilevare, infatti, è certamente la sua capacità di mantenere l’ex, sulla base del reddito posseduto o delle eventuali proprietà immobiliari nonché delle nuove spese a cui questi va incontro, come l’affitto, il mutuo sulla vecchia casa o la presenza di una nuova famiglia con figli, a cui comunque egli ha diritto.
Una cosa però è certa: ingannare il giudice non è facile, anche perché il magistrato ha una serie di elementi di cui tenere conto per valutare la capacità di mantenimento dell’uomo nei confronti della donna (lo stesso discorso, ovviamente, può essere fatto anche al contrario, sebbene statisticamente meno ricorrente). Tra questi sicuramente c’è, in primo luogo, la dichiarazione dei redditi e il modello Unico inviato all’Agenzia delle Entrate: tanto più è alto il guadagno del contribuente, tanto maggiore sarà la quota che dovrà versare all’ex moglie.
Ma sbaglia chi crede che, modificando i propri redditi fiscali, l’assegno di mantenimento decresca automaticamente. Dicevamo, infatti, che ingannare il giudice non è così semplice come può sembrare e se il coniuge svolge un’attività che potrebbe essere “a rischio evasione” (in genere lo sono quelle dei lavoratori autonomi come professionisti e imprenditori), il tribunale può ordinare un’integrazione di indagine. Come? Certamente obbligando il contribuente a depositare i propri estratti conto con la giacenza media, in modo da verificare quanto questi abbia depositato in banca. Senza dimenticare che, nel caso sussistano ancora dubbi, potrebbero essere delegate le indagini tributarie.
Tutti questi aspetti sono stati recentemente chiariti da una sentenza del Tribunale di Roma [sent. n. 23704/2015]. I giudici della capitale giustamente ammoniscono: nelle cause di separazione e divorzio, in caso di contestazioni tra gli ex coniugi, le dichiarazioni presentate al fisco non assumono alcun valore vincolante ai fini della decisione finale; pertanto diventa indispensabile verificare l’effettiva situazione patrimoniale dell’onerato. E, di certo, una valida radiografia è certamente il conto in banca.
Per cui, rispondendo alla domanda iniziale di questo articolo, cioè se “per determinare l’assegno di mantenimento, conta di più la dichiarazione dei redditi o il conto in banca?”, la risposta viene da sé: il punto di partenza è certamente il modello Unico, ma il giudice, se lo ritiene, può andare oltre e spingere le indagini ai depositi sul conto e, in caso di discrepanza tra i due dati, credere più a questi ultimi che sono una fotografia della realtà materiale e non di quella autodichiarata all’Agenzia delle Entrate.
Si legge infatti in sentenza che, quando il modello fiscale Unico sconfessa i redditi dichiarati in sede di separazione e tenendo conto che le dichiarazioni dei redditi (che hanno una funzione tipicamente fiscale) non assumono rilievo decisivo e non rivestono valore vincolante, la movimentazione bancaria e la situazione patrimoniale sono certamente dei dati indispensabili per determinare l’assegno di divorzio in favore del coniuge più debole e dei figli da mantenere.
I redditi dichiarati – argomenta il tribunale di Roma – non possono costituire una prova completa e definitiva a favore di chi li produce; se così fosse, chiunque si potrebbe precostituire e creare una prova a proprio favore attraverso una propria dichiarazione, tanto più quando i redditi denunciati non sono certificati da terzi soggetti sostituti d’imposta e la veridicità della dichiarazione dipende interamente dal dichiarante. Tale circostanza impone maggiore cautela nell’accertarla come indizio delle effettive possibilità economiche dello stesso.
Mantenimento: l’indagine sul tenore di vita effettivo. Non solo. Il conto corrente può essere anche intestato ai propri genitori o al nuovo partner. Così la giurisprudenza strizza un occhio anche all’accertamento del concreto tenore di vita tenuto dal marito: vivere, ad esempio, in una lussuosa villa con 8 vani e giardino, possedere altri immobili per le vacanze, essere spesso in viaggio non è certamente compatibile con un reddito di poche migliaia di euro l’anno. E dunque, sospettare un fenomeno di evasione fiscale o, quantomeno, di occultamento dei redditi è più che fondato. Del resto è la stessa Cassazione ad aver sempre affermato che “l’assegno di divorzio ha la finalità di tutelare il coniuge economicamente più debole, a maggior ragione se il matrimonio non abbia avuto breve durata”: il che significa che è in ragione di questa tutela che bisogna scovare a fondo nei redditi del coniuge obbligato.
Assegno di mantenimento verso il tramonto? Va detto in conclusione che, di recente, l’indirizzo della giurisprudenza è diventato meno generoso nei confronti delle donne giovani ed ancora in età di lavoro, specie se con una formazione già compiuta, esperienze lavorative alle spalle e, quindi, “abili al lavoro”. Per esse, infatti, la “comprensione” è certamente ridotta rispetto a quella nei confronti di una donna che per un’intera vita si è dedicata alla casa, così svuotandosi di professionalità e divenendo per essa più difficile ricercare una occupazione. Insomma, il matrimonio non è più un’assicurazione a vita: chi è ancora in grado di lavorare, deve tentare di occuparsi, senza potersi mantenere alle spalle del marito vita natural durante.
Redazione Lpt 7 luglio 2016
www.laleggepertutti.it/125768_mantenimento-conta-piu-il-conto-o-la-dichiarazione-dei-redditi
Assegno di mantenimento alla ex moglie: stop in 2 casi.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 14244, 12 luglio 2016.
Assegno di mantenimento o di divorzio negato alla donna senza reddito e disoccupata, ma che si rifiuta di trovare lavoro, nonché a colei che ha iniziato una convivenza stabile con un nuovo compagno.
La Cassazione torna a dire addio all’assegno di mantenimento in tutti quei casi in cui non è meritato o quando la donna abbia già un’altra spalla su cui appoggiarsi. Due sono infatti i casi che, per giurisprudenza ormai consolidata, fanno venire meno il diritto all’assegno di mantenimento della donna. Essi sono:
- Se la ex moglie è ancora nelle condizioni fisiche di lavorare, ma non si sforza di cercare un posto di lavoro;
- Se la donna inizia la convivenza stabile con un nuovo partner, potendo così contare sul sostegno economico di un’altra persona.
Addio mantenimento: età lavorativa e formazione. La donna che riceve l’assegno mensile di mantenimento da parte dell’ex marito deve contemporaneamente sforzarsi di cercare un posto di lavoro o qualsiasi altro metodo che, consono alla propria formazione, le consenta di vivere con le proprie forze. Lo stato di pigro abbandono, dettato dalla tranquillità di ricevere sul conto corrente i soldi dell’ex, porta inesorabilmente alla perdita dell’assegno di mantenimento. Difatti, secondo ormai un indirizzo costante della Cassazione, nel valutare il diritto al mantenimento e l’entità dello stesso, il giudice considera anche la formazione culturale e lavorativa del soggetto beneficiario (la donna, in questo caso), l’età dello stesso, le precedenti esperienze lavorative e, quindi, la sua attitudine al lavoro. La possibilità astratta di potersi reimpiegare in un qualsiasi tipo di attività – sia essa autonoma o di lavoro dipendente – e non “tentare” quantomeno di farlo, implica la cancellazione dell’assegno di mantenimento. Mantenimento quindi che non deve essere una sorta di assicurazione sulla vita per la donna.
Nuova convivenza stabile: addio mantenimento. La donna che abbia iniziato a convivere in modo stabile con un altro uomo perde il diritto al mantenimento. Questo perché l’ex marito non è tenuto a mantenere anche il nuovo compagno della precedente consorte: una volta passato il testimone conta a quest’ultimo provvedere alle esigenze della compagna, anche se decide di non sposarla. Ciò che conta è che tra la ex moglie e il nuovo partner vi sia una convivenza stabile e duratura, non occasionale. Non rileva neanche il fatto che la donna abbia stretto un legame con un disoccupato incapace di mantenerla: il solo fatto di una nuova convivenza impedisce alla stessa di pretendere il mantenimento dall’ex marito.
Redazione Lpt 12 luglio 2016 ordinanza
www.laleggepertutti.it/126156_assegno-di-mantenimento-alla-ex-moglie-stop-in-2-casi
Mantenimento: ridotto l’assegno se l’ex ha nuova famiglia e figli.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 14175, 12 luglio 2016.
Separazione e divorzio: la legge riconosce il diritto a rifarsi una famiglia, per cui l’ex coniuge obbligato al pagamento del mantenimento può chiederne una riduzione se ha dei figli dalla nuova compagna o moglie. Può chiedere la riduzione dell’assegno di mantenimento da versare all’ex coniuge chi ha iniziato una nuova relazione e, con il nuovo partner, abbia avuto altri figli. È quanto prevede l’orientamento ormai unanime della giurisprudenza, da ultimo confermato dalla Cassazione con una sentenza di poche ore fa.
Una separazione o il divorzio non possono segnare per sempre la vita di una persona: tutti hanno il diritto di rifarsi una famiglia con un nuovo partner, sia esso/a convivente o coniuge sposato (seconde nozze). Pertanto, l’obbligo di contribuire al mantenimento della precedente moglie (o marito, sebbene l’ipotesi sia più rara), non può costituire un ostacolo poiché altrimenti il soggetto obbligato al versamento dell’assegno periodico non saprebbe come mantenere i figli avuti dalla nuova relazione. Così, sostiene la Cassazione, l’assegno in favore dell’ex moglie o dei figli può essere ridotto quando il genitore obbligato ha altri bambini dalla nuova relazione. Questo perché la presenza di nuove bocche da sfamare determina un mutamento delle condizioni economiche del soggetto tenuto, in base alla sentenza del giudice, a versare l’assegno.
La giurisprudenza riconosce la libertà di chiunque di formare una nuova famiglia dopo la separazione o il divorzio: è l’espressione di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione e dall’Unione Europea, nonché da tutte le carte internazionali. In verità la formazione di un nuovo nucleo familiare non comporta in automatico una riduzione dell’assegno di mantenimento dei figli nati precedentemente alla nuova unione familiare, ma è pacifico che la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner determina la nascita di nuovi obblighi di carattere economico; il che deve essere valutato come una circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni della separazione o del divorzio stabilite in precedenza dal giudice o dalle stesse parti in caso di procedimento consensuale.
Redazione Lpt 12 luglio 2016 ordinanza
www.laleggepertutti.it/126143_mantenimento-ridotto-lassegno-se-lex-ha-nuova-famiglia-e-figli
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CENTRO STUDI FAMIGLIA CISF
Newsletter n. 13/2016, 13 luglio 2016.
I dati Istat sulla popolazione del 2015: Campanello d’allarme o campana a morto? Con l’ultimo rapporto intitolato Indicatori demografici. Stime per l’anno 2015, l’Istat ha per l’ennesima volta dimostrato, in modo preciso e documentato, quanto grave e persistente sia la crisi della natalità in Italia. Si tratta in effetti di una questione di importanza cruciale per il futuro del nostro Paese, che meriterebbe ben altra attenzione – sia in quantità che in qualità – di quella mediamente riservatagli. Per questo, nell’articolo qui segnalato abbiamo cercato di compiere un’analisi accurata dei dati demografici pubblicati. Questo sia per evitare pericolose approssimazioni e superficialità, sia perché – come potrà constatare chi leggerà l’articolo – un’analisi rigorosa dei numeri che riguardano la popolazione può fornirci una serie di informazioni cruciali per comprendere veramente la situazione demografica del nostro Paese in tutta la sua concreta drammaticità.
Pietro Boffi – Cisf Il testo integrale è pubblicato su: Vita pastorale, luglio 2016, pp. 64-66. http://vitapastorale.it/sommario-n-7-2016.html
Anche sui matrimoni segnali di allarme. Un recente documento del Censis, “Non mi sposo più” evidenzia il progressivo calo dei matrimoni.
Un commento del Direttore del Cisf
www.famigliacristiana.it/articolo/fare-famiglia-senza-passare-dalle-nozze-ecco-la-realta-italiana.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_13_07_2016
La fatica nelle mani: famiglia, lavoro e futuro. E’ il titolo del Settimo Festival del Lavoro, organizzato dai Consulenti del Lavoro a Roma dal 30 giugno al 3 luglio, e che ha fatto da titolo anche a un breve e stimolante volume, (La fatica delle mani, Edizioni San Paolo) con la collaborazione del Cisf, che è stato consegnato anche a Papa Francesco, giovedì 30, durante l’udienza generale in Piazza San Pietro. Prosegui
www.famigliacristiana.it/articolo/lavoro-famiglia-futuro-un-alleanza-da-riscoprire.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_13_07_2016
Ultimi arrivi dalle case editrici.
