newsUCIPEM n. 601 – 12 giugno 2016

 

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 Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

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Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Le news sono così strutturate:

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ADDEBITO                                                         No addebito a moglie che se ne va di casa prima della separazione

ADOZIONE INTERNAZIONALE                   Le agevolazioni fiscali per chi adotta un minore straniero!

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Un corridoio umanitario per l’adozione internazionale

AMORIS LAETITIA                                           Il percorso a tappe di Amoris laetitia.

Alla scoperta di AL: fisiologia e patologia in nuova relazione.

ANONIMATO                                                   Il diritto alla segretezza del parto.

CASA FAMILIARE                                            Assegnazione parziale casa familiare.

CENTRO ITALIANO SESSUOLOGIA           Notiziario del Centro Italiano di Sessuologia

CHIESA CATTOLICA                                        L’”essere oltre” e il ”venire da altrove” di Francesco.

Francesco e il modello ottocentesco da superare.

                                                                              La Chiesa e le donne, se l’apertura è un ritorno alle origini.

Misericordia, giustizia, verità. Nuove noterelle.

Gradualità della legge e legge della gradualità. Una risposta

CHIESE EVANGELICHE                                  50 anni fa veniva consacrata la prima donna pastora.

Iniziativa che potrebbe rivelarsi la più importante del pontificato.

La Chiesa e le donne, se l’apertura è un ritorno alle origini.

CINQUE PER MILLE                                         Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

CONSULENZA FAMILIARE                           Il consulente familiare

CONSULTORI FAMILIARI                             Consultori Familiari Oggi

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Padova. Iniziative in programma.

Trento  Prendersi cura delle relazioni.

DALLA NAVATA                                              11° Domenica del tempo ordinario – anno C -12 giugno 2016.

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

DIACONATO                                                     Breve storia dell’ordinazione delle donne al diaconato.

DIRITTI                                                                Presentazione del 9° Rapporto CRC.

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         Puglia. Il presidente Emiliano incontra il Forum. 11 giugno 2016

Preziosi (Pd): subito FattoreFamiglia e Fopac. 9 giugno 2016.

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA          Papa a Cei: tavolo di lavoro su processo di riforma matrimoniale.

GOVERNO                                                         Legge Unioni civili in vigore

PARLAMENTO   Senato 2° C. Giustizia   Accesso del figlio alle informazioni sull’identità dei genitori

Camera Assemblea        Question time: fondo per le adozioni internazionali.

Comm. Infanzia               Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

PASTORALE FAMILIARE                                               La famiglia come soggetto

UNIONI CIVILI                                                  Coppie di fatto, l’allarme dei giudici: 1 su 2 ora perderà i suoi diritti.

                               La Cirinnà ha effetti soprattutto sugli etero

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ADDEBITO

Niente addebito alla moglie che se ne va di casa prima della separazione

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 11785, 8 giugno 2016

Niente addebito alla moglie che lascia il tetto coniugale poco prima della separazione. E per di più se non ci sono le prove sul presunto tradimento asserito dal marito, va conservato anche il diritto all’assegno di mantenimento. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ordinanza allegata, rigettando il ricorso di un ex marito avverso la sentenza della corte d’appello di Roma che aveva revocato la dichiarazione di addebito della separazione alla moglie disposta in primo grado e posto a suo carico un assegno di mantenimento di 800 euro mensili, ritenendo non provata l’asserita relazione extraconiugale della donna. L’uomo, ovviamente, non ci sta e per questo ricorre innanzi alla S.C. impugnando la sentenza di merito.

            Ma per gli Ermellini, va confermato quanto stabilito dalla corte d’appello, la quale ha ritenuto non provati i comportamenti violativi di doveri coniugali di fedeltà e di assistenza da parte della moglie mentre ha deciso che l’allontanamento dal domicilio coniugale da parte della stessa è avvenuto “in prossimità del giudizio di separazione, quando la frattura tra i due coniugi era già apparsa irreversibile”. Per cui, ciò fa riscontrare “l’assenza di un nesso causale tra tale atto e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza”.

            Per di più, ha statuito il Palazzaccio, rigettando il ricorso, la decisione è conforme ai criteri legislativi e giurisprudenziali anche sull’assegno di mantenimento, che va confermato in modo da dare la possibilità al “coniuge più debole economicamente di conservare con i propri mezzi un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio”.

Marina Crisafi                       Studio Cataldi.it                     8 giugno 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22375-niente-addebito-alla-moglie-che-se-ne-va-di-casa-prima-della-separazione.asp

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Le agevolazioni fiscali per chi adotta un minore straniero!

Non tutte le spese vengono per nuocere, soprattutto quelle effettuate per l’adozione di minori stranieri. Chi avvia una pratica di adozione internazionale, infatti, può usufruire di un’agevolazione fiscale, che prevede la deducibilità del 50% delle spese sostenute dai genitori adottivi. Sono deducibili le spese sostenute tra la data del conferimento dell’incarico all’ente autorizzato e quella dell’ingresso in Italia del minore o dei minori adottati.

            Le spese devono poi essere supportate da pezze giustificative fiscalmente valide e, ovviamente, essere inerenti la procedura adottiva. Possono quindi essere portate in deduzione, al momento della compilazione dei modelli di dichiarazione dei redditi 730/2016 e Unico Persone Fisiche 2016, i costi sostenuti per l’assistenza che i genitori adottanti hanno ricevuto, la legalizzazione e traduzione dei documenti, i visti e le spese di trasferimento e soggiorno necessarie nel corso dei periodi pre-adottivi da trascorrere nel Paese di origine del minore adottato, le quote associative eventualmente richieste dall’ente che segue l’iter adottivo e le altre spese sostenute nei confronti dello stesso ente.

            La procedura da seguire è piuttosto bizantina. I genitori adottivi devono autocertificare all’ente autorizzato, che ha seguito la loro pratica, le spese sostenute, tramite una dichiarazione sostitutiva di atto notorio. Sulla base di quest’ultima l’ente autorizzato certifica a sua volte le spese ai genitori adottivi, che possono quindi portarle in deduzione nella dichiarazione dei redditi.

            Il principio da usare per la deduzione è quello di cassa: gli oneri sostenuti nel 2015 devono quindi essere inseriti nella dichiarazione 2016. Non sarà più possibile farlo in seguito.

            Infine, le spese sostenute in un’altra valuta devono essere convertite in euro, utilizzando il cambio indicativo di riferimento del giorno in cui i soldi sono stati percepiti o sostenuti. Se in quei giorni il cambio non è stato fissato, va utilizzato il cambio medio del mese.

            La normativa prevede poi anche un rimborso parziale, a seconda del reddito della famiglia adottiva, del 50% dei costi che non possono essere portati in deduzione nella dichiarazione dei redditi. Il rimborso sarebbe da richiedere alla Commissione adozioni internazionali, secondo le indicazioni e i moduli da questa annualmente emanate. Purtroppo, l’erogazione di questi rimborsi è oggi ferma, senza una qualche spiegazione del motivo, e stanno ancora attendendo il rimborso non poche coppie, che hanno concluso la propria adozione nel 2011.

News Ai. Bi.    7 giugno 2016                         www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Un corridoio umanitario per l’adozione internazionale

Come è possibile che non si sia ancora creato un corridoio umanitario per incoraggiare le adozioni di quei 160 milioni di bambini abbandonati nel mondo censiti dalle Nazioni Unite? Se lo chiede la giornalista Gabriella Caramore in questo editoriale, che riportiamo integralmente, pubblicato sul periodico cattolico “Adama. Terra dei viventi”.

            Proviamo a partire dal “bisogno” invece che dai “diritti”. Parlare di “diritti” oggi è più complicato che mai. Le nuove frontiere della ricerca, la complessità della situazione mondiale, le contrapposte tensioni ideali rendono quasi impossibile dare una definizione univoca dei “diritti” degli individui. Tant’è che – per lo più in buona fede, ma non sempre – si appellano strenuamente alla categoria di “diritto” persone di opposto parere nelle questioni etiche e di principio.

            Proviamo allora a partire dal “bisogno”, certamente più facile da identificare. E dal bisogno di creature più piccole, più indifese, più a rischio del pianeta: i bambini. Quanti bambini nel mondo non hanno nessuno che si prenda cura di loro, che dia loro latte e pane, carezze e cure, gioco e istruzione, protezione e guida: tutto ciò di cui un bambino ha “bisogno” per farsi uomo o donna? L’Onu, l’Unicef parlano di cifre impressionanti: 150, 160 milioni. Come è possibile che dare a questi piccoli un nucleo familiare che li accolga non divenga per noi una priorità assoluta? Come è possibile che non ci venga in mente di creare ora, subito, dei cordoni umanitari per facilitare le adozioni da parte di chiunque abbia da donare amore e premura, dedizione e futuro? Dice un versetto del profeta Isaia: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me” (Is 49, 15-16). Se si pensa che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, dovremmo voler essere come lui anche nella cura dei dimenticati e degli abbandonati.

            E’ probabile che, ponendo questa priorità davanti agli occhi di tutti, verrebbe indebolita l’esigenza di un figlio “del proprio sangue” a tutti i costi. E ci sarebbero forse meno occasioni perché una donna voglia dare il proprio utero – ammettiamo pure che non ci sia sfruttamento e che si tratti sempre di un “donare disinteressato” come si dona un rene, una cornea, il proprio cuore – per la gestazione di un nuovo bambino.

News Ai. Bi.    8 giugno 2016                         www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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AFFIDO

Newsletter Aprile-Giugno 2016 -31 maggio 2016                           www.tavolonazionaleaffido.it

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AMORIS LAETITIA

Il percorso a tappe di Amoris laetitia.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

In molti, anche ministri ordinati, si chiedono quale comportamento la comunità ecclesiale e, ancor più nello specifico, i confessori debbano assumere nei percorsi di integrazione dei divorziati risposati nella vita della comunità, in accordo alle sollecitazioni dell’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL). Per formulare una risposta a questo quesito, per molti aspetti inedito, si seguirà, per cercare di evitare presentazioni personali, l’unica via perseguibile che è quella di riportare, per quanto possibile, le “stesse parole” che il papa ha voluto utilizzare in AL per guidare la Chiesa e i suoi pastori.

            Chiesa “ospedale da campo”. «La Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto, riconoscendo che la grazia di Dio opera anche nelle loro vite dando loro il coraggio per compiere il bene, per prendersi cura con amore l’uno dell’altro ed essere a servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. […] La Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta» (AL 291).

            Quindi la rotta che imposta il papa è quella di accompagnare e discernere per giungere alla integrazione possibile delle fragilità esistenziali. Su questa rotta i fari indicati sono due: • il discernimento ecclesiale • la coscienza soggettiva.

            Discernimento ecclesiale. «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (…). Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita! (…) Sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (AL 296).

«Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!» (AL 297).

«I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse (…). Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione» (AL 298).

            A questo punto è inserita la nota 329, qui di seguito riportata per esteso, che, richiamando Gaudium et spes n. 51, chiude la singolare vicenda dell’astinenza sessuale come via per la riammissione all’eucaristia dei divorziati risposati: «(cfr) Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Familiaris consortio (22 novembre 1981), 84: AAS 74 (1982), 186. In queste situazioni, molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere “come fratello e sorella” che la Chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, «non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli» (Concilio ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 51)». La norma di FC 84 viene confutata, perché non consente di realizzare il valore, cioè l’educazione dei figli, per cui era stata formulata!

            Papa Francesco poi conclude: «E’ possibile […] un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi», le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi» (AL 300). Qui è inserita la nota cruciale 336, che, secondo l’insegnamento di San Tommaso (vedi AL 304 e successiva nota 348), estende questa condizione anche alla disciplina sacramentale nei termini di seguito riportati: «Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. Qui si applica quanto ho affermato in un altro documento: cf. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44.47: AAS 105 (2013), 1038-1040».

            La coscienza soggettiva. Esame di coscienza. «I presbiteri hanno il compito di «accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento […]. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi [1] come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; [2] se ci sono stati tentativi di riconciliazione; [3] come è la situazione del partner abbandonato; [4] quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; [5] quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio [la numerazione in parentesi quadra è stata aggiunta al testo dell’Esortazione]. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno» (AL300).

            Colloquio in foro interno non sacramentale. «Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che «orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio, n. 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa. (…). Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL 300).

            Circostanze attenuanti. «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa» (AL 301).

«Riguardo a questi condizionamenti il Catechismo della Chiesa cattolica si esprime in maniera decisiva: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere diminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali». In un altro paragrafo fa riferimento nuovamente a circostanze che attenuano la responsabilità morale, e menziona, con grande ampiezza, l’immaturità affettiva, la forza delle abitudini contratte, lo stato di angoscia o altri fattori psichici o sociali. Per questa ragione, un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta» (AL 302).

«La coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. (…) Questa coscienza (…) può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (AL 303).

            Foro interno sacramentale e accesso ai sacramenti. «Un pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa. (…). A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL 305).

            Qui è inserita la decisiva nota 351, che così prosegue: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)».

            «Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. (…). La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà» (AL 305).

In sintesi può essere così riepilogato il “percorso a tappe” indicato dal romano pontefice:

  1. Discernimento ecclesiale: la Chiesa non può condannare eternamente nessuno e deve cercare sempre la massima integrazione possibile. In questa prospettiva i sacramenti non sono un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli.
  2. La coscienza oggettiva ecclesiale non è sovrapponibile alla coscienza soggettiva personale. La situazione personale analizzata e meditata dalla coscienza credente, pastoralmente supportata, porta il fedele alla propria valutazione spirituale e alle consequenziali decisioni esistenziali ed ecclesiali.
  3. Questo percorso del fedele è articolato in foro interno, ma in due tempi diversi: il primo non sacramentale nel colloquio pastorale, possibile anche con laici (vedi AL 312), il secondo sacramentale, se scelto in quanto ritenuto necessario e accettato dal fedele, nella celebrazione della confessione con un presbitero per l’ammissione all’eucaristia.
  4. Il discernimento ecclesiale, attuato in ultima istanza dal presbitero, non comporta la verifica della piena corrispondenza della situazione esistenziale del fedele all’ideale oggettivo della norma, ma alla sincerità della valutazione soggettiva presentata dal fedele e alla sua volontà di fare tutto quanto è in suo potere per perseguire il bene.
  5. La logica pastorale di AL intende realizzare il “bene possibile” (AL 308) presente nelle situazioni esistenziali, anche se difficili e controverse, operando nell’ambito di una comunità che se ne fa carico. In questo si può leggere un rinvio anche a servizi diocesani appositamente disposti per l’accompagnamento delle persone in tali situazioni.

            Andrea Volpe                                                8 giugno 2016

www.lindicedelsinodo.it/2016/06/il-percorso-tappe-di-amoris-laetitia.html#more

 

                        Alla scoperta di Amoris Laetitia (16): fisiologia e patologia in nuova relazione

            Tra le “cose nuove” che possiamo trovare in AL si deve annotare una nuovo consapevolezza della decisiva relazione che si è istituita, lungo la storia, tra configurazione della “natura del matrimonio” e i rimedi che sono stati offerti per la esperienza della sua “crisi”. Potremmo quasi dire che vi è stato, negli ultimi 150 anni, un modo di pensare e di strutturare la “fisiologia matrimoniale” – sul piano teologico e sul piano giuridico – che ha imposto di pensare la “patologia” soltanto in certe forme e entro certi limiti. Per questo vorrei procedere ad una rilevazione di AL circa la “patologia”, per desumerne anche la presenza di un “modello fisiologico” diverso. Ma per farlo, vorrei scoprire anzitutto come ha funzionato negli ultimi due secoli questa delicata istituzione ecclesiale.

  1. La tradizione ottocentesca fino ai primi decenni del 900. Come ha fatto con la terminologia della “inerranza” per la Scrittura, o della “infallibilità” per il papato, l’800 ha lavorato anche sulla determinazione della “indissolubilità” nel matrimonio. Lo schema di comprensione è stato predisposto, gradualmente, prima da Pio IX, poi attraverso Leone XIII fino a Pio XI. A cominciare dal discorso di Pio IX davanti ai cardinali del 1852, per poi passare attraverso Arcanum divinae sapientiae di Leone XIII nel 1880, il Codice pio-benedettino del 1917 e arrivare a Casti connubii di Pio XI nel 1930, il percorso di definizione del matrimonio come “istituzione divina” ha maturato una serie di caratteristiche peculiari, che riassumo nella bella lettura offerta da P. Huenermann (“Il Regno” 8/2015, 553-560)

a)      una lettura fondamentalista della Scrittura ha preteso di desumere direttamente dal testo biblico una normativa canonica sul matrimonio;

b)      si è pensato il matrimonio come interamente normato da Dio, e quindi sottratto alla libertà dell’uomo e della donna, secondo la lex naturalis e la Parola del Signore;

c)      ovviamente non si è negata la “partecipazione” dell’uomo e della donna, ma riducendola solo nel “libero consenso originario”, come forma con cui obbedire al modello fornito da Dio, al quale i battezzati debbono semplicemente aderire e uniformarsi, senza alcun esercizio della libertà.

