newsUCIPEM n. 598 – 22 maggio 2016

newsUCIPEM n. 598 – 22 maggio 2016

                               Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Le news sono così strutturate:

v  Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

v  Link a siti internet per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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ADOTTABILITÀ                                                 Ammissibile l’ascolto del minore anche a mezzo di C.T.U.

Esclusa in presenza di significativi rapporti con figure parentali.

ADOZIONI                                                         In Italia sono 300 i minori in attesa e calano gli arrivi dall’estero.

ADOZIONI INTERNAZIONALI                     Resa nota oggi una anticipazione dei dati statistici.

AMORIS LAETITIA                                           Dacci oggi il nostro amore quotidiano.

Amoris laetitia, la sfida del massimo possibile.

Amoris laetitia”, nota 351.

CASALINGA                                                      Riconoscibile il ”danno da casalinga”: figli e marito risarciti.

CENTRO STUDI FAMIGLISA CISF               Newsletter n. 9/2016, 18 maggio 2016

CHIESA CATTOLICA                                        Laicità dello Stato, laicità del Vangelo.

La nuova era della Cei e i mali della chiesa.

Laici e cattolici al tempo della Chiesa a due velocità.

I quattro chiodi a cui Bergoglio appende il suo pensiero.

CHIESE EVANGELICHE                                  Benedizione delle coppie omosessuali, un anno di dibattiti.

CONSULTORI FAMILIARI                             Latina. Tribunale e consultorio, un accordo per le pene alternative.

Oristano Convegno Federazione sarda consultori familiari diocesani

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Cuneo. Attività in corso.

Roma 1. Via della Pigna 13. Relazioni del XXX Seminario.

DALLA NAVATA                                              Santissima Trinità – anno C -22 maggio 2016.

Commento del santo padre Francesco.

DEMOGRAFIA                                                  Dietro il grande tabù demografico.

FECONDAZIONE ARTIFICIALE                    Genitori sempre più vecchi. Ed è boom di figli in provetta.

FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI         Famiglia ignorata, vogliamo risposte.

FRANCESCO VESCOVO di ROMA             Dio non è un’equazione.

GAZZETTA UFFICIALE                                    La Legge 20 maggio 2016, n.76 su Unioni civili e convivenze.

GESTAZIONE PER ALTRI                               No sfruttamento del corpo altrui: soluzioni flessibili per i minori.

NON PROFIT                                                     Guida fiscale per gli enti non profit.

NULLITÀ MATRIMONIALI                            Acireale. Servizio di consulenza pastorale-giuridica.

OMOADOZIONE                                             Lo psicologo Crocetti: «Ma l’apertura ai gay è un rischio».

PARLAMENTO Senato 2°Com.Giustizia                Disposizioni sul cognome dei figli.

Camera Assemblea                        Commercializzazione di gameti ai fini della fecondazione eterologa

2°Comm. Giustizia.        Indagine conoscitiva sulla legislazione per adozioni ed affido.

Commissione per l’infanzia       Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

PROCREAZIONE                                              Stile di vita papà pesa su feto e progenie, ‘vizi’ modificano Dna.

PROCREAZIONE RESPONSABILE               Questione non solo di «metodo» in Amoris laetitia.

UNIONI CIVILI                                      Unioni civili, uno sguardo etico- teologico.

Non è la legge a cambiare usi e costumi.

                                                                              Convivenze di fatto: contratto con effetti anche tributari.

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ADOTTABILITÀ

Ammissibile l’ascolto del minore anche a mezzo di C.T.U.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 9780, 12 maggio 2016.

            L’obbligo di sentire i minori in tutti i procedimenti che li riguardano può essere assolto, anche indirettamente, attraverso una delega specifica a soggetti terzi esperti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che n. 9780, ha rigettato il ricorso proposto dalla madre e della nonna di una minore dichiarata in stato di adottabilità. E’ certo lo stato di abbandono del minore quando uno dei genitori si allontana dal nucleo familiare e l’altro versa in stato di precaria salute mentale.                                              Sentenza

http://www.laprevidenza.it/notizie/cassazione-civile/e-certo-lo-stato-di-abbandono-del-minore-quando-uno-dei-genitori-si-allontana-dal-nucleo-familiare-e-l-altro-versa-in-stato-di-precaria-salute-mentale-cassazione-civile-sezione-i-senetenza-1252016-n-9780

 

Abbandono del minore escluso solo in presenza di significativi rapporti con figure parentali sostitutive

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 10090, 17 maggio 2016

Qualora si manifesti da parte di figure parentali sostitutive (nella specie, la nonna materna) la disponibilità a prestare assistenza e cura al minore, essenziale presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono è la presenza di significativi rapporti dello stesso con tali persone.

Sentenza

https://renatodisa.com/2016/05/24/corte-di-cassazione-sezione-i-civile-sentenza-17-maggio-2016-n-10090

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ADOZIONI

In Italia sono 300 i minori in attesa di una famiglia e calano gli arrivi dall’ estero.

Una premessa è d’obbligo. I bambini non sono numeri e le pratiche d’adozione, internazionale e no, sono legate a un’ampia e complessa serie di fattori. Ma i numeri sono pur sempre numeri e fanno paura. Perché in Italia, ci sono ancora 300 minori che nessuno vuole. A livello internazionale va un po’ meglio, ma il motivo è drammaticamente semplice: i bambini sono più piccoli.

E le richieste sono comunque diminuite. L’allarme arriva dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ieri in audizione in commissione Giustizia della Camera: «In Italia, a fronte di un numero complessivo stabile di minori dichiarati adottabili sono circa 300 i minori dichiarati adottabili ma non adottati». Si tratta «spesso di minori di oltre 15 anni e di stranieri» e in alcuni caso anche di disabili. A questi 300 ragazzini fanno da contro altare i 1.072 bambini adottati nel 2014, rispetto alle 9.657 richieste di adattabilità.

Accanto al calo delle adozioni in Italia, si registra anche una diminuzione delle «adozioni internazionali: nel primo trimestre del 2015 i procedimenti internazionali definiti dal nostro Paese sono stati 3.189, a fronte degli 8.540 definiti nel 2012, dei 7.421 del 2013 e dei 6.739 del 2014», sottolinea Orlando. Va però precisato che gli italiani sono assai più disponibili di altri ad adottare un bimbo straniero. Basti pensare che il nostro Paese, in fatto di adozione internazionale, è secondo solo agli Stati Uniti, che però hanno una popolazione più di 5 volte superiore alla nostra. E comunque nel primo semestre del 2015 i relativi procedimenti definiti sono stati 3.189, a fronte degli 8.540 del 2012, dei 7.421 del 2013 e dei 6.739 del 2014.