Tutti i volumi sono consultabili presso il Centro Documentazione del Cisf; sono inoltre acquistabili su
www.sanpaolostore.it
Maurizio Roberto, Perotto Norma, Salvadori Giorgia, L’affiancamento familiare. Orientamenti metodologici, Carocci Faber, Roma, 2015, pp. 186, € 18,00
“Perché aiutate solo me? Anche la mia famiglia ne ha bisogno”. Da questa richiesta di un bambino in affidamento familiare nasce la proposta progettuale della fondazione Paideia “Una famiglia per una famiglia”, che in questi anni ha sperimentato in diverse parti del Paese una metodologia estremamente innovativa di ampliamento del lavoro di aiuto a minori e famiglie in difficoltà. Il presente volume, più che raccontare le varie esperienze, tenta una prima sistematizzazione del metodo, ponendosi così come prezioso strumento per la valutazione e la riproducibilità di questa innovazione.
Si tratta di una esperienza interessante per tanti motivi, che il volume descrive nel dettaglio. Conviene qui ricordarne almeno due: in primo luogo si parte dalla valorizzazione della risorsa famiglia, non solo rispetto alle famiglie accoglienti, ma soprattutto rispetto alle potenzialità delle famiglie di origine dei minori attorno a cui si costruiscono i progetti. In altri termini, è possibile valorizzare le risorse (residue) anche delle famiglie sfilacciate, sofferenti, mal funzionanti, in un rapporto di reciprocità con un’altra famiglia.
In secondo luogo, dappertutto il progetto si è sviluppato realizzando reti di sinergie tra tutti gli attori presenti sul territorio: servizi pubblici, volontariato, reti familiari, fondazioni e aziende profit. A conferma che fare rete è un valore decisivo, soprattutto quando si lavora con e per le famiglie.
“Il diritto assoluto ed eterno a fare figli non esiste”. 01/07/2016 “Nessun limite di età per generare”, dice la sentenza bis della Cassazione che restituisce la figlia di 6 anni a due coniugi anziani che hanno avuto una bambina con l’inseminazione artificiale. Ma al generato chi pensa?
Un commento su Famiglia Cristiana on line
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Pericoli ad ogni passi del viaggio. E’ il titolo di un aggiornatissimo “Child alert” dell’Unicef sui minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia e in Europa nel 2015 e nei primi mesi del 2016, che ci ricordano tutte le sofferenze e gli orrori che hanno attraversato prima dell’arrivo nel nostro Paese. Un Rapporto ricco di dati, che testimonia un’emergenza umanitaria urgente e complessa, ma non impossibile da testare: nei primi cinque mesi del 2016 sono stati poco più di 7.000 i minori soli, senza alcun adulto di riferimento, arrivati nel nostro Paese. Numeri importanti, ma gestibili. Purché si consideri l’accoglienza di questi minori non come un’emergenza, alla stregua di una “calamità naturale”, ma come la normale modalità operativa di un Paese civile, che non può non agire a tutela dei diritti dei più deboli. E forse capiremmo meglio di cosa stiamo parlando se cominciassimo a chiamarli “bambini” o “adolescenti soli”, uscendo dallo stereotipo della formula burocratica “Minori Stranieri Non Accompagnati” (a volte addirittura catalogati e spersonalizzati nella sigla MISNA). E anche la “fortezza Europa” nel suo complesso dovrà fare i conti con questa sfida di civiltà.
Francesco Belletti – Cisf Leggi il rapporto competo
www.unicef.it/doc/6876/pericolo-ad-ogni-passo-del-viaggio-nuovo-rapporto-sui-bambini-rifugiati-e-migranti.htm
Notizie dall’estero. Pubblicati dal Pontificio Consiglio per la Famiglia gli atti dell’Ottavo Incontro Mondiale delle Famiglie di Filadelfia (L’Amore è la nostra missione, 22-25 settembre 2015). Oltre 900 pagine dense di testimonianze, di sapere teologico e pastorale, di forte umanità, con il grande richiamo di Papa Francesco a ricordare che la famiglia è “la fabbrica della speranza”.
www.familiam.org/famiglia_ita/eventi/00013483_Gli_Atti_di_Philadelphia_in_volume.html
Save the date
Nord:La tutela del nascituro concepito nella Costituzione italiana e nelle Dichiarazioni Internazionali dei Diritti dell’uomo, Scuola permanente di formazione giuridica, Federvita Lombardia, Milano, 24 settembre, 1 ottobre, 8 ottobre 2016. www.federvitalombardia.it/index.html
La sociologia relazionale alla prova: questioni metodologiche e di ricerca, VII seminario nazionale di sociologia relazionale, Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla famiglia, Università Cattolica, Milano, 20 ottobre 2016. www.unicatt.it/eventi/evt-viii-seminario-nazionale-di-sociologia-relazionale
Centro: V Conferenza nazionale sulle politiche per la disabilità, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, Firenze, 16-17 settembre 2016.
www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/A-Firenze-16-17-settembre-la-V-Conferenza-nazionale-sulle-politiche-per-la-disabilita.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_13_07_2016
Estero: Est-ce vraiment si difficile d’élever les bébés?, organizzato da Spirale. La grande avenuter de Monsieur Bébé, Tolosa, 21-23 settembre 2016. http://spirale-bebe.fr/journees-2016/programme
http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Senigallia. Presentazione di “Donne tra noi” di Renata D’Ambrosio
Giovedì 14 luglio è stato presentato il volume: ” Donne tra noi ” scritto a quattro mani dalla giornalista Michela Gambelli e da Renata D’Ambrosio, psicopedagogista, presidente del locale Consultorio familiare Ucipem.
Il libro è una panoramica a 360 gradi sull’ universo femminile. Storie di mamme, mogli, suore, manager che si raccontano senza filtri. Sono intervenute, oltre alle autrici, il direttore del Consultorio Ucipem Marina Bruschi e l’assessore comunale alle pari opportunità Ilaria Ramazzotti.
www.viveresenigallia.it/2016/07/13/marzocca-presentazione-del-volume-donne-tra-noi-presso-la-lega- navale/598029
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CONVIVENZE
Conviventi: mantenimento e alimenti.
Legge Cirinnà: la disciplina della convivenza, l’erogazione del mantenimento in caso di cessazione dell’unione, la deducibilità fiscale.
La nuova legge sulle unioni civili, anche detta legge Cirinnà [L. n. 76/2016 in Gazz. Uff. del 21.05.2016] regola anche le ipotesi di convivenze stabilendo la possibilità che i conviventi siglino appositi patti o contratti di convivenza. In particolare, tra i diritti e doveri dei conviventi viene disciplinata l’ipotesi del pagamento degli alimenti. Così, in caso di cessazione della convivenza di fatto, viene prevista l’erogazione di un assegno periodico al partner, assegno però che non è deducibile ai fini fiscali. Leggiamo il testo della nuova norma e cerchiamo di comprenderne il significato.
Pagamento del mantenimento o degli alimenti? Quando cessa la convivenza di fatto e, quindi, i conviventi si lasciano, l’uno dei due che versi in stato di bisogno e non sia in grado di mantenere al proprio mantenimento può rivolgersi al giudice affinché stabilisca il suo diritto di ricevere dall’altro convivente gli alimenti. Dunque, le condizioni per ottenere tali alimenti sono:
- L’esistenza di una convivenza;
- Che uno dei due conviventi, al momento della separazione, non disponga dei redditi sufficienti a mantenersi e che, pertanto, versi in stato di bisogno;
- Un’azione in tribunale.
Gli alimenti, quindi, sono qualcosa di ben diverso dall’assegno di mantenimento che, invece, spetta anche se non c’è uno stato di bisogno, ma per il solo fatto che uno dei due ex coniugi versi in condizioni economiche peggiori rispetto all’altro, ma non per questo necessariamente disastrose. Dunque, sintetizzando:
- Nel caso di separazione della coppia sposata è previsto l’assegno di mantenimento (e per averne diritto non c’è bisogno di versare in stato di bisogno);
- Nel caso di separazione della coppia convivente è previsto il solo diritto agli alimenti (e, per averne diritto, è necessario che il beneficiario versi in stato di bisogno).
Come viene determinato l’assegno per gli alimenti? Nel caso della coppia convivente che si separi, il giudice determina l’ammontare degli alimenti solo per un periodo di tempo proporzionale alla durata della convivenza. In questo sussiste l’altra grande differenza rispetto al mantenimento della coppia sposata ove l’assegno viene stabilito “a tempo indeterminato”, sino all’arrivo di una nuova pronuncia del giudice che modifichi o revochi l’assegno stesso.
L’importo degli alimenti viene determinato secondo le stesse regole previste per la separazione della coppia sposata [Art. 438 cod. civ.] ossia in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell’alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale.
La deducibilità degli alimenti al convivente. A differenza di quanto avviene per le unioni civili (quelle cioè tra coppie omosessuali), non è prevista la deducibilità fiscale dell’assegno erogato qualora dovesse cessare la convivenza di fatto [L’art. 10 del Tuir, che prevede la deducibilità dell’assegno ai fini fiscali, non è applicabile agli alimenti delle convivenze di fatto: la lettera c) del citato art. 10 Tuir si riferisce alle ipotesi di separazione o divorzio e la successiva lettera d) interessa gli assegni alimentari corrisposti alle persone indicate nell’articolo 433 cod. civ., al cui interno non può essere ricondotta la figura del convivente di fatto].
Per le stesse ragioni, simmetricamente, il convivente che riceve l’assegno non deve sottoporlo a tassazione. La somma erogata non costituisce reddito assimilato a quello di lavoro dipendente.
Le norme fiscali applicabili nell’ipotesi di matrimonio non si “estendono” alle convivenze di fatto, a parte un numero limitato di casi. Tuttavia, i conviventi di fatto possono sottoscrivere un contratto di convivenza (predisposto da un avvocato o da un notaio). In questo caso il contratto può prevedere il regime patrimoniale della comunione dei beni. Pertanto, se non si sceglie la separazione, i beni immobili acquistati durante la convivenza di fatto assumono rilievo, ai fini fiscali, per i due soggetti. I redditi devono essere imputati, in misura pari alla metà, alle due parti conviventi.
Che succede alla casa? Quanto alla casa di comune residenza della coppia convivente, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni.
Il reddito dell’immobile, cioè la rendita catastale rivalutata, dovrà essere dichiarato dagli eventuali eredi che saranno tenuti a concederlo in uso, sia pure temporaneamente, al convivente superstite. Analogamente, gli eredi saranno tenuti a pagare sia l’Imu che la Tasi, trattandosi di un immobile non adibito ad abitazione principale da parte dei soggetti proprietari.
Redazione Lpt 11 luglio 2016
www.laleggepertutti.it/126058_conviventi-mantenimento-e-alimenti
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DALLA NAVATA
XVI Domenica del tempo ordinario – anno C -17 luglio 2016.
Genesi 18, 03 dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo»
Salmo 15, 02 Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua.
Colossesi 01, 28 È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.
Luca 10, 40 Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”.
Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.
Quando Luca scrive il terzo vangelo, resta un uomo “ecclesiale”, che ha una conoscenza esperienziale della vita delle comunità cristiane, quelle che descriverà nella seconda parte della sua opera, gli Atti degli apostoli. Nella chiesa di allora, come ancora oggi in ogni comunità cristiana, si registravano e si registrano difficoltà, tensioni tra i diversi servizi e i diversi modi di vivere la vita cristiana. Negli Atti – non lo si dimentichi – Luca testimonia un conflitto tra il servizio a tavola e il servizio della Parola, che viene risolto attraverso una ripartizione dei servizi: agli apostoli compete annunciare il Vangelo, mentre ad altri sette credenti il servizio a tavola (cf. At 6,1-6). Questa soluzione non vuole essere esemplare o autoritativa per la chiesa: è stata una soluzione, ma forse ve ne potevano essere altre… In ogni caso, si è risolto il conflitto riconoscendo che c’è un primato da rispettare: il primato della parola di Dio ascoltata e predicata, senza la quale non vi è comunità cristiana. Nel brano odierno si manifesta lo stesso problema: cerchiamo dunque di comprendere umilmente le parole di Gesù.
Nella sua salita verso Gerusalemme, Gesù trova ospitalità presso una famiglia: due sorelle, Marta e Maria, e il fratello Lazzaro, a Betania, nei pressi della la città santa, lo accolgono in casa offrendogli cibo e alloggio. Questo succederà spesso, in particolare nella settimana prima della passione di Gesù (cf. Mc 11,11; Mt 21,17; Gv 12,1-11). Il quarto vangelo ci dà molte notizie su questi tre amici di Gesù, da lui molto amati (cf. Soprattutto Gv 11,1-43). Dunque Gesù, che è stato respinto dai samaritani (cf. Lc 9,51-55), trova una casa che lo accoglie, che gli permette di gustare l’intimità dell’amicizia, di riposare, di avere tempo per pensare alla sua missione. Entrato in casa, è accolto da Marta, una donna attiva, intraprendente, che si sente impegnata a preparargli il cibo e una tavola degna di un rabbi, di un amico. Marta qui è “tirata da tutte le parti”, indaffarata e assorbita dai servizi.