Nelle parole di Peter Huenermann tale posizione può essere così riassunta:

“Il principio ermeneutico in base al quale nella Casti Connubii s’interpretano i testi sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento recita: Dio ha creato il matrimonio come creatore dell’uomo e della donna e al tempo stesso ha pienamente regolato mediante leggi divine, annunciate da Dio attraverso la natura o Gesù Cristo. 32 Ne consegue un fondamentalismo teologico, plasmato da un pensiero giuridico, che presenta i fondamenti biblici in un modo grossolanamente semplificato.” (556)

            Ciò significa che ad una descrizione della fisiologia matrimoniale così concepita, nella quale l’intero ordinamento del matrimonio è completamente sottratto alla “disponibilità” dei soggetti implicati, ogni possibile “crisi” deve essere imputabile non certo a Dio – il cui paradigma matrimoniale è ovviamente fuori da ogni possibile valutazione – ma al “consenso originario” di uomo e donna. Solo la rilevazione di un “vizio originario” di quell’atto personale e inimitabile, che si esprime nel consenso, può illuminare la “crisi del matrimonio” con la rilevazione di una originaria “nullità”. Potremmo dire, quindi, che è il modello di ermeneutica della tradizione, offerto dalla riflessione del XIX secolo, ad imporre non solo una lettura positiva del matrimonio, ma anche la “terapia” per il caso di crisi. Le nostre prassi giudiziarie “obbligate” di oggi non sono affatto il nostro “destino” di cattolici, ma il frutto di una teoria inadeguata del matrimonio dal punto di vista sistematico e giuridico.

  1. La nuova “mens” e la nuova terminologia di AL. Data la forza e la autorevolezza di questa risposta divenuta classica a partire dalla metà del XIX secolo, e che ha dunque più di un secolo di vita, anche AL riprende necessariamente tale profilo, che caratterizza la tradizione ecclesiale da tanto tempo. Ma in AL appare, in parallelo, non solo una “risorsa nuova per la patologia”, ma una rilettura diversa della fisiologia matrimoniale. Ed è qui il punto nuovo che merita di essere segnalato più di quanto finora non sia accaduto. Ossia che AL, con il suo approccio “pastorale”, non solo inaugura percorsi di “accompagnamento, discernimento e integrazione” come luoghi di rimedio alle “fragilità”, ma imposta diversamente lo logica della fisiologia matrimoniale, il modo di comprendere la relazione tra “disegno di grazia” e “risposta della libertà”. Tale nuova comprensione, uscendo dalle secche di un fondamentalismo tanto rigido quanto falso, elabora un nuovo ruolo della libera coscienza e della storia del soggetto. Per questo può dischiudere un nuovo terreno di mediazione, nel quale si ritorna a dare la prima parola alla realtà e al tempo, contro la ideologia del primato delle idee e dello spazio.

E’ sufficiente notare come nel testo di AL ricorra per 4 volte la espressione “fallimento del matrimonio” (AL 40, 209, 242, 286): una tale terminologia – che B. Petrà aveva già segnalato durante il percorso sinodale (cfr. www.lindicedelsinodo.it/2015/09/i-motu-proprio-i-fallimenti-i-processi.html14 settembre 2015) – introduce una dimensione nuova nel dibattito storico. Che il matrimonio sia “fallito” introduce una variabile che la tradizione recente ha voluto ostinatamente negare, spostando ogni possibilità di giudizio dal “fallimento successivo” alla nullità originaria. Sotto questo profilo AL assume un linguaggio esplicitamente diverso, introducendo una diversa “teoria del vincolo”.

  1. Lo scandalo dei giuristi e l’interesse dei teologi. Il “fallimento del matrimonio” è quindi una espressione che, considerata dal punto di vista del canonista di formazione classica, facilmente può essere giudicata “imprecisa” e “fuorviante”. Questa obiezione rispecchia un giudizio che in senso più generale si sente sollevare verso AL, che sarebbe un testo “impreciso” e “fuorviante”. Lo dicono alcuni giornalisti, lo dicono anche alcuni teologi. Pochi pastori lo sussurrano. Ma perché? Non vi è dubbio che il giudizio venga espresso “rispetto ad un modello”. Certamente, rispetto al modello dell’800, AL opera una grande trasgressione: fa prevalere la realtà sulla idea e il tempo sullo spazio. Per questo, a chi è abituato ad affrontare la tradizione con il primato della idea da pensare sulla realtà e dello spazio da occupare sul tempo per camminare, AL appare come documentalo dissonante e trasgressivo. Soprattutto a quei canonisti, che hanno legato la loro identità ad un presunto modello immutabile–che per loro è tale solo perché ne hanno rimosso la mutazione–, il testo di AL appare quasi sconcertante. Perché esso configura un orizzonte di comprensione e di azione profondamente mutato, cambiando le regole del gioco. La realtà e il tempo riacquistano autorità e chiedono di essere dimensioni apertamente riconosciute. Così facendo, AL inverte la tendenza che gradualmente si era imposta nel corso della storia. Avevamo elaborato un “diritto canonico sostanziale” con i criteri teologici e dogmatici che ho ricordato prima, e con tutta la loro fragilità. Sulla base di questo diritto sostanziale, avevamo costruito una “cattedrale procedurale” che ulteriormente si autopromoveva come “unica soluzione possibile e legittima”. Questo è un “doppio salto mortale”: la formalizzazione giuridica e poi quella procedurale diventano gli “schemi” di una generale pastorale del matrimonio. In tal modo il pastore rischia di pensare come “primum” proprio il livello più alto di formalizzazione procedurale, perdendo in questo modo gran parte del sano rapporto con la realtà. Con AL entriamo in un percorso di “riascolto” del reale, senza gli schermi distorti di una procedura canonica e di un diritto canonico che trasudano incomprensione dogmatica, semplicismo biblico e aggressività istituzionale. L’esito ultimo di AL sarà di certo – anche se non so tra quanti anni – una riformulazione complessiva del diritto matrimoniale sostanziale.
  2. I giochi dei bambini e la immunizzazione dal reale. Le dinamiche a cui la Chiesa si è adattata, a causa del pensiero angusto che l’ha dominata prevalentemente negli ultimi 150 anni, possono essere comprese attraverso un esempio piuttosto sorprendente. I giochi dei bambini. Quando i bambini giocano possono farlo in tanti modi. Ma vi è un modo in cui un bambino di dispone a giocare solo quando è certo di vincere. E fa in modo che le regole, le modalità, i tempi, le competenze siano tutte a suo favore. Anche la Chiesa ha voluto mettersi al riparo, nel matrimonio, della esperienza della sconfitta. Ha predisposto uno strumento teorico mediante il quale, come istituzione, nel matrimonio, essa esce sempre vincente, a costo di farne uscire i soggetti come doppiamente perdenti. Perché, in effetti, lo strumento elaborato tra fine 800 e primi 900 aveva il vantaggio di “vincere sempre”. Convinceva e si convinceva che “indissolubilità” fosse sinonimo di “infrangibilità”. E che ogni problema interno al vincolo fosse riconducibile ad un vizio originario del vincolo stesso. Dunque che il “fallimento” fosse escluso a priori. Perché se c’era il vincolo, non c’era fallimento possibile. Ma se il fallimento si manifestava, si poteva sempre dimostrare che il vincolo non era mai esistito. Di fronte a questa “macchina del nulla”, che potrebbe perpetuarsi fino alla parousia, la doccia fresca di AL giunge opportuna e benedetta. Una traduzione della dottrina matrimoniale richiede un “bagno di umiltà”, una immersione spregiudicata nella realtà, che ora possiamo leggere in modo nuovo e senza pregiudizi.

In tale bagno, la dottrina non è stata affatto messa “in discussione”, ma posta “in traduzione”. Una disciplina rinnovata ne sarà lo specchio fedele ed efficace. La cui efficacia non potrà più subire pause, esitazioni o rinvii: la vocazione pastorale della esperienza cristiana del matrimonio e della famiglia non può più attendere. Ma la attesa non è solo della Chiesa, ma anche della cultura comune. Offrire una mediazione non fondamentalistica e non ingenua alla inesauribile forza della comunione coniugale, che sappia tener al proprio interno anche la possibilità della sua crisi irreparabile, è una legittima aspettativa non solo delle coscienze credenti, ma delle coscienze tout-court. Che non hanno bisogno di inventare quello che non c’è, ma di leggere cristianamente quello che la esperienza ha già elaborato, sia pure con fatica e con limiti evidenti. Ma poterlo leggere non solo “per il peccato”, ma anche “per la grazia” è un dono che riceviamo da AL. Il dono può anche essere non accettato o rifiutato addirittura: ma, per favore, non lo si chiami “confusione” o “ambiguità”.

Andrea Grillo      blog: Come se non                 10 giugno 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-16-fisiologia-e-patologia-in-nuova-relazione

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ANONIMATO

Il diritto alla segretezza del parto.

Difendiamo il diritto alla segretezza del parto garantito dallo stato per cento anni che ora il parlamento mette in discussione. Preveniamo una grave violenza nei confronti di decine di migliaia di donne indifese

            Lettera aperta ai partecipanti del Convegno sul tema Madri Sole. Inclusione, accoglienza e accompagnamento all’autonomia dei nuclei madre-bambino, Pompei, 20 maggio 2016

            La Camera dei Deputati ha approvato il 18 giugno 2015 il disegno di legge “Modifica all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e altre disposizioni in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita”, ora all’esame dell’esame della Commissione Giustizia del Senato con il n. 1978 (relatore la Sen. Cirinnà). Questo testo contiene norme pericolose per le donne che hanno scelto di partorire in anonimato non riconoscendo il proprio nato al momento del parto (sono circa 90 mila in Italia dal 1950 ad oggi).

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/926305/index.html

I punti su cui riteniamo debba essere modificato l’attuale testo, su cui intendiamo richiamare l’attenzione e l’attivazione di tutti voi sono questi.

  1. Deve essere preservato il diritto alla segretezza del parto di cui si sono avvalse le donne, diritto garantito loro dallo Stato per cento anni prima dalla legge n. 2838/1928 e attualmente dalla legge n. 196/2003. Non è ammissibile che siano i nati da queste donne ad avviare il procedimento presso il Tribunale per i minorenni affinché le rintracci, se tali donne non hanno preventivamente manifestato la loro disponibilità al riguardo, perché nei fatti verrebbe violato il diritto alla segretezza ancora riaffermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 278 del 2013. Le loro istanze sarebbero inevitabilmente prese in esame da un numero elevato di persone: i Giudici, i Cancellieri e la Polizia giudiziaria del Tribunale per i minorenni cui si rivolge l’interessato, i responsabili dei reparti maternità, gli impiegati addetti alla conservazione del plico in cui sono indicate le generalità della donna e del neonato, il personale dell’Agenzia delle Entrate incaricato di rintracciare attraverso il codice fiscale l’ultima residenza della donna, gli altri Giudici, i Cancellieri  incaricati di contattarle, il personale, anche impiegatizio, i servizi sociali interpellati al riguardo dai Tribunali (è assai probabile che le donne non abitino più nelle città in cui hanno partorito). Inoltre le lettere di convocazione, indirizzate alle donne (su carta intestata del Tribunale o della Procura per i minorenni o da altro Ente?) per verificare la loro disponibilità ad incontrare i propri nati, potrebbero molto facilmente essere viste dai loro familiari. Quanto previsto dall’articolo 1 lettera c) del disegno di legge n. 1978 secondo cui il Tribunale le contatterebbe “con modalità che assicurino la massima riservatezza” e “avvalendosi preferibilmente del personale dei servizi sociali” non dà nessuna garanzia in merito, visti i numerosi passaggi previsti; la stessa precisazione secondo cui il Tribunale nel contattare la donna che ha partorito in anonimato dovrebbe tenere conto “in particolare, dell’età e dello stato di salute psico-fisica della madre nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali” è una falsa garanzia, in quanto irrealizzabile, poiché il Tribunale in base allo stesso articolo dovrebbe prima, in ogni caso, accedere alla sua identità per relazionarsi con lei. L’iter necessario per risalire alla identità è comunque quello sopra descritto e può esporre le donne rintracciate a possibili ricatti ed atti diffamatori da parte di quanti, anche indirettamente, vengano a conoscenza della loro identità (pensiamo a certe trasmissioni televisive o alla gogna mediatica cui potrebbero essere esposte a loro insaputa e contro la loro volontà tramite i vari social network). Non è da dimenticare poi che la possibilità del non riconoscimento del neonato e la garanzia della segretezza dell’identità della donna, sono anche uno strumento a difesa della stessa vita di donne che provengono da contesti in cui per tradizioni o pratiche di origine religiosa, l’avere rapporti sessuali o partorire al di fuori del matrimonio viene “punito” anche con l’uccisione.
  2. Deve essere abolita la disposizione in base alla quale le donne per conservare il diritto all’anonimato devono segnalare la loro volontà, svelando quindi la loro identità, al Tribunale per i minorenni e, conseguentemente, a tutto il personale che vi opera. In base a quanto previsto nel testo approvato alla Camera, per escludere la possibilità di essere interpellate su richiesta del proprio nato, le donne che, in futuro intenderanno intendono avvalersi della facoltà di partorire in anonimato, dovranno “decorsi diciotto anni dalla nascita del figlio, confermare la propria volontà”: questa previsione di fatto vanifica la sicurezza dell’anonimato, in quanto le donne, per comunicare la loro mutata volontà, dovranno, inevitabilmente, svelare i loro dati anagrafici. Non dovremo quindi stupirci se in futuro le gestanti che non intendono riconoscere il proprio nato, non potendo più contare sulla sussistenza, per cento anni, della garanzia dell’anonimato e della segretezza del parto, non si rivolgeranno più all’ospedale per partorire e se aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati in luoghi e con modalità che metteranno in pericolo la loro vita; il ricorso alle così dette “culle termiche”, prospettato da alcuni, non è una soluzione accettabile in quanto, tra l’altro, presuppone che il parto non abbia luogo in una struttura sanitaria e quindi senza le condizioni di sicurezza sia per la donna che per il neonato. Inoltre – fatto ancora più grave in quanto viola il patto suggellato da una legge dello Stato con le donne che si sono avvalse in passato del parto in anonimato – la normativa approvata dalla Camera dei Deputati prevede che queste donne, per evitare di essere interpellate dietro richiesta del proprio nato diventato maggiorenne, debbano “entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge confermare la propria volontà comunicandola al Tribunale per i minorenni del luogo di nascita del figlio”, svelando così la propria identità! Il tutto dovrebbe oltretutto avvenire attraverso “una campagna di informazione” da realizzare durante l’anno successivo all’approvazione “nei limiti delle risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (sic! N.d.R.)“; di queste disposizioni le donne che si avvarranno dell’anonimato in futuro saranno informate al momento del parto!
  3. 3. Deve essere abolita la disposizione secondo cui la richiesta di accesso all’identità della partoriente è incondizionata nel caso in cui la donna sia deceduta. Si tratta infatti di una violazione palese non solo del suo diritto all’anonimato, ma anche del diritto suo e dei suoi congiunti alla riservatezza che lei non è più in grado di tutelare.
  4. Deve essere mantenuta a 25 anni l’età per richiedere l’accesso alle informazioni relative all’identità, come peraltro previsto dall’attuale articolo 28 della legge n. 184/1983. Infatti a 18 anni, età minima prevista dalla proposta di legge n. 1978, la personalità è ancora in via di formazione e potrebbero risultare fortemente problematici per l’adottato o la persona non riconosciuta alla nascita sia l’incontro con la procreatrice che il suo eventuale rifiuto. Altrettanto problematica sarebbe la riduzione da 25 a 18 anni dell’età in cui anche i figli adottivi riconosciuti alla nascita e successivamente dichiarati adottabili possono richiedere l’accesso; essi, infatti, spesso hanno subito gravi privazioni affettive, se non maltrattamenti e/o abusi, con pesanti conseguenze sul loro sviluppo affettivo, conseguenze che potrebbero aggravarsi con la ripresa dei rapporti con i loro procreatori. É da sottolineare poi che la Corte Costituzionale non ha cassato quanto l’attuale articolo 28 dispone in merito.

Le nostre proposte di modifica. I desideri, anche profondi, di ciascuno di noi non dovrebbero mai compromettere i diritti fondamentali degli altri. Pertanto la richiesta di conoscere l’identità della partoriente da parte della persona non riconosciuta alla nascita dovrebbe essere accolta solo se le procedure previste non rischiano di danneggiare le migliaia di donne che finora non hanno riconosciuto o che non riconosceranno i loro nati. Va anche tenuto presente che la segretezza del parto in anonimato prevista dal legislatore italiano non impedisce già ora la conoscibilità delle notizie riguardanti l’origine dell’adottato non riconosciuto alla nascita, purché le stesse non rivelino i dati identificativi della partoriente.

La procedura potrebbe quindi essere la seguente.

  • Anzitutto la donna che non ha riconosciuto segnala la sua disponibilità ad incontrare il proprio nato mediante comunicazione scritta al Garante per la protezione dei dati personali.
  • La persona non riconosciuta alla nascita che ha superato l’età di 25 anni e che intende conoscere l’identità della donna che l’ha partorita ne fa richiesta al Tribunale per i minorenni competente. Il suddetto Tribunale per i minorenni la esamina e, qualora la relativa procedura abbia esito positivo, la trasmette al Garante. Nei casi in cui alla richiesta di cui sopra corrisponda la manifestata disponibilità della donna, il Garante, avvalendosi dei servizi socio-sanitari, organizza il loro primo incontro. La persona non riconosciuta alla nascita è tenuta a mantenere il segreto sulle generalità della donna, segreto che deve essere assicurato anche dal Garante, nonché da tutti gli operatori dei servizi suddetti.

