newsUCIPEM n. 599 – 29 maggio 2016

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ADDEBITO                                                         Separati in casa.

ADOZIONI                                                         Lo psicologo: il 50% dei genitori adottivi si sente inadeguato.

AMORIS LAETITIA                                           La tensione tra dogmatica giuridica e dogmatica teologica.

ASSEGNO DIVORZILE                                    Divorzio: assegno alla ex anche se lei lavora e lui no.

L’assegno divorzile non è un dogma.

CENTRO STUDI FAMIGLISA CISF               Newsletter n. 9/2016, 18 maggio 2016

CHIESA CATTOLICA                                        Chi ha paura dei diaconi?

La Chiesa e la logica del “ma anche”.

DALLA NAVATA                                              SS. Corpo e Sangue di Cristo – anno C -29 maggio 2016.

Omelia di Ernesto Balducci.

DEMOGRAFIA                                                  Non c’ entra la crisi economica, non aiutano i bonus bebè.

DIACONATO                                                     Donne diacono: una possibilità?

Diaconesse? Il cardinale Ravasi la pensa così.

DIVORZIO                                          Il breve: il termine di 6 mesi decorre dall’accordo innanzi al sindaco.

EBRAISMO                                                        La famiglia tradizionale è la cellula essenziale dell’umanità.

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         Finalmente l’Italia scopre il FattoreFamiglia.

                                               Più che una legge formato famiglia chiediamo il FattoreFamiglia.

In Italia le famiglie pagano per tutti.

NEGOZAZIONE ASSISTITA                           In materia di famiglia: no ad avvocati dello stesso studio.

OMOADOZIONE                                  Nuova conferma dalla Corte d’appello di Torino.

PARLAMENTOCamera Assemblea     Riforma del terzo settore

2° Commissione Giustizia.         Indagine conoscitiva sulla legislazione per adozioni ed affido.

Comm. Infanzia e adolescenza  Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

POLITICHE FAMILIARI                                   Politiche familiari, una svolta a costo zero

Famiglia, se la politica aiuta più natalità, meno conflitti.

SCIENZA&VITA                                                “Nati da donna”: Scienza & Vita rilancia la questione della fertilità

UNIONI CIVILI E CONVIVENZE                   Unioni civili: la scheda delle novità

Unioni civili: riconoscimento di diritti o grande bluff

Le convivenze di fatto: criticità in ordine alla certezza dell’istituto.

Guida pratica per un contratto di convivenza con fac-simile.

Vietato apporre condizioni e scadenze ma il patto si può cambiare.

Così il contratto di convivenza per le coppie di fatto registrate.

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ADDEBITO

Separati in casa.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 10823, 25 maggio 2016

Nel respingere i motivi di ricorso, la Corte ribadisce che la violazione dell’obbligo di fedeltà infirma, alla radice, l’affectio familiae in guisa tale da giustificare, secondo una relazione ordinaria causale, la separazione. Non per questo, tuttavia, tale regolarità causale assurge a presunzione assoluta: occorre, precisa la Corte, l’elemento della prossimità (“post hoc, ergo propter hoc“), di guisa che la presunzione opera quando la richiesta di separazione personale segua, senza cesura temporale, all’accertata violazione del dovere coniugale.

Diversamente, nel caso – infrequente, ma non eccezionale – di accettazione reciproca di un allentamento degli obblighi previsti dalla norma (come nel regime – secondo la definizione invalsa nell’uso – dei “separati in casa”), si prospetta un fatto secondario, accidentale e atipico, che contrasta l’applicabilità della regola generale di causalità: onde, il relativo onere probatorio incumbit ei qui dicit.

Spetta all’autore della violazione dell’obbligo di fedeltà la prova della mancanza del nesso eziologico tra infedeltà e crisi coniugale sotto il profilo che il suo comportamento si sia inserito in una situazione matrimoniale già compromessa e connotata da un reciproco disinteresse, ovvero in una crisi del rapporto matrimoniale già in atto

Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 25 maggio 2016, n. 10823

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ADOZIONI

Adozioni, lo psicologo: il 50% dei genitori adottivi si sente inadeguato.

Se” e “ma” sono particelle grammaticali di frequente usate dalle coppie che si avviano al percorso dell’adozione e dalle famiglie già adottive. Spesso i genitori che accolgono un bambino nella loro vita, infatti, durante e dopo il percorso adottivo, hanno bisogno di essere accompagnati da qualcuno che li rassicuri nell’affrontare ostacoli e paure.

La più grande difficoltà per i genitori adottivi è sentirsi adeguati – spiega Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva- Almeno il 50% di coloro che sono diventati genitori adottivi provano insicurezza rispetto alla propria capacità genitoriale”. Tra le paure più comuni dei genitori adottivi si registra il timore di non essere in grado a sentire il figlio come proprio e la paura di non saper rispondere a domande o comportamenti che dipendono da un passato difficile e spesso sconosciuto del bambino accolto in famiglia.

Un problema diffuso, dunque, che a volte sfocia in una risoluzione sbagliata, perché “molti genitori vorrebbero che il loro figlio – continua Castelbianco fosse il più piccolo possibile, come se questo li potesse aiutare a sentirlo proprio”. Quando invece “i bambini che hanno vissuto un abbandono – aggiunge lo psicoterapeuta – provano sentimenti di rabbia e tristezza e intravedono nella nuova famiglia la loro ancora di salvezza”.

I genitori adottivi hanno una spinta e una generositàche non vengono assolutamente sottolineate – continua lo psicoterapeuta –: eppure rappresentano l’esempio migliore del sentimento genitoriale”.

La soluzione? Un accompagnamento a 360 gradi delle famiglie anche e soprattutto nella fase post-adozione, affinché i genitori vengano sostenuti in questo loro compito e non si sentano abbandonati. Inoltre vengano scongiurate quelle situazioni di rifiuto che a volte, purtroppo, accadono tra genitori e figli adottivi permettendo ai tanti bambini abbandonati di godere del diritto più importante: quello di essere figli.

Wel/Dire         newsletter minori                   25 maggio 2016

www.dire.it/newsletter/minori/anno/2016/maggio/27/?news=07

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Adozioni, Lorenzin: rimuovere ostacoli burocratici ed economici

Una riforma della disciplina del sistema delle adozioni che voglia effettivamente realizzare l’interesse del minore deve rimuove tutti quelli ostacoli, non ultimo quello economico, che impediscono alle coppie d’intraprendere questo percorso”. E’ quanto è emerso dalla relazione di Beatrice Lorenzin, Ministra della Salute, in commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido. “Per quanto riguarda le condizioni dei bambini in stato di abbandono e semiabbandono ospiti nelle comunità – ha spiegato il ministro -, le aree del territorio non sono tutte uguali, sia per l’assistenza sanitaria sia per l’assistenza sociale. E’ quindi necessario un coordinamento tra le Asl e le Regioni e i Comuni per quanto riguarda il circuito di presa in carica del minore”. La “prima necessità – ha detto il ministro – è uniformare l’approccio sul territorio”. Secondo Lorenzin “una delle criticità nel percorso adottivo, che determina gravi ricadute sulla salute psicofisica dei bambini, è rappresentata dalle lungaggini burocratiche che si registrano in Italia sia per giungere alla dichiarazione di adottabilità dei minori che si trovano nelle case famiglia del nostro paese, sia per ottenere, da parte delle coppie, il decreto di idoneità per l’adozione internazionale”.

“Sull’ adozione internazionale – ha evidenziato il ministro della Salute – si stanno registrando grandi difficoltà. Prima di tutto c’è un problema economico: viene a costare alle famiglie tra i 35 mila e i 50 mila euro”. Inoltre “la documentazione sullo stato di salute dei bambini è spesso carente”. Secondo il ministro della Salute servirebbe che la Cai (Commissione Adozioni Internazionali) si adoperasse per la stipula di accordi bilaterali forti e trasparenti. A questo proposito “non posso non segnalare – ha sottolineato Lorenzin – che la Cai, ha svolto in passato un lavoro importante ma non si riunisce da circa due anni in attesa di rinnovo della sua composizione. Per quanto ci riguarda abbiamo mandato da tempo la designazione del nostro nuovo rappresentante e speriamo che presto possa riprendere la propria attività. Sono convinta – ha detto Lorenzin – che la recente delega al ministro Boschi sulle adozioni sarà un elemento che porterà nuova vitalità al tema”. Quanto al sostegno alle coppie che intendono adottare, Lorenzin ha sottolineato che “è auspicabile una rafforzamento della rete dei consultori per offrire il maggior apporto possibile alle famiglie adottive in rete con gli altri servizi del territorio come le scuole e le Asl”.

            Chantal Iannuzzi       il Velino 23 maggio 2016

                www.ilvelino.it/it/article/2016/05/23/adozioni-lorenzin-rimuovere-ostacoli-burocratici-ed-economici/bb785965-4541-4d9f-b4cf-96906b1cbe24

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AMORIS LAETITIA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

 

La tensione tra dogmatica giuridica e dogmatica teologica.

Nel percorso di approfondimento del testo dell’esortazione apostolica Amoris Lætitia ho letto oggi con grande interesse il contributo di Massimo Nardello (Amoris Lætitia: osservazioni teologiche, su www.settimananews.it/chiesa/amoris-laetitia-osservazioni-teologiche) come quello di Stefano Ottani www.settimananews.it/famiglia/al-il-compito-affidato-ai-presbiteri.

Questi interventi, pacati e meditati, chiariscono molto opportunamente una questione decisiva per comprendere il testo e il suo approccio all’amore, al matrimonio e alla famiglia.

Vorrei procedere ad una esame del nucleo di questi testi stimolanti, per coglierne alcune conseguenze non solo a livello teologico, ma a livello del rapporto tra teologia e diritto. In particolare vorrei mettere in luce come la “teologia tradizionale” – con cui si intende qui soltanto la risposta che l’ultimo secolo ha dato alle questioni nuove sorte nel XIX secolo – abbia attestato la non facile elaborazione di una “dogmatica teologica” che si è distinta progressivamente da una “dogmatica giuridica”, che restava (e spesso resta ancor oggi) nello splendido isolamento di una autoreferenzialità senza vera responsabilità pastorale e con un minimo riferimento al reale. In questo punto delicato oggi si colloca anche la recezione di AL. Che a breve e medio termine avrà a che fare sicuramente con il discernimento di vescovi e presbiteri. Ma che a lungo termine dovrà elaborare una “nozione oggettiva di matrimonio” diversa da quella elaborata tra il 1917 e il 1983. Ma procediamo per ordine.

a) «Ciò che non muore e ciò che può morire». Dante ci offre questa bella immagine del creato. La differenza tra questi due “poli” dell’esperienza umana e cristiana pone anche alla tradizione cattolica una questione decisiva: in quale relazione collochiamo la sostanza e gli accidenti, l’essere e il divenire, la presenza e l’assenza della tradizione matrimoniale? Vi è, nella tradizione alla quale apparteniamo, una “sostanza della antica dottrina” che può avere “formulazioni diverse del proprio rivestimento”? In altre parole: in che cosa siamo “vincolati” e in che cosa, invece, siamo liberi? Le analisi di Nardello e di Ottani offrono una bella ricostruzione del “discernimento tradizionale” – molto più semplice e facile – e della “evoluzione attuale”. Ma segnalano anche, con lucidità, una questione di fondo, ossia l’esigenza di ripensare non solo la correlazione tra oggettivo e soggettivo, ma la stessa riformulazione oggettiva di ciò che è “canonico”. Perché l’esigenza di salvaguardare la “santità della Chiesa” deve essere pensata come delicata correlazione tra parola di Dio, dottrina e disciplina, senza alcuna possibilità di affidare solo al diritto canonico la prerogativa di definire questo rapporto in modo assoluto. Anzi, proprio a questo livello mi sembra di poter notare una “vistosa discrepanza” tra la “dogmatica giuridica” (statica) e la “dogmatica teologica” (dinamica), che rende assai difficile non solo la collaborazione, ma anche un dialogo significativo tra queste diverse prospettive dogmatiche.

b) La resistenza del “modello Gasparri”: istituzione divina e consenso umano. Una cosa deve essere chiara e mi sembra urgente sottolineare: per integrare davvero libertà e autorità del matrimonio, oggi e domani dovremo saper formulare diversamente il “profilo oggettivo” del sacramento. La soluzione del card. Pietro Gasparri, che ha ormai 100 anni, risulta oggi del tutto inadeguata. Quello che oggi sembra il primo risultato raggiunto da AL – e che già modifica profondamente le prospettive pastorali ed ecclesiali – è l’integrazione di un “profilo soggettivo” a correzione del “profilo oggettivo”, che resta però necessariamente quasi inalterato, almeno per ora. Ma, sulla base di questa “mediazione di transizione”, potremo e dovremo avviarci ad una “ridefinizione della oggettività del sacramento”. Solo questa ampia e profonda riforma del “diritto matrimoniale sostanziale” (ossia non solo di quello procedurale) potrà porre rimedio alla tensione che si creerà, da domani, tra soluzione pastorale (secondo il primato del tempo sullo spazio) e stato giuridico (che resta definito per ora secondo il primato dello spazio sul tempo).

Per comprendere meglio questo passaggio, qui possiamo rifarci alle analisi acute con cui un grande teologo tedesco, P. Hünermann, ha messo in chiaro il pesante condizionamento apologetico di una “dogmatica giuridica” di carattere antimoderno e difensivo. Riferendosi alla “seconda tappa” della costruzione novecentesca del “magistero matrimoniale”, Hünermann scrive: “Il principio ermeneutico in base al quale nella Casti connubii (1930) s’interpretano i testi sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento recita: Dio ha creato il matrimonio come creatore dell’uomo e della donna e al tempo stesso lo ha pienamente regolato mediante leggi divine, annunciate da Dio attraverso la natura o Gesù Cristo. Ne consegue un fondamentalismo teologico, plasmato da un pensiero giuridico, che presenta i fondamenti biblici in un modo grossolanamente semplificato.” (P. Huenermann, Una discussione lunga 100 anni, “Il Regno” 8/2015, 553-560, qui 556).

Questa operazione di “riduzione” della complessità del matrimonio è tipica di quello stile teologico apologetico e appare del tutto legata alla vicenda del XIX e XX secolo: mentre il medioevo poteva riconoscere che la «humana generatio ordinatur ad multa» (ossia si orienta in modo diverso alla natura, alla città e alla Chiesa), la logica di fine XIX e inizio XX secolo è costretta a polarizzare tutto su Dio e sull’uomo, perde le mediazioni. Dio istituisce compiutamente il sacramento in ogni suo aspetto, salvo richiedere il “consenso originario” di uomo e donna. Ed è questa polarizzazione a sfigurare, pesantemente, tanto la teologia quanto la antropologia. Dio e l’uomo ne escono quasi irriconoscibili!

c) Una questione decisiva: il ruolo della “forma oggettiva”. Questa “dogmatica giuridica” ha largamente influenzato la dogmatica teologica del XX secolo. Ma mentre i giuristi spesso si sono accontentati di “gestire i margini” delle questioni, i dogmatici hanno presto riconosciuto la debolezza sistematica di questa soluzione troppo drastica e quindi provvisoria. Per questo oggi, dopo AL, dobbiamo riconoscere di essere all’“inizio di un inizio”: oltre alla riforma della procedura di accertamento della nullità del vincolo – entrata in vigore dall’8 dicembre 2015 – e oltre alla riscoperta del “discernimento in foro interno”, bene impostata da AL, alla Chiesa occorre la riforma dei principi giuridici del foro esterno, ossia un nuovo diritto sostanziale sul matrimonio. Questo comporta, inevitabilmente, una ridefinizione del rapporto tra “oggettività del peccato” e “soggetto non imputabile”. Questa differenza non riguarda soltanto il Vangelo, ma anche la società. Fa bene, infatti, Massimo Nardello, nel citato articolo, a ricordare che accanto alla “accoglienza” dei soggetti, occorre preservare “oggettivamente” la santità della Chiesa. Ciò che, tuttavia, dovrebbe essere discusso è se le “seconde nozze” siano semplicemente una “oggettività negativa” oppure se vi sia una rilettura sociale e anche ecclesiale che possa modificarne la “necessaria correlazione all’adulterio”. Ciò che oggi deve essere teoricamente elaborato è precisamente la “differenza tra seconde nozze e adulterio”. Questo non è anzitutto frutto di una risposta ecclesiale, ma sorge dalla sana provocazione di “nuove forme di vita”, che la società aperta ha faticosamente elaborato e alle quali la Chiesa deve riservare un supplemento di riflessione e di comprensione. Non si può certo garantire la “santità della Chiesa” mediante una lettura fondamentalista della Scrittura e della tradizione! Il fondamentalismo produce sempre “santità equivoche”. La serietà del “vincolo”, infatti, non impedisce di variare la forma delle sanzioni rispetto al suo fallimento. Una rigidità di rapporto tra “valore” e “sanzione” è tipica di una lettura pre-moderna della legge e del suo valore pedagogico.

