newsUCIPEM n. 603 – 26 giugno 2016

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ADDEBITO                                           Separazione: se tradisci e te ne vanti hai l’addebito.

ADOZIONE                                            Il tribunale dice sì al primo caso di adozione post-mortem.

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Bulgaria, 132 bambini hanno l’abbinamento nei 4 mesi del 2016.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO                I figli hanno più di 30 anni: niente assegno di mantenimento.

ASSEGNO DIVORZILE                                    Addio al mantenimento dell’ex moglie.

CHIESA CATTOLICA                                        La storia, i fatti e i pontificati: in dialogo con F. De Giorgi.

Ultima puntata nel dialogo con De Giorgi.

CINQUE PER MILLE 2016                              Dichiarazione sostitutiva entro il 30 giugno 2016.

COMM. ADOZIONI INTERNAZIONALI    Il ministro Boschi è ufficialmente la nuova presidente della CAI.

Tutti i bambini adottati in Congo dalle famiglie italiane sono a casa.

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Belluno. Il consultorio è nel Tavolo per le politiche familiari.

Cremona. Il Vescovo incontra gli operatori consultoriali.

DALLA NAVATA                                              13° Domenica del tempo ordinario – anno C -26 giugno 2016.

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

DIACONIA                                                         Le diacone. Può realizzarsi il diaconato femminile?

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         Rimettiamo gli ultimi e i più deboli al primo posto.

MIGRANTI                                                         Orlando: Nel 2015 in Italia 12mila minori (+13%).

NULLITÀ MATRIMONIALI                            Matrimoni nulli?

OMOADOZIONE                                             Tra divieto di discriminazione e superiore interesse del minore.

                                                                              Unioni civili, via libera della Cassazione alla stepchild adoption.

Gambino: nessuna novità assoluta dalla Cassazione

Il valore di una sentenza.

L’unica garanzia per i bambini è il matrimonio fra uomo e donna.

Il Governo italiano: «no» solo se è illegale anche all’estero.

PARLAMENTO Senato 2° C. Giustizia.    Accesso del figlio alle informazioni sull’identità dei genitori.

Disposizioni sul cognome dei figli.

Camera                 2°Comm- Giustizia           Procedibilità del delitto di atti sessuali con minorenne.

UNIONI CIVILI                                                  Matrimoni, unioni civili, convivenze di fatto: cosa cambia?

Convivenze con comunione di beni. Consiglio del Notariato.

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ADDEBITO

Separazione: se tradisci e te ne vanti hai l’addebito e risarcisci il danno.

Alle conseguenze tipiche del diritto di famiglia possono aggiungersi quelle dell’illecito civile, quando il tradimento è stato particolarmente doloroso. Tradire è una condotta di per sé lesiva dell’onore e della dignità del partner e, come noto, può comportare l’addebito della separazione. Se, poi, il compagno fedifrago sbandiera ai quattro venti la sua marachella all’addebito si aggiunge anche il risarcimento danni.

Del resto, la violazione dei doveri familiari può non limitarsi a comportare solo le conseguenze tipiche del diritto di famiglia essendo possibile che ad esse si aggiungano anche le conseguenze dell’illecito civile, quando il tradimento è stato particolarmente doloroso.

            Tale lettura trova oltretutto conferma nella giurisprudenza, se solo si pensa che con la sentenza numero 18853 del 15 settembre 2011 la Corte di cassazione, pur riconoscendo che il dovere di fedeltà non è costituzionalmente garantito, ha sancito che se comunque dalla sua violazione deriva la lesione di diritti costituzionalmente protetti è possibile che chi la abbia posta in essere sia chiamato a risarcire al coniuge i danni non patrimoniali ai sensi dell’articolo 2059 del codice civile. Anche se la separazione non gli è stata addebitata. E di certo vi è lesione di diritti costituzionalmente protetti quando il tradimento è stato caratterizzato da dettagli (come il vantarsene in pubblico del suo autore) che lo hanno reso particolarmente frustrante e hanno compromesso la salute psicofisica di chi lo ha subito.

Se, invece, il tradimento è solo oggetto di pettegolezzi ma non è effettivo, il risarcimento potrebbe anche non esserci, ma dall’addebito non si scappa. Anche di questo assunto troviamo conferma nelle aule di giustizia: con una sentenza di qualche anno fa, infatti, il Tribunale di Milano ha addebitato la separazione a una donna che, durante il matrimonio, frequentava in maniera chiacchierata un altro uomo e dava l’impressione di voler compiere scelte di vita autonome. Nessuna conferma del tradimento è stata necessaria al giudice per far scattare l’addebito, dato che deve reputarsi sufficiente anche un adulterio apparente o sentimentale per offendere l’onore e la dignità del partner e rendere impossibile la convivenza tra i coniugi.

Valeria Zeppilli                      newsletter Studio Cataldi.it               20 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22455-separazione-se-tradisci-e-te-ne-vanti-hai-l-addebito-e-risarcisci-il-danno.asp

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ADOZIONE

Genova: il tribunale dice sì al primo caso di adozione post-mortem

Concessa l’adozione di una bimba alla vedova del sottufficiale morto nella tragedia del porto del capoluogo ligure del 2013. E’ una delle vittime del crollo della torre piloti al porto di Genova, il primo “papà” post mortem. Paola De Carli, la vedova del sottufficiale della marina militare, Marco De Candussio, morto nel crollo che, il 7 maggio 2013, causò la morte di 9 persone, ha ottenuto l’adozione di una bimba. La pratica per l’adozione era stata avviata quando il marito era ancora in vita, ma si è conclusa solo nel 2014. Ora il Tribunale dei minori di Genova ha legittimato l’adozione (si tratta della prima volta in Italia) e la notizia è stata ufficializzata ieri nella città della Lanterna, proprio nel corso del processo per l’incidente.

            La vedova ha ricordato come la bambina fosse stata affidata a loro da quando aveva otto mesi e che, nel tempo, i due coniugi avessero manifestato la volontà di adottare la piccola. Per l’avvocato della donna Andrea Divano, nella decisione, i giudici dei minori, così come riportato dal Messaggero “si sono basati sull’articolo 25 della legge 184 del 1983 che al comma IV prevede in caso di morte o di sopravvenuta incapacità di uno dei coniugi affidatari che l’adozione può essere ugualmente disposta a istanza dell’altro coniuge nei confronti di entrambi”.

            E la norma – dicono i giudici – “deve essere interpretata sulla base del principio ispiratore di quella legge e cioè l’interesse del minore all’adozione. In questo caso tale interesse sussiste senza alcun dubbio. La bimba è perfettamente inserita nel nucleo familiare di cui si sente parte a tutti gli effetti”. La richiesta di adottare la bambina al tribunale dei minori di Genova è stata presentata dalla De Carli “in capo a lei e al marito deceduto, tenuto conto della volontà di quest’ultimo dimostrata continuativamente in un lungo arco di anni”. E il tribunale ha accolto la sua richiesta, ottenendo anche il riconoscimento che la piccola porti il cognome De Candussio.

Gabriella Lax –                      newsletter Studio Cataldi.it               20 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22459-genova-il-tribunale-dice-si-al-primo-caso-di-adozione-post-mortem.asp

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Bulgaria, 132 bambini hanno ricevuto l’abbinamento nei primi 4 mesi del 2016

È l’Italia il Paese più accogliente. Emergono i primi dati relativi all’anno in corso, provenienti da alcuni dei principali Paesi di origine dei bambini adottati. In particolare, sono stati pubblicati i numeri della Bulgaria relativi al primo quadrimestre del 2016. Da gennaio ad aprile è stato approvato l’abbinamento per 132 minori bulgari destinati a trovare una nuova famiglia fuori dal loro Paese. I dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia illustrano nel dettaglio i dati emersi dai 14 incontri che il Consiglio delle adozioni di Sofia ha tenuto dal 7 gennaio al 27 aprile.

            Dei 132 bambini abbinati nei primi 4 mesi dell’anno, 99 sono hanno ricevuto l’abbinamento con la procedura normale, ovvero eseguita dall’Autorità Centrale bulgara. Si tratta di 46 minori in buona salute e 53 con qualche problema sanitario o con fratelli. In tutto sono 79 le coppie a cui sono stati abbinati i 99 bambini. Gli altri 33 piccoli bulgari sono stati abbinati a 26 coppie straniere mediante la procedura speciale, che prevede che gli aspiranti genitori siano “candidati” direttamente dell’ente autorizzato a cui hanno conferito il mandato. In genere a beneficiare della procedura speciale sono bambini con particolari problemi sanitari o di età piuttosto alta.

            Il ministero della Giustizia ha diffuso anche i dati che illustrano nel dettaglio la geografia degli abbinamenti avvenuti mediante procedura normale. In testa c’è l’Italia, che conferma quindi la propria storica tradizione di accoglienza, anche in un momento così difficile per l’adozione internazionale come quello che il nostro Paese sta affrontando in questi anni. Sono 22 le coppie nostre connazionali che hanno ottenuto l’abbinamento per via ordinaria. Nei primi 4 mesi del 2016 l’Italia ha quindi preceduto Francia e Stati Uniti che hanno ricevuto rispettivamente 19 e 16 abbinamenti. A seguire Spagna e Irlanda con 6 ciascuno, la Germania con 4, il Canada con 3, il Lussemburgo, l’Olanda e la Svezia con 1 a testa.

            Tra tutti si segnalano in particolare i casi di una famiglia statunitense, abbinata a tre fratelli di 2, 5 e 8 anni e della coppia del Lussemburgo che accoglierà 3 bambini con problemi di salute.

            Circa due terzi dei bambini bulgari abbinati nel primo quadrimestre 2016 hanno particolari necessità sanitarie. Un fattore, questo, che si presenta maggiormente per i più piccoli, quelli di età compresa tra 0 e 4 anni.

            Dal 1° gennaio al 20 giugno 2016 Ai.Bi. ha già dato una nuova famiglia a 6 minori della Bulgaria.

            Fonte: Papasporadoption                  Ai. Bi.  24 giugno 2016                                  www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

I figli hanno più di 30 anni: niente assegno di mantenimento.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 12952, 22 giugno 2016.

La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione ed, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’avente diritto.

            Non è tutelabile la situazione soggettiva del figlio in età avanzata che, rifiutando ingiustificatamente di acquisire l’autonomia economica tramite l’impegno lavorativo e negli studi, comporti il prolungamento del diritto al mantenimento da parte dei genitori. Detta posizione contrasta, infatti, col principio di auto-responsabilità, legato alla libertà delle scelte esistenziali della persona, anche tenuto conto dei doveri gravanti sui figli adulti.

            E’ quanto ricordato dalla Corte di cassazione nel ribaltare la decisione di appello di conferma dell’assegno mensile posto a carico di un genitore in favore dei due figli, ultratrentenni, sull’assunto della mancata prova della raggiunta indipendenza economica dei due.

Colpevole inerzia in ricerca lavoro. Secondo la Suprema corte, i giudici di secondo grado avevano omesso di valutare gli elementi presuntivi offerti dal ricorrente genitore in ordine all’allegata colpevole inerzia dei figli nella ricerca di una stabile attività lavorativa coerente con il percorso di studi svolto, in relazione al dato obiettivo dell’età dagli stessi raggiunta. Con particolare riferimento ad uno dei due – il quale dopo il conseguimento della laurea in medicina e l’abilitazione alla professione di odontoiatra, aveva anche frequentato una serie di corsi di perfezionamento conseguendo e maturando varie referenze professionali nonché esperienze lavorative presso studi odontoiatri – non erano stati presi in considerazione l’obiettivo professionale perseguito dal medesimo, peraltro con successo, e la natura esclusivamente personale della scelta successiva di proseguire gli studi oltre l’ordinaria esigenza di specializzazione e pratica successiva alla laurea. Intento, questo – sottolineano i giudici di legittimità – sicuramente da lodare ma anche da accompagnare ad un corrispondente impegno verso la ricerca di una o più occupazioni dirette al conseguimento dell’indipendenza economica.

            Per la Corte, in definitiva, una volta raggiunta un’età inequivocabilmente da ritenersi adulta, l’obbligo di mantenimento non può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o il conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto. Difatti, l’attesa o il rifiuto di occupazioni non prettamente corrispondenti alle proprie aspettative possono costituire indici di comportamenti inerziali non incolpevoli.

Accertamento cessazione obbligo mantenimento. In detto contesto, la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti – conclude la Cassazione nella sentenza – deve essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa ed, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta dal raggiungimento della maggiore età da parte dell’avente diritto.

            Eleonora Pergolari                eDotto             23 giugno 2016                                  Sentenza     ????

www.edotto.com/articolo/assegno-figli-non-oltre-la-specializzazione?newsletter_id=576bc392fdb94d2294f70d13&utm_campaign=PostDelPomeriggio-23%2f06%2f2016&utm_medium=email&utm_source=newsletter&utm_content=assegno-figli-non-oltre-la-specializzazione&guid=aa4d34c8-66f8-4146-bb47-94a272cb20f3

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ASSEGNO DIVORZILE

Addio al mantenimento dell’exmoglie.

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 12542, 17 giugno 2016

            Mantenimento: l’assegno alla ex non cambia se tra separazione e divorzio passano molti anni

Somma immutata se dal confronto tra il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e quello attuale non emergono cambiamenti. Nessuna modifica all’assegno divorzile il cui importo può rimanere immutato anche a distanza di molti anni se dal confronto tra il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e quello attuale non emergono sostanziali cambiamenti. Lo ha stabilito la Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un ex marito teso a rideterminare il contributo divorzile fissato a suo carico.

            La sentenza che aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha, infatti, riconosciuto all’ex moglie un assegno divorzile pari a 400 euro mensili, una decisione confermata anche in sede di gravame. L’ex marito ricorre in Cassazione evidenziando al Collegio che sono trascorsi ben 14 anni tra l’omologazione della separazione consensuale e la pubblicazione della sentenza di divorzio.

            Per il giudice di legittimità, ciononostante, il ricorso è palesemente infondato: gli Ermellini precisano che è un principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui “l’assegno divorzile deve essere riconosciuto e determinato con riferimento alle condizioni reddituali e patrimoniali dei coniugi al momento della pronuncia del divorzio”. È proprio a tale momento che i giudici di merito hanno fatto riferimento nella controversia di cui è causa per determinare l’ammontare dell’assegno. Rilevante per confermare la legittimità della determinazione è anche l’operato raffronto con il tenore di vita goduto dai coniugi nel corso del matrimonio poiché non è emerso negli anni alcun elemento che consenta di ritenere che esso sia sostanzialmente mutato nel lungo periodo intercorso tra la separazione e il divorzio.

                        Lucia Izzo – Newsletter Giuridica Studio Cataldi    13 giugno 2016

http://www.studiocataldi.it/articoli/22491-mantenimento-l-assegno-alla-ex-resta-uguale-anche-se-tra-separazione-e-divorzio-passano-molti-anni.asp

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CHIESA CATTOLICA

La storia, i fatti e i pontificati: in accordo e in dialogo con F. De Giorgi.

Con la risposta alle mie osservazioni dello scorso 15 giugno, Fulvio De Giorgi ha continuato il dialogo che si era aperto con il suo testo del 28 maggio scorso. Poiché mi sembra molto importate seguire con precisione le singole argomentazioni dello storico, riproduco qui sotto il suo testo, per poi rispondere di seguito, valorizzando alcune sue osservazioni e discutendone altre, perché cresca la cordialità ecclesiale, alla quale teniamo entrambi, cercando di approfondire meglio ciò che ci unisce e anche ciò che provvisoriamente ci divide.

Benedetto XVI e Francesco una discussione aperta tra storia e teologia di Fulvio De Giorgi

“Viandanti” – 20 giugno 2016                      www.viandanti.org

L’articolo “La Chiesa e la logica del ma anche”, che Aldo Maria Valli ha postato nel suo blog il 28 maggio u.s., ha aperto un serrato dibattito con Andrea Grillo nel quale si è inserito, per l’aspetto della continuità tra i due ultimi pontificati, anche lo storico Fulvio De Giorgi. Il testo che segue s’inserisce in questo filone della discussione, questa volta De Giorgi-Grillo.

Circa la continuità storica tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Francesco, Andrea Grillo ha ulteriormente commentato il mio commento (su “Avvenire”) alla sua discussione con Aldo Maria Valli. Lo ringrazio per l’attenzione, per il confronto sereno e cordiale ed anche per l’esplicitazione dei punti di dissenso: tale esplicitazione è molto utile per un serio approfondimento delle questioni. Da parte mia, segnalato un consenso di fondo alle sue posizioni, mi pare utile proseguire proprio sul filo delle questioni sulle quali abbiamo valutazioni diverse.