L’Anfaa è impegnata da decenni, insieme alle organizzazioni aderenti al CSA (Coordinamento Sanità e Assistenza tra i movimenti di base) a promuovere le esigenze ed i diritti delle gestanti e madri con gravi difficoltà familiari e dei loro nati, compreso quello relativo alla segretezza del parto; su queste tematiche abbiamo organizzato anche seminari e convegni a livello nazionale.

In Piemonte ha operato per l’approvazione ed attuazione della legge n.16/2006 che, attraverso quattro Enti gestori (fra cui il Comune di Torino) assicurano gli interventi socio-assistenziali alle “gestanti che necessitano di specifici sostegni in ordine al riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati e al segreto del parto” (quindi non solo quelle che hanno deciso di non riconoscere il loro nato!!), erogandoli “su richiesta delle donne interessate e senza ulteriore formalità, indipendentemente dalla loro residenza anagrafica”.

            Aiutateci a modificare questa assurda e pericolosa proposta di legge Difendiamo il diritto alla segretezza del parto garantito dallo stato per cento anni che il parlamento mette in discussione. Preveniamo una grave violenza nei confronti di decine migliaia di donne indifese

            Anfaa (Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie), v. Artisti 36, 10124 Torino

e-mail segreteria@anfaa.it                                                  www.anfaa.it

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CASA FAMILIARE

                                   Assegnazione parziale casa familiare.

Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ordinanza n. 11783, 8 giugno 2016.

            Il giudice può limitare l’assegnazione della casa familiare in favore del genitore collocatario dei figli, ad una sola porzione dell’immobile – di proprietà esclusiva del genitore non collocatario – anche nell’ipotesi di pregressa destinazione ad abitazione familiare dell’intero fabbricato.

Assegnazione limitata in assenza di conflittualità. E ciò ove tale soluzione, esperibile in relazione al lieve grado di conflittualità tra i coniugi, agevoli in concreto la condivisione della genitorialità e la conservazione dell’habitat domestico dei figli minori.

Lo ha stabilito la Cassazione tuttavia respingendo sul punto il ricorso del marito, che chiedeva ritornare nel possesso di parte dei locali di sua proprietà, adibiti per intero, in costanza di matrimonio, ad abitazione familiare. A parere del ricorrente infatti la Corte territoriale, in seguito alla separazione, aveva automaticamente assegnato l’intera abitazione alla moglie affidataria dei figli minori, sulla base di una conflittualità non più esistente.

Valutazione discrezionale giudice di merito. Ma la Corte Suprema ha ad ogni modo precisato che la decisione di affidare una parte limitata dell’immobile è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito – come tale insindacabile in sede di legittimità – tenuto per l’appunto a valutare il grado di conflittualità esistente tra i genitori e la effettiva rispondenza di detta assegnazione parziale al genitore non affidatario, all’interesse dei minori. Valutazione nella specie ineccepibilmente condotta e di cui i giudici distrettuali hanno dato ampiamente conto in motivazione.

Eleonora Mattioli                      eDotto                        9 giugno 2016

www.edotto.com/articolo/assegnazione-parziale-casa-familiare?newsletter_id=57594e91fdb94d09a8f4421a&utm_campaign=PostDelPomeriggio-09%2f06%2f2016&utm_medium=email&utm_source=newsletter&utm_content=assegnazione-parziale-casa-familiare&guid=a0b9f2fa-4556-4b56-b00b-448cedb3bfdd

testo   www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/famiglia/2016-06-08/separazione-si-all-assegnazione-parziale-casa-familiare-interesse-figli-173624.php

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CENTRO ITALIANO DI SESSUOLOGIA

Notiziario del Centro Italiano di Sessuologia

E’ uscito il nuovo numero della Rivista di Sessuologia, pubblicazione non periodica n. 1 – 10 Giugno 2016

Gli utenti registrati potranno accedere ai contenuti online, sul sito del CIS:              www.cisonline.net

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CHIESA CATTOLICA

L’ ”essere oltre” e il ”venire da altrove” di Francesco: alla radice del conflitto di interpretazioni

            Se cerchiamo di prendere la distanza dalle polemiche che dopo AL si sono intrecciate nel corpo ecclesiale e cerchiamo di valutare con pacatezza e sine ira ac studio il dibattito che ne è scaturito, possiamo notare che un duplice fronte tende a “parafrasare Francesco”, o cerca di “farne la caricatura”, secondo una logica antitetica ma assai coerente. Alcuni leggono Francescocome se nulla fosse”, altri come se “nulla fosse come prima”. E, su questa duplice lettura si può consentire o dissentire, ma la questione è che non si consente o dissente da Francesco, ma dalla propria proiezione su di lui! Allora potrebbe essere utile comprendere come funziona questo “riflesso condizionato” della interpretazione cattolica del papato di Francesco (a), come possiamo comprendere il “vero Francesco” (b) e quali scoperte potremmo fare in alcuni campi determinati (come la riforma della Chiesa o la vita familiare) (c), per poi tornare altrove, a Francesco (d).

a)      Lo stereotipo della antitesi modernista/antimodernista. Negli interventi che abbiamo letto dopo l’8 aprile 2016 – e che avevamo già ascoltato lungo tutto il cammino sinodale – alcuni teologi, pastori, ufficiali, cardinali, giornalisti come Spaemann, Mueller, Caffarra, Negri, Valli, con le rispettive e dovute differenze, sembrano muoversi secondo un modello che è stato elaborato durante il XIX secolo, poi messo a punto alla fine di quel secolo, irrigidito durante la “lotta antimodernista” dei primi decenni del XX secolo e che oggi funziona come “strumento scontato” della analisi. Al suo interno il “mondo moderno” è identificato con una serie di -ismi (soggettivismo, relativismo, postmodernismo) che assolutizzano la libertà, che annullano i legami, che rendono “liquida” e “indeterminata” l’esistenza. Rispetto a questo “modernismo”, così considerato, la Chiesa non può che collocarsi sul fronte opposto, ossia sul piano della oggettività, della autorità e della tradizione. Ogni valutazione di parole, di gesti, di auspici, di progetti viene immediatamente riportata a questo “modello”. Quando ascolti un papa, ritieni che egli debba parlare secondo il modello, ossia a favore della oggettività, della autorità e della tradizione, e che si scagli contro il soggettivismo, contro il relativismo e contro il postmodernismo liquido. Un papa sembra che possa essere tale soltanto quando rientra in questo modello. E se non ci entra, il problema è…del papa. Io credo, invece, che il problema stia non nel papa, ma nel modello.

b)      Francesco e la via conciliare di “pacificazione con la modernità”. Francesco, fin dall’inizio, ha cercato di essere autorevole con la libertà del suo magistero. Ha cercato di combattere il relativismo con un surplus di relazioni, non con la denuncia della loro mancanza. Ha cercato di combattere il soggettivismo motivando i “legami che promuovono e che danno gusto alla vita”, piuttosto che mortificando la libertà del soggetto; ha cercato le vie nuove del Vangelo, piuttosto che la denuncia degli ostacoli che nuove forme di vita oppongono al vangelo. Insomma, in Francesco assistiamo al fenomeno grandioso di una “messa in opera” del paradigma conciliare, che il Vaticano II aveva predisposto, ma che nel pontificato di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI non aveva ancora raggiunto la evidenza di un “canone”. I grandi meriti di questi tre papi in diversi settori – la evangelizzazione per Paolo, la pace e il dialogo con le grandi religioni per Giovanni Paolo II, la mistagogia per Benedetto XVI – non hanno impedito al paradigma ottocentesco di imporsi anche sotto i loro pontificati, soprattutto nei settori morali, dogmatici e giuridici. In questi 50 anni dopo il Concilio, molte cose sono certamente mutate, ma la struttura complessiva della Chiesa è rimasta legata ad una interpretazione del “mondo moderno” di carattere apologetico e difensivo, con forte diffidenza e nostalgia, e con percentuali di chiusura autoreferenziale troppo alte. Francesco esce apertamente e direi pubblicamente da questo schema. Per questo agli uni può sembrare modernista, solo perché parla bene della libertà. Agli altri sembra invece antimodernista, perché rivela i limiti di una lettura unilaterale del soggetto. Questa, però, non è la “confusione” denunciata da destra o il “compromesso” denunciato da sinistra, ma un “nuovo modello” di rapporto tra Chiesa e mondo, al quale non siamo abituati, perché viene “dalla fine del mondo”. Venendo dalla fine del mondo, è anche “la fine di un mondo”, del piccolo mondo antico dei professori di seminario che, vedendo arrivare un nuovo giovane professore, sussurrano a bassa voce la domanda fatidica: “Sarà mica un kantiano?”. Anche se arriva un papa che parla con libertà, si sussurra: “Sarà mica modernista?”. Non è modernista, ma è nato in una Metropoli. Uscendo dallo stereotipo, viene facilmente confuso come “traditore” di una parte. In realtà ciò che Francesco tradisce apertamente è il modello di antitesi tra modernismo/antimodernismo. Che ora è definitivamente chiuso e ufficialmente archiviato, anche se non è impossibile organizzarci intorno molte iniziative di riscossa.

c)      Ordine e matrimonio, da ripensare secondo un altro modello. Questo nuovo modello, per dirla in breve, congiunge creativamente e sapienzialmente ciò che l’antitesi opponeva drasticamente: esso pensa diversamente il rapporto tra “comunione”, “autorità” e “libertà”. Tale rapporto riguarda, ovviamente, l’intero “sapere cristiano”, dalla protologia alla escatologia, e quindi anche tutti e sette i sacramenti. Ma i due sacramenti che risultano più “esposti” al mutamento di paradigma sono proprio il matrimonio e il ministero ordinato. In ognuno di essi, infatti, è in gioco, immediatamente, una “forma di comunione”, secondo un certo rapporto tra autorità e libertà. Ed è qui, proprio su questo terreno sensibilissimo al “modello antitetico” che le resistenze e le caricature crescono esponenzialmente. Questo modello di contrapposizione viene da una eredità ottocentesca, che non abbiamo ancora elaborato fino in fondo. E nelle parole che usiamo e nei pensieri che concepiamo abitano ancora i fantasmi di una contrapposizione tra stato della Chiesa e stato liberale. Così il matrimonio è diventato lungo il XX secolo una sorta di “piccolo residuo di potere temporale”, che condanna la Chiesa ad un livello di autoreferenzialità assolutamente insopportabile, proprio quando essa annunzia la cosa più “eteroreferenziale” di tutte, come il matrimonio! Per questo il linguaggio sul sacramento del matrimonio è stato “politicamente blindato” a partire dal codice del 1917, ma anche dopo il codice del 1983 permane una logica “antitetica”, che rende difficilissimo il “dialogo tra ordinamenti”. In questo campo Francesco ha compreso perfettamente che la “logica del sistema” produce da tempo troppa ingiustizia. Recuperare il “soggetto” (maschile e femminile, legato e libero) nelle logiche oggettive di “ordine” e “matrimonio” è una sfida che non si risolve all’interno del modello classico, ma soltanto a patto di cambiare modello.

d)      Francesco gioca sempre da “libero”. Francesco non può essere compreso mediante gli schemi classici. Nemmeno in quelli “residenziali” è riuscito a stare per un sol giorno. Ma non perché stia da una parte o dall’altra, e nemmeno perché stia nel mezzo. Egli è oltre ed viene da altrove. Potremmo quasi dire che quel principio che sancisce il primato del tempo sullo spazio – e dal quale discendono non poche novità nel magistero di Francesco – può essere compreso non tanto “storicamente”, quanto “geograficamente”. L’altrove americano – il suo “non appartenere” alla tradizione europea – colloca Questa “alterità” di Francesco non è catalogabile secondo le nostre abitudini europee. E le relativizza tutte. Per questo egli appare ancora giudicato come un “fenomeno”, anche dopo tre anni abbondanti dalla sua elezione. Ma, come ha scritto il moralista Marciano Vidal, se lo abbiamo riconosciuto subito, quella sera di marzo del 2013, appena si è sporto dalla finestra e ha cominciato a parlare, è perché ne avevamo il “presentimento”. Il Concilio, 50 anno prima, ci aveva messo nella possibilità di aspettarci un papa così sorprendente. E di riconoscerlo come papa. E di tenercelo caro. Perché, con il suo “essere oltre” e con il suo “venire da altrove”, egli permette alla Chiesa di tradurre il Vangelo di sempre in una lingua in parte molto nuova e in parte molto antica. Le caricature che deve subire attestano anzitutto questo suo “andare oltre” e questo suo “venire da altrove”.

Andrea Grillo            blog: Come se non     6 giugno 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/francesco-oltre-e-altrove-alla-radice-del-conflitto-di-interpretazioni

 

Francesco e il modello ottocentesco da superare: gli esempi di matrimonio e ministero ordinato.

Un gentile lettore, il prof. Sergio Meligrana, mi ha chiesto di approfondire il punto c) del mio post su Francesco “oltre” e “altrove”. Si tratta della esemplificazione che proponevo intorno a due sacramenti (ordine e matrimonio), come prova della inadeguatezza del “modello antitetico” di elaborazione della identità cristiana, formulato soprattutto lungo il XIX secolo e che si è poi irrigidito nella stagione “antimodernistica” e che oggi continua per inerzia a godere di un credito sproporzionato rispetto alla sua concreta pertinenza ed efficacia.

In che cosa consiste questo “modello” e perché appare particolarmente evidente proprio nei due sacramenti del “servizio”?

a) I sette sacramenti nella Summa Theologiae. Per rispondere vorrei partire da S. Tommaso d’Aquino. Nella sua “sistematica sacramentale” non appare mai massimalista, ma ha ben chiaro che l’organismo sacramentale va trattato con la massima delicatezza. Può essere compreso solo “con prudenza e senso delle distinzioni”. Perciò i sette sacramenti sono illustrati (S.Th, III, 65, 1, c) a cominciare dai sacramenti di cui ha bisogno il singolo (battesimo, cresima e eucaristia) e questi tre potrebbero essere sufficienti se l’uomo non fosse dipendente dai propri limiti e dalla propria insufficienza. Circa i limiti, egli si ammala e ha quindi bisogno di guarigione spirituale e fisica (e di qui la penitenza e l’unzione dei malati). Circa la propria insufficienza, non basta a se stesso, ma necessita di esercizio di potere e di generazione, e di qui nascono i sacramenti dell’ordine e del matrimonio. La santificazione, chiamata in causa da questi ultimi due sacramenti, riguarda gli altri, non se stessi. E li riguarda in due dimensioni: in rapporto alla autorità da esercitare, perché la società resti unita e in rapporto alla generazione da assicurare, perché la vita umana continui. Di qui lo spazio dei sacramenti dell’ordine e del matrimonio.

Un secondo punto interessante, nella teologia di Tommaso, è come egli gestisce la “correlazione” tra vita naturale e vita spirituale. Quando infatti spiega il “numero” dei sacramenti, Tommaso illustra la questione con un paragone tra vita naturale e vita spirituale: come nella vita naturale si nasce, sul piano spirituale si è battezzati, come si cresce, così si è cresimati, come si mangia e si bene, così si partecipa alla eucaristia. Tutto funzione secondo questa “immagine”, salvo per il matrimonio. Per esso, infatti, si dice “ci si unisce tra uomo e donna e si genera, e questo è il sacramento del matrimonio sia sul piano corporale che sul piano spirituale”: insomma, per il matrimonio, il rapporto tra segno e res è immediato. Natura e grazia si identificano. Questo sarà, nei secoli successivi, il luogo di una rilettura estremamente ricca, ma anche pericolosamente semplificata. Quando infatti questa “identificazione” tra grazia e natura viene spinta oltre il segno, il matrimonio diventa terreno di scontro irrimediabile tra natura, cultura e fede.

b) Dopo la “forma canonica” a Trento. Con il decreto Tametsi (1563), al Concilio di Trento, avviene sul piano del rapporto tra “natura” e “grazia” un primo mutamento istituzionale che sarà gravido di conseguenze nel seguito della storia. Con una decisione giustificata da diversi fattori storici ed ecclesiali, la Chiesa subordina la validità del sacramento a una “forma canonica”, cosa che mai era esistita in 1.500 anni di storia della esperienza cristiana. In tal modo la Chiesa anticipa la modernità, e con una “forma istituzionale pubblica” apre uno spazio di tutela del soggetto individuale libero. Il tema, già abbondantemente elaborato nel medioevo, della “libertà del consenso” trova nella “forma canonica” la sua custodia pubblica. La logica comunitaria del matrimonio è così scavalcata in due direzioni: verso il soggetto e verso la istituzione ecclesiale. La parola di Dio e il libero consenso del singolo ne divengono il centro. Tutta la mediazione complessa di natura, cultura, legge – che la lunga stagione antica e medievale aveva valorizzato – iniziano ad apparire, anche a giusto titolo, in posizione marginale o addirittura irrilevante. Se per Tommaso la “generazione umana” è “ordinata a molte cose”, ossia alla natura, alla città e alla Chiesa (Contra Gentiles, lib. 4 cap. 78 n. 2.) a partire da XVI secolo la dimensione “ecclesiale” tende ad assorbire progressivamente le altre dimensioni.