Se questo fosse il caso, si rischierebbe di identificare la santità della Chiesa con il principio dello “scandalo”, con esiti alquanto paradossali. Non è detto, infatti, che nella società e nella Chiesa di oggi, sia più scandaloso chi dopo la crisi del proprio matrimonio si sposa per la seconda volta, rispetto a chi, restando formalmente legato alla prima ed unica moglie, vive ripetute o strutturali esperienze di vita parallela. Il primato della seconda “soluzione” rispetto alla prima corrisponde ad una lettura della società e della dottrina di natura diversa, che solo un’approssimazione troppo generica alle questioni può rischiare di assolutizzare. Le forme sociali dello scandalo fanno parte della “esperienza ecclesiale di comprensione della parola di Dio”. E il riconoscimento civile delle seconde nozze non può essere liquidato ecclesialmente come uno “scandalo”. Anzi, proprio questa riduzione dovrebbe risultare particolarmente scandalosa!

d) Premesse teologiche del lavoro giuridico. Perché questo “laborioso ripensamento” possa avere luogo, dobbiamo porre una serie di condizioni obiettive. Anzitutto dobbiamo riconoscere che il canonista interpreta le norme secondo una “dogmatica” diversa da quella teologica e pastorale. La dogmatica giuridica è rimasta ferma ai primi del ’900, paralizzata dalla “sindrome da accerchiamento” con cui era stata concepita dal fine giurista Gasparri. Avendo spostato tutto il “peso” del matrimonio sull’istituzione divina e sul consenso originario dei coniugi, e avendo così immediatamente identificato contratto e sacramento, tale ricostruzione della tradizione aveva realizzato insieme un grande vantaggio e molti svantaggi. Il vantaggio era costituito dall’essere totalmente “autoreferenziale” – e dunque “non falsificabile” – e con un grande potenziale “falsificante” verso ogni variazione esterna del “sistema”. Se Dio ha stabilito tutte le caratteristiche essenziali del matrimonio, all’uomo e alla donna non resta altro che “acquisire” nel consenso originario ciò che era stato predisposto previamente da parte di Dio. Ora, come è evidente, questa dogmatica giuridico-teologica di carattere accentuatamente apologetico predisponeva una rigidità disciplinare, che poteva essere resa “duttile” soltanto lavorando sull’unico elemento “non predeterminato”, ossia sul “consenso iniziale”. L’unico livello di “discernimento” poteva essere soltanto quello. E così è stato, in effetti: ogni “discernimento”, anche oggi, tende a concentrarsi “retrospettivamente” sul consenso iniziale, identificando “vizi” e “capi di nullità” necessariamente ed esclusivamente “ab ovo”. Ciò ha reso la Chiesa totalmente incapace di giudicare quanto accade, da almeno 50 anni, nella vita dei soggetti, non “a monte”, ma “a valle” del loro matrimonio. L’impostazione difensiva ha finito per difendersi non tanto dal nemico “stato moderno”, quanto dalla stessa realtà vitale dei soggetti implicati.

e) Prospettive, non solo retrospettive. Una “prospettiva canonica” – e non solo una “retrospettiva” incline alla retrodatazione di ogni questione – sarà possibile nel diritto canonico solo nella misura in cui il modello giuridico con cui è pensato il matrimonio verrà aperto alla “storia dei soggetti” e alla loro “libera coscienza”. Ciò che AL fa, profeticamente, nel discernimento “a posteriori”, dovrà diventare criterio di ispirazione istituzionale e di struttura legale. Un uso “rozzo” del termine oggettivo è commisurato all’inesperienza categoriale con cui si trattano uomini e donne, come se fossero privi di libera coscienza e di storia di vita. Queste grandi acquisizioni della “storia” e della “coscienza”, che la Chiesa cattolica ha maturato ufficialmente solo dopo la metà del XX secolo, stanno cambiando profondamente le categorie che all’inizio di quel secolo avevano strutturato la “dogmatica giuridica” del sacramento del matrimonio. Essa oggi appare viziata da fondamentalismo biblico e da un’apologetica sistematica incompatibile non solo con l’esperienza di vita, ma con un vero annuncio del Vangelo. Non sono le condizioni di vita di oggi, ma è il Vangelo stesso a non sopportare più la dogmatica giuridica con cui il matrimonio è raffigurato, interpretato e tradotto in disciplina. Ogni traduzione efficace della tradizione dovrà minuziosamente riesaminare tutta questa materia e predisporre soluzioni ad ogni singola questione.

Per concludere, potremmo dire: non si tratta semplicemente di “moderare” soggettivamente una indiscussa evidenza “oggettiva”, bensì occorre ripensare accuratamente la formulazione stessa di questo “profilo oggettivo”, che richiede un profondo aggiornamento della sapienza giuridica della Chiesa, che dovrà lasciarsi illuminare non solo da una più fedele ermeneutica biblica e da un dialogo più fecondo con la dogmatica teologica, ma anche da un vero rapporto con l’esperienza di uomini e donne. Oggi essa appare attardata di almeno un secolo rispetto alle questioni che ha la pretesa di risolvere, senza saper onorare la complessità che le caratterizza e imponendo criteri di discernimento che la alterano e la mistificano. Le profetiche parole di papa Francesco dicono con semplicità tutta la urgenza di questa conversione, che riguarda in primis il nostro linguaggio canonico: “dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica” (AL 36).

Di questa necessaria autocritica farà parte, nel nostro futuro, una accurata riforma del diritto matrimoniale sostanziale.

            Andrea Grillo                        come se non                23 maggio 2016

www.cittadellaeditrice.com/munera/alla-scoperta-di-amoris-laetitia-13-la-tensione-tra-dogmatica-giuridica-e-dogmatica-teologica

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ASSEGNO DIVORZILE

Divorzio: assegno alla ex anche se lei lavora e lui no

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 10099, 17maggio 2016

Lei lavora, anche se con occupazioni precarie. Lui, invece, è disoccupato. Ma nonostante tutto dovrà versarle l’assegno divorzile. A deciderlo è la Cassazione rigettando il ricorso di un uomo avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva disposto il versamento a favore della ex moglie di un assegno mensile di 310 euro. L’uomo non ci sta e si rivolge al Palazzaccio cadendo però dalla padella nella brace. Per gli Ermellini, infatti, non regge la tesi dallo stesso sostenuta che avendo cessato ogni attività lavorativa, le sue condizioni economiche erano state modificate in senso peggiorativo. E ad inchiodarlo, sono i possedimenti emersi dalle dichiarazioni dei redditi che gli procurano anche rendite locatizie consentendogli un “adeguato sostentamento”. Per di più l’uomo ha notevole capacità di reddito, fondata anche sulla competenza maturata come “mastro muratore” che gli ha consentito nel corso degli anni di investire i suoi guadagni in immobili e terreni.

            Per contro, invece, la moglie dopo la separazione si è adattata “a svolgere lavori precari e poco remunerativi” come quello di bracciante agricola. Evidente dunque il divario economico tra i due ex coniugi. L’assegno è confermato.

Martina Crisafi          Studio Cataldi                        19 maggio 2016                                 ordinanza

www.studiocataldi.it/articoli/22125-divorzio-assegno-alla-ex-anche-se-lavora-e-lui-no.asp

 

L’assegno divorzile non è un dogma

Tribunale Napoli, prima Sezione civile, sentenza n. 3791, 23 marzo 2016

Quando tra i coniugi interviene una separazione consensuale, in sede di successivo divorzio, il giudice non deve limitarsi ad una mera trasposizione delle condizioni di cui alla separazione, ma è chiamato a svolgere un’indagine finalizzata a stabilire la persistente legittimità di quelle condizioni, per poi decidere se confermarle o modificarle. E’ evidente che tale indagine non è automatica, ma compulsata dalla parte interessata ad ottenere la modifica delle condizioni che afferiscono la sfera economica oppure la sfera dell’affido dei figli minori o entrambe le sfere. Ecco che nell’ampio quadro normativo e giurisprudenziale che caratterizza le pungenti questioni divorzili, merita di essere segnalata la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli con cui, all’indomani di una separazione consensuale tra coniugi – sebbene affidata ad un unico legale – il Collegio ha modificato sostanzialmente i provvedimenti circa l’affidamento del figlio minore ed il mantenimento economico.

            Dopo aver introdotto l’affido condiviso in favore di entrambi i genitori ed aver fissato un’accurata regolamentazione del diritto di visita con previsione del pernotto a week-end alterni e le vacanze estive, nonostante l’iniziale opposizione della madre, la prima sezione del Tribunale di Napoli, modificando i provvedimenti economici di cui alla pregressa consensuale, ha ridefinito la misura della contribuzione da parte del padre al mantenimento del figlio minore ed ha rigettato totalmente la richiesta circa l’assegno divorzile in favore di lei. Nel caso di specie, il ricorrente, in ragione degli imprevedibili problemi economici conseguenti ad un licenziamento subito per crisi aziendale, seppur diplomato quarantenne, dunque astrattamente dotato di aspettative medie circa un reinserimento nel mondo del lavoro, oggi difficile a causa della crisi economica generale, ha chiesto ed ottenuto la revoca dell’assegno di mantenimento in favore della ex moglie ed una riduzione – proporzionale al peggiorato stato economico – del contributo al mantenimento del figlio minore. La sentenza de qua si inserisce meritatamente nell’attuale tendenza a far venir meno l’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, quando costei lavori, dunque sia economicamente indipendente, e conviva stabilmente con altra persona, dunque si sia creata un nuovo nucleo familiare, convivenza che non deve necessariamente scaturire da un’apposita indagine anagrafica. Molto spesso, infatti, il convivente volutamente non cambia la propria residenza, allo scopo di non rendere pubblica la intervenuta convivenza.

E’ sufficiente dimostrare che la nuova famiglia di fatto sia stabile e duratura per ottenere la revoca dell’assegno divorzile proprio in quanto “la disgregazione della famiglia comporta un impoverimento per il coniuge che resta solo mentre una nuova unità familiare determina un arricchimento, come ad esempio per le spese dei costi fissi come fitto, utenze, ecc” (cfr. ordinanza del 26.11.2010 emessa dal Tribunale di Varese). Anche la Cassazione si è espressa varie volte in tal senso “la convivenza more uxorio stabile e duratura, tale da costituire una vera e propria famiglia di fatto, esclude la permanenza dell’assegno di divorzio indipendentemente dalla posizione economica delle parti” (cfr. tra le altre ord. Cass., 6a sez. Civ., n. 17811/2015).

Avv. Katia Martini – Studio Cataldi    28 maggio 2016                     sentenza

www.studiocataldi.it/articoli/22243-tribunale-napoli-l-assegno-divorzile-non-e-un-dogma.asp

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CHIESA CATTOLICA

Chi ha paura dei diaconi?

“Caso serio” nell’esercizio della autorità e “sintomo” di paralisi nel magistero ecclesiale

Come ho già tentato di chiarire in diversi post di questo blog, dedicati alla comprensione della “mens” del pontificato di papa Francesco, mi pare che le recenti “aperture papali” sulla esigenza di un approfondimento sul tema del “diaconato femminile”, mettano in luce una “differenza di approccio al magistero” che potrebbe sfuggire alla comune considerazione e sulla quale vorrei richiamare l’attenzione. In particolare vorrei sussumere questo “caso” in una casistica più ampia, per la quale il magistero degli ultimi 25 anni, progressivamente, ha assunto un atteggiamento sempre più difensivo, arroccato e diffidente verso ogni possibile novità nell’esercizio della autorità ecclesiale. Così, attraverso un duplice comportamento – che potrebbe apparire quasi contraddittorio – ossia mediante una “inflazione” e insieme una “autonegazione” del magistero, l’esercizio della autorità ha teso a confermare semplicemente se stesso, con stile apologetico e comprensione ottocentesca, progressivamente riducendo l’impatto delle novità del Concilio Vaticano II.

            Questo è accaduto sui temi della morale sessuale, della rilevanza della coscienza, del ministro della unzione dei malati, del sacerdozio femminile e…del diaconato.

            Come immunizzarsi dal diaconato. Analizziamo rapidamente gli sviluppi degli ulti 20 anni:

  1. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II fece propria una decisione assunta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede – il cui Prefetto era J. Ratzinger – mediante la quale corresse il n. 1591 del CCC, rileggendolo restrittivamente, e soprattutto creando una “categoria ex novo” che permetteva una drastica separazione, all’interno dell’ordine sacro, tra presbiterato e episcopato, da una parte, e diaconato, dall’altra. Il prezzo pagato per questa “operazione difensiva” era la incrinatura dell’unità del ministero ordinato, per difendere episcopato e presbiterato dalla novità diaconale.
  2. Nel 2009, recependo una indicazione di Giovanni Paolo II, papa Benedetto, continuando la medesima traiettoria che aveva suggerito come Prefetto 11 anni prima, modificò anche il CjC, ai canoni 1008-1009, integrando il testo in analogia con il catechismo e riducendo drasticamente la comprensione del “diaconato” nella Chiesa latina, escludendone la rappresentanza nelle azioni in nome di Cristo capo, e offrendo una lettura riduttiva delle competenza in rapporto alla liturgia, alla parola e alla carità.

La figura del diacono, che emerge da questa rilettura, è profondamente ridimensionata e separata diremmo per principio dall’esercizio effettivo della autorità ecclesiale. Ma questa operazione, di fatto, mira ad una regresso alla condizione di “gestione della autorità” tipica della Chiesa pre-conciliare. Nella quale l’esercizio della autorità ecclesiale non veniva alterato da “nuove competenze” in capo a soggetti che, pur appartenendo al “clero”, possono oggi essere stabilmente uxorati e, domani, esse stesse “uxores”!

            Un ripensamento di fondo. Ora, il dibattito apertosi nelle scorse settimane, intorno alla possibilità di studiare una ammissione delle donne al grado del diaconato, dovrebbe suscitare una riflessione almeno su tre livelli della questione, determinando una reazione a questa “piega nostalgica” assunta dal magistero ecclesiale negli ultimi 20 anni:

  1. La comprensione sistematica del ministero diaconale. La soluzione catechistica e canonica predisposta negli ultimi 20 anni potrebbe vantare la pretesa indiscutibile tipica di una “teologia d’autorità”. Se il catechismo e il codice dicono una cosa, chi potrà dire qualcosa di diverso? Ma catechismo e codice non sono al vertice della autorità. La ragione e la fede hanno ancora qualcosa da dire a tale proposito. Ad esempio, possono osservare che un “ministero della parola” – riconosciuto al diacono – difficilmente può essere tenuto al riparo di una “azione in persona Christi (capitis)”. Lo stesso vale anche per la liturgia e per la carità. Chi presiede al culto e chi anima la carità esercita anche un ruolo autorevole e un magistero proprio nell’essere radicalmente servo. Essere “Cristo capo” e “Cristo servo” non possono non suonare, anche e necessariamente, come sinonimi. Aver tentato non di distinguere, ma di separare definitivamente la conformazione a Cristo capo da quella a Cristo servo è una “svista dogmatica” molto pesante, e alla quale dovremo rimediare. Catechismo e codice sono qui sprovvisti di una base sistematica all’altezza della tradizione. La differenza classica tra “sacerdotium” e “ministerium” sopporta molte traduzioni dottrinali, disciplinari e canoniche diverse, di cui quella oggi vigente è sicuramente tra le meno felici.
  2. Ordine e matrimonio in simbiosi. Un secondo punto importante, che deriva dalle nuove acquisizioni conciliari, consiste nell’aver “mescolato le carte” nel modo di pensare il rapporto tra ordine e matrimonio. Avevamo una rappresentazione dell’autorità riferita ai celibi e un immaginario della obbedienza riferita alle famiglie. Oggi riconosciamo apertamente una “autorità familiare”, ma facciamo ancora fatica a pensare la “autorità ecclesiale” nel contesto di comunione di una vita familiare. Le famiglie dei diaconi uxorati sono un caso classico di “nuova realtà”, complessa e ricca. Ovviamente, purché si possa ancora pensare che un “diacono uxorato” abbia ancora a che fare con l’esercizio della autorità. La ricostruzione clericale che dal 1998 ha modificato prima il CCC e poi il CjC va esattamente nella direzione opposta. Sembra proprio voler escludere che questa “novità” possano essere interpretate come “autorevoli”.
  3. Genus diaconale et genus foeminile. Ciò che abbiamo detto viene ulteriormente arricchito dalla ipotesi – sottoposta come eventualità da studiare – di un accesso al diaconato riconosciuto anche alle battezzate. Questo terzo livello della questione, che simbolicamente appare assai rilevante, suppone tuttavia un adeguato lavoro sui primi due livelli, che accompagni e prepari il terzo. Chi mai sarebbe veramente interessato alla promozione della donna al riconoscimento ufficiale di “sacrestana di serie B”? Una discussione seria sul “diaconato femminile” dovrebbe anzitutto rimuovere gli ostacoli ad una comprensione sistematica e ad una lettura “anche non celibataria” del diaconato tout-court.

Deprecabile confusione o meravigliosa complicatezza? E’ utile ricordare che il MP del 2009, che ha modificato in senso restrittivo la normativa del CJC è motivato dal “bisogno di evitare la confusione”. E’ significativo che la “chiarificazione” sia stata concepita e “assicurata” da una rigida sterzata verso il passato. La confusione sembra poter essere evitata solo “tornando indietro”. Papa Francesco, sembra muoversi secondo un altro avviso. Non si spaventa né della discussione, né della “complicatezza”. E’ la realtà che si presenta con una “complicatezza” che, nelle sue stesse parole, appare non preoccupante o “vitanda”, ma “meravigliosa”!

