UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 600 – 5 giugno 2016
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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ADOTTABILITÀ Stato di abbandono: il giudice non può basarsi solo sulla C.T.U.
ADOZIONE INTERNAZIONALE Quali sono le sfide e le opportunità che attendono in Europa?
ADOZIONI INTERNAZIONALI Costa d’Avorio, sospesi nuovi dossier.
AFFIDO Documenti del tavolo nazionale affido.
AMORIS LAETITIA Matrimonio come “segno imperfetto”.
Il Denzinger del 1854 e la traduzione della “forma canonica”.
La recezione di Amoris laetitia: il terzo tempo
ASSEGNO DIVORZILE Taglio dell’assegno irrilevante se breve
CASA FAMILIARE No alla casa se il figlio è autosufficiente
CENTRO STUDI FAMIGLISA CISF Newsletter n. 10/2016, 1 giugno 2016
CHIESA CATTOLICA I timori di A.M. Valli e gli ideali di un cattolicesimo semplificato.
Misericordia e giudizio. I nodi al pettine.
Gli stereotipi tradizionalistici di bravi giornalisti.
CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM Senigallia. Incontro al Consultorio Familiare di Serra de’ Conti.
Vittorio Veneto. Aperto un centro a Domegge di Cadore
DALLA NAVATA 10° Domenica del tempo ordinario – anno C -5 giugno 2016.
Commento delle Clarisse di S. Agata.
DIACONATO Diaconato per le donne: quale ruolo nella chiesa?
«Quella fatta da Papa Francesco è una forzatura della forzatura».
FECONDAZIONE ARTIFICIALE Ultimi dati sulla riproduzione assistita in Europa
FORUM AFFIDO Madri sole.
FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Motu proprio: rimuovere vescovi negligenti su abusi a minori.
Approva Statuto del nuovo Dicastero per i laici, famiglia e vita.
NULLITÀ MATRIMONIALI In Bolivia i vescovi fanno tutto da soli.
SESSUOLOGIA Quella legge francese contro la prostituzione.
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ADOTTABILITÀ
Stato di abbandono: il giudice non può basarsi solo sulla C.T.U.
Corte di Cassazione-prima Sezione civile-sentenza n. 10708, 24-maggio-2016
Accettato il ricorso contro il provvedimento di adottabilità del minore in quanto la Corte territoriale non aveva preso in giusta considerazione alcuni elementi. Nella valutazione dello stato di abbandono, ai fini della dichiarazione di adottabilità, il giudice non può limitarsi a valutare le risultanze della C.T.U. ma deve tener conto di tutti i fatti emersi nel corso del giudizio e sottoposti al contraddittorio delle parti.
avv. Renato D’Isa 3 giugno 2016
https://renatodisa.com/2016/06/03/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-24-maggio-2016-n-10708/
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ADOZIONE INTERNAZIONALE
Quali sono le sfide e le opportunità che attendono l’adozione internazionale in Europa?
Utrecht (Olanda). Sfide e opportunità future dell’adozione internazionale, dalla tutela dei minori nei Paesi di origine al sostegno alle famiglie adottive. Quali sono le sfide e le opportunità che attendono l’adozione internazionale in Europa? E soprattutto: quale sarà il ruolo dell’accoglienza adottiva nella società del futuro? A queste domande ha provato a rispondere Euroadopt, la rete di 20 enti accreditati europei che operano nel campo delle adozioni internazionali, in una conferenza che si è tenuta a Utrecht, in Olanda, il primo e il 2 giugno. Presente anche una delegazione di Amici dei Bambini, membro di Euroadopt da oltre 20 anni e, per l’occasione, rappresentata da Marzia Masiello e Michele Torri, referenti rispettivamente della sede romana e delle adozioni internazionali.
Scopo principale della due giorni di lavori è stato un confronto diretto tra tutti gli attori del settore impegnati a cercare la strategia giusta per migliorare la vita di quei minori che non hanno la possibilità di vivere con la propria famiglia biologica. Obiettivo delicato che può essere raggiunto solo grazie a un’efficace sinergia tra tutti i soggetti coinvolti, che hanno avuto modo di confrontarsi nel corso della conferenza di Euroadopt. Tra i circa 250 partecipanti alle due giornate di Utrecht, oltre agli esponenti delle Autorità Centrali europee, che i rappresentanti degli enti accreditati, del Permanent Bureau per la Convenzione de L’Aja, del mondo accademico e del cosiddetto “triangolo” dell’adozione: genitori adottivi, ragazzi adottati e genitori biologici.
Durante la conferenza è stata presentata l’analisi sui servizi di post-adozione offerti in gran parte dei Paesi europei i cui enti sono membri di Euroadopt. Un lavoro a cui Ai.Bi. ha partecipato facendo parte del gruppo di lavoro incaricato di effettuare una sintesi delle informazioni condivise con i diversi attori e conducendo in prima persona un’analisi sui servizi per la ricerca delle origini dei minori adottati.
La prima giornata di lavori si è incentrata sulle diverse possibilità che i Paesi di origine possono dare ai bambini in stato di abbandono, sugli effetti tangibili del principio di sussidiarietà e sulla definizione più corretta di “migliore interesse del minore”. Durante il secondo giorno di convention sono stati invece presentati i risultati di alcune ricerche condotte sullo sviluppo dei minori adottati, sui loro bisogni e su quelli dei loro genitori adottivi, concentrando in particolare l’attenzione su come questi ragazzi vivano il proprio status di adottati nei Paesi che li hanno accolti.
Tra gli interventi più rilevanti, quello di Laura Martinez Mora, consulente legale del Permanent Bureau, che ha presentato i progressi fatti dalla Convenzione de L’Aja negli ultimi 20 anni e ha esposto una disamina dei dati sulle adozioni realizzate fino al 2013. Per i Paesi di origine, si segnala la relazione di Tracy Kyagulanyi, specialista dei sistemi di protezione dei minori in Uganda, che ha evidenziato i pericoli che incombono sulla tutela dell’infanzia nei Paesi caratterizzati da un quadro normativo carente. Degno di nota anche l’intervento di Stephen Ucembe, un ragazzo kenyota fortemente disabile e beneficiario di alcuni degli interventi di cooperazione realizzati da Ai.Bi. in Kenya: Stephen ha raccontato la sua esperienza di vita in orfanotrofio dopo che, alla nascita, a causa della sua disabilità, era stato etichettato come “bambino del diavolo”.
News Ai. Bi. 3 giugno 2016 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Costa d’Avorio, sospesi nuovi dossier.
Costa D’Avorio sospende la registrazione di nuovi dossier in attesa di adeguarsi alla convenzione dell’Aja. In seguito a una riunione che si è tenuta l’11 maggio 2016 il Consiglio dei ministri della Costa d’Avorio ha deciso di sospendere la registrazione di nuovi dossier d’adozione internazionale in attesa dell’attuazione della convenzione dell’Aja. A darne notizia è il sito ufficiale del Governo francese, il MAI (Mission de l’adoption internazionale), l’autorità centrale francese che prontamente informa coppie e associazioni.
La Convenzione dell’Aja (del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale) è entrata in vigore in Costa D’Avorio il 1° ottobre del 2015.
Tra gli obiettivi della Convenzione del 1993, che disciplina la cooperazione fra le autorità competenti nel Paese d’origine del minore e quelle nel Paese d’accoglienza, vi è quello di stabilire garanzie affinché le adozioni internazionali siano svolte nell’interesse del minore, e quello di instaurare un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti al fine di assicurare il rispetto di queste garanzie.
Fonte: www.diplomatie.gouv.fr/
News Ai. Bi. 3 giugno 2016 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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AFFIDO
Documenti del tavolo nazionale affido.
- Continuità degli affetti. Prime riflessioni sulle modifiche introdotte l.173/2015 “Modifica alla legge 4 maggio 1983 n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare”
- Congedi parentali e bonus bebè per gli affidatari. Il “Tavolo Nazionale Affido” in riferimento alle recenti novelle legislative che hanno riguardato il riconoscimento e l’estensione delle tutele relative al diritto di fruibilità.
Newsletter Aprile-Giugno 2016 -31 maggio 2016 www.tavolonazionaleaffido.it
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AMORIS LAETITIA
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html
Matrimonio come “segno imperfetto”. Finezza e rozzezza di “analogie sacramentali”.
Alcuni passi della Esortazione apostolica Amoris Laetitia, nei quali la dottrina sacramentale sul matrimonio viene fatta oggetto di accurata riflessione, possono tornare assai utili per comprendere la prospettiva di lettura che il documento offre del profilo propriamente sacramentale del matrimonio. Proviamo a considerare con un minimo di ampiezza la questione nei suoi contorni classici, che spesso passano sotto silenzio.
a) Una prospettiva complessiva sulla “mistica nuziale”. In effetti, cercando di valutare la evoluzione della dottrina matrimoniale degli ultimi decenni, non è difficile notare una sorta di “accelerazione” del pensiero sul matrimonio, che ha trovato buono nel Concilio Vaticano II, traendo da esso una nuova e potente correlazione tra matrimonio e eucaristia. Questo deve essere considerato come uno dei tratti nuovi e promettenti della riflessione teologica dell’ultimo secolo, che tuttavia un bravo teologo inglese come Fergus Kerr – nel suo testo del 2007 (Oxford – Blackwell) sui Teologi cattolici del XX secolo, che ha per sottotitolo dalla Neoscolastica alla Mistica nuziale – ha riconosciuto come caratterizzato da una “mistica nuziale” che ha pesantemente condizionato tutto il sapere teologico, compreso anche – ovviamente – il “sapere matrimoniale”. Non è certo sorprendente che una teologia generale che assume le movenze di una “mistica nuziale”, possa estendere questo suo “stile” anche al sacramento del matrimonio. Ma, come direbbe un altro bravo teologo del nostro tempo, non è affatto detto che ciò che appare “ovvio” sia anche “compreso”. In effetti, e forse contro le nostre migliori aspettative, scopriamo che una accurata differenziazione tra una “mistica nuziale” e il “sacramento del matrimonio” appare come una delle più preziose acquisizioni della tradizione teologica latina, che conosce da almeno 8 secoli la irriducibile complessità della “humana generatio” e della “individua coniunctio”. Provo ora ad esaminarla brevemente.
b) La tradizione latina e il suo “genio”: come comporre desiderio naturale, legge civile, mistero della fede. Proprio a questo livello, infatti, abbiamo elaborato almeno da 800 anni un “sapere teologico complesso” sul matrimonio, che considera almeno tre livelli della esperienza, che non possono essere né separati, né confusi: il matrimonio esiste come “desiderio naturale” nel quale, già semplicemente come “matrimonio creaturale”, sono presenti tutti i valori e i misteri fondamentali nella loro qualità di “segno”; il matrimonio esiste poi come patto sociale, come contratto, come relazione civile, orientata e protetta da leggi e da convenzioni, da culture e da linguaggi, da testi e da musiche: umana costruzione culturale e sociale, in risposta a natura e grazia; in terzo luogo lo stesso matrimonio viene riletto come grande dono di grazia, realizzazione della immagine di Dio, alleanza tra Cristo e la Chiesa, servizio e annuncio del Vangelo. Tutto questo, appunto, nella tradizione cristiana, e in particolare nella tradizione cattolica latina, è stato custodito gelosamente, fino XIX secolo. A partire dalla fine del 1800 il cattolicesimo è stato tentato da una soluzione opposta: o di ridurre tutto al livello “normativo”, oppure di sintetizzare tutto a livello mistico, perdendo la ricchezza di questa pluralità complicata. Da un lato la “legge canonica” ha provato, a partire dal 1917, a porsi come “logica assoluta” – salvo il bisogno di “concordati” con altre autorità competenti; dall’altro la teologia ha provato a derivare immediatamente dalla eucaristia il matrimonio, senza alcuna mediazione storica, coscienziale, normativa, pedagogica…il matrimonio doveva semplicemente “applicare” il rapporto Cristo/Chiesa alla logica della coppia/famiglia. Anzi, proprio mediante questa accelerazione sospetta della mente speculativa – e della competenza pratica – si arrivava a pretendere dal matrimonio di essere semplicemente la “immagine compiuta del rapporto Cristo-Chiesa”. Dire sacramento significava “segno perfetto” e “analogia compiuta”. Non mancavano, nella storia, i precedenti per questo “modello interpretativo”: in particolare si poteva trovare una linea che da molti secoli aveva fatto del “matrimonio” il “primo” tra i sacramenti, anche se – come aveva specificato Tommaso d’Aquino – questo si poteva dire solo nei limiti della “ratione significationis”, ossia secondo la logica e la modalità del segno (ma non della causa!). Ed è qui la grande differenza che dobbiamo oggi salvaguardare: l’eucaristia realizza immediatamente ciò che significa, mentre non è così per il matrimonio (e neppure per tutti gli altri sacramenti, salvo battesimo e cresima, che sono presupposto efficace della vita eucaristica).
c) “Amoris Laetitia” corregge l’eccesso di una confusione senza distinzione. AL prende giustamente le distanze da questa accelerazione massimalista e fondamentalista nella dottrina matrimoniale, che pretenderebbe di abolire la differenza tra matrimonio e eucaristia. E lo fa con una duplice strategia. Da un lato, infatti, torna a pensare la “complicatezza della realtà coniugale”, senza imporre ideologicamente un modello estrinseco ad essa. Questa prima scelta impone anche una declinazione meno aprioristica della stessa realtà sacramentale rispetto alla esperienza dei soggetti. Tutto questo implica la riscoperta di una accurata “mediazione” – storica, coscienziale e culturale – del passaggio tra il “modello” e la “realtà”. In altri termini: l’amore gratuito e totale che lega Cristo e la Chiesa si fa “sacramento”. Questo è un punto acquisito della dottrina cattolica, che non viene posto in discussione. Ma la “corrispondenza” tra i diversi “gradi” del sacramento non può essere stabilita in modo semplicistico o, peggio, in modo meccanico ed estrinseco rispetto alle vite dei soggetti. Non si può dunque procedere come se per il fatto stesso di riconoscere come “sacramento” il matrimonio, questo implicasse una immediata coerenza e corrispondenza di esso con la logica del “sacramento più importante” – ossia con la comunione eucaristica. Come se tra matrimonio e eucaristia ci fosse semplicemente una logica della identità. Come se il matrimonio fosse “segno perfetto” e “analogia compiuta” della relazione tra Cristo e la sua Chiesa, in piena corrispondenza con la eucaristia. Qui non è difficile scovare una “magagna” non piccola della nostra tradizione più recente. Qui, come diceva il grande teologo Karl Barth, ci sono casi in cui una differenza sottile come un capello deve essere salvaguardata, per non cadere dalla verità nell’errore. Se si perde questa differenza e si congiunge irresponsabilmente mistica nuziale e formalismo normativo si genera un “monstruum” sistematico, che in nome della idealizzazione di una relazione astratta, aggredisce la realtà familiare e la sfigura, per di più in nome del Vangelo. Segno e causa – pienamente in asse nella simbolica del sacramento della eucaristia – non sono affatto in asse nella realtà esistenziale del matrimonio. Confondere il dono, il dovere e il diritto e imporre il dono come un dovere è l’esito distorto di questa “smemoratezza” teologica. Proprio questa è la “grave dimenticanza” che affligge una parte non irrilevante della sacramentaria matrimoniale degli ultimi 50 anni, e che AL provvede giustamente a correggere, come vedremo nel prossimo paragrafo.