Per evitare fraintendimenti. Sgombro subito il campo da possibili fraintendimenti: non voglio fare un discorso ideologico sulla ‘continuità’, né, tanto meno, usare la continuità per riportare cronologicamente indietro Francesco e dire che nel suo insegnamento (fino all’innovativa Amoris Laetitia) non ci sia nulla di nuovo. Capisco benissimo i timori in tal senso, perché letture (scorrette) di questo tipo ci sono. Tuttavia, se ho capito bene, il nostro dissenso non verte tanto su una diversa valutazione della continuità tra i due pontificati, ma sulla differente lettura del pontificato di Benedetto XVI (da tale lettura dipende poi il problema della continuità/discontinuità). Se dunque Grillo si preoccupa – giustamente – che non ci sia un’interpretazione caricaturale di Francesco, non mi pare scorretto aggiungere che neppure per Benedetto XVI si può indulgere all’interpretazione, anch’essa caricaturale, del ‘pastore tedesco’, chiuso e anti-moderno.

Lascio da parte quello che Grillo chiama un punto di vista ‘apologetico’ e che forse, meglio, si direbbe un punto di vista di fedele della Chiesa cattolica: su questo piano ammetto, puramente e semplicemente, un grande affetto e una favorevole simpatia (anche, certo, nel mio stesso punto di vista) verso papa Ratzinger: che non mi impediscono, peraltro, di essere un entusiasta di Francesco. Ma qui vorrei svolgere tre osservazioni da storico.

  1. In una prospettiva generale e laica. Innanzi tutto, nell’analisi della storia della Chiesa, dobbiamo evitare, a mio avviso, due riduzionismi unilaterali opposti. Il primo, al quale mi pare soggiaccia Grillo, è di vedere la storia della Chiesa quasi sotto una campana di vetro, staccata dalla storia generale e indifferente ad essa: una sorta di autoreferenzialità interpretativa, per cui tutto si spiega per logica interna e in relazione alle vicende e ai problemi endoecclesiali. Si tratta, cioè, di un integralismo metodologico (pur nella differenza tra un integralismo riformatore e uno conservatore). Il secondo riduzionismo unilaterale è l’esatto opposto: è il laicismo metodologico dichi considera solo le dinamiche sociologiche e psico-sociali della Chiesa come struttura di potere, analoga allo Stato, alle istituzioni civili, ai sistemi politici. Si può certamente studiare solo uno di questi aspetti (o solo le vicende intra-ecclesiali o solo lo sviluppo delle forme giuridiche di potere), anch’io talvolta l’ho fatto, ma non si può elevare unilateralmente ciascuno di essi ad unico e assoluto criterio di interpretazione storica. Meglio vederli insieme (e comunque sapere che una prospettiva generale deve comprendere entrambi). Ciò significa allora considerare l’evoluzione storica generale degli ultimi decenni, almeno dalla fine del comunismo. Parlo di post-moderno, di neoliberalismo (con il suo accentuato individualismo) e anche di nichilismo, che a me pare oggi largamente presente nella cultura e perfino nelle mentalità diffuse. Capisco che la sintesi può sembrare uno schematismo, perfino banalizzante (e allora non posso che rimandare ai miei libri per una più analitica ricostruzione storica). Tuttavia non mi pare una diagnosi molto diversa da quella – che condivido – di Francesco in Evangelii Gaudium: “diffusa indifferenza relativista, connessa con la disillusione e la crisi delle ideologie” (n. 61); “società materialista, consumista e individualista” con “individualismo imperante” (n. 63); “progressivo aumento del relativismo” (n. 64); “individualismo postmoderno e globalizzato” (n. 67); “Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse” (n. 80); “si è prodotta una ‘desertificazione’ spirituale” (n. 86). Questo contesto problematico, già profilatosi nel tramonto del pontificato di Giovanni Paolo II, è emerso con una forza perfino devastante, successivamente: le forme evidente. È tale contesto storico generale che segna, necessariamente, la caratteristica storica dei pontificati che in esso si inscrivono e che, pur tra altri problemi, hanno avuto entrambi prioritariamente davanti questa sfida decisiva, che implica una difficile ma ineludibile assunzione della ‘complessità’ (teorica e pratica). Nel caso di papa Ratzinger si vedano la Deus caritas est, la Caritas in veritate, il Sinodo del 2012. Si veda, al VII Incontro mondiale delle famiglie (a Milano), la chiara emersione del problema dei divorziati risposati e le importanti parole di Ratzinger: non ci sono ricette semplici (non a caso riprese nella Amoris Laetitia).
  2. Guardare al lungo periodo. Il senso storico di un pontificato, cioè il discernimento tra gli aspetti storicamente più importanti e quelli meno significativi, si chiarisce su un periodo lungo che comprende predecessori, ma anche successori: ciò anche oltre la ‘coscienza riflessa’ degli stessi protagonisti, pur importante (per esempio, nel caso di papa Francesco, a me pare – come ho sostenuto in recente convegno romano – decisivo il suo ‘rapporto’ con Paolo VI più che con altri suoi predecessori). Ma contano anche i successori. Ecco che qui Grillo – ed è paradossale – svaluta la considerazione di papa Francesco e del significato del suo pontificato come chiave di lettura per chiarire il senso storico del pontificato del suo immediato predecessore. Mi spiego con un esempio di storia, per così dire, ‘controfattuale’. Ipotizziamo che nel Conclave del 1963 sia stato eletto Siri – un Gregorio XVII o un Pio XIII – e che il Concilio Vaticano II sia stato subito chiuso, senza approvazione di documenti. Cosa ricorderemmo, come storicamente significativo, di Giovanni XXIII? La conferma della scomunica dei comunisti, la completa messa al bando dei preti operai, la nomina di Ottaviani a segretario del S. Uffizio, la riconferma dell’uso del latino nella liturgia, il monitum in materia biblica e quello di censura a Teilhard de Chardin, perfino l’uso del camauro. E Grillo gli rimproverebbe di aver messo la preparazione del Concilio, come in effetti fu, sostanzialmente nelle mani della Curia, facilitando la ‘repressione’ di papa Siri. Così non è avvenuto, lo sappiamo. Ma sono proprio il pontificato di Paolo VI e l’esito grandioso del Vaticano II che danno – certo insieme alle più generali considerazioni storiche – un altro e opposto (e verissimo) valore storico al pontificato roncalliano. Non che gli aspetti, prima indicati, non ci siano stati: ma li leggiamo come persistenze residuali e finali di aspetti storici del passato, storicamente poco significativi. Ecco allora che il pontificato di Francesco ci aiuta a discernere gli aspetti storicamente rilevanti del pontificato di Benedetto XVI. Che a mio avviso, e schematizzando, sono i seguenti:
  3. Il riconoscimento (senza più conniventi coperture o inaccettabili minimizzazioni) della pedofilia dei preti come sporcizia nella Chiesa e perciò come ‘piaga della Chiesa’: problema sistemico cioè, che comprende casi di Fondatori come Maciel [Legionari di Cristo – ndr].
  4. Il contrasto del nichilismo (teorico) postmoderno, inteso come scetticismo relativistico, ma contrasto realizzato non con il tradizionale rifiuto del Moderno, bensì in una forma analoga a quella di Habermas (con il quale Ratzinger dialoga): come Habermas ricerca – nel kantismo – una risposta moderna al post-moderno, così Ratzinger la ricerca in grandi filosofie cattoliche ‘filo-moderne’ (Rosmini e Newman, Guardini e Blondel), che sono ‘filosofie della carità’.
  5. Da qui la beatificazione di Rosmini (superando le condanne del S. Uffizio di fine Ottocento): si tenga conto che tutti gli oppositori del Vaticano II sono sempre stati anche oppositori di Rosmini (si consultino, anche oggi, i siti tradizionalisti). Questa beatificazione (insieme, ma ancor di più di quella di Newman) è un evento epocale: vero culmine del pontificato.
  6. Insieme a questa sfida della metafisica della carità al nichilismo, Benedetto XVI è consapevole che ci vuole pure un conseguente e coerente cambio ‘pratico’ e lo formula come vero rinnovamento nella fede, in senso di santità ascetica: come autosecolarizzazione della Chiesa. Si veda il discorso del 25 settembre 2011 a Friburgo (ma tutti i discorsi di quel viaggio in Germania sono significativi). È una prospettiva a mio avviso profonda e lucida (e bellissima), ma difficilmente popolarizzabile.
  7. Quando papa Ratzinger – è questa la mia lettura – si rende conto di non avere le energie necessarie per guidare questa auto-secolarizzazione ecclesiale, passa la mano.
  8. A questo proposito, parlare di “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa” mi pare (oltre che ingeneroso) minimizzante e non adeguato per la comprensione storica. Si è trattato, senza alcun dubbio, di un gesto ‘rivoluzionario’ (che non ha precedenti storici moderni, ma che – per qualche storico – è un vero ‘unicum’ assoluto): per usare, laicamente, le categorie weberiane, trasforma il potere papale da tradizionale-carismatico in razionale-carismatico. È la forma che riapre al rilancio in grande stile del Vaticano II (impensabile una rinuncia, non destabilizzante, al ministero petrino, se non nel pleroma collegiale dell’ecclesiologia del Vaticano II).
  9. Un andamento stop and go- Ed eccoci alla terza considerazione storica. Chi conosce la storia della Chiesa, sa bene che ad epoche di grande riforma sono progressivamente subentrate fasi di rallentamento, fino al semi-immobilismo (Rosmini distingueva tra ‘epoche di marcia’ ed ‘epoche di stazione’). È successo pure per la ‘riforma cattolica’ del Concilio di Trento. E allora ci sono poi stati momenti in cui, dall’interno della Chiesa e in modo non polemicamente ostile alla sua gerarchia, mistici o pastori, religiosi o laici hanno richiamato la necessità di rilanciare il movimento riformatore: gli storici parlano, dunque, di momenti di ‘ripresa tridentina’. A me pare un dato storico chiaro che sia avvenuta la stessa cosa con il Concilio Vaticano II. Progressivamente lo slancio riformatore ha rallentato fino quasi a fermarsi del tutto. E quando sono cominciate a emergere le prime voci che richiamavano la necessità di riprendere la riforma conciliare? A me pare proprio con il pontificato di Benedetto XVI. Certo erano voci minoritarie e marginalizzate (ma non condannate), che a fatica – e non senza ostilità nei loro confronti – potevano esprimersi. Ma parlavano, esprimevano disagio, richiamavano la necessità di un rilancio del Concilio, e talvolta citavano proprio il papa. Ammetto di non aver fatto ricerche empiriche su questo aspetto e di basarmi su impressioni e ricordi. Ma rivendico di poter dire qualcosa per ‘conoscenza personale’, di portare almeno una testimonianza, rimandando a precisi documenti scritti (il mio libro Il brutto anatroccolo del 2008 e il successivo Più coraggio! del 2015, ma che raccoglie interventi precedenti). Qui dovrei largamente auto-citarmi e non è certamente il caso. Vorrei solo ricordare che nella mia relazione al VII Incontro mondiale delle famiglie nel 2012 ho, tra l’altro, affermato: “Le questioni attinenti alla sessualità di coppia, alle differenze di genere, alla discriminazione omofobica si sviluppano sia come richiesta di nuovi modelli familiari, sia come forte interpellanza alla Chiesa affinché ripensi seriamente alle forme del sacramento del matrimonio (incluse le questioni della sessualità prematrimoniale e matrimoniale), al regime dei divorziati risposati, alla possibilità dell’accesso al matrimonio per i sacerdoti e al sacerdozio per i coniugati, a realtà istituzionali e canoniche nuove, come quelle di un ministero ordinato femminile o di convivenze tra persone dello stesso sesso”. Faccio ammenda: avrei dovuto parlare di sacerdozio ministeriale. Ma comunque il senso era chiaro. In realtà, se guardo autobiograficamente a questi fatti, dovrei dire che il clima di prevalente chiusura portava a pagare dei prezzi (più o meno alti) per chi pronunciava giudizi di questo tipo. Ma se invece, con un autotrascendimento, cerco di guardare le cose in prospettiva storica, devo notare che durante il pontificato di Benedetto XVI furono espresse delle esigenze che avrebbero trovato una piena risposta (positiva) nel pontificato successivo.

In conclusione mi chiedo se non sarebbe forse anche il caso di considerare come soggettivamente si pone Francesco: non rispetto al papa emerito, dunque nella chiave unicamente personale dell’affetto, ma rispetto al magistero del suo predecessore e al suo pontificato. Una risposta, forse, sta nella Lumen fidei: nel decidere di pubblicarla, di farla propria (con integrazioni di proprio pugno) e di firmarla.

Un interrogativo come semplice fedele. Termino con una domanda – non da storico ma da fedele di ‘base’ e di parrocchia quale sono – all’amico Grillo, che mostra di avere verso Francesco sentimenti e pensieri non diversi dai miei. Se è ingiusto (e non è cattolico) che chi si sente vicino al magistero di Ratzinger, chi si sente ratzingeriano, svaluti e critichi papa Bergoglio e non si sforzi, in buona fede, di capirlo ma anzi contrapponga Ratzinger a Bergoglio, non è altrettanto ingiusto che chi si sente in sintonia con Bergoglio, svaluti e critichi Benedetto XVI e lo contrapponga a Francesco? A mio modo di vedere (e secondo il mio sensus Ecclesiae, non so se ‘apologetico’, come dice Grillo), i primi fanno un cattivo servizio a papa Ratzinger e ostacolano un equanime giudizio storico del suo pontificato, ma anche i secondi, temo, non fanno un buon servizio a Bergoglio. Lo dico con semplicità e amica simpatia, non mi impanco a maestro: credo, solo, che faremmo bene tutti ad alimentare un’appartenenza cordiale alla Chiesa.

Fulvio De Giorgi, Docente di Storia dell’Educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia.

 

In accordo e in dialogo per camminare sulle orme del Vaticano II

Mi sembra molto importante che Fulvio De Giorgi abbia riconosciuto una profonda sintonia con quanto da tempo viene scritto a proposito del pontificato di Francesco e del suo profondo rilancio del Concilio Vaticano II. Su questo piano, a dire il vero, concordiamo profondamente e non posso che riconoscermi largamente in quanto egli scrive. Ciò su cui, invece, mi sento a disagio potrei esprimerlo così: non direi che la “appartenenza cordiale alla Chiesa” richieda di selezionare con troppa larghezza le “fonti” su cui ragioniamo. Se da un lato mi pare che Francesco venga letto solo “da destra”, dall’altro ho la sensazione che Benedetto sia considerato solo “da sinistra”. Questa duplice opzione, che è certamente condotta “a fin di bene”, causa tuttavia in me un disagio e un certo dissenso che cerco qui di chiarire, all’interno di un fondamentale consenso.

Metodo apologetico e integralismo metodologico. Poiché, nella logica di un confronto aperto, dobbiamo giocare a carte scoperte, osservo che io ho contestato a De Giorgi un “metodo apologetico”, mentre lui imputa a me di soggiacere ad un “integralismo metodologico”. La mia contestazione è di subordinare la ricostruzione della storia a “categorie teologiche” troppo lineari e poco fondate, mentre lui contesta a me di costruire la storia in modo “integralista”, ossia sulla base di fonti solo “interne”, come se la storia di un papato potesse essere ricostruita soltanto sulla base di “atti intraecclesiali”. A me pare, tuttavia, che queste reciproche contestazioni non colgano nel segno. La questione vera è: come possiamo venire a capo di un “papato” se non riferendoci agli “atti” effettivamente compiuti da un papa? E la ricostruzione degli atti di un papa può essere certo sottoposta ad una selezione, ma quando mancano troppi “fatti”, quanto è convincente la ricostruzione?

Io qui sollevo una domanda non retorica, che rivolgo al mio interlocutore con la più profonda serietà. Forse la risposta ad una “ricostruzione apologetica” deve essere una “ricostruzione integrale” (non integralistica) di un papato. In senso apologetico – nel senso più alto del termine – De Giorgi sostiene che ai meriti di Francesco occorre avvicinare quelli di Benedetto. Questa, a suo avviso, sarebbe quasi una regola metodologica per fare “storia non integralista” e in senso cattolico. A me sta a cuore una storia integrale. Posso provare a discutere quanto affermato da De Giorgi ricordando una serie di sue non casuali “dimenticanze”.