Maria, l’altra sorella, appare invece una donna più contemplativa, che durante la sosta di Gesù in casa ama innanzitutto ascoltarlo, mettersi ai piedi del maestro e profeta per ricevere il suo insegnamento. Alla presenza di Gesù, Maria assume così la postura classica del discepolo (cf. Lc 8,35; At 22,3). La tradizione rabbinica affermava: “La tua casa sia un luogo di riunione per i sapienti; attaccati alla polvere dei loro piedi e bevi assetato le loro parole” (Mishnà, Avot I,4), ma questo compito era riservato agli uomini, non certo alle donne. Ciò sarebbe stato non solo inusuale, ma anche scandaloso, come si legge sempre nella Mishnà: “Chiunque insegni la Torah a sua figlia è come se le insegnasse cose sporche” (Sotah 3,4). Maria compie pertanto un gesto coraggioso, audace, mostrando una forte soggettività e una profonda consapevolezza: si fa discepola, sicura che il rabbi Gesù non la respingerà, ma eserciterà il suo ministero rivolgendosi a una donna come agli uomini, accetterà di avere una discepola e non solo dei discepoli. D’altronde, Luca aveva già dato testimonianza circa le donne al seguito di Gesù (cf. Lc 8,2-3); qui però egli specifica ulteriormente: le donne non solo seguono Gesù “servendolo con i loro beni”, ma sono destinatarie del suo insegnamento, esattamente come i discepoli.
Ma ecco apparire il conflitto. Vedendo la sorella in ascolto ai piedi Gesù, Marta interviene indispettita, dicendogli: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille che mi aiuti!”. Si faccia attenzione: Marta chiama Gesù Kýrios, Signore, titolo che echeggia la confessione pasquale della chiesa nei suoi confronti (“È il Signore!”: Gv 21,7). D’altronde, secondo il quarto vangelo, Marta è colei che fa la più alta confessione di fede in Gesù, definendolo “il Cristo, il Figlio di Dio veniente nel mondo” (Gv 11,27), confessione più completa di quella di Pietro (cf. Gv 6,69). Qui però le sue parole denotano irritazione e quasi costringono Gesù a intervenire presso sua sorella Maria. In fondo Marta si sta dando da fare proprio per accogliere bene Gesù, ma il suo zelo sconfina nell’inquietudine e nella preoccupazione. Pur facendo azioni per Gesù, Marta è distratta e preoccupata, dunque divisa – come Gesù stesso le dice subito dopo –, cioè ha assunto un atteggiamento e dei sentimenti che le impediscono di ascoltare il Kýrios.
Gesù allora interviene, non per fare un rimprovero, ma per offrire a Marta una diagnosi: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti affanni per molte cose!”. Queste parole vanno capite bene e non comprese secondo un adagio che abbiamo nei nostri orecchi perché ripetuto da secoli, adagio che beatifica la vita contemplativa e le conferisce il primato su quella attiva, frutto avvelenato del neoplatonismo cristiano… No! Ciò che Gesù vuole correggere in Marta, peraltro dolcemente, è la preoccupazione, ossia quell’agitazione che impedisce l’ascolto e l’accoglienza autentica di Gesù stesso. Per fare piacere a Gesù ed essergli vicina, Marta non si accorge che in realtà fa di tutto per creare ostacoli al vero rapporto con lui. I mezzi per raggiungere il fine sono per lei più importanti del fine. Agitarsi, preoccuparsi significa togliere attenzione all’altro e pensare troppo a se stessi: ci si illude di pensare agli altri, ma l’agitazione non lo permette, anzi lo impedisce…
Gesù, del resto, altrove ammonisce di non preoccuparsi delle parole da pronunciare per difendersi quando si è accusati a causa sua (cf. Lc 12,11: verbo merimnáo), di non preoccuparsi per il cibo e il vestito (cf. Lc 12,22-29: verbo merimnáo), di non lasciarsi prendere dall’agitazione per la vita, nell’attesa della venuta del Figlio dell’uomo (cf. Lc 21,34-35: sostantivo mérimna). Ora, nel mettere per iscritto questo episodio nonché le esortazioni appena citate, è molto probabile che Luca si ispiri a quanto affermato da Paolo in 1Cor 7, quando, parlando della relazione con il Signore, l’Apostolo esorta a non essere distratti, tirati qua e là (aperispástos: 1Cor 7,35; cf. periespâto: Lc 10,40), né preoccupati, divisi (amerímnous: 1Cor 7,32; meméristai: 1Cor 7,34; cf. merimnâs: Lc 10,41). Questo ammonimento vale dunque per Marta come per ciascuno di noi! Sia dunque chiaro: Gesù non condanna Marta perché lavora, facendo qualcosa per lui, anche perché egli amava la tavola, gioiva nel condividere buon cibo e buon vino con gli amici e le amiche, ma la mette in guardia dal lasciarsi prendere dall’affanno, fino a dimenticare la sua presenza. Occuparsi, non preoccuparsi; lavorare, non agitarsi; servire, non correre: sono attitudini umane assolutamente necessarie a ogni “buona” accoglienza!
Infine, ecco un’ultima parola: “Una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la porzione buona, che non le sarà tolta”. Cosa è veramente necessario? Cosa è determinante nel rapporto con Gesù? Una sola cosa: essere suo discepolo, sua discepola, ascoltando la sua parola. Non a caso proprio Luca ci dice che addirittura la relazione di maternità di Maria nei confronti di Gesù passa in secondo piano rispetto al legame decisivo con lui, costituito dall’ascolto e dalla messa in pratica della sua parola (cf. Lc 11,27-28). Dunque, non l’utero che ha portato Gesù è beato, non chi accoglie Gesù con un pasto straordinario è beato, non chi pensa di dover fare molte cose per Gesù è beato, ma chi ascolta la sua parola e la mette in pratica!
www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10613-la-porzione-buona
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DIRITTO DI FAMIGLIA
Importanti novità per il diritto di famiglia dalla legge europea 2015-2016, in vigore dal 23 luglio 2016: chi non paga gli alimenti ai figli sarà oggetto di controllo anche da parte del Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile, che potrà accedere alle banche dati del fisco e della pubblica amministrazione per scovare le fonti di reddito del soggetto obbligato al versamento degli importi periodici e verificare che lo stesso non stia occultando eventuali proventi agli obblighi di assistenza familiare. I risultati di tali indagini, effettuate dietro preventiva autorizzazione del giudice, saranno trasmessi immediatamente all’ufficiale giudiziario che procederà con il relativo pignoramento.
È questo il testo appena approvato dal parlamento in attuazione degli obblighi comunitari del nostro Paese con l’UE che, in un certo senso, replica i principi stabiliti dal codice di procedura civile in materia di ricerca telematica dei beni del debitore anche alle cause di separazione e divorzio.
La nuova norma recita nel seguente modo:
- Disposizioni in materia di obbligazioni alimentari, in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale. Accesso e utilizzo delle informazioni da parte dell’autorità centrale. Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia, designato quale autorità centrale a norma dell’articolo 49 del regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, dell’articolo 53 del regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio, del 27 novembre 2003, e dell’articolo 4 della Convenzione dell’Aia del 23 novembre 2007, nello svolgimento dei suoi compiti si avvale dei servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia. Può chiedere l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle funzioni che gli derivano dalle convenzioni e dai regolamenti. Può accedere tramite tali organi ed enti alle informazioni contenute nelle banche dati in uso nell’ambito dell’esercizio delle loro attività istituzionali. Resta ferma la disciplina vigente in materia di accesso ai dati e alle informazioni conservati negli archivi automatizzati del Centro elaborazione dati istituito presso il Ministero dell’interno, prevista dall’articolo 9 della legge 1° aprile 1981, n. 121. Le informazioni sulla situazione economica e patrimoniale dei soggetti interessati di cui al comma 1 sono trasmesse all’ufficiale giudiziario previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’articolo 492-bis del codice di procedura civile. Cosa cambia da oggi? Dal punto di vista pratico, alle calcagna del genitore inadempiente agli obblighi di assistenza familiare non ci sarà solo l’ex coniuge con le consuete armi sino ad oggi adottate – querela, decreto ingiuntivo, azione civile, accertamento dei dati reddituali tramite la polizia tributaria, ecc. – ma anche il Dipartimento della giustizia minorile. Diventa così più facile ottenere l’adempimento delle obbligazioni alimentari in favori di familiari. Il ministero della Giustizia può infatti accedere alle informazioni sulla situazione economica degli obbligati contenute in tutte le banche dati pubbliche (tranne il Ced del Viminale sulla pubblica sicurezza). I dati verranno così trasmessi all’ufficiale giudiziario che procede in via esecutiva per riscuotere i crediti alimentari. Il Ministero della Giustizia risulta così titolato ad agire contro il genitore obbligato perché il dipartimento per la giustizia minorile del Ministero è “autorità centrale” per la cooperazione prevista da atti europei e internazionali relativi all’adempimento di obblighi alimentari.
- Gratuito patrocinio più ampio- Tra le novità vi è anche l’estensione dell’accesso al gratuito patrocinio, per le controversie transfrontaliere nell’ambito dell’Unione europea, anche ai procedimenti per l’esecuzione di obbligazioni alimentari. È riconosciuto il diritto al gratuito patrocinio a tutti coloro che presentano domande inerenti alla sottrazione internazionale di minori. Le istanze per accedere al beneficio, presentate attraverso il dipartimento per la Giustizia minorile di via Arenula, dovranno essere rivolte al Consiglio dell’Ordine degli avvocati del luogo nel quale l’obbligo alimentare deve essere eseguito.
- Permesso di soggiorno per minori stranieri. Viene infine prevista la possibilità di un apposito permesso di soggiorno individuale per minori stranieri: al figlio minore dello straniero con questi convivente e regolarmente soggiornante, viene rilasciato “un permesso di soggiorno per motivi familiari valido fino al compimento della maggiore età” ovvero “un permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Il minore fino al quattordicesimo anno di età non dovrà dunque essere iscritto nel permesso di soggiorno o nella carta di soggiorno di uno o di entrambi i genitori, come è nell’attuale formulazione della norma”.
www.laleggepertutti.it/126141_mantenimento-ai-figli-cambia-la-legge-indagini-sui-redditi
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DIVORZIO E SEPARAZIONE
Divorzio congiunto: cos’è e come procedere
Si parla di divorzio congiunto quando i coniugi sono d’accordo su tutte le condizioni dello scioglimento del matrimonio: come funziona, costi, documenti, procedura. Conviene sceglierlo?
Divorzio: cos’è? Nel caso di matrimonio civile (ossia di matrimonio contratto in Comune davanti all’Ufficiale dello Stato Civile), il divorzio è lo scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, pronunciato con sentenza da parte del Tribunale competente.
In caso di matrimonio concordatario (ossia quando il matrimonio è stato celebrato in Chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello Stato Civile del Comune), si parla più propriamente di “cessazione degli effetti civili” del matrimonio”, espressione con cui si intende il venir meno dei doveri del matrimonio, ossia quello di coabitazione, fedeltà coniugale, assistenza morale e materiale, educazione e istruzione della prole.
Divorzio congiunto: cos’è? Si definisce divorzio congiunto o consensuale il procedimento giudiziario che viene avviato dai coniugi in maniera consensuale, una volta che hanno raggiunto l’accordo su tutte le condizioni dello scioglimento del matrimonio: in particolare, sull’affidamento e il mantenimento dei figli, sul mantenimento del coniuge con un reddito più basso, sull’assegnazione della casa coniugale e sulla spartizione dei beni comuni.
Divorzio congiunto: in cosa si distingue dal divorzio giudiziale? Come si può capire, netta è la differenza rispetto al divorzio giudiziale, che viene richiesto da uno solo dei coniugi, indipendentemente dal fatto che l’altro sia d’accordo o meno.
Vi è, pero, tra le due modalità un elemento comune: in entrambi i casi, le parti devono stare in giudizio assistiti da un difensore, che può essere unico per entrambi.
Divorzio congiunto: cosa occorre? Il divorzio si richiede attraverso il deposito di un ricorso presso il Tribunale del luogo in cui almeno uno dei coniugi ha la residenza. Al ricorso vanno allegati:
- Nota di iscrizione a ruolo, l’atto con cui si chiede al cancelliere di provvedere ad iscrivere la causa sul ruolo generale degli affari contenziosi civili: si tratta di un registro della cancelleria su cui vengono elencati i processi in corso. In ogni caso, è un adempimento di cui si occupa l’avvocato;
- Atto integrale di matrimonio rilasciato dal Comune dove è stato celebrato;
- Stato di famiglia di entrambi i coniugi;
- Certificato di residenza di entrambe le parti;
- Copia autentica del verbale di separazione consensuale o copia autentica della sentenza di separazione con attestazione del passaggio in giudicato (del fatto, cioè che è diventata definitiva e immodificabile) e copia autentica del verbale dell’udienza presidenziale, che ha autorizzato i coniugi a vivere separati.