d) Due testi di estrema rilevanza: AL 72-73. Proprio su questo “pinnacolo” della nostra riflessione – ossia sulla correlazione tra sacramento della eucaristia e sacramento del matrimonio, che deve salvaguardare tanto la unità senza confusione, quanto la distinzione senza separazione – il testo di AL fornisce due letture di grande valore. Eccone il dettato, che riporto integralmente dal cap. III, sottolineandone in grassetto due frasi decisive: 72. Il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi». Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale. 73. «Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. […] Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù».Il sacramento non è una “cosa” o una “forza”, perché in realtà Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri». Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’Alleanza sigillata sulla Croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi. Unendosi in una sola carne rappresentano lo sposalizio del Figlio di Dio con la natura umana. Per questo «nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell’Agnello». Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta», essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali. In entrambi i testi, l’annuncio del vangelo nella logica della coppia e della famiglia non scivola nella facile tentazione di una lettura immediata, identificativa, istituzionale, oggettiva, “idealizzante” – e perciò anche inevitabilmente aggressiva – della realtà relazionale del matrimonio e della famiglia. Il peggio che possa capitare, alla tradizione matrimoniale, è di lasciarsi trascinare e di indurre a tradurre la mistica in aggressività. La imperfezione del segno e della analogia – e quindi lo spazio riconosciuto e garantito alla fragilità e alla fallibilità – non deve essere aggiunta come un accessorio esterno e strano, ma si manifesta come parte costitutiva di quel sacramento che la grande tradizione antica, medievale e moderna ha potuto pensare con maggiore libertà rispetto a noi, senza sentire quella pressione istituzionale che è apparsa già con il Concilio di Trento, ma che è diventata opprimente e paralizzante solo a partire dal sorgere degli stati liberali moderni. Di fronte ad essi la tentazione della Chiesa cattolica è stata di assumere un matrimonio idealizzato, addossando tutte le fragilità familiari non alla complessità della nuova esperienza coniugale, ma alla nequizia dei tempi. Ma questo è stato possibile solo cancellando dalla memoria tutti quei secoli precedenti, che erano stati segnati da una dottrina e da una disciplina che aveva accuratamente soppesato i diversi livelli della esperienza coniugale e familiare, senza aver bisogno o di opporli tra loro o di ridurli gli uni agli altri. Tommaso poteva dire, con tranquillità, nella sua Summa contra Gentiles, che la “humana generatio ordinatur ad multa”: ossia che siamo generati, nello stesso momento, alla natura, alla città e alla chiesa. Ecco rievocata e riattualizzata la meravigliosa complicatezza del matrimonio.
e) Una ermeneutica di AL che non sia incoerente con il testo. La lezione di AL è, anche in questo caso, il segno di una grande svolta, di linguaggio e di concezione. E non è un caso che oggi i toni più striduli nelle reazioni, e le note che spiccano più in alto sopra le righe, vengano precisamente da ambienti accademici e da uffici amministrativi in cui, in modo non raramente piuttosto esagerato, la riduzione del matrimonio o alla mistica nuziale o alla forma dogmatico-giuridica aveva ricevuto negli ultimi decenni la promozione più ostinata e la argomentazione più acritica. AL riconduce tutti – con garbo – ad un giudizio sereno ed equilibrato sull’amore, sul matrimonio e sulla famiglia, non accettando più alcuna forma di riduzionismo, di massimalismo né di fondamentalismo: ora non potremo più ridurci né al minimalismo della forma dogmatico-giuridica, né al massimalismo della mistica nuziale. Il sacramento del matrimonio non è mai soltanto né in quel minimo formale di esteriorità dovute, né in quel massimo mistico di interiorità “interiores intimo meo”. Vive di una esteriorità virtuosa e di una interiorità formata che non si danno “di per sé” e che non sono coperte dall’”ex opere operato”. Entrambe queste “false soluzioni del problema” finiscono sempre con il peggiorare le cose, perché non ne riconoscono la complessità e la contingenza. Accettando invece la contingenza della relazione, senza demonizzarla – come fanno gli ideologi intransigenti – e senza ipostatizzarla – come fanno i funzionari zelanti – AL compie una piccola rivoluzione. E non è affatto un caso che il testo della Esortazione Apostolica incontri ora lo sfavore coalizzato di funzionari che guardano solo al passato e di ideologi con un piede e tre quarti già immerso nella solennità novissima del giudizio finale. E tra tanti che pontificano a tutto spiano, e si stracciano le vesti per le sorti della Chiesa e denunciano una confusione intollerabile – come se l’ordine corrispondesse necessariamente alla indifferenza – suscita sempre una certa impressione scoprire che è proprio il pontefice, invece, ad evitare con cura tutte queste false soluzioni. In mezzo a funzionari e a ideologi che sul matrimonio, anziché distinguere e discernere, non sanno fare altro che pontificare, si muove un pontefice che non “pontifica”, ma che esercita l’autorità nell’atto di riconoscere altre autorità: qui la realtà – pur con tutte le sue ombre e le sue rughe – è davvero superiore alla più perfetta delle idee.
Andrea Grillo in “Come se non” – 29 maggio 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-14-matrimonio-come-segno-imperfetto-finezza-e-rozzezza-di-analogie-sacramentali
Il Denzinger del 1854 e la traduzione della “forma canonica”.
Una bella occasione – un regalo inatteso – mi ha aperto un aspetto di Amoris Laetitia che, seppur già considerato per altre vie, ora mi appare sotto una nuova luce e in tutta la sua rilevanza. Voglio dire della felice occasione (a), della scoperta sorprendente (b), del rafforzamento di quanto già saputo (c) e del nuovo approfondimento così realizzato (d).
a) La felice occasione di un regalo. Tutto comincia da un dono: una persona mi ha fatto un regalo del tutto inatteso. E dal dono ho compreso quanto la persona mi conosca, perché ha colto nel segno, come raramente accade. Mi ha regalato una copia del “Denzinger” originale, il positiva, quello del 1854. Ovviamente questo ha avuto subito un impatto sulla mia curiosità. Che è corsa al frontespizio e poi all’indice sistematico (nella sua prima giovanissima forma) per arrivare all’ultimo titolo dei 100 paragrafi di cui si compone. Con mia grande sorpresa ho scoperto che l’ultimo testo citato nella collezione di “simboli e definizioni in materia di fede e costumi”, realizzata dal pioniere Henricus Denzinger, riporta, proprio al numero 100, alcune frasi della allocuzione di papa Pio IX, del 27 settembre 1852, “che riguardano il matrimonio civile”.
b) La “finale” del Denzinger originale. Di grande rilievo è considerare il contenuto di queste affermazioni. Si tratta, ovviamente, di una forte denuncia contro lo stato moderno, contro il disprezzo che riserva alla dottrina della Chiesa, contro la riduzione del matrimonio civile al solo contratto, contro la istituzione del divorzio e contro la competenza attribuita ai tribunali laici in questa materia. A seguire viene affermato un principio, che risulterà decisivo nel seguito della esperienza storica ecclesiale, ossia che “tra fedeli non si può dare matrimonio che nello stesso tempo non sia anche sacramento, e che perciò qualsiasi altra unione tra uomo e donna diversa dal sacramento, compresa anche quella regolata dalla legge civile, non è altro che turpe e esiziale concubinato”. Di qui discende infine la competenza esclusiva della Chiesa in campo matrimoniale. Con queste parole, di aperto scontro tra Chiesa e stato liberale sul piano della “competenza giuridica” sul matrimonio, si chiude la raccolta del Denzinger di allora. Questo è sorprendente e assai istruttivo. Nei decenni successivi le cose si aggraveranno ancora: il Sillabodieci anni dopo, poi la breccia di porta Pia, la fine del potere temporale, per arrivare al primo grande documento che, nel 1880, sotto il successore di Pio IX, Leone XIII, sancirà l’inizio del “magistero de matrimonio”, ossia Arcanum divinae sapientiae.
c) Il tenore della autocritica di Francesco. Solo avendo ben presente questo orizzonte storico drammatico, che ha segnato non solo le grandi scelte della Chiesa cattolica della seconda metà del XIX, ma che ha lanciato la sua lunga influenza per più di un secolo, anche oltre il Concilio Vaticano II, possiamo comprendere il valore della “autocritica” che Francesco ha avuto il coraggio e la onestà di svolgere nei numeri 35-37 di AL. Se leggiamo queste parole alla luce di quelle di quasi 170 anni prima, comprendiamo il loro peso specifico e il valore di svolta che esse propongono alla tradizione ecclesiale. Le riporto integralmente, con le dovute sottolineature:
35. Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro.
36. Al tempo stesso dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario.
37. Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle.
d) La fine di un “paradigma” di pensiero e di prassi. Ciò che AL ha inaugurato non è una novità assoluta. Da un lato il documento svolge, con buona continuità, le conseguenze di alcune analisi che già erano presenti in FC di Giovanni Paolo II, ma dalle quali quel documento non aveva saputo o potuto trarre le necessarie conclusioni. Così, da un altro lato, AL supera i limiti di FC, recuperando una “libertà di manovra” che la Chiesa aveva avuto fino al Concilio di Trento, ossia fino a quando non ha sentito il bisogno di “istituzionalizzare” il matrimonio, mediante la richiesta di “forma canonica”. Ciò che accade, con AL, è il superamento della “forma canonica” come criterio unico del giudizio pastorale e morale. Non si supera, ovviamente, la forma canonica, ma la sua pretesa di esclusiva. Lo scontro tra forma canonica e forma civile, che si era delineato agli inizi del XIX, che poi era esploso a partire dalla metà del secolo, e che è durato fino ai primi decenni del XX secolo, ha lasciato uno strascico teologico e pastorale per tutto il secolo, per trovare un inizio di soluzione solo con AL. Che di fatto riconosce “altre forme” nelle quali la comunione ecclesiale può essere vissuta. Già FC non chiedeva più ai soggetti in seconde nozze di separarsi, a certe condizioni, e quindi riconosceva la positività relativa della “forma civile”. AL promuove ora una più sensibile integrazione dei soggetti legati dalla forma civile, fino alla possibilità di una piena comunione. Sulle conseguenze di questa evoluzione avremo da meditare e da lavorare per decenni. Ma ora il dado è tratto, e possiamo finalmente liberarci dalla ossessione di dover ripetere la dottrina di Pio IX per essere ancora cattolici.
Un amico mi ha fatto un bel regalo. Questo volumetto prezioso, che ha 162 anni, mi ha fatto comprendere quale grande regalo si è lasciata fare la Chiesa, dalla inventiva con cui lo Spirito Santo ha guidato due Sinodi dei Vescovi verso una nuova frontiera, non senza le buone intuizioni e la generosa disposizione di un Vescovo di Roma che, con tutta questa storia europea, non ha avuto nulla a che fare. Questa è stata la sua grande libertà e la sua nuova autorità. Ma è stata anzitutto una grazia. Infatti non è un merito essere nati americani. Come non è una colpa essere nati europei. Solo nel dialogo possiamo ancora progredire, imparando a scoprire nella diversa esperienza dell’altro non uno spazio da occupare e da ridurre, ma un tempo per camminare e per cambiare. Alla luce del Vangelo e della esperienza degli uomini.
Andrea Grillo “Come se non” – 1 giugno 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-15-il-denzinger-del-1854-lautocritica-in-amoris-laetitia-e-la-traduzione-della-forma-canonica
La recezione di Amoris laetitia: il terzo tempo
Dopo la fase pre-sinodale della consultazione delle Chiese e la fase sinodale del confronto e dell’ascolto tra i vescovi nei Sinodi del 2014 e nel 2015, con la pubblicazione dell’esortazione postsinodale Amoris laetitia l’8 aprile scorso è iniziato ora il delicato e fondamentale processo della recezione, attraverso il quale l’insegnamento magisteriale viene interiorizzato dal popolo di Dio come criterio di giudizio ecclesiale. Come sta andando? Se è presto per capire come è stato recepito il documento al livello della base, nelle prime settimane dopo la pubblicazione sono già diversi i vescovi che si sono espressi in merito al testo pontificio.
Ci sono quelli che hanno partecipato al processo sinodale come padri sinodali e ora iniziano la «terza fase» come pastori delle loro diocesi, e ci sono quelli «contro». Questi ultimi si sono fatti molto notare nel dibattito mediatico, che enfatizza le contrapposizioni e anzi le costruisce in funzione delle proprie dinamiche; sono pochi, ma cominciamo da loro per cogliere il punto dell’opposizione.
La prima voce si può citare per dovere di cronaca, anche se viene da «fuori» dalla Chiesa cattolica, perché non è senza influenze e tratti in comune con l’ultra-conservatorismo cattolico: è il leader della Fraternità sacerdotale di San Pio X, il vescovo lefebvriano Bernard Fellay, che in un’omelia a Puy-en-Velay il 10 aprile ha accusato l’Amoris laetitia di soggettivismo e relativismo morale: «La regola oggettiva è sostituita, alla maniera protestante, dalla coscienza personale (…) Invece di elevare ciò che è al livello di ciò che deve essere, si abbassa ciò che deve essere a ciò che è, alla morale permissiva dei modernisti e dei progressisti». Insomma, altro che letizia, «c’è di che piangere».
Rifiuta di riconoscere all’esortazione apostolica lo statuto di un atto di magistero l’ultra-conservatore card. Raymond Burke, di aperte simpatie lefebvriane, già vescovo di Saint Louis (USA), già prefetto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica, paladino della posizione del «no a tutto» nel Sinodo del 2014 (cf. Regno-att. 18,2014,611) e dal 2014 patrono del Sovrano ordine militare di Malta. Egli sostiene che nell’Amoris laetitia il papa esprima il suo pensiero personale, e così risolve il quesito se il documento costituisca o meno una rottura della tradizione ecclesiale, che è il punto del problema: siccome non è un atto di magistero, il magistero precedente rimane invariato.
La terza posizione da recensire nelle file dell’opposizione è quella del filosofo tedesco Robert Spaemann, docente emerito di Filosofia all’Università di Monaco, già consigliere di Giovanni Paolo II e amico di Benedetto XVI, che in un’intervista all’edizione tedesca della Catholic News Agency del 28 aprile ha affermato che il papa ha «elevato il caos a principio con un tratto di penna», aprendo la strada a incertezza e confusione dalle conferenze episcopali fino alle più sperdute parrocchie, e a uno scisma nel cuore stesso della Chiesa.
Un’esortazione di consenso. Il card. Gerhard Müller, invece, che è il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e durante i due Sinodi aveva interpretato i timori di quanti si opponevano a cambiamenti dottrinali, ha accolto il documento postsinodale di Francesco come una riaffermazione dell’insegnamento della Chiesa, insieme a un’indicazione pastorale per accogliere e integrare i percorsi individuali nel discernimento ecclesiale.
E questa posizione è condivisa da numerosi vescovi che si sono pronunciati nelle settimane successive alla pubblicazione. In particolare, quanti hanno partecipato come padri sinodali al processo di confronto collegiale non condividono la negazione dell’autorità magisteriale all’Amoris laetitia, che raccoglie il risultato di uno scambio di punti di vista pastorali ed esperienze di Chiese locali diverse, che è stato insieme faticoso e fruttuoso. Il card. Donald William Wuerl, per esempio, che è arcivescovo di Boston, in un intervento sul suo blog ha affermato il valore innegabilmente magisteriale di un documento che s’inserisce nella continuità degli insegnamenti ecclesiali e che è stato concepito come esito di un profondo discernimento al termine di un’ampia consultazione delle Chiese locali e di due Sinodi dei vescovi. E in un altro intervento, l’11 aprile, ha definito la postsinodale un’«esortazione di consenso», usando un termine teologicamente denso che rimanda a Lumen gentium, n. 12. E questo stesso aspetto è stato sottolineato anche dal card. Ricardo Blásquez Pérez, arcivescovo di Valladolid e presidente della Conferenza episcopale spagnola: «In questa bellissima esortazione è ultimato un lungo itinerario percorso “sinodalmente”. Non c’è un cambiamento di dottrina, ma ci sono un respiro nuovo, un linguaggio attuale e un atteggiamento innovativo dinanzi a situazioni, che non sono più, o ancora non lo sono pienamente, matrimonio cristiano».