Il pontificato di Benedetto XVI e il Concilio Vaticano II. La ricostruzione della figura di papa Benedetto XVI proposta da De Giorgi sembra modellata su uno stereotipo nobile: facciamo di Benedetto il precursore di Francesco. D’altra parte, reciprocamente, si tende a fare di Francesco il semplice successore di Benedetto. Curiosamente si citano, di “Evangelii Gaudium” tutti i pochi testi esplicitamente in continuità con i temi cari a Benedetto, ma non si dedica una sola citazione ai moltissimi e lunghissimi testi in cui Francesco cambia strutturalmente argomentazione, fonti e immagini.

Ma torniamo ai “dati rimossi”. Una lettura “integrale” del pontificato di Benedetto XVI non può dimenticare e quasi cancellare tutti questi atti:

ü  Discorso alla curia romana su ermeneutica della discontinuità e ermeneutica della riforma (2005);

ü  Discorso di Ratisbona con la accusa di de-ellennizzazione rivolta a Lutero e alla inculturazione (2006);

ü  Discorso di Auschwitz, con la definizione del nazismo come “un popolo abusato da un gruppo di criminali” (2006);

ü  Notificazione contro la teologia di J. Sobrino, verso cui P. Huenermann sollevò critiche pesanti su forma e metodo adottato; Motu Proprio Summorum Pontificum per tentare di restituire universale vigenza alle forme rituali preconciliari (2007);

ü  Correzione del Codice di Diritto Canonico per creare una distinzione ontologica tra diaconato e presbiterato/episcopato (2009).

Ognuno di questi documenti si colloca nei primi 5 anni di pontificato e imposta una “fioritura conciliare” che vorrei che De Giorgi riuscisse a giustificare solo con il suo metodo apologetico. Lo dico con molta semplicità. Se si applica il mio metodo integrale, per quante somiglianze si possano scorgere tra Francesco e Benedetto, molto maggiori restano le dissomiglianze. Non si tratta di prospettive, ma di dati inaggirabili, che non possono essere ridimensionati, trascurati o rimossi.

Le “azioni qualificanti”. Se analizziamo, invece, le “linee portanti” del papato di Benedetto secondo la ricostruzione di De Giorgi troviamo, sorprendentemente, al primo posto, la “linea dura” verso la pedofilia. Poi segue un contrasto con il nichilismo ritenuto “non antimoderno”, ma secondo le filosofie “filo-moderne”; per poi aggiungere due eventi “epocali” come la beatificazione di Rosmini e la “rinuncia al ministero” come gesti apertamente e inequivocabilmente conciliari.

Alcune di queste indicazioni meritano attenzione. Noto subito che, siccome De Giorgi mi invita a non fare caricature dei papi, e siccome lo prendo sul serio, gli chiedo come pensa di mettere in ordine questi atti, per lui qualificanti, con quelli che io gli ho ricordato e che considero almeno altrettanto qualificanti.

Faccio solo un esempio. Si può dire, certamente, che Benedetto ha anticipato Francesco nel colpire la piaga della pedofilia. Ma, proprio sul piano storico, credo che la pedofilia non sia anzitutto un problema di “sporcizia nella Chiesa”: questa categoria, usata in questo modo, diventa ideologica, perché risulta limitativa, causa un grave fraintendimento e nasconde la magagna più grave. Facendo della pedofilia solo un problema “morale”, induce a rispondere soltanto con normative più severe e più autoritarie. In realtà con Francesco abbiamo capito bene che la radice della pedofilia non è un “disturbo sessuale”, ma è anzitutto la autoreferenzialità ecclesiale, un modo di pensare il rapporto tra Chiesa e mondo, un modo di leggere la autorità in senso clericale e di rendere irrilevanti gli “altri”. Che la pedofilia si possa combattere solo con la riforma del modo di comprendere e di gestire la autorità è una idea che abbiamo ascoltato tante volte, ma solo da Francesco, non da Benedetto.

Lo stesso potremmo dire della categoria di “dialogo”. Certo Benedetto ha dialogato con Habermas, ma non ha potuto o saputo dialogare né con padre Gy, né con Padre Falsini, né con J. Sobrino, né con Torres-Queiruga… E se riabilitare Rosmini non era troppo facile, molto più difficile era evitare di liquidare con una battuta Lutero o Maometto, la riforma liturgica o la famiglia allargata. Insomma, la caricatura di Benedetto predecessore di Francesco è tanto pericolosa quanto la caricatura di Francesco come successore di Benedetto. La “maggiore dissomiglianza” non impedisce di riconoscere somiglianze, lasciti ed eredità, ispirazioni e dipendenze. Ma esige, io credo, che la cordialità ecclesiale, nella sua passione per la verità, non si lasci andare a omologazioni o a contorsioni.

Una diversità da declinare. Prendere l’iniziativa di perdere la iniziativa – cosi ho descritto il gesto coraggioso di rinuncia di papa Benedetto – non mi pare un “modo ingeneroso” di descrivere ciò che il papa emerito ha compiuto nella sua ultima azione: quelle parole infatti solo alla lettera una definizione che il filosofo J.-L. Marion ha utilizzato per descrivere la esperienza del dono. Non vorrei allora finire questo intervento senza riconoscere quanto utile sia stato, per me, dispormi ad ascoltare fino in fondo la “storia apologetica” scritta da De Giorgi. Essa mi ha permesso, infatti, di cogliere alcune dimensioni del pontificato di Benedetto che avevo considerato con minore attenzione. Ma la mia “vocazione alla integralità” – spero non all’integralismo – nel farmi riconoscere queste somiglianze che avevo sottovalutato, non mi permette tuttavia di sopravvalutarle. Esse aggiungono un tono più moderato o anche irriducibile alla lettura complessiva di un papato che, nelle sue linee essenziali, si è caratterizzato per una forte insofferenza verso quella apertura conciliare, per la quale papa Francesco nutre invece una naturale e direi quasi spontanea simpatia e sintonia. Sono convinto che un metodo apologetico – nel senso migliore del termine – e un metodo integrale – nei termini qui da me avanzati – anziché opporsi e contraddirsi potrebbero e dovrebbero convergere, con cordiale riconoscenza e con differenziata serenità.

Tanto i teologi quanto gli storici potrebbero trarne vantaggio. Solo allora potrebbero riconoscere –insieme e concordemente – che la questione vera non è un “confronto” tra Benedetto e Francesco, ma una lettura che non dia alibi alle forme riduttive con cui si cerca di sminuire e di fraintendere l’opera riformatrice di papa Francesco. In fondo, alla radice di tutte queste considerazioni, c’è una questione “pedagogica”. Non di una pedagogia semplicemente “legale” e “formale”, ma di una pedagogia della fede e della coscienza. Credo che su questo, pur nella diversità di accenti e di sensibilità, la discussione tra De Giorgi e me possa e debba suonare come una comune necessità di difendere il disegno conciliare e riformatore di papa Francesco dalle resistenze più o meno ottuse che cercano di ostacolarlo, di fraintenderlo e di screditarlo. In questa impresa tanto il metodo apologetico, quanto il metodo integrale debbono aiutarsi a vicenda. Per camminare secondo la fedele libertà inaugurata dal Concilio Vaticano II, con tutte le necessarie differenziazioni di tono e di sensibilità.

Andrea Grillo   Come se non   22 giugno 2016  www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non

 

Ultima puntata nel dialogo con De Giorgi

Con una ulteriore risposta di Fulvio De Giorgi si chiude, almeno per ora, il dialogo (o trialogo) tra Aldo Maria Valli, De Giorgi e chi scrive. Una buona occasione di scambio e di chiarimento reciproco. Riproduco qui sotto l’” ultima puntata”.

            Ultima puntata in attesa di un confronto sulla questione pedagogica

L’amico Grillo mi fa il dono (cioè prende l’iniziativa di perdere un po’ l’iniziativa, dialogando e confrontandosi con me) della sua riflessione. Di ciò lo ringrazio di cuore. Potrebbe sembrare strano e forse anche paradossale: io condivido tutto quello che mi scrive e mi contesta. Tuttavia traggo conclusioni parzialmente diverse dalle sue.

Una dialettica virtuosa. Mi piace la dialettica che egli intravede tra Integralità (la sua) e Apologetica (la mia). Mi ricorda la discussione tra Lazzati e Bontadini sull’idea di Università Cattolica, che – fino ad un decennio fa – mi ha direttamente interessato: e il mio orientamento era più in senso bontadiniano (d’altra parte Apologetica va intesa anche nel significato assegnatole da Rosmini e, in conclusione, come un ‘dare ragione della speranza cristiana che è in noi’ soprattutto rispetto alle culture moderne).

Mi piace pure questa prospettiva di considerare la necessaria compresenza di Integralità e Apologetica, in tensione polare: tensione già feconda se aperta al reciproco confronto critico, senza necessariamente ricercare una sintesi superiore, dove qualcosa dell’una o dell’altra andrebbe perduto.

Tutto questo mi piace: lo condivido. Anche se non è propriamente l’ambito della mia riflessione. Si tratta infatti di una lettura – da teologo – sul senso della nostra discussione. Va benissimo, allora. Aggiungo solo (ed ecco la mia conclusione parzialmente diversa) che non avevo intenti apologetici, ma cercavo di spiegare (forse non riuscendoci pienamente) non il senso ‘teologico’ bensì il senso ‘metodologico’ delle mie considerazioni: a partire perciò dal metodo storico, rigoroso e improntato ad uno storicismo personalista.

I processi storici generali. Certamente – l’ho detto fin dall’inizio di questa discussione – Benedetto XVI e Francesco sono diversi: lo sono dalla testa ai piedi, anzi… alle scarpe. Non è questo che discutevo. Né intendo presentare Benedetto come ‘precursore’ di Francesco (la stessa categoria di ‘precursore’ non mi appartiene, non rientra in un orizzonte storico e comunque va maneggiata con cura). Né intendo Francesco come “semplice successore” cioè mero continuatore senza novità. Al contrario, vedo benissimo diversità e innovazioni. Quello che intendevo – ma infine non è necessario ribadirlo più di tanto – è che lo storico deve considerare sia la ‘coscienza riflessa’ degli attori storici (per esempio la visione di Ratzinger che ha Bergoglio) sia i più ampi e generali processi storici che prescindono da tale coscienza riflessa e, in gran parte, dalle stesse dinamiche interne della storia della Chiesa: sono tali processi storici generali (sul piano sociale, culturale, etico-politico, civile, perfino economico e, certo anche, religioso) che segnano le periodizzazioni che contano, le svolte, le cesure.

Una discussione anticipata? Mi pare allora di poter concludere questa fruttuosa (almeno per me) discussione, evidenziando due punti:

  1. Nel pontificato di Benedetto XVI ci sono i ‘fatti’ che indico io e ci sono quelli che indica Grillo e c’è molto altro ancora. Per cui, in fondo, esprimere una valutazione non superficiale di tale pontificato equivale a scriverne la storia. Naturalmente non con l’ingenua (o ideologica) assunzione che vi sia un’unica storia possibile; non con il positivismo metodologico di chi pensa che esista una oggettività storica assoluta: c’è il rigore della ricerca, ma c’è pure sempre un’ineliminabile dimensione ermeneutica (comunque soggettiva).
  2. Anche in questo senso, la discussione tra me e Grillo ha fatto forse emergere un carattere ‘anceps’ del pontificato o dell’interpretazione del pontificato di Benedetto XVI. Chissà, forse abbiamo anticipato le discussioni e le alternative interpretative che si porranno – mettiamo – tra trent’anni nelle discussioni tra gli storici.

La questione pedagogica. Non posso però mettere punto senza considerare la forte e decisiva conclusione di quest’ultimo intervento di Grillo, quando giustamente egli mette sull’avviso circa il rischio di fornire alibi alle forme riduttive con cui si cerca di sminuire l’opera riformatrice di papa Francesco. Egli pone, allora, una questione di fondo che mi colpisce e mi sollecita (anche come storico della pedagogia e dell’educazione, quale sono): la questione cioè di una “pedagogia della fede e della coscienza”. Anche Aldo Maria Valli, nello scritto che ha occasionato la risposta di Grillo, poneva la questione educativa. Entrambi, dunque, meritano una risposta non elusiva: prometto di concentrarmi su questo aspetto (e intanto li invito a fare altrettanto).

Fulvio De Giorgi        “Viandanti” –             24 giugno 2016                      www.viandanti.org

Andrea Grillo Come se non    25 giugno 2016   www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non

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CINQUE PER MILLE 2016

Dichiarazione sostitutiva entro il 30 giugno 2016

            E’ da ricordare la prossima scadenza per gli enti del volontariato e le associazioni sportive dilettantistiche iscritte negli elenchi: devono trasmettere, rispettivamente alla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate e all’ufficio del Coni competenti per territorio, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, per attestare il possesso dei requisiti di ammissione.

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COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

Il ministro Boschi è ufficialmente la nuova presidente della CAI.

Ora migliaia di famiglie sperano che il sistema “adozione internazionale” riprenda a funzionare. La svolta tanto attesa è finalmente arrivata e ora è anche ufficiale. Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi è diventata a tutti gli effetti la nuova presidente delle Commissione Adozioni Internazionali. Martedì 21 giugno 2016 è stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 giugno 2016 con delega a Boschi delle funzioni in materia di pari opportunità e di adozioni internazionali.

La nomina, annunciata il 10 maggio, è così diventata operativa. Con la presa in carico del vertice della Cai da parte del ministro Boschi, “cessa di avere efficacia il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 aprile 2014, recante delega di funzioni al Vice Presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali”. Si è dunque risolta la contraddittoria concentrazione delle due cariche di presidente e vicepresidente della Cai nelle mani di una sola persona, Silvia Della Monica. Il controllato e il controllore sono quindi tornate a essere due persone diverse. Una soluzione che arriva dopo 2 anni di sostanziale paralisi dell’Autorità Centrale italiana, caratterizzati da mancanza di collaborazione con gli enti autorizzati e le famiglie, da decisioni prese senza tenere conto della collegialità della Commissione, da disinformazione e da negative gestioni delle crisi internazionali, prima fra tutte quella relativa alle adozioni nella Repubblica Democratica del Congo.

Nello specifico, per quanto riguarda le adozioni internazionali, il ministro Boschi è delegato “ad esercitare le funzioni di indirizzo, coordinamento e promozione di iniziative, anche normative, e quelle attribuite al Presidente del Consiglio dei Ministri quale Presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali”. Con lo stesso DPCM, Boschi ha ricevuto nuove deleghe in materia di pari opportunità: dalla conciliazione dei tempi di vita e lavoro alla prevenzione di tutte le forme di discriminazione, dal contrasto alla violenza sessuale e di genere alla tutela dei minori dallo sfruttamento e dall’abuso sessuale.

La speranza è che ora, con la nuova presidente – che torna a essere, come era sempre stato, un esponente del governo -, la Cai torni a essere finalmente operativa. Al ministro Maria Elena Boschi vanno quindi i più sentiti auguri di buon lavoro, nella consapevolezza dell’importanza e della complessità che il suo nuovo ruolo comporta, per il bene dei tanti bambini abbandonati nel mondo che possono trovare una famiglia nel nostro Paese e delle tante famiglie che si sono aperte, o che desiderano farlo, all’accoglienza di un minore straniero

Ai. Bi   22 giugno 2016          www.aibi.it/ita/category/archivio-news

 

Dal 10 giugno tutti i bambini adottati in Congo dalle famiglie italiane sono a casa dai loro genitori.

            Una bellissima notizia e una grande soddisfazione. Tutti i bambini adottati in Repubblica Democratica del Congo dalle famiglie italiane hanno potuto abbracciare i loro genitori ed iniziare un nuovo percorso di vita insieme. La Commissione esprime la propria gioia perché l’intenso lavoro svolto in questi due anni, che ha visto l’Italia protagonista, ha consentito di raggiungere, d’intesa con le Autorità della RDC, questo bellissimo risultato. L’Italia è l’unico paese che ha ottenuto il via libera per tutte le procedure adottive dalla Repubblica Democratica del Congo e che ha già portato a casa tutti i bambini adottati. La Commissione ringrazia le Autorità del Congo, con cui sono state concordate modalità e tempi dei trasferimenti per consentire l’arrivo dei bambini in Italia, in condizioni di massima sicurezza, e ringrazia gli enti e le famiglie che hanno sostenuto e appoggiato con grande fiducia e grande consapevolezza la Commissione in questo delicato e complesso percorso, conclusosi nel migliore dei modi.