Così, in un contesto di “rivolgimento sociale” come quello di fine XVIII secolo e di inizi XIX era ovvio che proprio questo “sistema” – inventato due secoli prima – entrasse in crisi.

c) Nello scontro con lo stato liberale. Questa evoluzione post-tridentina trova il suo apice nella reazione ecclesiale alle “pretese” dello stato liberale, che si sviluppano agli inizi del XIX secolo, con i “codici civili” successivi al Code Napoleon, che si diffondono in tutta Europa. La reazione a questo sviluppo è, ovviamente, difensiva e apologetica, ma introduce nel corpo ecclesiale una argomentazione di “pura autorità”, che diventa progressivamente sempre più autoreferenziale. Le tappe di questo sviluppo sono: la prima formulazione del “nuovo assetto”, che è di Pio IX, nel 1852, che corrisponde ad una correlazione tra contratto e sacramento in cui si perdono, in un sol colpo, tutte le mediazioni classiche, per mantenere soltanto la autorità sul matrimonio. La formula – che ancor oggi ripetiamo spesso in modo acritico, come se fosse vangelo, suona così: “tra fedeli non può darsi matrimonio che non sia allo stesso tempo sacramento, e perciò ogni unione tra uomini e donne cristiani diversa dal sacramento, anche se fatta in base alle leggi civili, non è altro che turpe ed esiziale concubinato”. Quella legge civile, che era stata per secoli inaggirabile luogo di esperienza naturale e culturale, viene esplicitamente negata, per poter affermare la “esclusiva competenza ecclesiale”. E’ evidente che il discorso sul matrimonio subisce la pressione dei tempi, ossia lo scontro istituzionale e drammatico che la Chiesa vive di fronte allo strutturarsi di una nuova esperienza politica dello stato liberale. Ma questa argomentazione – dopo il trauma della perdita del potere temporale nel 1870 – passerà nel primo grande documento sul matrimonio, Arcanum divinae Sapientiae, di Leone XIII, nel 1880, e diventerà l’architrave del Codice di Diritto canonico del 1917, che condizionerà la pastorale matrimoniale di tutto il secolo successivo.

d) La difesa apologetica e la chiusura autoreferenziale. E’ interessante che la argomentazione che a partire dal 1852 viene introdotta nel corpo ecclesiale procede secondo due estremi. Da un lato assume tutto la autorità e tutta la competenza sul matrimonio – negando almeno per principio le distinzioni medievali – ma dall’altro nega ogni potere della Chiesa sul matrimonio. La traduzione della tradizione, nel contesto dello scontro con lo stato liberale, finisce facilmente in una teologia dell’autorità. Solo la Chiesa ha autorità sul matrimonio, e non lo stato liberale. Ma la Chiesa non ha alcuna autorità sul “vincolo” di un matrimonio “rato e consumato”. Questo “sistema” rimane anche oggi lo strumento fondamentale con cui la tradizione cattolica “pensa” e “gestisce” il matrimonio. O, meglio, crede di pensare e crede di gestire il matrimonio. Perché in tale sistema, sorto nel conflitto con il sorgere di un “nuovo mondo”, le questioni decisive sono tutte “spiazzate” rispetto al reale, con proposte di “soluzione” che sono sempre “troppo” o “troppo poco”. Una Chiesa che ha nello stesso tempo “tutto il potere” e “nessun potere” fa molta fatica a tenere il passo con una realtà come quella matrimoniale, nella quale uno “stile autoreferenziale” si confronta con la esperienza più eteroreferenziale che ci sia! Per interpretale la quale occorre potenziare tutta la “regione intermedia” tra il potere massimo e la negazione del potere. Occorre una Chiesa che riconosca di avere “una certa autorità”, ma che sappia anche riconoscere “altre autorità”.

e) Mediazioni e differenze da riscoprire. La lunga efficacia inerziale del modello tridentino, che diventa “modello codiciale” dal 1917, polarizza la attenzione ecclesiale sui due estremi: da un lato vi è la istituzione ecclesiale, che dal 1563 impone una “forma canonica” al matrimonio cristiano. Questa forma diventerà, nei secoli successivi, criterio di competenza esclusiva della Chiesa sul matrimonio cristiano. Ma, parallelamente, resterà in piedi la tradizione medievale del “consenso del soggetto”, rispetto al quale, una volta acquisito e “consumato”, la Chiesa perde ogni potere rispetto al vincolo, che Dio stesso custodisce. Dunque, il sistema si basa su un principio di esteriorità formale in capo alla istituzione e su un principio di interiorità sostanziale in capo al singolo. Tutta la regione intermedia viene progressivamente abbandonata e guardata con crescente sospetto. Natura e cultura tramontano, lasciando spazio solo alla individualità singolare e alla competenza istituzionale. Non è difficile vedere come questa soluzione ottocentesca richieda, ormai da tempo, una energica riconsiderazione e un nuovo orientamento. Noi oggi siamo vittime delle nostre stesse categorie, di cui facciamo un uso irresponsabile. L’individualismo di cui ci lamentiamo viene, in larga parte, dalle nostre impostazioni di secoli prima. Per correggere questa deriva possiamo muoverci almeno in tre direzioni:

  1. mediante il recupero di una “sapienza del contingente”, che ha per secoli caratterizzato lo stile ecclesiale, ma che si è inceppata proprio nel XIX secolo, sotto la pressione della “concorrenza” civile. Che la generazione sia “naturale, civile ed ecclesiale” deve essere vissuto, anche nella Chiesa, come una benedetta necessità, non come una dannosa confusione. Il matrimonio, la famiglia e l’amore sono inevitabilmente complicati. Hanno bisogno di logiche naturali e civili per essere luoghi evangelici; se perdono le prime due logiche, perdono anche la terza!
  2. la ripresa di questa complicatezza matrimoniale richiede la considerazione della libertà del soggetto, non solo all’inizio del percorso, ma nella “storia di vita”, che il matrimonio dischiude. La libertà di coscienza, non solo come “consenso originario”, e la storicità del soggetto, in tutta la sua evoluzione, debbono diventare oggetti di riflessione strutturale, non solo “fattori di esclusione”;
  3. infine, due differenze si dimostrano importanti: una teologia dell’autorità si deve incontrare con una teologia della libertà; una teologia del maschile deve sintonizzarsi con una teologia del femminile. Senza questa duplice integrazione, useremo le categorie di un mondo che non c’è più e non parleremo ad un mondo che aspetta una parola autorevole, ma non autoritaria.

e) Riflessi sul ministero ordinato. Come ho detto, questa vicenda che riguarda specificamente il matrimonio, può essere riconosciuta anche nel ministero ordinato, la cui logica, tuttavia, avendo una “dinamica naturale” diversa, non ha mai impegnato con tanta lena la sfida ecclesiale nel mondo moderno. Poiché la differenza, qui, sta proprio nella “minore eteroreferenzialità” della tradizione ministeriale, che lavora sul ministero in modo maggiormente “interno” alla esperienza ecclesiale. Ma la argomentazione, per quanto riguarda ciò che non è semplicemente “posto”, ma “ricevuto”, appare assai simile. Sul celibato e sulla “identità maschile” del candidato al ministero il modo di proporre le argomentazioni segue linee affini a quelle sul matrimonio: da un lato la Chiesa rivendica tutta la autorità – senza trovare, almeno qui, una vera concorrenza nello stato liberale – ma poi si aggiunge il riconoscimento di una “totale assenza di autorità” nel modificare la tradizione di ordinazione di “soli maschi celibi”. La sola idea di poter discutere di un “diaconato femminile” mette in fibrillazione un sistema bloccato, che non riesce ad ospitare “logiche relazionali nuove”, elaborate da una società aperta, in cui i “ruoli sociali” non sono predeterminati da una “natura” che è, in realtà, sempre anche mediazione culturale e possibile “eccesso di potere”. Una teologia della autorità fa molta fatica a riflettere non solo sul tema della “comunione”, ma anche sul tema della “autorità”. L’effetto di risonanza stordisce tutti, prima ancora che il discorso possa cominciare. Ma senza uscire da questo “modello antitetico”, che ci costringe ad una teologia della sola autorità, senza una nuova considerazione della libertà, della coscienza e della storia, resteremo bloccati ad un modello ormai incapace di mediare la esperienza dei cristiani di oggi. E ci lamenteremo delle nostre stesse paure.

f) In conclusione. Non è un caso che i due temi “infuocati” – su cui il mutamento di paradigma conciliare, potentemente riattualizzato da Francesco, appare particolarmente esposto – siano proprio la “disciplina” del matrimonio e del ministero, che si vorrebbero “bloccati” in una presunta identificazione tra il “modello ottocentesco” e ciò che Gesù stesso avrebbe prescritto. La differenza tra la legittima traduzione ottocentesca e la Parola del Signore non permette di squalificare quella soluzione storica, ma lascia lo spazio per approfondirla e modificarla, alla luce della Parola di Dio e della esperienza degli uomini (GS 46). Il modello autoritario e disciplinare, maturato nel confronto traumatico con il sorgere della tarda modernità, deve convertirsi in un modello autorevole e pastorale, più adeguato alla condizione contemporanea. Una “differenza nella eguaglianza” e una “dinamica di autorità e libertà” sono le sfide fondamentali per il “lavoro di aggiornamento” cui la Chiesa è chiamata non per accondiscendere a ciò che il mondo pretende, ma per onorare al meglio il Vangelo che deve servire. La asfittica riduzione del Vangelo ad una autorità che si oppone alla libertà dell’uomo, e che può essere testimoniata e annunciata da maschi e non da femmine, da non sposati piuttosto che da coniugati, è una forma di traduzione della tradizione che assomiglia sempre più a una tradizione forse non tradita, ma la cui pressante traduzione latita ormai da molti decenni, per non dire da secoli.

Andrea Grillo            blog: Come se non     8 giugno 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/francesco-e-il-modello-ottocentesco-da-superare-gli-esempi-di-matrimonio-e-ministero-ordinato

                 

La Chiesa e le donne, se l’apertura è un ritorno alle origini.

La realtà si capisce meglio quando la si guarda dalla periferia, ama ricordare papa Francesco attingendo al pensiero della filosofa argentina Amelia Podetti «Dall’ultimo banco» (Marsilio), il libro di Lucetta Scaraffia sulla presenza femminile nella Chiesa, ne è una dimostrazione. In fondo all’aula — tra non molti laici, una delle poche donne — l’autrice ha potuto seguire da «uditrice» il Sinodo sulla famiglia. Ne ha ricavato l’immagine di una Chiesa senza un rapporto con la sua storia, senza un confronto con il mondo esterno, soprattutto senza donne. La preposizione, «senza», scandisce i capitoli come il segno di una privazione che non ha nulla a che fare con l’essenza del cristianesimo e anzi ne è la negazione. Ed è questa la parte più interessante, il cuore dell’argomentazione. Docente di Storia alla Sapienza e coordinatrice del mensile «donne chiesa mondo» dell’Osservatore romano, Scaraffia fa notare una curiosa coincidenza degli opposti: sia nelle gerarchie ecclesiali maschili che «temono» le «pretese» delle donne sia nel pensiero femminista, anche cattolico, si tende a considerare la questione come una sfida esterna dettata dalla «modernità» per «svecchiare» la Chiesa. E invece è vero il contrario, «la Chiesa deve ripensarsi dalle origini, deve capire che l’apertura alle donne è solo il compimento dell’antico, del messaggio evangelico». L’ «uditrice» avverte negli interventi dei padri sinodali una «disinvolta ignoranza della storia». Il cristianesimo, fondato sull’Incarnazione, è radicato nella storia. Al senso del fluire del tempo, tuttavia, si è contrapposta una teologia astorica, dottrinale, un sistema rigido e ideologico che teme ogni cambiamento e impedisce alla Chiesa di vedere e rendere conto delle proprie ragioni.

Non è un accidente della storia che l’emancipazione femminile si sia affermata, seppure contro le gerarchie ecclesiastiche, nell’Occidente di tradizione cristiana. Nel Vangelo il tramite tra Dio e l’essere umano è una donna; è il «sì» di Maria a rendere possibile l’Incarnazione; è alle donne che appare per primo il Risorto. E quando Gesù dice «l’uomo non separi ciò che Dio ha unito» non si riferisce al divorzio, che allora non esisteva, ma alla facoltà esclusiva dei mariti di ripudiare le mogli. Novità inaudite come «la parità di diritti e doveri» spiegano l’attrazione esercitata sulle donne dal cristianesimo delle origini e la presenza nella storia della Chiesa di figure femminili che «hanno svolto ruoli decisivi, hanno parlato e sono state ascoltate»: ciò che oggi non accade. Non è questione di sacerdozio. Con le parole di Sylviane Agacinski, «l’uguaglianza si oppone alla diseguaglianza, non alla differenza». Si tratta, per la Chiesa governata da uomini, di pensare e attingere davvero alla «differenza» femminile. Non c’è posto per le donne quando si tratta di decidere, il «sistema chiuso» le isola, la «rivoluzione» teologica femminile è ignorata. Oltre l’Occidente, la Chiesa «è vista come l’istituzione che più e meglio difende la dignità delle donne», grazie alle missionarie. Eppure «sono quasi nulli» i contatti tra Vaticano e Unione delle superiori generali, «il parere delle religiose non è mai richiesto». Tante discussioni, tanti documenti angosciati su derive eugenetiche, futuro della famiglia e della Chiesa. Magari basterebbe ascoltare, finalmente, le voci dall’ultimo banco.

Gian Guido Vecchi                                  Corriere della Sera    8 giugno 2016

www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20160608/282260959730136

 

Misericordia, giustizia, verità. Nuove noterelle

Anche se a questo mondo ci sono tante cose importanti da fare (per esempio seguire i playoff di basket tra Milano e Reggio Emilia, e capire che fine farà l’Inter in mani cinesi), continuo a studiare la questione che mi sta a cuore dopo le perplessità sorte in me in seguito alla lettura e rilettura di Amoris laetitia, specialmente per quanto riguarda la pastorale del «caso per caso». Due le domande.

  1. La prima: può una norma morale generale essere ridimensionata e resa meno stringente per adattarla al caso particolare? E qual è la relazione tra misericordia, giustizia divina e verità rivelata? Voi direte: amico mio, continua a dedicarti al basket e all’Inter, forse è meglio! Posso essere d’accordo, però sapete che cosa c’è? Sono entrato in un’età in cui mi succede sempre più spesso di pensare alla morte, ma non alla morte in generale: dico alla mia morte. Non ho paura, ma prendo molto sul serio il buon Dio, che mi ha donato la fede e mi ha dotato di ragione. Di qui le domande. Per esempio: una legge morale universale, penso ai dieci comandamenti, è adattabile a un caso particolare? Si può derogare a una legge universale se l’applicazione della legge suona ingiusta per la coscienza individuale? E poi la relazione tra misericordia e perdono. Misericordia è solo perdono? E il giudizio di Dio? Se la misericordia è solo perdono, Dio non dimostra forse di non prendere sul serio la mia libertà e la mia responsabilità? E se io elimino dalla misericordia i riferimenti alla giustizia, non finisco col crearmi un Dio a mia immagine e somiglianza, solo consolatorio? In chiesa nessuno più ci parla di queste cose. Dei cosiddetti Novissimi, che abbiamo studiato da piccoli al catechismo, non si occupa quasi più nessuno. I Novissimi sono le cose che succederanno all’uomo alla fine della vita: la morte, il giudizio, il destino eterno, la pace o il castigo, il paradiso o l’inferno. Ho notato che preti e parroci parlano volentieri di cose importantissime come il riscaldamento globale e il tasso di disoccupazione, ma diventano improvvisamente reticenti quando ci sono di mezzo i Novissimi. Perché? Mah! E pensare che la nostra vita quaggiù è un battito di ciglia.

            Procediamo. Circa il rapporto tra norma morale generale e caso particolare mi sono imbattuto in un interessantissimo discorso di Pio XII. È del 1952, quando io ancora non ero nato. Papa Pacelli lo tenne, in francese, alla Federazione cattolica mondiale della gioventù femminile e vi si legge quanto segue: «Ci si chiederà come la legge morale, che è universale, possa essere sufficiente e persino essere obbligatoria in un determinato caso singolare che nella situazione concreta sua propria è sempre unico e di “una sola volta”».

            Bravo Pio XII, è proprio quello che mi chiedo io! Ed ecco la risposta: «Lo può e lo fa perché, precisamente a causa della sua universalità, la legge morale comprende necessariamente e intenzionalmente tutti i casi particolari in cui si verificano i suoi concetti, e in numerosissimi casi lo fa con una logica talmente concludente che persino la coscienza del singolo fedele vede immediatamente e con piena certezza la decisione da prendere». Ecco quella che si dice una risposta chiara. Ovviamente le parole di Pio XII non saltano fuori dal nulla, ma arrivano dopo secoli di riflessioni della Chiesa (pensiamo solo a san Tommaso).  E Pio XII, già nel 1952, sapeva bene che si stava facendo strada una «nuova morale», detta anche «morale della situazione», secondo la quale alla norma universale viene attribuita una certa, chiamiamola così, fluidità, in modo tale che si possa procedere con adattamenti al caso particolare. Ascoltiamo dunque Pio XII mentre parla della nuova morale: «Il segno distintivo di tale morale è costituito dal fatto che essa non si basa in alcun modo sulle leggi morali universali, come ad esempio i dieci comandamenti, ma sulle condizioni o circostanze reali e concrete nelle quali si deve agire, e secondo le quali la coscienza individuale è tenuta a giudicare e a scegliere; questo stato di cose è unico ed è valido una sola volta per ciascuna azione umana. Perciò la decisione della coscienza, affermano coloro che sostengono tale etica, non può essere imperata dalle idee, dai principi e dalle leggi universali […]. Espressa sotto questa forma, l’etica nuova è talmente al di fuori della Fede e dei principi cattolici che persino un bambino, se conosce il suo catechismo, se ne può rendere conto e lo può percepire».