            Un esercizio della autorità nella Chiesa, che non sia contaminato né dalla esperienza matrimoniale (del diaconato permanente uxorato già possibile) né dalla differenza sessuale (di diaconi donne possibili in futuro) non merita proprio di essere concepito solo a condizione di essere esautorato. Il titolo del Motu Proprio che realizzava nel 2009 questo obiettivo arretramento si intitolava Omnium in mentem. Già allora, ma ancora più oggi, possiamo riconoscere nel titolo del documento quella tipica sovrabbondanza di retorica ecclesiastica, che attribuisce temerariamente a tutti la “intenzione” e il “timore” di pochissimi. E che confonde la autoreferenzialità ecclesiale con la fedeltà alla tradizione. In una Chiesa in cui l’esercizio della “vera autorità” sia mantenuto soltanto nel piccolo e corto circuito della esperienza di “maschi celibi”, nessuna “amoris laetitia” può essere presa veramente sul serio. La riforma del CCC e del CJC degli ultimi 20 anni è la vera causa della indifferenza con cui diversi ambienti clericali snobbano Amoris Laetitia. Questa indifferenza deve essere superata, perché è il segno di una grave paura ecclesiale e di una paralisi nell’esercizio della autorità. Riconoscere la autorità delle famiglie e delle donne è l’unica via per restare fedeli alla tradizione, rinunciando ad ogni ipotesi di trasformare la Chiesa in un museo a numero chiuso.

            Un discernimento di nuovo possibile. Nel documento della Commissione Teologica Internazionale del 2002 si chiudeva la lunga e profonda trattazione dedicata al “diaconato” con una valutazione della ordinazione delle donne al diaconato che così suonava: “spetterà al ministero di discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità sulla questione”. I provvedimenti che hanno preceduto e seguito questa affermazione hanno teso, piuttosto, ad “escludere ogni discernimento”, superandolo mediante un ridimensionamento “originario” della comprensione del diaconato, quasi espungendolo dallo stesso “ordine sacro”.

            Credo che non sia casuale che papa Francesco, che ha appena reintrodotto nel sacramento del matrimonio una “logica di discernimento” per affrontare le questioni della vita familiare, possa ricorrere domani alla stessa logica per arricchire la esperienza ministeriale della Chiesa cattolica. Il discernimento, però, non sarà semplicemente una “strategia di inclusione”, ma anche una mediazione preziosa e paziente per valorizzare la “differenza” di un ministero ordinato non solo “attribuito ad una donna”, ma che “può essere caratterizzato da uomini e donne sposati” e che arricchisce la esperienza comune del ministero episcopale e presbiterale. Abbiamo bisogno di discernimento, in altri termini, per pensare sistematicamente il “terzo grado” del ministero, per renderlo compatibile con il matrimonio e per riferirlo ad un soggetto femminile. Dopo un magistero che ha preferito superare ogni possibile discernimento esercitando l’autorità anche contro ogni evidenza – barricandosi catechisticamente e canonisticamente nell’unica evidenza sopportabile, ossia quella autoreferenziale – una stagione di esercizio dell’autorità nel discernimento può permettere alla Chiesa di superare quella rigidità che spesso nasce dalla paura e dal pregiudizio.

            Famiglie e donne saranno la cura di questa malattia del diaconato che non è mortale, anche se è maschile.

Andrea Grillo            blog: Come se non                 28 maggio 2016 nel

www.cittadellaeditrice.com/munera/chi-ha-paura-dei-diaconi-caso-serio-nellesercizio-della-autorita-e-sintomo-di-paralisi-nel-magistero-ecclesiale

 

La Chiesa e la logica del “ma anche”.

Noi cristiani lo sappiamo, o dovremmo saperlo: la nostra fede è all’insegna dell’et et, non dell’aut aut. Non siamo esclusivisti. Dio è uno e trino. È Padre e Figlio e Spirito Santo. Gesù è Dio e uomo, vero Dio e vero uomo. Per il cristiano, l’uomo è carne e spirito, corpo e anima. Al cristiano piace integrare, includere, non ergere barriere. Con l’incarnazione Dio si è fatto uomo. La Chiesa stessa vive all’insegna dell’et et. È Chiesa di preghiera e di azione, di grandi asceti e grandi lavoratori, di contemplazione e di missione. Ora et labora, non ora aut labora. La Chiesa ha i predicatori e i confessori, i monaci e le monache di clausura e i preti di strada. La Chiesa accoglie tutti: poveri e ricchi, colti e incolti, giovani e vecchi.

            Da qualche tempo però sembra di notare che alla logica dell’et et si stia sostituendo nella nostra Chiesa una logica diversa: quella del non solum, sed etiam, cioè del «non solo, ma anche». Potrebbe sembrare che, tutto sommato, non vi siano differenze, ma non è così.

            Pensiamo ad Amoris laetitia, nella quale la logica del «ma anche» si trova un po’ ovunque. Dando vita spesso ad affermazioni singolari. Prendiamo per esempio il punto 308, dove si dice: «I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti». Dobbiamo dedurne che il modo più efficace per essere compassionevoli non è esattamente quello di proporre l’ideale pieno del Vangelo? Quanto poi alla vexata quaestio circa la comunione ai divorziati risposati, qual è la conclusione? Dopo aver letto e riletto il testo più e più volte, la risposta è: comunione sì, ma anche no. Oppure: comunione no, ma anche sì. Nel documento, in effetti, entrambe le conclusioni sono legittimate. A ciò conduce la logica del caso per caso, a sua volta figlia dell’etica della situazione. Mi devo considerare un peccatore? Sì, ma anche no. No, ma anche sì. Dipende.

            I sintomi della logica del «ma anche» emergono qua e là, in occasioni diverse, ma sono sempre più frequenti. Vado in ordine sparso.

Primo esempio. Quando papa Francesco si è recato in visita alla chiesa luterana di Roma e gli è stato chiesto se un cattolico e un luterano possono partecipare alla comunione, Bergoglio, attraverso una lunga risposta a braccio, ha detto in sostanza: no, ma anche sì, bisogna vedere caso per caso, perché «è un problema a cui ognuno deve rispondere».

            Secondo esempio. Quando, nella sala stampa vaticana, il cardinale Schönborn, commentando Amoris laetitia, ha detto che il divieto di fare la comunione, per i divorziati risposati, non è stato revocato, ma, attraverso la via caritatis indicata da Francesco, «si può dare anche l’aiuto dei sacramenti in certi casi», in pratica ha detto: no, ma anche sì; sì, ma anche no.

            Terzo esempio. Quando Francesco, prendendo parte a un video sul dialogo interreligioso (nel quale appaiono un musulmano, un buddista, un ebreo e un prete cattolico) ha detto che le persone «trovano Dio in modi diversi» e «in questa moltitudine c’è una sola certezza per noi: siamo tutti figli di Dio», chi eventualmente volesse avere un’altra certezza di un certo spessore (qual è la vera fede?) potrebbe arrivare alla conclusione che è la nostra, ma anche quella degli altri.

            Quarto esempio. Quando eminenti esponenti della curia romana ci dicono che la Chiesa, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, ha sì un unico papa legittimo, però ha in effetti due successori di Pietro, entrambi viventi ed entrambi pienamente papi, si vede anche lì all’opera la logica del «ma anche»: abbiamo un papa, ma anche due. E se qualcuno, inopportunamente, sostenesse che non possono essere entrambi pienamente papi, la risposta sarebbe assicurata: perché no? Lo è l’uno, ma anche l’altro.

            Mi fermo con gli esempi e vengo al dunque. Attenzione: i cattolici sono pluralisti e non amano l’uniformità. Fin dall’inizio le comunità cristiane nascono all’insegna dell’inculturazione della fede e dunque sono multiformi. Tanto è vero che ancora oggi abbiamo riti diversi. La Chiesa si incultura in Occidente e in Oriente, al Nord e al Sud, in ogni contesto. In quanto cattolica, è opportuno ripeterlo, si rivolge a tutti e tutti accoglie: non seleziona a priori su base di censo o di conoscenza. Altrimenti sarebbe settaria, non cattolica. E fin qui siamo in pieno nella logica dell’et et.

            La logica del «ma anche» però è un’altra cosa. È la pretesa di tenere uniti gli opposti o comunque qualcosa che insieme non ci può stare, o ci può stare solo a prezzo di forzature. C’è una differenza profonda tra la logica dell’et et e quella del «ma anche». Se l’et et unisce, il «ma anche» più che altro giustifica. Se l’et et rispetta la complessità e la riporta a unità, il «ma anche» cerca di superare la complessità attraverso qualche scorciatoia logica ed etica. Laddove l’et et unisce, il «ma anche» banalizza. Mentre l’et et punta alla verità, il «ma anche» si mette al servizio dell’utilità.

            Qualcuno dirà: scusa tanto, ma che c’è poi di male nella Chiesa del «ma anche»? È così bello poter dire sì ma anche no, no ma anche sì. È umano. Noi siamo creature complesse, dunque perché andare alla ricerca di impossibili risposte nette e univoche? È tanto bello e buono non giudicare e prendere la realtà per quella che è, cioè complicata e contraddittoria. Perché dobbiamo sottoporre le persone a dure prove? Non è meglio smussare gli angoli e giustificare?

            Ecco che cosa c’è di male: che la Chiesa del «ma anche» sposa esattamente la logica del mondo, non quella del Vangelo di Gesù. E infatti riceve gli applausi del mondo. Ma noi sappiamo che questo non è un buon segno. Il cristiano, quando è coerente, è perseguitato dal mondo, non applaudito.

            D’altra parte, mentre suscita gli entusiasmi degli atei e dei laicisti, che vi trovano conferme e giustificazioni, la logica del «ma anche» lascia perplessi coloro che sono in cerca della fede. Chi cerca la Verità con la V maiuscola non vuole scorciatoie e parole ambivalenti. Ha desiderio di indicazioni di senso.

            Lo scivolamento dalla logica dell’et et a quella del non solum, sed etiam avviene ogni giorno, in modo magari impercettibile, ma inesorabile. E coinvolge persone degnissime e buonissime, convinte in cuor loro di essere al servizio del Vangelo. Più che colpevoli, sono vittime. Perché la logica del «ma anche» è nell’aria che respiriamo.

            Essere uomini e donne dell’et et significa non essere ambigui e non lasciare spazio alla confusione.  La logica dell’et et sfocia nell’inclusione, non nella confusione. Gesù, campione dell’et et e non dell’aut aut, ha raccomandato che il nostro parlare sia «sì sì, no no». La confusione e la doppiezza sono specialità del diavolo, che in questo modo persegue il suo obiettivo: separare.

            Personalmente, proprio perché so che, come tutti, respiro ogni giorno aria impregnata dalla logica del «ma anche», per cercare di stare in guardia uso un semplice espediente: ogni volta che in un’argomentazione trovo sintomi di «ma anche», lascio che un campanello squilli nella testa e nel cuore. Lì, mi dico, c’è qualcosa che non va. Lì il soggettivismo è in agguato. E quando poi il soggettivismo, come il lupo della favola, si traveste e indossa l’abito della coscienza morale e, per giustificarsi, dice con voce suadente «ma io, in coscienza…», il campanello suona ancora più forte. E mi viene in mente il cardinale Newman, per il quale la coscienza non era la scorciatoia verso l’etica della situazione, ma l’originario vicario di Cristo.

            Sentiamo in proposito le cristalline parole di Benedetto XVI (20 dicembre 2010): «Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che, in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza — religione e morale — una verità, “la” verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza, un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui».

            Il che spiega perché, nella famosa Lettera al Duca di Norfolk, Newman scrisse che, nel caso avesse dovuto portare la religione in un brindisi, certamente avrebbe brindato per il papa, ma prima per la coscienza e poi per il papa. Ovvero: prima per la ricerca della verità, poi per l’autorità.

            Ecco: coscienza è capacità di verità. Quando la coscienza del cristiano abbandona il sentiero stretto e impervio di questa ricerca e si incammina lungo i boulevard del «ma anche» (illuminati dai mass media e gratificanti, ma senza uscita), ho l’impressione che rischi fortemente di perdersi. E di finire dritta dritta nella tana del lupo.

Aldo Maria Valli                   28 maggio 2016

www.aldomariavalli.it/2016/05/28/la-chiesa-e-la-logica-del-ma-anche

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DALLA NAVATA

SS. Corpo e Sangue di Cristo – anno C -29 maggio 2016.

Genesi               14, 18 «In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici.»

Salmo                          110, 04 «Il Signore ha giurato e non si pente: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek.»

1 Corinzi          11, 26 «Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.»

Luca                 09, 11 «In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.»

                       

Omelia di Ernesto Balducci, scolopio (1922-1992)

Quando diciamo «il sacrificio della Messa» facciamo un indebito accoppiamento perché la messa non è un sacrificio se non perché è un banchetto fraterno, legato alla memoria di un sacrificio, quello che Gesù liberamente ha compiuto con lo scopo di porvi fine quasi espiando in se stesso il cumulo di perversità omicida che c’è nell’animo e inaugurando il tempo messianico della fraternità in cui non c’è più bisogno del sangue degli animali, e tanto meno degli uomini. Che poi questo rito fraterno senza spargimento di sangue si sia inserito nello schema quasi onnipotente dell’aggressività umana – abbiamo anche la Messa celebrata al campo, prima della battaglia! – questo è un altro discorso, che fa parte della indomabile dialettica tra questo messaggio fragile (incredibile perché troppo fragile!) e la legge che ci governa. Del resto, anche nelle società secolarizzate del nostro tempo, l’istinto sacrificale esiste: noi abbiamo imparato nella scuola che una nazione è veramente unita quando ha un esercito. Un esercito è uno strumento sacrificale; un esercito presuppone un nemico. Il nemico c’è sempre. Non c’è nazione che non abbia il nemico da uccidere, idealmente. Nell’epoca dei missili i ‘Santuari’ sono le basi con i missili puntati verso il nemico. Senza la coscienza del nemico una nazione non si regge: sembra una legge invincibile.

Questo discorso ci introduce a intendere in un certo modo – che mi pare il più giusto, il più conforme alla intenzione originaria – ciò che ora abbiamo ascoltato. Un mitico re, Melchisedek, offre sul monte pane e vino, non animali. Abramo dovrà sacrificare, al posto del figlio, un ariete, un animale. Qui, invece, Melchisedek non sacrifica nulla: offre pane e vino, che sono i frutti della cultura umana. Il pane e il vino, a differenza dell’animale, sono un prodotto essenziale della cultura dell’uomo, comportano – come diciamo nel rito – la fatica e il lavoro dell’uomo. Il vino e il pane sono anche il simbolo dello scambio del banchetto fraterno.

Da dove è uscito fuori Melchisedek? È come una interpolazione strana nel racconto biblico, che invece, dal punto di vista culturale, risente normalmente della civiltà sacrificale di cui vi ho detto. Abramo riceve la benedizione di Melchisedek che non è un sacerdote di una religione, è il sacerdote dell’Altissimo, è il sacerdote cosmico, è il sacerdote dell’umanità che ha abolito i sacrifici cruenti e compie il suo gesto di adorazione a Dio, e di fraternità con Abramo, con l’offerta del pane e del vino. Questo è – a mio giudizio – un punto fermo della memoria cristiana che si riallaccia e si confonde con la semplice memoria umana. Quando vogliamo ritornare (è un meccanismo che naturalmente deve fare i conti con la scienza ma al livello del linguaggio simbolico è sempre bello e importante) ad una età dell’oro, per dirci come vorremmo che fosse il mondo domani, noi dobbiamo ritornare non ad Abramo ma a Melchisedek, cioè ad un tempo in cui l’umanità non versava il sangue ma manifestava la sua piena intima essenza e il suo modo più profondo di rapportarsi a Dio con l’offerta del pane e del vino, cioè del banchetto.

 C’è un archetipo di fondo nella nostra storia, il banchetto fraterno, che è insieme il vero culto di Dio al di fuori degli schemi rituali e sacrificali e il vero culto dell’uomo per l’uomo, senza il «capro espiatorio», senza il meccanismo dell’aggressività. Simbolo fortissimo, anche perché noi sentiamo, per una necessità storica, il bisogno di rifarci a dei simboli che non appartengano a questa o a quella religione, a questa o a quella cultura ma abbiano su di sé la luce dell’universalità. Siamo gli uni vicini agli altri. Non possiamo più combattere – anche per l’evidenza storica che ce lo impone – le altre religioni ma dobbiamo risalire alle sorgenti che non sono Abramo e non sono Budda, e non sono Melchisedek, sono l’uomo. L’uomo primordiale.

 Finché non risaliamo lungo il torrente che è il nostro fino alla vetta da cui i torrenti sono discesi, noi saremo sempre interni alla religione sacrificale. Non ci dimentichiamo che i fedeli di Gesù Cristo andarono a scannare gli infedeli convinti di andare in Paradiso se morivano in battaglia. La sopraffazione della cultura di guerra è stata spaventosa. Per liberarcene non bastano gli accomodamenti superficiali, c’è da fare – come la chiamavo – l’inversione di rotta. Per una simile inversione questo archetipo è veramente essenziale. Dinanzi a quest’uomo mitico, all’Uomo, Abramo ha pagato la decima, come dire si è riconosciuto inferiore. La religione ebraico/cristiana, e così ogni religione, deve riconoscersi inferiore all’uomo. Non è l’uomo che deve pagare la decima alla religione, è la religione che deve pagare la decima all’uomo. Cambiano le cose! Se la religione è davvero secondo Dio io la capisco non da quanto sono affollati i templi, da quanti quattrini si fanno nei santuari, ma, all’inverso, da come questa religione serve l’uomo, i suoi bisogni fondamentali di fraternità e di pace, come serve ad eliminare dall’uomo la spinta aggressiva verso il sangue…

Ernesto Balducci – da: «Il Vangelo della pace» vol. 3 – anno C

www.fondazionebalducci.it/?q=laparola/29-maggio-2016-%E2%80%93-corpo-e-sangue-di-cristo-%E2%80%93-anno-c

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DEMOGRAFIA

Non c’ entra la crisi economica, non aiutano i bonus bebè.