Divorzio congiunto: come si procede? Il procedimento si svolge innanzi al Tribunale in camera di consiglio, quindi con una procedura molto più snella del divorzio con la causa tradizionale e le contestazioni reciproche delle parti: per “camera di consiglio”, infatti, si intende sia il luogo materiale in cui il giudice si ritira per la decisione della causa (e nel quale non sono ammesse né le parti né il pubblico), sia una modalità particolare (procedimento in camera di consiglio) con cui si procede alla trattazione e alla decisione della causa. Il tutto si esaurisce in una sola udienza che viene fissata dal Presidente del Tribunale dopo aver letto il ricorso. Il giudice tenta la conciliazione, cercando di far sì che marito e moglie trovino un accordo che permetta loro di riappacificarsi. Nel caso in cui tale tentativo fallisca, non gli resta che accertare che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può più essere mantenuta o ricostituita.
A questo punto, il Tribunale verifica la sussistenza dei presupposti richiesti dalla Legge sul divorzio [L. n. 898, del 01.12.1970], ossia almeno uno tra i seguenti:
- I coniugi si sono già separati legalmente (si trovano, cioè, in uno stato transitorio in cui sono sospesi temporaneamente gli effetti e gli obblighi derivanti dal matrimonio in attesa di una riconciliazione o del divorzio) e, al tempo della presentazione della domanda di divorzio, lo stato di separazione dura ininterrottamente da almeno 12 mesi se la separazione è giudiziale (quando avviene per volontà unilaterale di uno solo dei coniugi ed è stabilita dal Giudice) o da almeno 6 mesi se la separazione è consensuale (quando avviene su accordo dei coniugi ed è accertata dal Giudice);
- Uno dei coniugi ha commesso un reato di particolare gravità (ad esempio è stato condannato con sentenza definitiva all’ergastolo o a una pena superiore a 15 anni di reclusione) oppure – a prescindere dalla durata della pena – è stato condannato per incesto, delitti contro la libertà sessuale, prostituzione, omicidio volontario o tentato di un figlio, tentato omicidio del coniuge, lesioni aggravate, maltrattamenti, ecc…;
- Uno dei coniugi è cittadino straniero e ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del vincolo matrimoniale o ha contratto all’estero un nuovo matrimonio;
- Il matrimonio non è stato consumato;
- È stato dichiarato giudizialmente il cambio di sesso di uno dei coniugi.
Giunti a questa fase, verrà emessa la sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale (o di cessazione degli effetti civili, in caso di matrimonio concordatario), trasmessa, poi, all’Ufficiale di Stato Civile per l’annotazione nel Registro dello Stato Civile del luogo in cui fu trascritto il matrimonio. Come si può intuire, l’iter del divorzio a domanda congiunta è più veloce e più semplice di quello del divorzio giudiziale.
Divorzio congiunto: quanto costa? Anche da un punto di vista economico, il ricorso congiunto è sicuramente più conveniente: il costo oscilla infatti fra i 1.000 e i 2.000 euro. Ben diversa è la situazione per chi sceglie invece la via giudiziale. In questo caso, infatti, le parcelle degli avvocati schizzano anche a 10.000 – 15.000 euro per via della procedura legale che bisogna affrontare.
Divorzio congiunto: perché conviene? Il ricorso congiunto comporta notevoli vantaggi per i coniugi: esso è più rapido e meno costoso, oltre che meno traumatico per i coniugi e per la prole. Inoltre, poiché si fonda su un accordo scritto, consente ai coniugi di stipulare un regolamento di interessi, aventi anche contenuto patrimoniale, costruito sulle loro rispettive esigenze.
Divorzio congiunto: fac simile del ricorso vedi il link
Maura Corrado Lpt 11 luglio 2016
www.laleggepertutti.it/126041_divorzio-congiunto-cose-e-come-procedere
Matrimonio senza rapporti sessuali: divorzio senza separazione
Matrimonio non consumato: non c’è bisogno prima di separarsi; marito e moglie possono divorziare direttamente in caso di impotenza, verginità o rifiuto di fare sesso.
Si dice “matrimonio non consumato” e si intende un matrimonio senza che i coniugi abbiano mai avuto rapporti sessuali, finanche durante la “mitologica” prima notte di nozze: questo è uno dei pochissimi casi (insieme a quello in cui uno dei due coniugi abbia subìto una rettifica del sesso) in cui marito e moglie possono divorziare senza bisogno di separarsi prima. Insomma, un divorzio – se vogliamo – “per direttissima”, che evita tante lungaggini e scartoffie. Ma come si procede? Come è possibile il divorzio diretto per mancata consumazione del matrimonio? Lo spieghiamo in questa rapida guida.
Ciascuno dei due coniugi – quindi, sia il marito che la moglie – può rivolgersi al giudice e chiedere il divorzio quando il matrimonio non sia stato consumato, ossia quando tra i coniugi non siano mai intervenuti rapporti sessuali. La sentenza del giudice scioglie definitivamente, e in un unico atto, gli “effetti civili del matrimonio”: questa locuzione sta a significare che, per la legge italiana, il matrimonio non esiste più e non produce più effetti. Il matrimonio resta però sempre in piedi per la Chiesa cattolica (sempre che si tratti di matrimonio concordatario, ossia celebrato in chiesa); la Chiesa cattolica può riconoscere anch’essa la cancellazione del matrimonio solo se uno dei suoi tribunali (cosiddetti “tribunali ecclesiastici o Sacra Rota) dichiarino l’annullamento [nullità] del matrimonio (il che può avvenire per cause specifiche, come ad esempio il vizio del consenso – ossia un matrimonio non pienamente voluto – o se uno dei due coniugi manteneva l’intenzione, non espressa, di non volere figli).
Divorzio per matrimonio non consumato. Il divorzio per “matrimonio non consumato”, ossia senza che marito e moglie abbiano fatto sesso, è una particolare ipotesi di scioglimento diretto, senza cioè la necessità di una preventiva separazione e senza necessità di aspettare il decorso di alcun termine. Sappiamo infatti che, di norma, per potersi divorziare, i coniugi devono prima separarsi e attendere:
- 6 mesi: se si è trattato di separazione consensuale, ossia senza la causa e le reciproche contestazioni (il che, in assenza di figli e di previsione di assegno di mantenimento, può avvenire anche in Comune o, eventualmente, con la negoziazione assistita degli avvocati; in alternativa resta sempre l’udienza innanzi al Presidente del Tribunale);
- 1 anno: se si è trattato di una separazione giudiziale, ossia in causa con le opposte richieste, testimoni, ecc. Il termine però inizia a decorrere dalla prima udienza davanti al Presidente e non dalla fine della causa di separazione.
I coniugi possono chiedere il divorzio senza limiti di tempo. [Trib. Napoli sent. 28.04.1998].
Cosa si intende per matrimonio non consumato? La mancata consumazione del matrimonio è la mancanza di rapporti sessuali tra i coniugi, a prescindere dalle ragioni che l’abbiano determinata: siano esse, quindi, di natura fisica (malattie o disfunzioni), emotiva (problematiche psicologiche) o volontarie (assenza di attrazione, ecc.) [Trib. S.M. Capua Vetere sent. 15.04.1999, Trib. Napoli sent. 28.04.1998, Trib. Napoli 16.05.1984].
Il mantenimento in caso di divorzio per mancata consumazione. Attenzione: al contrario dell’annullamento del matrimonio, la mancata consumazione del matrimonio non comporta l’invalidità dello stesso, ma solo il suo scioglimento; la differenza è fondamentale perché se nel primo caso (annullamento del matrimonio) non è possibile richiede un assegno di mantenimento, nel secondo caso (divorzio per mancata consumazione), qualora uno dei due coniugi guadagni molto meno rispetto all’altro e, quindi, si ponga in una condizione di maggiore debolezza economica, il giudice può attribuire un assegno periodico di mantenimento [Cass. Sent. n. 2721/2009, n. 9442/1998].
C’è bisogno dell’accordo tra i coniugi? Per ottenere il divorzio per mancata consumazione del matrimonio i coniugi non devono necessariamente essere d’accordo e dichiarare tale circostanza davanti al giudice. L’assenza di rapporti sessuali, infatti, potrebbe essere lamentata anche dal marito o dalla moglie soltanto, in contestazione con l’altro coniuge che affermi il contrario. Chi chiede il divorzio per mancata consumazione del matrimonio, però, dovrà dimostrare quanto da questi affermato; il che – come evidente – in determinati casi è tutt’altro che facile, trattandosi di eventi che non avvengono in presenza di testimoni. Nel processo civile, infatti, le parti in causa non possono testimoniare a favore di sé stesse, ma devono sempre chiedere a soggetti terzi di confermare i fatti.
Le prove: la verginità della moglie. La prova migliore per dimostrare che il matrimonio non è stato consumato e, quindi, ottenere l’immediato divorzio senza separazione è certamente quella della verginità della moglie: in tal caso, la donna viene sottoposta a un controllo da un medico ginecologo delegato dal giudice che verifica la mancanza di precedenti rapporti sessuali. Ma di questi tempi è un’ipotesi assai improbabile e la donna potrebbe aver perso la verginità prima delle nozze anche con un uomo diverso.
Le prove: l’impotenza dell’uomo. Un’altra prova decisiva è quella di un certificato medico che dimostri l’incapacità del marito ad avere rapporti sessuali; in gergo tecnico si dice “impotenza coeundi”, ossia l’impotenza alla penetrazione. Si differenzia dalla cosiddetta “impotenza generandi” che è quella invece che, pur consentendo la penetrazione, non consente tuttavia di avere figli.
Le altre prove per dimostrare l’illibatezza. Fuori dai predetti mezzi di prova, la parte che chiede il divorzio può dimostrare la mancata consumazione dello stesso con ogni altro mezzo, anche per presunzioni (volgarmente detti “indizi”) che siano gravi precise e concordanti. È, infatti, necessaria una valutazione rigorosa degli elementi probatori offerti. Come detto, è assai improbabile che il tentativo di un rapporto naufragato sia avvenuto in presenza di testimoni, per cui è impossibile valersi di un “testimone oculare” (in gergo tecnico viene detto “testimone diretto”). È possibile, però, in determinati casi il “testimone indiretto” (o de relato), ossia quello che riferisce non già ciò che ha visto, ma ciò che ha sentito dire; tuttavia tali dichiarazioni possono costituire prove solo se suffragate da ulteriori elementi che ne avvalorino il contenuto.
Che succede se c’è l’accordo di entrambi i coniugi? La giurisprudenza ritiene che l’accordo di entrambi i coniugi non sia sufficiente per ottenere il divorzio, onde evitare comportamenti fraudolenti, volti solo a rendere più veloce la procedura di addio. Pertanto, la testimonianza concorde di entrambi i coniugi deve essere sostenuta dai documenti acquisiti agli atti [C. App. Genova sent. 15.03.2003, Trib. Modena sent. 27.02.2004]. La dichiarazione congiunta delle parti e la documentazione medica sono considerati come indici probatori di riferimento, potendo essere utili le informazioni acquisibili diversamente (ad es.: prova testimoniale).
La lontananza può essere una prova? Una valida prova a dimostrazione della mancata consumazione potrebbe essere la lontananza tra i coniugi che potrebbero non aver mai convissuto sotto lo stesso tetto dalle nozze [Trib. Palermo sent. 8.05.1996, Trib. Modena sent. 5.04.1973]. Secondo alcuni giudici, però, la semplice mancata coabitazione è solo un indizio della mancata consumazione del matrimonio [Trib. Napoli sent. 2.05.1997].
Redazione Lpt 11 luglio 201
www.laleggepertutti.it/126049_matrimonio-senza-rapporti-sessuali-divorzio-senza-separazione
Niente trasferimenti patrimoniali con separazione o divorzio semplificati
L’accordo semplificato per la separazione o il divorzio non può contenere patti di trasferimento patrimoniale di alcun genere. Quindi, una circolare non può allentare il divieto previsto dalla legge, limitandolo all’ipotesi di assegno una tantum ed escludendolo, invece, in caso di assegno mensile di mantenimento.
- Lo ha stabilito il Tar Lazio con la sentenza n. 7813 del 7 luglio 2016. Il collegio ha preso in considerazione la nuova procedura di separazione e divorzio prevista dall’art. 12 del Dl 132/2014. Nel dettaglio, il meccanismo legislativo si svolge davanti all’ufficiale dello stato civile e richiede due condizioni: la prima è che non vi siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti. In questo caso, «l’accordo tra le parti tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio».