«Il calo registrato per il nostro Paese si riscontra anche nel panorama internazionale», sottolinea il Guardasigilli. Tanto per capirci «il Brasile è passato da 543 minori concessi in adozione all’ estero nel 2006, a 238 nel 2013; la Cina, da 14.434 a 2.931 minori adottati nel 2013; l’India da 1.076 minori adottati nel 2003 a 363 minori adottati nel 2012; la Federazione Russa da 9.472 minori nel 2004 a 2483 minori adottati nel 2012».

Quanto ai Paesi di accoglienza, esemplare il caso degli Stati Uniti: «sono entrati, nel 2015, 6.408 bambini adottati con adozione internazionale, mentre, nel 2005, le adozioni internazionali degli Stati Uniti riguardarono 22.508 bambini: un crollo di oltre il 70%». Secondo il ministro tra le «criticità, che hanno contribuito a creare un clima di crescente sfiducia verso l’istituto dell’adozione, soprattutto internazionale», ci sono la maggiore preparazione che si richiede oggi alle famiglie che aspirano all’ adozione internazionale, perché i «minori non sono più in tenera età, hanno fratelli oltre a particolari esigenze sanitarie». Da non trascurare neppure «l’importante impegno economico, le attese lunghe e i percorsi complessi».

Ma non la pensa così Marco Griffini, presidente di Aibi, una dei 9 Enti che assistono i genitori nella pratica dell’adozione internazionale. «In realtà gli italiani sono molto più disponibili, rispetto agli altri europei e agli americani, ad accogliere in casa bambini già cresciuti e con fratelli al seguito. Il vero problema risiede nella latitanza, soprattutto negli ultimi due anni, della Cai, la Commissione adozione internazionali. Meno male che la scorsa settimana la ministra Boschi ha ricevuto il mandato di presiederla, magari le cose miglioreranno». Più ottimista è Cristina Nespoli, presidente di Enzo B. «La verità è che occorre una cooperazione a livello internazionale con un tavolo di lavoro che fissi regole di trasparenza e legalità e che monitori la situazione di tantissimi bimbi profughi senza famiglia, che potrebbero benissimo essere dati in adozione se solo si prendesse in mano la situazione». La Cai, dal canto suo, evidenzia che, al di là della richiesta di adozioni internazionali, queste nel 2015 sono aumentate dello 0,23%, a fronte del calo del 12,3% registrato negli Usa e del 23,8% in meno in Francia.

Grazia Longo            La Stampa                  17 maggio 2016

www.lastampa.it/2016/05/17/italia/cronache/in-italia-sono-i-minori-in-attesa-di-una-famiglia-e-calano-gli-arrivi-dallestero-kdtiL8PmvyP81cPR3XmvMJ/pagina.html

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Resa nota oggi una anticipazione dei dati statistici.

Nel 2014 – dato anch’esso mancante – erano stati 2.206: nel 2015 pertanto con cinque ingressi in più l’Italia segna un +0,23% di adozioni, in controtendenza rispetto ai nuovi crolli statistici di Usa e Francia

            Sono 2.211 i bambini adottati nel corso del 2015 da coppie italiane. Lo rende noto la Commissione Adozioni Internazionali, che dopo averli annunciati più volte entro il mese di aprile ha pubblicato oggi sul proprio sito una «anticipazione dei dati statistici» relativi al biennio 2014/2015. Nel 2013 erano stati adottati 2.825 bambini, nel 2014 – dato che fino ad oggi era mancante – erano stati 2.206: nel 2015 pertanto con cinque ingressi in più l’Italia segna un +0,23% di adozioni, sottolineato dalla CAI con un «Italia in controtendenza rispetto al calo delle adozioni internazionali di tutti gli altri Paesi di accoglienza».

            La Commissione infatti ha pubblicato una tabella comparativa con gli altri principali Paesi di accoglienza: il dato 2015 c’è solo per Stati Uniti e Francia, che hanno adottato rispettivamente 5.648 minori e 815 minori, con un calo rispetto all’anno precedente del -12,3% per gli Usa e del -23,8% per la Francia. L’Italia pertanto, sottolinea la Cai, «si conferma come primo Paese di accoglienza in Europa per numero di minori adottati e secondo Paese al mondo dopo gli Stati Uniti».

            Nell’indagine che avevamo fatto pochi giorni fa, il nostro contatore – con i dati di 50 enti sui 62 totali – si fermava a 1.944. Come si spiega la differenza così consistente? In parte ovviamente con i dati dei 12 enti che non abbiamo trovato o che hanno preferito non comunicarci il dato, in parte con il fatto che noi abbiamo chiesto il numero dei bambini effettivamente entrati in Italia nel corso del 2015 mentre – come più di un presidente ha sottolineato nel darci il dato – la Cai nel suo report statistico conta da sempre i minori per i quali è stata rilasciata l’autorizzazione all’ingresso in Italia.

            Di adozioni, soprattutto nazionali, si è parlato sempre oggi in Commissione Giustizia della Camera, per la seconda giornata dell’indagine conoscitiva in corso in vista della revisione della legge 149. «Entro settembre noi avremo un sistema completo di raccolta dei dati», ha detto il ministro Andrea Orlando parlando della banca dati dei minori dichiarati adottabili e delle coppie disponibili all’adozione, su tutto il territorio nazionale. La banca dati, prevista dal 2001, è collegata all’informatizzazione di tutti i Tribunali dei Minorenni e oggi questo processo è terminato – ha riferito sempre il ministro – in 25 dei 29 Tribunali. Il ministro Orlando ha citato ancora una volta il dato di «circa 300 minori dichiarati adottabili che non sono stati adottati, spesso per condizioni di salute fisica o psichica, talvolta oltre i 15/16 anni, non pochi MSNA». Tutti questi 300 minori, ha riferito il ministro, sono in famiglie affidatarie o in casa famiglia.

Sara De Carli vita.it  16 maggio 2016

www.vita.it/it/article/2016/05/16/la-cai-pubblica-i-dati-2211-minori-adottati-nel-2015/139422/?source=newsletterMainTitle

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AMORIS LAETITIA

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html

Dacci oggi il nostro amore quotidiano.

Il cammino della coppia si trasforma in invocazione orante. La prima parte del capitolo IV (nn. 90-119) di Amoris laetitia ha delineato una mirabile sintesi tra passione erotica e tenerezza dell’amore. La carità coniugale è un amore santificato dalla grazia del sacramento. Così la grazia di agape (di Cristo per la sua Chiesa) diventa il segno storico-salvifico dell’agape trinitaria, sorgente del “mistero grande” dell’amore. Con realismo papa Francesco nel seguito del capitolo svolge il cammino storico dell’amore (nn. 120-162) e le sue trasformazioni (163-164). Egli afferma, infatti, che «non si deve gettare sopra due persone il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa» (n. 122). Tra l’amore di Cristo per la sua Chiesa e il rapporto uomo donna esisterà sempre un’asimmetria invalicabile e un insopprimibile rimando.