E ancora dai cardinali Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca, e Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e vicepresidente della Conferenza episcopale italiana; e dagli arcivescovi Bruno Forte di Vasto e Paul André Durocher di Gatineau in Canada. Quest’ultimo esprime bene anche un altro elemento che sta a cuore ai pastori: l’atteggiamento – appunto – pastorale che deve permeare la cura delle anime loro affidata: «La prima sfida sarà di assicurare la lettura e l’assimilazione dell’esortazione da parte dei nostri sacerdoti e da quanti sono impegnati nelle attività pastorali. Fortunatamente, molti di loro vi troveranno la conferma dell’atteggiamento d’accoglienza, d’accompagnamento e d’inclusione che praticano già nel loro ministero parrocchiale. Il fatto nuovo per noi sarà di avere a portata di mano un testo magisteriale che pone i fondamenti biblici, teologici e psicologici di un simile atteggiamento». Perché, come ha sottolineato l’arcivescovo di Westminster card. Vincent Nichols nella lettera che ha fatto leggere in tutte le parrocchie il 1° maggio, tra i dogmi di fede che la Chiesa deve custodire c’è anche quello della misericordia di Dio: Francesco «ripresenta da capo il chiaro insegnamento della Chiesa sul matrimonio e ci ricorda costantemente la verità della misericordia infinita di Dio per ciascuno di noi».
Rinnovamento di tutta la pastorale. Ci sono altre due sottolineature negli interventi dei vescovi a livello globale: una sull’aspetto dell’inculturazione, a partire da Amoris laetitia n. 3 che invita le Chiese locali a cercare le soluzioni pastorali più inculturate ai problemi della famiglia; e l’altra sulla responsabilità della recezione e dell’applicazione, che la postsinodale pone in capo a tutti i fedeli. Rispetto all’inculturazione, sulla quale si sofferma in particolare il card. Marx, dal momento che la Chiesa tedesca è stata particolarmente propositiva in questo senso, come ha rimarcato significativamente il card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, parlando ai decani ai primi di maggio, dalla postsinodale consegue la responsabilità delle conferenze episcopali nazionali, dei vescovi diocesani e degli operatori pastorali d’individuare punti di riferimento e di esercitare il discernimento con sapienza, ed è auspicabile che vengano indicazioni dalla Chiesa italiana e si affrontino a livello diocesano aspetti più specifici. E il compito/responsabilità di rinnovamento profondo che tutto questo «processo sinodale ben riuscito» (Durocher) pone davanti a ogni battezzato è «davvero impegnativo per la cura pastorale, poiché senza un processo di dialogo personale, e talora anche più intenso, tutto ciò non sarà possibile.
La triade “accompagnare, discernere e integrare” descritta da papa Francesco diventerà il cantus firmus della pastorale, se essa vuole davvero raggiungere l’uomo e dischiudere quel cammino che Dio stesso percorre con queste persone» (Marx). Di qui l’invito del card. Nichols a tutti i fedeli: «Per favore a casa leggetela, insieme con quelli che amate. E anche voi ne coglierete la bellezza, con lacrime di gioia».
Daniela Sala Regno attualità 1 giugno 2016 con note
www.lindicedelsinodo.it/2016/06/la-recezione-di-amoris-laetitia-il.html#more
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ASSEGNO DIVORZILE
Taglio dell’assegno irrilevante se breve.
Corte di cassazione, sesta sezione penale, sentenza n. 23010, 31 maggio 2016
Non è penalmente rilevante il comportamento del marito che riduce l’importo da corrispondere alla moglie mensilmente (da 4.000 a 800 euro) se il taglio è avvenuto per un periodo breve, mancanza peraltro poi interamente sanata. La moglie inoltre risultava avere risparmi di 25.000 euro. L’uomo era stato condannato dalla Corte d’appello sul presupposto dello stato di bisogno della moglie e dei figli minori.
www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/archivio/home/Penale/professione/?timemachine=month&keyword=
www.oua.it/cassazione-cassazione-in-breve-il-sole-24-ore-18/
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CASA FAMILIARE
No alla casa se il figlio è autosufficiente.
Tribunale di Gela – ordinanza 14 marzo 2016
No all’assegnazione della casa familiare al coniuge con cui vive il figlio maggiorenne che ha raggiunto l’autonomia economica. Lo ribadisce il Tribunale di Gela. Il provvedimento è stato pronunciato in un giudizio di divorzio, dopo la comparizione dei coniugi separati all’udienza presidenziale. La moglie aveva chiesto l’assegnazione dell’abitazione familiare, dove viveva con il figlio. Dal canto suo, anche il marito aveva domandato l’attribuzione della casa coniugale, di cui è proprietario esclusivo.
Nel decidere sulle richieste delle parti, il giudice osserva che, in base all’articolo 6, comma 6, della legge sul divorzio (898/1970), l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore a cui vengono affidati i figli o con il quale convivono oltre la maggiore età. In ogni caso, quando stabilisce a chi assegnare la residenza, il giudice è tenuto a valutare le condizioni economiche dei coniugi e a favorire quello più debole. La norma – aggiunge il Tribunale – va interpretata nel senso che l’assegnazione della casa familiare al coniuge convivente con il figlio maggiorenne richiede la non autosufficienza di quest’ultimo. Altrimenti, l’attribuzione dell’abitazione coniugale comporterebbe «una sostanziale espropriazione del diritto di proprietà», che durerebbe «tendenzialmente per tutta la vita del coniuge assegnatario» ai danni dell’altro.
Nel caso in esame, il figlio convivente con la madre è maggiorenne e autosufficiente, tant’è che la donna non aveva chiesto un assegno a titolo di contributo per il mantenimento del ragazzo. Peraltro, la moglie separata è proprietaria di un altro immobile, con cui «può far fronte alla propria esigenza abitativa». In mancanza delle condizioni previste dalla legge sul divorzio, il Tribunale non deve dunque pronunciare alcuna statuizione sull’assegnazione della residenza, sicché «l’uso e l’abitazione dell’immobile» – conclude l’ordinanza – dovranno «seguire il diritto di proprietà».
La decisione è conforme alla giurisprudenza della Cassazione. Infatti, il giudice di legittimità ha chiarito che le norme in esame subordinano l’assegnazione dell’appartamento coniugale alla presenza di figli, minori o maggiorenni ma non autosufficienti economicamente, che vivano con i genitori. Di conseguenza, se non ricorre questo presupposto, «la casa in comproprietà – ha affermato la Cassazione nella sentenza 387 del 2012 – non può essere assegnata dal giudice in sostituzione o quale componente dell’assegno di mantenimento (di separazione o divorzio)» e il suo uso è disciplinato dalle norme sulla comunione dei beni.
An. Po. Il sole 24 0re 30 maggio 2016
www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/civile/2016-05-27/no-casa-se-figlio-e-autosufficiente–154316.php?uuid=ADA4C7Q
www.oua.it/sentenze-no-alla-casa-se-il-figlio-e-autosufficiente-il-sole-24-ore
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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA CISF
Newsletter n. 10/2016, 1 giugno 2016
Un paese che fa poco per famiglia, natalità e giovani. Così titola l’editoriale di Famiglia Cristiana del 29 maggio 2016, commentando i dati del consueto Rapporto ISTAT sulla situazione del Paese. Uno strumento prezioso, che consente di misurarsi con la realtà. E con la grave povertà delle famiglie, soprattutto di quelle numerose (tra le famiglie con tre figli o più una su quattro è sotto la soglia di povertà relativa, e al Sud una su tre). E la politica? Da troppo tempo è distratta, e nemmeno l’inverno demografico e il crollo della natalità sembrano spostare significativamente l’attenzione. Soprattutto le politiche fiscali rimangono pressoché totalmente indifferenti ai carichi familiari, quasi che il figlio fosse un bene di lusso, da tassare, anziché un investimento fatto dai genitori per il futuro proprio e del Paese tutto. Il dato emerge anche da una recente indagine della Fondazione dell’Ordine del Commercialisti, realizzata in partnership con il Forum delle associazioni familiari. Comparando 28 tipologie familiari, l’indagine evidenzia come le politiche fiscali siano pressoché totalmente indifferenti al numero dei figli, mentre variano molto secondo altre condizioni (soprattutto rispetto al numero di percettori di reddito e a lavoro autonomo o dipendente). Il fisco nel nostro Paese vede bene alcuni valori, ma non vede – e non vuole vedere – la famiglia. Eppure il FattoreFamiglia rimane ancora uno dei moltiplicatori del benessere e della solidarietà nel nostro Paese!
Francesco Belletti – Cisf
Buone pratiche familiari: l’esperienza del trentino, ma non solo...
Il 24 maggio 2016 è stato presentato da Luciano Malfer, direttore dell’Agenzia Famiglia della Provincia Autonoma di Trento, e da Paolo Rebecchi, del Forum delle associazioni familiari del Trentino, il “Dossier politiche familiari 2016”, frutto di dieci anni di attività. Si tratta di un’esperienza che ha molto da dire anche a livello nazionale; per questo l’evento si è realizzato a Milano, nella sede diFamiglia Cristiana (presente il Direttore, don Antonio Sciortino, in collaborazione con il Cisf (presente il Direttore, Francesco Belletti), e coinvolgendo anche il Forum delle associazioni familiari (presente Gigi De Palo, presidente nazionale). Ma perché “in Trentino le famiglie sono più felici?” (Leggi testo)
Anche in altri contesti territoriali è però possibile agire concretamente a favore delle famiglie, con interventi organici e con risultati concreti (ad esempio aumento delle nascite, crescita della popolazione e arrivo di famiglie giovani). Per esempio, in Veneto, nel Comune di Castelnuovo del Garda, da dieci anni.
E gli assegni familiari? Ancora uno scippo. E per fortuna qualcuno in parlamento si ricorda. “I dati Inps 2013-2014 confermano che risulta incassato ma non distribuito un miliardo di euro l’anno per gli assegni familiari. Signor Ministro, è uno scippo: così non va. Chiediamo che venga immediatamente restituito quanto impropriamente trattenuto a danno dei bambini senza aspettare la prossima legge di Stabilità”. Lo hanno denunciato in Aula i deputati Mario Sberna e Gian Luigi Gigli (gruppo parlamentare ‘Democrazia Solidale-Centro Democratico’) durante il Question Time in Aula rivolto al Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, sottolineando che “pure la mancata fruizione degli assegni a danno dei figli dei lavoratori autonomi è iniqua ed assurda tanto quanto la sospensione della loro corresponsione al compimento del diciottesimo anno d’età”.
Del resto anche il Secondo Rapporto CISF (1991!) ricordava che nel 1987 solo il 30% delle entrate della Cassa Assegni Familiari (cioè dei prelievi in busta paga) veniva restituito in busta paga agli aventi diritto. Insomma: le famiglie italiane non solo ricevono poco dalla fiscalità generale, ma non sono garantite nemmeno quando versano in un fondo dedicato proprio alle famiglie. Chi avrà il coraggio di fare qualcosa, al Governo?
Iniziativa dei cittadini europei per il matrimonio e la famiglia. Una nuova campagna di raccolta firme a livello europeo, a tutela dell‘identità della famiglia, del matrimonio e del valore della differenza sessuale, dopo l’esperienza di “Uno di noi”, campagna che ha raggiunto quasi due milioni di firme in quasi venti Paesi europei.
Riforma del terzo settore. La notizia è importante, ed innesca molte speranze per una nuova ed unitaria regolazione del terzo settore. In attesa dei decreti attuativi, come sempre indispensabili per capire bene le conseguenze di un atto legislativo così atteso, conviene confrontarsi con il testo, e con il suo lungo ed accidentato iter (leggi di più)
Una associazione di famiglie compie 25 anni. Una notizia importante, da festeggiare…
Riceviamo e volentieri diffondiamo.
Verona, 24-26 giugno 2016. “L’Associazione delle famiglie AFI è nata il 5 aprile 1991 da un manipolo di uomini che, spronati dal decimo anniversario della enciclica Familiaris Consortio, non volevano più limitarsi ad osservare con indifferenza i mali provocati da leggi e istituzioni dello Stato che offendevano (e offendono) i diritti e doveri della famiglia, anziché sostenerli positivamente. Si chiamava allora Associazione delle Famiglie per i diritti della Famiglia e aveva come scopo di “rendere la famiglia consapevole della propria identità e del ruolo originale e originario che essa è chiamata a svolgere”. In buona sostanza di risvegliare la coscienza delle famiglie di essere «protagoniste» della cosiddetta «politica familiare» ed assumersi la responsabilità di trasformare la società. Uno scopo che in 25 anni è diventato modalità concreta di azione di centinaia di famiglie che in tutta Italia hanno costruito la storia dell’Afi. È un bel traguardo, di cui possiamo certamente andare orgogliosi e che vogliamo celebrare con un grande incontro di tutte le Afi locali a Verona, il 24-25-26 giugno 2016 (vedi programma provvisorio)”.
Avviso speciale!!! Dublino, Irlanda, 2018. “Il Vangelo della famiglia, gioia per il mondo”. Questo è il titolo, scelto personalmente da Papa Francesco, del IX Incontro Mondiale delle Famiglie, che si celebrerà a Dublino dal 22 al 26 agosto 2018. Lo hanno annunciato ufficialmente l’Arcivescovo della capitale irlandese, S. Ecc. Mons Diarmuid Martin (leggi) e il Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, S. Ecc. Mons Vincenzo Paglia (leggi) durante un conferenza stampa tenutasi a Roma martedì 24 maggio.
Save the date.
Nord “Amoris laetitia, parlano i separati”, Associazione Famiglie separate cristiane, Milano 10 giugno 2016.
“Azzerare gli sprechi: povertà alimentare e nuove risorse”, convegno organizzato dalla Regione Emilia Romagna – Assessorato al welfare e alle politiche abitative, Bologna, 24 giugno 2016.
Centro Sesto corso di aggiornamento in diritto matrimoniale e processuale canonico. Programma di formazione permanente per operatori dei tribunali ecclesiastici, Facoltà di Diritto canonico, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 19-23 settembre 2016.
Sud Accogliere la vita al confine con la disabilità e la morte, Per una condivisione di esperienze fra il mondo familiare e il mondo medico. “Centro di aiuto alla vita Uno di noi”, Cagliari, 1 luglio 2016.
Estero “Culture, Dispute Resolution and Modernised Family” (Cultura, risoluzione dei conflitti e famiglia modernizzata), International Centre for Family Law, Policy and Practice, Londra, 6-8 luglio 2016.
www.cpm-italia.it/index.php/component/acymailing/archive/view/listid-2-collaborazione/mailid-106-centro-internazionale-studi-famiglia?tmpl=component
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CHIESA CATTOLICA
I timori di A.M. Valli e gli ideali di un cattolicesimo semplificato.
Con bella sincerità, A.M. Valli ha scritto le sue perplessità sulle “aperture” di papa Francesco
Vedi newsUCIPEM n. 599, pag. 9
www.aldomariavalli.it/2016/05/28/la-chiesa-e-la-logica-del-ma-anche
fotografandole, sostanzialmente, come un pericoloso “cedimento alle logiche mondane”. Senza volerlo, in tal modo, Valli sembra schierarsi – sia pure con molta circospezione e con il beneficio del dubbio – con coloro che preferiscono una Chiesa autoreferenziale rispetto ad una Chiesa in uscita. Se esce, la Chiesa, rischia di infilarsi dritta dritta nella tana del lupo…mentre se si chiude a doppia mandata…
Credo che nelle parole di Valli si esprimano, con dignità e con equilibrio, alcuni pregiudizi storici della Chiesa cattolica di XIX e XX secolo. Dobbiamo considerarli e rispondere ad essi con altrettanta onestà e chiarezza, se ne siamo capaci. Cerco di concentrare la mia attenzione sul cuore della argomentazione di Valli, che rileva giustamente il passaggio da una logica dell’”aut-aut” ad una logica del “et-et”, che tuttavia, a suo avviso, rischia di essere compresa come logica del “no, ma anche sì”. Mentre l’et-et salvaguarderebbe la complessità, integrando il nuovo, la logica del “sì, ma anche no” relativizzerebbe tutto, banalizzando tutto.