- La seconda condizione, invece, è che l’accordo non può contenere «patti di trasferimento patrimoniale». Il Viminale, tuttavia, ha emanato una circolare ad hoc che aveva allargato le maglie del divieto previsto dalla norma primaria, facendovi rientrare solo l’ipotesi di assegno in un’unica soluzione ed escludendo, invece, l’assegno mensile di mantenimento o divorzile. I giudici amministrativi capitolini non hanno, però, condiviso la lettura ministeriale, posto che la portata della legge è ampia e omnicomprensiva.
Inoltre, essa «è tesa a garantire il soggetto più debole della coppia, che altrimenti sarebbe fortemente penalizzato, stante la procedura particolarmente accelerata e semplificata, che peraltro vede la presenza solo eventuale di avvocati e che attribuisce all’ufficiale di stato civile un ruolo meramente certificatore dell’accordo tra le parti». I giudici hanno concluso affermando che solo un’interpretazione letterale della norma assicura la tutela del soggetto più esposto, che, in caso contrario, potrebbe essere di fatto costretto ad accettare condizioni patrimoniali imposte dalla controparte più forte.
Soddisfazione in merito alla decisione è stata espressa dall’Associazione italiana avvocati per la famiglia e i minori che, in prima battuta, aveva fatto ricorso contro l’interpretazione delle norme fornita dal ministero dell’interno insieme all’Associazione Donna Chiama Donna Onlus.
Il sole 24 ore 9 luglio 2016
www.oua.it/tar-niente-trasferimenti-patrimoniali-con-separazione-o-divorzio-semplificati-il-sole-24-ore
Negli accordi di separazione più spazio ai legali, dopo la bocciatura della circolare.
Il Tar del Lazio dà partita vinta all’Associazione italiana avvocati per la famiglia (sentenza 7813/sabato 7 luglio 2016), accogliendo il ricorso contro la circolare del ministero dell’Interno (n. 6 del 2015) intervenuta sulla legge n. 162/2014, di de-giurisdizionalizzazione degli accordi di separazione. La circolare consentiva alla coppia di coniugi di arrivare – secondo accordi diretti tra loro – a richiedere la separazione, il divorzio o la modifica delle pattuizioni previste in questi ultimi provvedimenti, rivolgendosi direttamente, all’Ufficiale di stato civile, pur in assenza sostanziale di un professionista di fiducia, che valutasse, per entrambi, la convenienza dell’accordo, data la previsione, solo facoltativa, di un solo avvocato. L’impugnazione è stata accolta e la circolare annullata.
Dopo un primo provvedimento (circolare 19/2014) che, più conforme allo spirito della norma, aveva escluso che si potessero raggiungere accordi diretti tra coniugi rivolgendosi direttamente all’Ufficiale di stato civile quando questi prevedessero una qualunque clausola di carattere patrimoniale, con la circolare impugnata veniva consentito alle parti di accedere alla procedura semplificata anche per i casi di modifica delle condizioni separative o divorzili con la «rivisitazione quantitativa» dell’importo dell’assegno. La circolare ministeriale, aveva così aggirato il limite posto dalla legge istitutiva della “negoziazione assistita” a tutela della parte debole del rapporto coniugale, interpretando – in modo non conforme – la limitazione dell’impossibilità di prevedere «patti di trasferimento patrimoniale» restringendola al solo senso letterale di «accordi aventi effetto traslativo di un bene». L’interpretazione ministeriale consentiva così – in assenza di una concertazione raggiunta a seguito di una negoziazione assistita delle reciproche posizioni, all’esito della quale le eventuali concessioni economiche, fatte dal marito alla moglie o viceversa, fossero il frutto di scelte meditate con l’ausilio del proprio legale di fiducia, (specificamente richiesto uno per ogni coniuge) – di rivolgersi direttamente all’Ufficiale di stato civile chiedendo, allo stesso, di ricevere il loro accordo separativo, divorzile o di modifica, senza che nessun professionista avesse tutelato la parte debole del rapporto coniugale; non potendosi certamente riconoscere alcuna competenza, in tal senso, all’ufficiale anagrafico.
Diversamente all’articolo 6 della legge 162/2014 è prevista la possibilità per i coniugi, quando raggiungono attraverso negoziazione assistita un accordo separativo o divorzile o di modifica del precedente regime, anche economico, della disposizione familiare, di presentare tale accordo direttamente all’Ufficiale di stato civile – previa la sola verifica del Pm sulle eventuali previsioni per i figli minori o diversamente non autosufficienti – con un lavoro di reciproche concessioni, che però sia appunto «filtrato dall’opera consulenziale degli avvocati di parte» che acquisiscono lo specifico incarico di dichiarare, e quindi di garantire espressamente nella stesura dell’accordo separativo, come questo «non violi diritti indisponibili e non sia contrario a norme di ordine pubblico, ai sensi dell’articolo 5, comma 2 della legge 162/2014».
L’annullamento della circolare n 6/2014 è stato disposto, va sottolineato, proprio in aderenza allo spirito originario della legge sulla negoziazione assistita. Legge che ha introdotto nel nostro ordinamento un’ipotesi rilevantissima in termini numerici di “de-giurisdizionalizzazione” del ricorso al giudice per gli accordi separativi, in presenza di condizioni, riconosce la sentenza, che «non danneggino i soggetti deboli del rapporto coniugale».
Giorgio Vaccaro il sole24ore 12 luglio 2016
www.oua.it/famiglia-negli-accordi-di-separazione-piu-spazio-ai-legali-il-sole-24-ore
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GESTAZIONE PER ALTRI
Utero in affitto, l’Italia esca dall’ambiguità.
Si va dalla battaglia in punta di diritto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica, dalle iniziative nelle aule parlamentari alla richiesta di smascherare l’ipocrisia che nasconde la violazione di diritti umani fondamentali, delle donne e dei bambini. È variegato – e per niente rassegnato – il fronte di chi invita ad aprire gli occhi su che cosa significhi veramente la pratica della maternità surrogata. Proprio perché ripetute sentenze recenti della magistratura italiana – permettendo l’iscrizione allo stato civile italiano di bambini partoriti all’estero da parte di coppie (omo ed eterosessuali) che avevano affittato la gestante – sembrano dimenticare lo sfruttamento degli esseri umani che è alla base di quelle nascite.
«Queste decisioni, da ultimo quella della Corte di Cassazione, legittimano la stepchild adoption, e (se è il caso) anche la surrogazione di maternità – osserva Alberto Gambino, docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma e neo-presidente di Scienza&Vita – e si basano spesso sull’ipocrisia di voler tutelare il miglior interesse del bambino. Ma quando una coppia omosessuale maschile torna in Italia con il bambino partorito all’estero da una -madre surrogata, un padre biologico (di solito) c’è. E al suo convivente uomo non è impedito di occuparsene nella quotidianità: quale interesse ha quindi il piccolo ad avere “legalmente” un secondo padre? In realtà l’interesse è solo dell’adulto». Situazione diversa, ma non meno critica, è quella della coppia eterosessuale: «In questo caso la madre biologica ha abbandonato spontaneamente il neonato o è stata indotta ad abbandonarlo dietro un pagamento stabilito da un contratto? E qual è allora l’interesse del bambino? Conoscere la madre biologica o vivere con chi le ha imposto l’abbandono?» In realtà, osserva ancora Gambino, «le sentenze di legittimità (delle Corti d’Appello e della Cassazione) fanno leva sul principio della Corte Costituzionale aveva stabilito in via residuale: si poteva applicare l’adozione in capo a un parente o a un convivente, ma solo nel caso di abbandono, cioè se il genitore biologico non esiste più o non si occupa più concretamente del bambino. Ma il principio è stato forzato dalle Corti di legittimità, che lo hanno esteso anche al caso in cui un genitore esista e si occupi concretamente del figlio. Ma così viene meno la ratio propria di uno strumento di emergenza nella cura e non aggiuntivo di una seconda genitorialità. Occorre squarciare questo velo di ipocrisia, ricordando che a monte c’è un atto illecito contrario ai diritti dell’umanità».
Un aspetto su cui insistono anche parlamentari di diversi schieramenti. Paola Binetti (Area popolare) ricorda due disegni di legge già presentati: il primo perché «l’utero in affitto sia dichiarato reato universale». Non basta infatti che in Italia sia una pratica vietata dalla legge 40, perché il divieto viene aggirato dal fatto – che i magistrati «prendono atto che in altri Paesi non è reato». E il secondo sull’adozione: «Dobbiamo portare avanti una battaglia di diritto per evitare la distorsione antropologica per cui ci sono due padri e nessuna madre o viceversa». «Ancora più importante – conclude Binetti – è l’impegno culturale per mantenere il senso comune sulla necessità di avere un padre e una madre».
Eleonora Cimbro (Pd) sottolinea l’importanza di far conoscere «questa nuova forma di schiavitù. Registro ancora troppa ignoranza sul tema: occorre sfatare il mito della gravidanza surrogata altruistica, perché al 99% è a scopo commerciale». «Ci sono dati ormai incontrovertibili – continua – che mostrano che si tratta di un fenomeno che porta alla mercificazione del corpo della donna e dei bambini: solo chi hai soldi può farlo». Cimbro contesta che «sia diritto di tutti avere un figlio»: «Un conto sono le unioni civili, un conto è favorire pratiche vietate in Italia con la stepchild adoption». Importante è la battaglia culturale: «Occorre far capire che si tratta di una prevaricazione dell’individuo sull’umanità: ma avere un figlio è un dono, non qualcosa di dovuto».
La sensibilizzazione va avanti anche a livello parlamentare: «Abbiamo moltiplicati convegni e iniziative alla Camera per creare l’informazione necessaria a contrastare la maternità surrogata, in ogni possibile futuro provvedimento. Anche perché le lobby a favore della surrogata sono molto forti in Italia e in Europa e occorre quindi fare massa critica per opporci». Secondo Eugenia Roccella (Idea) occorre però «uscire all’ambiguità insite nel comma 20 della legge Cirinnà, che avevamo denunciato sin dall’inizio». «Purtroppo sembra che si sia voluto dare la delega alla magistratura di decidere caso per caso sui casi di stepchild adoption, visto che la politica non lo faceva perché non c’era il consenso sufficiente». «Anche l’Avvocatura dello Stato – aggiunge Roccella – ha ammesso che la stepchild adoption esiste nel nostro ordinamento». E trova «grave» che la Cassazione abbia recentemente lasciato decidere una singola sezione, quando era stato chiesto di decidere a sezioni unite per avere un’uniformità di interpretazione: «Riteniamo che il nodo sia politico, il comma 20: non sono nemmeno state approvate mozioni un po’ serie contro l’utero in affitto».
Dal mondo del femminismo – anche di sinistra – viene l’invito a non demordere: «Non bisogna mai stancarsi di parlare e informare la società – sottolinea Marina Terragni, giornalista e blogger, autrice di un recente saggio Utero in affitto e mercato dei figli – di quanto la maternità surrogata sia una questione enorme, che tocca la matrice della civiltà umana. Si interrompe un percorso naturale come quello della gravidanza e del legame tra madre e figlio senza che vi siano cause di forza maggiore. Purtroppo c’è spesso la paura di apparire anti moderni, se ne parla mal volentieri. Invece va colta ogni occasione per far ragionare l’opinione pubblica. Che peraltro mantiene un istintivo sentimento di diffidenza e allarme verso queste pratiche».
Enrico Negrotti Avvenire 14 luglio 2016
Regole efficaci, o si premia chi viola la legge
La legge 40 del 2004 vieta l’utero in affitto, la sanzione è di tipo penale. Ma i giudici continuano a “premiare” chi vi ha dato corso all’estero rimpatriando con il bimbo “ordinato” e “comprato”. Come è possibile?
La legge 40 non disciplina esplicitamente la sorte di chi compie questo reato all’estero, la sua formulazione considera illecite le condotte di chi pubblicizza o dà corso all’utero in affitto (in quest’ultimo caso la clinica), ma non è ben chiaro se intende punire anche chi vi fa ricorso.
Campo libero allora per le interpretazioni dei giudici, negli ultimi mesi sempre più a senso unico. Intanto l’ipocrisia continua: il Parlamento si pronuncia contro la surrogazione di maternità (mozioni dello scorso maggio) ma né discute né vota una norma più chiara (nonostante alla Camera giacciano alcune proposte di legge). E magistrati di ogni ordine – grado, nonostante la legge 40 – al di là di alcune pecche formali – sancisca chiaramente il disvalore della gestazione per altri, continuano a emettere sentenze che vanno nella direzione opposta. L’ultimo caso noto è quello di due settimane fa, e riguarda una coppia di Bergamo. Solito copione: espatrio degli aspiranti genitori in Ucraina, rientro con il bimbo in braccio, procedimento giudiziario avviato su segnalazione del Consolato italiano, proscioglimento da parte del giudice. Ma stavolta il Pm non demorde: «Leggerò le motivazioni della sentenza e farò le valutazioni del caso, sicuramente mi impegnerò», annuncia ad Avvenire Letizia Ruggeri. Che spiega: «I due “genitori” (almeno la madre non era tale) avevano tentato di iscrivere all’anagrafe il minore come proprio figlio, alterandone evidentemente lo stato civile». Una condotta che l’articolo 567 del Codice penale esplicitamente prevede e punisce come reato. Su cosa si è dunque basato il proscioglimento?