Per questo il papa nel bel n. 123 sulla scorta di Tommaso definisce l’amore coniugale come «la più grande amicizia» (maxima amicitia). Nel rapporto uomo donna la differenza assume i tratti della sponsalità esclusiva e dell’apertura al definitivo. Secondo le parole del Bellarmino ciò non può accadere «senza un grande mistero» (n. 124). Segue un ventaglio di numeri che disegnano alcuni tratti del «totius domesticae conversationis consortium» (San Tommaso).

            L’incontro uomo donna diventa così l’archetipo dell’amore di amicizia. Lo sguardo di papa Francesco sulla “drammatica” dell’amore arricchisce la famiglia dell’eloquenza di gesti affascinanti. La vicenda di una coppia e la generazione dei figli deve viaggiare tra le false idealizzazioni e le cadute deprimenti. È un’armonia di note che risuonano nella vita della famiglia: la cura della gioia (n. 126), l’estetica della bellezza del valore dell’altro (n. 127-9), la condivisione del dolore (n. 130), la preparazione al passo definitivo (nn. 131-132), la pratica e la crescita dell’amore (permesso, grazie, scusa: nn. 133-135), il dialogo, l’ascolto e il tempo donato (n. 136-141), la custodia e l’educazione dei sentimenti (nn. 143-149), lo stupore della dimensione erotica, le sue deviazioni e le sue riprese (nn. 150-157), il rapporto con la verginità (nn. 158-162).

Infine, corona questo capitolo-gioiello un cenno (nn. 163-164), risuonato anche nell’aula del sinodo, sulle “trasformazioni dell’amore”. Se l’amore è un labor, un cammino e una lotta, esso è soggetto alla trasformazione delle sue figure. Solo l’assolutizzazione della forma romantica dell’innamoramento, spesso con fantasmi fortemente adolescenziali, produce un’esaltazione e un’idealizzazione dei modi dell’amore.

Papa Francesco in due numeri racconta le cose essenziali sui cambiamenti dell’amore. Anzitutto, il prolungamento della vita prospetta un mutamento della relazione intima e del senso di appartenenza per più decenni successivi, spostandosi dal desiderio sessuale al sentimento di complicità. Occorre sviluppare altri tipi di appagamento che rendono capaci di godere le diverse età della vita, la generazione dei figli e la ripartenza con la venuta dei nipoti. Infine, la fedeltà al proprio progetto di vita genera forme simboliche di condivisione che talvolta si scoprono soprattutto con la perdita del partner.

Un testo sintetico dice bene la capacità di realizzare la totalità, talvolta debordante dell’amore erotico, nella dedizione profonda dell’amore di benevolenza. Ascoltiamo questo brano: «Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore. Quando gli altri non possono più riconoscere la bellezza di tale identità, il coniuge innamorato continua ad essere capace di percepirla con l’istinto dell’amore, e l’affetto non scompare. Riafferma la sua decisione di appartenere ad essa, la sceglie nuovamente ed esprime tale scelta attraverso una vicinanza fedele e colma di tenerezza. La nobiltà della sua decisione per essa, essendo intensa e profonda, risveglia una nuova forma di emozione nel compimento della missione coniugale» (n. 164).

            Proprio nelle trasformazioni dell’amore la grazia di agape è capace di attivare il lavoro di eros, attraverso la feconda gestazione dell’“amicizia più grande”. Eros, philía e agape celebrano la loro danza circolare nella fecondità di un cammino che s’irradia sui sentieri della vita. Questa sintesi dell’amore è il riverbero della pericoresi [compenetrazione]trinitaria nella storia, non un suo facile rispecchiamento, né solo un trionfale inveramento, ma la sua “incarnazione” nella relazione tra l’uomo e la donna.

            In sintesi, potremmo dire che charitas salutis cardo. Se all’inizio Dio “uomo e donna li creò” nella tenerezza preveniente del dono, la misericordia di Cristo “uomo e donna li unirà” nel cammino con cui la grazia di agape porta a pienezza il lavoro di eros. Solo affidandosi alla relazione promettente nell’attraversamento del deserto della vita, l’uomo e la donna entreranno nella terra promessa in cui scorre in abbondanza la gioia.

Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara           L’Osservatore Romano 17 maggio 2016

www.lindicedelsinodo.it/2016/05/dacci-oggi-il-nostro-amore-quotidiano.html

 

Amoris laetitia, la sfida del massimo possibile

Padre Costa: con il discernimento oltre la logica del minimo indispensabile.

Il discernimento la parola chiave dell’Amoris laetitia. Scelta impegnativa e severa, perché «il discernimento si rivela persino più esigente della norma, richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile». Lo sostiene il gesuita padre Giacomo Costa, che sulla rivista da lui diretta (www.aggiornamentisociali.it) ha avviato una serie di approfondimenti proprio sull’Esortazione postsinodale.

Amoris laetitia, è stato detto, disorienta chi pretende di trovare in questo testo un elenco ‘dei divieti e dei permessi’. Qual è allora l’approccio corretto per capire ciò che il Papa ci vuole dire?

Diversamente dalla Laudato si’, con cui papa Francesco si proponeva ‘di entrare in dialogo con tutti’, l’Amoris laetitia si rivolge espressamente ai credenti. È scritta per chi ha sperimentato o almeno intuito che, per citare le prime parole della Evangelii gaudium, «la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontra-È no con Gesù». Dunque risulta difficilmente comprensibile per quanti la leggono a prescindere dall’esperienza della fede, ma anche per chi vive il Vangelo come una tassa da pagare.

Condivide l’autocritica, a proposito di una certa tendenza a presentare – scrive il Papa – «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito»?

Certo, ma condivido soprattutto l’approccio pastorale su cui si basa. Curare, accompagnare, integrare e non abbandonare, escludere o lasciare soli: queste espressioni ritornano continuamente. Esprimono l’attenzione di papa Francesco alla concretezza della vita. Tutte le situazioni familiari trovano spazio nell’Esortazione: famiglie, al plurale, con tutta la loro varietà, talvolta problematica, di forme e situazioni.

Il Papa individua il discernimento per dare concretezza alla dinamica di un amore familiare chiamato a una crescita costante. Ma cosa si intende per discernimento?

Discernimento è la parola chiave dell’Esortazione. Non si tratta solo di ‘buon senso’, di ‘capacità di giudizio assennato’. In un senso tecnico, proprio della spiritualità, il discernimento è la capacità, o meglio l’arte di esercitare la propria libertà e responsabilità nel prendere decisioni. Presuppone dunque chiarezza in ordine al fine, che per il credente è compiere la volontà di Dio, e incertezza in ordine al mezzo. È lo strumento per dare risposta alla domanda su che cosa fare per vivere la buona notizia del Vangelo. Per il credente la pratica del discernimento si nutre di preghiera e di meditazione, ma con un orientamento pratico: richiede di passare all’azione, ‘uscire’ dai propri pensieri. La prova della realtà aiuterà a capire la bontà della decisione presa ed eventualmente ad aggiustarla. Il discernimento è radicato anche in un’altra esperienza, senza la quale risulta incomprensibile: sentirsi spinti o attirati in direzioni diverse, che suscitano una varietà di desideri e sentimenti. Provarli – spiega il Papa stesso – «non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso» (n. 145): la sfida del discernimento è muoversi attraverso queste passioni, utilizzandole come strumento per identificare non quello che è sufficientemente buono, ma ciò che è meglio.