Qui, a me pare, si colloca il punto pregiudiziale del ragionamento di Valli. Siccome l’et-et può degenerare nel “sì, ma anche no”, allora, parrebbe cosa migliore restare nella “fortezza” dell’aut-aut. Qui sta il punto debole del ragionamento, in cui la inerzia della nostalgia e della presunzione, dalla quale tutti noi veniamo negli ultimi 30 anni, rischia di fatto di produrre una alleanza della paura e di creare una barriera difensiva alla accettazione della complessità.
Già il Vaticano II aveva indicato, con assoluta chiarezza, che quella via – che potremmo dire dell’antimodernismo – era ormai definitivamente preclusa. Far valere un “oggettivo” opposto al “soggettivo” non ha alcun futuro. Illude solo chi non ci crede. Non lo abbiamo ancora imparato, 50 anni dopo? Ci siamo lasciati persuadere dalle tattiche e strategie di immunizzazione dalla complessità, messe in campo negli ultimi 30 anni? Qui mi pare che Valli, di cui ammiro sinceramente la franchezza, resti vittima di un modello nostalgico e premoderno di Chiesa, che non affascina solo lui, evidentemente, ma dal quale mi era sembrato prendere le distanze, in diverse occasioni.
E’ ovvio che le letture di questa “novità” – che non è modernismo al posto dell’antimodernismo, ma è un altro modo di affrontare la questione – possano essere del tutto distorte e che il “mondo” se le cucini a modo suo. Ma questo dovrebbe forse farci esitare? Ci mette forse a disagio una lettura riduttiva della profezia? Se il Padre esce ad accogliere il figlio minore, siamo proprio costretti ad associare tutti allo scandalo del figlio maggiore? Ci sentiamo imbarazzati da un papa che prende sul serio il “soggetto”? Siamo proprio condannati ad avere schemi mentali che leggono il soggetto come soggettivismo, la libertà come liberalismo e il moderno come modernismo? Siamo ancora vittime di questi paradigmi elaborati più di un secolo fa e che già 80 anni fa erano in crisi?
Se il pontificato di Francesco, da più di tre anni, ha preso sul serio la complessità – al punto di chiamarla “meravigliosa complicatezza” – dobbiamo forse temere che questo ci complichi la vita e la testa? Non sarà forse che questa “semplificazione” della tradizione, alla quale ci siamo tanto legati, non corrisponda forse al nostro modo borghese di vivere la fede nel centro della Europa, turbati solo dai migranti all’assalto e dalle offerte speciali dei Superstores? Non sarà, forse, che la vigilanza debba essere esercitata non solo sul “ma anche”, ma sulla continua tentazione di rifugiarci nell’aut-aut dell’immobilismo e della paura? Perché non c’è niente di meglio che rifugiarci, nel nostro mondo eurocentrico, nella coscienza di una fede “totalmente altra”, che ci chiede “tutt’altro” e che affronta la nostra libertà, negandola, quasi violentandola, ma producendo solo fondamentalismo? Ecco, con questa riduzione della profezia al “totalmente altro”, possiamo consolarci con la nostra impotenza e ritagliarci forme di vita del tutto autosufficienti.
La questione sollevata da Valli, pertanto, è fondamentale. Ma non riguarda i “rischi” dello stile pontificale di Francesco, ma anzitutto i rischi di un loro fraintendimento. Francesco ha reintrodotto uno stile autenticamente cattolico dell’”et-et”, riscoprendo il primato del tempo sullo spazio e della realtà sulla idea. Questo non significa affatto rinunciare né alle necessarie radicazioni né alle buone idee, ma pensarle e promuoverle nel contesto di una “società aperta”, senza idealizzare nemmeno questo tipo di società, ma riconoscendola apertamente come segnata, anche pesantemente, dalla “cultura dello scarto”.
Ciò che temo, nel discorso proposto con onestà da Valli, è che possa essere fondato su un equivoco: ossia sulla ipotesi che la Chiesa possa annunciare il Vangelo restando fuori dalla cultura contemporanea e guardandola, diciamo così, da fuori e dall’alto. Questa è la radice di ogni antimodernismo. Senza essere modernista, il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a non confidare più in questa “soluzione antimodernista”. Per questo è stato accusato di “modernismo”, non solo da Lefebvre. Così oggi rischiamo di fare anche con Francesco. Siccome prende sul serio la sfida di una condizione culturale e sociale in cui la libertà dei soggetti e la coscienza dei singoli non possono essere aggirate, ci sembra che accondiscenda troppo alle logiche relativistiche e per questo non ci piace più. Sogniamo forse ancora una Chiesa in cui le relazioni sono semplicemente opzionali? O una autorità che semplicemente si impone?
Su questo punto, che è viscerale, il testo di Valli mi lascia perplesso e suscita una ulteriore domanda: che cosa avrebbe risposto Valli alla signora luterana? O alla coppia in seconda unione? E, infine, non stupisce che Valli citi un discorso di Benedetto XVI del 2010 sul tema della coscienza. Perché proprio in quel testo è evidente come ciò che per Benedetto è un problema, per Francesco è una opportunità. D’altra parte, il modo apologetico con cui Benedetto XVI usava le note – citando anche Nietzsche, ma solo per dimostrare che in una lettera alla sorella fraintendeva il temine fede – e come le usa Francesco – avvalorando anche pensatori o film non cattolici – dimostrano un diverso approccio alla cultura contemporanea. Il primo prevalentemente diffidava, mentre il secondo ha anche sempre qualcosa da imparare…ecco una differenza su cui Valli non si sofferma, rischiando di restare vittima del pregiudizio antimoderno, che giudica il rapporto con la coscienza e con la libertà quasi in contumacia.
D’altra parte, il criterio con cui Valli ha scelto gli esempi, mi pare che dimostri precisamente questa difficoltà di fondo. Ciò che la sua ermeneutica interpreta come “no, ma anche sì” è la banalizzazione di un principio morale del discernimento, che forse si vorrebbe escludere, per rendere la realtà più “attendibile” e meno complessa. Se poi, accanto a questioni serie si affiancano questioni molto meno serie – come la coesistenza di un papa che esercita il ministero con un papa che ha rinunciato a tale esercizio – allora è evidente che proprio dalla serie degli esempi emerge la logica di fondo: la nostalgia per i bei tempi in cui i papi non rinunciavano, i cattolici e i luterani non si sposavano tra loro, i coniugi non divorziavano e le religioni si ignoravano o si combattevano. Quella sì che era una Chiesa seria, bianca o nera, tutta sì sì e no no!
Il vero problema non è che il papa cammini secondo il Concilio Vaticano II, ma che nel popolo di Dio – ma soprattutto in coloro che dovrebbero interpretarlo – si legga l’et-et nella forma sgraziata di un confusissimo “no, ma anche sì”. Credo che Valli abbia fatto bene a dire apertamente la sua reazione. Non bisogna nascondere le emozioni. Non sarebbe male se le argomentazioni, che ha esposto con sincerità, fossero messe al vaglio della nostra tradizione e cultura comune. Che non è solo quella antimodernista del XIX e XX secolo. Se Dio vuole siamo figli di una storia molto più complessa, che non deve vergognarsi della sua “meravigliosa complicatezza”. Un cattolicesimo semplificato non aiuta a vivere. Anzi, talora, può arrivare persino ad aggredire la vita! Grazie a questa tradizione non semplificata – che comunque dopo il Vaticano II si è affermata, nonostante tutto – abbiamo potuto subito riconoscere Francesco come papa e – anche grazie a lui – possiamo ora discuterne, con libertà e rispetto, stili e linguaggi. Già questa discussione potrebbe attestare con efficacia che non ci siamo abbassati ad un “no, ma anche sì”, ma che stiamo risalendo da un “aut-aut” semplificato a un “et-et” inevitabilmente complicato.
Andrea Grillo blog: Come se non 31 maggio 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/i-timori-di-a-m-valli-e-gli-ideali-di-un-cattolicesimo-semplificato
Misericordia e giudizio. I nodi al pettine
Il professor Andrea Grillo, con un intervento pieno di spunti interessanti risponde alle mie osservazioni dei giorni scorsi sulla Chiesa del «ma anche». Lo ringrazio. Sia per la forma, sia per i contenuti. E provo a replicare.
So bene che nel mondo, nella cultura e nella mentalità comune è cambiato tutto. E so bene che Francesco lo sa. Di conseguenza, il papa ritiene che, nell’opera di evangelizzazione, abbia poco senso puntare sulla precettistica, sulla legge, sull’obbligazione morale, su ciò a cui la persona è tenuta. Il tavolo sul quale ha deciso di giocare la sua partita è un altro: l’annuncio della misericordia. Vuol far capire a tutti, anche ai più lontani, che il Dio dei cristiani è un padre buono e accogliente, un Dio personale, sempre pronto a perdonare. Ha detto una volta che il nostro non è un «Dio spray», generico e nebulizzato un po’ ovunque, ma è un Dio al quale ognuno di noi può rivolgersi veramente come a un padre che ha a cuore le sorti di ogni figlio, specialmente se il figlio è sofferente. E alla Chiesa chiede di comportarsi di conseguenza. Di qui l’immagine della Chiesa ospedale da campo, dove si curano le ferite più profonde dell’anima. Di qui il reiterato invito a uscire, a recarsi nelle periferie, a frequentarle con animo aperto e disponibilità all’ascolto. Francesco sa bene che in Occidente la società non è più cristiana, ma pagana. È stata cristiana, ma non lo è più. Dunque è come se tutti dovessimo essere evangelizzati per la prima volta. Oggi la Chiesa, ha spiegato, ha una sola pecorella nel recinto e novantanove fuori. Il dovere del pastore è andare alla ricerca di quelle novantanove. E come può fare? Può forse partire dalla legge, dai precetti, dai doveri morali? Può forse parlare di contrizione, di pentimento, di senso del peccato, di timor di Dio? No di certo, pensa Francesco. Verso una società che ha bisogno di reimparare la speranza cristiana, e che in gran parte è superficiale e disattenta, se non apertamente ostile al messaggio che arriva dalla Chiesa, si può procedere solo proponendo l’immagine del padre misericordioso. Perché nessuno si innamora di una legge.
Di qui il tentativo di Francesco: ricongiungere la dottrina e la pastorale, evitando che la prima prenda il sopravvento sulla seconda e che la preoccupazione per la legge, per il complesso delle norme, diventi preponderante rispetto alla sollecitudine per le creature, così come sono, con tutte le loro contraddizioni, i loro limiti e le loro povertà interiori. La figura di riferimento è il samaritano, mentre il suo opposto è il dottore della legge.
Secondo Bergoglio l’ispirazione samaritana deve improntare l’intera azione della Chiesa, anche in ambito dottrinale. Ecco così l’immagine, cara a Francesco, di «Chiesa incidentata», nel senso di partecipe e coinvolta, da lui preferita a quella di una Chiesa dottrinalmente ben attrezzata, attenta e rigorosa nel ribadire le verità, ma fredda e lontana dalle persone. Ecco così anche la sua richiesta, rivolta con insistenza ai credenti, di sporcarsi le mani con la realtà, specie con quella dei poveri e degli scartati, e di non trasformarsi in «cristiani da salotto», educati ma tiepidi, impegnati a disquisire dei grandi problemi del mondo restandone a distanza.
In Amoris laetitia il paradigma pastorale è spinto molto avanti, tanto da indurre Francesco a sostenere che non può esserci una norma universale, vincolante per tutti, e che la Chiesa deve procedere, nella sua valutazione, caso per caso. In questa strategia però vedo uno squilibrio. L’attenzione posta alla misericordia e alla tenerezza di Dio, non accompagnata da un impegno altrettanto assiduo nel sottolineare la questione della verità, del vero bene e del modo di attingerlo, espone al rischio dell’indeterminatezza e del sentimentalismo.
Quando accenna alla dottrina, Francesco lo fa per lo più per stigmatizzare il comportamento degli esperti della legge, identificati con gli ipocriti farisei, interiormente corrotti, e per mettere in guardia dai sofismi dei teologi, la cui principale occupazione, dice il papa, è quella di rendere più difficile l’accesso alla Parola di Dio. C’è molta più fede nei semplici e nel popolo di Dio che non nei dottori della legge: così Francesco. Con il che, però, si dimostra un po’ ingiusto, perché si può essere attenti alla dottrina senza essere necessariamente ipocriti farisei e teologi sofisti. Inoltre continua a non affrontare la questione del vero bene.
Per Francesco l’importante è «accompagnare» l’uomo nel suo cammino, con sguardo misericordioso su tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, ma questa azione di accompagnamento, questa proposta light, non può bastare a se stessa. Le vanno date delle fondamenta. La pastorale di per sé è una prassi e come tale ha bisogno di una dottrina a cui essere agganciata. Una pastorale senza dottrina, o costruita su una dottrina vaga e ambigua, può andare contro la verità evangelica. La pastorale, svincolata dalla legge, può diventare semplice consolazione di taglio sentimentale, privo di indicazioni circa il vero bene e la strada da seguire per la salvezza dell’anima. E se la Chiesa si limita a questo tipo di accompagnamento rischia di cedere, di fatto, alla logica del mondo.
Il papa raccomanda continuamente che la Chiesa sia missionaria e «in uscita», ma, contrariamente al suo predecessore, non sembra interessato alla questione della verità. Ecco l’origine del disagio che alcuni possono provare davanti ai suoi pronunciamenti. La stessa immagine dell’«ospedale da campo», dove curare le ferite più gravi, ha bisogno di specificazioni. Curare in che senso? Guarire come? Per approdare a che cosa? In un ospedale può lasciarsi curare e guarire chi non crede nei medici e nelle medicine? Bergoglio sul punto è sfuggente.
La Chiesa ha sempre considerato la dottrina in un solo modo, come via che porta a Dio. Certo, ha anche commesso errori, si è anche resa protagonista di misfatti, ma mai aveva messo in discussione il suo diritto-dovere di indicare la retta dottrina come strada verso Dio. La parola dottrina ha la stessa radice di dottore, di docente. Viene dal verbo docere, insegnare. È uno strumento. La cui validità si giudica dal risultato: se conduce a Dio è vera, se non conduce a Dio è falsa. In Collaboratori della verità (2006), Benedetto XVI diceva: «Quando la Chiesa denuncia i veri peccati di questa epoca (la distruzione della famiglia, l’uccisione di bambini non nati, le deformazioni della fede) le si contrappone un Gesù che sarebbe stato solo misericordioso. Viene formulata la massima: non si può essere cristiani a spese dell’essere uomini. E per “essere uomini” si intende ciò che pare e piace a ciascuno. Essere cristiani diventa così un optional gradito che non deve costare nulla. Ma Cristo è salito sulla Croce: un Gesù disposto a tollerare tutto non sarebbe stato crocifisso».