Assistenzialismo e vittimismo dietro l’autunno demografico. Parla De Rita. Come sociologo e fondatore del Censis è stato tra i primi a raccontare fuori dagli schemi lo sviluppo italiano degli anni d’ oro, dall'”economia del cespuglio” agli spiriti animali di un’imprenditoria che non voleva i lacci dello stato. Come padre di otto figli Giuseppe De Rita, 83 anni, è anche personalmente titolato a dare una lettura iconoclasta dell’autunno della natalità, il calo demografico che affligge l’Italia e che è stato fotografato pure dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat. Rispondendo a Giovanni Minoli su Radio 24, anziché adeguarsi al mainstream della crisi economica che flagellerebbe le famiglie, ha parlato delle colpe “di un ceto medio in ritirata già da quando le cose andavano bene”. Quello che segue con il Foglio è un attacco ad alzo zero alle responsabilità dell’assistenzialismo pubblico, a una società “sterile, vittimista e autoprotettiva”, alle distorsioni di un certo femminismo, alle conseguenti rappresentazioni del circo mediatico.

“Sul fatto che la crisi economica non c’entri con il calo demografico dice De Rita le cifre parlano chiarissimo. Passato il baby boom postbellico, hanno cominciato a fare meno figli le generazioni degli anni 70 e 80, le più affluenti. E questo per colpa della ‘cetomedizzazione di massa’ da una parte, e dall’ altra della ritirata della classe dirigente dalle sue responsabilità”. In che modo? “Avevamo un sud non solo fertile ma anche pronto alla mobilità sociale e geografica e ai suoi rischi. Un nordest che sulla procreazione fondava il proprio modello economico. Una borghesia basata sulla famiglia e sulla trasmissione di beni materiali e di valori. Il sud si è in gran parte trasferito a Roma in cerca di stipendi fissi e assistenza pubblica. Il nordest è passato dall’ operosità alla paura continua. La borghesia ha cavalcato l’onda dei diritti individuali e di un certo femminismo”. Non negherà certe conquiste. “Come no, divorzio, aborto… Ma il diritto civile è stato piegato ad abuso, con una visione proprietaria: il corpo è mio, il matrimonio è mio e divorzio quando voglio, il figlio è mio e lo abortisco se mi pare”. Non può essere lo stato a decidere per gli individui. “Ovviamente. Lo stato però ha assecondato le richieste di questo ceto medio al ribasso, quella che già Pasolini definiva ‘piccola borghesia che non vuole cambiare, ma stare tranquilla’. Ormai rappresenta l’80 per cento dell’elettorato, ed ecco interventi assistenziali su emergenze vere o presunte di ogni tipo, pensioni, bonus, trattamenti mirati corporativi. Fa comodo ai partiti, ai sindacati, alla Confindustria. Infatti abbiamo sempre in tv i pensionati”. Colpe di media e talk show? Inseguono le emergenze amplificandole, vedi la mistica degli asili nido. Nelle novità individuano sempre complotti. E non dicono nulla di nuovo”. Torniamo al ceto medio: non era per definizione produttivo? “Oggi è un grande lago salato che inevitabilmente evapora. Una società che rischia l’immobilismo. Le speranze sono i ragazzi che riescono a inserirsi in qualche filiera di hi-tech o, per dire, dell’alta gastronomia. Sono le nuove classi sociali: però i giovani, più che esserne i protagonisti come furono invece quelli della Silicon Valley, per ora sono trasportati da onde che dipendono da giganti della tecnologia o da chef stellati con ristorante sui roof di Shanghai”. Paesi all’avanguardia dei diritti come la Gran Bretagna e Israele, o di tradizione cattolica come l’Irlanda, sono i più fertili d’ Europa. “Alcuni sono di 40 anni più avanti di noi: per questo non disperiamo. Altri rifiutano lo statalismo finanziato dalle tasse. Altri ancora non hanno mai messo in discussione la procreazione: se non c’ è il desiderio, fisico e sociale, i figli non li fai”. La politica dei bonus bebè non serve? “Guai! Sono i bonus senza politica. Un incentivo a dire: faccio un figlio solo se mi dai il bonus. E d’ altra parte le politiche della natalità possono far danni come le politiche industriali e del welfare. Lo stato deve sciogliere le briglie, non imbrigliare ancora”.

Renzo Rosati              Il Foglio                      26 maggio 2016

www.ilfoglio.it/economia/2016/05/25/bonus-bebe-demografia-nascite___1-v-142469-rubriche_c236.htm

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DIACONATO

Donne diacono: una possibilità?

            In risposta a una domanda rivoltagli in occasione dell’incontro con le superiore degli istituti religiosi femminili, papa Francesco ha accolto la proposta di costituire una commissione che studi la possibilità di un diaconato femminile, in particolare in rapporto all’esperienza vissuta nella chiesa dei primi secoli.

            Le parole del papa manifestano ancora una volta la coscienza, da lui attestata fin dai primi giorni di pontificato, che sia necessario – e non procrastinabile – ascoltare le richieste, le domande, le suggestioni che vengono dalle donne, in ordine a un maggior riconoscimento e valorizzazione della presenza femminile nella chiesa. Se da alcuni decenni il riferimento al “genio femminile” si è fatto frequente, nella predicazione, nella catechesi, nei documenti magisteriali, appare oggi urgente un ripensamento che tocchi le forme e le strutture della vita ecclesiale, in modo tale che gli spazi di partecipazione e i luoghi di decisione siano finalmente abitati da donne e le elaborazioni del pensiero teologico e le scelte pastorali, a tutti i livelli, siano segnate dalla parola autorevole, pubblica, competente delle donne. Per altro un riferimento esplicito a un diaconato femminile era stato fatto nel Sinodo sulla famiglia del 2015, dal vescovo canadese A. Durocher.

            La costituzione di una commissione di studio sul diaconato appare quindi un passaggio particolarmente significativo, perché porta immediatamente l’interrogativo sul piano della riflessione sulla ministerialità della chiesa intera, dei cristiani e delle cristiane, e dello stesso ripensamento del ministero ordinato. Colloca la riflessione sulla questione attuale nell’orizzonte della Tradizione; spinge a ripensare in modo significativo un capitolo della storia ignoto a tanti, quello di figure ministeriali femminili che hanno arricchito in molteplici modi la vita della chiesa cristiana delle origini, e insieme sollecita a riflettere sul futuro di una chiesa, che sia veramente comunità di donne e uomini.

            Una riflessione recente, una storia antica. La sollecitazione a pensare una re-istituzione delle diaconesse viene posta nel 1959, nella fase ante preparatoria del concilio Vaticano II, quando due vescovi (mons. Ruotolo, vescovo di Ugento (Lecce), e mons. León de Uriarte Bengoa, vicario apostolico di San Ramon in Perù) indicarono nei vota inviati a Roma questa richiesta. In Concilio ci furono poi due interventi dedicati al tema: uno in aula, di mons. R.I. Roo, di Vancouver, su una forma di ministero “istituito” per le donne, di tipo laicale, teso alla cura e al servizio dei poveri, e uno consegnato per scritto dall’arcivescovo di Atlanta Hallinan, che chiedeva invece l’ordinazione: «mulieres, post congruum studium peractum debitamque formatione receptam, in Ordine Diaconatus assumantur: ut Verbum Dei populo annuntiare atque Sacramenta ad talem Ordinem spectantia, praesertim Baptismum solemne Sacramque Eucharistiam administrare queant». Durante il periodo conciliare alcune teologhe e giuriste avevano poi sollecitato i padri a riflettere sul ruolo delle donne nella chiesa e sulla possibilità di un ministero ordinato, con una pubblicazione dal titolo Non siamo più disposte a tacere e con un convegno organizzato dalla Associazione internazionale Giovanna d’Arco. Nel vivace clima dell’immediato post-concilio l’argomento dell’ordinazione delle donne, presbiterale e diaconale, fu ampiamente studiata e dibattuta, da teologi e teologhe cattoliche e dai vescovi stessi, ad esempio durante il Sinodo dei vescovi del 1971, con documenti e proposte delle Conferenze episcopali tedesca e canadese, durante il Sinodo della chiesa tedesca del 1972. Le pubblicazioni sull’argomento sono centinaia e spaziano dagli studi storici a quelli patristici, dall’esame delle questioni giuridiche alla vera e propria ricerca sistematica sull’argomento. Il documento della Congregazione per la dottrina della fede Inter Insigniores del 1976 e la Lettera di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis del 1994 hanno sancito la posizione magisteriale sull’argomento. Il secondo documento, in particolare, definisce, con dottrina irreformabile, che l’ordinazione sacerdotale – all’episcopato e al presbiterato – deve essere conferita ai soli uomini maschi, sulla base della ininterrotta Tradizione ecclesiale. Del diaconato alle donne non si parla in questo documento, dal momento che si tratta – come vedremo – di un grado di ministero ordinato non sacerdotale. Sulla presenza e sulle forme di servizio delle diacone/diaconesse si è invece soffermato il documento Sul diaconato (2003) a firma della Commissione Teologica Internazionale.

            Nella tradizione viva della chiesa. La ricerca della commissione, presumibilmente, da un lato dovrà confrontarsi con le molteplici testimonianze dei primi secoli (II-VI secolo, in Oriente), che ci mostrano la presenza attiva e riconosciuta a livello ecclesiale di donne diacone/diaconesse (si trovano i due termini), dall’altra con la re-istituzione del diaconato (maschile) come grado autonomo e permanente al Concilio e con lo sviluppo di una teologia del ministero ordinato, nuova rispetto alla comprensione tridentina, che il Vaticano II ha maturato. Le figure ministeriali e le stesse interpretazioni teologiche del ministero, della prassi e delle funzioni ministeriali, sono più volte mutate nel corso della storia. La Tradizione della chiesa di Oriente e di Occidente vede un’evoluzione continua per quell’elemento costitutivo che è il ministero. Unica rimane la ratio teologica ultima – la custodia dell’apostolicità della fede e il servizio al Noi ecclesiale, con l’annuncio e la vita sacramentale (cf. Atti 6.20; Ef 4; 1Tm, 2Tm, Tt) – ma le figure e le forme di vita che la incarnano e la realizzano sono state molte e hanno visto evoluzioni significative.

            Sulle diacone/diaconesse nei primi secoli abbiano oggi decine di attestazioni di tipo letterario (narrazioni di episodi di storia ecclesiastica, racconti di viaggi, epistolari, ad esempio le lettere del Crisostomo a Olimpiade), liturgico (riti di ordinazione), giuridico, epigrafico. Conosciamo almeno in parte il loro impegno nell’evangelizzazione e nella catechesi, soprattutto rivolte alle donne, la presenza nei riti battesimali (es. unzione delle donne), la visita e il servizio ai poveri, ai malati, etc. Dipendevano dal vescovo, in alcuni casi venivano sostenute economicamente dalle chiese. In alcuni casi la loro figura era presentata in riferimento a Febe, sorella nella fede e diakonos della chiesa di Cencre, come la chiama Paolo nella Lettera ai Romani (Rom 16,1-2). Nell’avvicinarsi a queste figure è essenziale però non proiettare su di loro immediatamente le nostre visioni del ministero e della vita ecclesiale, o pensare di ricalcare una eventuale figura di diaconessa odierna su di loro. Due problematiche sono da valutare con attenzione: il modo in cui ci avviciniamo e leggiamo le fonti patristiche (ad esempio i canoni di concili e sinodi relativi a condotte di gruppi eterodossi) e il loro status ministeriale da pensare in relazione la questione della celebrazione che le costituiva. Per alcuni autori, infatti, si tratta di una vera e propria ordinazione “sacramentale”, per altri di una benedizione o di un mero mandato del vescovo.

            In una chiesa figlia del concilio. In Lumen gentium 29 viene sancita dai padri del Vaticano II la reistituzione del diaconato come grado autonomo e permanente. Dal VII secolo in poi, infatti, il diaconato era rimasto solo come ministero transeunte in vista del presbiterato. Il diaconato viene ripensato all’interno di una rinnovata visione del ministero ordinato nel suo insieme: il recupero della sacramentalità dell’episcopato, una interpretazione fortemente ancorata su un presupposto ecclesiale più che declinata in rapporto a un fondamento esclusivamente cristologico, la ripresa della strutturazione tripartita antica, la prospettiva collegiale e non individualistica sono altrettanti aspetti di innovazione teologica e di prassi ministeriale. I diaconi vengono ordinati – dice il testo – «non ad sacerdotium, sed ad ministerium»: si tratta quindi di un ministero ordinato in grado non sacerdotale. I diaconi sono chiamati a servire il legame tra il vangelo e la autenticità della vita cristiana nell’amore, in particolare per i poveri, a promuovere la relazione tra fede e servizio, tra adesione ecclesiale e diakonia di tutti. I diaconi animano le comunità e il loro servizio ministeriale nella custodia della apostolicità della fede, non sovrapponibile a quello del presbitero, né riducibile a funzioni operative (più o meno sacrali che siano), è essenziale per la chiesa nata dal Concilio. Ordinatio sacerdotalis afferma che è impossibile conferire alle donne una «ordinatio sacerdotalis», cioè secondo l’ordine dell’episcopato e del presbiterato, ma non menziona il diaconato. Il confronto sul diaconato, attestato nella Traditio ecclesiae, richiamato in alcuni dialoghi ecumenici, ripensato alla luce della teologia del ministero del concilio e oggi oggetto di richiesta esplicita diventa un passaggio possibile, non nella forma di una riproposizione pedissequa del passato (che diventerebbe anacronistica), ma nella figura di un ministero di donne e da donne per la chiesa di oggi. La costituzione di una commissione di studio su una questione tanto delicata e complessa, ancora più necessaria.

            È giunto il tempo per la chiesa di ascoltare la parola e vedere l’opera di donne che come dice l’iscrizione funebre di Aerie, diacono di Amisios (+562), siano «Fedele serva di Cristo, diacono dei santi, amica di tutti».

            Serena Noceti – ecclesiologa, vicepresidente dell’Associazione Teologica Italiana.

            Circolo Il Borgo di Parma – 23 maggio 2016

http://www.ilborgodiparma.net/web/index.php?option=com_content&view=article&id=1455:donne-diacono-una-possibilita&catid=23:i-ponti&Itemid=58

 

Diaconesse? Il cardinale Ravasi la pensa così.

            Nei mass media ha fatto molto rumore l’idea, accolta da Francesco su richiesta di alcune suore ricevute in udienza, di istituire una commissione di studio sulle funzioni diaconali che le donne ricoprivano nella Chiesa dei primi secoli. In realtà la Commissione teologica internazionale elaborò già uno studio nel quinquennio 1992 – 1997 e poi, nel 2003, pubblicò un testo specifico, Il diaconato: evoluzione e prospettive. In ogni caso, le parole di Francesco (che il Centro televisivo vaticano, curiosamente, non ha messo a disposizione dei giornalisti) rilanciano un tema interessante sotto molti aspetti.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/may/documents/papa-francesco_20160512_uisg.html

            Ne parliamo con il cardinale Gianfranco Ravasi, teologo e biblista, presidente del Pontificio consiglio della cultura.

Eminenza, qual è la situazione attuale circa il diaconato femminile?

Credo che la costituzione di una nuova commissione sia necessaria per riuscire a studiare che cosa è avvenuto alle origini del cristianesimo. Noi sappiamo che nel Nuovo Testamento ci sono due passi significativi, di San Paolo, che scrivendo ai cristiani di Roma saluta una diaconessa di nome Febe (in greco Phoebe, cioè luminosa, pura) appartenente alla Chiesa di Corinto, e poi, quando parla dei diaconi, si occupa proprio delle donne, spiegando che devono possedere alcune spiccate qualità umane e morali, come essere sobrie e non maldicenti. Ciò significa chiaramente che in quelle comunità delle origini c’era una presenza femminile che aveva qualche incarico. Dobbiamo però aggiungere che la parola diacono (dal greco diakonos, servitore) è piuttosto generica: indica infatti un ministero, un servizio, che può essere di diverso tipo. Può comportare per esempio il sostegno ai poveri, ma non sappiamo se avesse anche funzioni strettamente liturgiche, legate al culto. È su questo fronte che sarebbe necessario approfondire la ricerca.

            Quindi un’eventuale commissione di che cosa dovrebbe occuparsi?

Dovrebbe occuparsi innanzitutto dello studio della tradizione, considerando che al riguardo le testimonianze non si fermano solo al Nuovo Testamento, ma proseguono. Abbiamo per esempio un padre della Chiesa, Epifanio di Salamina (circa 315 – 403 dopo Cristo), che parla esplicitamente di una funzione attribuita alle donne, cioè quella di prestare assistenza durante il battesimo amministrato alle catecumene. All’epoca il battesimo avveniva per immersione ed era una diaconessa a occuparsi della donna da battezzare. Abbiamo poi le Costituzioni apostoliche (una sorta di manuale sulla disciplina, la dottrina e il culto, risalente al quarto secolo) che forniscono indicazioni concrete per quanto riguarda questa funzione femminile. Dovremo quindi studiare per vedere come la Chiesa ha vissuto e interpretato tali esperienze. Naturalmente tutto ciò non significa, come qualcuno sostiene, fare un primo passo verso l’ingresso della donna nel sacerdozio, perché anche in questi testi antichi la funzione della donna resta comunque abbastanza circoscritta.