Non c’è il rischio che l’esercizio del discernimento apra la strada ad una sorta di relativismo etico?

La libertà non si esercita in un astratto iperuranio, ma in circostanze concrete, che pongono vincoli e condizionamenti. Certo, «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n. 304). Le norme mantengono inalterato il loro valore ma, scrive Francesco, «nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari» (ivi). Discernimento e norma rimandano sempre l’uno all’altra. Anzi, il discernimento si rivela persino più esigente della norma, perché richiede di passare dalla logica legalistica del minimo indispensabile a quella del massimo possibile.

Ritiene che la formazione delle coscienze («siamo chiamati a formarle non a pretendere di sostituirle», n.37) potrà aprire la strada a percorsi di crescita delle nostre famiglie tali da renderle davvero ‘soggetti’ e non soltanto ‘oggetti’ di pastorale familiare?

Non posso che augurarmelo, anche perché, nella prospettiva che abbiamo delineato, il ruolo delle coscienze non si limita al riconoscimento di essere nell’errore o nel peccato, ma anche a «scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (n. 303). Perché questo avvenga, però, è fondamentale la formazione in questa prospettiva dei sacerdoti e di coloro che accompagnano fidanzati e famiglie.

Luciano Moia             Avvenire                    20 maggio 2016

www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/Amoris-laetitia-la-sfida-del-massimo-possibile-.aspx

 

“Amoris laetitia”, nota 351

[351] In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, «ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore» (Esort. ap. Evangelii gaudium [24 novembre 2013], 44: AAS 105 [2013], 1038). Ugualmente segnalo che l’Eucaristia «non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (ibid., 47: 1039)

 

I commenti si moltiplicano, sempre più contrastanti, a proposito di una semplice nota dell’esortazione apostolica postsinodale “Amoris laetitia” sull’amore nella famiglia, l’ormai celebre nota 351. Da una parte il vescovo Athanasius Schneider, il professor Robert Spaemann, il professor Roberto de Mattei e alcuni altri denunciano un cambiamento di disciplina contrario alla dottrina cattolica, che consisterebbe nell’accordare la comunione ai divorziati risposati; cosa che in effetti certi pastori imprudenti e mal consigliati dichiarano ormai possibile. Ciò porterebbe dunque a dire che si può ricevere l’eucaristia in stato di peccato grave, oppure che il risposarsi dopo un divorzio non è un peccato grave, il che significherebbe quindi che il matrimonio non è un impegno esclusivo e indissolubile. La tappa successiva sarebbe di procedere a benedizioni delle seconde nozze civili, o anche a dei secondi matrimoni sacramentali. Inutile dire che tutto ciò è perfettamente contrario all’insegnamento della Chiesa, fondato sulla Parola di Dio. Su questo non c’è questione.

            Dall’altra parte il cardinale Müller, il cardinale Burke e la maggior parte dei vescovi affermano invece che il documento non ha cambiato in nulla la dottrina e la disciplina della Chiesa, quale esposta da papa Giovanni Paolo II nella “Familiaris consortio”, n. 84. È ciò che sostiene anche il cardinale Schönborn, incaricato della presentazione ufficiale del documento in sala stampa, al quale ha rinviato papa Francesco nella conferenza stampa al ritorno dall’isola di Lesbo. Tuttavia, nella stessa occasione il papa ha risposto in maniera affermativa alla domanda se il documento cambiava concretamente qualcosa riguardo all’accesso alla comunione dei divorziati risposati: “Io posso dire: sì. Punto”. È quindi difficile sostenere il contrario e tener fermo che niente è cambiato, contro il papa stesso.

            In realtà, entrambe le posizioni sono vere. Da una parte il documento non ha cambiato la dottrina e la disciplina in ciò che ha di fondato sulla Parola di Dio, poiché non poteva farlo. Non serve a niente affermare che l’ha fatto, poiché non ne aveva il potere. D’altra parte, qualcosa è pur cambiato, ma solo in ciò che poteva esserlo, senza toccare la dottrina e la disciplina che ne consegue. Come minimo si tratta di un cambiamento pastorale, nell’accoglienza e nell’accompagnamento a lungo termine. Ma c’è di più, a detta del papa.

La nota 351 fa seguito al numero 305 della “Amoris laetitia”, che ricorda che in una situazione oggettiva di peccato è possibile non essere soggettivamente colpevoli. È una dottrina ben stabilita, perché per fare un peccato mortale non basta una materia grave; ci vogliono anche una piena consapevolezza e un deliberato consenso (Catechismo della Chiesa cattolica 1415). I confessori sanno bene che un penitente può non confessare un atto oggettivamente grave perché non ha idea che sia un peccato. Ora, non si può trasformare un “peccato materiale” in un “peccato formale”. Se questo è il caso (ma bisogna accertarsene), il penitente può allora ricevere validamente l’assoluzione. Ma il confessore ha al tempo stesso il dovere di rischiarare la coscienza deformata, al fine di riformarla; la cosa può prendere del tempo e richiede dunque un accompagnamento spirituale adeguato. Non basta ricordare la legge dall’esterno: occorre anche che la persona la comprenda e l’accolga veramente dall’interno. Il documento non dice niente di diverso.

            Questo caso è già ben stabilito nella dottrina e nella pratica della Chiesa, anche se fa parte di quella “scienza del confessionale” che i fedeli si immagina non conoscano, poiché presuppone una buona formazione di teologia morale e una buona pratica del confessionale. La novità del documento è soprattutto qui: nel fatto di presentare in piena luce una pratica che prima restava nell’ombra, nel segreto del confessionale. Non perché essa fosse vergognosa, ma perché suppone delle chiavi di comprensione che molti non hanno e non possono avere. Allora oggi questa pratica perfettamente legittima e fondata dottrinalmente si estende anche ai divorziati risposati? La nota 351 non lo dice espressamente. Ma neppure lo esclude. Ora, se lo escludesse, ciò non cambierebbe in nulla la pratica attuale, quale esposta dalla “Familiaris consortio”. Ma se uno afferra ciò che dice il papa, che cioè qualcosa che non esisteva prima è ora possibile, è allora lì che bisogna andare.