Juan Carlos Scannone, il teologo argentino amico di Bergoglio e come lui gesuita (teorico, con Lucio Gera, di quella Teologia del pueblo che ha influenzato non poco il papa attuale), spiega che con Francesco la Chiesa ha fatto proprio il paradigma del Concilio Vaticano II. Dal paradigma precedente, che era a-storico, perché partiva dal «dover essere» senza fare i conti con la realtà del tempo, siamo approdati al paradigma storico voluto da Giovanni XXIII, con la richiesta di tenere più conto del personale e del soggettivo. Un cambiamento, spiega padre Scannone, evidente nella Gaudium et spes, radice e ispirazione di Evangelii gaudium, dove si mette in pratica il metodo «vedere, giudicare, agire» che fu al centro della Conferenza dell’episcopato latinoamericano di Medellin (1968) e che la Chiesa del Sudamerica ha applicato fino alla Conferenza di Aparecida (2007), il cui documento finale, elaborato proprio sotto la guida di Bergoglio, è l’altra fonte di ispirazione di Francesco. Ecco perché, spiega Scannone, il papa è oggi impegnato nell’accompagnamento dei poveri, ecco perché denuncia la cultura dello scarto e chiede ai pastori attenzione e sollecitudine per ogni singola persona. La realtà è più importante dell’idea: Bergoglio lo diceva già nel 1974, quando era provinciale dei gesuiti.
Indagare sulle radici del pensiero del papa ci fa capire quanto Francesco sia legato a un certo clima – culturale, sociale e teologico – che continua a influenzarlo. Ma è legittima una domanda: quella stagione, per quanto entusiasmante, non è forse superata? O, per lo meno, non lo è in alcuni suoi aspetti? Oggi, di fronte al dilagare di soggettivismo e relativismo, immersi come siamo nella cultura «liquida» della postmodernità, esposti al rischio di veder svanire tutti gli strumenti in grado di assicurare una valutazione morale, il paradigma storico può ancora costituire la chiave di lettura principale? Oggi, anche come Chiesa, non rischiamo forse di essere troppo immersi nella storia e incapaci di dotarci di punti di riferimento stabili, in grado di orientare un’umanità moralmente sbandata?
Il teologo Inos Biffi («Osservatore romano», 12 aprile 2016) mette in guardia da alcune derive della cultura contemporanea che possono essere assunte, fa capire, anche dalla Chiesa. Quando la soggettività prevale su tutto, il soggetto resta in balìa delle impressioni e l’azione umana viene «a mancare di una ragione illuminata e solida», in grado di fare da fondamento delle scelte. È il grande problema del nostro tempo. Non abbiamo principi e nozioni di base per spiegare ciò che siamo e ciò che facciamo. O, per meglio dire, abbiamo principi e nozioni che fatalmente si riconducono «a istintività e opinione non sindacabili», che è come dire all’arbitrio «allergico a qualsivoglia misurazione». Eccoci così all’«assolutizzazione del soggetto, divenuto radicalmente principio ingiudicabile di bene e di male, di valido e invalido». Questione che, nota Biffi, se sulle prime sembra solo antropologica e logica, diviene necessariamente teologica.
Smascherare la visione «liquida» della realtà umana e tornare a rivendicare per l’uomo la facoltà di «ritrovare l’intelligibilità, l’ordine, la luce delle cose, il loro essere riflesso del Verbo e perciò del Padre che le ha chiamate a vita». Ecco la sfida drammaticamente davanti a tutti noi, a maggior ragione al credente, nel tempo della società liquida. Tuttavia Francesco non sembra interessato ad assumere questa sfida. In alcune occasioni ha usato parole dure contro quello che ha chiamato il «pensiero unico», interpretandolo però in chiave sociale ed economica, non sotto il profilo filosofico e per le sue possibili implicazioni teologiche. La sua teologia, così, sembra ridursi a una teologia dei diritti che esclude, o lascia in secondo piano, i doveri.
«L’ingerenza spirituale nella vita personale non è possibile». Francesco lo dice nell’intervista alla «Civiltà cattolica» e, fra tutte le sue dichiarazioni, è una delle più problematiche. Qui Bergoglio sembra fare proprio, volontariamente o meno, un luogo comune tipico della postmodernità: la decisione individuale, se presa in coscienza, è sempre buona o almeno ha sempre valore, per cui nessuno la può giudicare da fuori, con una norma universale. Ma se la scelta individuale, per il solo fatto di essere stata presa in coscienza, è di per sé buona e insindacabile, non siamo in pieno relativismo? E non è forse vero che, lungo questa strada, è facile approdare all’idea, ormai diffusa anche nell’azione pastorale della Chiesa, secondo cui la sincerità e la spontaneità cancellano la natura del peccato?
È davvero così misericordioso rispettare la scelta di vita di ciascuno solo perché è una scelta fatta in libertà e sincerità? La Chiesa non dovrebbe forse portare alla luce la condotta di vita improntata al peccato? E non sta forse proprio in questo esercizio la forma più alta di misericordia? Se la Chiesa non mostra il peccato, se non consente al peccatore di fare chiarezza dentro di sé, secondo la legge di Gesù, in che modo si mette al servizio delle persone? Il primato della coscienza non può essere confuso con l’impossibilità o l’incapacità di giudicare. A rischio è l’autorevolezza stessa del papa, ma soprattutto il destino eterno delle anime. Quando Francesco, dialogando con Scalfari, sostiene che «ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce», che cosa dobbiamo pensare? Qui emerge una concezione soggettivistica e relativistica della coscienza morale che sicuramente non si sposa con quanto ha sempre insegnato la Chiesa. Per il cattolico non esiste forse il vero bene, oggettivo?
E come giudicare il passaggio nel quale il papa sostiene che, nella ricerca del bene, «noi dobbiamo incitarlo [l’individuo] a procedere verso quello che lui pensa sia il bene»? Sostenere che il compito della Chiesa non è quello di mostrare il vero bene, ma semplicemente quello di incitare ogni individuo «verso quello che lui pensa sia il bene», non è un cedimento al pensiero relativistico? «L’immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un’immagine di spavento? Io direi: è un’immagine che chiama in causa la responsabilità». Benedetto XVI scrive così nella Spe salvi (n. 44), ragionando sul giudizio di Dio.
Responsabilità. Occorre ammettere che la parola tanto cara a Ratzinger suona oggi desueta. Quando recitiamo il Credo diciamo a un certo punto: «…e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». L’idea del giudizio divino non è mai stata estranea ai cristiani. Anzi, fin dai primissimi tempi ha fatto da richiamo per le coscienze e da bussola per i comportamenti. Com’è dunque possibile un cristianesimo senza giudizio? A che cosa è ridotto l’uomo se mettiamo in ombra la libertà, nella responsabilità, di scegliere fra il bene e il male? E a che cosa è ridotto Dio se non gli è riconosciuta la facoltà di giudicare ma solo quella di «misericordiare»?
«Nell’epoca moderna il pensiero del giudizio finale sbiadisce». Scrive così Benedetto XVI. Non è un caso che l’anno santo della misericordia voluto e indetto da Francesco sia il primo della storia dal quale è quasi sparita l’idea di indulgenza, cioè della remissione della pena temporale da scontare nella vita eterna a causa dei peccati commessi, una remissione che può essere plenaria, cioè totale, oppure parziale, e si può ottenere a determinate condizioni fissate dalla Chiesa. L’indulgenza ci ricorda che c’è un aldilà e che nell’aldilà ci può essere una pena da scontare. Ci ricorda dunque che ci sarà un giudizio da parte di Dio. Concetto scomodo per una spiritualità light. Meglio rimuoverlo.
Papa Francesco non si stanca di incentrare la sua predicazione sulla tenerezza del Padre buono, un Padre che non è giudice, che ha le braccia spalancate e accoglie tutti, ma come si può esercitare il ruolo e la responsabilità di genitore senza essere anche, in qualche misura, giudici dei comportamenti assunti dai figli? Apparteniamo a un’epoca e a una cultura nelle quali la figura del padre ha subìto una repentina metamorfosi: da padre troppo spesso giudice e padrone, è diventato amico e compagno, ma abbiamo visto i guasti che questa trasformazione ha portato con sé. Nessuna nostalgia per i tempi in cui i padri punivano e reprimevano con durezza, ma siamo passati da un eccesso all’altro. Il padre non può essere amico e compagno, come oggi viene dipinto. Se si comporta così, tradisce la sua missione, o per lo meno la svilisce. Allo stesso modo, sembra una forzatura dipingere il buon Dio esclusivamente come un Padre tenero e amorevole, privandolo delle funzioni di direzione morale e quindi del dovere di segnalare i comportamenti sbagliati ed eventualmente sanzionarli. In un mondo che sotto il profilo morale è già allo sbando, in una società culturalmente e spiritualmente «liquida», priva di solidi e credibili punti di riferimento, è proprio il caso di immettere «liquidità» anche nell’immagine di Dio?
Durante la presentazione ufficiale di Amoris laetitia in Vaticano, il cardinale Christoph Schönborn si è chiesto: «Questo continuo principio dell’inclusione preoccupa ovviamente alcuni. Non si parla qui in favore del relativismo? Non diventa permessivismo la tanto evocata misericordia? Non esiste più la chiarezza dei limiti che non si devono superare, delle situazioni che oggettivamente vanno definite irregolari, peccaminose? Questa esortazione non favoreggia [sic] un certo lassismo, un “everything goes”? La misericordia propria di Gesù non è invece, spesso, una misericordia severa, esigente?».
Pur dimostrandosi consapevole del problema, l’arcivescovo di Vienna ha dato una risposta che non mi convince. Ha detto: sapendo che «non ha senso una denuncia retorica dei mali attuali», e che «neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità», Francesco chiede una «conversione pastorale». Che significa? Papa Francesco, ha spiegato ancora il cardinale, da buon gesuita ha a cuore l’educazione alla responsabilità personale. Per questo dice che «c’è sempre bisogno di vigilanza». Tuttavia, «la vigilanza può diventare anche esagerata». Leggiamo infatti nell’esortazione: «L’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare […]. Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia» (n. 261).
Secondo l’arcivescovo, è «molto illuminante mettere in connessione questo pensiero sull’educazione con quelli che riguardano la prassi pastorale della Chiesa. Infatti, proprio in questo senso papa Francesco torna spesso a parlare della fiducia nella coscienza dei fedeli: “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (n. 37)».
Siamo, qui, nel cuore del problema. Capisco bene che l’educatore non deve essere ossessionato dalla vigilanza, ma ciò non toglie che la regola e la legge restino decisive. Chiunque è stato o è educatore sa che non si può educare aggirando il problema delle regole e che introdurre regole non significa automaticamente esserne ossessionati. Bisogna seguire, dice il cardinale Schönborn, la «via caritatis», che si estrinseca appunto nel discernimento e nell’accompagnamento, non nel giudizio. Francesco capisce le preoccupazioni di chi preferisce «una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione» (n. 308), ma a tutti obietta dicendo: “Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e quello è il modo peggiore di annacquare il Vangelo”» (n. 311).
Papa Francesco, conclude Schönborn, «confida nella “gioia dell’amore”. L’amore sa trovare la via. È la bussola che ci indica la strada. Esso è il traguardo e il cammino stesso, perché Dio è l’amore e perché l’amore è da Dio. Niente è così esigente come l’amore. Per questo nessuno deve temere che papa Francesco ci inviti, con Amoris laetitia, a un cammino troppo facile. Il cammino non è facile, ma è pieno di gioia!». Ora, tutti sappiamo che l’arcivescovo di Vienna è un fine teologo, ma queste sue osservazioni non spiegano molto. Il richiamo finale all’amore, che sa trovare la via, suona veramente troppo generico e superficiale. Quale amore? Quale via? Per arrivare dove? Il richiamo alla funzione educativa è giusto, ma ripetiamo: gli educatori più accorti sanno bene che la questione della norma, e quindi del limite, e quindi della dottrina, non può essere aggirata. Nessun genitore, alla domanda su come far crescere una persona nella responsabilità, può permettersi di rispondere facendo riferimento, genericamente, all’amore. Occorre precisare. L’amore va declinato. Anche attraverso le regole, senza le quali non ci può essere vera educazione alla libertà responsabile. Altrimenti il salto nel relativismo è cosa fatta.
Aldo Maria Valli 2 giugno 2016
www.aldomariavalli.it/2016/06/02/misericordia-e-giudizio-i-nodi-al-pettine
A. M. Valli e la caricatura di papa Francesco. Gli stereotipi tradizionalistici di bravi giornalisti
Nel dialogo che si è aperto con A. M. Valli, che ringrazio per la risposta, credo sia giusto mettere in gioco anche le diverse professioni e competenze. E se non è affatto raro che un teologo possa fare cattivo o anche pessimo giornalismo, altrettanto può accadere ad un bravo giornalista di cadere vittima – e di farsi paladino – di una cattiva o anche pessima teologia. Voglio allora continuare il dialogo con A. M Valli, che considero giornalista attento e competente, al quale ho sempre riconosciuto autorevolezza di cronaca e di informazione, segnalando che nel suo intervento di “replica” alle mie obiezioni, in realtà egli non replica affatto ai miei argomenti di contestazione, ma continua nelle sue narrazioni di disagio, che tuttavia appaiono sostenute da ragionamenti troppo fragili e approssimativi, perché basati su pregiudizi dovuti ad una lettura teologica del pontificato di Francesco del tutto inadeguata, falsa e profondamente fuorviante. Quando dico falsa non metto in dubbio le reazioni di Valli, ma la pertinenza a Francesco di quello che Valli sente come disagio.
In particolare vorrei segnalare 6 pregiudizi, cui Valli attribuisce autorevolezza, ma che restano fraintendimenti gravi e non giustificati, dipendenti da stereotipi teologici che da decenni cerchiamo faticosamente di superare. Un giornalista può ovviamente ignorare tutto questo travaglio della teologia, ma non dovrebbe mai arrivare a desumere dalle sue categorie vecchie e inadeguate un giudizio sulla (presunta) inadeguatezza del papa, di un teologo con Scannone o del teologo e card. Schoenborn. Il problema è che Valli non riesce ad ascoltarli davvero, a proietta su di loro solo le sue legittime paure, alimentate da un diffuso antimodernismo e da una nostalgia pervasiva, che inficia tutta la sua analisi.