            Secondo lei c’è il rischio che anche nella Chiesa cattolica, un po’ com’ è successo fra gli anglicani, su queste questioni – ruolo della donna, sacerdozio femminile – ci si possa dividere?

            Noi sappiamo, da una parte, che Giovanni Paolo II e lo stesso papa Francesco hanno ribadito la grande tradizione ecclesiale che ha affermato la tipicità del sacerdozio cattolico come sacerdozio maschile. Dall’altra parte però bisogna dire che non ci sono mai state dichiarazioni per quanto riguarda altri ministeri più specifici e circoscritti. Dunque una riflessione potrebbe servire anche per dare valore a qualche funzione ecclesiale, liturgica e sociale che potrebbe essere ricoperta dalle donne. E tutto questo secondo me non dovrebbe creare difficoltà; anzi dovrebbe essere un bel segno della presenza femminile all’interno della Chiesa, che è una presenza decisiva per la comunità cristiana, e non va necessariamente letta sempre in chiave clericale, in base al dilemma sacerdozio sì – sacerdozio no.

            Ma se si dovesse davvero arrivare alla figura della diaconessa, questa donna che cosa farebbe in più rispetto a ciò che già tante donne fanno nelle parrocchie e nelle comunità?

            Definirne la funzione in maniera più istituzionale vorrebbe dire da un lato arrivare ad assegnare alle donne incarichi per quanto riguarda il battesimo, la celebrazione dei matrimoni e l’annuncio della parola di Dio all’interno di particolari contesti liturgici (non necessariamente quello dell’eucaristia), e dall’altro significherebbe dare un rilievo formale ufficiale alla donna all’interno delle strutture ecclesiali, con funzioni ben precise, ben delineate. Sarebbe un modo per riportare il volto femminile nella comunità ecclesiale in maniera incisiva, come, a quanto pare, avveniva nelle comunità cristiane dei primi secoli.

            Aldo Maria Valli                   13 maggio 2016

www.aldomariavalli.it/2016/05/13/diaconesse-il-cardinale-ravasi-la-pensa-cosi

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DIVORZIO

Divorzio breve: il termine di sei mesi decorre dall’accordo innanzi al sindaco.

Come previsto dal decreto legge 132/2014, il patto semplificato in Comune produce gli effetti e sostituisce i provvedimenti giudiziali. Sei mesi dal perfezionamento dell’accordo di separazione innanzi al sindaco del Comune: è questo il termine che le parti hanno per avanzare la domanda di divorzio breve ai sensi della legge 55/2015. L’accordo semplificato stipulato dinnanzi al primo cittadino, in qualità di ufficiale di stato civile dell’ente, produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che va a sostituire.

            Lo ha disposto il Tribunale di Milano, nona sezione civile, il quale ha pertanto ritenuto che il termine per proporre la domanda di divorzio breve inizia a decorrere dalla data di quest’atto che determina l’intesa semplificata. Una simile decisione del giudice meneghino è frutto del combinato disposto dell’art. 3 della Legge Fortuna-Baslini e di quanto previsto dal D.L. sulla negoziazione assistita: il terzo comma dell’art. 6 del decreto legge 132/2014 (convertito nella legge 162/2014), prevede, infatti, che l’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione giudiziale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio. L’art. 12, terzo comma, del medesimo decreto, ribadisce che ciò ha valore anche per quanto riguarda l’accordo concluso innanzi al all’ufficiale dello stato civile che tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.

            Ciò significa che in entrambi i casi l’accordo ha la valenza di una separazione consensuale e, di conseguenza, va stabilito in sei mesi dall’accordo il termine per poter attivare il procedimento divorzile. Oggi è la stessa legge che prevede quale effetto tipico della separazione consensuale il decorso di un termine per poter proporre la domanda di divorzio, ciò sia in caso di negoziazione assistita che per gli accordi conclusi in Comune.

Divorzio breve: il termine di sei mesi decorre dall’accordo innanzi al sindaco.

            Lucia Izzo      Studio Cataldi                        21 maggio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22149-divorzio-breve-il-termine-di-sei-mesi-decorre-dall-accordo-innanzi-al-sindaco.asp

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EBRAISMO

“La famiglia tradizionale è la cellula essenziale dell’umanità”

«Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo a un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo». Così diceva papa Francesco alla comunità ebraica durante la visita alla sinagoga della Capitale, nel gennaio 2016. Restando dunque in famiglia – a poche settimane dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica postsinodale Amoris Laetitia – parliamo di famiglia con un «fratello maggiore», Riccardo di Segni, 66 anni, rabbino capo di Roma dal 2001.

Nelle prime pagine dell’Amoris Laetitia papa Francesco ricorda il Salmo 128, ancora oggi proclamato sia nella liturgia nuziale ebraica sia in quella cristiana, che vede al centro la coppia del padre e della madre con la loro storia di amore e di generazione. Viene poi richiamato il Libro della Genesi nel quale è tratteggiata la realtà matrimoniale nella sua forma esemplare.

Come istruiscono in ordine alla famiglia i versetti della Genesi fondativi per gli ebrei (e anche per i cristiani)?

«Nel racconto della creazione del capitolo 1 si legge: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”». Nel secondo racconto della creazione rammento in particolare due momenti: Dio si accorge della solitudine dell’uomo e decide di dargli un aiuto «che gli sia simile (o che gli stia di fronte)»: crea la donna che Adamo riconosce come «carne dalla mia carne ossa dalle mie ossa». Dal loro incontro prende vita la famiglia: «l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. L’indicazione che traiamo è, anzitutto, l’obbligo di farla, una famiglia. Il secondo riguarda la forma, che è quella costituita dall’uomo e dalla donna – sui quali si stende la benedizione del Creatore –uniti in matrimonio e aperti alla generazione e alla vita. Questo modello di famiglia, oggi definito “tradizionale”, è il fondamento del legame sociale, la cellula essenziale della grande famiglia umana, il nucleo sul quale ogni società può edificarsi e svilupparsi proseguendo l’opera creatrice di Dio».

Nel secondo capitolo dell’Amoris Laetitia, dedicato alle «sfide delle famiglie», si fa riferimento a «un cambiamento antropologico-culturale» oggi in atto che influenza tutti gli aspetti della vita. A suo giudizio, come tale cambiamento investe la famiglia?

«Le sfide sono molteplici, difficile elencarle tutte. Penso ad esempio all’insorgere di valori contrari al legame familiare, a una cultura che scoraggia l’impegno e l’assunzione di responsabilità, all’individualismo che induce le coppie a non affrontare insieme i problemi. Ma penso anche alle difficoltà economiche che possono rivelarsi un macigno insostenibile e – relativamente all’Italia –all’assenza di autentiche politiche di sostegno e di adeguate strutture di supporto. A ciò si aggiunge – ed è il nodo cruciale – il fatto che il modello tradizionale di famiglia non soltanto non è più condiviso, ma è pesantemente messo in discussione: nella nostra epoca sono comparsi modelli alternativi con i quali bisogna fare i conti».

Questo nodo cruciale è particolarmente sentito e discusso all’interno delle comunità ebraiche italiane?

«Occorre premettere che le comunità ebraiche sono molto variegate. Direi comunque che per molte persone questo non è un tema su cui focalizzare l’attenzione. Per contro ve ne sono altre che si dimostrano sensibili e attente. Sicuramente è fonte di preoccupazione e riflessione per il mondo rabbinico. Noi sosteniamo e sottolineiamo che modelli alternativi di famiglia mettono a repentaglio la continuità stessa delle comunità, esortiamo e incoraggiamo i dirigenti ad affrontare la questione in seno alle loro comunità. Ciò genera dibattiti dai quali emergono posizioni differenti: c’è chi considera ineluttabile il cambiamento pur non condividendolo ma anche chi vede di buon occhio i modelli alternativi. Noi rabbini siamo concordi nel sostenere e promuovere la famiglia tradizionale».

Nella nostra epoca la religione ebraica cosa porta in dono all’umanità sul tema della famiglia?

«Direi proprio il valore e la forza della famiglia tradizionale di cui ho parlato, che per secoli ha rappresentato il fondamento saldo e insostituibile della nostra vita comunitaria e che riteniamo costituisca il modello di riferimento per la vitalità e la sopravvivenza dell’intera famiglia umana. Portiamo in dono anche i nostri modelli di educazione e di trasmissione della fede, la quale passa attraverso la famiglia e il legame tra le generazioni».

Pensa che possano essere promosse forme di collaborazione tra cristiani ed ebrei per sostenere i legami familiari?

«Si potrebbero sperimentare, bisognerebbe studiarne le modalità».

Lo scorso anno, nel corso delle sue catechesi, papa Francesco affermava che la famiglia interpreta e dà vita a quel capolavoro della creazione che è l’alleanza tra l’uomo e la donna, alla quale sono affidate la signoria del mondo e la responsabilità della storia e invitava a «un soprassalto di simpatia per questa alleanza, capace di porre le nuove generazioni al riparo dalla sfiducia e dall’indifferenza». Condivide questa riflessione? Ritiene che ebrei e cristiani possano essere alleati nel sostenere questa alleanza strategica dell’uomo e della donna?

«È una riflessione importante. Penso che una convergenza tra ebrei e cristiani sia possibile, resta da comprendere come poi potremmo viverla e declinarla concretamente sul piano culturale e sociale».

Cristina Uguccioni     “La Stampa-Vatican Insider”           22 maggio 2016

www.lastampa.it/2016/05/22/vaticaninsider/ita/inchieste-e-interviste/la-famiglia-tradizionale-la-cellula-essenziale-dellumanit-siXg1kNS5KpAsT1E7rkETJ/pagina.html

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Finalmente l’Italia scopre il FattoreFamiglia.

Sono state giornate intense e lunghe, ma possiamo dire che – dopo tanto – Il Forum delle Famiglie è riuscito a rimettere al centro del dibattito politico-economico il FattoreFamiglia. Non solo il cardinal Bagnasco, ma anche due ministri, un paio di sottosegretari, Tg1, Tg2, Tg5, Repubblica, Avvenire, Messaggero, in queste ore sono entrati nel merito. Tutti iniziano a comprendere che occorre una manovra coraggiosa per le famiglie. Si avverte l’urgenza di una manovra fiscale coraggiosa, che dia finalmente equità alle famiglie con figli a carico. Gli esperti dicono che la messa in atto del cosiddetto ‘fattore famiglia’ sarebbe già un passo concreto e significativo.

18 maggio 2016                     http://www.forumfamiglie.org/news.php?news=984

Più che una legge formato famiglia chiediamo il FattoreFamiglia

«Più che una legge formato famiglia quella che chiediamo è una legge col FattoreFamiglia». È questo il commento di Gigi De Palo, presidente del Forum delle famiglie, alle dichiarazioni del Ministro Costa a margine della odierna conferenza stampa sulla famiglia.

«Se la famiglia è veramente al centro dell’agenda del governo questo è il momento di dimostrarlo. Le famiglie italiane chiedono semplicemente giustizia. Non chiedono l’elemosina ma una riforma fiscale che tenga conto del numero dei figli a carico come prospetta la no tax area del FattoreFamiglia, la proposta fiscale che il Forum porta avanti da alcuni anni.

«Le start up» conclude De Palo «funzionano se qualcuno decide di investire seriamente su di esse. Notiamo con piacere che dopo tanti anni si inizia a parlare di famiglia in termini propositivi e costruttivi».

Comunicato stampa   26 maggio 2016

 

In Italia le famiglie pagano per tutti.

Lo evidenzia uno studio di Commercialisti e Forum Famiglie. È paradossale ma vero: nel 2015, mentre in generale per la prima volta avvertiamo una flessione della pressione fiscale, per le famiglie italiane il carico fiscale è addirittura aumentato. In sintesi, è questo il dato più incredibile che emerge dallo studio, intitolato “Reddito, consumi e carico fiscale delle famiglie”, presentato dalla Fondazione Nazionale dei commercialisti e dal Forum delle Associazioni Familiari. Fondazione dei commercialisti e Forum hanno anche firmato un protocollo di intesa volto ad analizzare e a trovare possibili soluzioni per la crescente difficoltà economica che stanno vivendo le famiglie italiane negli ultimi anni.

Erano presenti: Giorgio Sganga, presidente della Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Gianluigi De Palo, presidente del Forum delle Associazioni Familiari, Giovanni Castellani, Direttore del Comitato Scientifico delle Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Vincenzo Bassi, Responsabile area giuridica del Forum delle Associazioni Familiari

Con riguardo al contenuto proprio dello studio della Fondazione nazionale dei dottori commercialisti, sono stati sviluppate alcune, interessanti riflessioni sulla base di dati Istat e Banca d’Italia sui redditi, sui consumi e sul carico fiscale delle famiglie negli ultimi anni. Aggregando questi dati, emerge un significativo peggioramento della condizione economica delle famiglie come conseguenza della crisi:

  1. 2,5% l’ammontare del reddito familiare netto tra il 2010 e il 2013,
  2. +36% il numero delle famiglie in condizioni di povertà assoluta tra il 2011 e il 2014;
  3. -6% l’ammontare della spesa media mensile delle famiglie nel 2014 rispetto al 2008;
  4. -8,8% l’ammontare del reddito disponibile lordo delle famiglie nel 2015 rispetto al 2008;
  5. +0,3% in più il carico fiscale delle famiglie nel 2015 sul 2014 e +2,7% rispetto al 2005.

I dati mostrano, in maniera inequivocabile, come ad essere più colpite siano le famiglie numerose e, in particolare, quelle con tre o più figli. Andando nello specifico, va evidenziato come, nel periodo 2010-2013, il calo del reddito familiare netto sia concentrato nelle famiglie con 4 e più componenti (-3,4% quelle con 4 componenti e -7,5% quelle con più di 4 componenti) ovvero nelle coppie con almeno un minore (-2%).

La stessa osservazione si ricava dall’aumento delle famiglie in condizioni di povertà assoluta che, nel periodo 2011-2014, colpisce in maniera significativa le famiglie con 4 componenti e più (+3,1% quelle con 4 componenti e +7,1% quelle con più di 4 componenti), e le coppie con tre e più figli (+9,3%).

Leggendo questi dati, non c’è dubbio che la crisi economica ha inciso, anche in maniera significativa, sulla struttura familiare italiana. Nel periodo 2011-2014, infatti, le famiglie con un solo componente (7,6 milioni di famiglie) sono aumentate (+5,8%), mentre le coppie con figli (8,7 milioni di famiglie) sono risultate in calo (-0,9%).

Il dato che più sbalordisce è, tuttavia, l’aumento del carico fiscale sulle famiglie nel periodo 2012-2015. A sorprendere è soprattutto un fatto: per la prima volta dal 2011, la pressione fiscale si è, in generale, ridotta. Fanno eccezione solo le famiglie. Ciò in quanto, il rapporto tra imposte correnti pagate dalle famiglie e reddito disponibile lordo delle stesse famiglie ha raggiunto il livello più alto degli ultimi venti anni nel 2015.Nel 2015, infatti, secondo l’Istat, la pressione fiscale generale è calata di 0,3 punti percentuali passando dal 43,6% al 43,3%, mentre il carico fiscale sulle famiglie (imposte correnti su reddito disponibile lordo) è aumentato di 0,3 punti percentuali passando da 16,2% a 16,5%.

Da qui scaturisce una conclusione cruda ma ahimè nota: le famiglie italiane stanno vivendo una situazione di particolare disagio perché è sulle famiglie italiane che si è scaricato il peso maggiore della crisi economica internazionale.

Comunicato stampa   27 maggio 2016

www.forumfamiglie.org/comunicati.php?filtro=ultimi_30_giorni&comunicato=810

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NEGOZAZIONE ASSISTITA

Negoziazione assistita in materia di famiglia: no ad avvocati dello stesso studio

Tribunale Torino – settima Sezione civile, decreto 13 maggio 2016

In materia di negoziazione assistita avente ad oggetto negozi compositivi di crisi familiare, la fase avanti al Presidente è da ricondurre lato sensu alle forme del rito camerale e al Giudicante deve riconoscersi autonomia di valutazione rispetto al diniego del P.M. quanto alla portata delle condizioni della separazione o del divorzio, o della modifica delle originarie pattuizioni, anche sulla scorta delle delucidazioni che le parti possono fornire comparendo personalmente in udienza. La particolarità della procedura ex art. 6 D Lgs 162 del 2014 conferisce al Presidente il potere di provvedere, in caso di rifiuto del Pubblico ministero, senza eccezione alcuna rispetto alle varie procedure di negoziazione menzionate nell’intestazione dell’articolo.

            In materia di negoziazione assistita avente ad oggetto negozi compositivi di crisi familiare, il requisito della presenza di almeno due difensori (uno per parte) non è soddisfatto là dove i due Avvocati facciano parte dello stesso studio legale. L’art. 6 comma 1 del testo di legge (assistenza di ciascuna delle parti da parte di un difensore), infatti, deve essere interpretato alla luce delle disposizioni del Codice Deontologico forense vigente che, all’art. 24 comma 5, trattando del conflitto di interessi, contempla espressamente un dovere di astensione nel caso in cui le parti abbiano interessi confliggenti, astensione che è prescritta anche nel caso in cui i difensori “siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale”.