            In un punto, il regime della “Familiaris consortio” è effettivamente cambiato. Non nel senso che dei peccatori coscienti del loro peccato grave vanno a ricevere la comunione: questo non è possibile e non lo sarà mai. Ma nel senso che delle persone che non sanno di essere nel peccato possono ricevere “l’aiuto dei sacramenti” fino a che prendono coscienza di questo peccato nell’accompagnamento spirituale. Esse cesseranno allora di riceverli, finché non avranno cambiato il loro stato di vita per conformarsi pienamente alle esigenze del Vangelo, secondo la “Familiaris consortio“. Non si tratta di fare per loro un’eccezione; ma piuttosto di applicare a loro il regime generale già stabilito per tutti gli altri casi. La “Familiaris consortio” stabiliva che non era possibile dare la comunione ai divorziati risposati, poiché si stimava che una tale ignoranza fosse impossibile nella loro situazione. In effetti, così come non si fa peccato senza saperlo né volerlo, allo stesso modo non c’è matrimonio senza che lo si sappia e lo si voglia. E quindi, o ogni attentato alla fedeltà del matrimonio era necessariamente colpevole, oppure, se la persona davvero aveva agito inconsapevolmente, ciò significava a colpo sicuro che il suo matrimonio sacramentale era nullo “ab initio”, che non era mai esistito, mancando un vero consenso a ciò che è il matrimonio.

            Ora, i progressi della psicologia e nello stesso tempo i “progressi” di una società confusa e senza punti di riferimento fanno sì che sempre più persone ignorino ciò che una volta era evidente per tutti. Con l’effetto che ciò che valeva per tutte le altre categorie di peccati lo diventa anche per i divorziati risposati. Non si può non constatare che questo accade. Anche se le condizioni sono estremamente strette, i casi sono sempre più numerosi, in proporzione con l’allontanamento dalla Chiesa. Pur distinguendo le situazioni, Giovanni Paolo II aveva mantenuto la regola, per un motivo pastorale e dunque per una scelta prudenziale, al fine di evitare lo scandalo. Non è dunque contrario alla dottrina e alla legge divina che papa Francesco faccia un’altra scelta prudenziale, tenendo conto di queste possibilità di distorsione della coscienza, pur tenendo ferma la regola di evitare lo scandalo (AL 299).

            Non è che si permetta ai peccatori di “arrangiarsi con la loro coscienza”; è che bisogna ormai partire da molto più lontano per poter riconciliare un peccatore con la Chiesa. Perché le coscienze sono sempre più deformate, e bisogna dunque anzitutto riformarle per permettere loro di avanzare su un cammino di perfezione.

            Ma il papa è chiaro sul fatto che tutti sono chiamati alla conversione: “conversione missionaria” per i pastori; conversione alle esigenze del Vangelo per i peccatori. Semplicemente, questa conversione non può essere presentata come un preliminare e un ostacolo insormontabile; essa deve essere la meta mirata, verso la quale dirigersi risolutamente, anche se per questo ci vogliono tempo e tappe. Dio ha sempre fatto così con il suo popolo. Quello che è sicuro è che questo documento è incomprensibile nel quadro di una “morale della legge” che è quella di Kant o dei giansenisti. Ma è perfettamente ricevibile nel quadro di una “morale della virtù” che è quella di san Tommaso d’Aquino, “doctor communis”.

Thomas Michelet O.P., Tolosa,

docente alla pontificia università San Tommaso d’Aquino di Roma, nota come “Angelicum”.

16 maggio 2015                                 http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351299

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CASALINGA

Riconoscibile il ”danno da casalinga”: figli e marito risarciti.

                        Tribunale, Milano, decima Sezione civile, sentenza 11 febbraio 2016

L’interessante sentenza del Tribunale di Milano che si segnala riguarda il danno che viene riconosciuto agli aventi causa a seguito del decesso di una signora; fra questi – e qui sta l’interesse della sentenza – il giudice riconosce il pregiudizio per il mancato apporto in futuro dell’attività di casalinga della defunta. È noto che non sempre, a fronte di un illecito, sia agevole indicare e ottenere il ristoro di tutti i pregiudizi che si ritengono prodotti da quell’illecito. È noto, ancora, che la giurisprudenza conosce una miriade di questioni che sono state e che vengono ancor oggi sottoposte alla sua attenzione proprio con riguardo alla tipologia dei danni risarcibili.

            Una di queste questioni attiene, per l’appunto, il risarcimento del danno conseguente al mancato apporto per il futuro dell’attività di casalinga ossia alla circostanza che, in conseguenza dell’illecito, vi sia taluno che venga privato delle incombenze relative alla cura e alla pulizia della casa. Si tratta di capire se tale pregiudizio debba trovare riconoscimento per il diritto.

            La disamina del vasto materiale giurisprudenziale e dottrinale evidenzia come l’attenzione sia stata posta su una serie di problematiche interessanti fra le quali si possono ricordare: i criteri di determinazione del reddito da porre a base del calcolo del danno conseguente alla perdita di soggetti percettori di reddito, i casi di reddito anomalo quale quello figurato e quello conseguente ed attività illecite (e con riguardo a quest’ultima categoria si è discusso, ad esempio, dell’attività della prostituta), il danno patrimoniale del pensionato e tra quelli che più ci interessano e si avvicinano al caso di cui ci stiamo occupando, il danno al minore e allo studente.

            Sicuramente l’analisi della giurisprudenza dimostra come si tenda ormai ad ammettere il ristoro anche dei danni (patrimoniali) conseguenti alla lesione di soggetti non immediatamente percettori di reddito.

            La casalinga è quel soggetto che svolge la propria attività nell’ambito della famiglia, occupandosi fra l’altro dello svolgimento di tutte le attività domestiche e quindi di cura e di pulizia della casa; si tratta normalmente di una donna, seppure ovviamente non sia da escludere anche il caso del “casalingo”. Nessuno più, allo stato, dubita della natura lavorativa dell’attività svolta dalla casalinga a differenza del passato quando tale dubbio veniva da taluno sostenuto in base la circostanza che la sua attività non fosse produttiva di alcun reddito.

            Oggi, quindi, con riguardo al pregiudizio per il mancato apporto per il futuro dell’attività di casalinga, come scrive il giudice nella sentenza “indubbiamente può riconoscersi [la risarcibilità di] tale pregiudizio”. Certo è che, una volta ammessa la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente alla lesione patita dalla casalinga, si pone un problema di individuazione del criterio utile al fine della sua liquidazione.

            A tale riguardo, come riconosce anche la sentenza del tribunale di Milano in questione, si è individuato come parametro di riferimento il reddito percepito da una collaboratrice familiare; talvolta, peraltro, e correttamente, si sono operate opportune maggiorazioni, giustificate dalle mansioni quantitativamente e qualitativamente più ampie e complesse che normalmente vengono svolte dalla casalinga rispetto alla normale colf. Nel caso di specie il giudice ha ritenuto equo liquidare a titolo di risarcimento la somma di euro 50.000 considerando, da un lato, che tale pregiudizio debba considerarsi limitato nel tempo, “stante il prevedibile raggiungimento di autonomia dei figli in corrispondenza della fine del periodo di studi”; dall’altro, evidenzia come tale voce di danno non debba confondersi e non debba quindi essere riconosciuto se “inteso a colmare il vuoto incolmabile lasciato da una madre e da una moglie” posto che tale pregiudizio è “già (…) valutato in sede di liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale”.