            La Commissione ringrazia la Polizia di Stato per l’apporto prestato con grandissima professionalità e sensibilità per l’accoglienza dei bambini in Italia; è grazie anche alle donne e agli uomini della Polizia di Stato che i bambini ricorderanno il loro arrivo in Italia e l’incontro con i genitori come un bellissimo giorno di festa.

            L’augurio è che tutti i bambini possano avere un futuro sereno e felice in Italia con le loro famiglie.

                        Comunicato stampa   17 giugno 2016

www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2016/adozioni-rdc-tutti-i-bambini-adottati-in-congo-dalle-famiglie-italiane-sono-a-casa-dai-loro-genitori.aspx

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Belluno. Il consultorio è nel Tavolo consultivo per le politiche familiari.

            Il Tavolo consultivo per le politiche famigliari si apre alla città. Dopo la creazione del logo e l’avvio del nuovo sito, il gruppo formato da undici associazioni e realtà del territorio (97 in totale) ha oggi una nuova identità e invita nuovi soggetti a farne parte. Insomma, sono tanti, tra cui l’associazione Maestri cattolici, la Forania di Belluno, il Consultorio familiare Ucipem, l’associazione Famiglie numerose, il gruppo Gas Mammabimbi.

http://ilgazzettino.it/pay/belluno_pay/il_tavolo_consultivo_per_le_politiche_famigliari_si_apre_alla_citta_dopo_la-1809711.html

Il tavolo consultivo per le politiche della famiglia cambia look. Si arricchisce, infatti, di un logo e di un sito Internet, aprendo anche a tutte le altre realtà associative presenti sul territorio del capoluogo interessate alla famiglia. Dopo il debutto nel 2010, il tavolo si era ricostituito nel marzo 2014 «ed è l’interlocutore privilegiato dell’amministrazione comunale in materia di politiche attive rivolte alla famiglia nella sua eterogeneità», dice l’assessore Valentina Tomasi. «Oggi la priorità di Palazzo Rosso è focalizzarsi sulla conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di famiglia. È sempre più difficile per i genitori che lavorano riuscire a far conciliare i tempi dell’attività lavorativa con quelli da dedicare ai figli. Ma l’impegno di questa amministrazione e del tavolo verte anche a superare questi limiti. Per questo abbiamo presentato la nostra dimostrazione di interesse al progetto regionale denominato “Alleanza per la famiglia”. A breve sapremo se potremo realizzare questi progetti per il benessere familiare».

            Il confronto con le 11 associazioni che fanno parte del Tavolo ha già dato qualche risultati: si va dal parcheggio rosa alle agevolazioni per le mamme con i bimbi fino a un anno; dalla biblioteca accessibile anche al sabato ai libri in regalo ai bambini fino a due anni.

Ma molto di più si può ancora fare. «Il nostro obiettivo», precisa Ennio Colferai, presidente del Tavolo, «è lavorare per migliorare l’accessibilità ai vari servizi, partendo anche da alcune scelte urbanistiche; proseguire nella diffusione delle tematiche relative alla vaccinazione infantile in partenariato col Comune e con l’Usl 1; proseguire nella campagna Liberi dai veleni». «Ma l’obiettivo del tavolo», prosegue Colferai, «è di fungere da raccoglitore delle esigenze del territorio, individuando le aree prioritarie di intervento e collaborando alla progettazione e alla realizzazione di interventi per semplificare, nel nostro piccolo, la vita alle famiglie, oggi così costantemente sotto stress».

«Si tratta di un’iniziativa», aggiunge Rosalisa Sartorel, avvocato del consultorio familiare, «che servirà sicuramente a migliorare la qualità di vita di tutti, non soltanto delle famiglie».

         Il tavolo, che ha funzione solo consultiva, si riunisce in media una volta al mese e prevede la presenza di un membro dell’amministrazione comunale che può essere la presidente della Terza commissione Francesca De Biasi o l’assessore Valentina Tomasi. «Finora, il tavolo ha sempre dimostrato molta voglia di fare e di collaborare», conclude Tomasi.

            Paola Dall’Anese       Corriere delle Alpi     21 giugno 2016

http://corrierealpi.gelocal.it/belluno/cronaca/2016/06/21/news/un-tavolo-per-supportare-le-famiglie-1.13703995

Cremona. Il Vescovo incontra gli operatori consultoriali.

L’incontro del Vescovo con gli operatori del Consultorio: «La formazione umana prima di tutto». Martedì 21 giugno 2016 la visita di mons. Antonio Napolioni all’UCIPEM per conoscere la realtà del servizio e dialogare con educatori e psicologi. Continua la visita del vescovo Antonio ai luoghi significativi della diocesi. Nella mattinata di martedì 21 giugno ha visitato il Consultorio UCIPEM in via Milano e si è trattenuto a dialogare insieme a educatori, psicologi e le figure educative che collaborano all’interno del servizio. Il Vescovo è stato accolto dal presidente, il dr Mario Mantovani e dalla dr Maria Grazia Antonioli, direttrice del Consultorio, recentemente incaricata per la pastorale familiare insieme al dr Roberto Dainesi.

Mons. Napolioni, dopo essersi soffermato a visitare gli spazi della struttura, si è innanzitutto presentato agli operatori del Consultorio, ricordando la sua esperienza familiare e i suoi studi prima universitari poi in seminario. La sua esperienza di sacerdote, ha affermato, si è sempre intrecciata con il piano educativo: dallo scoutismo, alla pastorale giovanile, al ruolo di vice-rettore del seminario regionale, è sempre stata necessaria una particolare attenzione alla formazione umana, volta a garantire e salvare prima di tutta l’armonia delle persone. Un prendersi cura che risulta un fondamentale servizio all’uomo, ha continuato, al quale dedicarsi pienamente prima ancora di occuparsi dell’ambito della fede.

            Il Vescovo si è poi fermato con gli operatori che si sono confrontate con lui e hanno riportato la situazione attuale del servizio, evidenziando risorse e criticità.

            www.diocesidicremona.it/blog/lincontro-del-vescovo-con-gli-operatori-del-consultorio-la-form

azione-umana-prima-di-tutto-21-06-2016.html

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DALLA NAVATA

XIII Domenica del tempo ordinario – anno C -26 giugno 2016.

1 Re                19, 21 Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.

Salmo              16, 11 Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.

Galati             05, 01 Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà.

Luca                           09, 62 Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

 

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.

Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».

Con questo brano si apre la seconda parte del vangelo secondo Luca, quella che ci testimonia il viaggio di Gesù a Gerusalemme, dove egli sarà arrestato, condannato e crocifisso.

L’ouverture è solenne: “Ora, avvenne che, mentre stavano per compiersi i giorno della sua elevazione, egli indurì il suo volto per camminare verso Gerusalemme”. Stanno per compiersi dei giorni, sta per avvenire nella vita di Gesù l’evento della sua elevazione, ed egli lo sente dentro di sé come una necessitas innanzitutto umana (il profeta non può non essere perseguitato e ucciso proprio a Gerusalemme; cf. Lc 13,34-35), nella quale è inscritta la necessitas divina: se Gesù obbedisce alla vocazione e non si sottrae ai nemici, difendendosi o fuggendo, allora sarà tolto, elevato da questa terra verso il Regno, verso il Padre. Sarà l’ora del suo esodo (cf. Lc 9,31), e questa dipartita è chiamata da Luca – che si ispira al racconto della fine di Elia (cf. 2Re 2,8-11) – elevazione, ascensione, rapimento (análempsis). È significativo che Luca usi lo stesso termine (per l’esattezza il verbo analambáno) per parlare dell’ascensione di Gesù al cielo (cf. At 1, 2.11.22).

Gesù allora “indurì il suo volto per camminare verso Gerusalemme”, cioè, diremmo noi, serrò i denti, assunse un volto severo e determinato perché, sapendo di andare incontro a una fine tragica, doveva anche lui sconfiggere la paura che lo assaliva. Gesù radunò tutte le sue forze, prese coraggio dal profondo del cuore e, leggendosi come il Servo sicuro che il Signore era con lui, “rese il suo volto duro come pietra, sapendo di non restare confuso” (cf. Is 50,7). L’esperienza dell’indurire il volto è tipica del profeta che a volte sperimenta che è il Signore a rendergli il volto duro, per aiutarlo contro i nemici, altre volte è lui stesso a dover indurire la faccia per poter accettare il destino di persecuzione. Profezia a caro prezzo, a costo di dover stringere i denti e predicare ciò che non si vorrebbe, operare come non si vorrebbe (cf. Ez 3,8-9). Spesso non pensiamo alla fatica, alla paura e all’angoscia vissute da Gesù, ma la sua condizione di piena umanità non lo ha preservato da questi sentimenti di fronte a ciò che si profilava davanti a sé: rigetto, condanna religiosa e politica, morte violenta. Umanamente Gesù ha provato lo sconforto di Elia davanti alla persecuzione di Gezabele (cf. 1Re 19,1-8), ha provato l’angoscia di Geremia quale agnello condotto al macello (cf. Ger 11,19), ha faticato come il Servo ad accettare di dare la sua vita per i peccatori (cf. Is 53,12).

In quella situazione di svolta, Gesù invia alcuni messaggeri davanti a sé, discepoli inviati a preparargli la strada come nuovi precursori, ma questi, entrati in un villaggio di samaritani, vengono respinti. È l’esperienza dell’opposizione a Gesù e al suo Vangelo da parte di quei samaritani che egli amava a tal punto da assumere alcuni di loro come esemplari, nella famosa parabola (cf. Lc 10,33-35) e nel leggere in un incontro personale il risultato delle sue azioni messianiche (cf. Lc 17,15-16). I samaritani, scismatici e ritenuti impuri dai giudei, disprezzati e considerati come feccia, dunque oppressi, non accolgono però il Vangelo e, diffidando di Gesù in quanto galileo diretto a Gerusalemme, lo rifiutano.

Luca registra allora la reazione dei due discepoli fratelli, Giacomo e Giovanni, “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), che appartenendo alla comunità di Gesù si sentono offesi e si rivolgono a Gesù stesso confidando nel potere che egli ha affidato loro: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. Ovvero, “vuoi che facciamo come Elia, il quale invocò il fuoco dal cielo che divorò i suoi nemici” (cf. 1Re 18,36-40)? Era un’azione compiuta da un profeta grande come Elia, dunque può essere ripetuta a causa della presenza di Gesù, profeta più grande di Elia. Giovanni e Giacomo non vanno condannati troppo facilmente: comprendere che la via di Gesù non è quella della condanna ma della misericordia, non era facile per loro, ebrei osservanti e zelanti! D’altronde, non erano i più vicini a Gesù, interpreti della sua volontà? Accettare la sua debolezza, la possibilità del fallimento della sua missione, accogliere il suo ministero non di condanna ma di salvezza del peccatore, non era facile.

Ma Gesù respinge questa sollecitazione o tentazione da parte dei due discepoli, si volta verso di loro che lo seguivano e li rimprovera, dicendo (secondo alcuni manoscritti): “Voi non sapete di che spirito siete! Poiché il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le vite degli uomini, ma a salvarle”. Gesù registra la loro ignoranza dei suoi sentimenti e dello stile della sua missione e denuncia che il loro cuore è abitato da uno spirito non conforme al suo. Nella storia purtroppo succederà spesso che i discepoli di Gesù, proprio credendo di eseguire la volontà e il desiderio del Signore, in realtà lo contraddiranno e gli daranno il volto di un giudice venuto per castigare e distruggere i malvagi.

Se vi sono quelli che rifiutano Gesù, ve ne sono però altri che lo vogliono seguire, diventando suoi discepoli. Luca testimonia anche questo correre dietro a Gesù e ci presenta tre fatti accaduti durante il suo cammino verso la città santa. Innanzitutto racconta di un tale che grida a Gesù: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Parole molto generose, apparentemente convinte, che contengono una proposta senza condizioni. Gesù ascolta, discerne che in quella persona c’è entusiasmo, ma sa che questo non è sufficiente per durare nella vocazione. Colui che fa questa affermazione non chiama Gesù “Signore”, non ha fede in lui, ma è uno di quelli che vuole dare a se stesso una vocazione, non riceverla: è un autocandidato alla sequela, con un entusiasmo da militante. A differenza del comportamento della pastorale odierna, che definisce la vocazione “facile”, “senza rinunce”, “scelta di tutto”, Gesù proclama con chiarezza le difficoltà del cammino del discepolo, perché non vuole fare un “reclutamento”, un’“incetta” di discepoli. Diventare discepoli significa accettare la povertà, l’insicurezza, il fardello del fratello o della sorella da portare, la sottomissione reciproca, l’insicurezza e poi anche il fallimento, quella fine verso cui il Signore cammina con il volto indurito. Sì, peggio della sorte degli animali selvatici! E così quella auto-vocazione non ha neppure il tempo della prova…

Vi è un altro a cui Gesù dice: “Seguimi”, ma si sente rispondere: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Richiesta legittima, fondata sul comandamento che richiede di onorare il padre e la madre (cf. Es 20,12; Dt 5,16). Gesù però chiede che, seguendo lui, si interrompa il legame con l’ordine familiare e con la religione della legge, dei doveri: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Quando Gesù chiama, non si può preferire un comandamento, seppur santo, al suo amore: o si sceglie lui radicalmente o si continua a stare insieme ai morti! Di fronte a queste nette affermazioni di Gesù, come ci poniamo noi? Le assumiamo come una necessitas, oppure le leggiamo volentieri come iperboli massimaliste, oppure facciamo come la chiesa di oggi, che ha paura di chiedere la rottura con la famiglia a causa di Cristo e continua a beatificare la famiglia come se fosse la realtà ultima ed essenziale per la vita eterna?

Infine, un terzo si avvicina a Gesù e gli promette di seguirlo, chiedendogli solo una dilazione per dare addio alla famiglia, alla gente della sua casa, padre, madre, fratelli e sorelle. D’altronde Eliseo aveva fatto la stessa richiesta a Elia, dopo essere stato chiamato da lui (cf. 1Re 19,20), dunque tale esigenza pare legittima. Gesù però non afferma l’esemplarità di queste parole di Eliseo né il suo comportamento, ma anzi proclama con forza che se uno che ha in mano l’aratro guarda indietro, non solo scava male il solco, ma non sa concentrarsi sulla meta, mostrando così di non essere adatto per il regno di Dio.

Concludo questi cenni di commento con una certa tristezza. Innanzitutto perché non siamo noi stessi capaci di questa radicalità, perciò non dobbiamo giudicare gli altri. Ma tristezza anche perché ormai la voce della chiesa, sì la voce della chiesa, non sa più ripetere le parole del Vangelo con il prezzo che esse esigono. Nell’angoscia dovuta alla mancanza di vocazioni per le opere che essa decide, la chiesa abbellisce la chiamata, come chi fa pubblicità per un prodotto senza indicarne i costi: questa è mondanità, non radicalità evangelica!

www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/10563-lascia-che-i-morti-seppelliscano-i-loro-morti

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DIACONIA

Le diacone. Può realizzarsi il diaconato femminile?

Nel nostro tempo – un tempo in cui sono in corso trasformazioni non a caso chiamate epocali – qualunque riferimento al mondo cattolico va ricondotto alle reazioni suscitate dal tentativo di Papa Francesco di recuperare i “duecento anni di ritardo” denunciati dal cardinal Martini. Dati approssimativi dicono di un’approvazione incondizionata da parte del 70/80 % dei laici, mentre “i fedeli” non supererebbero il 50 %, un divario che si spiega per il bisogno di una spiritualità più vicina alla contemporaneità e di nuove prospettive di salvezza di fronte a situazioni di vita sempre più complesse e insoddisfacenti, mentre per abitudine inveterata molti cattolici, vissuti nell’obbedienza (“chi sono io per contestare la Chiesa?”) ad un magistero di certezze, attribuiscono le difficoltà alla politica e alla secolarizzazione e respingono i dubbi, anche se figli e nipoti adolescenti non vanno più a messa.

Una polemica da non sottovalutare- Agli entusiasmi di molti si contrappone la critica ad una presunta disinvoltura teologica del Papa e alla sua distanza dall’integrismo tradizionalista. Accade così di incontrare sulla rete la denuncia di un Aldo Maria Valli in polemica con il teologo Andrea Grillo: “la pastorale di per sé è una prassi e come tale ha bisogno di una dottrina a cui essere agganciata. Una pastorale senza dottrina, o costruita su una dottrina vaga e ambigua, può andare contro la verità evangelica. La pastorale, svincolata dalla legge, può diventare semplice consolazione di taglio sentimentale, privo di indicazioni circa il vero bene e la strada da seguire per la salvezza dell’anima. E se la Chiesa si limita a questo tipo di accompagnamento rischia di cedere, di fatto, alla logica del mondo”.