            Queste ultime parole sono forti e quindi sono andato a rileggerle nell’originale francese, trovando la conferma che il papa dice proprio così: «Sous cette forme expresse, l’éthique nouvelle est tallement en dehors de la Foi et des principes catholiques, que même un enfant, s’il sait son catéchisme, s’en rendra compte  et le sentira». Qualcuno a questo punto dirà: «Vabbe’, ma tu vai a prendere Pio XII! È preconciliare!». Sì, è preconciliare, e allora? Forse per questo è meno ragionevole? Lo stesso papa Francesco, pochi giorni fa, in una delle meditazioni rivolte ai preti per il loro giubileo, ha raccomandato di leggere Haurietis aquas, l’enciclica di Pio XII sulla devozione al Sacro Cuore (1956), e ha commentato: «Ma è preconciliare! Sì, ma fa bene!».

            Nel corso del tempo, naturalmente, l’insegnamento della Chiesa in materia è andato avanti, e san Giovanni Paolo II, con Veritatis splendor, l’enciclica del 1993 «circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa», torna a confrontarsi con la questione della «morale della situazione» o, come diciamo oggi, del caso per caso. Ascoltiamo dunque papa Wojtyla. Il capitolo di Veritatis splendor che qui ci interessa è il secondo (La coscienza e la verità), dove il pontefice, interrogandosi sul rapporto tra la libertà dell’uomo e la legge di Dio, e sottolineando che ciascuno di noi avverte dentro di sé, nell’intimo della sua coscienza, una legge che non è lui a darsi e che lo chiama sempre a fare il bene e a fuggire il male, a un certo punto scrive: «In tal senso le tendenze culturali […] che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano in modo idolatrico la libertà conducono ad un’interpretazione “creativa” della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della tradizione della Chiesa e del suo Magistero». Giovanni Paolo II è ben cosciente dell’opinione di diversi teologi, secondo i quali la funzione della coscienza non può essere ricondotta alla semplice applicazione di norme morali generali. Secondo tali teologi, dice il papa, «queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta in prima approssimazione l’uomo nel dare un’ordinata sistemazione alla sua vita personale e sociale». Quando però si tratta di fare i conti con la realtà concreta del singolo caso, è la coscienza individuale, con la sua «creatività» a essere esaltata.

            Qui sembra proprio che Giovanni Paolo II, con più di vent’anni d’anticipo, immagini certi passi di Amoris laetitia che mi lasciano perplesso. Ma ascoltiamo ancora Wojtyla: «Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale». E che cosa succede lungo questa strada? Dove si va a parare secondo la logica delle eccezioni alla regola generale? Risposta di Giovanni Paolo II: «In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette “pastorali” contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica “creatrice”, secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare».

            Parole profetiche. Alle quali Giovanni Paolo II aggiunge questa riflessione: «Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l’identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell’uomo e alla legge di Dio». Consiglio a tutti di rileggere interamente Veritatis splendor.

  1. Ma io, dicevo, ho una seconda questione da affrontare: quale relazione c’è tra misericordia e giustizia divina? Papa Francesco, meditando sulla parabola del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-31), nel corso degli esercizi spirituali con i preti (San Giovanni in Laterano, prima meditazione, 2 giugno 2016) a un certo punto spiega: «Il cuore di Cristo è un cuore che sceglie la strada più vicina e che lo impegna. Questo è proprio della misericordia, che si sporca le mani, tocca, si mette in gioco, vuole coinvolgersi con l’altro, si rivolge a ciò che è personale con ciò che è più personale, non “si occupa di un caso” ma si impegna con una persona, con la sua ferita». Poi, dopo aver messo in guardia dal «clericalismo» che riduce una persona a un caso non che dalla «pastorale pulita» ed «elegante» che però non si mette in gioco e non rischia niente, dice: «La misericordia va oltre la giustizia e lo fa sapere e lo fa sentire; si resta coinvolti l’uno con l’altro. Conferendo dignità – e questo è decisivo, da non dimenticare: la misericordia dà dignità – la misericordia eleva colui verso il quale ci si abbassa e li rende entrambi pari, il misericordioso e colui che ha ottenuto misericordia. Come la peccatrice del Vangelo (Lc 7,36-50), alla quale è stato perdonato molto, perché ha amato molto, e aveva peccato molto».

Sono parole molto belle, che certamente toccano il cuore di molti. Non di meno c’è da interrogarsi: «La misericordia va oltre la giustizia». Dunque, quando io morirò e sarò davanti a Dio, secondo quale metro sarò giudicato? Se, in nome della morale della situazione, non avrò rispettato le leggi universali date da Dio e trasmesse dalla mia santa madre Chiesa, come sarò accolto da Dio?

            E poi: è la misericordia, solo la misericordia, che mi conferisce dignità? E la libertà? E la responsabilità? Qui mi è arrivato in aiuto il testo di un amico. Non farò il suo nome, perché non so se gli fa piacere (da quando alcuni mi hanno bacchettato per le mie critiche al pensiero pastorale di Francesco, continuo a esporre me stesso ma evito di farlo con altri, che potrebbero non gradire), però saccheggerò impunemente il suo pensiero. Dunque, sostiene il mio amico, sulla parola misericordia, così centrale nel magistero di Francesco, occorre interrogarsi. È parola bellissima, che tocca direttamente il cuore, specialmente dei sofferenti (come ho visto bene dalle decine e decine di reazioni che mi sono arrivate dopo i miei ultimi articoli dedicati ad Amoris laetitia), ma non bisogna pronunciarla invano. Se ci facciamo caso, nell’insegnamento della Chiesa la misericordia non è mai lasciata sola. Recita per esempio il Salmo 84: «Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo».

            Ecco. Misericordia, giustizia, verità. Non ci sarebbe bisogno di misericordia se non ci fosse il peccato e non ci fossero i peccatori. Possiamo isolare la misericordia infinita di Dio dai suoi comandamenti? Si può disgiungere la misericordia dalla giustizia? Si può separare la misericordia dalla legge assegnata per la nostra salvezza? La misericordia senza giustizia e senza verità, dice il mio amico, non ha significato. Per la Chiesa c’è un tribunale di misericordia sempre aperto, fino all’ultimo respiro: è il sacramento della confessione. È lì che tutti noi, anche all’ultimo secondo dei tempi supplementari, e anche se nella nostra vita siamo stati grandissimi peccatori, possiamo essere perdonati. Possiamo esserlo se ci pentiamo sinceramente e chiediamo perdono. Ecco la giustizia che fa capolino. La misericordia non è il colpo di spugna che tutto cancella. Dio ci prende sul serio! E noi siamo chiamati a fare altrettanto con lui!

            «Neanch’io ti condanno» dice Gesù all’adultera. Ma aggiunge: «Va’ e d’ora in poi non peccare più». Io ho invece l’impressione che oggi ci stiamo costruendo un Dio a nostra immagine e somiglianza, del quale diventa espressione una Chiesa molto simpatica ma, ahimè, relativista. Una Chiesa che sembra avere a cuore non la salvezza delle anime, ma il benessere psicofisico delle persone. Una Chiesa che, ignorando giustizia e verità, non giudica ma si limita a consolare e giustificare. È una Chiesa à la page, che pensa di non dover perdere tempo con la dottrina e per questo piace molto ai laicisti di ogni colore ed estrazione. È una Chiesa che non ritiene necessario, perché poco «moderno», confermare i fratelli nella fede, ma è sensibile agli applausi che arrivano dai lontani. Così tutti quelli che, con ostinazione e senza rendersi conto di essere fuori moda, continuano a porsi il problema della giustizia e della verità (poverini: leggono ancora Pio XII!), diventano automaticamente «dottori della legge» e «farisei». Mi sbaglierò, ma c’è qualcosa che non funziona.

            Aldo Maria Valli        7 giugno 2016

www.aldomariavalli.it/2016/06/07/misericordia-giustizia-verita-nuove-noterelle

 

Gradualità della legge e legge della gradualità. Una risposta

Avevo promesso che non avrei più parlato di me stesso, e invece rieccomi qua (è proprio vero che dei giornalisti non ci si può fidare). Dopo che ho manifestato dubbi e perplessità circa l’insegnamento contenuto in Amoris laetitia (eccessivo ricorso alla morale della situazione, ambiguità diffusa, rischio di sfociare nel soggettivismo e nel relativismo), alcuni amici mi hanno detto: «Da te proprio non ce l’aspettavamo! Tu che eri amico di Martini! Tu che hai scritto a favore della comunione ai divorziati risposati e contro le discriminazioni ai danni degli omosessuali!». Implicita l’accusa di essere in contraddizione con me stesso.

            Partiamo allora da Martini. È vero, mi ha onorato della sua amicizia e l’averlo potuto frequentare è stato un dono grande. Proprio perché eravamo amici ci è capitato anche di mettere a confronto idee diverse. Non entrerò nei dettagli. Dico solo che, a mio giudizio, il cardinale non fu mai ambiguo. Quando chiedeva di capire le ragioni degli altri (fino al punto di istituire la cattedra dei non credenti) e di cogliere i segni dei tempi, si metteva certamente in ascolto con grande attenzione, ma non per questo abbassava il livello della riflessione. Al contrario, lo alzava. Si interrogava, cercava di mettersi nei panni degli altri, ma non pretendeva di piegare il Vangelo alle esigenze del mondo. Per tutta la vita non ha fatto altro che leggere il mondo, con tutti i suoi cambiamenti e stravolgimenti, tenendo la Bibbia in mano.

            E ora la comunione ai divorziati risposati. Mi sento un po’ in imbarazzo nell’affrontare l’argomento perché non ho competenze teologiche. Dirò tuttavia che vedo l’eucaristia come l’aiuto numero uno, il più potente e prezioso, nel cammino del cristiano e come un balsamo per i sofferenti, non certo come un premio per i perfetti. Gesù è venuto per i malati, non per i sani. Quindi capisco molto bene tutti quei preti che sostengono i divorziati risposati perché l’eucaristia sia vissuta così. Diverso è il caso delle coppie omosessuali credenti, ma anche sotto questo profilo mi sento vicino a tutti quei preti in cura d’anime che, senza applicare alle persone etichette di «regolarità» o «irregolarità», si comportano da padri nella fede, con rispetto e insieme autorevolezza. Ho affrontato questi temi in due libri-inchiesta, Chiesa ascoltaci! e C’era una volta la confessione (scusate la pubblicità, ma è solo per spiegare che non parlo per sentito dire), che mi hanno fatto toccare con mano la sofferenza reale di preti divisi interiormente tra la spinta a donare il balsamo dell’eucaristia e il dettato della norma canonica. Ricordo soprattutto la testimonianza di un sacerdote che, confessando la sua disobbedienza nei confronti del codice, mi ha detto: «Io non me la sento di chiudere il Cielo in faccia alle persone».

            Ora la domanda: Amoris laetitia scioglie questi nodi? A mio giudizio no. Purtroppo li rende ancora più ingarbugliati. Perché non dà risposte chiare ma si limita ad affermare la morale della situazione come criterio-guida. Il che, di fatto, non solo accresce la confusione, ma indebolisce l’autorevolezza del munus docendi, del compito di insegnare, proprio di ogni sacerdote e a maggior ragione del papa. Non starò a riproporre tutti i dubbi circa Amoris laetitia. Mi limito a osservare la disparità rispetto a Familiaris consortio (n. 34), là dove san Giovanni Paolo II invita a non confondere la legge della gradualità con la gradualità della legge, come se la legge divina avesse vari gradi di cogenza a seconda delle varie situazioni. Occorre stare attenti: è facile relativizzare la legge divina. E lo sanno bene i coniugi cristiani, ministri del loro matrimonio, chiamati alla fedeltà reciproca e all’indissolubilità del vincolo.

            Ho già fatto in altri interventi il paragone con il padre di famiglia: che cosa potrebbero pensare i miei figli se una norma (per esempio, rientrare a casa non più tardi della mezzanotte) valesse in un certo grado per l’uno e in un certo grado per l’altro? Sarà che di figli ne ho sei, ma se applicassi la gradualità della legge e la morale della situazione, provocherei sconcerto nei figli e metterei a rischio la credibilità di padre. L’importante è invece applicare la legge della gradualità, ben sapendo che ciascuno matura con tempi diversi e attraverso cammini diversi. In Familiaris consortio san Giovanni Paolo II è tutt’altro che duro con i coniugi. Esigente sì, ma non duro. A un certo punto osserva che nei loro confronti, da parte di chi li sostiene nel cammino spirituale, occorrono «non poca pazienza, simpatia e tempo». Ecco la legge della gradualità. Ben diversa dall’idea che vi sia una gradualità nella legge divina. Ed ecco perché papa Wojtyla chiede a tutti coloro che sono impegnati nella pastorale familiare «riflessione, informazione, idonea educazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici» e poi sottolinea che «di singolare importanza in questo campo è l’unità dei giudizi morali e pastorali dei sacerdoti: tale unità dev’essere accuratamente ricercata ed assicurata, perché i fedeli non abbiano a soffrire ansietà di coscienza». Unità dei giudizi morali: il contrario della confusione dilagante.

            Gradualità della legge e morale della situazione possono forse apportare benessere psicofisico, ma conducono alla salvezza dell’anima? Arrovellarsi attorno a queste domande è ovviamente tempo sprecato per chi pensa che tutto finisca con la morte. Lo è anche per chi ritiene che il buon Dio, alla fin fine, non giudicherà ma si limiterà ad apporre un timbro di idoneità al paradiso.  Ma il Salmo ci parla di un Dio «grande nell’amore» e «lento all’ira», un Dio che «ha pietà di quanti lo temono». L’ira di Dio, il timor di Dio: non sono fantasie, esistono. Non commettiamo l’errore di leggere solo le parole che ci garantiscono consolazione superficiale e di ignorare quelle che riguardano il giudizio e dunque chiamano in causa la nostra libertà e la nostra responsabilità.

            Alcuni amici mi dicono: ma tu cadi in sottigliezze infinite e così perdi di vista l’umanità. Rispondo con le parole di Chesterton: «Chi si conforma a dire “Non vogliamo che i teologi dibattano su sottigliezze” si conformerebbe sicuramente anche a dire “Non vogliamo che i chirurghi operino filamenti più sottili di un capello”. È un fatto che molte persone oggi sarebbero morte se non fosse perché i medici hanno dibattuto sulle delicate sfumature della medicina. È anche un fatto che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i dottori della divinità non avessero dibattuto sulle delicate sfumature dottrinali».

Aldo Maria Valli        10 giugno 2016

www.aldomariavalli.it/2016/06/10/gradualita-della-legge-e-legge-della-gradualita-una-risposta

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CHIESE EVANGELICHE

50 anni fa veniva consacrata la prima donna pastora, dopo un lungo dibattito nelle comunità.

            In mezzo a questo nuovo gran fiorire di entusiastici elogi al papa che “apre alle donne”, bisogna prima di tutto dire esattamente le cose come stanno. Rispondendo a una domanda rivoltagli in occasione del recente grande incontro internazionale con 600 suore (superiore generali), Bergoglio ha detto sì alla proposta di istituire una commissione per riesaminare la questione del diaconato femminile. Ben venga la commissione, ben vengano le donne diacone.

            Leggendo i primi commenti ho pensato che occorre evitare i due estremi: uno, che vede ormai prossimo l’ingresso a pieno titolo delle donne nella gerarchia della Chiesa di Roma (il diaconato è il primo grado dell’ordine sacro, seguito dal sacerdotale ed episcopale) e giudica “epocale” l’apertura del papa; l’altro, altrettanto sbrigativo, che minimizza, che ha subito da ridire perché si parla solo di diaconato e non di sacerdozio. Tra di noi non mancherà chi, con orgoglio valdese, ricorderà la presenza di donne predicatrici fin dal XII secolo nel movimento valdese.

            Intanto non è vero che la chiesa cattolica sia l’ultima rimasta a rifiutare il sacerdozio alle donne; se nelle chiese anglicane o luterane ci sono donne vescove, tutto il mondo ortodosso è contrario al sacerdozio femminile e tanti evangelici fondamentalisti negli Usa, probabilmente molti di quelli che voteranno per Trump, di donne pastore non hanno alcun desiderio, come di coppie gay e di relative benedizioni.

            Il “predicare liberamente” rivendicato da Valdo coinvolse uomini e donne (ma i Barba valdesi erano maschi). La Riforma ebbe altre priorità. Più che consentire anche alle suore di predicare, Lutero volle spalancare le porte dei conventi e far cadere la separazione tra il dentro e il fuori, tra la religione e il mondo. Per la chiesa valdese, il punto di inizio del lungo percorso verso il pastorato femminile è il 1948, quando una apposita Commissione viene nominata dalla Tavola valdese (l’organo esecutivo del Sinodo). L’anno successivo la Commissione presenta due rapporti: uno sul pastorato, l’altro su un possibile “ministero ausiliare”.