            Si tratta di considerazioni condivisibili: ed invero, la quantificazione del danno va ovviamente rapportata a tutte le circostanze concrete fra le quali rientra sicuramente il lasso temporale in cui prevedibilmente i soggetti danneggiati avrebbero usufruito dell’attività lavorativa della defunta. Con riguardo, poi, al secondo profilo evidenziato dal giudice meneghino, è evidente che il pregiudizio riconosciuto e liquidato a titolo di danno alla casalinga sia quello di natura patrimoniale e attenga – per l’appunto, come già sopra evidenziato – la perdita di quella attività consistenti nelle incombenze di natura prettamente materiale alle quali deve essere riconosciuto un valore pecuniario. Altro è, invece, il pregiudizio non patrimoniale conseguente alla perdita della persona cara, indipendentemente dall’attività svolta dalla medesima.

Il caso deciso dal tribunale di Milano ha riguardato un’ipotesi di decesso; ovviamente, le considerazioni svolte valgono anche per i casi di invalidità permanente e temporanea.

Quotidiano giuridico  Altalex            20 maggio 2016

www.altalex.com/documents/news/2016/04/05/riconoscibile-il-danno-da-casalinga-figli-e-marito-risarciti?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450

            Sentenza

http://www.west-info.eu/it/si-al-danno-patrimoniale-per-la-perdita-della-moglie-casalinga

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CENTRO INTERNAZIONALE STUDI FAMIGLIA CISF

Newsletter n. 9/2016, 18 maggio 2016

v  Mamme in Italia oggi: famiglia (tanta) e lavoro (poco).  Il Rapporto Mamme 2016 di Save the Children Italia, significativamente intitolato “Le equilibriste” (inserire link al PDF Allegato4) sottolinea la persistente complessità dell’essere madri oggi in Italia: un carico di lavoro, sia familiare che retribuito, che mette a dura prova le loro capacità di resistenza e ne mina certamente le possibilità di crescita personale. Si tratta di circa 10 milioni di donne tra i 25 e i 64 anni che si prendono cura dei propri figli di ogni età. (Segue testo)

v  “Chiediamo scusa noi, Forum delle associazioni familiari della Calabria, alle donne di questa terra…” Nel mothers’ index regionale elaborato dal “Rapporto Mamme 2016 di Save the Children emergono le differenze tra i vari territori rispetto alla qualità di vita e di benessere per le mamme. La classifica vede al primo posto il Trentino (indice 2,27), e all’ultimo la Calabria (indice 17,73). Per questo il presidente del Forum delle associazioni familiari calabrese, Antonino Leo, ha quindi preso carta e penna, e ha scritto una insolita “lettera di scuse” alle donne della sua terra, che è in realtà un durissimo e motivato atto d’accusa alla classe politica e dirigente della regione. 

v  Unioni civili: il dibattito continua, oltre la fiducia. Vedi i commenti su Famiglia Cristiana on line.

v  Bonus Bebè rinforzato: perché no? Un commento su Famiglia Cristiana on line del Direttore del CISF, Francesco Belletti, alla proposta del Ministro Lorenzin.

v  Asili nido in italia: costi, posti e liste di attesa. 311 euro è la retta media che le famiglie italiane spendono ogni mese per un bimbo iscritto all’asilo nido. Così risulta da un recente articolo di Repubblica sulla base dell’ultima indagine realizzata dall’Osservatorio Prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva.

v  Abbandono scolastico. I dati dall’Istituto degli innocenti di Firenze. Risulta del 15% nel 2014 la percentuale di abbandoni scolastici nel nostro Paese, secondo i dati dell’indagine europea Euridyce. Ancora al di sopra dell’obiettivo europeo del 10%.

v  Appuntamenti a breve. Trento, 17-19 giugno 2016 – Famiglie forti, comunità forti. Attenzione! Vista la forte affluenza di partecipanti, il termine di iscrizione al convegno è anticipato al 31 maggio 2016 (anziché al 10 giugno). E’ ancora possibile iscriversi!

v  Festival biblico: dal 19 al 29 maggio 2016. “Giustizia e pace si baceranno…” A Vicenza, Verona e in diversi altri comuni del Veneto si tiene in questi giorni la XII edizione del Festival Biblico. Eventi per tutti i gusti e le sensibilità…

v  Sesta settimana della famiglia 2016. Dal 13 al 22 maggio 2016, a Pompei e in altre località campane, si svolge la settimana per la famiglia e per i diritti dei bambini. 300 eventi in 300 città.

v  Carpi, Correggio, Bologna dal 3 al 28 maggio 2016 Festival internazionale delle abilità differenti. Dal 1999, una ricca serie di eventi su persone disabili e progetti.

v  Per un mondo amico degli anziani. Un sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che intende promuovere scambi e collegamenti internazionali, per costruire città e contesti sociali dove le persone anziane possano rimanere protagoniste.

v  Sullo stesso tema verrà presentato a Milano, il 7 giugno 2016, dalle 17 alle 19, il volume curato dal Centro di Ateneo di Studi e ricerche sulla famiglia “l’allungamento della vita: una risorsa per la famiglia, un’opportunità per la società” n. 28 di “Studi interdisciplinari sulla famiglia” (Vita e Pensiero, Milano, 2016).

v  Save the date.

  • “L’Europa e i fantasmi dell’assedio”, Università di Genova, XII Scuola estiva di sociologia delle migrazioni, Genova, 27 giugno – 1 luglio 2016.
  • “Come prendersi cura della fragilità”, Corso dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino, in collaborazione con Erreics Onlus – Torino, 9 giugno 2016.
  • “Narrazione, scrittura, autobiografia in medicina”, Seconda Summer School, – Libera Università dell’Autobiografia, Anghiari, 18-24 luglio.
  • “Famiglia Crocevia di Relazioni e opportunità”, XXIV Convegno nazionale UCIPEM, Oristano, 2-4 settembre 2016.

www.cpm-italia.it/index.php/component/acymailing/archive/view/listid-2-collaborazione/mailid-106-centro-internazionale-studi-famiglia?tmpl=component

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CHIESA CATTOLICA

Laicità dello Stato, laicità del Vangelo.