Nel caso specifico non lo sappiamo con certezza, perché la sentenza dev’essere ancora depositata. Ma in molti precedenti l’idea di fondo è chiara: secondo i giudici, in questi casi, i “committenti” di bimbi non intendono registrare il minore con una falsa provenienza ma semplicemente chiedono che sia trascritto in anagrafe il certificato di nascita ottenuto secondo le leggi dello Stato che gliel’ha rilasciato. Dunque non commetterebbero niente di male. Ma se anche ritenessero integrato il reato di cui all’articolo 567, il processo – per ragioni tecniche – potrebbe validamente instaurarsi solo su richiesta del ministro della Giustizia. Morale: i “genitori committenti” vengono assolti, e i bimbi sono tranquillamente iscritti all’anagrafe (qualche volta a nome di entrambi i genitori, altre – ed è il caso bergamasco – solo con il nome del genitore biologico).
Sentenze di questo tipo sono ormai numerose, nemmeno la Cassazione ha aiutato a chiarire la materia. Anzi. Nel novembre 2014, investita dei profili civilistici della vicenda (il bimbo “surrogato” deve stare con chi l’ha “comprato”, oppure è meglio che venga posto in adozione?), contro l’utero in affitto si era espressa in modo chiarissimo, addirittura giungendo ad affermare che il suo divieto è di ordine pubblico. Vale a dire ricavabile non solo da una legge specifica ma anche dai princìpi generali del nostro ordinamento. Lo scorso aprile, invece, chiamata a decidere i profili penali della questione (la procedura di surrogazione integra o meno il reato di alterazione di stato?), si è espressa in senso diametralmente opposto: la condotta dei “committenti” è lecita perché messa in atto laddove la legge la permette. Dunque non importa se tutto è espressamente studiato per eludere l’ordinamento italiano.
E sull’incapacità di gestire questo problema, nel nostro Paese, tra le tante sentenze una è testimone privilegiata: quella emessa nell’aprile 2014 dal Tribunale di Milano, secondo cui le moderne tecniche procreative hanno messo il diritto «con le spalle al muro» (tra virgolette, le parole sono testuali). Come se la scienza giuridica non possa e non debba regolare anche questa materia.
Una cosa è certa, e anche quest’analisi lo dimostra: in Italia la maternità surrogata è vietata dalla legge ma sdoganata da cavillose pronunce, che fanno perno sui punti deboli della norma. Ecco allora la necessità di una legge più “ermetica”, la cui discussione possa finalmente scoprire le carte della politica. E aiutare a distinguere: chi contro l’utero in affitto davvero si batte da chi invece – adducendo l’inutilità di un nuovo testo, in quanto sarebbe già sufficiente quello in vigore – nei fatti sdogana questa pratica.
Marcello Palmieri Avvenire 14 luglio 2016
www.scienzaevita.org/rassegna
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MATERNITÀ
Scatti di carriera: si contano anche i congedi di maternità
Tribunale di Venezia – sentenza n. 336, 5 luglio 2016.
È discriminatorio negare alla lavoratrice lo scatto solo perché ha preso i congedi parentali e di maternità: necessario riconoscere la qualifica superiore per garantire la parità di trattamento tra uomo e donna.
Alle donne che, nell’arco della propria carriera lavorativa, sono diventate mamma e, pertanto, hanno usufruito dei relativi congedi di maternità e parentali, vanno riconosciuti detti periodi ai fini del conteggi del tempo utile a far maturare lo scatto di anzianità e, quindi, la progressione di carriera. È quanto chiarisce il Tribunale di Venezia con una recente sentenza.
Parità di trattamento sul lavoro tra donne e uomini. Va riconosciuta la progressione di carriera alla lavoratrice anche se questa ha preso, nel corso degli anni, diversi congedi di maternità: non si può infatti discriminare, negli “scatti”, la donna rispetto ai colleghi uomini solo perché questa è stata assente dal lavoro per le cause previste e giustificate dalla legge a tutela della maternità e della famiglia. Deve dunque ritenersi discriminatorio il mancato riconoscimento, da parte dell’azienda, della progressione di carriera – prevista dal contratto collettivo – alla mamma se questa si risolve nell’omessa valutazione dei periodi di assenza dal lavoro per congedo parentale o per congedo di maternità.
Diversamente, il datore di lavoro finirebbe per rallentare la carriera della donna rispetto all’uomo e rispetto alle altre donne che non hanno figli, proprio in ragione della maternità, senza che vi sia una giustificazione seria. Rallentamento che sarebbe, per tanto, illecito e contrario alla costituzione.
La dipendente ha dunque diritto, oltre al passaggio di livello, alle differenze retributive più interessi e rivalutazione monetaria.
Senza contare che la direttiva europea n. 2006/1954 impone di assicurare la par condicio fra uomo e donna: normativa che la stessa Corte di giustizia UE ha interpretato in modo rigoroso, vietando al datore di lavoro di interpretare la normativa nazionale in modo da realizzare discriminazioni fondate sul sesso. Al contrario, la parità di genere deve essere sempre garantita e, con essa, nel caso specifico, anche la promozione alla lavoratrice che abbia usufruito della maternità.
Redazione Lpt 6 luglio 2016
www.laleggepertutti.it/125601_scatti-di-carriera-si-contano-anche-i-congedi-di-maternita
La maternità vale per la carriera.
È discriminatorio non tener conto del congedo per il raggiungimento del periodo di servizio utile al passaggio di livello. Costituisce discriminazione nei confronti delle lavoratrici il comportamento del datore di lavoro che, a fronte di una norma contrattuale collettiva da cui consegue il passaggio a un superiore livello di inquadramento dopo 24 mesi di servizio, non abbia considerato i periodi di assenza per congedo di maternità e parentale ai fini della progressione di carriera. Il tribunale di Venezia è pervenuto a questa conclusione nel caso di una società che ha negato a una dipendente, con mansioni di addetta di scalo aeroportuale, la promozione al IV livello, in applicazione del Ccnl per il personale di terra del trasporto aereo, dopo 24 mesi di servizio trascorsi nel V livello. La tesi propugnata dall’azienda è che il riferimento del contratto collettivo ai 24 mesi debba essere inteso quale periodo di servizio effettivo, nel senso che possono essere ricompresi nell’anzianità aziendale utile a maturare il diritto al livello superiore solo i periodi in cui la lavoratrice è stata presente in servizio attivo.
Il tribunale di Venezia rigetta questa tesi e, alla luce di una lettura sistematica delle disposizioni contrattuali, perviene alla conclusione per cui la disciplina collettiva solo apparentemente può essere intesa come riferibile a un periodo di servizio effettivo nel V livello, in quanto prevale il dato per cui le mansioni di riferimento, sia nel IV che nel V livello, sono le medesime. Da ciò consegue che, in presenza di mansioni coincidenti, l’elemento dirimente non può essere l’esercizio concreto delle stesse, quanto il dato temporale costituito dal decorso dei 24 mesi. Dalla violazione della disposizione contrattuale deriva, ad avviso del tribunale, che il mancato riconoscimento del livello superiore, per non essere stati conteggiati i periodi di maternità obbligatoria e i successivi congedi parentali, integra gli estremi di una discriminazione diretta in ragione del genere femminile cui appartiene la dipendente.
A ulteriore conforto delle proprie conclusioni il giudice richiama gli articoli 22 e 34 del Dlgs 151/2001, a norma dei quali sia i periodi di congedo di maternità, sia quelli di congedo parentale, devono essere computati nell’anzianità di servizio. A evidenza della discriminazione nei confronti dell’addetta di scalo, il tribunale richiama, inoltre, il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, il quale, tra le altre disposizioni, ha previsto che «costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive». Infine, il tribunale osserva che il carattere discriminatorio della mancata progressione di carriera è risultato, nel caso specifico, ancora più evidente per il fatto che nei confronti di altri lavoratori rimasti assenti per malattia, al fine del raggiungimento dei 24 mesi di servizio utili a maturare il diritto al IV livello, non è stata operata la detrazione dei periodi di astensione dal lavoro.
Giuseppe Bulgarini d’Elci – Il Sole 24 Ore – 13 luglio 2016
www.sivempveneto.it/vedi-tutte/33047-tribunale-di-venezia-la-maternita-vale-per-la-carriera-e-discriminatorio-non-tener-conto-del-congedo-per-il-raggiungimento-del-periodo-di-servizio-utile-al-passaggio-di-livello
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MATRIMONI
Quell’insopprimibile voglia di sposarsi
Addio Italia. Siamo davvero un Paese condannato all’estinzione? Le statistiche sembrano non lasciare spazio alla speranza. Non solo siamo il Paese europeo con il più basso tasso di natalità (8 per mille), secondo i dati Eurostat diffusi venerdì. Ma siamo anche il Paese in cui entro il 2031 i matrimoni religiosi dovrebbero scomparire (dossier Censis). Secondo le previsioni statistiche condensate in uno studio intitolato “Non mi sposo più”, entro il 2020 i matrimoni civili supereranno quelli religiosi – oggi già succede in alcune grandi città – e undici anni dopo le nozze all’altare potrebbero finire per diventare reperto storico.
Vedi newsUcipem n. 605, pag. 17
Non finirà la voglia di progettare il futuro in coppia, ma – secondo quanto ipotizza il Censis – le relazioni tradizionali saranno sostituite dai nuovi modelli di convivenza. Difficile scorgere in queste previsioni statistiche – che in ogni caso previsioni rimangono – motivi per cui gioire. Anche le indagini sociologiche più laiche concordano sul fatto che relazioni meno stabili si traducono quasi sempre in un futuro più precario, responsabilità più effimere, impegno educativo più labile. Relazioni light insomma che finiranno per essere scompigliate dal primo soffio degli imprevisti e delle incomprensioni. E quando si disgrega la famiglia è l’intera società a subirne le conseguenze.
Ma che questo esito dei rapporti familiari sia davvero ineluttabile è tutto da dimostrare. A mettere in dubbio i calcoli degli esperti non è soltanto il comune buon senso, che da sempre sa distinguere tra la verità dei numeri e quella della vita, ben più sfumata e meno inquadrabile in schemi così rigidi, ma anche analisi di altro tenore che parlano di un desiderio di famiglia e di natalità sempre vivo, del tutto opposto rispetto alle proiezioni nichiliste targate Censis. Basta scorrere per esempio i dati dell’ultimo rapporto Toniolo sui giovani in Italia per cogliere non pochi spunti di speranza e comunque per respirare un atteggiamento su matrimonio, famiglia e natalità che sembra contrastare con gli esiti nefasti del dossier diffuso qualche giorno fa.
Le aspettative di fecondità delle nuove generazioni – secondo le rilevazioni condotte nel settembre 2015 su un campione di 9.358 giovani tra i 18 e i 33 anni – includono una serie di domande dettagliate sui progetti familiari e sulle speranze di avere figli che evidenziano una netta frattura tra gli obiettivi rivelati e i tanti luoghi comuni sulla mancanza di progettualità delle generazioni più giovani.
«Oltre l’80 per cento degli uomini e delle donne – scrivono Emiliano Sironi e Alessandro Rosina che hanno curato questo capitolo del rapporto – vorrebbe una famiglia composta da due o più bambini. Tenendo conto di limiti e restrizioni, tale percentuale scende intorno al 60 per cento». Insomma, si sentono di concludere i ricercatori, se le giovani generazioni fossero messe nelle condizioni di realizzare i propri obiettivi su figli e matrimonio, attraverso adeguate politiche di sostegno per quanto riguarda il lavoro e l’accudimento dei figli, in Italia «non ci sarebbero problemi di bassa fecondità».
A contrastare la facile obiezione secondo cui i figli possono nascere anche al di fuori del matrimonio e che i giovani ipotizzano in modo crescente il proprio futuro relazionale secondo schemi diversi rispetto a quelli della tradizione, concorre – sempre nell’ambito del rapporto Toniolo – il capitolo curato da Sara Alfieri ed Elena Marta che mette in luce il ruolo della famiglia d’origine nelle transizione all’età adulta in un confronto tra cinque Paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania). «I modelli a cui i giovani europei in maggioranza fanno riferimento – spiega Elena Marta, che è docente di sociologia di comunità all’Università Cattolica di Milano – sono quelli delle famiglie d’origine, che rimangono importanti punti di riferimento per le scelte fondamentali della vita, come il lavoro e il matrimonio».