Giuseppe Buffone       Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 15099 -27 maggio 2016   testo

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/dpc.php?id_cont=15099.php

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OMOADOZIONE

Nuova conferma dalla Corte d’appello di Torino.

Corte d’appello di Torino, Sezione per i minorenni, sentenza27 maggio 2016.

            La Corte di Appello di Torino ha disposto l’adozione ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983, a favore della compagna convivente della madre biologica. La decisione, resa peraltro su parere favorevole del pubblico ministero, riforma la decisione con la quale il Tribunale di Torino aveva invece respinto la domanda della madre sociale, sostenendo la natura “eversiva” dell’interpretazione oggi accolta dell’art. 44, lett. d).

Si tratta di una pronuncia importante, perché recepisce l’orientamento aperto, a partire dal luglio del 2014, dal Tribunale per i minorenni e dalla Corte d’Appello di Roma, secondo cui l’impossibilità di affidamento preadottivo – ritenuto dall’art. 44, lett. d) presupposto per l’adozione speciale – va intesa non soltanto in senso materiale, o comunque connessa allo stato di abbandono, ma anche come impossibilità giuridica data, nel caso di specie, dalla presenza di un genitore biologico esercente la responsabilità genitoriale. La lettura evolutiva della disposizione in esame – prefigurata secondo la Corte d’Appello di Torino dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 383/99 www.giurcost.org/decisioni/1999/0383s-99.html– è ritenuta conforme, inoltre, al quadro sovranazionale, e alla particolare considerazione da esso accordata alle relazioni familiari di fatto, al momento di statuire sull’interesse del minore all’adozione. Il concetto di vita familiare, come enunciato in numerose decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, è insomma “ancorato ai fatti”, perché sono “i rapporti, i legami, la convivenza a meritare tutela”, indipendentemente dalla loro qualificazione giuridica. Particolarmente significativo, in questo senso, che la Corte torinese richiami il proprio precedente in tema di trascrizione dell’atto di nascita spagnolo recante l’indicazione delle due madri: in tale decisione, la Corte aveva infatti affermato di dover “garantire copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni nell’esclusivo interesse di un bambino”. Ed è proprio su questo profilo che la decisione in commento insiste con forza, laddove afferma che “nell’ipotesi qui in esame non si tratta di affermare un diritto ad essere genitori, o un diritto ad adottare […] ma si tratta di riconoscere e tutelare, nella misura massima consentita, il diritto del minore alla propria vita familiare”.

Come noto, su questione analoga è attesa a giorni la pronuncia della Prima sezione civile della Corte di cassazione, relativa al ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma del 23 dicembre 2015 che, sulla base del medesimo orientamento interpretativo dell’art. 44 lett. d) oggi seguito dalla Corte torinese, aveva disposto – confermando la sentenza di primo grado – l’adozione speciale in una coppia di due mamme. Nell’udienza del 26 maggio scorso, la Procura generale, nella relazione in Aula, ha contestato l’interpretazione evolutiva della disposizione in esame, affermando tra l’altro che la legge n. 184/1983 sarebbe rivolta esclusivamente a tutelare i minori in stato di abbandono e l’infanzia disagiata.

La decisione della Corte torinese fornisce una risposta solida a simili obiezioni, nella misura in cui – inserendo l’interpretazione della legge n. 184 nella costellazione ermeneutica rappresentata dal dato normativo sopranazionale – correttamente conclude che ciò che deve essere tutelato, specie in sede di adozione speciale, è anche il diritto del minore a veder consolidate, sul piano giuridico, le relazioni familiari di fatto di cui sia protagonista, e che possano utilmente contribuire allo sviluppo armonico della sua personalità.

(A.S.)              Articolo 29                 28 maggio 2016                                 sentenza

www.articolo29.it/2016/dalla-corte-dappello-di-torino-nuova-conferma-alla-stepchild-adoption-per-le-famiglie-arcobaleno/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+articolo29+%28articolo29.it%29

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PARLAMENTO

Camera          Assemblea      Riforma del terzo settore

25 maggio 201. Approvato in via definitiva il disegno di legge “Delega al Governo per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”. Entro 12 mesi i decreti attuativi. (non ancora promulgato o pubblicato nella Gazzetta Ufficiale) *

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0631&tipo=stenografico#sed0631.stenografico.tit00100.sub00080

(*testo in pdf)             www.parlamento.it/parlam/leggi/messaggi/c2617a.htm

 

2° Commissione Giustizia.

Indagine conoscitiva sull’attuazione della legislazione in materia di adozioni ed affido.

23 maggio 2016. Audizione di Beatrice Lorenzin, Ministro della salute, di Vincenzo Amendola, Sottosegretario di Stato del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di Massimo Cesare Bianca, libero docente di diritto civile e di rappresentanti del Centro italiano aiuti all’infanzia (CIAI).

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c02_adozioni&anno=2016&mese=05&giorno=23&idCommissione=02&numero=0004&file=indice_stenografico

25 maggio 2016. Audizione di Franca Biondelli, Sottosegretario di Stato del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, di Vincenzo Casone, professore di diritto di famiglia presso l’Università Lum Jean Monnet di Bari e di rappresentanti dell’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (ANFAA).

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c02_adozioni&anno=2016&mese=05&giorno=25&idCommissione=02&numero=0005&file=indice_stenografico

 

Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza

Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

24 maggio 2016. Audizione del Presidente dell’Associazione Amici della Zizzi Onlus, Riccardo Ripoli, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.                           relazione da pubblicare

www.camera.it/leg17/203?idLegislatura=17&idCommissione=36&tipoElenco=indaginiConoscitiveCronologico&annoMese=&breve=&calendario=false&soloSten=

 

*L’iter parlamentare è durato due anni. Il disegno di legge recante Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale (A.C. 2617-C ed abb .) era stato approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 9 aprile 2015, dopo l’esame, in sede referente, presso la XII Commissione affari sociali. Trasmesso al Senato (A.S. 1870), il disegno di legge delega era stato assegnato in sede referente alla Commissione Affari costituzionali, ed approvato, con modifiche, dall’Assemblea del Senato il 30 marzo scorso. Trasmesso alla Camera in seconda lettura, il provvedimento è stato esaminato, in sede referente, dalla XII Commissione affari sociali che ne ha concluso l’esame il 19 maggio scorso, senza l’approvazione di modifiche. Si è concluso l’iter in terza lettura alla Camera con l’approvazione definitiva.                            La legge si compone di 12 articoli.

L’articolo 1 individua e disciplina la finalità e le linee generali dell’intervento normativo, prevedendo che il Governo adotti, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi al fine di sostenere la autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune e ad elevare i livelli di coesione e protezione sociale favorendo l’inclusione e il pieno sviluppo della persona. Il Governo potrà poi adottare, entro dodici mesi dall’entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi attuativi, disposizioni integrative e correttive dei decreti medesimi.

Il Terzo settore viene definito nella legge delega come “il complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d’interesse generale, mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi, in coerenza con le finalità stabilite nei rispettivi statuti o atti costitutivi”.

Tra le finalità perseguite dal disegno di legge vengono specificamente enunciate quelle di procedere ad una revisione della disciplina contenuta nel codice civile in tema di associazioni e fondazioni nonché della disciplina in tema di impresa sociale e di servizio civile nazionale.

                L’articolo 2 prevede i principi e criteri direttivi generali, mentre l’articolo 3 detta i principi e i criteri direttivi per la revisione della disciplina contenuta nel codice civile in materia di associazioni e fondazioni, tra i quali ricordiamo:

– la semplificazione e la revisione del procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica;

– la previsione di obblighi di trasparenza e informazione anche con forme di pubblicità dei bilanci;

– la previsione dell’applicazione alle associazioni e fondazioni che esercitano stabilmente attività di impresa, delle norme di cui ai titoli V e VI del libro V del codice civile (in materia di società e di cooperative e mutue assicuratrici) in quanto compatibili;

– la disciplina del procedimento per ottenere la trasformazione diretta e la fusione tra associazioni e fondazioni, nel rispetto del principio generale della trasformabilità tra enti collettivi diversi introdotto dalla riforma del diritto societario di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6.

                L’articolo 4 disciplina i principi e criteri direttivi ai quali dovranno uniformarsi i decreti legislativi dedicati al riordino e alla revisione della disciplina vigente in materia di enti del Terzo settore mediante la redazione di un apposito Codice, volti tra l’altro

– all’individuazione delle attività di interesse generale che caratterizzano gli enti del terzo settore;

– alla previsione del divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, degli utili o degli avanzi di gestione, salva la specifica previsione in tema di impresa sociale;

– alla disciplina degli obblighi di controllo interno, rendicontazione, trasparenza e delle modalità di verifica periodica dell’attività svolta;

– alla riorganizzazione del sistema di registrazione degli enti anche attraverso la messa a punto di un registro unico;

– alla revisione del sistema dei centri di servizio per il volontariato.

                L’articolo 9 reca i principi e i criteri direttivi cui si deve uniformare il legislatore delegato per introdurre misure agevolative e di sostegno economico e per procedere finalmente al riordino e all’armonizzazione della relativa disciplina tributaria e delle diverse forme di fiscalità di vantaggio. Tra questi ricordiamo in particolare che è prevista la revisione della disciplina delle ONLUS.

                L’articolo 10, istituisce la “Fondazione Italia sociale”, una fondazione di diritto privato con finalità pubbliche, che, mediante l’apporto di risorse finanziarie e competenze gestionali, avrà il compito di sostenere, attrarre e organizzare le iniziative filantropiche e gli strumenti innovativi di finanza sociale.

 

Riportiamo, di seguito, la dichiarazione del Portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, Pietro Barbieri:

“Siamo molto soddisfatti di essere giunti al termine di questo lungo processo cominciato due anni fa e largamente atteso e voluto dal nostro mondo. Il testo che l’Aula della Camera ha approvato segna un risultato positivo e molto importante per le migliaia di organizzazioni, associazioni, imprese e cooperative che costituiscono il terzo settore perché ne definisce anzitutto natura, ambiti di azione, finalità e confini, consegnandoci una definizione giuridica chiara e unitaria, finora assente. Il testo licenziato è più equilibrato di quello proposto ad inizio percorso, nel quale prevaleva un forte sbilanciamento a favore degli aspetti economici, e a svantaggio della vera essenza del terzo settore: luogo e spazio di aggregazione e partecipazione per milioni di cittadini attivi e bacino di solidarietà, civismo e coesione.

Molti gli aspetti positivi: dal tentativo di superare l’innata frammentazione del terzo settore attraverso il riordino e la revisione organica delle diverse discipline esistenti in un unico Codice del terzo settore, all’istituzione di un registro nazionale unico – passaggio necessario a contribuire alla trasparenza di questo mondo -, alla revisione delle misure di agevolazione fiscale, al riordino in materia di servizio civile, alla scelta di un’unica sede di rappresentanza istituzionale come il Consiglio nazionale, purché preveda un coinvolgimento degli organismi di rappresentanza del terzo settore. Ulteriore aspetto di apprezzamento è che le politiche di governo, promozione e indirizzo siano in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

La Riforma chiarisce anche quali siano i compiti e ruoli affidati ai Centri di Servizio per il Volontariato e adotta il principio della “porta aperta” per quanto riguarda la base sociale. Bene che i CSV dovranno accreditarsi ed essere assoggettati a verifica periodica del mantenimento dei requisiti, anche sotto il profilo della qualità dei servizi dagli stessi erogati. Ben equilibrato il punto cui si è arrivati sull’impresa sociale. Rimangono i dubbi e le perplessità che già avevamo espresso sulla Fondazione Italia Sociale. Auspichiamo possano essere fugati in un secondo tempo, nella fase di definizione delle funzioni e del suo statuto. Quanto ai temi di trasparenza, monitoraggio e controllo, le funzioni di vigilanza e controllo saranno affidate al Ministero del lavoro e politiche sociali, e sono previste forme di autocontrollo positive per la valorizzazione delle reti.

Non possiamo quindi non ringraziare tutti coloro che hanno voluto e lavorato per l’attuazione di questa Riforma che indubbiamente segna un momento storico decisivo per il terzo settore, in particolare il sottosegretario on. Luigi Bobba e i due relatori di Camera e Senato, on. Donata Lenzi e sen. Stefano Lepri. Siamo però ben consapevoli che il nostro lavoro non termina oggi. I Decreti Delegati rappresenteranno il vero banco di prova per capire come in concreto il nostro mondo cambierà con questa Riforma, e in questa fase sarà decisivo il metodo con cui si lavorerà alla loro stesura. Auspichiamo che il Forum del Terzo Settore, già riconosciuto nel suo ruolo di rappresentanza in questi mesi di lavoro parlamentare, possa continuare ad essere considerato interlocutore fondamentale per un costruttivo confronto nell’interesse di tutto il terzo settore italiano”.

Avv. Maddalena Tagliabue 26 maggio 2016

www.nonprofitonline.it/default.asp?id=466&id_n=6806

Le reazioni del mondo non profit: una raccolta dei commenti espressi dalle principali associazioni ed enti del variegato mondo non profit sull’importante approvazione della legge delega al Governo per la Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale.           Vedi

Non profit on line                  26 maggio 2016

www.nonprofitonline.it/default.asp?id=466&id_n=6805

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POLITICHE FAMILIARI

Politiche familiari, una svolta a costo zero

Più famiglia, più benessere sociale. E rovesciando i fattori, il risultato non cambia. Anzi migliora. Quanto più la famiglia viene aiutata e sostenuta, tanto più aumenta la natalità e diminuisce la conflittualità familiare, separazione e divorzi compresi. Quanto più la famiglia viene posta nelle condizioni di svolgere al meglio i propri compiti, tanto più si costruisce un futuro sereno per tutti, e si prepara una società con città più vivibili, servizi che funzionano, occasioni di crescita per i giovani, miglior assistenza per gli anziani. Ne siamo convinti da sempre. Ora però il “Dossier politiche familiari 2016” della Provincia autonoma di Trento dimostra con la forza dei numeri che quelle convinzioni sono verità comprovata dai dati e non, come qualcuno vorrebbe, preconcetti ideologici.

            Prendiamo il numero di figli per donna. La media italiana è 1,35. In Trentino siamo a 1,64, record nazionale. Oppure il tasso di crescita naturale. La media italiana, negativa, è stata nel 2015, meno 2,7 ogni mille abitanti. Unica regione con un saldo positivo, il Trentino, con un più 0,7 ogni mille abitanti. E ancora, la percentuale di separazioni e divorzi. Dal 2008 al 2013 l’aumento a livello nazionale è stato costante. Invece, in questo angolo di Nordest, la conflittualità ha rallentato e, in alcuni casi, ha presentato dati in controtendenza. Sarà solo un caso? Facile, si dirà, il Trentino è provincia a statuto autonomo e quindi può investire quante risorse vuole nelle politiche familiari. Obiezione subito respinta.

            La maggior parte delle iniziative “family friendly” realizzate in Trentino in questi dieci anni sono state a costo zero per il bilancio, in quanto le risorse disponibili sono semplicemente state allocate meglio, puntando sulla famiglia. Il circuito positivo innestato ha così finito per determinare progresso e benessere per tutti. Anche le aziende ne hanno beneficiato. Nelle attività imprenditoriali che hanno adottato i protocolli del sistema integrato per la promozione del benessere familiare e della natalità – legge provinciale 2 marzo 2011 – sono diminuite le ore di malattia e quelle di straordinario, è aumentata la produttività e l’impegno dei dipendenti.

            Intendiamoci, il Trentino non è il paradiso delle famiglie. Anche lassù genitori e figli vivono situazioni di tensione e di crisi. Le buone prassi familiari, le tariffe favorevoli, l’armonizzazione famiglia-lavoro, i redditi di garanzia, le iniziative per la maternità, i prestiti agevolati per le giovani coppie e tutto quanto previsto dal sistema integrato per le politiche familiari (ne parliamo diffusamente a pagina 12) non hanno spezzato d’incanto il pesante accerchiamento culturale che oggi rende il “far famiglia” più complicato e più impegnativo per tutti.

            Le lobby culturali che, spesso in modo non dichiarato ma con potenti mezzi mediatici e penetranti strategie persuasive, propagano un assoluto relativismo affettivo e il nichilismo di modelli “anti-family” e “no-aids”, sono pericoli globalizzati, che dilagano ovunque. Ma in Trentino, dopo dieci anni di coerenza strutturale a favore delle famiglie, non è azzardato concludere che queste tendenze culturali negative abbiano determinato meno che altrove frammentazione e impoverimento del tessuto familiare. I dati, lo ripetiamo, sono difficilmente contestabili. A riprova che la promozione della famiglia non può nascere solo sulla base di considerazioni culturali. Gli oltranzisti di casa nostra si rassegnino. Certe battaglie sui princìpi astratti rappresentano scelte culturalmente elitarie che, nell’ultimo ventennio, hanno forse finito per nuocere all’idea di famiglia più di quanto abbiano giovato.

            Il caso Trentino, che il Forum delle associazioni familiari rilancia sul piano nazionale, ci dimostra invece che il sano pragmatismo delle “buone pratiche”, generando benessere per genitori e figli, umanizza il territorio, rende più accogliente la società e permette di non “lasciare indietro” nessuna situazione esistenziale e di non dimenticare nessun figlio. Ci vuole meno ideologia, più aggregazione e più solidarietà per sviluppare politiche familiari efficaci e utili. Ed è una strada vincente, anche per le altre regioni italiane.