Le recenti dichiarazioni che il papa ha fatto al quotidiano francese La Croix sono state un nuovo motivo di sorpresa (e in non pochi casi, di scandalo) per molti cattolici di vecchio stampo che danno l’impressione di essere ancora legati all’Ancien Régime. Non quello di Franco, ma quello dei monarchi assoluti prima dell’Illuminismo. E alcuni hanno perfino il coraggio di accusare papa Francesco di ignoranza in temi di storia. A coloro che si strappano le vesti per ciò che ha detto il papa nella sua intervista a La Croix, sarebbe bene ricordare che “laicità” e “laicismo” non sono la stessa cosa. Il “laicismo” consiste nell’emanciparsi “da ogni influenza ecclesiastica o religiosa”. Il che, in pratica, equivale a rifiutare Dio e quanto si riferisce a Dio, alla Chiesa, alla religione, ecc. La “laicità” non è negazione o rifiuto, ma indipendenza dalla religione e dal religioso. Uno Stato laico non perseguita né emargina il fatto religioso. Semplicemente lo rispetta. E permette che i cittadini vivano e esprimano in pubblico le proprie credenze, a condizione che le diverse confessioni rispettino le norme della convivenza che derivano dalla Costituzione dello Stato.

Fatto questo chiarimento semantico, è anche importante chiarire due questioni fondamentali. In primo luogo, non è la stessa cosa parlare di “religione” o parlare di “Dio”. La religione è il mezzo o la via per mettersi in relazione con Dio. Come la religione è il “mezzo”, Dio è il “fine”. Tenendo conto che il mezzo, la religione, è sempre un fatto umano, un fenomeno culturale, una realtà storica e di questo mondo. Mentre Dio è il Trascendente. Non è, non può essere, immanente, culturale, storico o mondano. È vero che noi esseri umani, dato che non possiamo vedere Dio, non abbiamo accesso diretto a lui, “lo rappresentiamo”, in ogni momento storico, in ogni popolo e in ogni cultura, secondo i valori o i criteri determinanti di quella cultura. Inoltre, si sa con sicurezza che “Dio è un prodotto tardivo nella storia della religione” (G. Van der Leeuw, E. B. Taylor, Walter Burkert) che, per diverse migliaia di anni, non era che un fenomeno che consisteva in una notevole varietà di riti, in relazione alla caccia, al ciclo vitale e alla morte (Ina Wunn, con abbondante bibliografia).

E in secondo luogo, prima di parlare della “laicità dello Stato”, dobbiamo parlare della “laicità del Vangelo”. Perché? Perché, in realtà, la vita pubblica di Gesù è stata una serie ininterrotta di continui conflitti con i sacerdoti, con i dottori della Legge, con gli osservanti farisei, con il tempio, con le osservanze, le norme e i riti religiosi, di modo che tutto è terminato nello scontro supremo e decisivo, che ha portato Gesù al tribunale religioso, alla condanna a morte e alla esecuzione violenta sulla croce. Il che ci conduce inevitabilmente alla domanda inquietante e pericolosa: il Vangelo è un libro di religione o è la storia di un conflitto mortale con la religione dei riti, del tempio e dei sacerdoti? La risposta più ragionevole a questa domanda è dire che il Vangelo, prima di essere un “libro di religione” è un “progetto di vita”. Un progetto centrato sulla rettitudine, sull’onestà, sulla bontà e sulla misericordia senza alcuna limitazione.

Per questo si può affermare che Gesù ha tolto la religione dal tempio. E l’ha posta nella vita, nell’esistenza umana, nel lavoro instancabile per umanizzare questo mondo, questa vita, la relazione di ognuno con gli altri. Per trasmettere così felicità, progresso, benessere, uguaglianza e dignità per tutti. Se Dio e la religione non ci servono per essere e per comportarci nel modo migliore gli uni con gli altri, indipendentemente dalla cultura e dalle tradizioni nelle quali ognuno è nato ed è stato educato, allora, a che cosa ci serve Dio e a che cosa ci serve la religione? È evidente che questo progetto si realizza molto meglio in una società laica e in uno Stato non confessionale, piuttosto che in una società e in uno Stato che, a partire da una determinata confessione religiosa, agisce come un “sistema escludente”! Un sistema che inevitabilmente divide, separa e oppone la gente, diventando un fattore di fanatismo e di violenza.

José Maria Castillo      in “Teologia sin censura” (traduzione: www.finesettimana.org)

http://blogs.periodistadigital.com/teologia-sin-censura.php) del 18 maggio 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut6383

 

La nuova era della Cei e i mali della chiesa.

Quella che sta per chiudersi è l’ultima assemblea Cei dell’era Bagnasco, nominato il 7 marzo 2012 da Benedetto XVI. Una conclusione drammatica, nella quale il presidente della conferenza episcopale ha dimostrato che la chiesa italiana è ancora malata degli stessi mali che l’hanno fatta apparire, nei giorni del conclave, la causa del disordine sistemico che aveva scosso il papato romano.

Bagnasco ereditò la Cei nel 2007 in un momento preciso. Cioè dopo che Ruini aveva adombrato la possibilità di un richiamo canonico ai parlamentari cattolici per far cadere i Dico del governo Prodi. Bertone colse la gravità di un atto che metteva in discussione il principio che le istituzioni democratiche e i principi costituzionali sono la sola garanzia in cui tutti devono riconoscersi. Rivendicò perciò alla Segreteria di Stato i rapporti col governo (pur continuando a fidarsi di una destra in polvere di cui Berlusconi era il solo collante). E affidò a Bagnasco una transizione che non è mai iniziata. In quel momento, nel 2007, iniziò la guerra a colpi di dossier, calunnie e rivelazioni.

Poi c’è stata l’elezione di Francesco. Il nuovo Papa ha lasciato che Bagnasco terminasse il suo mandato come presidente, ma ha cambiato il segretario generale. Crociata è stato mandato a Latina con una nomina che sa di immeritato esilio, e ha scelto come “commissario” Galantino, ripristinando l’assetto dei tempi di Paolo VI. Eppure la Cei è rimasta immobile, rimane immobile. Francesco nomina vescovi inattesi, dà e nega le porpore con chirurgica precisione? Niente. Francesco fa un discorso a Firenze, in novembre, che bolla come una eresia (pelagiana) il politicare politicante di molti anni? Niente. Francesco chiede di entrare in stato sinodale? Niente. Francesco fa un discorso sul prete scalzo che sembra il ritratto del missionario che vorrebbe nominare presidente della Cei del dopo-Bagnasco? Niente.

In questi niente si inserisce il discorso di Bagnasco. Esso va iscritto nelle tensioni irrisolte con la Segreteria di Stato, che aveva chiesto di riservare la parola “matrimonio” a quello eterosessuale. Si polarizza rispetto alla mossa preventiva con cui la Civiltà Cattolica ha enunciato un “sì ma” alle riforme costituzionali, esigentissimo tanto per Renzi che per i suoi oppositori. Va letto sullo sfondo della distanza mantenuta da Galantino e dal Papa rispetto al “family day”. Costituisce un tentativo autolesionista di negare allo sforzo parlamentare di Alfano e Lorenzin la dignità politica che si sono guadagnati al governo, per dare fiducia agli estremisti di centro.