            «Riteniamo che non vi siano sufficienti ragioni – concludeva il primo rapporto – per continuare a escludere le donne di fede evangelica dal ministero pastorale nella sua pienezza». Il secondo testo indicava per le donne varie funzioni «esulanti dalla predicazione, dall’amministrazione dei sacramenti e dalla cura d’anime». Era prevista l’incompatibilità con il matrimonio non per una ragione di principio, ma per il timore che con la cura famigliare ci fosse meno tempo disponibile per la chiesa. Regola abolita nel 1959. Per la preparazione a questo ministero di “assistente di chiesa” fu istituito un corso apposito presso la Facoltà di teologia nel 1950, con tre studentesse che lo frequentarono, pur non sapendo ancora bene quale sarebbe stato il loro ruolo. Nel 1960 il Congresso della Federazione femminile chiese al Sinodo il riconoscimento del pastorato alle donne. Ma la decisione fu ancora rinviata e demandata alle chiese locali che fecero pervenire il loro parere: in genere favorevole, ma con molte perplessità di ordine pratico. Finalmente, il Sinodo del 1962 riconosce «alle sorelle che siano state chiamate la piena validità del ministero della Parola»; decisione comunque non facile, come dimostrano i numeri: favorevoli 57, contrari 42, astenuti 10. Nel 1967 viene consacrata la prima donna pastora; con l’integrazione fra le chiese metodiste e valdesi, nel 1979, il ministero pastorale viene aperto anche alle donne metodiste.

            Alla metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo, le donne pastore nelle chiese metodiste e valdesi erano circa il 10%, oggi sono triplicate. Nell’Unione delle chiese battiste ci sono donne pastore fin dai primi anni ’80 e nella chiesa evangelica luterana in Italia le donne pastore sono in servizio dagli anni ’90. Nell’ottobre 2004 fu eletta la prima pastora presidente del Comitato esecutivo dell’Unione delle chiese battiste e nell’agosto 2005 la prima pastora moderatora della Tavola valdese. Il prossimo anno, 2017, sarà dunque non solo l’anniversario della Riforma, ma anche il cinquantenario dalla prima consacrazione di una donna al ministero pastorale nella chiesa valdese.

            In questa prospettiva, la vera questione non è se le donne potranno far parte della gerarchia nella chiesa cattolica ma il fatto che la gerarchia, dal papa in giù, faccia le veci di Cristo, si ponga come la mediatrice fra Dio e l’umanità. A proposito del papa, è famosa una frase di Lutero: «un vicario non è necessario, basta avere dei ministri». Mentre nel protestantesimo siamo abituati a pensare ai “doni dello Spirito” concessi a tutti e a ciascuno, riconosciuti dalla comunità, con l’aiuto della Parola, nel cattolicesimo è l’incarico ecclesiastico canonicamente conferito che garantisce la presenza dello Spirito. La chiesa antica, e anche la Riforma afferma: Ubi Christus ibi Ecclesia (dove c’è Cristo c’è la Chiesa). Nella teologia gerarchica, invece, «la Chiesa è dove c’è il vescovo (o Pietro)».

            La vera frattura nella chiesa cristiana del XVI secolo sta qui. Nessuno può dominare lo Spirito che soffia dove vuole; nessuno dovrebbe impedire che anche le donne nella chiesa cattolica siano non solo diacone, ma sacerdote, vescove e papesse. E’ la scala gerarchica che, con i vari gradini, si innalza verso Dio che contrasta con la Parola. Al contrario, è Dio che, in Cristo, diventando come noi, ci viene più che vicino. Non siamo noi che, attraverso la chiesa, andiamo più vicino a Dio.

            Marco Rostan                        Riforma.it                  16 maggio 2016

http://riforma.it/it/articolo/2016/05/16/il-papa-le-donne-e-il-pastorato-femminile-nella-chiesa-valdese

 

Un’iniziativa che potrebbe rivelarsi la più importante del pontificato.

Una decisione che probabilmente si rivelerà essere quella storicamente più importante del pontificato di papa Francesco è stata presa in modo quasi aneddotico. Nel corso di un incontro con superiore di congregazioni di religiose, il papa è stato interrogato sulla possibilità per le donne di essere ordinate diacone. Ha risposto che avrebbe costituito una commissione: «Sarebbe fare il bene della Chiesa di chiarire questo punto. Io parlerò per fare qualcosa di simile». Gli esperti di teologia cattolica reputano assolutamente possibile questa evoluzione in quanto non tocca il dogma, a differenza dell’accesso delle donne al sacerdozio.

Nello schema tradizionale della Chiesa i diaconi sono, accanto ai preti, al servizio del vescovo. I primi operano più nell’ambito della missione e del servizio, gli altri più in quello del culto. Solo che, in Occidente, la diminuzione e l’invecchiamento dei preti fanno sì che sempre di più i diaconi si facciano carico dell’animazione delle parrocchie. Possono fare tutto tranne consacrare le ostie e presiedere il sacramento della riconciliazione. Celebrano cerimonie distribuendo ostie precedentemente consacrate. Se la differenza con le messe è importante per i teologi, resta secondaria per la maggioranza dei partecipanti. In quanto alla confessione, essa è diventata marginale nell’attività pastorale dei preti.

In Svizzera ci sono parrocchie animate prevalentemente da diaconi sposati e tutti li considerano come rappresentanti a pieno titolo della Chiesa cattolica. È probabile che questo modello si diffonda, perché è la risposta alla diminuzione del numero dei preti. Se la commissione creata dal papa non subirà una reazione identitaria, tra qualche tempo vedremo parrocchie cattoliche animate da donne diacono che molti considereranno alla stessa stregua dei preti. Aneddotica la decisione del papa? Non per niente è gesuita. 

Antoine Nouis            Fonte: Réforme (traduz. G. M. Schmitt, Voce Evangelica)  30 maggio 2016 

http://riforma.it/it/articolo/2016/05/30/francesco-e-le-donne-diacono

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CINQUE PER MILLE

Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.

Gli elenchi definitivi del 5 per mille 2016. Sono 51.724 gli iscritti negli elenchi definitivi. Prossima scadenza: il 30 giugno, con la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, per attestare il possesso dei requisiti di ammissione.

            Sul sito dell’Agenzia delle Entrate sono stati pubblicati gli elenchi definitivi degli Enti del volontariato e delle Associazioni sportive dilettantistiche, aggiornati ed integrati rispetto a quelli pubblicati il 13 maggio 2016 per eliminare duplicazioni, correggere dati anagrafici errati e per inserire enti riammessi a seguito della verifica di errori di iscrizione. (…)

I legali rappresentanti dei soggetti inclusi nelle liste dovranno provvedere a presentare, entro il prossimo 30 giugno, una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà per attestare il possesso dei requisiti di ammissione. Gli enti del volontariato dovranno inviarla alla direzione regionale delle Entrate del luogo dove hanno sede, le associazioni sportive dilettantistiche alla struttura del Coni competente per territorio.

Il modello da utilizzare deve essere conforme a quello pubblicato sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate e, a esso, occorre allegare copia del documento di riconoscimento del legale rappresentante che sottoscrive.

Per chi non dovesse fare in tempo, è previsto un extratime: sarà possibile rimediare, presentando la domanda d’iscrizione e la documentazione integrativa entro il termine ultimo del 30 settembre 2016.

In questo caso, però, per poter essere ammessi al riparto delle quote del 5 per mille 2016, andrà versata, tramite F24 (codice tributo “8115”), una sanzione di 250 euro. Ovviamente, i requisiti per l’accesso al beneficio dovevano comunque essere posseduti alla data di scadenza delle domande d’iscrizione, vale a dire al 7 maggio, per gli enti di volontariato e le associazioni sportive dilettantistiche, e al 30 aprile, per gli enti della ricerca scientifica e dell’università e quelli della ricerca sanitaria.

www.nonprofitonline.it/default.asp?id=466&id_n=6807

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CONSULENZA FAMILIARE

Il consulente familiare.

E’ in distribuzione il n. 2\2016, aprile-giugno di “Il consulente familiare”, organo di informazione dell’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari.

Il dossier a cura di Rita Roberto tratta “La violenza intrafamiliare”

www.aiccef.it/57-Rivista

http://ilconsulentefamiliare.blogspot.it

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CONSULTORI FAMILIARI

Consultori Familiari Oggi

E’ in distribuzione il n. 1\2016, gennaio-giugno di “Consultori Familiari Oggi”, organo della Confederazione Italiana dei Consultori Familiari di Ispirazione cristiana.

www.ancoralibri.it/index.php?route=information/information&information_id=33

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Padova. Iniziative in programma.

Il Consultorio sta organizzando alcune le seguenti tematiche:

v  Vita di coppia. (Incontri per coppie con progetto di vita a due)

Nascita e oltre (Incontri per neo-genitori)

Improvvisamente soli (Incontri per separati)

www.consultorioucipem.padova.it/index.php/iniziative-formative.html

Trento Prendersi cura delle relazioni.

            Video in          www.ucipem-tn.it

https://www.youtube.com/watch?v=_lG3msJyvOc

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DALLA NAVATA

XI Domenica del tempo ordinario – anno C -12 giugno 2016.

2 Samuele       12, 13 Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai».

Salmo                          32, 02 Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno.

Galati             02, 21 Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

Luca               07, 47 Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco».

 

Commento di Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose.

Nel vangelo secondo Luca è narrato un episodio riguardante Gesù e una donna anonima, avvenuto durante un banchetto. Questo racconto sembra fissato letterariamente, con significative differenze, in tutti e quattro i vangeli (cf. Mc 14,3-9; Mt 26,6-13; Gv 12,1-11), plasmato e collocato da ciascun evangelista nello sviluppo della narrazione in modo conforme alla propria visione teologica. Si potrebbe anche dire che questo episodio “ha vissuto” nelle diverse comunità cristiane, ricevendo una stesura finale diversa in ogni vangelo. Ma questa è un’ipotesi fatta dagli esegeti!

Preferisco dunque leggere questo racconto di Luca, indipendentemente dai possibili paralleli, per cogliere l’atteggiamento di Gesù verso una donna che l’evangelista definisce “peccatrice”, cioè una donna manifestamente peccatrice a causa del suo mestiere di prostituta e della conoscenza che avevano di lei i suoi concittadini. È un racconto scabroso, che ha scandalizzato e scandalizza ancora quanti pensano a se stessi come a persone che devono stare lontane da viziosi, prostitute, peccatori riconosciuti. Gesù però ha mostrato di non fermarsi mai davanti a barriere costruite da altri come difese immunitarie, erette a causa della condizione morale, sessuale, religiosa o etnica. A costo di essere male interpretato e letto come “un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34), non temeva di sedere con loro a tavola o di alloggiare nelle loro case, perché sentiva la sua missione come accoglienza dei peccatori, annuncio della buona notizia a quanti erano lontani da Dio e dalla sua Legge. Così quelli che sembravano esclusi dalla comunione con Dio, grazie a Gesù diventavano quelli che ascoltavano la buona notizia!

Gesù è invitato a tavola da Simone, un fariseo, un uomo religioso, osservante della Legge e irreprensibile. Egli accetta l’invito, entra a casa sua e si adagia a tavola insieme a lui. Ed ecco che una donna, notoriamente una prostituta, saputo che Gesù si trova a tavola in casa di quel fariseo, con audacia entra in quel banchetto riservato a uomini portando un vasetto di alabastro pieno di profumo. Entra furtivamente, si ferma “dietro” a Gesù (come i discepoli: cf. Lc 9,23; 14,27), si rannicchia “ai suoi piedi” (in posizione di ascolto, di discepola, come Maria di Betania: cf. Lc 10,39) e fa quello che sovente faceva per mestiere: lavare i piedi dei clienti e profumarli. Fa così anche con Gesù, ma con una significativa novità lo fa gratuitamente, non richiesta, e lava i suoi piedi con le proprie lacrime, baciandoli con tutto l’amore di cui è capace. Ha sentito parlare di Gesù, lo ha ascoltato e lo ama a tal punto da osare con audacia un gesto straordinario.

Ed ecco che, alla vista dei gesti compiuti da questa donna, subito si crea un grande imbarazzo, e gli uomini religiosi là presenti, in primis il fariseo che ha invitato Gesù, restano scandalizzati: Gesù è un rabbi che non le imputa nulla, non l’accusa e si lascia palpare da questa donna, riconoscibile come una prostituta dall’abbigliamento! Quell’intimità sempre disdicevole con una donna appare una grave offesa alla Legge, perché quella donna è impura! Il fariseo è costretto dalla sua etica a pensare: o Gesù non è un profeta e non sa cosa stia avvenendo né chi sia quella donna, oppure è uno che in realtà ama questi gesti, la compagnia delle prostitute, il loro comportamento. La scena è intollerabile, imbarazza, perché ha indubbiamente una qualità erotica: quella prostituta palpa e tasta i piedi di Gesù, li bacia, li bagna con le lacrime e poi li asciuga con i suoi lunghi capelli. È una donna non velata come tutte le altre e fa i gesti nei quali le prostitute sono esperte per sedurre e dare piacere. Infine, tirato fuori un vasetto di profumo, cosparge con l’unguento i piedi Gesù. Questo è davvero troppo!

Gesù invece legge tutto diversamente: c’è una donna rannicchiata ai suoi piedi che tocca il suo corpo, piange fino a lavare i suoi piedi con le lacrime, li asciuga con i suoi capelli, li bacia senza dire una parola e li profuma. Gesù vede una donna che ha sofferto e che soffre, che ama, una donna in cerca di amore, mentre il fariseo vede una peccatrice. Qui sta la differenza tra il rabbi Gesù e gli altri esperti della Legge, gli uomini religiosi: egli non vede prima il peccato, ma la sofferenza, e qui soprattutto vede qualcuno che può essere amato nonostante i suoi peccati e che ama ancora; gli uomini religiosi invece si esercitano prima a spiare, a misurare il peccato, a emettere un giudizio, poi eventualmente vedono la sofferenza come esito del peccato.

Secondo la Legge e il pensiero dominante quella donna impura, toccando il corpo di Gesù, gli comunicherebbe la sua impurità, ma il vangelo sottolinea piuttosto che lei sa trasformare in una manifestazione di amore verso di lui ciò che aveva sempre svolto come prestazione pagata. Spinta dall’amore, agisce senza timore: “nell’amore non c’è timore” (1Gv 4,18)! Ciò che compie sta nel registro amoroso, e Luca descrive le azioni all’imperfetto, cioè come gesti ripetuti, caratterizzati da una lunga durata: “asciugava, baciava, ungeva”. Le mani di questa donna prendono e abbracciano i piedi di Gesù, le sue lacrime li bagnano fino a lavarli, i suoi capelli li asciugano, i suoi baci raccontano con la bocca i suoi sentimenti, le sue mani versano profumo e lo spandono sui suoi piedi. La donna piange perché sente la colpa dei peccati commessi, o forse piange di gioia, perché ha finalmente trovato un uomo che può davvero amare e da cui essere riamata. In un silenzio assoluto lascia che sia il suo corpo a esprimere il suo linguaggio affettivo: audacia, umiltà, amore, e tutto è riassunto nelle sue lacrime, il vero significato nascosto in quei gesti.

Per il fariseo questo palpare è un peccato, un pericolo per Gesù, è l’anticamera di relazioni intime vietate dalla Legge, mentre per Gesù è liturgia di amore, celebrazione dell’amore. Ed è proprio in forza di questa consapevolezza che egli, fino a questo momento silenzioso e oggetto di attenzioni da parte di altri, prende l’iniziativa. Il testo dice letteralmente che Gesù, “rispondendo”, parla. Simone ha solo pensato nel suo cuore, non ha parlato, ma Gesù conosce i pensieri dei cuori (cf. Gv 2,24-25) e così manifesta di essere veramente profeta. Leggendo dunque le intenzioni di chi lo ospita, lo chiama per nome e gli si rivolge con autorevolezza di rabbi: “Simone, ho qualcosa da dirti”. E l’altro replica: “Maestro, di’ pure”. Allora Gesù gli racconta una breve parabola, con lo scopo di far mutare il modo di pensare del fariseo: “Un creditore aveva due debitori. Uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?”. Simone comprende il senso di questa parabola così semplice, e giudica bene, ma anche con una certa prudenza, fiutando l’aria di un trabocchetto: “Suppongo colui al quale ha condonato di più”.

Qui il racconto potrebbe terminare, e l’insegnamento sarebbe chiaro. Ma Gesù prosegue e, voltandosi verso la donna – con uno sguardo che la reintegra nella sua dignità di donna –, chiede a Simone: “Vedi questa donna?”. Domanda non banale, vero invito a vedere non una peccatrice ma una donna. Poi Gesù si dilunga in un confronto tra questa donna e Simone, opponendo ciò che lei ha fatto e ciò che lui non ha fatto; o meglio, ciò che lei gli ha donato e ciò che lui non gli ha donato. Simone lo ha invitato a pranzo, ma non gli ha donato l’acqua per lavare i suoi piedi, mentre la donna li ha lavati con le lacrime e asciugati con i capelli; Simone non gli ha dato un bacio, mentre la donna non ha cessato di baciare i piedi di Gesù; Simone non lo ha profumato, mentre la donna ha unto di profumo i suoi piedi. In breve, Simone non ha saputo donare nulla a Gesù, la donna invece si è fatta tutta dono per lui: ha agito con il corpo che era, non con il corpo che possedeva, con l’interezza del suo essere il suo corpo animato dall’amore per Gesù. Dunque, grazie a questo donarsi che è grande amore, ecco – afferma Gesù – che “sono stati perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato (Hóti egápesen polý). Qui non si può dimenticare lo splendido e lapidario commento del patriarca Athenagoras:Hóti egápesen polý. Perché lei ha molto amato. Perché Lui ha molto amato. Tutto il cristianesimo è qui”.