            Luciano Moia                         Avvenire         25 maggio 2016

www.avvenire.it/Commenti/Pagine/Politiche-familiari-svolta-a-costo-zero.aspx

 

Famiglia, se la politica aiuta più natalità, meno conflitti.

Buone prassi per la famiglia. Il Forum lancia a livello nazionale il modello Trentino. L’occasione è offerta dalla presentazione del “Dossier politiche familiari 2016″, dieci anni di iniziative modellate sulle esigenze della famiglia, che dimostra una verità semplice ma incontestabile: quanto più la famiglia viene aiutata e sostenuta, tanto più aumenta la natalità e diminuisce la conflittualità familiare, separazione e divorzi compresi. Non solo. La creazione di sistemi strutturali pensati a partire dalla famiglia e dai suoi bisogni determina una serie di ricadute positive che dal nucleo familiare si allarga a tutta la società, compresi giovani, scuola, cultura, sport, assistenza, sanità, terza età, economia e altro ancora. Conclusione: in Trentino si vive bene non solo perché ci sono magnifici paesaggi e un ambiente naturale amato e protetto. Ma soprattutto grazie alla scelta di porre le famiglie nelle condizioni di stare meglio sotto il profilo sociale e amministrativo. E il fatto che la provincia abbia il privilegio dello statuto autonomo non c’entra nulla. La maggior parte delle iniziative “family friendly” realizzate in Trentino in questi dieci anni sono state varate a costo zero per il bilancio, perché le risorse sono state recuperate da altre voci di spesa, ma hanno poi prodotto vantaggi per tutti: dalle famiglie stesse, alle amministrazioni, alle aziende, all’associazionismo. I dati emersi ieri, durante la presentazione del “Dossier” nella sede milanese di “Famiglia Cristiana”, sono difficilmente contestabili.

Quello trentino è un territorio “family friendly” anche perché il 43,6% si dice molto soddisfatto delle proprie relazioni familiari (media italiana 33,8%, il 22,9% dei bambini da 0 a 2 anni ha avuto modo di poter contare su servizi di qualità (in Italia il 13%); il 21,4& delle persone oltre i 14 anni è impegnato nel volontariato (in Italia il 10,1%); l’uso di Internet riguarda il 65% dei trentini dai 14 ai 65 anni (in Italia il 59,5%). Ma, soprattutto, l’indice di fiducia generalizzata è del 32,9 in Trentino contro una media nazionale del 23,2.

«Si tratta della dimostrazione –ha fatto notare il presidente del Forum delle associazioni familiari, Gianluigi De Palo – che non solo è possibile investire sulla famiglia, ma che questo investimento produce benessere per tutta la società. Ecco perché il modello trentino dev’essere esportato sul piano nazionale. Dev’essere presentato al governo. Mettere al centro i figli è una strategia premiante, che costruisce futuro buono per tutti».

Ma attenzione alle parole. Non si tratta di “politiche sociali” e neppure di “politiche assistenziali”. Solo di politiche per le famiglie. L’ha spiegato Luciano Malfer, responsabile dell’Agenzia provinciale della famiglia, l’organismo chiamato a coordinare tutte le iniziative a favore di genitori e figli. Tanti gli spunti originali inquadrati nella prospettiva della sussidiarietà familiare e della famiglia vista come risorsa e non come problema. Ecco il pacchetto amplissimo delle agevolazioni tariffarie, l’assegno regionale al nucleo familiare, i contributi alle famiglie numerose, i prestiti d’onore, gli assegni di mantenimento a favore dei minori, gli assegni di cura e i sostegni per l’acquisto dei testi scolastici, l’assegno di studio per chi decide di mandare i figli alle scuole paritarie, i contributi regionali per l’integrazione della pensione e per il canone d’affitto. Altri capitoli corposi riguardano i servizi alla prima infanzia, la conciliazione famiglia-lavoro, i servizi per i giovani, i distretti-famiglia (sistema famiglia come risorsa produttiva che finisce per orientare anche gli appalti pubblici). E poi tutta l’area del tempo libero, dello sport, della cultura.

Insomma, un complesso intreccio di iniziative a cui il Forum delle associazioni familiari del Trentino – come spiegato dal responsabile Paolo Rebecchi – ha contribuito in modo determinante. «Davvero un pacchetto organico e razionale – ha osservato don Antonio Sciortino, direttore di “Famiglia Cristiana” – che è giunto il momento di esportare a livello nazionale». Infine il direttore del Cisf, Francesco Belletti, ha annunciato uno studio per mettere a confronto le diverse politiche locali per la famiglia, con l’obiettivo di sollecitare una più attenta programmazione

Luciano Moia                         Avvenire         25 maggio 2016

www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Famiglia-se-la-politica-aiuta-pi-natalit-meno-conflitti-.aspx

Per scaricare il dossier politiche familiari, clicca su

www.trentinofamiglia.it/attualita/archivio-2016/maggio/oggi-a-milano-la-presentazione-del-dossier-politiche-familiari

  • Ø  160524-cisfcomunicato.pdf (64,03 kb)
  • Ø  documentazione.pdf (1,85 mb)

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SCIENZA&VITA

“Nati da donna”: Scienza & Vita rilancia la questione della fertilità.

Che sia giunto il momento di ridisegnare l’identità femminile in una società, come quella italiana, che vede drammaticamente la donna al centro: dall’utero in affitto al femminicidio, dalla compravendita degli ovociti sino al deserto demografico? Cosa è rimasto delle battaglie femministe del fine secolo scorso, quando l’autodeterminazione e la conquista dei diritti individuali hanno finito per prosciugarne le valenze positive, ormai rifluite dentro le dottrine decostruzioniste del gender? Cosa ne è di quel pensiero femminile cristiano che negli anni ’90 aveva ricevuto impulso dal magistero di Giovanni Paolo II?

            Parlare di “donna”, come si fa in molti dibattiti televisivi, non è lo stesso di affrontare la questione della sua “identità”; perché qualcosa davvero muti, occorre una nuova sensibilità sociale, un’attenzione politica più radicale affinché un laboratorio di idee e un approfondimento teorico generi una nuova cultura. Le donne (e gli uomini) credenti hanno questa responsabilità, da giocare sino in fondo, alla riscoperta di una fisionomia del mondo femminile che sia dinamica e aperta alle nuove provocazioni dell’oggi.

            È quanto intende promuovere l’Associazione Scienza & vita con il XIV convegno nazionale, aperto a tutti gli aderenti delle sedi territoriali, che si raduneranno a Roma venerdì e sabato. Il tema: “Nati da donna. Femminilità e bellezza” intende proprio ripartire da una riflessione niente affatto celebrativa e retorica, astratta e consolatoria. La drammaticità della violenza che si continua a scaricare sull’altra faccia della luna, non permette simili scappatoie, quando la serietà di una ricerca che coniughi vissuto e pensiero, esperienza e riflessione, divenga capace di restituire un volto differente alla donna e alle sue aspettative personali e sociali.

            Pensare ai tanti, troppi volti sfigurati del femminile, in Italia ma anche in molte altre parti del mondo, che continuano a perpetrare gli ancestrali tabù della violenza sul corpo delle donne, esige un impatto responsabile e coraggioso: se è sul loro corpo che si abbattono secoli di sopraffazione e indifferenza, salvo poi accorgersi che molto si è perduto e che, ad esempio, in Italia si è rotta la catena generazionale, è sul corpo che si deve ripensare la sua fisionomia identitaria. Se negli anni ’80 il pensiero cristiano sulla donna si era prevalentemente concentrato sui temi della relazione e della differenza, è giunto il momento di recuperare il potenziale simbolico della corporeità, che inerisce proprio alla nascita e che ha a che fare con le virtualità misteriose del suo corpo. La cui bellezza, espressa nella complessità dei suoi meccanismi fisiologici e anatomici, troppo spesso muta direzione dal suo orientamento originario, esponendola a volte alla strumentalizzazione e alla mercificazione. I fenomeni indotti che ruotano intorno all’esposizione del corpo-immagine, paradigma imperante nei media e arma vincente della pubblicità, sono sotto gli occhi di tutti.

            Ciò significa in primo luogo rifiutare il pregiudizio culturale, legato al dualismo mente-corpo, che ha finito con lo smarrire la dimensione simbolica del corpo vissuto, quella che rivela l’unità della persona, donna o uomo che sia, e che fa del sua immagine esterna e visibile la rivelazione dell’invisibile, ridonando alla corporeità la sua funzione di esposizione reale e veritativa del suo essere. Il corpo femminile – è bene ripeterlo, visto che tutti, proprio tutti, siamo nati da donna – esprime una verità indiscussa e cioè che la nostra prima esperienza nel mondo è stata possibile perché un corpo si è fatto casa per noi e attraverso la gestazione (essere custoditi da un corpo) e la nascita (essere aiutati a venire al mondo, diventando un altro corpo) abbiamo tutti guadagnato il privilegio di far parte della vita.

            Aprirsi alla generazione vuol dire allora comprendere che fare un figlio non è tanto espressione di un desiderio individuale (pur legittimo) o un diritto da esercitare in un tempo che ci appartiene, ma un privilegio da custodire, una ricchezza da elargire a tempo opportuno, quello che il proprio corpo indica e promette. Riprendere in mano il valore della fecondità significa anche rispondere a una carenza di bene che avvolge il nostro vivere sociale e, ancora di più, indicare che, se la donna è capace di essere casa per un altro, anche nella società si può, si deve giungere a fare della casa comune un luogo che sia un posto accogliente per tutti.

            Ripartire da una nuova consapevolezza del proprio corpo può voler dire ancora che, oltre la maternità, l’aspetto fisico, che ci appartiene da sempre, può diventare la cifra di una presenza attiva nella comunità civile, solo quando riesca a dare corpo ai diritti sociali delle donne, dopo l’esasperata espansione dei diritti individuali. Che significa, ad esempio, rivedere al femminile non solo il diritto al lavoro, ma anche del lavoro, dentro i ritmi del lavoro, così da ridisegnarlo secondo quelle esigenze che la rendono così preziosa per tutta la società civile.

Paola Ricci Sindoni                26 maggio 2016

www.avvenire.it/Vita/Pagine/Nati-da-donna-Scienza-amp-Vitabr-rilancia-la-questione-della-fertilita.aspx

www.scienzaevita.org/video/nati-da-donna-femminilita-e-bellezza-in-30-secondi

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UNIONI CIVILI E CONVIVENZE

                                                       Unioni civili: la scheda delle novità

Le principali novità introdotte dalla Legge 20 maggio 2016, n. 76 Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze pubblicata in Gazzetta Ufficiale 21 maggio 2016, n. 118.                                                           ….www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/05/21/16G00082/sg

Giuseppe Buffone       Altalex                        23 maggio 2016.

Allegato link                                     unioni-civili-scheda-novita pdf PDF (526,1Kb)

www.altalex.com/documents/news/2016/05/16/unioni-civili-la-scheda-delle-novita?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

 

Unioni civili: riconoscimento di diritti o grande bluff.

La Legge 20 maggio 2016, n. 76 all’art. 1, primo comma, riconosce giuridicamente le unioni tra coppie omossessuali, come formazione sociale, ai sensi dell’art. 2 della Cost. e prevede una serie di diritti e doveri, per tali coppie. Il presente testo di legge, ad una prima lettura, rappresenta il riconoscimento di diritti per tali unioni, dopo anni di battaglie culturali, politiche e religiose in tal senso.

Un’interpretazione critica e costituzionalmente orientata, della “ratio” del testo legislativo, invece, può condurre ad un risultato, diametralmente, opposto. La suddetta normativa, infatti, evidenzia e sottolinea giuridicamente la diversità tra le coppie omosessuali e quelle eterosessuali.

            L’ordinamento giuridico, infatti, riconosce ad un uomo ed una donna il diritto di contrarre matrimonio, acquistando tutti i diritti e doveri, inerenti a tale istituto giuridico, mentre a persone dello stesso sesso nega tale facoltà, ma riconosce loro rilevanza giuridica, fino ad oggi non prevista ed attribuisce agli stessi analoghi diritti dei coniugi, ma conseguibili, con uno strumento giuridico diverso dal matrimonio. Con la presente legge, dunque, è stabilito, anche, giuridicamente che le coppie eterosessuali sono diverse da quelle omossessuali, in quanto le prime conseguono determinati diritti e doveri, con il matrimonio, mentre le seconde non possono contrarre matrimonio, ma conseguono eguali diritti, in modo diverso, mediante dichiarazione, prestata dinanzi all’ufficiale dello stato civile, alla presenza di due testimoni, ex art. 1, comma 2, della citata legge. In sostanza la legge “de qua” riconosce, alle coppie dello stesso sesso, gli stessi diritti e doveri dei coniugi, ma ne mette in risalto, con espressa previsione di legge, la diversità, non permettendo alle prime di poterne usufruire tramite il matrimonio, che rimane vietato per tali unioni.

            Considerazioni, altrettanto critiche, possono essere svolte per il riconoscimento delle convivenze di fatto, previste ai commi 37 – 67 dell’art. 1, della citata legge. La presente legge, infatti, pone delle regole per rapporti, che, per definizione e per libera scelta dei conviventi, non devono essere regolati. Una coppia eterosessuale, secondo il Codice Civile, ha la facoltà di conseguire i diritti e doveri previsti dalla presente legge, contraendo il matrimonio civile, se, invece, non riconoscendo tale istituto e tutti i diritti ed i doveri che ne conseguono, sceglie, liberamente e per i più svariati motivi, di non sposarsi, è del tutto illogico, acquistarli egualmente, per effetto della presenza legge.

            Tutti i diritti ed i doveri previsti dal presente testo di legge, per le convivenze di fatto, potevano essere conseguiti mediante negozi giuridici, previsti dal Codice Civile, con libertà, per gli interessati di scegliere quali regole applicare al proprio rapporto e quali evitare, in perfetta sintonia giuridica e logica, con unioni per definizione prive di regole. Il comma 38, del citato art. 1, prevede, ad esempio, che il convivente ha gli stessi diritti del coniuge, nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario. Gli artt. 18, 28, 29 e 30 della L. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) prevedono, già, la facoltà del detenuto di indicare persone diverse dai parenti e dal coniuge, per comunicazioni, avvisi e visite, rendendo inutile ed ultronea la nuova disposizione di cui al comma 38, menzionato innanzi.

            Ulteriore esempio, in tal senso, può essere rappresentato dal comma 39, del citato art. 1, che prevede, altresì, che i conviventi, in caso di malattia, ricovero ospedaliero, etc. abbiano il reciproco diritto di visita, assistenza ed accesso alle informazioni personali, previste per i coniugi ed i familiari. Qualunque persona, però, poteva, anche prima della citata norma, stipulare una procura speciale, con la quale designare la persona convivente, affinché fosse autorizzata a svolgere le attività suddette.

            Questa soluzione, rimessa all’autonomia privata, riconosciuta dall’art. 1322 del c.c., presentava il vantaggio di lasciare liberi i conviventi di regolare determinate materie e di non disciplinarne altre, senza i vincoli della citata normativa, che si ripete, pone delle regole, in rapporti, che, per loro natura e per volontà dei protagonisti, non devono essere regolati.

            Stesse osservazioni posso essere svolte riguardo al contratto di convivenza, di cui al comma 50 e ss., della presente normativa.

            Ultime considerazioni, solo per ragioni sistematiche e non certamente, per importanza, devono essere svolte in ordine ai possibili effetti che questa legge potrà avere, in futuro, in ordine alle adozioni di minori, da parte di coppie dello stesso sesso. Il comma 20 dispone che quanto previsto, nella presente legge, che riconosce, alle coppie omossessuali, gli analoghi diritti dei coniugi, non deve essere applicato alle disposizioni della legge sulle adozioni (L. 184/1983). Questa norma conferma che il testo di legge “de quo” non disciplina la materia delle adozioni e pertanto, attualmente, nel diritto italiano, non sussiste alcuna norma che autorizzi le adozioni, da parte delle coppie omossessuali. La suddetta materia, delicatissima, perché coinvolge i diritti dei minori, che l’ordinamento deve tutelare, con preferenza su ogni altro aspetto, a parere di chi scrive, deve essere trattata, prima che da un punto di vista giuridico e legislativo, da un punto di vista pediatrico, psicologico e sociologico, tramite studi di esperti in tali materie.

            Solo dopo che tali specialisti, senza nessuna strumentalizzazione politica e sociale, abbiano accertato che i minori, adottati da coppie dello stesso sesso, hanno lo stesso sviluppo sociale, psicologico, nonché educativo di quelli, con genitori di sesso diverso e comunque, non sussiste alcun rischio di pregiudizio di qualsiasi genere nella loro crescita, il Legislatore potrà affrontare la questione delle adozioni, anche per le coppie omossessuali.

Gianclaudio Pazzaglia                       Altalex                        26 maggio 2016

www.altalex.com/documents/news/2016/05/26/unioni-civili-diritti

 

Le “convivenze di fatto”: criticità in ordine alla certezza dell’istituto

Prime riflessioni sulla L. 76/2016. Anche il nostro ordinamento, grazie alla legge Cirinnà (L. n. 76/2016), possiede adesso una regolamentazione di quel fenomeno, ormai da tempo conosciuto della nostra realtà sociale, definibile come “convivenza di fatto“. In realtà, erano tante, e innegabilmente legittime, le istanze di un adeguato riconoscimento dei diritti di quei soggetti che vivono, o intendono vivere, le loro relazioni di coppia, ma, per le ragioni più varie, non intendono legarsi con la stipula di un negozio matrimoniale. Ed ecco che, a colmare tale improrogabile vuoto giuridico, arriva, non senza ritardo, la legge Cirinnà.