Lo stereotipo del “no family” prevalente tra i giovani, a lungo propagandato da certa cultura, non si ritrova insomma nelle statistiche dell’Istituto Toniolo. «Anzi – fa notare ancora la docente – ci ha sorpreso il dato secondo cui l’atteggiamento dei giovani inglesi e tedeschi nei confronti della famiglia d’origine, sia molto più vicino ai nostri giovani di quanto si potrebbe immaginare».
Sullo sfondo rimane certo la complessità di una situazione fluttuante e difficilmente omologabile, quella dei giovani nel mondo globalizzato, che risulta improbabile illudersi di poter ingabbiare in rigide proiezioni statistiche. Almeno dal punto di vista sociologico, risulta infatti difficile cogliere elementi che possano fare pensare di tradurre questa varietà di tendenze e di auspici in un pronostico credibile sulla “fine del matrimonio”. Anzi.
Luciano Moia Avvenire 9 luglio 2016
www.avvenire.it/famiglia/Pagine/insopprimibile-voglia-di-sposarsi.aspx
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PARLAMENTO
Camera. Proposta di legge C. 3890, presentata il 9 giugno 2016
Bini ed altri: “Modifica all’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, concernente l’introduzione di sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione” Assegnata alla Commissione Giustizia.
Art. 1. 1. All’articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, è aggiunto, in fine, il seguente capoverso: «È altresì punito con la multa da euro 2.500 a euro 10.000, salvo che la condotta non costituisca reato più grave, chiunque si avvalga delle prestazioni sessuali offerte da soggetti che esercitano la prostituzione o le contratti, in qualsiasi luogo, pubblico o privato, ovvero nei luoghi e nelle forme vietati dalla legislazione vigente. In caso di reiterazione del reato, il fatto è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa da euro 2.500 a euro 10.000. La pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita su richiesta del condannato con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita presso associazioni, enti e altri organismi iscritti al registro istituito ai sensi dell’articolo 52, comma 1, lettera b), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, convenzionati con l’ente locale con la frequenza obbligatoria di un corso socio-rieducativo. In caso di esito positivo dello svolgimento dei lavori di pubblica utilità, il giudice fissa un’udienza e dichiara estinto il reato; in mancanza di esito favorevole, su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, il giudice dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino della pena originaria. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di una volta».
Relazione e testo
www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0043100&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=3890-e-sede=-e-tipo=
Prostituzione, piano per punire i clienti.
(…) In questi giorni, infatti, è stata depositata una proposta di legge (n.3890) – presentata ieri alla Camera insieme all’associazione Papa Giovanni XXIII e ad alcuni gruppi scout di Pistoia impegnati in progetti anti-tratta – con prima firmataria la deputata Pd Caterina Bini, appoggiata da un gruppo trasversale di 33 parlamentari da Sinistra italiana ad Area popolare, che mira a reprimere la domanda punendo i clienti delle “lucciole” con multe da 2500 a 10mila euro. Nel caso di recidiva poi, la pena arriva fino a un anno di carcere scontabile, nel caso di prima condanna, anche con lavori di pubblica utilità. «Con un solo articolo chiediamo di modificare la legge Merlin al punto 3 – spiega la democratica Bini – aggiungendo sanzioni per chi si avvale delle prestazioni sessuali delle prostitute».
Un modello, tra l’altro, sollecitato lo scorso anno anche da Bruxelles dove è stata approvata una risoluzione che chiede agli Stati di orientarsi verso il modello nordico, che introduce il reato di acquisto di servizi sessuali. «In Svezia in questo modo è stata ridotta la prostituzione dell’80%; in Inghilterra, Islanda e Irlanda e due mesi fa in Francia hanno seguito quell’esempio», continua la parlamentare, che pur avendo ricevuto una mail anonima di ricatto elettorale è pronta ad andare avanti con un testo base che unisca il suo Pdl e le altre proposte simili già depositate.
Prima fra tutte quella del deputato Gianluigi Gigli e di molti colleghi del gruppo DeS-Cd – datata 1 luglio 2014 – assegnata appunto due anni fa alla commissione Giustizia e mai calendarizzata. Il testo di tre articoli si propone, allo stesso modo, di punire con un’ammenda da 500 a 2000 euro l’acquisto di servizi sessuali a pagamento, anche se effettuato da terzi, con un aumento di sanzioni fino al triplo per la reiterazione del reato. Dalla quarta volta, la pena diventa reclusione da tre mesi a un anno (con possibilità di sostitutiva). Gli introiti delle multe, poi, confluirebbero in un Fondo per le misure anti-tratta. «Lo Stato non può mettersi dalla parte di chi vuole sfruttare la prostituzione», l’esordio dell’esponente centrista, ricordando le numerose proposte presentate invece per regolamentare anche fiscalmente il fenomeno, partendo da «un falso culturale che va smontato», ossia che disciplinare la materia aiuta a combattere la tratta, a incrementare gli utili e combattere l’evasione. «Ringrazio la collega Bini per aver rimesso in pista un tema che sembrava arenato», aggiunge, confermando la volontà di lavorare all’integrazione dei due Ddl «per votare al più presto».
Anche perché i numeri delle schiave del sesso non accennano a diminuire. Le stime della comunità Papa Giovanni XXIII parlano di 75-120mila persone vittime di 9 milioni di clienti italiani che muovono un giro d’affari di 90 milioni di euro al mese. Sono per lo più tra i 13 e i 17 anni e vengono da Nigeria, Romania, Albania; nel 65% dei casi si prostituiscono in strada. «Noi chiediamo alle ragazze non quanto vuoi, ma quanto soffri», dice il presidente Giovanni Ramonda, lanciando la campagna Questo è il mio corpo. Ma «non ci limitiamo a mettere una spalla sotto la croce di queste ragazze, diciamo a chi fabbrica quelle croci di smetterla», aggiunge accanto alla richiesta di modificare la legge Merlin punendo i clienti. Crediamo sia questa «la ricetta vincente per combattere la prostituzione – gli fa eco don Aldo Bonaiuto, uno fra i più stretti collaboratori di don Oreste Benzi – perché il cliente è corresponsabile del dramma di queste donne. E con questa legge vogliamo proprio fare un salto di qualità nella consapevolezza collettiva».
Alessia Guerrieri Avvenire 14 luglio 2016
www.avvenire.it/Politica/Pagine/Punire-i-clienti-delle-lucciole-per-fermare-la-prostituzione-.aspx
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALE E MATRIMONIALI
La famiglia crocevia di relazioni e di fecondità.
XXIV CONGRESSO NAZIONALE U.C.I.P.E.M.
Oristano, 2-4 Settembre 2016 Hotel Mistral, via XX settembre 84
Molte sono le scienze umane che hanno voce in capitolo riguardo alla famiglia. La medicina, il diritto, la giurisprudenza, la psicologia, la sociologia ci evidenziano in un crescendo sempre più pressante ogni forma di genesi, evoluzione, cambiamento che avvengono in seno ad essa.
In una società in accelerato progresso, sia dal punto di vista scientifico che tecnologico, crediamo di conoscere tutto, o quasi tutto, attraverso l’informazione che ci arriva dai media. Di fatto siamo più “informati” e indirizzati dalla “cronaca”, che assiduamente, in forme diverse ci bersaglia, che non messi in grado di conoscere, scegliere, discernere. Tutto quello che succede o che facciamo succedere ci riguarda molto da vicino, intimamente, come persone e società.
La famiglia è il crocevia dove tutto converge: la famiglia è costretta a elaborare velocemente, incalzata dal ritmo frenetico e assordante della comunicazione multimediale che appartiene, in modo diversificato, alle diverse generazioni che sono dentro la famiglia oggi.
Il dialogo generazionale dovrebbe tradursi in una dinamica comunicativa e progettuale che incarni tradizione, storia e attenzione al nuovo e al diverso.
Anche la crisi economica e le crisi della famiglia, pur nelle loro dolorose implicazioni, possono costituire un’occasione di riflessione, di confronto, di aderenza alla realtà.
Gli operatori dei Consultori familiari ne sono consapevoli e vivono ogni giorno, con le persone e le famiglie, la realtà delle diversità: di generazione, di sesso, di razza, di religione, di pensiero politico, di orientamento sessuale.
Il Congresso vuole offrire, attraverso l’esperienza e la passione degli operatori, un momento di sosta, di riposo (nello splendido contesto del Golfo di Oristano) e di lavoro, per restituire alla diversità e al cambiamento una connotazione positiva di valore e opportunità.
Venerdì 2 settembre ore 17.00
Apertura del Congresso: Saluti delle autorità
v Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M. “La famiglia crocevia di differenze e opportunità”
v Giuseppe Anzani “La famiglia che cambia in una società che cambia”
Ore 21.00 assemblea consultori familiari soci dell’U.C.I.P.E.M.
Sabato 3 settembre ore 9.00
v Beppe Sivelli “Cercarsi, perdersi, ritrovarsi: il cammino della coppia fra lontananza e vicinanza”
v Emidio Tribulato “Figli in difficoltà: tra legami familiari fragili e pressione sociale e mediatica”
Ore 10.15 Tavola rotonda condotta e coordinata da Luca Proli
- Alice Calori “Le nuove famiglie immigrate: tra identità e integrazione”
- Rosalisa Sartorel “Il Diritto di famiglia oggi: dalla potestà alla responsabilità genitoriale, dall’affido congiunto nelle separazioni all’accesso alle origini nelle adozioni”
- Domenico Simeone “Educare alla generatività le coppie e le famiglie”
Ore 13.00 Partenza per Cabras, Tarros e Museo dei Giganti
Ore 21.30 Concerto corale folcloristico in hotel offerto dal Consultorio di Oristano
Domenica 4 settembre ore 9.00
v Alfredo Feretti “Amoris Laetitia: una road map per le relazioni familiari”
Ore 9.45 Lavori di gruppo presentati e coordinati da Mariagrazia Antonioli
“La domanda delle famiglie e la risposta del Consultorio”
Conduttori dei gruppi: Costantino Usai, Giancarlo Odini, Stefania Sinigaglia, Francesca Frangipane, Raffaella Moioli, Chiara Camber, Cristiano Marcucci.
Ore 11.45 Conclusioni dei lavori di gruppo: Mariagrazia Antonioli e Luca Proli.
Ore 12.00 Conclusioni e chiusura Congresso Francesco Lanatà – Presidente U.C.I.P.E.M.
Scheda di iscrizione, note organizzative, informazioni, pieghevole, prenotazioni, ospitalità in
www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=399:congresso-ucipem-di-oristano-bozza-del-programma&catid=61&Itemid=203
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UNIONI CIVILI
Famiglia, unioni civili e convivenze
- Maggiore età per entrambi. A quale età si può contrarre una unione civile? La possibilità è riservata solo a persone dello stesso sesso? L’istituto delle unioni civili è riservato esclusivamente a persone maggiorenni del medesimo sesso. In ciò vi è il primo elemento di distinzione dal matrimonio classico, che può essere contratto già dal sedicesimo anno di età di uno o di entrambi. I due cittadini del medesimo sesso devono presentarsi, con due testimoni, uno per parte, dinanzi all’ufficiale di stato civile del Comune nel quale essi vogliono far trascrivere la loro unione e rendere la loro spontanea dichiarazione, attraverso la quale comunicano i loro dati anagrafici ed esprimono la volontà di vivere insieme.
- Lo stato civile certifica il legame. Esiste un documento che attesti l’unione civile? Se sì, da quale ufficio viene rilasciato? L’unione civile viene certificata da un documento, rilasciato dallo stato civile, che ne attesta la costituzione. Oltre a ciò, in questo documento viene dato atto del regime patrimoniale scelto dalle parti, che è quello della comunione legale dei beni, se il contrario non risulta da un’apposita convenzione. Infine, si attestano i dati anagrafici delle parti, la residenza scelta, i dati e la residenza dei testimoni.
- Si può scegliere un cognome comune. I contraenti la unione civile possono mutare cognome, o aggiungere quello del partner al proprio? Mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi. Sempre tramite dichiarazione all’ufficiale di stato civile si può chiedere di anteporre o posporre il cognome comune al proprio.
- Quattro cause di impedimento. Vi sono casi di impedimento e di nullità dell’unione civile e della convivenza? Sono quattro le cause di impedimento che generano nullità dell’unione civile.
- La prima causa di impedimento per la costituzione dell’unione civile tra persone del medesimo sesso è la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’altra unione civile. Dal tenore della norma pare intendersi che non sia causa di nullità il fatto che una delle parti abbia una convivenza con una persona di sesso diverso.