Un intervento da non sottovalutare, perché l’urgenza incalzante di un Papa che sa di non potere perdere il tempo – che in realtà è un kairòs – obbliga a dare la precedenza all’effettività di nuove prassi perfino nel culto, mentre la ricostruzione di sponde dottrinali trova i teologi, come d’altra parte i filosofi, in difficoltà davanti a nuovi orizzonti che, anche su impulso degli avanzamenti scientifici, aprono a nuove antropologie e nuove etiche. Comunque, l’attacco dei tradizionalisti alla pastoralità ha riportato sulla scena l’opposizione alle novità che già è stata usata contro papa Giovanni XXIII e il suo Concilio, sabotato dai conservatori di curia proprio perché non dogmatico.

Riprenderci le responsabilità derivanti dal battesimo. È, dunque, prioritario che il popolo di dio, con tutti i suoi limiti (non dimentichiamo i dati sconfortanti del rapporto sull’analfabetismo religioso degli italiani curato da Alberto Melloni), si riprenda la triplice responsabilità – regalità, sacerdozio e profezia – certamente “dogmatiche”, ma ancora assai lontane dall’essere declinate (e applicate) come diritti/doveri dei battezzati e delle battezzate (“perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?”, Lc, 12, 2 57). Se è vero che “non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che impariamo a leggerlo meglio”, Il Vaticano II e non il Concilio di Trento è il riferimento dei cristiani: il Cristo Re si è annullato dietro il Cristo servo, come la croce si immerge nella gioia della resurrezione.

Se papa Francesco giudica ogni ministero “servizio” e non “servitù” (e già questo distinguo procura l’orticaria ai tradizionalisti), non fa meraviglia che abbia risposto positivamente alla richiesta del diaconato femminile proponendo l’istituzione di una Commissione di studio. Il tema – di per sé neppure nuovo: Congar lo aveva menzionato fin dal 1959 – da subito è apparso incauto ai curiali, se mons Angelo Giovanni Becciu (Sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato) si è immediatamente premurato di mettere in guardia dall’ “affrettare le conclusioni”, mentre anche p. Federico Lombardi chiariva che “non ha parlato di ordinazioni”.

Una porta difficile da aprire. Il Papa ha affrontato questa inattesa contraddizione da buon gesuita, rinviando a consultazioni ulteriori e assicurando che “la Chiesa ha bisogno che le donne entrino nel processo decisionale” e magari “guidino un ufficio in Vaticano”. Necessario in primis il coinvolgimento di consacrate e laiche. “Perché la Chiesa ha bisogno del loro punto di vista” e perché finora troppe “donne consacrate sono donnette piuttosto che persone coinvolte nel ministero del servizio. La vita consacrata è un cammino di povertà, non un suicidio”.

Forse memore di una diceria che nel 2013 ipotizzava un suo proposito di elevare una donna al cardinalato, ha anche ribadito che le donne non vanno “clericalizzate”. Tuttavia, sia ben chiaro, che per lui “questo crescente ruolo delle donne nella Chiesa non è femminismo” ma “corresponsabilità nel diritto di tutti i battezzati maschi e femmine”.

Può realizzarsi il diaconato femminile? Quello maschile, in verità, resta tuttora in una sorta di limbo: intrigano gli uxorati, figurarsi se dovessero arrivare le “uxorate”. Anna Carfora, una teologa subito intervistata, dava una risposta pessimista: essendo il primo grado dell’Ordine, per gli ambienti conservatori costituisce “un blocco per dire No al sacerdozio femminile”. Nemmeno Carfora, d’altra parte, ritiene superabile la definitività del divieto, espresso nell’Ordinatio sacerdotalis e confermato dal Responsum 2001 del prefetto della Congregazione sulla dottrina della fede Joseph Ratzinger, ma in particolare dall’intervista allo stesso Francesco (durante il volo di rientro da Rio de Janeiro nel 2013): “quella porta è chiusa”.

L’apporto del pensiero femminile. Eppure il Papa sa bene che la storia gioca a favore delle donne e il prossimo anno, nelle celebrazioni del V centenario della Riforma, le pastore e le vescove protestanti saranno un’oggettiva provocazione, con i loro corpi muliebri rivestiti dei sacri paramenti e segneranno l’evidente diversità, ormai legittimata dai cristiani riformati. Francesco, che non si compromette con le dichiarazioni (“ma che cosa sono queste diaconesse? avevano l’ordinazione o no? ne parla il Concilio di Calcedonia, ma è un po’ oscuro…”), ha da tempo predisposto un “segno” di assoluto valore teologico su cui mancano i commenti: la lavanda dei piedi del venerdì santo non esclude più le donne.

Ma è proprio il pensiero femminile, il “punto di vista” richiesto dal Papa, che dovrebbe essere prioritario sia per la Chiesa, sia per la società intera. Le richieste dell’UISG (Unione Internazionale delle Superiori Generali) erano prive di qualunque aspirazione di potere; quando si è riferita al diaconato la Presidente, la maltese Carmen Sammut, parlava con tranquillo rigore e piena ortodossia.

La porta stretta e l’abito della festa. Ma c’è un’altra Carmen che – nessuna donna è così semplice come appare – si rivela in un altro stile, riscontrabile sul sito dell’Unione: ed è una donna contenta di esprimere la gioia dei cinquant’anni dell’Unione, celebrata con le altre “Generali”, le 900 sorelle e con il Papa, che nemmeno si ricorda di citare l’Amoris laetitia. Propone la gioia di chi sa che c’è una porta da attraversare: una porta stretta, che va affrontata con l’abito della festa, un abito “multicolore, arricchito con i disegni e i motivi tratteggiati con le idee che sono emerse dalle nostre discussioni, con le situazioni che abbiamo descritto, con i sogni a cui abbiamo osato dare voce, con le trasformazioni che sono sgorgate nei nostri animi, nei nostri cuori e nella nostra volontà, con le sfide che ci hanno spinto ad essere coraggiose e ad andare avanti, e con la chiamata dello Spirito che abbiano sentito riecheggiare nei nostri cuori”. Oltre la soglia, si apre loro un giardino, “allestito per festeggiare l’anniversario d’oro della UISG” in cui “alcune aree sono rigogliose e piene di fiori, altre, invece, sono deserte; ma quello che mi sorprende è la moltitudine di persone che punteggia lo spazio e allora, chiedo: ‘Chi sono? Perché sono state invitate a questa festa?’. Non sono, assolutamente, il tipo di persone che avremmo invitato a festeggiare! Comincio addirittura ad aver paura di alcune di loro. Il Signore mi guarda e mi dice: “Non avere paura, sono miei amici, volevo che li incontrassi, perché occupano un posto speciale nel mio cuore. Voglio che siano vostri compagni e che creiate un’alleanza con loro… Allora, il Signore mi propone di prestarmi i suoi occhi e il suo cuore e io accetto con gioia”.

Non ripetere il modello del prete. Le suore, donne anche loro, riservano di queste sorprese: sembra di leggere le visioni di Ildegarda di Bingen, che voleva le consorelle adorne all’altare (le vesti cerimoniali maschili indicano il potere gerarchico, non la gioia). Bisogna chiedersi che cosa “desidera” per le consacrate la Carmen che pone al Papa domande precise e più ampie di quelle ammesse, come la questione del denaro, che Francesco ha voluto ascoltare per rispondere, anche con la proposta della Commissione di studio sul diaconato, una richiesta femminile che è desiderio di rispetto del diritto (battesimale?), non di cooptazione.

Le donne solitamente sono molto dirette nell’affrontare le cose che sembrano perseguibili perché (sempre secondo loro) ovvie; ma sono ancor più eloquenti nei silenzi. Se si dice alle consacrate che il diaconato renderebbe la chiesa più inclusiva, sono d’accordo; se le si conforta ricordando precedenti che hanno già istituzionalizzato un “servizio femminile”, non battono ciglio consapevoli che le “collaboratrici apostoliche diocesane” ricevono un falso riconoscimento per ciò che già fanno non solo le donne, ma anche uomini chiamati sacrestani; se vengono sollecitate ad accontentarsi del primo grado dell’ordine sacro – poi avranno sacerdozio ed episcopato, intanto amministreranno alcuni sacramenti – restano fredde: non è loro aspirazione ripetere il modello di prete o di vescovo secondo il principio gerarchico. Pur non potendo consacrare, in terra di missione hanno già fatto il parroco e guidato le comunità: non hanno ancora una propria visione e possono aspettare.

Capire chi era Febe. Cercano di immaginare chi era in realtà Febe, una donna stimata e ritenuta autorevole, una “diacona”, da Paolo. Sanno solo che non era uguale a Stefano e non si fanno illusioni: se Paolo non ha pensato di trasmettere le parole di una come lei, la Cei del 2008 ha tradotto il greco diakonos, riferito proprio a Febe, con la locuzione “al servizio della Chiesa” pur di non doversi domandare se il diacono/a riceveva l’imposizione delle mani e il/la prostates presiedeva la comunità. La teologa Marinella Perroni pensa che, se tre anni fa non è stato riconosciuto alle donne il lettorato, le aspettative sono modeste: “Speriamo solo che i cardinali che verranno inseriti nella Commissione conoscano l’argomento”. Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento delle Teologhe italiane, ha evocato i “fantasmi” che non mancano nelle chiese, quali la paura del femminismo e la falsa stima per il cosiddetto “genio femminile” che Giovanni Paolo II, autore del “complimento”, andava speso solo nella famiglia.

Maddalena: l’apostola apostolorum. Tuttavia l’elogio rivolto dal Papa alle capacità di tutte le suore sembra almeno aver messo fine davvero ai deplorevoli conflitti del Vaticano con di santa Maria Maddalena, oggi memoria obbligatoria, sarà elevata nel calendario romano generale al grado di festa”. Con l’approvazione simbolica di san Tommaso che, qualche secolo fa, riconosceva in lei l’apostola apostolorum.

            Giancarla Codrignani, giornalista, socia fondatrice e membro del Consiglio direttivo di Viandanti.

Viandanti –                 19 giugno 2016          www.viandanti.org/?page_id=13433

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Rimettiamo gli ultimi e i più deboli al primo posto

Si celebra oggi la Giornata internazionale delle persone vedove, istituita dall’Onu nel 2011. Nel mondo ci sono 245 milioni di vedovi, contando solo le donne, e tra esse 115 milioni sopravvivono in condizioni di estrema povertà.

In Italia sono circa 5 milioni le persone vedove; le famiglie con capofamiglia vedovo/a sono circa 3,8 milioni, tra questi 257mila circa hanno un’età inferiore a 55 anni, i nuclei familiari con figli sono circa 190mila (3/4 con figli minori).

«Un tempo le vedove e gli orfani venivano considerati le persone più deboli e di conseguenza anche le più protette dal comune sentire» commenta Gigi De Palo presidente del Forum delle associazioni familiari. «Ora invece sono ancora le più deboli ma vivono questa debolezza nel completo disinteresse della società.

«Tante famiglie, vedove e orfani che non possiamo dimenticare»

Comunicato stampa   23 giugno 2016          www.forumfamiglie.org/comunicati.php

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MIGRANTI

Orlando: Nel 2015 in Italia 12mila minori (+13%).

Il ministro della Giustizia in audizione alla Commissione d’inchiesta: L’aumento tra il 2013 e il 2014 era stato del 60%. Va affrontato il tema del reato di immigrazione clandestina e create sezioni specializzate nei tribunali.  “I minori stranieri non accompagnati che sono entrati e transitano nel territorio italiano sono aumentati di mille unità nel giro di un anno”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando nel corso dell’audizione davanti alla Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti. “In percentuale l’aumento è stato del 13% visto che alla fine del 2015 erano circa 12 mila, mille in più rispetto al 2014. L’aumento tra il 2013 e il 2014 era stato invece del 60% perché il numero era salito di 4 mila unità”. Per questi minori “c’è il rischio di sfruttamento illegale” e “se ne perdono le tracce all’arrivo in Europa. Al 31 dicembre sono stati registrati in Europa 6.135 minori non accompagnati che risultano non reperibili”. Nel corso del 2015 – ha riferito Orlando- sono state presentate 3959 nuove domande di protezione internazionale da parte dei minori non accompagnati arrivati in Italia, rispetto al 2014, quando le domande erano state 2557, il dato è in forte crescita con un incremento nel biennio del 54% e un’incidenza preponderante di minori provenienti dall’Africa 3327 nel 2015 pari all’80% del totale”.

Il Guardasigilli si è poi soffermato sul reato di immigrazione clandestina. Un tema del quale, ha detto, “senza alcun tipo di approccio ideologico, molti soggetti della giurisdizione ne segnalano l’incongruità, perché da un lato costringe a sanzioni che non hanno forme di deterrenza e dall’altro rende più complicato svolgere alcune indagini come quelle in materia di traffico di esseri umani”. Orlando, dopo aver ricordato che “all’epoca non si è ritenuto di esercitare la delega che era prevista all’interno del pacchetto sulla depenalizzazione”, ha affermato: “Ritengo che questo tema sia da affrontare nel riassetto generale del sistema”.

Orlando ha poi ricordato che il ministero della Giustizia “ha presentato interventi normativi in un disegno di legge delega attualmente al vaglio del governo per la riduzione dei tempi di esame delle richieste di asilo. Viene proposta l’istituzione di dodici sezioni specializzate nei tribunali distrettuali in materia di immigrazione e protezione internazionale e libera circolazione di cittadini UE, composte da magistrati esperti o con una formazione specifica con il coinvolgimento della Scuola superiore magistratura. Sono stati individuati dodici tribunali distrettuali, Roma, Bari, Catanzaro, Palermo, Catania, Milano, Venezia, Salerno, Torino, Bologna, Firenze, Cagliari. Per i giudici di queste sezioni sono previsti meccanismi di stabilizzazione”.

Emanuele Gatto         il sole 24 ore   22 giugno 2016

www.oua.it/migranti-orlando-nel-2015-in-italia-12mila-minori-13-il-velino

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NULLITÀ MATRIMONIALI

Matrimoni nulli?

L’affermazione del papa secondo cui la maggior parte dei matrimoni contratti in chiesa sarebbero nulli manifesta anche il desiderio di ridurre il numero dei divorzi. Ma la Chiesa cattolica non può esimersi dal riconoscere i fallimenti delle promesse matrimoniali. Sappiamo ormai che papa Francesco ogni tanto osa parole “leggere”. Non tutti i suoi collaboratori in Vaticano apprezzano questa particolarità del successore di Pietro. Per il suo confratello gesuita Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, significa molto lavoro – in quanto deve intervenire a correggere.                              Vedi newsUcipem n. 602, 19 giugno 2016, pag. 32

È stato così anche per la recente affermazione di papa Francesco in tema matrimoniale. Media italiani hanno citato le parole del papa, secondo il quale la maggior parte dei matrimoni contratti in chiesa sarebbero “nulli”. Nell’attuale “cultura del provvisorio”, gli sposi si prometterebbero fedeltà per tutta la vita e lo farebbero con buona volontà – “ma non sanno quello che dicono”. Padre Lombardi non ha voluto lasciare questa espressione nella sua assolutezza. Il Vaticano ha relativizzato l’affermazione del papa in una versione scritta del discorso da lui fatto ad un congresso della diocesi di Roma. Nella trascrizione si legge che “una parte” dei matrimoni contratti in chiesa sarebbero nulli. Secondo la Katholische Nachrichtenagentur, sulla base della trasmissione dal vivo e della registrazione video, il papa avrebbe detto “la maggior parte”.

L’affermazione del papa è meno spettacolare di quanto sia apparsa sui media. Francesco non è il primo papa che si pone la domanda se tutti gli sposi siano pienamente consapevoli dell’impegno che si assumono con un matrimonio religioso. Fino a che punto, ci si può chiedere, gli sposi si rendono davvero conto di ciò che fanno quando si amministrano reciprocamente il sacramento del matrimonio. Del fatto che si tratta di un sacramento e che il matrimonio religioso viene contratto per la vita.

Il discorso della validità del matrimonio contratto in chiesa è alla base del diritto matrimoniale ecclesiale. A determinate condizioni, il diritto canonico considera nulli certi matrimoni religiosi: ad esempio quando espressamente e in maniera provata ad esempio davanti a testimoni hanno messo in dubbio la validità della promessa matrimoniale per tutta la vita, o quando è stata esclusa in linea di principio la disponibilità a mettere al mondo dei figli. In specifici casi eccezionali possono darsi tali costellazioni – annullamenti di matrimoni, pronunciati da tribunali ecclesiastici in certe ristrette e ben definite condizioni, ma questi non devono essere confusi con divorzi. Nell’annullamento del matrimonio si tratta di stabilire se un matrimonio era valido nel momento in cui veniva contratto.