Considero 6 stereotipi-chiave del suo discorso:
a) Una ricostruzione del pontificato di Francesco del tutto unilaterale e falsa (e per converso una proiezione sui papati precedenti di ciò che non si comprende del papato attuale). Ognuno può esprimere liberamente tutte le opinioni che desidera. Ma quando le argomenta, deve riferirsi alla realtà, non ai suoi incubi. Se si ricostruisce il pontificato di Francesco come perdita di riferimento alla verità e attenzione solo al soggetto, allora si è già decisamente varcato il limite della definitiva incomprensione. Se poi, si mette a paragone questa caricatura, con l’altra caricatura, ossia quella di un predecessore solo equilibrato, attento e prudente, allora il pasticcio diventa irrimediabile. Qui bisogna dire con grande chiarezza che le cose stanno esattamente al contrario. Noi veniamo da 30 anni in cui progressivamente si è erosa ogni possibilità di “discernimento” per affermare soltanto “valori e verità oggettive” su cui si è appiattito il Vangelo, per paura e per diffidenza. Francesco, che ha ereditato questa pesantissima eredità, ha semplicemente recuperato, accanto ai principi e alle norme generali, le relazioni e i casi particolari. Questa è la posizione equilibrata e prudente, mentre ci eravamo tutti abituati allo stile drastico dell’aut-aut, del quale Valli sembra diventato un nostalgico piuttosto acceso.
b) Una comprensione del rapporto tra dottrina e pastorale come “deduzione”. Anche su questo versante, ossia nel rapporto tra dottrina e pastorale, Valli ripete gli stereotipi di una visione intellettualistica e metafisica che è superata dalla storia e dalla evidenza da almeno 50 anni. Certo, citando selettivamente Ratzinger e Biffi, o prendendo le definizioni da wikipedia, ci si sente rafforzati nel proprio sdegno. Ma a quale prezzo? Chi ha sostenuto queste tesi ha avuto la coerenza di trarre le ultime conseguenze di quel progetto, e si è dimesso. Avrebbero un tantino di quella coerenza coloro che pensano che le dimissioni di Benedetto XVI siano soltanto una “debolezza”, mentre sono state la sua vera forza? La dottrina, se vuole essere “nutriente”, deve farsi pastorale, altrimenti è lettera vuota, diventa pietra e ossessione idealizzata. E per questo si fa aggressiva e violenta. Affermare che “senza dottrina la pastorale è cieca” è un modo per riportare le questioni a prima del Vaticano II: ho la sensazione che Valli di tutto questo non sia affatto consapevole.
c) Un uso dei concetti di “legge”, “coscienza” “giudizio”, “giudizio universale” e “indulgenza” troppo superficiale. Nel suo scritto di replica Valli infarcisce il testo di definizioni, implicazioni teoriche, catechistiche e pastorali spesso del tutto fuori controllo. Se parlo del “giudizio” – solo per criticare la nota frase di buon senso con cui Francesco ha detto “chi sono io per giudicare” riferendosi al giudizio morale sul comportamento di un collaboratore – e lo associo al “giudizio finale”, faccio un sonoro pasticcio, che confonde solo le acque e impedisce di elaborare una vera opinione fondata. Altrettanto si deve dire del modo disinvolto con cui i concetti di “legge” o di “coscienza” vengono usati, mettendo in concorrenza ciò che invece deve collaborare. Il merito di Francesco è di aver riaperto la relazione tra legge e coscienza, non quello di aver affermato la seconda contro la prima. Far credere che sia come non è appare come un pessimo servizio alla comunicazione alla informazione. Per non dire delle “indulgenze” che Valli tratta come “prova” di una scarsa sensibilità escatologica di Francesco, non comprendendo né l’istituto della indulgenza né il documento di Francesco. Non ha mai scoperto, Valli, che il testo fondamentale sul “giudizio finale” è Matteo 25? Ha mai sentito dire che “anticipare il giudizio finale” è una tipica pretesa delle sette e dei fondamentalisti e che la differenza tra giudizio finale e giudizio attuale è custodita dalla prudenza ecclesiale e non dalla fretta dei moralisti?
d) Una assunzione sbagliata e distorta del concetto di “società liquida”, coniato da Bauman per descrivere la realtà, non per giudicarla. Anche il tono con cui Valli parla della “società liquida” è direttamente trascritto dal registro apologetico più classico, nel quale la modernità viene confusa con il demonio. Oggi non si dice più “società moderna”, ma “liquida” per formulare lo stesso giudizio. Ha mai pensato, Valli, che la società ha cominciato a diventare “liquida” quando ha riconosciuto una pari dignità a tutti i cittadini? Quando ha superato la schiavitù? Quando ha riconosciuto anche alle donne una pari dignità rispetto ai maschi e alle mogli rispetto ai mariti? Ha mai sentito parlare del fatto che tutte queste grandi conquiste il mondo moderno ha dovuto farle quasi sempre “nonostante la Chiesa cattolica”? E non sarebbe l’ora di ammettere le proprie responsabilità – come Francesco fa apertamente in AL e in altri contesti – e smetterla con questo paternalismo insopportabile verso tutto e verso tutti?
e) Una lettura “pre-moderna” della questione pedagogica (in famiglia e nella società civile) Anche su un altro punto vorrei segnalare a Valli una questione di fondo: la richiesta di pedagogia, che egli solleva a ragione, non può certo rivolgerla a Francesco o a Schoenborn. Ma lo capisco, perché anche in questo campo egli è rimasto ad una concezione della tradizione cattolica e della relazione tra Chiesa e mondo precedente a Dignitatis Humanae, che sancisce la libertà di coscienza come conquista comune di tutti gli uomini e donne. E l’errore è di ripetere, come spesso fa Valli, che Francesco difende il diritto e non il dovere. Questa è una grave menzogna, che non corrisponde né alle parole di Francesco né alla coscienza ecclesiale comune, ma che ripete le parole ossessive dei tradizionalisti e dei reazionari, che conoscono solo opposizioni. Francesco riscopre il “dono della fratellanza”, che abbiamo ricevuto in Cristo, e a partire dal quale appaiono chiari, ma complessi, tutti i doveri e tutti i diritti. Il punto di partenza non è un “obbligo”, ma un “dono”. Questa è la novità del Vaticano II, con cui Valli non sembra precisamente sintonizzato.
f) La metafora del padre assente. La sorpresa maggiore mi è venuta dalle considerazioni conclusive in cui Valli-padre si mette a paragone di Francesco-padre e quasi lo rimprovera di non saper educare i propri figli. Qui, a me sembra, si va oltre il segno e si cade – mi si perdoni – quasi nel ridicolo. La esperienza paterna deve far crescere figli coscienziosi. Per farlo occorre anche la legge, senza alcun dubbio. Ma l’uso della legge, se non si vuol essere padri-padroni, non è senza discernimento. Ad un figlio che rientra non alle 23, ma alle 2.40 del mattino, si chiede ragione, ma non si applica la “legge oggettiva”, mai. Può aver perso tempo a cantare, può aver avuto un incidente, può aver aiutato un compagno che si sentiva male, può aver litigato con la fidanzata…i casi sono molti, anche se la legge è una. Orienta al bene ma non è il bene. Ci sono casi in cui un figlio “deve disobbedire alla legge (paterna)” se vuole crescere in coscienza. Valli ha certamente fatto queste esperienze da padre, ma non capisco perché qui le vuole rimuovere e negare: solo per accusare più facilmente Francesco sulla base di categorie inadeguate?
Alla fine, la questione che Valli solleva non riguarda né Francesco, né Scannone, né Schoenborn, ma i preconcetti mediante i quali lui non riesce proprio ad ascoltarli. Se si impongono categorie tradizionalistiche – che oppongono legge e coscienza, giudizio storico e giudizio finale, – e lo si fa in modo “non cattolico”, non secondo l’et-et, ma con la nostalgia dell’aut-aut, il risultato è che il testo di Valli mi sia diventato noto, con pingback sul mio blog, non dal suo sito e blog, ma dal blog www.anticattocomunismo. Se fossi in Valli, inizierei a preoccuparmi, e a verificare le categorie con cui pretende di giudicare papa, cardinali e teologi. Forse i loro testi non lo convincono solo perché parlano diversamente da come lui crede dovrebbero parlare, avendo consultato finora fonti poco affidabili o troppo superficiali. D’altra parte, se per interpretare i testi di Francesco, Valli continuerà a prendere per buone le caricature tradizionalistiche e non le realtà effettive, finirà per trovarsi in buona compagnia solo degli oltranzisti, che non sono disposti ad ascoltare e leggono tutto con le opposizioni tra bianco e nero. Ma a me risulterebbe comunque strano che un cattolico vero e un giornalista sensibile come A.M. Valli preferisca le cattive idee alle buone realtà.
Andrea Grillo blog: Come se non 3 giugno 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/a-m-valli-e-la-caricatura-di-papa-francesco-gli-stereotipi-tradizionalistici-di-bravi-giornalisti
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Senigallia. Incontro formativo al Consultorio Familiare di Serra de’ Conti.
L’incontro, aperto a tutti, sarà condotto il 6 giugno dalla psicopedagogista Renata D’Ambrosio del consultorio Familiare UCIPEM di Senigallia. Il tema è: La tenerezza: il linguaggio che accarezza le relazioni
www.comune.serradeconti.an.it/Engine/RAServePG.php/P/3716100P0100/M/2500100P0101
Vittorio Veneto. Aperto un centro a Domegge di Cadore.
Un centro di consulenza familiare del Consultorio Ucipem di Vittorio Veneto è stato aperto in Piazza dei Martiri a Domegge di Cadore, vicino alla chiesa di San Giorgio. Il Consultorio è un servizio dedicato alla persona, alla coppia, alla famiglia che si propone di aiutare le persone ad affrontare le difficoltà legate alle relazioni interpersonali e attuare interventi di formazione e prevenzione, rivolti in particolare al ciclo di vita della coppia e della famiglia. L’accesso è libero e gratuito senza alcuna discriminazione ideologica, politica o religiosa.
Lo scopo è quello di favorire il processo di conoscenza e crescita personale, attraverso la consulenza familiare, la consulenza ginecologica, sessuale, psicologica, pedagogica. Inoltre offre pareri legali e sociali, anche attraverso la mediazione familiare e la psicoterapia breve individuale. Infine propone terapie di coppia, familiare e di gruppo. L’attività è svolta da personale volontario ma altamente specializzato che affronta i problemi degli utenti e delle famiglie partendo da una visione integrale della persona, della coppia e della famiglia. Poiché la struttura portante all’interno del centro è basata su una equipe consultoriale, questa non è costituita solo da volontari, ma anche da figure professionali, come consulenti familiari, pedagogisti, psicologi, mediatori familiari, consulenti legali, consulenti etici e assistenti sociali che operano attraverso competenze specifiche e la collaborazione interdisciplinare. Queste persone permettono un approccio integrato alla domanda di accoglienza. Per ottenere un risultato ottimale, l’equipe si avvale anche della collaborazione di figure professionali esterne.
Il centro è aperto solo da alcuni giorni ma sono già numerose le persone che hanno prenotato una consulenza contattando il numero telefonico 0438 552993, segno evidente che il territorio sentiva l’esigenza di questo servizio. La prenotazione è obbligatoria.
Vittore Doro Corriere delle Alpi 2 giugno 2016
www.ucipem.info/home.asp
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DALLA NAVATA
X Domenica del tempo ordinario – anno C -5 giugno 2016.
1 Re 17, 23 «Elìa prese il bambino, lo portò giù nella casa dalla stanza superiore e lo consegnò alla madre. Elìa disse: “Guarda! Tuo figlio vive”»
Salmo 30, 06 «Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia.»
Galati 01, 26 «Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.»
Luca 07, 13 «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere”.»
Commento delle Clarisse di S. Agata.
Il nostro cammino nel tempo ordinario della sequela del Signore riprende sulle orme del Vivente, nel suo confronto con l’enigma del “dolore e della morte” dell’uomo. La colletta di oggi ci invita a guardare a Lui per lasciarci illuminare dalla “speranza che splende sul volto del Cristo” e scoprire che il “mistero del dolore e della morte” non è l’ultima parola sull’uomo. Il dolore e la morte, “ultima nemica” (cf. 1Cor 15,25-27), sono stati annientati da Colui che “con la morte ha vinto la morte”, come canta un antico tropario orientale perché “ai morti sia data la vita” (cf. Tropario di pasqua, liturgia Bizantina). La Vita è la parola definitiva di Dio sul dolore e sulla morte dell’uomo: “la morte è stata inghiottita nella vittoria” dal Figlio unigenito del Padre che ha vissuto tutto il dramma della nostra esistenza umana fino alla morte così da divenire “spirito datore di vita” (cf. 1Cor 15,45).
Il Vangelo di oggi ci presenta un episodio che è proprio dell’evangelista Luca, quasi un “doppione” della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,40-42.49-56), anticipo della resurrezione stessa di Gesù. Infatti l’“unico figlio” della vedova di Nain che viene portato per essere deposto nella tomba non può non evocare il “figlio unigenito” che è Gesù stesso: “Dio ha inviato il suo Figlio unigenito nel mondo, affinché noi avessimo la vita per mezzo di lui” (cf. 1Gv 4,9 e cf. Gv 1,14.18; 3,16.18).
Il racconto è collocato “vicino alla porta della città”, in un luogo che diventa crocevia dove si incontrano e confrontano due cortei così diversi: da una parte il corteo del Vivente che entra per la porta della città, Gesù “con i suoi discepoli e una grande folla che camminavano con lui”; dall’altra il corteo di “un morto che veniva portato alla tomba, (…) insieme a sua madre rimasta vedova e molta gente della città con lei” esce dalla porta della città. Il brano si apre in modo tale da creare un forte contrasto fra queste due “processioni”: quella dove la Vita entra nella città e quella dove la Morte esce dalla città.
Luca sembra dirci che la città è un luogo per i vivi, è il luogo che ospita la vita. La morte non ha spazio là dove abitano gli uomini. Il mondo dell’uomo non è fatto per la morte, ma per la vita.
Ed è interessante che Gesù, “il Vivente, Colui che era morto ma ora vive per sempre” (cf. Ap 1,18 e Ap 2,8), il Vincitore della morte apre un corteo di uomini che camminano verso la vita: entrano per le porte della città, dove abita la vita; mentre il figlio unico, colui che è stato vinto dalla morte, è portato ed esce dalla città, accompagnato da un corteo di persone che camminano verso la morte. Infatti questa madre vedova, insieme alla tanta gente con lei, porta il suo carico di morte: la sua vita è “non-vita”. Senza marito, senza figlio, senza relazioni che la facciano vivere. Una donna senza marito e senza l’unico figlio è una donna senza passato, senza futuro e soprattutto senza un presente certo perché non ha nessuno che possa prendersi cura della sua vita. In un certo senso, con il suo figlio unigenito, anche lei è morta.
Ora questi due cortei si incontrano fuori dalla porta della città. Si tratta di un luogo in cui si incrociano il dentro e il fuori, dove nel mondo antico avvenivano gli eventi importanti della vita pubblica (processi, compravendite, decisioni che cambiano la vita, come in Rt 4,1ss), ma soprattutto dove avviene l’evento che illumina questa morte di una luce nuova: il Figlio unigenito del Padre, “Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città” ci ricorda la lettera agli Ebrei (cf. Eb 13,12). “Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento” per trovare la “chiave” della morte di questo “figlio unico”, e in lui, di ogni morte dell’uomo.
Prima di tutto notiamo che Gesù interrompe il suo cammino davanti a questo corteo funebre: “Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. Gesù prende l’iniziativa di entrare in relazione con coloro che stanno facendo esperienza della morte con un movimento dello sguardo e del cuore: Gesù vede questa donna ed è preso da compassione, si lascia “toccare” e coinvolgere dal dolore insopportabile di questa donna. La com-passione è proprio quel movimento di apertura verso l’altro che permette di con-soffrire con lui, di lasciarsi coinvolgere in un rapporto con lui conoscendo il suo dolore dal “di dentro” (come il padre misericordioso che corre verso il suo figlio ritrovato in Lc 15,20 o come il samaritano che riconosce come suo prossimo l’uomo incappato nei briganti Lc 10,36-37). La compassione inizia dalle viscere (il verbo greco indica proprio un coinvolgimento delle viscere materne) e si fa progressivo avvicinamento, prima con la parola e poi con il corpo (“si avvicinò e toccò la bara”).
La prima parola di Gesù è rivolta alla donna: “non piangere”. Quanti pianti registra la Scrittura! Tutto l’AT e il NT ne sono percorsi e sembrano sgorgare sempre da situazioni in cui l’uomo non può andare oltre il suo limite. Le lacrime sono sempre un grido rivolto ad un altro perché qualcosa di più grande di noi ostacola il cammino della nostra vita (cf. Gn 21,16; Es 2,6; Nm 11,4; 1Sam 1,7; Tb 3,1; Ger 8,23; Lam 1,1-2…). Il pianto è soprattutto il segno del dolore dell’uomo davanti alla sconfitta della vita, alla morte o a ogni esperienza parziale e anticipatrice del morire (ogni mancanza, sofferenza, perdita…).