È opportuno premettere che il nuovo testo normativo si occupa in simultanea di due fattispecie entrambe di estrema importanza e delicatezza; ovvero le “unioni civili” e le “convivenze di fatto“.

            Il primo degli istituti citati, essendo stato il protagonista indiscusso di uno dei più aspri dibattiti politici, giuridici e culturali che il nostro Paese ricordi, risulta anche quello maggiormente “ispezionato” dagli esperti in materia e perciò noto ai cittadini. Sarebbe però un errore, se un eguale livello di attenzione e discussione, non fosse garantito anche a quegli articoli della legge n. 76/2016 rivolti alle convivenze di fatto; dato l’innegabile impatto che gli stessi, volente o nolente, avranno sul progresso socio – culturale della Nazione. Fatte tali premesse e senza alcuna presunzione, si proverà ad individuare i punti salienti della riforma e successivamente ad evidenziarne qualche eventuale criticità.

In virtù della L. 76/2016, alle “… persone maggiorenni [non necessariamente di sesso diverso] unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale …” (art. 1 comma 36 L. 76/2016) sono garantiti una serie di reciproci diritti e doveri. Solo a titolo di esempio, tra le situazioni giuridiche riconosciute ai conviventi si annoverano: quelle attribuite al coniuge dall’ordinamento penitenziario; la facoltà di visita e di assistenza in caso di malattia del compagno/a; il diritto di abitazione da parte del convivente superstite nell’immobile adibito a comune residenza; la partecipazione agli utili dell’impresa familiare quando il convivente vi abbia prestato la propria attività lavorativa al di fuori di vincoli societari e/o di dipendenza.

Molto interessante appare la disposizione che consente al convivente di fatto, munito di idoneo “atto di designazione, di assumere decisioni in merito alla salute (o per meglio dire, alle attività terapeutiche) inerenti al compagno/a che si trovi in stato di incapacità; ovvero di esprimere il consenso in ordine alla donazione di organi, al trattamento del corpo e alle celebrazioni funerarie del medesimo (comma 40). Qualora i conviventi volessero disciplinare anche i loro rapporti patrimoniali (optando ad esempio per il regime della comunione legale dei beni), lo potranno fare stipulando un apposito “contratto di convivenza” (comma 50), la cui certezza, legittimità e pubblicità, viene assicurata da un articolato sistema di procedure espletate da professionisti del diritto (avvocati e notai). Infine, il legislatore non ha tralasciato di predisporre una tutela in favore del convivente economicamente più debole per le ipotesi di cessazione del rapporto. In tali casi, qualora il convivente versi in stato di bisogno, potrà pretendere dal compagno/a il versamento degli alimenti per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (comma 65).

Individuata per sommi capi la disciplina delle coppie di fatto, resta però da chiarire come sussumere il fenomeno sociale, all’interno dell’istituto di diritto. In altri termini, occorre stabilire il momento in cui due persone assumono i diritti e gli obblighi elencati dalla L. 76/2016.Con un buon grado di certezza, si può escludere che si diventi “conviventi di fatto” a seguito della sottoscrizione del contratto di cui al comma 50 della novella. La facoltatività di tale atto (i conviventi “possono disciplinare i rapporti patrimoniali […] con la sottoscrizione di un contratto di convivenza“), unita alla disposizione di cui al comma 37 del medesimo testo, in cui si chiarisce che ai fini dell’accertamento della stabile convivenza “si fa riferimento alle dichiarazione anagrafiche” pur non riconoscendo alle stesse alcun valore di esclusività, porta a ritenere che la fattispecie in oggetto sfugge a criteri di individuazione univoci e agevolmente cristallizzabili in un testo di legge. Allo stato degli atti, spetterà quindi ai Giudici chiarire ad esempio quanto tempo occorrerà affinché una convivenza diventi stabile, ovvero stabilire il momento in cui l’intensità e la natura dei legami che uniscono due persone siano tali da generare una “coppia di fatto“. Tutto questo, va poi unito alla considerazione che l’istituzionalizzazione delle convivenze di fatto, non dovrebbe in nessun caso comportare la soppressione della libertà (anch’essa legittima) di quelle persone che, in piena chiarezza e autonomia, intendono costruire le loro relazioni di coppia (non necessariamente affettive, ma anche lavorative, di studio, ecc.), senza sentirsi obbligati, condizionati e imbrigliati da qualunque obbligo di legge. L’applicazione pratica della norma si preannuncia, pertanto, una operazione tutt’altro che agevole e non resta che affidarsi all’esperienza e al buon senso della classe dei magistrati, i quali, come in altre occasioni, sapranno individuare il
giusto punto di equilibrio tra le varie posizioni in gioco.

            Avv. Marco Capone Studio Cataldi.it   25 maggio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22185-le-quotconvivenze-di-fatto-quot-criticita-in-ordine-alla-certezza-dell-istituto.asp

 

Avvocati: guida pratica per la stipula di un contratto di convivenza con fac-simile

In vista dell’entrata in vigore della legge Cirinnà, ecco i passaggi fondamentali per la stipula degli accordi in essa previsti. – Da domenica 5 giugno entreranno ufficialmente in vigore le nuove regole sulle unioni civili e le convivenze di fatto, introdotte nel nostro ordinamento dalla legge Cirinnà, numero 76/2016.

            Con il loro avvento, avvocati e notai assumeranno un nuovo fondamentale compito: quello di fare da garanti dell’accordo di convivenza. Infatti, sia la sua sottoscrizione che l’eventuale modifica che la risoluzione devono essere fatte per iscritto, in forma di scrittura privata o in forma di atto pubblico, con l’assistenza di uno dei due predetti professionisti.

Iscrizione del contratto nell’anagrafe. Saranno peraltro proprio avvocati e notai ad essere onerati dell’iscrizione del contratto, entro dieci giorni dalla sua stipula, nell’anagrafe di residenza dei conviventi consegnandolo di persona o inviandolo a mezzo fax, in via telematica o per posta. Se non vi provvedono, l’accordo non ha alcuna valenza nei confronti dei terzi.

Liceità degli accordi. Il compito di avvocati e notai, tuttavia, non si esaurisce nell’autenticazione delle firme dei conviventi e nell’iscrizione del contratto, ma esso è ben più esteso. Sono infatti tali professionisti del diritto che devono verificare che l’accordo sia lecito e conforme alle norme imperative e all’ordine pubblico. Tra le varie declinazioni che i contratti di convivenza possono assumere e che avvocati e notai sono chiamati a verificare, un aspetto deve essere chiaro a tutti: per legge essi non possono essere sottoposti a termini o condizioni.

            Gli accordi possono, invece, indicare la residenza della coppia, il regime patrimoniale prescelto, le modalità con le quali ciascun componente è chiamato a contribuire alle necessità della vita comune.

Nullità. Come detto, il contratto di convivenza va redatto in forma scritta con atto pubblico o scrittura privata: la violazione di tale requisito determina la nullità dell’accordo. Le ipotesi di nullità, tuttavia, non si esauriscono in questa. Il contratto di convivenza è infatti nullo anche se è concluso da un minore, un interdetto o un soggetto condannato per omicidio (anche tentato) del coniuge dell’altro convivente. La nullità si ha, poi, anche se il contratto è concluso tra non conviventi o in presenza di un altro contratto di convivenza, di un’unione civile o di un vincolo matrimoniale.

Risoluzione del contratto. Notai e avvocati, come accennato, svolgono un ruolo fondamentale anche in caso di risoluzione del contratto. Essa, infatti, può aversi, tra le varie ipotesi, anche a seguito di recesso unilaterale che deve essere esercitato attraverso una dichiarazione ricevuta da notaio o autenticata da un notaio o da un avvocato.

Aspetti dubbi. Operativamente, per il primo periodo successivo all’entrata in vigore ormai prossima della legge sarà difficile poterne fare un uso “sereno”: diversi aspetti essenziali, infatti, sono stati demandati al Governo. Si pensi, per quanto qui interessa, all’invio dei contratti di convivenza per l’iscrizione all’anagrafe, che non per tutti trova adeguata regolamentazione nelle norme esistenti.

            Entro il 5 luglio, tuttavia, un decreto del presidente del consiglio dei ministri, emanato su proposta del ministro dell’interno, dovrà fornire le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile e, si spera, chiarirà anche questo aspetto.

Fac-simile       Accordo di convivenza ex L. 76/2016                      segue

 

Avv. Valeria Zeppilli             studio Cataldi -25 maggio 2016

www.studiocataldi.it/articoli/22178-guida-pratica-per-la-stipula-di-un-contratto-di-convivenza-con-fac-simile.asp

 

Vietato apporre condizioni e scadenze ma il patto si può sempre cambiare.

Per la validità di un contratto di convivenza, secondo la legge Cirinnà, occorre che i contraenti siano conviventi “registrati”, maggiorenni e non interdetti; inoltre, non devono essere né parenti o affini (di qualsiasi linea e grado) né legati da vincoli di adozione. Ancora, non devono essere uniti, con soggetti diversi dal rispettivo convivente, da un vincolo matrimoniale, né partecipi di un’unione civile o di altri contratti di convivenza in corso di vigenza. Il contratto di convivenza non può essere stipulato nemmeno se un contraente è stato condannato per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altro (articolo 1, comma 57).

Il contratto di convivenza «non può essere sottoposto a termine o condizione» (articolo 1, comma 56), cioè non tollera di avere una scadenza (ad esempio: «restiamo in regime di comunione dei beni per quattro anni») né di essere subordinato a eventi futuri («Tizio si obbliga a versare un contributo economico doppio alla vita familiare se nascerà un figlio»). In questi casi, è però prescritto che la condizione e il termine non infettano il contratto: esso rimane valido, mentre condizione e termine vanno considerati come non esistenti.

Non potendosi stipulare pattuizioni subordinate a vincoli temporali o in considerazione di eventi futuri e incerti, la legge costringe dunque i conviventi a verificare periodicamente il contratto ed eventualmente a innovarlo per situazioni sopravvenute. Perciò prevede che, con accordo tra le parti, lo si possa in ogni tempo modificare (o addirittura risolvere radicalmente) col rispetto delle stesse forme e oneri pubblicitari prescritti per la sua stipula (articolo 1, comma 59).

Peraltro, se non si raggiunge un accordo modificativo o risolutorio tra i conviventi e il contratto preveda una regolamentazione che uno dei conviventi non condivida più, a costui la legge riserva la facoltà di recesso unilaterale (articolo 1, comma 61). Anche in questo caso occorre rivestire la dichiarazione di recesso con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e pure occorre farne registrazione all’anagrafe del Comune nel quale si registrò la convivenza. Inoltre, la dichiarazione di recesso, essendo un atto unilaterale, va notificata all’altro contraente, affinché anche questi ne abbia debita conoscenza.

Nel caso del recesso, la legge si preoccupa della particolare situazione che sorge se il recedente sia titolare della casa ove la convivenza si svolge e che sia abitata anche dall’altro convivente: secondo l’articolo 1, comma 61, la dichiarazione di recesso deve contenere, a pena di nullità, il termine, non inferiore a 90 giorni, concesso al convivente cui viene notificato il recesso dell’altro contraente, entro il quale l’abitazione deve essere lasciata.

Comunque, se la convivenza registrata cessa, qualora uno degli ex conviventi versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, il giudice stabilisce il diritto di costui di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, i quali devono essere assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza (articolo 1, comma 65). Questa situazione non dovrebbe poter essere oggetto di regolamentazione con il contratto di convivenza, in quanto, da un lato, il contratto di convivenza parrebbe deputato a regolare i rapporti patrimoniali durante la convivenza e non dopo la sua cessazione; e, dall’altro, perché l’intervento del giudice evoca la natura pubblicistica, e quindi indisponibile, di questa materia. Forse è ipotizzabile che il contratto di convivenza disponga una contribuzione al coniuge bisognoso in misura maggiore rispetto a quella meramente alimentare: ma siamo in uno stadio talmente arretrato di conoscenza e di esperienza su questa materia che è assolutamente affrettato trarre fin da ora conclusioni definitive su questo punto.

Angelo Busani                        il sole 24ore    24 maggio 2016

www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2016-05-24/vietato-apporre-condizioni-e-scadenze-ma-patto-si-puo-sempre-cambiare-181128.shtml?uuid=ADtZpIM

http://www.oua.it/unioni-civili-vietato-apporre-condizioni-e-scadenze-ma-il-patto-si-puo-sempre-cambiare-il-sole-24-ore/

 

Così il contratto di convivenza per le coppie di fatto registrate.

L’inedita figura dei contratti di convivenza è una delle novità più rilevanti della legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto, la legge 20 maggio 2016 n.76, nota come “legge Cirinnà”, dal cognome della deputata prima firmataria del relativo disegno di legge, che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno 2016.

I contratti di convivenza sono stati pensati per permettere ai conviventi di fatto registrati (e cioè a quelli che abbiano registrato il loro stato di stabile convivenza etero o omosessuale nei registri anagrafici) di «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune» (articolo 1, comma 50). Significa che i conviventi di fatto possono affidare a un contratto, appositamente stipulato, la regolamentazione degli aspetti economici del loro menage; si tratta, beninteso, di una opportunità e non di un dovere, in quanto i conviventi hanno la facoltà di svolgere il loro rapporto anche in assenza di un contratto di convivenza.

Questi contratti si prestano ad ospitare un amplissimo contenuto, perché l’unico limite è che in essi devono essere trattate questioni inerenti l’ambito dei «rapporti patrimoniali» dei conviventi. Quindi, non sono idonei a regolamentare questioni diverse da quelle di rilevanza economica, tipo le tematiche di natura strettamente personale, come la vita sessuale e l’organizzazione familiare.

I contenuti. Nei contratti di convivenza possono dunque essere trattate materie come ad esempio (articolo 1, comma 53):

v  il luogo nel quale i conviventi convengono di risiedere;

v  le modalità che i conviventi convengono circa la reciproca contribuzione da effettuare per far fronte alle necessità della vita in comune, e ciò in relazione al patrimonio e al reddito di ciascuno di essi e alla rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo;

v  l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni.

A quest’ultimo riguardo, occorre precisare che, mentre i componenti di una unione civile (i quali, come tali, devono essere necessariamente dello stesso sesso), sotto il profilo del regime patrimoniale coniugale sono in tutto e per tutto equiparati ai coniugi di un “ordinario matrimonio”, con la conseguenza che tra gli uniti civili, in mancanza di una diversa opzione (e cioè la scelta del regime di separazione dei beni), si instaura ex lege il regime di comunione legale dei beni, l’esatto contrario accade per i conviventi di fatto registrati in anagrafe e per i conviventi non registrati.

Infatti, nel corso della convivenza (sia che si tratti di convivenza registrata che di convivenza non registrata) il regime degli acquisti è regolata dal principio in base al quale l’acquisto profitta solo al soggetto che lo effettua: per far sì che dell’acquisto compiuto nel corso del rapporto di convivenza da uno dei conviventi benefici anche l’altro componente della coppia, occorre non solo che si tratti di una convivenza registrata in anagrafe, ma pure che si tratti di conviventi che, qualora sia stipulato un contratto di convivenza, abbiano anche scelto di inserirvi la clausola dell’adozione del regime di comunione, e cioè di determinare l’effetto per il quale qualsiasi acquisto da chiunque compiuto durante la convivenza appartenga appunto alla comunione dei conviventi.

Le formalità. Tornando ai conviventi registrati, per stipulare il contratto di convivenza tipico, di cui alla legge Cirinnà, occorre rispettare una certa “liturgia” (mentre il contratto di convivenza tra conviventi non registrati non ha alcun vincolo di forma né nessun onere pubblicitario). Anzitutto, la legge prescrive (articolo 1, comma 51) che il contratto (nonché gli accordi con i quali lo si modifichi o lo si risolva) devono essere redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico (ciò che riguarda soprattutto gli avvocati, poiché è ovvio che se un notaio accetta di stipulare un dato contratto, questo è evidentemente ritenuto lecito dal pubblico ufficiale rogante).

Una volta stipulato il contratto di convivenza, ai fini di renderlo opponibile ai terzi (e cioè al fine di pretendere appunto che i terzi debbano considerare comuni tra i conviventi gli acquisti da costoro compiuti durante la convivenza, ove abbiano optato per il regime di comunione) il notaio o l’avvocato che hanno autenticato l’atto devono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi, al fine della iscrizione del contratto stesso nei registri dell’anagrafe nei quali è registrata la convivenza.

In sostanza, questo sistema pubblicitario è preordinato a permettere a chiunque di verificare se tra due determinati soggetti esista una situazione di convivenza registrata e come questa convivenza sia stata eventualmente regolamentata sotto il profilo patrimoniale; in questo campo non si pongono questioni di privacy, in quanto vi è l’esigenza esattamente contraria, e cioè di consentire che chi ne sia interessato possa compiere tutti gli accertamenti che gli occorrono o dei quali sia semplicemente curioso.

Angelo Busani                        il sole 24ore    24 maggio 2016

www.oua.it/unioni-civili-cosi-il-contratto-di-convivenza-per-le-coppie-di-fatto-registrate-continuo-il-sole-24-ore

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