Se ora si accetta come valida la versione delle parole del papa, per cui la maggioranza dei matrimoni religiosi sarebbero nulli, significherebbe che essi sarebbero annullabili secondo il diritto canonico vigente. Il papa non può aver inteso veramente questo. Dietro alle sue parole si nasconde però la supposizione, già espressa in modi diversi dai suoi predecessori che ci siano più matrimoni annullabili di quelli che vengono effettivamente annullati. Un problema per la Chiesa lo pongono proprio quegli sposi che soggettivamente sono convinti che il loro matrimonio sia annullabile, ma che non possono sufficientemente provarlo sulla base delle disposizioni vigenti del diritto canonico. Per rendere più facile l’annullamento del matrimonio, papa Francesco un anno fa aveva reso più semplice e più breve il procedimento canonico.

Alla domanda posta dal papa “valido o non valido?”, si può giungere anche per certe abitudini popolari, che ancora si trovano in alcune parti della Chiesa cattolica o che almeno continuano a determinare le abitudini di vita delle persone. Nei luoghi dove è più o meno scontato che ci si sposi in chiesa, spesso non si richiede agli sposi alcuna personale decisione di fede per il matrimonio religioso. Non è raro che ci si sposi più per rispondere al desiderio dei genitori e dei parenti. Lo svolgimento di un matrimonio protocollare non sostituisce la conoscenza della dimensione di fede legata al sacramento del matrimonio. A ciò si aggiunge che la preparazione al matrimonio fatta da molti non è diffusa ovunque come sarebbe opportuno. Anche negli ultimi due sinodi molti vescovi hanno più volte parlato di questo tema. In linea di principio, non si possono pretendere ovvie conseguenze della promessa matrimoniale se non vi è stata precedentemente sufficiente informazione e preparazione. Anche nella sua ultima esortazione apostolica Amoris laetitia, papa Francesco si esprime a favore di una intensificazione della preparazione e poi dell’accompagnamento degli sposi.

Il papa ha affrontato anche un altro argomento quando ha messo in guardia dai cosiddetti “matrimoni riparatori”. Ad un matrimonio si arriva a volte spinti da una gravidanza iniziata. Benché in molti luoghi sia superato il tempo in cui per una gravidanza ci si “doveva” sposare, anche la gravidanza può influire sulla decisione di sposarsi. Papa Francesco ha ricordato che già da arcivescovo di Buenos Aires aveva proibito tali matrimoni, avendo dei dubbi sul libero consenso degli sposi. Quando le coppie, due o tre anni dopo, si sarebbero presentate davanti all’altare, avrebbero saputo cosa facevano.

Il libero consenso alla conclusione del matrimonio è una condizione centrale per la validità di un matrimonio contratto in chiesa. Nella storia della Chiesa, questo è stato sempre un capitolo particolarmente difficile della pastorale matrimoniale, nel senso che la Chiesa doveva opporsi a matrimoni forzati, o contratti segretamente, o plurimi. E questo in epoche in cui la volontà della donna contava molto meno di quanto conti – o dovrebbe contare – oggi.

Se, come ora da parte del papa, la nostra attenzione è richiamata sul fatto che la maggior parte dei matrimoni contratti in chiesa in fondo potrebbero essere nulli, dietro a questo si nasconde alla fine la preoccupazione di diminuire il numero dei divorzi e quindi anche delle nuove nozze. Anche se le cose stessero effettivamente così, la speranza di ridurre fortemente in questo modo il numero dei divorzi, però, non si realizzerebbe. Per quanto sia sensato preparare gli sposi ad un matrimonio religioso e accompagnare i coniugi nella loro vita matrimoniale quotidiana, la Chiesa cattolica non può esimersi dall’accettare la possibilità dei fallimenti delle promesse matrimoniali. E che i divorziati nella maggior parte dei casi inizino relazioni matrimoniali o convivenze. A quali condizioni la Chiesa cattolica renda possibile anche a queste persone l’accesso ai sacramenti, quindi innanzitutto al sacramento della riconciliazione e all’eucaristia, è un problema che rimane aperto anche dopo la pubblicazione del documento post-sinodale Amoris laetitia da parte di papa Francesco.

Klaus Nientiedt   www.konradsblatt-online.de, 22 giugno 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut1317

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OMOADOZIONE

Stepchild adoption tra divieto di discriminazione e superiore interesse del minore

            Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 12962, 22 giugno 2016.

La Suprema Corte di Cassazione avalla l’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lettera d) della Legge sulle adozioni inaugurata dal Tribunale per i Minorenni di Roma, nella pronuncia del 30 luglio 2014 e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Roma, che consente l’adozione co-parentale (cd. Step-child adoption) da parte del genitore sociale all’interno delle famiglie omogenitoriali.

            Si tratta della prima adozione co-parentale riconosciuta dalla Cassazione e pone un primo, importante, punto fermo nell’intricato dibattitto che negli ultimi mesi ha agitato la questione della genitorialità omosessuale e della possibilità di estendere la step-child adoption, ovvero l’adozione del figliastro, anche alle coppie dello stesso sesso, da poco riconosciute come “famiglia” anche a livello legislativo, essendo del 5 giugno 2016 l’entrata in vigore della legge sulle unioni civili (la cd. Legge Cirinnà). Ancora una volta è stato necessario l’intervento di un giudice per rispondere a una concreta esigenza di tutela e per colmare un vuoto normativo che finiva con il discriminare, prima ancora che i genitori, tutti quei bambini che già vivono e crescono all’interno di famiglie omoaffettive. In Italia, a partire soprattutto dal 2010, anno della prima sentenza della Corte costituzionale in materia di matrimonio same sex (sentenza n. 138), la giurisprudenza ha assunto un ruolo sempre più attivo nella tutela dei diritti fondamentali, ha lentamente metabolizzato le acquisizioni provenienti dall’Europa, soprattutto dalla Corte di Strasburgo, ed è giunta, in taluni casi e se pur con cautela, a renderle effettive sul piano dei diritti, rispondendo ai bisogni che la realtà ad essa poneva. Così, quello stesso istituto che era stato stralciato dalla Legge Cirinnà (articolo 5) per l’incapacità delle forze politiche di leggere la realtà sociale e di trovare un accordo trasversale, viene ora confermato dalla giurisprudenza.

            Due gli snodi principali della motivazione degli Ermellini:

  1. l’adozione in casi particolari nell’ambito di una coppia omosessuale non determina in astratto un conflitto di interessi tra genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice;
  2. tale modello adottivo prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammesso sempreché alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il superiore interesse del minore (best interests of the child). Vediamoli più nel dettaglio.

La Corte esclude, innanzitutto, la sussistenza in astratto di un conflitto di interessi fra il minore e il proprio genitore biologico. La Procura aveva evidenziato la potenzialità di tale conflitto, assumendo che fosse conseguente alla relazione sentimentale che univa la madre legale alla madre sociale e richiedendo pertanto che la minore fosse difesa in giudizio da un curatore speciale. La questione, peraltro senza precedenti specifici, consisteva nello stabilire se, nell’ambito di un rapporto di convivenza di coppia, la domanda proposta da uno dei due partner per l’adozione del figlio dell’altro, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184/1983, determinasse ex se un conflitto di interessi, anche solo potenziale, tra il minore e, in questo caso, la madre legale. Nel ricostruire il quadro normativo italiano, alla luce anche delle fonti internazionali (in primis, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996), la Suprema Corte ha evidenziato che nei casi di conflitto soltanto potenziale spetta al giudice di merito il potere-dovere di verificare in concreto la situazione di incompatibilità di interessi del genitore-rappresentante legale e del minore e che, nel caso di specie, deve ritenersi infondata. Infatti, diversamente da quanto sostenuto dalla Procura Generale, deve escludersi che nel procedimento di adozione in casi particolari – essendo questo mirato a dare riconoscimento giuridico, previo rigoroso accertamento della corrispondenza della scelta all’interesse del minore, a relazioni affettive e continuative e di natura stabile instaurate con il minore e caratterizzate dall’adempimento di doveri di cura, educazione e assistenza analoghi a quelli genitoriali – possa ravvisarsi una situazione di conflitto di interessi in re ipsa. Il giudice di merito, inoltre, aveva trattato espressamente la questione escludendo la necessità della nomina di un curatore speciale, accertando in concreto l’assenza di incompatibilità d’interessi. Anche perché, pare il caso di sottolinearlo, o si ritiene che sia proprio la relazione sottostante (coppia dello stesso sesso) ad essere potenzialmente dannosa e contrastante con l’interesse del minore – incorrendo, come puntualmente fa notare la Corte di Cassazione, in una valutazione negativa e aprioristica dell’orientamento sessuale dei partner della coppia che ha natura discriminatoria e è non sostenuta da alcuna evidenza scientifica (si veda, Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 8 novembre 2012 – 11 gennaio 2013, n. 601) – oppure si esclude la configurabilità in via generale e astratta di una situazione di conflitto di interessi nell’ambito del paradigma adottivo.

            Nella seconda parte della sentenza, la Corte di Cassazione affronta invece la questione dell’interpretazione dell’art. 44, comma 1, lettera d), affermando che «la constatata impossibilità di affidamento preadottivo» deve essere intesa come impossibilità anche giuridica, e non solo di fatto. Infatti, l’esistenza della madre biologica (ovviamente attiva nell’accudimento della minore) rende giuridicamente impossibile la dichiarazione di abbandono e l’affidamento preadottivo e dunque pienamente applicabile l’ipotesi di cui alla lettera d), fra l’altro azionabile anche da un singolo, come la ricorrente madre “sociale”. Una soluzione, questa, che appare pienamente conforme sia alla lettera che alla ratio della legge, la cui interpretazione restrittiva ostacolerebbe in una molteplicità di situazioni – ivi compresa quella de qua – il perseguimento del massimo benessere possibile del minore (leggasi best interests of the child) che, come non mancano di ricordare sia il giudice di merito, sia il giudice di legittimità, deve essere sempre il principio guida in ogni decisione che riguarda il bambino. Alla luce del testo e della ratio della disposizione, conclude la Suprema Corte, l’interpretazione «restrittiva» invocata dalla Procura Generale e fondata sulla qualificazione della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» come mera «impossibilità di fatto» non può essere accolta. Vero è che tale norma ha avuto in passato un’interpretazione restrittiva, secondo la quale si richiederebbe un’impossibilità solo “di fatto”, riferendosi inevitabilmente solo a quei minori abbandonati (o in stato di semi-abbandono) per i quali, per esempio per ragioni di età o di salute, non sia possibile reperire una coppia aspirante all’adozione legittimante. Tuttavia, tale interpretazione restrittiva è stata poi oggetto di ripensamento da parte della giurisprudenza (cfr., Tribunale per i Minorenni di Milano, sentenza n. 626/2007; Corte d’Appello di Firenze, sentenza 1274/2012; cfr., anche, Corte Cost. n. 198/1986). In particolare, l’adozione sarebbe possibile anche nel caso in cui l’impossibilità di affidamento preadottivo sia solo “di diritto”, id est nel caso in cui l’affidamento preadottivo sia precluso dal fatto che il minore non si trova in stato di abbandono essendo presente un genitore che dello stesso si occupa in modo adeguato. Soltanto in questo modo diventa possibile tutelare l’interesse del minore (anche non in stato di abbandono) al riconoscimento giuridico di rapporti di genitorialità più compiuti e completi e alla stabilizzazione dei legami affettivi che, di fatto, sono per lui importanti punti di riferimento (cfr., Corte Cost., sentenza del 7 ottobre 1999, n. 383, secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» anche quando i minori «non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili»).

            Secondo la Suprema Corte, tale interpretazione più estensiva è pienamente conforme alla littera legis, che prevede come unica condizione per l’adozione di cui all’art. 44, co. 1, lettera d) l’impossibilità dell’affidamento preadottivo e non la sussistenza di una situazione di abbandono (richiesta invece per l’adozione piena e legittimante). Essa altresì consente di realizzare l’interesse superiore del minore in linea con la ratio legis, in quanto il legislatore prevedendo la lettera d) come clausola residuale per tutti quei casi speciali non inquadrabili nella disciplina della adozione legittimante e non rientranti nelle altre e più specifiche ipotesi di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 44, ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore e le persone che già si prendono cura di lui, continuativamente e stabilmente, al fine di realizzare effettivamente gli interessi del minore. Dunque, coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica e adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l’impossibilità “di diritto” di procedere all’affidamento preadottivo, lasciando al giudice la verifica delle condizioni di cui all’art. 44 e se l’adozione realizza in concreto il superiore interesse del minore (leggasi il massimo benessere possibile per quel determinato minore).

            Infine, merita segnalare il fruttuoso dialogo instaurato dalla Suprema Corte con la Corte europea per i diritti dell’uomo e l’ampliamento dell’orizzonte interpretativo alla ricerca di un trend costituzionale comune ai numerosi Paesi che compongono il Consiglio d’Europa. In effetti, la progressiva intensificazione dei canali di interazione tra i diversi ordinamenti, tra le diverse Carte fondamentali dei diritti e tra i giudici delle Corti supreme nazionali e sovranazionali, un dialogo indotto dall’esigenza di dare esecuzione a principi e norme di diritto internazionale o sovranazionale ma anche dall’osmosi tra culture giuridiche la cui vocazione transfrontaliera e multiculturale si è fatta sempre più concreta, ci consegna un’immagine del giudice come “filtro principale” tra norma e realtà sociale, area di mediazione fondamentale tra il sistema giuridico e il sistema sociale all’interno del quale si sviluppano dinamiche e aspettative interiorizzate dai singoli, come quelle che stanno alla base delle relazioni affettive secondo la portata dei profondi cambiamenti che le stanno caratterizzando. Così, da un lato, troviamo l’affermazione del divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale e, dall’altra, troviamo l’ineludibile centralità del principio dei best interest of the child, il criterio-guida che echeggia sempre nelle motivazioni dei giudici che riguardano il minore. Il sistema della Convenzione europea ha costituito uno straordinario volano per il riconoscimento dei diritti dei bambini perché consiglia o impone un rights-based approach anche nei confronti dei minori di età, i quali in quanto persone sono destinatari di tutti i diritti e le libertà in essa enunciati. Negli ultimi anni, la giurisprudenza della Corte europea in materia di famiglia e di diritti dei minori è diventata sempre più copiosa e articolata ed ha affrontato anche alcune questioni attinenti alla genitorialità omosessuale. La stessa Cassazione, nella sentenza in commento, richiama il noto caso X & Altri v. Austria del 2013 (ricorso n. 19010/07), in cui la Corte europea si era confrontata direttamente con il problema dell’idoneità della famiglia formata da persone dello stesso sesso ad accogliere e crescere un bambino. In quell’occasione la Corte, dopo aver ribadito che anche le unioni omosessuali godono del diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU), aveva chiarito espressamente che le coppie dello stesso sesso non possono essere ritenute a priori inidonee a crescere un figlio e aveva condannato l’Austria per non aver garantito alle coppie omosessuali la medesima possibilità di accedere alla second-parent adoption (o step-child adoption) così come riconosciuto delle coppie non coniugate eterosessuali. Il margine di apprezzamento degli Stati è dunque limitato e occorrono giustificazioni serie e fondate per operare una disparità di trattamento tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali: Infatti, prosegue la Corte, «in assenza di argomenti, di studi scientifici o di altri elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omogenitoriali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente addotta come giustificazione alla disparità di trattamento tra coppie conviventi. Ne consegue che l’obiettivo della tutela della cosiddetta famiglia tradizionale, per quanto legittimo possa essere, non può essere perseguito andando a discapito della garanzia minima di tutela delle altre tipologie di famiglia, riconosciute e protette dall’art. 8 CEDU, secondo l’interpretazione evolutiva che ne è stata data dalla Corte)

            La non discriminazione viene allora in gioco non soltanto nei confronti dei genitori e del loro orientamento sessuale ma, anche e soprattutto, nei confronti dei minori che, per il solo fatto di vivere e crescere all’interno di una famiglia omogenitoriale subiscono una disparità di trattamento, trovandosi in condizioni di precarietà, rispetto ai figli di coppie eterosessuali, cui sono riconosciuti pieni diritti e massima tutela. Ad essere leso è il diritto di ciascun minore alla stabilità dei rapporti affettivi e familiari già formati. Il passo da una situazione di massima protezione ad una situazione di massima indeterminatezza è breve, anzi brevissimo. La centralità del minore, quindi, va affermata per ogni tipo di coppia genitoriale, sia eterosessuale sia dello stesso sesso, legami nei quali la vita del nucleo familiare comunque va strutturata con modalità che garantiscano prioritariamente la salute, il benessere, l’educazione e la crescita, oltre che ovviamente il diritto alla felicità del bambino.