Davanti al pianto dell’uomo la prima parola con cui Dio risponde è il Suo dolore (come avviene davanti alla morte dell’amico Lazzaro con il pianto di Gesù in Gv 11,31-33) a cui subito segue un’altra parola molto forte: “non piangere!”. Come avviene nel giardino il mattino di pasqua davanti alle lacrime di Maria Maddalena (cf. Gv 20,11-15) o davanti alle lacrime di Giovanni che sgorgano davanti al libro sigillato che contiene il mistero del mondo (cf. Ap 5,2-5).
Perché Dio può chiedere all’uomo di non piangere davanti al dolore, alla morte? Dalla prospettiva di Dio la morte non “merita” le nostre lacrime perché è stata vinta! La morte è vinta una volta per sempre dalla morte del Figlio unigenito del Padre che muore fuori dalla porta della città (cf. Eb 13,12)!
Da qui, Dio prepara per l’uomo un luogo dove la morte non provoca più dolore; Dio prepara una città dove entrare nella quale le lacrime dell’uomo sono asciugate per sempre: nella Gerusalemme nuova, nella città che Dio prepara per noi, sarà Lui stesso che “asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi, qui non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (cf. Ap 21,4).
Per questo Gesù può rivolgersi alla donna invitandola a non piangere più. E subito dopo può rivolgere la sua parola al morto chiamandolo alla vita! Chi potrebbe osare comandare qualcosa ad un morto ed essere obbedito, se non Colui che “è morto, ma ora vive per sempre” (cf. Ap 1,18)? Il morto obbedisce al Vivente! Il morto ascolta e obbedisce alla Parola di Colui che sarà la Vita per tutti: “viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno (Gv 5,25)!
Ora il morto si alza, come si alzerà dalla morte il Crocifisso, e comincia a parlare, cioè ritorna a vivere, aprendosi alla relazione con gli altri (la parola è sempre la prima e fondamentale forma di relazione con l’altro, il fratello). Il ragazzo che la Parola di Gesù raggiunge nella morte, mettendosi in relazione con lui, diventa a sua volta capace di relazione. Quel ragazzo può ora essere restituito vivo alla madre, vivente di una vita che è relazione, apertura e risposta all’altro.
In questo ragazzo scopriamo il volto di ognuno di noi. Raggiunti nelle nostre morti dalla Parola di Dio, siamo fin d’ora viventi in Lui di una vita che neppure “sorella morte corporale” (come la chiama S. Francesco nel suo cantico) potrà strapparci, fino a che non entreremo nella Vita definitiva che è quella che viene da Lui, fino a che “si riveli in noi la potenza della risurrezione” del Signore Gesù, nostra Vita e Resurrezione (cf. Gv 11,25).
https://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/06/commenti-vangelo-5-giugno-2016-x-tempo.html
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DIACONATO
Diaconato per le donne: quale ruolo nella chiesa?
Il «sacerdozio delle donne è stato escluso ancora ultimamente da Papa Giovanni Paolo II», scriveva nel 2009, il Cardinale Carlo Maria Martini nella sua rubrica di risposta alle lettere. «Nell’agire della Chiesa latina – continuava il Cardinale deceduto nel 2012 – non v’è discriminazione, perché tutti i cristiani sono uguali e hanno gli stessi diritti, ma non esiste per nessuno il diritto a essere ordinato prete. Ci sarebbe ancora il discorso delle pari opportunità, ma esso non è ancora entrato bene nella prassi della gente».
È interessante notare che, nella sua risposta, l’alto prelato ancora, in parte, (lega) la discussione alla condizione dei tempi e non esclusivamente alla dottrina teologica. Una scelta argomentativa oculatamente aperta, che colloca il confronto sul piano della possibilità-capacità della Chiesa di prendere a metro di riferimento sul tema l’evolversi del quadro culturale della società e non solo la prassi secolare.
Dal punto di vista dottrinale, infatti, la posizione è netta. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1577, si afferma che: «riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezzato di sesso maschile. Il Signore Gesù ha scelto uomini per formare il collegio dei dodici Apostoli e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il collegio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l’ordinazione delle donne non è possibile».
Il vincolo espresso è inequivocabile. Esso, tuttavia, contrasta con l’evoluzione del ruolo della donna nella società, avvenuta negli ultimi cinquant’anni. Se, come ebbe a sottolineare il Cardinal Martini, nel nostro Paese le pari opportunità sono ancora lontane dall’essere pratica, nell’opinione pubblica si è insediato saldamente un sentimento paritario. Il diaconato femminile trova larga condivisione tra i cittadini, con punte di pieno accoglimento anche tra i cattolici e tra quanti hanno un legame intenso con la Chiesa (con una pratica quotidiana e non solo domenicale). La spinta trasformativa coinvolge anche i temi più complessi e avanzati del sacerdozio e del vescovato femminile. Su entrambe le possibilità sono schierate sia la maggioranza dell’opinione pubblica, sia ampie e consistenti parti del mondo cattolico. Metà dei cattolici praticanti, infatti, si dice a favore del sacerdozio femminile e della possibilità di ordinare donne vescovo.
Particolarmente schierati sono i giovani. Oltre sei ragazzi su dieci si esprimono a favore di entrambe le opzioni, anche se appaiono, rispetto agli adulti, più scettici sulla reale possibilità che la situazione possa mutare. Lo scetticismo che aleggia tra i Millennials (cioè i nati tra il 1980 e il 2000) è un elemento su cui è utile soffermarsi. Dietro al tema del sacerdozio femminile, o anche semplicemente del diaconato, si nasconde una partita più ampia per la Chiesa cattolica: il problema della limitata fiducia nella gerarchia.
Con il pontificato di Papa Francesco la forbice tra l’appeal di Bergoglio (e del suo modo di fare) e quello dei vescovi, si è ulteriormente allargata. Questi ultimi sono collocati dai giovani, insieme a politici e banchieri, in fondo alla classifica dei soggetti ritenuti in grado di svolgere un ruolo positivo e propulsivo per la società. Sono inquadrati fra quanti oggi fungono da peso, ostacolo e freno al cambiamento.
Il diaconato femminile potrebbe diventare, per la Chiesa, un segno di scarto in avanti, un simbolo in grado di riaprire la partita della fiducia tra gerarchia e opinione pubblica, in primis con i giovani. «Audentes fortuna iuvat» recita il motto virgiliano e, per chi vuole cimentarsi su questo tema nel mondo cattolico (e l’apertura del Papa sembra avere questa finalità), può diventare un energico stimolo.
Enzo Risso, docente di sociologia L’Unità 30 maggio 2016
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«Quella fatta da Papa Francesco è una forzatura della forzatura»
Delle parole di papa Francesco sulla possibilità che in un futuro abbastanza vicino le donne possano ricoprire incarichi sempre più importanti all’interno della Chiesa, abbiamo parlato con Alberto Melloni, storico italiano, studioso di storia del cristianesimo ed esperto del Concilio Vaticano II.
È rimasto colpito dai dati del nostro sondaggio Swg sul sacerdozio? C’è grande favore tra gli italiani. Si aspettava questo “verdetto”?
«No: mi sembra la testimonianza di una società nella quale si possiedono sempre meno i codici di comprensione di quello che accade nel mondo religioso. Ad esempio quelle sulle donne nel ministero ecclesiastico o al sacerdozio sono “domande tranello” perché un ministero molte donne già lo esercitano: è il sacerdozio, quello battesimale, ce l’hanno tutti i cristiani e le cristiane. Il sacerdozio ministeriale è un’altra cosa e riguarda un problema che tutti i vescovi conoscono: e cioè come garantire una cura delle comunità. Anche in Europa oggi sono molti i luoghi in cui donne e uomini, madri e padri di famiglia, suore o consacrati, esercitano un “ministero”: cioè garantiscono alla comunità l’ascolto della parola, la vita liturgica e l’esperienza di comunione stessa. Il punto è se questo ministero può o deve rientrare nel presbiterato o nel diaconato o si debba accettare che possa prendere forme imprevedibili. Il punto insomma non è solo quello del sesso del clero o della condizione rispetto al matrimonio, ma la vita delle comunità. Il sondaggio dice che su questo molti si aspettano soluzioni diverse – che poi sono molto antiche – in tempi brevi».
Donne diacono, è l’ennesima svolta del Papa. Quanto ha “forzato” Bergoglio e quanto questa svolta era già matura nell’elaborazione della Chiesa cattolica?
«L’intervento del Pontefice ha dietro una storia molto lunga che è la storia del ministero pluriforme nella Chiesa. Da sempre in tutte le chiese cristiane si è cercato di dare forma a ciò che serve a garantire la consegna del Vangelo, dell’eucarestia, della vita comune. Questo servizio, nel Nuovo Testamento, è affidato a figure dai nomi più diversi: ci sono comunità che sono rette con una struttura simile a quella delle sinagoghe, con gli “igumeni” (le guide), altre parlano di “maestri” per indicare i capi delle comunità, poi ci sono i profeti, eccetera. Ma ci sono tre profili che fra II e III secolo diventano la forma standard del ministero, cioè quello dei vescovi, dei preti e dei diaconi. Tre parole non sacre, ma tecniche: per indicare i custodi, gli anziani e i servitori».
Dunque cosa accadde?
«Nella chiesa d’Oriente e nella chiesa d’Occidente questo modello del cosiddetto ordine tripartito, si è affermato ed è diventato molto stabile: anche se ad esempio in Occidente il diaconato diventò solo un passaggio per diventare preti. Questo assetto fu messo soltanto in discussione dalle chiese della Riforma nel XVI secolo, con la dottrina del pastorato e in alcune la cancellazione dell’episcopato; altre chiese, come l’anglicana, hanno conservato il sistema tripartito. La chiesa cattolico-romana, decise nel concilio Vaticano II di riprendere in mano il problema del ministero: e restaurò il diaconato come grado separato dell’ordine e di dare questo ministero anche agli uomini sposati, i cosiddetti “viri probati”».
E fu un passaggio importante?
«Fondamentale e importantissimo perché da un lato riconosceva che il ministero non è solo un potere abilitante ma una funzione per la comunità; e poi riconosceva che il celibato, che era solo una usanza venerabile e rispettabile della chiesa latina divenuto un requisito esclusivo da circa undici secoli, poteva essere una via, ma non l’unica. E il diaconato cosiddetto “uxorato”, dato cioè a persone sposate, accanto al diaconato celibatario, implicava che si sarebbero avuti preti scelti fra gli sposati, accanto a preti scelti fra i celibi: e molti vescovi – monsignor Gilberto Baroni a Reggio Emilia fece così con Giovanna Gabbi – ammisero ai corsi del diaconato le donne ritenendo imminente una decisione di apertura su questo. Invece non avvenne. E anzi proprio l’ordinazione delle donne al ministero divenne a fine Novecento un punto di lacerazione fra chiese: chiese riformate, evangeliche e anglicane che procedevano e chiese cattoliche e ortodosse che lo negavano».
Nella chiesa cattolica poi ci fu il documento di Giovanni Paolo II.
«Giovanni Paolo II fece nel 1994 una lettera apostolica, l’“Ordinatio sacerdotalis”, sostenendo che la Chiesa non aveva potere di decidere su questo: come se la mascolinità del ministro che agisce “in persona Christi” appartenesse all’ordine delle cose rilevate. Si trattava di una tesi che si prestava a forzature. In realtà noi abbiamo la testimonianza di un ministero femminile, di una abbiamo anche la testimonianza di un diaconato femminile e di una abbiamo anche il nome: Febe, diacona della chiesa di Cencrea. Per cui quello che ha fatto papa Francesco dicendo che la funzione delle diacone va ristudiata è stata una “forzatura della forzatura”, che ripristina un livello adeguato di discussione. Sarebbe stato impensabile dire che l’ordinazione femminile di intere chiese è contro rivelazione e che quello che la chiesa cattolica non si sentiva di fare era la sola possibilità. Riaprire una discussione riaprire sul ministero femminile e delle battezzate è una cosa di grande rilievo e rasserenante».
Quali sono le ragioni storiche del ritardo “cattolico” rispetto ad altre confessioni: Valdesi, Anglicani…?
«Non è un ritardo “politico”: è una questione di maturazione teologica. Il tema è stato abbandonato dai teologi, che preferiscono questioni facili e innocue. E dunque serve la ripresa di un dialogo aperto, senza stizze e senza leggerezze, per costruire nelle chiese un consenso “sinodale”. Che non è lo strumento che fa affiorare una maggioranza larga (si fa così in conclave), ma a far emergere un consenso profondo (questa è la sinodalità e la conciliarità). Papa Giovanni disse a Capovilla su letto di morte, una frase molto bella: “Non è il Vangelo che cambia siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. È questo il punto della Chiesa: sapere che la fedeltà al Vangelo non sta solo dietro ma anche davanti. E in questa fedeltà c’è la eguaglianza fra i battezzati che è un cardine dogmatico irrinunciabile e c’è la fedeltà alla eucaristia come esperienza reale: sia sul piano storico sia su quello teologico. È impensabile che ci sia una dottrina “vera” del ministero che renda impossibile un accesso “vero” alla vita eucaristica comunitaria».
Intervista ad Alberto Melloni a cura di Maristella Iervasi “l’Unità”, 30 maggio 2016
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut2137
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FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Ultimi dati sulla riproduzione assistita in Europa
La Società Europea di Riproduzione Assistita ed Embriologia (ESHRE) ha pubblicato un nuovo rapporto sui risultati della riproduzione assistita in Europa, relativi all’anno 2011. Il testo include dati di 33 Paesi, due in più rispetto al 2010, di 1064 cliniche, per un totale di 609.973 cicli di stimolazione ovarica. Di questi, 138.592 corrispondono a fecondazioni in vitro e 298.918 a iniezioni intracitoplasmatiche di spermatozoi (ICSI). In 129.693 casi sono stati utilizzati embrioni congelati, e in 30.198 ovociti donati. 6.824 volte è stata utilizzata la diagnosi genetica preimpianto per la selezione degli embrioni migliori. In 174.390 occasioni è stata realizzata un’inseminazione artificiale utilizzando seme del marito o della coppia, e in 41.151 seme di un donatore.
L’aspetto senza dubbio più interessante di questo rapporto sono i risultati ottenuti. L’indice delle gravidanze al primo ciclo, quando è stata utilizzata la fecondazione in vitro per aspirazione o per trasferimento di embrioni, è stato rispettivamente del 29.1% e del 33.2%, mentre quando sono state utilizzate le ICSI gli indici sono stati del 27.9% e del 31.8%.
L’indice delle nascite, il dato principale di cui tener conto perché riflette il numero di donne che hanno provato ad avere un bambino dopo un ciclo di stimolazione, è stato del 19.2%, inferiore agli anni precedenti, perché nel 2010 era del 20.6%, nel 2009 del 20.2%, nel 2008 del 21.7%, nel 2007 del 22.3% e nel 2006 del 20.8%.
Un dato ancor più interessante è conoscere la percentuale delle donne che sono riuscite ad avere un figlio dopo vari tentativi di fecondazione in vitro, perché è questo alla fine il successo reale. Viene valutato in un articolo recente (Human Reproduction, 31; 572-581, 2016) in cui si includono dati di 178.898 cicli, relativi agli anni che vanno dal 1992 al 2007. Dopo tre cicli di stimolazione, l’indice delle nascite è stato del 30% per le fecondazioni realizzate tra il 1992 e il 1998 e del 42.3% per quelle realizzate tra il 1995 e il 2007 (Human Reproduction, 31; 233-248, 2016).
Si tratta di dati molto interessanti, perché riflettono la realtà dei successi ottenuti con la fecondazione in vitro e l’ICSI, che oscilla tra il 20% delle nascite dopo un ciclo di stimolazione e il 30-40% dopo tre, percentuali senza dubbio molto inferiori a quelle che la maggior parte delle cliniche pubblicizza negli opuscoli per attirare clienti.
Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti Aleteia 4 giugno 2016
http://it.aleteia.org/2016/06/03/riproduzione-assistita-meno-efficiente-affermazioni-cliniche/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Jun%2003,%202016%2010:08%20am
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FORUM AFFIDO
Madri sole.
Atti del Convegno Nazionale di studi “madri sole. Inclusione, accoglienza e accompagnamento all’autonomia dei nuclei madre-bambino” (20 maggio 2016 – Pompei)
Abstract interventi (scarica il .pdf)
www.progettofamiglia.org/it/index.php?page=forum-affido—documenti-di-approfondimento&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=atti_2a_parte_convegno_pompei_20_maggio_2016
www.progettofamiglia.org/it/index.php
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Motu proprio del Papa: rimuovere vescovi negligenti su abusi a minori
I vescovi che sono stati negligenti riguardo ad abusi sessuali compiuti su minori saranno rimossi dal loro incarico. E’ quanto sancisce il Motu proprio “Come una madre amorevole” di Papa Francesco che rafforza l’impegno della Chiesa a tutela dei minori. Il Pontefice stabilisce che, tra le “cause gravi” che il Diritto Canonico già prevede per la rimozione dall’ufficio ecclesiastico (di vescovi, eparchi o superiori maggiori), va compresa anche la negligenza rispetto ai casi di abusi sessuali. Nel testo, composto di 5 articoli, si prevede che – qualora gli indizi appaiano seri – la competente Congregazione della Curia può iniziare un’indagine che può concludersi con il decreto di rimozione. La decisione deve comunque sempre essere sottomessa all’approvazione del Pontefice.
Il “compito di protezione e di cura spetta alla Chiesa tutta, ma è specialmente attraverso i suoi Pastori che esso deve essere esercitato”. E’ quanto scrive Papa Francesco nel Motu Proprio “Come una madre amorevole” con il quale rafforza la protezione dei minori, sottolineando la responsabilità dei Vescovi diocesani – degli Eparchi così come dei Superiori Maggiori di Istituti Religiosi e delle Società di vita apostolica di diritto pontificio – ad “impiegare una particolare diligenza nel proteggere coloro che sono i più deboli tra le persone loro affidate”. Il Pontefice ricorda che il Diritto Canonico già prevede “la possibilità della rimozione dell’ufficio ecclesiastico per cause gravi”. Con il Motu Proprio, afferma il Papa, “intendo precisare” che tra tali cause rientra anche “la negligenza dei Vescovi” relativamente “ai casi di abusi sessuali compiuti su minori ed adulti vulnerabili” come previsto dal Motu Proprio di San Giovanni Paolo II, Sacramentorum Sanctitatis Tutela, aggiornato da Benedetto XVI.
Vescovo può essere rimosso per “mancanza di diligenza grave” in caso di abusi su minori. Con il documento firmato da Francesco, si stabilisce fin dal primo dei 5 articoli che il vescovo diocesano (o l’eparca o colui che ha una responsabilità temporanea di una Chiesa particolare) può essere “legittimamente rimosso dal suo incarico, se abbia, per negligenza, posto od omesso atti che abbiano provocato un danno grave ad altri”, sia persone che comunità. Si specifica inoltre che questo danno può essere “fisico, morale, spirituale o patrimoniale”. Il vescovo (al quale sono equiparati i Superiori Maggiori), prosegue l’articolo 1, può essere rimosso solo se “abbia oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua”. Tuttavia, in caso di abusi su minori, “è sufficiente che la mancanza di diligenza sia grave”.
La decisione finale va sempre approvata dal Papa, assistito da un Collegio di giuristi. Qualora gli indizi siano “seri”, prosegue l’articolo 2 del Motu Proprio, la competente Congregazione della Curia Romana (Vescovi, Evangelizzazione dei Popoli, Chiese Orientali, Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica) può “iniziare un’indagine in merito” dando notizia all’interessato che ha “la possibilità di difendersi” con i “mezzi previsti dal diritto”. In seguito agli argomenti presentati dal vescovo, la Congregazione può “decidere un’indagine supplementare”. Negli articoli 3, 4 e 5 il Motu Proprio norma dunque la procedura con la quale si decide l’eventuale rimozione dall’incarico. La Congregazione che assume tale decisione, in Sessione ordinaria, può stabilire se dare “nel più breve tempo possibile, il decreto di rimozione” o esortare il vescovo “a presentare la sua rinuncia in un termine di 15 giorni”, concluso il quale il Dicastero potrà “emettere il decreto”. Nell’ultimo articolo si stabilisce che la decisione finale dovrà essere “sottomessa all’approvazione specifica del Romano Pontefice” che, “prima di assumere una decisione definitiva si farà assistere da un apposito Collegio di giuristi”.
In una nota, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha sottolineato che nella procedura a cui si riferisce il Motu Proprio “non è chiamata in causa la Congregazione per la Dottrina della Fede, perché non si tratta di delitti di abuso, ma di negligenza nell’ufficio”. Non si tratta dunque di “procedimento penale”, precisa padre Lombardi, perché non si tratta di un “delitto compiuto, ma di casi di negligenza”. Trattandosi di decisioni importanti sui Vescovi, prosegue il portavoce vaticano, “l’approvazione specifica dipende dal Santo Padre”. Questa non rappresenta una novità, mentre “lo è la costituzione di un apposito Collegio di giuristi che assisterà il Papa prima che assuma una decisione definitiva”. Si può prevedere, conclude la nota di padre Lombardi, che tale Collegio “sia costituito da cardinali e vescovi”.
Alessandro Gisotti Notiziario Radio vaticana -4 giugno 2016
http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
Papa approva Statuto del nuovo Dicastero per i laici, famiglia e vita.
Papa Francesco, su proposta del Consiglio dei Cardinali, ha approvato ad experimentum lo Statuto del nuovo Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita nel quale confluiranno, dal primo settembre 2016, gli attuali Pontifici Consigli per i laici e la Famiglia. In quella data ambedue i Dicasteri cesseranno dalle loro funzioni e verranno soppressi, essendo abrogati gli articoli 131-134 e 139-141 della Costituzione apostolica Pastor bonus, del 28 giugno 1988.
Secondo lo Statuto, “il Dicastero è competente in quelle materie che sono di pertinenza della Sede Apostolica per la promozione della vita e dell’apostolato dei fedeli laici, per la cura pastorale della famiglia e della sua missione, secondo il disegno di Dio e per la tutela e il sostegno della vita umana”.
Il Dicastero è presieduto dal prefetto, coadiuvato da un segretario, che potrebbe essere laico, e da tre sotto-segretari laici, ed è dotato di un congruo numero di officiali, chierici e laici, scelti, per quanto è possibile, dalle diverse regioni del mondo. Sarà articolato in tre Sezioni: per i fedeli laici, per la famiglia e per la vita, presiedute ciascuna da un sotto-segretario. Avrà propri membri e disporrà di consultori. Il Dicastero segue in tutto le norme stabilite per la Curia Romana.
Spetta al Dicastero animare e incoraggiare la promozione della vocazione e della missione dei fedeli laici nella Chiesa e nel mondo, come singoli, coniugati o no, e come membri appartenenti ad associazioni, movimenti, comunità, con una particolare attenzione alla loro peculiare missione di animare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali.
Alla luce del magistero pontificio, promuove la cura pastorale della famiglia, ne tutela la dignità e il bene basati sul sacramento del matrimonio, ne favorisce i diritti e la responsabilità nella Chiesa e nella società civile, affinché l’istituzione familiare possa sempre meglio assolvere le proprie funzioni sia nell’ambito ecclesiale che in quello sociale. Ha un diretto legame con il “Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia”, sia con la sede centrale che con gli istituti affiliati, per promuovere un comune indirizzo negli studi su matrimonio, famiglia e vita.
Sostiene e coordina iniziative in favore della procreazione responsabile, come pure per la tutela della vita umana dal suo concepimento fino al suo termine naturale, tenendo presenti i bisogni della persona nelle diverse fasi evolutive. Promuove e incoraggia le organizzazioni e associazioni che aiutano la donna e la famiglia ad accogliere e custodire il dono della vita, specialmente nel caso di gravidanze difficili, e a prevenire il ricorso all’aborto. Sostiene altresì programmi e iniziative volti ad aiutare le donne che avessero abortito. Sulla base della dottrina morale cattolica e del Magistero della Chiesa studia e promuove la formazione circa i principali problemi di biomedicina e di diritto relativi alla vita umana e circa le ideologie che vanno sviluppandosi inerenti la stessa vita umana e la realtà del genere umano.
La Pontificia Accademia per la Vita è connessa con questo Dicastero, il quale in merito alle problematiche e tematiche di cui all’art. 11 si avvale della sua competenza.
Notiziario Radio vaticana -4 giugno 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
Il testo di 13 articoli http://w2.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco_20160604_statuto-dicastero-famiglia-laici-vita.html
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NULLITÀ MATRIMONIALI
Nullità matrimoniali. In Bolivia i vescovi fanno tutto da soli.
Nell’assemblea generale di maggio, la conferenza episcopale italiana ha discusso anche dell’applicazione delle nuove norme introdotte da papa Francesco per le cause di nullità dei matrimoni canonici. Applicazione che non appare semplice. Ma al confronto con altre Chiese nazionali, la Chiesa italiana è tra le più fortunate. Ha da tempo una rete di tribunali ecclesiastici ben distribuiti e funzionanti, con processi semigratuiti. Niente di paragonabile con ciò che avviene in altre regioni del mondo, ad esempio in America latina, il continente da cui proviene il papa.
Prendiamo ad esempio la Bolivia. Una recente intervista di Austen Ivereigh al presidente della conferenza episcopale boliviana, il vescovo di Potosí Ricardo Centellas, apre uno squarcio desolante sul trattamento giuridico del matrimonio cattolico in quel paese. Intanto, premette monsignor Centellas, “la maggior parte delle coppie si sposa dopo quattro, cinque, anche quindici-vent’anni di vita assieme. Ci sono anche giovani che si sposano prima di fare vita comune, ma sono rarissimi”. Centellas riconduce questo uso alle tradizioni dei popoli Aymara, Quechua, Guaraní, ove a costituire un matrimonio è il consenso dei genitori e l’approvazione delle autorità, con frequenti pressioni che limitano la libertà della scelta e quindi inficiano la validità del vincolo. Solo dopo si chiede la benedizione della Chiesa. Almeno la metà dei matrimoni finisce comunque con un divorzio. Ma quasi a nessuno viene in mente di accedere a un tribunale ecclesiastico per accertare la validità o no del proprio matrimonio. “Sono vescovo di Potosí da dieci anni – dice Centellas – e ricordo solo uno o due casi che, non essendovi qui un tribunale, sono stati trasmessi a Sucre. Oggi, con tutte le novità introdotte da papa Francesco, qualcosa sta cominciando nell’area centrale del paese, a La Paz, Santa Cruz, Cochabamba. Qui negli ultimi mesi c’è stato un aumento delle cause”. “Come Chiesa boliviana nel suo insieme – prosegue – stiamo cominciando a istituire dei tribunali in tutte le diocesi, che dovrebbero entrare in funzione in luglio. In maggio abbiamo tenuto un corso a La Paz per preparare i processi di forma abbreviata, che dovrebbero svolgersi ovunque. Non abbiamo esperti in diritto canonico, né giudici preparati, e quindi al momento possiamo solo offrire processi di forma abbreviata, che richiedono solo il vescovo e uno che lo assiste”.
Naturalmente con tutti i rischi che questa sbrigativa soluzione introdotta da papa Francesco può comportare, già denunciati da autorevoli esperti. Un’ultima e argomentatissima analisi critica della riforma è quella pubblicata in tre puntate da Geraldina Boni sulla rivista telematica specialistica “statochiese.it” La recente riforma del processo di nullità matrimoniale. Problemi, criticità, dubbi
www.statoechiese.it/index.php?option=com_authors&task=view&id=119&Itemid=41
Geraldina Boni è ordinario di diritto canonico e storia del diritto canonico all’Università di Bologna ed è consultore del pontificio consiglio per i testi legislativi. Scrive, a proposito dei processi brevi di nullità affidati ad ogni singolo vescovo, in alternativa alla procedura giudiziaria normale: “Personalmente non avremmo alcuna avversione teorica al rilancio della giustizia diocesana: ma pensiamo che ciò andasse per lo meno dipanato per tappe susseguenti, oltre che, naturalmente, meglio confezionato. Infatti, non può essere messa a repentaglio la possibilità del giudice di approdare all’accertamento della verità, per il quale duemila anni di storia hanno tuzioristicamente additato quella giudiziaria come la via più sicura. Se essa non è più percorribile, diviene difficile sostenere la natura dichiarativa delle pronunce, le quali finiscono per ‘costituire’ la nullità del matrimonio, compromettendone irreparabilmente l’indissolubilità: ciò che neppure il papa, in virtù della sua ‘plenitudo potestatis’, può fare”.
Sandro Magister settimo cielo 2 giugno 2016
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/06/02/nullita-matrimoniali-in-bolivia-i-vescovi-fanno-tutto-da-soli/?ref=HROBA-1
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SESSUOLOGIA
Quella legge francese contro la prostituzione.
È lecito mettere in vendita e comprare un corpo umano? Non si tratta, come scriveva Victor Hugo, di pura e semplice schiavitù? C’è chi sostiene che sono le prostitute stesse a volerlo: è un commercio come un altro, perché non vendere ciò che è tanto richiesto? La risposta è che anche in tempi di schiavitù legale, uomini e donne si offrivano sul mercato perché era uno dei modi più rapidi, anche se brutali e spicci, di procurarsi da vivere. E comunque se una cultura e uno Stato accettano che esista un mercato di corpi umani, ci sarà sempre chi venderà e chi comprerà, senza farsi scrupoli. Il denaro circola e molti si arricchiscono. Queste non sono le elucubrazioni di una femminista, ma il pensiero comune di molte nazioni europee come Svezia, Islanda, Norvegia, Irlanda del Nord, Canada e, in parte, il Regno Unito, che hanno già proibito o stanno elaborando leggi del tutto nuove che vietino «l’acquisto di atti sessuali».
Strano che sia passato completamente sotto silenzio la nuova legge francese, entrata in vigore dallo scorso 15 aprile 2016. Una legge rivoluzionaria che non si propone di regolamentare la prostituzione, come si fa di solito, ma vuole proprio abolirla. I principi su cui si basa questa legge vengono spiegati così:
- una società civile non può tollerare la vendita dei corpi umani;
- l’idea dei «bisogni sessuali incontenibili» dei maschi appartiene a una concezione arcaica e degradante della sessualità che favorisce lo stupro;
- la prostituzione non può in alcun modo essere considerata un’attività professionale, a motivo dello stato di costrizione che per lo più è all’origine dell’ingresso in essa, della violenza che la caratterizza e dei danni fisici e psicologici che provoca;
- è fondamentale, da parte delle politiche pubbliche, offrire alternative credibili alla prostituzione, garantire i diritti fondamentali alle persone che si prostituiscono, contrastando decisamente la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale.
La legge sanziona l’acquisto di un atto sessuale e riafferma il principio di non patrimonialità del corpo umano, prevedendo a carico del cliente una contravvenzione di 1.500 euro, che, in caso di recidiva, può trasformarsi in multa di 3.750 euro. L’uomo recidivo viene costretto, a sue spese a un corso di rieducazione sessuale. Come vi spiegate che in Italia non se ne sia nemmeno accennato?
Dacia Maraini Corriere della Sera 31 maggio 2016
www.corriere.it/opinioni/16_maggio_31/quella-legge-francese-prostituzione-0bae355a-2676-11e6-844b-1dd7d0858058.shtml
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