- La seconda causa di impedimento si verifica allorquando una delle parti è interdetta per infermità di mente. Se la causa per infermità di mente è stata soltanto promossa, il pubblico ministero può chiedere la sospensione della costituzione dell’unione civile fino a quando la sentenza non sia passata in giudicato.
- La terza causa di impedimento è l’esistenza di legami di parentela, così come descritti nell’articolo 87 del Codice civile: ascendenti e discendenti, zii e nipoti, fratelli e consanguinei, affini, adottante e adottato, figli adottivi della stessa persona, l’adottato e i figli dell’adottante, l’adottato e il coniuge dell’adottante, l’adottante e il coniuge dell’adottato.
- Infine, costituisce causa di impedimento la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte. La sussistenza di una delle cause impeditive comporta nullità della unione civile.
- I soggetti abilitati a impugnare. A quali soggetti spetta la legittimazione a impugnare l’unione civile viziata da nullità? La possibilità di impugnare spetta a ciascuna delle parti dell’unione civile, agli ascendenti prossimi, al pubblico ministero e a tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale. L’unione civile può essere, altresì, impugnata dalla parte il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità determinato da cause esterne alla parte stessa. Può essere, infine, impugnata dalla parte il cui consenso è stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altra parte.
- La coabitazione elimina la nullità. Esiste un termine entro il quale far valere la nullità dell’unione civile? La coabitazione per un periodo consistente può fare venire meno la nullità? La risposta al secondo quesito è affermativa, e la cosa costituisce una importante novità in relazione al termine entro il quale la parte che ha contratto l’unione civile può far valere la nullità. Infatti, se è passato un anno dalla cessazione della violenza, o dalla cessazione delle cause che hanno determinato il timore o da quando sia stato scoperto l’errore, e in questo anno si sia consumata coabitazione, non è più possibile far valere la nullità.
- Per la casa prevale l’interesse dei figli. In caso di cessazione della convivenza, la casa può essere assegnata, come avviene nel matrimonio? La risposta è affermativa. In caso cessazione della convivenza o della unione civile, la casa viene assegnata seguendo i criteri dettati dall’articolo 337-sexies del Codice civile, tenendo conto, quindi, della presenza e dell’interesse di prole minorenne o maggiorenne disabile, o maggiorenne non autosufficiente. Se l’assegnatario non abita o cessa di abitare stabilmente nella casa familiare, o convive “more uxorio” o contrae un nuovo matrimonio o una nuova unione civile, perde automaticamente il godimento della casa comune. Qualora non vi siano figli, e a recedere dalla convivenza o dall’unione civile sia il titolare dell’immobile adibito a casa comune, questi deve, nella dichiarazione di recesso, a pena di nullità, concedere all’altro convivente un termine non inferiore a 90 giorni per lasciare la casa.
- Diritto di abitazione «a tempo». In caso di morte di uno dei due partner, la casa viene assegnata al partner superstite? Se la risposta è affermativa, questo diritto ha limiti temporali? Se muore il proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza, se questa ha superato i due anni, e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
- Successione nei contratti. I conviventi hanno diritti di successione nelle locazioni e nell’edilizia popolare? Che cosa deve fare il partner superstite? Sia in caso di recesso dal contratto di locazione, sia in caso di morte del partner che ha siglato il contratto, l’altro partner convivente può succedergli. Qualora, nei bandi per l’assegnazione di alloggi popolari, l’appartenenza a un nucleo familiare costituisca elemento che conferisce maggiore punteggio, il punteggio premiante va assegnato anche ai conviventi di fatto, sia etero che omosessuali. In caso di morte del partner assegnatario, il partner superstite può chiedere all’Istituto case popolari l’assegnazione dell’alloggio.
- Oneri e doveri «matrimoniali». La convivenza di fatto è un atto pubblico e riconoscibile ai terzi? Da essa derivano doveri verso l’altro? Al comma 36 dell’unico articolo della legge 76/2016, sono indicate le condizioni necessarie per rendere una convivenza di fatto pubblica, certa e riconoscibile agli occhi della collettività. Anche in questo caso è richiesta la maggiore età da parte di entrambi i soggetti, di sesso diverso. Essi devono essere vincolati da un legame affettivo di coppia. Alla coppia viene imposto per legge un dovere di assistenza morale e materiale, alla stregua degli oneri e doveri matrimoniali, e viene richiesto di non essere in una di impedimento, quanto a parentela o affinità, o perché vi sia un altro matrimonio o un’altra unione civile riconosciuta. Fatti salvi tali requisiti ed escluse le cause di nullità, la coppia che vuole rendere pubblica la propria convivenza può fornire una dichiarazione allo stato civile del Comune di residenza, così come già avveniva in passato per la “famiglia anagrafica”, ex articolo 4 del Dpr 223/1989 (“Regolamento anagrafico della popolazione residente”).
- Forma scritta per la validità. Per il contratto di convivenza vi sono requisiti di forma richiesti dalla legge? Bisogna rivolgersi a qualche professionista? Sia le coppie etero che quelle omosessuali possono regolare i propri rapporti patrimoniali, relativamente alla loro vita in comune. Due i professionisti che la legge deputa alla stipula: un notaio oppure un avvocato. Essi devono redigere il contratto di convivenza in forma scritta (pena la nullità dell’atto) e devono certificare che le clausole non sono contrarie alla legge e all’ordine pubblico. Il professionista ha dieci giorni di tempo, dalla sottoscrizione del contratto di convivenza, per la trasmissione dell’atto al Comune di residenza della coppia, ai fini della iscrizione in anagrafe. Se non viene rispettata tale trascrizione, il contratto di convivenza non è opponibile ai terzi e, verosimilmente, alla stregua di quanto previsto in tema di negoziazione assistita, il professionista può incorrere in responsabilità professionale.
- Contratto senza termini e condizioni. Esistono requisiti essenziali al contenuto del contratto di convivenza? La risposta è positiva. Il contratto di convivenza deve contenere l’indirizzo di residenza comune prescelto dalla coppia, nonché le modalità con cui ognuna delle due parti intende contribuire alle necessità della vita in comune (in relazione sia alle capacità patrimoniali, sia al reddito e pure all’apporto in termini di lavoro domestico). Anche il regime patrimoniale, di comunione o separazione dei beni, va scelto all’atto della firma del contratto di convivenza. Tale regime può essere modificato in qualsiasi momento, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata dinanzi a un notaio o a un avvocato. Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si considerano non apposti.
- Aspetti patrimoniali post cessazione. Si possono regolare i rapporti patrimoniali in caso di cessazione del contratto di convivenza? La risposta dovrebbe essere affermativa. Il condizionale è d’obbligo, in quanto il tenore letterale del comma 50 dell’unico articolo della legge 76/2016 sembrerebbe chiudere il varco a quel tipo di accordi tesi a regolare rapporti patrimoniali in caso di cessazione della convivenza o della unione civile. Una tesi così restrittiva, in un ordinamento contrattuale, non può, tuttavia, trovare spazio. Pertanto, è preferibile accedere all’idea di un contratto di convivenza che regoli anche i rapporti patrimoniali in caso di cessazione del legame sentimentale o della convivenza. Non foss’altro per evitare di inflazionare il “sistema giustizia” con ulteriore contenzioso.
- Il caso di recesso unilaterale. Cosa succede in caso di cessazione del contratto di convivenza? Può decidere uno solo dei contraenti? Valgono le medesime regole formali stabilite per la costituzione del contratto di convivenza. In tal caso, se nell’accordo era stato scelto il regime della comunione dei beni, essa si considera automaticamente sciolta all’atto della cessazione del contratto di convivenza. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza, il professionista che riceve o autentica l’atto è tenuto a comunicarlo all’anagrafe di residenza e a notificarne copia all’altro contraente.
- Unioni, «prevale» la comunione. Come cambia il regime patrimoniale degli uniti civili? Possono scegliere la separazione, il regime patrimoniale, e, in mancanza di dei beni? Gli uniti civili, al pari dei coniugi uniti in matrimonio, possono scegliere di adottare espressa opzione varrà il regime della comunione dei beni, che si intenderà automaticamente sciolta in caso di recesso o cessazione della unione civile. Anche i componenti di una unione civile possono adottare il regime del fondo patrimoniale.
- La convivenza registrata. Quale sarà il regime patrimoniale degli interessati in caso di convivenza registrata? Ognuno dei due conviventi rimane titolare dei propri acquisti, non instaurandosi un regime “ex lege” di comunione dei beni acquisiti in costanza di convivenza registrata. È, però, possibile, per coloro che compongono la coppia di conviventi registrata, stipulare un “contratto di convivenza” mediante il quale, anche nel regime di convivenza registrata, si ottiene la messa in comune dei beni e dei diritti che i conviventi di fatto acquisiscono nel periodo in cui la convivenza registrata si svolge.
- Impresa familiare, utili ripartiti. Si applicano alle unioni civili e alle convivenze le norme in tema di impresa familiare? C’è partecipazione agli utili per il partner? Nel caso in cui uno dei componenti della coppia eserciti un’attività aziendale sotto forma di “impresa familiare”, qualunque sia il rapporto (matrimonio, unione civile, convivenza registrata) che unisce il soggetto imprenditore con il partner, quest’ultimo partecipa in ogni caso agli utili e agli incrementi dell’impresa individuale del componente della coppia titolare dell’impresa.
- Sì a Tfr e congedo «matrimoniale». I benefici sociali e previdenziali si estendono alle coppie unite civilmente o conviventi e registrate? La risposta è positiva. In questo caso la norma è abbastanza chiara: tutti i diritti derivanti dalle leggi e dalla contrattazione collettiva, in cui sono riportati i termini matrimonio, coniuge o coniugi sono direttamente applicabili, in termini di “benefit” sociali e previdenziali, anche alle unioni civili. Manca il riferimento alle coppie conviventi registrate, ma si può ritenere che la giurisprudenza di legittimità o quella costituzionale colmeranno questa lacuna. Il comma 17 dell’unico articolo della legge 76/2016 dispone che risulti applicabile il pagamento del trattamento di fine rapporto e della relativa indennità, in caso di morte del lavoratore, anche alla parte dell’unione civile. In caso di unione civile dichiarata sciolta, con previsione di obbligo di mantenimento, è applicabile il riconoscimento del 40% del Tfr per il periodo di effettiva vigenza della unione. Anche qui manca l’estensione del beneficio alle coppie conviventi registrate. Nessun problema desta l’estensione a unioni civili e coppie conviventi registrate delle ferie matrimoniali, degli assegni familiari per il nucleo, delle detrazioni fiscali per familiari a carico, dei permessi di lavoro per un massimo di tre giorni al mese per familiari conviventi con disabilità, ex legge 104/1992. Infine, vige l’estensione del permesso di tre giorni per gravi motivi familiari e del congedo, in misura massima di due anni, concessi a beneficio del coniuge convivente di un soggetto con disabilità in situazione di gravità accertata.
- Sul mantenimento decide il giudice. Sono previsti obblighi di mantenimento in caso di cessazione della convivenza? Che cosa succede se, all’interruzione dell’unione civile o della convivenza, i due soggetti non si trovano d’accordo sugli aspetti economici del “distacco”? In caso di cessazione della convivenza (e, si deve presumere, della unione civile), qualora non vi sia accordo tra gli ex conviventi, sarà il giudice a determinare l’an e il quantum del mantenimento che il convivente economicamente più solido deve versare al partner che versa in stato di maggiore bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. Il tenore della norma fa presumere che, se l’ex convivente è percettore di una rendita o di un reddito, e pertanto è capace di provvedere a se medesimo, egli non può invocare alcuna forma di sostegno da parte dell’ex partner. Qualora il giudice adito opti per un assegno di mantenimento, esso va determinato, secondo l’articolo 438, secondo comma, del Codice civile, in porzione del bisogno di chi ne fa domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Non deve tuttavia superare quanto sia necessario, avuto riguardo alla sua posizione sociale tenuta in costanza di convivenza. In caso di coniuge violento, il partner che subisce maltrattamenti può ricorrere agli ordini di protezioni volti all’allontanamento coatto dell’altro dalla casa di comune residenza.
- La successione è equiparata. In che misura il convivente eredita? A quali soggetti spetta la cosiddetta legittima? Per la successione valgono le norme in vigore per il matrimonio: al partner superstite va la “quota legittima”, che varia a seconda del numero di figli del defunto (per esempio il 50%, in caso in cui il de cuius non abbia figli).
- Il risarcimento per il partner. In caso di morte di uno dei due partner da fatto illecito, a chi spetta il risarcimento stabilito in sede giudiziale? In caso di decesso del partner, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite.
Il sole 24 ore 8 luglio 2016
www.ilsole24ore.com/ebook/norme-e-tributi/2016/er56-famiglia-unioni-civili-convivenze/index.shtml
www.scienzaevita.org/rassegna/famiglia-unioni-civili-e-convivenze
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