Si deve infine rilevare come sia stata disattesa dal primo Presidente della Suprema Corte la richiesta della Procura Generale di portare la questione direttamente avanti alle Sezioni unite. Come noto l’art. 374 c.p.c. consente al primo Presidente di disporre che la Corte si pronunci a Sezioni unite soltanto se la questione di diritto sia stata decisa in senso difforme dalle Sezioni semplici e se si tratti di «questione di massima di particolare importanza». Nella specie sul punto non si sono ancora mai pronunziate le Sezioni semplici e sarebbe stato del tutto irrituale la decisione di rimettere la questione alle Sezioni unite. Inoltre, considerando l’orientamento giurisprudenziale delle corti di merito (si vedano, tra gli altri, Tribunale per i minorenni di Roma, sentenze del 30 luglio 2014 e del 23 dicembre 2015 (pubblicata il 21 marzo 2016); Corte d’Appello di Torino, sentenza del 27 maggio 2016) non sussisteva e non sussiste, dunque, allo stato neppure quel rischio di tutela giurisdizionale «a macchia di leopardo» paventato dalla Procura Generale.

            Luca Giacomelli         Altalex                        23 giugno 2016.         Sentenza

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Unioni civili, via libera della Cassazione alla stepchild adoption.  Estratto

            (…)      La richiesta della procura – Dopo due sentenze a favore di una coppia di mamme che si sono sposate in Spagna, una delle quali è la mamma biologica di una bambina di sei anni, la Procura della Cassazione, lo scorso 27 maggio 2016, aveva chiesto di passare la parola alle sezioni unite civili o di accogliere il ricorso della procura di Roma che si è opposta all’ok alla adozione da parte della compagna della mamma della bimba. In particolare, il Pg Francesca Ceroni, ai giudici della prima sezione civile, aveva sottolineato che “solo le sezioni unite possono evitare che in Italia si crei una situazione a macchia di Leopardo” e magari in un tribunale si riconosca la stepchild adoption e in un altro no. Da qui la richiesta di rinviare la parola alle sezioni unite o di accogliere il ricorso della procura di Roma. In particolare, il sostituto procuratore generale ha evidenziato che la legge Cirinnà appena approvata ha stralciato la stepchild adoption e che “la legge 184 del 1983 alla quale si può al momento fare riferimento si occupa solo di infanzia abusata, abbandonata, maltrattata e di genitori in difficoltà. Qui invece abbiamo il caso di una bambina amata e curata dal genitore biologico”. Tesi che la prima sezione civile presieduta da Salvatore Di Palma non ha condiviso convalidando il precedente giudizio di appello.

Adnkronos      22 giugno 2016                      www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2016/06/22/unioni-civili-via-libera-della-cassazione-alla-stepchild-adoption_IfT3c53uVlZnMHtAgUeJIJ.html

 

Adozione. Gambino: nessuna novità assoluta dalla Cassazione.

La decisione della Cassazione non è un sì alla stepchild adoption. Così in sintesi il giurista Alberto Gambino sul caso della Corte d’Appello di Roma che aveva accolto la domanda di adozione di una minore, proposta dalla compagna della mamma biologica della piccola. La decisione è stata confermata dalla Corte Suprema che dunque ha respinto il ricorso del procuratore generale.

R. – Non è una sentenza innovativa, se non per l’organo giurisdizionale che la pronuncia, che è una Cassazione. In realtà, è un orientamento già presente nelle Corti di merito, nella Corte d’Appello, e oggi la Cassazione conferma questo orientamento.

D. – Quali sono questi casi in cui una coppia omosessuale vede la possibilità di adottare un minore figlio del partner?

R. – Quei casi in cui si consolida un rapporto, un rapporto di tipo sociale, nei confronti del minore, perché ci si sta prendendo cura di questo minore, e quindi si ritiene che, nel migliore interesse del minore, questo legame non possa essere spezzato, anzi debba essere riconosciuto, seppure in casi particolarissimi.

D. – C’è chi dice sia un sì alla stepchild adoption, tagliata fuori dalla legge Cirinnà.

R. – La stepchild adoption implica un automatismo: è sufficiente, cioè, la convivenza tra due soggetti, perché si possa adottare il figlio dell’altro convivente. Invece va deciso caso per caso, solo nell’interesse del minore. E’, dunque, tutta una valutazione particolare del giudice, e non c’è, appunto, alcun automatismo rispetto a questo rapporto di convivenza che è a monte.

D. – Centrale, dunque, è anche la discrezionalità. Adesso ci sono dei rischi: la pronuncia della Cassazione può ingessare questo procedimento, quindi non rendere più liberi i giudici?

R. – Direi senz’altro di no, perché la Cassazione invece lascia questo discernimento ai giudici di merito, i quali devono proprio valutare l’interesse del minore.

D. – Un’adozione che alcuni definiscono depotenziata. La Cassazione ha detto sì a quale tipo di adozione?

R. – Si tratta della cosiddetta “adozione in casi particolari”, dove ad esempio non si estendono i diritti di successione, dove il legame è soprattutto di responsabilità, potremmo dire, e cioè si ha l’obbligo di mantenere, istruire, educare l’adottato, ma non ci sono invece tutte quelle potestà tipiche genitoriali che vengono invece dall’adozione piena.

D. – C’è chi mette già in relazione questa sentenza con la possibilità dell’utero in affitto.

R. – Questo è un punto molto insidioso e, cioè, potrebbe essere in relazione se si trascura, si tollera la vicenda dell’utero in affitto. Quando, cioè, bambini nati da utero in affitto tornano in Italia, e questo viene tollerato dalle nostre autorità, certamente prima o poi quel bambino, convivendo per anni con i soggetti che hanno portato avanti quella pratica, finirà per essere adottato in casi particolari. Oggi, invece, la legge vieta l’utero in affitto e quindi dovrebbe essere intenzione, dovere delle autorità italiane evitare che si verifichino situazioni di surrogazione di maternità. Altrimenti, certo, queste vicende possono finire indirettamente per legittimare quella pratica.

D. – Questo vuol dire che quando si torna in Italia, dopo una gravidanza commissionata ad altri, il bambino dovrebbe essere tolto?

R. – Il bambino per l’ordinamento italiano è il figlio di chi l’ha partorito, non è il figlio di chi ha voluto quel bambino. Quel bambino, quindi, non è figlio di questa, chiamiamola coppia italiana che l’ha voluto, ma è figlio di quella povera donna che lo ha “venduto”. Il figlio è di quella donna lì e l’ordinamento italiano riconosce solo quella maternità, a tutela del minore e a tutela di questo legame biologico, che è un diritto universale, direi. Altrimenti, veramente prestiamo il fianco, dando il via libera a pratiche davvero aberranti, cioè al fatto che si paghi una donna per portare in grembo un bambino, per poi cederlo ad un’altra coppia. Questo non è tollerabile ed è vietato dalla legge italiana.

D. – I titoli dei giornali sono forti: “La Cassazione dice sì alla stepchild adoption”. Mi sembra di capire che invece il rischio più immediato sia proprio la strumentalizzazione?

R. – Quasi a far intendere che siamo davanti ad un riconoscimento pieno di una famiglia dello stesso sesso, con la possibilità di adottare pleno iure bambini anche in stato di abbandono. No, questo è un caso particolarissimo, dove il bambino già vive all’interno di questo nucleo e, avendo attivato delle relazioni con una delle parti di questa coppia, secondo la Cassazione ha diritto, dovere – il soggetto che ha attivato queste relazioni – di poter essere considerato quantomeno genitore sociale.

Massimiliano Menichetti       Notiziario Radio vaticana     22 giugno 2016

                http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

 

Il valore di una sentenza.

Ci ha messo sette anni, ma la piccola romana nata dall’amore di due donne, finalmente ha ottenuto di avere due genitori, due mamme, anche sul piano legale. Con la sentenza che ha rifiutato l’impugnazione da parte della Procura generale di Roma, confermando la liceità dell’adozione di una bambina da parte della compagna della madre biologica, la corte di Cassazione ha definito due punti fermi.

Il primo è che il criterio guida per concedere un’adozione, anche “in casi particolari”, è il benessere del bambino/a, non una idea astratta di famiglia. Così come possono essere tolti i figli ai genitori naturali e legittimi, non si può rifiutare un genitore a un bambino solo perché non corrisponde al modello ideale, se la sua disponibilità e capacità ad essere genitore è accertata. Rifiutandolo, si lederebbero i diritti del bambino/a. È il logico compimento della ormai vecchia riforma del diritto di famiglia del 1975, che aveva messo al centro i figli e i loro diritti.

Il secondo punto fermo è che non c’è motivo di presumere che la richiesta di adozione da parte del compagno/a del genitore biologico introduca un possibile conflitto di interessi tra questi e il proprio figlio/a, richiedendo quindi, preliminarmente, la nomina di un tutore. Come ha stipulato la sentenza, infatti, una richiesta di adozione che nasce in un contesto di convivenza e corresponsabilità genitoriale non può essere considerata come una possibile alleanza della coppia contro gli interessi del minore, tanto più se questi è venuto al mondo ed è cresciuto proprio nell’ambito di quella relazione di coppia.

Se il Procuratore generale di Roma Salvi, che aveva impugnato le due successive sentenze che avevano concesso l’adozione, voleva arrivare ad un’interpretazione univoca della norma (come da lui dichiarato a febbraio), ha raggiunto il suo scopo. Dopo questa sentenza i giudici dei Tribunali dei minorenni e delle corti d’Appello non potranno più decidere se concedere o no l’adozione in casi simili sulla base della propria idea di famiglia. Dovranno giudicare esclusivamente alla luce dell’interesse del minore.

Ancora una volta, la giurisprudenza supplisce all’assenza della norma. Certo, non siamo ancora alla piena equiparazione dei figli delle coppie dello stesso sesso ai figli che nascono entro coppie di persone di sesso diverso. Per questi ultimi (inclusi i nati da rapporti incestuosi), sia pure tardivamente (solo nel 2012) è stata eliminata ogni residua distinzione tra figli naturali e legittimi. Ciò significa che i nati dalla stessa coppia, anche se non coniugata, possono essere legalmente fratelli e sorelle ed avere una parentela piena: nonni, zii e zie. Gli adottati in regime di “casi particolari”, invece, non possono essere fratelli e sorelle tra loro se non condividono un genitore biologico ed hanno una parentela molto ristretta. Si dirà che non è importante, che ciò che conta è l’affetto, le relazioni. È vero solo in parte. Le differenze contano quando si tratta non solo di eredità, ma anche di aspettative di solidarietà.

Sono differenze particolarmente importanti in Italia, dove alla solidarietà famigliare è attribuito per legge un ruolo importante, dove i nonni e gli zii sono tenuti al mantenimento, nel caso di impossibilità dei genitori, e così i fratelli e le sorelle. Anche con questa sentenza, che pure è un passo avanti importante, i figli delle coppie dello stesso sesso continuano ad avere meno diritti degli altri.

Chiara Saraceno        La repubblica             23 giugno 2016

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/06/23/il-valore-di-una-sentenza37.html?ref=search

 

I dati lo confermano: l’unica garanzia per i bambini è il matrimonio indissolubile fra uomo e donna.

Gli Stati Uniti sono fortemente empiristi: se una cosa esiste, solo per il fatto che c’è, va accettata. Anche che un bambino possa crescere con due genitori dello stesso sesso. Ma qualcuno ha mai realizzato quali possono essere le conseguenze psico-sociali di questa situazione? l’Università di Austin, che ha pubblicato una ricerca scientifica intitolata “Quanto sono diversi i figli adulti di genitori che hanno relazioni sentimentali con persone dello stesso sesso? I risultati dello studio Le Strutture della Nuova Famiglia”.

            Ci ha pensato Mark Regnerus, professore di Sociologia presso Secondo la sua indagine, quanti sono cresciuti con due persone dello stesso sesso sono dalle 25 alle 40 volte più svantaggiati rispetto ai loro coetanei cresciuti in famiglie composte da genitori di sesso diverso. La ricerca di Regnerus mostra che i primi sono tre volte più soggetti alla disoccupazione (solo il 26 per cento ha un lavoro fisso contro il 60 per cento della media), quattro volte più soggetti a ricevere assistenza pubblica (il 69 per cento contro il 17 per cento dei casi). E molto più inclini ad essere arrestati, a dichiararsi colpevoli di atti criminali, a drogarsi, a pensare al suicidio.

            “Il mio studio è stato il primo a prendere come campione la popolazione nazionale di giovani adulti, già usciti di casa, e cresciuti con persone dello stesso sesso. Abbiamo domandato loro quanto il modo in cui sono cresciuti ha influito sulla loro persona – ha spiegato il professore texano-. Ci siamo accorti che i tassi di disoccupazione, di difficoltà psicologiche, di dipendenza dai servizi sociali erano maggiori nei giovani adulti cresciuti con due persone dello stesso sesso. Nella maggioranza dei casi si tratta di madre biologica divorziata e convivente con un’altra donna”.

            Uno studio dalle conclusioni molto nette che, non a caso, è sempre stato molto contestato dalle associazioni della galassia arcobaleno e che non è stato reso noto a sufficienza perché “le persone sono sempre più ossessionate dalla reputazione, motivo per cui l’ambiente accademico delle scienze sociali è più viziato che mai”.

            La carriera di Mark Regnerus, infatti, era avviata quando è stato pubblicato il suo studio, stava per diventare professore associato, ma dopo la pubblicazione non è stato più invitato ai convegni accademici. Ma lo studioso ha preferito non “voltare le spalle” ai dati scientifici: “Stare di fronte alla sofferenza dei bambini cresciuti con due persone dello stesso sesso e alla serenità di quelli che sono diventati grandi nell’amore stabile di mamma e papà, mi ha impedito di tacere”. Un’asserzione che non significa che un bambino cresciuto con una mamma e un papà non avrà mai problemi, “ma questa è l’unica condizione ideale per poterlo crescere sereno”.

            Chi ha voluto sentire dal vivo le spiegazioni di Mark Regnerus, mercoledì 22 giugno presso il palazzo della Rovere a Roma, ha seguit0 l’evento “L’amore fa la famiglia? Il nuovo mondo tra mito e realtà”, organizzato da Generazione Famiglia. “Proverò a spiegare quello che sta accadendo negli Stati Uniti e che è travisato dai media –ha anticipato il Professore Regnerus –  spiegherò i contenuti del mio studio e il suo sviluppo e perché l’unica garanzia per i bambini è il matrimonio indissolubile fra uomo e donna”.

Fonte: Tempi              Ai. Bi.             21 giugno 2016

www.aibi.it/ita/mark-regnerus-i-dati-lo-confermano-lunica-garanzia-per-i-bambini/

 

Il Governo italiano: «no» solo se è illegale anche all’estero.

             «Perché un fatto possa essere penalmente sanzionato nel nostro Paese è necessario che sia previsto come reato», Ieri dal ministro della Giustizia Andrea Orlando all’interrogazione presentata dal deputato Eugenia Roccella (Idea) che gli chiedeva «quali iniziative intenda intraprendere perché siano implementate le sanzioni previste per il reato di surrogazione di maternità» e se «intenda avvalersi dell’articolo 9 del Codice penale che prevede, per reati commessi all’estero da cittadini italiani» che «il colpevole sia punito “a richiesta del ministro della Giustizia”». La richiesta parte dalla constatazione delle ripetute assoluzioni nei tribunali (e di recente anche in Cassazione) per coppie italiane rientrare in patria con bimbi nati da madre surrogata in Paesi come Ucraina o Russia dove la pratica è legale. Orlando risponde, citando il divieto vigente previsto all’articolo 12 della legge 40, che «deve ritenersi che la procedibilità, secondo la legge italiana, dei reati comuni commessi all’estero dal cittadino sia sottoposta all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto». Amara la replica di Roccella, che parla di risposta «burocratica ed elusiva».

                        Avvenire         21 giugno 2016

www.avvenire.it/Vita/Pagine/Il-Governo-italiano-no-solo-se-e-illegale-anche-allestero.aspx

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PARLAMENTO

Senato 2° Commissione Giustizia. Accesso del figlio alle informazioni sull’identità dei genitori

21 giugno 2016. Esame congiunto dei Ddl. 1978 e 1765, in merito all’accesso del figlio alle informazioni sull’identità dei genitori.