Poi Gesù aggiunge una frase che sembra capovolgere quella appena pronunciata: “Invece colui al quale si perdona poco, ama poco”. In realtà sono entrambe vere: colui al quale è perdonato di più ama di più e, nello stesso tempo, questa donna è perdonata perché ha molto amato. Il perdono causa l’amore ma anche l’amore causa il perdono! Sappiamo bene quante dispute esegetiche e teologiche siano sorte a partire da questa apparente contraddizione tra le due sentenze di Gesù, ma preferiamo sottolineare che ciò che è al centro dell’incontro tra Gesù e questa donna è l’amore. In ogni caso i gesti di amore della donna sono insieme indizi e cause del perdono.

Questo racconto è una testimonianza di come Gesù sapeva accogliere le donne, il loro linguaggio corporale, il loro amore così teso a discernere il suo corpo e non solo il suo insegnamento. A questa tavola chi ha incontrato Gesù e, viceversa, chi è stato da lui incontrato? Non Simone, che pure l’aveva invitato, e al quale Gesù cerca di svelare il proprio cuore, se stesso. La donna, invece, ha incontrato Gesù, ed egli l’ha incontrata fino a dichiararle: “I tuoi peccati sono stati perdonati. La tua fede ti ha salvata; prosegui il tuo cammino in pace!”. La peccatrice ha ottenuto il perdono dei suoi peccati, come Gesù le ha dichiarato, perciò si sente resa “creatura nuova” (2 Cor 5,17; Gal 6,15), con una vita nuova davanti a sé. Certamente ha compreso che quell’amore che l’aveva spinta a cercare Gesù e a incontrarlo era destato proprio da Gesù e dal suo annuncio della misericordia di Dio. Per questo non è necessario che Gesù le chieda il proposito di non peccare più (cf. Gv 8,11), perché, una volta conosciuto l’amore di Gesù, il peccato non ha più la capacità di rendere schiavo il credente. Questa è la fede che ha salvato la donna, l’ha liberata dall’alienazione, l’ha rimessa in piedi e l’ha resa capace di riprendere il cammino nella pace.

Sarà forse questa donna tra quelle che stavano con Gesù, “curate da spiriti maligni e da infermità”, delle quali Luca ci parla subito dopo? Anche una donna prostituta, infatti, può diventare discepola di Gesù, perché “il peccato può diventare amore” – come scriveva Lacordaire –, essendo sempre, per gli amici del Signore, un’occasione di amore. La vera conversione non si ha quando si diventa perfetti, purissimi, ma quando il peccato diventa amore

https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/06/enzo-bianchi-commento-vangelo-12-giugno.html

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DIACONATO

                                   Breve storia dell’ordinazione delle donne al diaconato.

La discussione, auspicata da papa Francesco, sul ripristino del diaconato femminile nella Chiesa ha comprensibilmente suscitato un rinnovato interesse nella storia di queste figure. Ci dobbiamo porre tre fondamentali domande:

  1. sono mai esistite diacone nella Chiesa?
  2. se ci sono state, cosa facevano? Avevano gli stessi ruoli dei diaconi?
  3. la più fondamentale: l’ordinazione delle diacone era assimilabile a quella dei diaconi, vale a dire un’ordinazione a un ordine maggiore, o era semplicemente una benedizione che le insediava in un ruolo (ordine) minore?
  4. Primo punto: è incontestabile che ci fossero diacone in passato, sia in Oriente che in Occidente. In questo articolo userò il termine “diacona”, non “diaconessa”. Anche se le fonti storiche usano i due termini indifferentemente, non si trattava di due gruppi distinti. Usare un unico termine elimina ogni ambiguità. Stabilito questo, ci sono moltissime prove dell’esistenza delle diacone nella storia del cristianesimo. A cominciare da Febe, l’unica citata come tale nelle Scritture, compaiono numerosi riferimenti alle diacone in epigrafi, lettere, cronache e soprattutto nei riti di ordinazione a loro dedicati in Oriente e in Occidente. Le diacone esistono tutt’ora in alcune comunità cristiane orientali. L’esistenza di quest’ordine nella tradizione cristiana non è in discussione, né dovrebbe esserlo.
  5. Dunque, cosa facevano le diacone? Non sorprenderà sapere che rivestivano ruoli diversi a seconda dell’epoca e del luogo. Questo è vero di tutti gli ordini della Chiesa, le cui strutture sono cambiate con il tempo per venire incontro alle esigenze delle varie epoche. I ruoli che tutte queste donne avevano in comune sembrano essere stati la lettura del Vangelo, la predicazione e l’insegnamento. Alcune collaboravano alla liturgia, in particolare nelle Chiese orientali. Tali ruoli erano affini a quelli ricoperti dai diaconi ed è per questo, ovviamente, che venivano chiamate così. Forse non sarebbero state chiamate “diacone” se non avessero fatto ciò che facevano i diaconi. Al di là di questo, le diacone ricoprivano ruoli diversi a seconda della società e del periodo in cui vivevano. Alcune erano sposate con figli, altre erano sposate, ma vivevano in castità con altri diaconi, altre non si sposavano mai ed erano più simili alle suore di oggi. Questa grande varietà ci suggerisce qualcosa di importante: se il diaconato femminile verrà ripristinato nella Chiesa cattolica, il loro ruolo dovrà dipendere dalle esigenze attuali della Chiesa e non da quello delle loro antiche antenate. Se vogliamo essere tradizionali, dovremmo fare ciò che facevano i nostri predecessori, vale a dire provvedere strutture e ruoli ecclesiali che permettano alla comunità cristiana di vivere la vita dedicata al prossimo che il Signore risorto ci chiede di condurre. Questo è ciò che ha fatto il Concilio Vaticano Secondo (1962-65) quando ha ripristinato il diaconato maschile permanente. In breve, il passato non deve e non dovrebbe dirci come dovrebbe essere il diaconato femminile, al di là dell’ovvia constatazione che le diacone dovrebbero fare ciò che fa ogni diacono: servire la comunità, predicare e prendere parte alla liturgia.
  6. La questione più spinosa, ovviamente, è sapere se le diacone del passato fossero considerate parte dell’ordine maggiore del diaconato, vale a dire equivalenti ai diaconi. È una questione complicata perché la stessa ordinazione era concepita in maniera molto diversa nel primo millennio. In origine, l’ordinazione consisteva nella selezione di un membro di una particolare comunità cristiana e il suo insediamento in una particolare funzione all’interno di quella comunità. L’ordinazione non conferiva un potere irrevocabile, che la persona in questione potesse esercitare altrove. Non essendoci nessuna differenza ontologica tra i vari ordini, la distinzione tra ordini maggiori e minori non era così importante. Alcune attività potevano essere più importanti di altre, ma tutte erano al servizio della comunità locale. Forse la cosa migliore da fare è capire se alle diacone fossero riservate le stesse cerimonie di ordinazione dei diaconi. Le prove a sostegno sono utili, ma probabilmente non aiuteranno a risolvere la questione, primo di tutto perché i riti di ordinazione sono spesso, ma non sempre, abbastanza diversi tra diacone e diaconi. Il rito occidentale più completo pervenutoci, per esempio, comprende preghiere e cerimonie che derivano dalla consacrazione delle vergini. D’altro canto l’ordinazione, come quella dei diaconi, veniva celebrata dal vescovo all’altare durante la messa e consisteva nel porre la stola di una diacono (orarium in latino) sulle spalle della diacona. Nei riti orientali le somiglianze tra l’ordinazione dei diaconi e quella delle diacone erano ancora più strette: ambedue si svolgevano sull’altare e non altrove, come accadeva per gli ordini minori. Il vescovo posava le mani sul capo della candidata all’ordinazione e le posava la stola (orarium) attorno al collo, proprio come accadeva ai diaconi. Chi sostiene che le diacone non costituivano un ordine maggiore sottolineano il fatto che i riti di ordinazione non sono gli stessi. Chi sostiene che le diacone costituivano un ordine maggiore sottolineano le somiglianze tra il rito maschile e quello femminile. Nel complesso, le argomentazioni a sostegno della seconda ipotesi paiono più robuste, ma la storiografia non risolverà la questione: piuttosto ci dirà che possiamo, se lo vogliamo, ordinare le donne nell’ordine maggiore del diaconato ma rimanendo liberi, come lo erano i nostri antenati e le nostre antenate, di fare ciò che è meglio per la Chiesa di adesso.

Per concludere, la lezione più importante che la storia delle diacone offre a una Chiesa che sta prendendo in considerazione il loro ripristino è che una storia così variegata dovrebbe lasciarci liberi di scegliere cosa è meglio per la Chiesa di adesso. Del resto, questo è ciò che significa e ha sempre significato l’autentica fedeltà alla tradizione.

Gary Macy, docente di teologia all’università gesuita di Santa Clara in California.

National Catholic Reporter (USA) 1 giugno 2016, tradotto da Giacomo Tessaro          6 giugno 2016

www.gionata.org/breve-storia-dellordinazione-delle-donne-al-diaconato

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DIRITTI

Presentazione del 9° Rapporto CRC.

Il Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Gruppo CRC Convention on the Rights of the Child) è un network attualmente composto da 90 soggetti del Terzo Settore che da tempo si occupano attivamente della promozione e tutela dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza ed è coordinato da Save the Children Italia. Il Gruppo CRC si è costituito nel dicembre 2000 con l’obiettivo prioritario di preparare il Rapporto sull’attuazione della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (Convention on the Rights of the Child – CRC) in Italia, supplementare a quello presentato dal Governo italiano, da sottoporre al Comitato ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza presso l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

La presentazione ufficiale mercoledì 8 giugno 2016 a Roma alla presenza del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Poletti e dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Filomena Albano.

            La fotografia delle persone di minore età in questi 25 anni è profondamente cambiata: nel 1991 erano 11.222.308 (il 19,7% della popolazione), il tasso di natalità era di 9,79 % (nati vivi per ogni 1000 residenti), grazie ai 556.000 nuovi nati. Nel 2015, i minorenni sono 10.096.165 (16,6%), il tasso di natalità è sceso a 8 e i nuovi nati hanno toccato il minimo storico dall’Unità d’Italia (solo 488.000). Questi alcuni dei dati che emergono dal 9° Rapporto di monitoraggio sull’attuazione della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza nel nostro Paese, realizzato dal Gruppo CRC, alla cui redazione hanno contribuito 91 associazioni del Gruppo.

            Quest’anno il Rapporto viene annunciato in un’occasione speciale: il 25° anniversario dalla ratifica della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, avvenuta il 27 maggio 1991 con la Legge 176/1991.

Eppure nel Rapporto viene messo in luce come tanti principi enunciati nella Convenzione non abbiano ancora trovato piena applicazione nel nostro Paese e le 143 raccomandazioni rivolte alle Istituzioni e contenute nel documento fanno riflettere su come il cammino sia ancora lungo. A fare punto sulla situazione il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Giuliano Poletti e l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Filomena Albano, mercoledì 8 giugno 2016 in occasione della presentazione ufficiale del Rapporto.

Il 27 maggio 2016 è il 25° anniversario dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, avvenuta il 27 maggio 1991 con la Legge 176/1991. Il Gruppo CRC presenta la pubblicazione del 9° Rapporto CRC, in cui una particolare attenzione è stata dedicata a questa importante ricorrenza ed alle conquiste di questi anni. Eppure nel Rapporto viene messo anche in luce come tanti principi enunciati nella CRC non abbiano ancora trovato piena applicazione nel nostro Paese, e le 143 raccomandazioni contenute alla fine dei vari paragrafi fanno riflettere su come il cammino sia ancora lungo.

Non si possono però non considerare tutti gli sviluppi avuti in questi 25 anni, da un punto di vista normativo con la promulgazione di numerose le leggi. Solo per citarne alcune: Legge 66/1996 “Norme contro la violenza sessuale”; Legge 269/1998 “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”; il Testo unico sull’immigrazione (D.lgs. 25 luglio 286/1998 convertito in Legge 40/1998) che afferma il principio di inespellibilità dei minori stranieri e il loro diritto al permesso di soggiorno fino alla maggiore età; Legge 149/2001 che afferma il diritto prioritario di ogni bambino a crescere nella propria famiglia, ed ha previsto il superamento del ricovero in istituto entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento a una famiglia e, ove ciò non fosse possibile, mediante il collocamento in comunità di tipo familiare; Legge 38/2006 contro lo sfruttamento sessuale dei bambini; Legge 54/2006 sull’affidamento condiviso; Legge 40/2001 e poi la Legge 62/2011 volte a tutelare il rapporto tra figli minori e detenute madri.; Legge 219/2012 e D.lgs 154/2013 sulla riforma della filiazione che hanno in linea generale parificato la situazione dei figli nati fuori dal matrimonio ai figli nati all’interno del matrimonio; Legge 173/2015 sulla continuità affettiva, che tutela la relazione con la famiglia affidataria una volta cessato l’affidamento.

            Sono state inoltre ratificate importanti convenzioni per la promozione e tutela delle persone di minore età: si pensi ad esempio alla Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei minori (ratificata con Legge 77/2003); alla Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori dall’abuso e dallo sfruttamento sessuale (ratificata con Legge 172/2012); alla ratifica della Convenzione de L’Aja del 1993, che ha riformato tutta la disciplina dell’adozione internazionale in applicazione del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale (Legge 476/98), alla ratifica della Convenzione Aja 1980 sulla sottrazione internazionale dei minori (Legge 64/94); infine la recente ratifica della Convenzione Aja del 1996 sulla responsabilità genitoriale e la protezione dei minori (Legge 101/2015). L’Italia ha inoltre ratificato tutti e tre i Protocolli Opzionali alla CRC: il Protocollo Opzionale sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati e il Protocollo Opzionale sulla vendita di bambini, la prostituzione minorile e la pornografia rappresentante minori, con Legge 46/2002, ed il Terzo Protocollo Opzionale sulla procedura di presentazione di comunicazioni con Legge 199/2015.

            Per quanto riguarda il contesto educativo occorre segnalare tra i traguardi raggiunti l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico a 16 anni a partire dall’anno scolastico 2007/2008.

Importanti leggi di settore hanno posto le basi per una auspicabile governance delle Politiche per l’Infanzia e l’adolescenza, proprio a seguito dell’avvenuta ratifica e della presentazione del primo rapporto Governativo al Comitato ONU. La Legge 285/1997, “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, attraverso l’istituzione di uno specifico Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Nello stesso anno, con la Legge 451/1997 è stata istituita la Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è stato creato l’Osservatorio Nazionale per l’infanzia, con il compito di predisporre un Piano d’azione nazionale di interventi a favore dell’infanzia e dell’adolescenza, nonché creato il Centro Nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza.

Dal 2011 anche nel nostro Paese esiste un’Autorità Garante per i diritti dell’infanzia a livello nazionale e 10 Regioni hanno anche un Garante regionale oltre alla Province autonome di Trento e Bolzano.

            Si è ora in una fase piena di aspettative rispetto ad auspicati cambiamenti: istituzione del sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita ai sei anni, definizione e implementazione del primo Piano nazionale di contrasto alla povertà, sperimentazione del Fondo dedicato al contrasto della povertà educativa minorile, adozione e relativa implementazione del IV Piano Nazionale Infanzia, approvazione dell’auspicata riforma della cittadinanza per i minori di origine straniera; mentre vanno seguiti con estrema attenzione alcuni progetti in discussione, quale quello della riforma del processo civile, che prevede ampie modifiche anche per quanto attiene alla giustizia minorile.

            Stenta invece a decollare uno dei principi base della CRC: l’ascolto e la partecipazione dei minori in tutte le decisioni che li riguardano, nonostante alcuni importanti interventi legislativi (si pensi ad esempio al D.lgs 154/2013 che ha disciplinato l’ascolto del minore nelle procedure civili in cui devono essere adottati provvedimenti che li riguardano).

L’ultimo esame del 3° e 4° Rapporto dell’Italia da parte del Comitato ONU, nel 2011, ha messo in luce come le precedenti Osservazioni Conclusive del Comitato ONU all’Italia siano rimaste in parte disattese, come ad esempio il trasferimento di competenze dagli enti di governo centrali a quelli regionali, a cui consegue un’applicazione non uniforme della Convenzione a livello locale.

In vista del prossimo Rapporto al Comitato ONU, previsto per aprile 2017, l’anniversario diventa un’opportunità per ridefinire una serie di obiettivi concreti, che permettano a tutte le persone di minore età che vivono in Italia di godere pienamente dei propri diritti così come enunciati dalla CRC.

            www.gruppocrc.net/evento-di-presentazione-del-9o-rapporto-crc

www.gruppocrc.net/-chi-siamo-

Fonti internazionali

v  Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, 10 dicembre 1948.

v  Dichiarazione dei diritti del fanciullo, 20 novembre 1959.

v  Convenzione sui diritti del fanciullo, 20 novembre 1989.

v  Convenzione dell’Aja, 29 maggio 1993.

v  Convenzione europea sull’adozione dei minori 27 novembre 2008.

Fonti nazionali

v  Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea Costituente il 22.12.1947, promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27.12.1947 ed entrata in vigore l’1.1.1948.

v  Legge 14 marzo 1968, n. 274, Modificazioni al regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238, sull’ordinamento dello stato civile.

v  Legge 22 luglio 1975, n. 382, Norme sull’ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione.

v  Legge 29 luglio 1975, n. 405, Istituzione dei consultori familiari.

v  Legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del servizio sanitario nazionale.

v  Legge 4 maggio 1983, n. 184, Diritto del minore ad una famiglia, come modificata dalle leggi n. 476 del 1998 Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993 Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri   e  n. 149 del 2001 Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori” nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile.

v  Legge 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.

v  Legge 11 agosto 1991, n. 266, Legge quadro sul volontariato.

v  Legge 31 dicembre 1996, n. 675, Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali.

v  Legge 28 agosto 1997, n. 285, Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza.

v  Legge 3 agosto 1998, n. 269, Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù.

v  Legge 8 novembre 2000, n. 328, Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

v  Legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita.

v  Legge 12 luglio 2011, n. 112, Istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza.

v  Legge 10 dicembre 2012, n. 219, Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali.

v  Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali.

v  Regio Decreto Legge 20 luglio 1934, n.1404, convertito in Legge 27 maggio 1935, n.835, Istituzione e funzionamento del tribunale per i minorenni.

v  Decreto Presidente Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, Attuazione della delega di cui all’art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382.

v  Decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127.

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Puglia. Il presidente Emiliano incontra il Forum. 11 giugno 2016

“Al lavoro per approvare in giunta una delibera quadro sulle politiche per la famiglia”. Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha incontrato presso gli uffici di presidenza i rappresentanti del Comitato regionale del Forum delle associazioni familiari per approfondire le tematiche che afferiscono alle politiche regionali per la famiglia. “Ringrazio il Forum – dichiara Emiliano – per il positivo dialogo instaurato con l’amministrazione regionale. Intendiamo rafforzare il percorso di condivisione delle politiche per la famiglia con la rete delle associazioni. Si è convenuto di portare in tempi brevi in Giunta una delibera quadro che stabilisca un piano di lavoro di politiche regionali integrate per la famiglia. Questo per coordinare e rafforzare quanto già in essere a livello regionale e implementarlo con ulteriori azioni e buone pratiche”. “Abbiamo discusso delle diverse misure necessarie in Puglia per sostenere la famiglia, a cominciare da quella con figli. Le donne pugliesi, nel 2015, hanno fatto registrare un numero medio di figli pari a 1,26, abbondantemente sotto la già bassissima meda nazionale, e la nascita di un figlio in più porta le famiglie sull’orlo della povertà”, spiega Lodovica Carli, presidente del Forum di Puglia. “Per questo – continua Carli – abbiamo chiesto misure fiscali e tariffarie che, applicando il FattoreFamiglia, possano agevolare le famiglie numerose, ma anche il rilancio dei consultori familiari. E’ stata poi messa in evidenza l’importanza dei Distretti Famiglia, il cui rilancio può mettere bene in luce il forte legame esistente fra politiche familiari e sviluppo economico” Dal Forum è inoltre emersa forte l’esigenza di avere dei momenti periodici (almeno trimestrali) di raccordo e confronto sulle azioni da intraprendere con gli assessori, i dirigenti e gli uffici regionali; una richiesta che il presidente intende accogliere e recepire nella delibera quadro.

www.forumfamiglie.org/news.php?&news=99709 Giugno 2016

 

Preziosi (Pd): subito FattoreFamiglia e Foppa. 9 giugno 2016.

“Si fa strada la possibilità di concreti interventi in tema di politiche familiari. Occorre però intendersi sulla modalità con cui affrontare il tema, ed è necessario che i partiti del centro sinistra se ne facciano carico in prima persona, ma non solo con motivazioni ’compensative’ dopo la approvazione della legge sulle Unioni Civili”. Lo ha detto Ernesto Preziosi, parlamentare Pd, introducendo il seminario ’Politiche familiari possibili, esigenze, proposte, fattibilità, organizzato da ’Argomenti2000, Associazione di amicizia politica che si è svolto oggi alla Camera dei deputati.

“Superata, e direi opportunamente, la ipotesi del quoziente familiare, oggi ’convertito’ nel fattore famiglia con una diversa dizione che comporta però anche scelte differenti: ci si chiede in che modo, con quali scelte da farsi a breve o, in ogni caso, da considerare nella prossima legge di stabilità, il governo possa rafforzare l’istituto del matrimonio e dare ’respiro alle famiglie attraverso sgravi fiscali, provvedimenti economici e servizi alle persone’”. Secondo Preziosi, “vanno create le condizioni vantaggiose che possano favorire e sostenere la scelta di sposarsi e di mettere al mondo i figli, sapendo che ciò comporta tutto una serie di interventi non individuabili appena al momento della gravidanza e dalla messa al mondo ma rivolti ad accompagnare e sostenere le famiglie nel necessario un percorso formativo ed educativo, e più in generale ancora (ed è una necessità che vale per tutti), nel fare intravedere possibili sbocchi lavorativi. Spingono in questa direzione anche i dati di una curva demografica che ci segnala una criticità evidente messa in luce anche dal presidente della Cei”.

La proposta emersa dal seminario, è di mettere all’ordine del giorno concreti sostegni alle famiglie. Un modo per allinearsi anche alle politiche familiari degli altri Paesi europei, visto che l’Italia risulta il Paese con la spesa sociale, per famiglie e figli, più bassa. “Il disegno di legge che viene presentato – ha spiegato ancora Preziosi – è volto a superare la situazione attuale, attribuendo un’unica misura generalizzata di beneficio per i minori a carico, sostitutiva di tutte le agevolazioni finora riconosciute. Si interviene inoltre sul tema della conciliazione famiglia-lavoro che non è ancora, nell’ambito della legislazione italiana, un diritto del lavoratore”. Il Ddl propone quindi la introduzione sistematica di una serie di misure che rendono esigibile il diritto alla conciliazione vita-lavoro, incidendo indirettamente sulla occupazione femminile: dallo sviluppo del welfare aziendale alla ampliamento della accesso ai servizi della prima infanzia, dall’introduzione del Fopac alla valorizzazione del sistema dei voucher per il lavoro domestico e di cura senza dimenticare l’incentivazione del part-time e soprattutto dello smart working.

www.forumfamiglie.org/news.php?&news=995

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa a Cei: tavolo di lavoro su processo di riforma matrimoniale.

Un “tavolo di lavoro” che aiuti a definire le “principali questioni interpretative e applicative di comune interesse”, relative alla riforma del processo matrimoniale introdotta dal Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus. È quanto Papa Francesco chiede di istituire, in una lettera inviata al segretario generale della Conferenza episcopale italiana, mons. Nunzio Galantino.

Tutto nasce dal maggio scorso, quando Papa Francesco e i vescovi italiani si ritrovano nell’Aula del Sinodo in Vaticano per l’atto di apertura della 69.ma Assemblea generale. Quello, scrive il Papa, “ha rappresentato un momento fecondo di comunione spirituale e di fraterno dialogo”, al cui interno “particolare rilievo” – nota – ha assunto l’aspetto della “riforma del processo matrimoniale introdotta dal Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus”.

I Vescovi, scrive Francesco, “hanno preso atto delle diverse scelte fin qui maturate, che si sono realizzate sia mediante nuove strutture giudiziarie diocesane e interdiocesane” sia, dove questo “non sia apparso possibile o conveniente”, attraverso “la valorizzazione delle strutture esistenti”. Quindi, riassume il Papa, i vescovi italiani hanno “condiviso” gli “orientamenti relativi al regime amministrativo, organizzativo ed economico dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale”. “In questa prospettiva, che desidero incoraggiare”, afferma Francesco, “appare opportuno istituire un tavolo di lavoro – coordinato dal segretario generale della Cei – per la definizione delle principali questioni interpretative e applicative di comune interesse”.

Alessandro De Carolis Notiziario Radio vaticana -8 giugno 2016

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

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GOVERNO

Legge Unioni civili in vigore

            Dal 5 giugno 2016 è in vigore la Legge n. 76 del 20 maggio 2016 contenente la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze di fatto.

            Mentre si attendono le istruzioni sulla tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, che dovranno essere contenute in un apposito decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), il ministero dell’Interno, con circolare n. 7 del 1° giugno 2016, è intervenuto a fornire alcune prime indicazioni per quel che riguarda gli adempimenti anagrafici in materia di convivenze di fatto.

            La circolare si occupa, in particolare, di iscrizione delle convivenze, della registrazione del contratto di convivenza e delle certificazioni anagrafiche (commi 36-65).

            Eleonora Pergolari                edotto              6 giugno2016

www.edotto.com/articolo/legge-unioni-civili-in-vigore

http://www.edotto.com/download/ministero-dellinterno-circolare-n-7-del-1-giugno-2016

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PARLAMENTO

Senato 2° Commissione Giustizia. Accesso del figlio alle informazioni sull’identità dei genitori

(1978) Modifiche all’articolo 28 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e altre disposizioni in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita, approvato dalla Camera dei deputati in un testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge d’iniziativa dei deputati Luisa Bossa ed altri; Micaela Campana ed altri; Michela Marzano ed altri; Sarro; Antimo Cesaro ed altri; Anna Rossomando ed altri; Michela Vittoria Brambilla; Milena Santerini ed altri

(1765) Manconi. Norme in materia di adozione da parte dei singoli e revoca dell’anonimato materno

8 giugno 2016. La relatrice, senatrice Cirinnà (PD), illustra i due disegni di legge in titolo esaminati congiuntamente e concernenti la materia delle informazioni sulle origini biologiche.

Il disegno di legge n. 1978, approvato dalla Camera dei deputati, reca modifiche alla normativa vigente al fine di ampliare la possibilità per il figlio non riconosciuto alla nascita, di conoscere le proprie origini biologiche. Il disegno di legge n. 1765 disciplina più in generale la materia dell’adozione da parte dei singoli, dall’altro reca norme sulla revoca dell’anonimato materno.

La relatrice precisa che proporrà alla Commissione di adottare come testo base il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati e pertanto non intende intervenire sulla materia delle adozioni.

Il seguito dell’esame congiunto è, infine http://www.gruppocrc.net/evento-di-presentazione-del-9o-rapporto-crc, rinviato.                     

            Testo        www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=978488

Camera          Assemblea      Question time: fondo per le adozioni internazionali.

8 giugno 2016 Eleonora Bechis (Misto-AL-P). Illustra la sua interrogazione n. 3-02295, concernente chiarimenti in merito alle finalità del fondo per le adozioni internazionali, con particolare riferimento al rimborso delle spese sostenute dai genitori adottivi per l’espletamento della procedura di adozione.

            Maria Elena Boschi, Ministra per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Risponde all’interrogazione.

testo     www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0634&tipo=stenografico#sed0634.stenografico.tit00040

Commissione per l’infanzia e l’adolescenza. Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

8 giugno 2016. La Commissione ha deliberato lo svolgimento di un’indagine conoscitiva sulla tutela della salute psicofisica dei minori. Nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia, ha quindi svolto l’audizione della presidente dell’Unione famiglie adottive italiane (UFAI), Elena Cianflone.

http://www.camera.it/leg17/203?idLegislatura=17&idCommissione=36&tipoElenco=indaginiConoscitiveCronologico&annoMese=&breve=&calendario=false&soloSten=

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PASTORALE FAMILIARE

La famiglia come soggetto

Video della conferenza di Andrea Grillo su “Amoris Laetitia” a Fossano (CN), 8 giugno 2016.

I compiti nuovi della pastorale della famiglia. Di fronte al tempo e allo spazio.

www.cittadellaeditrice.com/munera/conferenza-su-amoris-laetitia-a-fossano-8-giugno-2016

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UNIONI CIVILI

Coppie di fatto, l’allarme dei giudici: “Una su due ora perderà i suoi diritti”

            Il Tribunale di Milano: ecco i casi esclusi dalla nuova legge sulle unioni civili.  Lo status di convivente “di fatto” deve essere riconosciuto anche a chi ha una residenza diversa dal partner o è in attesa di divorzio dall’ex. Nonostante la legge Cirinnà, entrata ieri in vigore, lo escluda in entrambi i casi. Questo dice, in sostanza, un’ordinanza del 31 maggio del Tribunale di Milano.

            Pronunciandosi su una contesa fra due conviventi, il giudice Giuseppe Buffone della IX sezione civile afferma che “avendo la convivenza natura fattuale, la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo”. E ancora: “Il convivere è un fatto giuridicamente rilevante da cui discendono effetti giuridici”. Esiste quindi, secondo il giudice, una “mera convivenza” da tutelare anche al di fuori dei casi previsti dalla legge Cirinnà.

            La nuova norma, oltre a istituire le unioni civili per le coppie omosessuali, regola le convivenze di fatto, riconoscendo solo le coppie che si iscriveranno al registro istituito in anagrafe. Per l’iscrizione, con la legge Cirinnà, sono necessarie alcune condizioni. Due soprattutto: identità di residenza e “stato civile libero”. Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna e autore di una monografia sulla legge 76, la cosiddetta Cirinnà, commenta: “L’ordinanza del giudice di Milano è giuridicamente sacrosanta. Applicare in modo restrittivo la norma, per quanto riguarda le convivenze di fatto, significherebbe escludere la metà delle situazioni esistenti, fino a oggi tutelate grazie alla giurisprudenza”. Anche per Cinzia Calabrese, avvocato e presidente dell’associazione Aiaf Lombardia, “la convivenza è una situazione di fatto, e c’è da chiedersi se fosse necessario disciplinarla con una norma. Condivido l’impostazione dell’ordinanza milanese”.

            A partire dagli anni Ottanta, in assenza di una norma, i giudici di ogni grado hanno cominciato a riconoscere alla coppie di conviventi eterosessuali tutele simili a quelle previste per gli sposati. Vale a dire, fra le altre, la possibilità che il giudice decida l’obbligo di mantenimento del partner in caso di separazione, il diritto al subentro nell’affitto in caso di morte del compagno, e il diritto all’assistenza in ospedale.

            Il timore che la legge Cirinnà potesse escludere molte convivenze già in atto era già stata rappresentata in Parlamento. Ma erano arrivate rassicurazioni dal governo e dalla stessa senatrice promotrice, Monica Cirinnà. Nel passaggio dal piano legislativo a quello amministrativo, le preoccupazioni di chi la riteneva una norma “esclusiva più che inclusiva” sono state confermate. Se ancora si attendono i decreti attuativi per il nuovo istituto dell’unione civile, lo scorso 1 giugno il ministero dell’Interno ha invece inviato una circolare all’associazione nazionale delle anagrafi con le nuove regole per le convivenze di fatto. E il Comune di Milano, per primo, ha stampato i moduli. Per accedere al registro è necessario “coabitare ed essere sul medesimo stato di famiglia anagrafico” ed essere civilmente “liberi”. Gli altri casi restano fuori.                        Leggi governo

Franco Vanni La repubblica 06 giugno 2016

www.repubblica.it/cronaca/2016/06/06/news/coppie_di_fatto_l_allarme_dei_giudici_una_su_due_ora_perdera_i_suoi_diritti_-141379066/?ref=HREC1-19

 

La Cirinnà ha effetti soprattutto sugli etero

            Domenica scorsa è entrata in vigore la legge Cirinnà sulla disciplina delle unioni civili e delle convivenze. Gran parte della discussione politica e della risonanza mediatica si è concentrata sulle unioni civili tra omosessuali, a causa del loro effetto dirompente sulla visione tradizionale della famiglia. Gli effetti pratici saranno invece scarsi: il governo ha previsto 7.500 unioni nel primo anno di applicazione della legge e poi 2.500 all’anno per gli anni successivi. Le coppie eterosessuali conviventi, interessate alla riforma, sono invece oltre un milione. Anche qui non sono mancate le polemiche.

            In caso di scioglimento della relazione, il legislatore ha infatti previsto la possibilità che il giudice stabilisca, per un periodo limitato e proporzionato alla durata della convivenza, un diritto agli alimenti a favore della parte che versa in stato di bisogno è non è in grado di provvedere al proprio mantenimento. L’avvocato Annamaria Bernardini de Pace, il sociologo Paolo Crepet, l’ex portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone e molti altri hanno protestato che in questo modo si introdurrebbe un dovere giuridico in un rapporto che, per scelta, dovrebbe essere all’insegna della libertà assoluta (altrimenti avrebbero scelto di sposarsi). In realtà la legge Cirinnà attribuisce alle parti solo delle facoltà e anche l’obbligo alimentare a carico dell’ex convivente è del tutto residuale: viene infatti dopo quello posto a carico dell’ex coniuge, dei genitori, dei figli, dei generi e delle nuore, dei suoceri, e precede solo quello tra fratelli.

            La legge prevede anche la possibilità per i conviventi di stipulare un contratto di convivenza per regolare i loro rapporti patrimoniali, ma lo stesso accordo può essere sciolto anche con un atto unilaterale, basta che una parte vada dall’avvocato a dichiarare che ci ha ripensato e che intende recedere dal contratto. Con effetti paradossali: se, per ipotesi, nel contratto si prevede, in caso di scioglimento della convivenza, l’attribuzione di una certa somma o di un vitalizio, e poi la parte che si era obbligata ci ripensa, può annullare facilmente l’impegno preso. In caso di futuro scioglimento della convivenza, l’altra parte non potrà pretendere più nulla. Insomma, un contratto scritto sulla sabbia.

Marino Longoni         Italia oggi       12 giugno 2016

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