(1978) Modifiche all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e altre disposizioni in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita, approvato dalla Camera dei deputati.

Prosegue l’esame congiunto sospeso nella seduta dell’8 giugno.

Il senatore Giovanardi (GAL), osserva che, dopo colloqui informali con alcune associazioni rappresentanti, da un lato, i sostenitori del diritto all’anonimato della madre e, dall’altro, quelli dell’interesse dei figli a conoscere le proprie origini, riterrebbe opportuno svolgere audizioni delle predette associazioni, prima di proseguire l’esame dei disegni di legge in titolo.

La relatrice Cirinnà (PD) osserva che, essendo state svolte tali audizioni presso l’altro ramo del Parlamento, appare preliminarmente più utile acquisire la relativa documentazione ai fini di un approfondimento adeguato della materia.

Il presidente D’Ascola precisa che gli uffici hanno già provveduto ad inoltrare la richiesta della predetta documentazione e, in ogni caso, l’Ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi potrà essere investito dalla richiesta avanzata dal senatore Giovanardi.

Il seguito dell’esame è infine rinviato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=979433

 

Disposizioni sul cognome dei figli

(1628)Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli, approvato dalla Camera dei deputati in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’iniziativa governativa e dei disegni di legge d’iniziativa dei deputati Laura Garavini ed altri; Marisa Nicchi ed altri; Maria Rosaria Carfagna e Deborah Bergamini; Renate Genhard ed altri; Marilena Fabbri).

(1226) Lo Giudice ed altri. Modifiche al codice civile in materia dei coniugi e cognome dei figli.

(1227) Buemi ed altri. Modifiche al codice civile in materia di cognome dei coniugi e dei figli.

(1229) Lumia ed altri. Modifiche al codice civile in materia di cognome dei figli.

(1230) A. Mussolini ed altri. Modifiche al codice civile in materia di cognome dei coniugi e dei figli-

(1245) Malan. Modifiche al codice c. e altre disposizioni in materia di cognome dei coniugi e dei figli.

(1383) Giovanna Mangili ed altri. Disposizioni concernenti il cognome da assegnare ai figli

21 giugno 2016. Prosegue l’esame sospeso nella prima seduta pomeridiana del 18 maggio 2016.

Il relatore, senatore Lo Giudice (PD) chiede al Presidente di fissare il termine per la presentazione degli emendamenti non essendovi richieste di intervento in discussione generale.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=979433

22 giugno 2016. Prosegue l’esame congiunto, sospeso nella seduta di ieri.

            Il senatore Giovanardi (GAL) dichiara, innanzitutto, la propria contrarietà ai provvedimenti in titolo, nonché alla ratio ispiratrice degli stessi e, in particolare, del disegno di legge n. 1628, approvato dalla Camera dei deputati. Ritiene infatti che la disciplina sul cognome dei figli, proposta dal citato disegno di legge, produrrà effetti deleteri nell’ordinamento che, peraltro, già contempla la possibilità di cambiare il proprio cognome ovvero aggiungere ad esso un altro cognome (articoli 84 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica n. 396 del 2000). Ricorda, poi, che l’attribuzione del cognome del padre al figlio avviene sulla base di una norma consuetudinaria, salvo i casi di filiazione naturale riconosciuta dal padre successivamente al riconoscimento da parte della madre, in cui il figlio naturale può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre (articolo 262 del codice civile). Ritiene, pertanto, improprio introdurre nell’ordinamento una norma che imponga l’obbligo di attribuire al figlio o il cognome del padre o il cognome della madre ovvero il cognome d’entrambi, in quanto ciò significa l’obbligo di effettuare una scelta che può risultare divisiva all’interno del nucleo famigliare. Inoltre, si sofferma criticamente sulla disposizione del disegno di legge n. 1628, che prevede la possibilità di aggiungere al cognome del primo genitore, che ha riconosciuto il figlio, quello del genitore che lo riconosce successivamente. In questi casi, si può verificare anche che entrambi i genitori trasmettano ciascuno un doppio cognome. Di certo non bisogna seguire il modello spagnolo dove i genitori possono trasmettere ai figli più cognomi. Ribadisce, infine, la propria contrarietà alla modifica ordinamentale proposta dai provvedimenti in titolo.

            Il senatore Lumia (PD), innanzitutto, osserva che il disegno di legge approvato dall’altro ramo del Parlamento, quantunque molto complesso, non è frutto di un furore ideologico, ma è stato sollecitato sia dalla Corte costituzionale (sentenza n. 61 del 2006), che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché da atti internazionali che hanno, a vario titolo, stabilito che i genitori debbono poter esercitare il diritto di dare ai propri figli anche il cognome della madre oltre a quello del padre. In particolare la Corte costituzionale, nella sentenza citata, ha richiamato legislatore affinché intervenisse a disciplinare la materia dell’attribuzione del cognome ai figli nel rispetto degli atti internazionali che hanno più volte sancito, anche in questo ambito, la piena realizzazione dell’uguaglianza tra madre e padre. Tuttavia il disegno di legge in esame presenta alcune ambiguità che la Commissione dovrà vagliare attentamente; così si tratta di fare chiarezza sulle disposizioni relative all’attribuzione del cognome ai figli nati fuori dal matrimonio ovvero agli adottati. Risultano altresì ambigue le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 4 relative, rispettivamente, al figlio maggiorenne che può aggiungere al proprio il cognome materno o il cognome paterno, ovvero ai figli nati fuori dal matrimonio che non possono aggiungere, al proprio, il cognome del genitore che non abbia effettuato il riconoscimento. Infine l’oratore si sofferma sulle modifiche da apportare alle norme regolamentari in materia di stato civile che dovranno essere effettuate con un apposito regolamento.

            Il relatore Lo Giudice (PD), in relazione ai rilievi sollevati nella discussione, richiama l’ordinanza della Corte di cassazione del 26 febbraio 2004 che, in parte, fa chiarezza sulle norme relative all’attribuzione del cognome; le predette norme non sono consuetudinarie, come ha affermato il senatore Giovanardi, ma costituiscono norme di sistema, pur in mancanza di una disciplina espressa. Per quanto riguarda poi il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati, si tratta di un testo abbastanza semplice e, per certi aspetti, scarno in ordine ad alcuni profili problematici testé sollevati dal senatore Lumia. Da tale punto di vista, si propone di fare un adeguato approfondimento.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=980313

 

Camera Assemblea   

            2° Commissione Giustizia. Procedibilità del delitto di atti sessuali con minorenne.

(3862) Ferranti. Modifiche all’articolo 609-septies del codice penale, concernenti il regime di procedibilità del delitto di atti sessuali con minorenne.

Testo…www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0041950&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=3862-e-sede=-e-tipo=

21 giugno 2016. In sede referente la Commissione inizia l’esame del provvedimento.

Donatella Ferranti, presidente e relatore, fa presente che la Commissione è chiamata ad esaminare la proposta di legge recante «Modifiche all’articolo 609-septies del codice penale, concernenti il regime di procedibilità del delitto di atti sessuali con minorenne» (C. 3862). Segnala che il provvedimento in esame è stato presentato a seguito di alcuni gravi casi di cronaca che hanno evidenziato un vuoto legislativo in merito alla normativa sugli abusi sessuali in danno di minori. Si tratta, in particolare, dell’ipotesi in cui siano commessi atti sessuali, in cambio di un corrispettivo, nei confronti di un minore di età compresa tra dieci e quattordici anni, per la quale l’ordinamento prevede ancora la procedibilità a querela di parte. Rammenta che, attualmente, il delitto di atti sessuali con minorenne, previsto dall’articolo 609-quater del codice penale, e relativo alle ipotesi nelle quali l’atto è compiuto da un adulto su un minore consenziente (altrimenti si applica il delitto di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609-bis) o tra minori consenzienti, è punito con la reclusione da 7 a 14 anni, quando l’atto sessuale è commesso nei confronti di persona che non ha ancora compiuto 10 anni (quinto comma). In questo caso il delitto è procedibile d’ufficio (articolo 609-septies, quarto comma, n. 5). Il reato è punito con la reclusione da 5 a 10 anni (la stessa pena prevista per la violenza sessuale), quando l’atto sessuale è commesso nei confronti di persona che non ha ancora compiuto 14 anni (primo comma, n. 1). Il delitto è punibile a querela della persona offesa (articolo 609-septies, primo comma). La pena è della reclusione da 5 a 10 anni, quando l’atto sessuale è commesso nei confronti di persona che non ha ancora compiuto 16 anni, della quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza (primo comma, n. 2). Il delitto è punibile d’ufficio (articolo 609-septies, quarto comma, n. 2). La pena è della reclusione da 3 a 6 anni, quando l’atto sessuale è compiuto (sempre al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 609-bis) con persona minore che ha compiuto gli anni 16, dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, o dal tutore ovvero da altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione (secondo comma). Il delitto è punibile d’ufficio (articolo 609-septies, quarto comma, n. 2).

Fa presente che l’articolo unico della proposta di legge modifica l’articolo 609-septies del codice penale, per escludere il delitto di atti sessuali con minorenne (articolo 609-quater del codice penale) dal catalogo dei reati punibili a querela della persona offesa (modifica del primo comma). Tale delitto sarà dunque, sempre, procedibile d’ufficio. Per questa ragione, la previsione che attualmente consente di procedere d’ufficio quando gli atti sessuali coinvolgano un minore di età inferiore a 10 anni diviene superflua ed è dunque abrogata dalla proposta di legge (abrogazione del quarto comma, numero 5). Rileva che nella relazione di accompagnamento si dichiara espressamente che si può arrivare a situazioni limite nelle quali, nonostante la flagranza del reato, la testimonianza del minore e prove schiaccianti, abusi sessuali nei confronti, ad esempio, di un tredicenne, non possono essere perseguiti perché i genitori hanno paura di presentare la denuncia o, nel caso di minori stranieri non accompagnati, il genitore non c’è ed è necessario attivare la lunga procedura della nomina del curatore speciale. La legge, peraltro, non consentendo al minore di proporre querela autonomamente, fa sì che la perseguibilità di tali terribili reati sia rimessa per questa «fascia di mezzo» di minori, di età compresa tra dieci e quattordici anni, alla decisione degli adulti che hanno la responsabilità genitoriale, adulti che non sempre è possibile identificare con tempestività: inoltre, a volte, i medesimi adulti, per paura o addirittura, nei casi peggiori ma purtroppo non così rari, per coinvolgimento e per interesse, non denunciano gli abusi. Osserva, infine, che con la presente proposta di legge si cerca di porre rimedio ad una lacuna normativa che danneggia i minori vittime di abusi sessuali. Invita la Commissione a valutare se sia opportuno procedere a delle audizioni per valutare se il testo debba essere modificato, prevedendo ad esempio una norma transitoria per i procedimenti in corso.

            Laura Venittelli (PD) rileva che il provvedimento in esame, del quale è cofirmataria, è volto a colmare una lacuna normativa che si perpetra a danno dei minori e della quale ha avuto modo di rendersene conto nel corso della sua attività professionale di avvocato. Osserva che, a causa dell’attuale regime di procedibilità previsto per gli abusi sessuali nei confronti di minori con età compresa tra dieci e quattordici anni, si possono verificare situazioni nelle quali, nonostante la flagranza del reato, la testimonianza del minore e prove schiaccianti, gli abusi sessuali nei confronti, ad esempio, di un tredicenne, non possono essere perseguiti in quanto i genitori hanno paura di presentare la denuncia o, nel caso di minori stranieri non accompagnati, il genitore non c’è ed è necessario attivare la lunga procedura della nomina del curatore speciale. Pertanto, considerato che la legge non consente al minore di proporre querela autonomamente, la perseguibilità di reati gravissimi a danno dei minori, di età compresa tra dieci e quattordici anni, è rimessa alla decisione degli adulti che hanno la responsabilità genitoriale. Questi possono non essere a conoscenza dei fatti, possono conoscerli e non presentare querela per le più svariate ragioni o addirittura possono essere coinvolti. Auspica che il provvedimento possa trasformarsi in legge nei tempi più rapidi.

Donatella Ferranti, presidente, nessuno chiedendo di intervenire, rinvia, quindi, il seguito dell’esame ad altra seduta.

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www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2016&mese=06&giorno=21&view=&commissione=02&pagina=data.20160621.com02.bollettino.sede00020.tit00010#data.20160621.com02.bollettino.sede00020.tit00010

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UNIONI CIVILI

Matrimoni, unioni civili, convivenze di fatto: cosa cambia?

Profili di legittimità costituzionale della nuova normativa

                        Michele Belletti – in Istituzioni

www.osservatorioaic.it/matrimoni-unioni-civili-convivenze-di-fatto-cosa-cambia-profili-di-legittimit-costituzionale-della-nuova-normativa.html

 

Convivenze con comunione di beni. Consiglio nazionale del Notariato

In una nota le «istruzioni» per i contenuti economici degli accordi. Convivenze con comunione di beni. Il contratto può modificare il regime di separazione che è quello legale.

            Se nel matrimonio e nelle unioni civili il regime patrimoniale legale è quello della comunione dei beni (salvo che, mediante una convenzione, non sia scelto il regime di separazione), nelle convivenze di fatto accade l’esatto contrario: il regime legale è quello di separazione dei beni, fatta eccezione per il caso in cui la convivenza sia registrata in anagrafe e i conviventi stipulino un contratto di convivenza nel cui ambito scelgano di adottare il regime di comunione dei beni. È preclusa invece ai conviventi la stipula del fondo patrimoniale (consentita invece ai coniugi e agli uniti civili) mentre pare ammissibile l’adozione di un regime di “comunione convenzionale” (vale a dire un regime di comunione modificato rispetto alla disciplina del regime di comunione legale dei beni recato dal Codice civile).

Sono queste alcune delle considerazioni che il Consiglio nazionale del Notariato svolge in una nota intitolata «La nuova legge sulle unioni civili e le convivenze. Profili generali degli istituti».

Nelle convivenze di fatto, i rapporti patrimoniali hanno una duplice disciplina: alcune regole “di base”, applicabili a qualsiasi convivenza di fatto e, per le convivenze registrate in anagrafe, nel cui ambito sia stipulato un contratto di convivenza, le norme recate appunto dal contratto di convivenza. Quanto alle regole “di base”, meritano di essere sottolineate, per rilevanza le seguenti:

  • il diritto del convivente superstite, in morte dell’altro convivente, di abitare la casa di comune convivenza per due anni (che diventano tre in caso di coabitazione di figli minori o di figli disabili del convivente superstite) o per un periodo pari alla durata della convivenza se superiore a 2 anni, e comunque fino ad un massimo di 5 anni;
  • il diritto del convivente superstite, in morte dell’altro convivente, di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza;
  • il diritto del convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa del partner, di partecipazione agli utili in commisurazione al lavoro prestato.

Quanto ai contratti di convivenza (che devono essere redatti in forma scritta con atto pubblico o con scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, fatta eccezione per gli atti che comportano trasferimento di diritti reali immobiliari, i quali sono di esclusiva competenza notarile), essi possono anzitutto contenere le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascun convivente e alla rispettiva capacità di lavoro professionale e casalingo.

Inoltre, il contratto può contenere appunto l’opzione per l’instaurazione del regime di comunione dei beni, con l’effetto che gli acquisti compiuti da ciascun convivente durante il periodo di convivenza profittano anche all’altro convivente. Probabilmente, come già accennato, il contratto di convivenza può disporre anche qualche modifica rispetto al regime legale della comunione: ad esempio, disporre che siano soggetti a comunione anche gli acquisti anteriori alla convivenza oppure che i redditi dei conviventi siano soggetti a comunione immediata (e non alla cosiddetta comunione de residuo, e cioè a quella che si origina al momento della cessazione del regime di comunione “legale”).

Secondo la legge 76, il contratto di convivenza non può essere soggetto a termini e condizioni: ma si tratta di una espressione legislativa che pare doversi riferire al rapporto di convivenza come tale (come se Tizio e Caia convenissero di stare in convivenza per cinque anni) e non ai rapporti patrimoniali tra conviventi: insomma, pare lecito che il contratto di convivenza contenga accordi patrimoniali per il caso della cessazione dello stato di convivenza.

Angelo Busani      il sole 24 ore   22 giugno 2016

www.oua.it/unioni-civili-convivenze-con-comunione-di-beni-il-sole-24-ore

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