E di fatto apre la ricerca del nuovo presidente della Cei. Quello per intenderci che se farà due mandati, arriverà all’Italia del 2027: quella dopo-Renzi, del dopo-Mattarella, del dopo-Europa, del dopo-Francesco. L’uomo che dovrà ridestare la chiesa italiana e il suo episcopato dal torpore brontolone in cui resta assorto. Da qui al 7 marzo 2017 i vescovi dovranno cercarlo: e mostrare davanti alla chiesa, al conclave e al Paese di saper andare oltre rimpianti e furberie, di saper vedere in modo sinodale le questioni di fondo: il ministero di un cattolicesimo che ormai si affida al clero prodotto dai movimenti e da questi “premarcati”; la penitenza in una chiesa che ha accettato anche il discorso sulla misericordia pur di offrire soluzioni low-cost alla fatica del cammino della vita; la carità fatta con le proprie mani e non con i fondi pubblici; la costruzione di culture e saperi in una chiesa dove l’iperdevozionalismo si salda con un cristianesimo ridotto ad antidolorifico o a condimento del potere.

Fra un anno la Cei avrà un nuovo presidente: la decantazione dell’era Bagnasco finisce con frasi goffe (nemmeno Pio XII domandò mai l’obiezione a celebrare i matrimoni civili che la chiesa considerava turpe concubinato); ma apre per i vescovi un tempo per parlare, pensare, pregare, e poi ancora pensare. Sarà un tempo breve e duro.

Alberto Melloni, storico della Chiesa La Repubblica” 19 maggio 2016

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/05/19/la-nuova-era-della-cei-e-i-mali-della-chiesa31.html?ref=search

 

Papa ed vescovi. Laici e cattolici al tempo della Chiesa a due velocità.

Sono in molti a chiedersi che cosa stia accadendo sotto il cielo di Santa Romana Chiesa: una Chiesa «a due velocità»? Che cosa significa che da una parte il Papa ci stupisca con la sua iperattività promettendo un diaconato femminile, redarguendo preti e vescovi per la loro mondanità e gli agi che alcuni di loro si permettono, visitando solo capitali extraeuropee, mentre dall’altra la Conferenza episcopale italiana sembra talvolta rispolverare i toni d’altri tempi, interviene nelle faccende politiche italiane, stigmatizza il Parlamento per le scelte fatte in materia di unioni civili ma al tempo stesso – tramite il suo quotidiano – prende le distanze da ipotesi di referendum con ciò implicitamente ammettendo di temerne un risultato opposto alle sue speranze e alla sua linea e di essere quindi consapevole della sua debolezza?

Forse le cose parrebbero più chiare se non ci fermassimo all’attivismo pontificio e a quello dei vescovi, che sono solo dei sintomi, e cercassimo invece di cogliere la sostanza del problema. Che è quella del paradossale contrasto tra la straordinaria presenza mediatica e carismatica di un Papa che aspira a una profonda riforma spirituale e anche strutturale della Chiesa da una parte e la realtà invece di una comunità dei fedeli profondamente indebolita e impoverita. Una comunità che non si sente più in grado di sostenere il ruolo di coprotagonista della storia. «Quante divisioni ha il Papa?» chiedeva Stalin. E, da buon ex studente del collegio sacerdotale della sua Tbilisi, sapeva bene che le divisioni del Papa non erano certo “corazzate” come le sue; eppure, non ne ignorava il formidabile potere.

Bene, quel potere oggi è infinitamente indebolito. La società dei consumi e dei profitti, il “mondo dell’Avere” (anziché dell’Essere) come lo definiva Eric Fromm, ha avuto la meglio nella civiltà occidentale: che è – non dimentichiamolo – quella alla quale appartengono tutti i ceti dirigenti e prominenti del mondo, anche nei Paesi non “occidentali”. Oggi la massima parte degli stessi cattolici è costituita da “cattolici sociologici”, cioè da gente che magari – e sempre meno spesso – è anche battezzata o magari si sposa in Chiesa, ma nella quale la vita religiosa non ha più alcun peso pratico.

Quando ero ragazzo, nel rossissimo quartiere di San Frediano della rossa Firenze degli anni Quaranta-Cinquanta, la benedizione quaresimale delle case e della famiglie da parte dei parroci era un evento fondamentale dell’anno, al quale ci si preparava con cura e devozione; oggi questo mondo è ormai irrimediabilmente finito, la Chiesa parla e i cattolici non l’ascoltano. Lo aveva già detto con chiarezza mezzo secolo fa Giovanni XXIII: non siamo più padroni della società, bisogna accettare di divenirne minoranza qualificata che ne sia coscienza, sale della terra… D’altronde, quella della Cei non è propriamente «ingerenza della Chiesa nelle questioni italiane»: le diocesi italiane sono fatte, dal vescovo all’ultimo credente, di cittadini appunto italiani, che hanno pur il diritto di dire la loro come ce l’hanno i componenti delle comunità cristiane riformate, ebraiche, musulmane, buddhiste, i membri delle logge massoniche e gli atei.

I vescovi italiani hanno ben il diritto di dire la loro: e chiamare tutto ciò «ingerenza» è roba da Ottocento. Ma che la ripetitività di questi appelli sia un sintomo di debolezza è un fatto. Tanto più che il capo della Chiesa cattolica sembra non curarsene. Quando Francesco dice che la Chiesa cattolica non desidera entrare nelle questioni politiche italiane non afferma che i cattolici italiani farebbero bene a non occuparsi di politica: vuole soltanto avvertire che la vera battaglia si svolge altrove, e che non è affatto importante se la società civile italiana accetterà o no le coppie omosessuali (un tema sul quale il magistero cattolico è comunque inequivocabile). Il nucleo della questione di oggi è un altro: ed è la ragione per la quale Papa Francesco visita le capitali extraeuropee e si astiene, per ora, dal misurarsi con quelle “occidentali”.

Questo Papa parla in termini apocalittici e planetari. Per lui, il grande e principale problema dell’umanità è l’ingiustizia sociale che regna sovrana nel mondo e la nostra “cultura dell’indifferenza” che è incapace di scorgerla. Per questo egli va ripetendo che è necessario partire dalle periferie. Noi, abitanti dei “centri” occidentali in crisi quanto volete ma ancora relativamente ricchi e in qualche caso opulenti, siamo vittime di una pluridecennale illusione prospettica: in fondo, pensiamo che più o meno sia così dappertutto. Fino a qualche anno fa ci andavamo perfino ripetendo che tutto il mondo procedeva verso la pace: c’erano guerre dappertutto, dal Vietnam al Vicino Oriente all’America latina, ma nella nostra isola felice l’eco delle esplosioni non arrivava. Oggi sappiamo che non è così: eppure, non abbiamo ancora capito come vive la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta e in fondo non ce ne importa, e secondo il Papa la vera crisi della Chiesa cattolica sta in ciò, non nel fatto che la gente non vada più a messa o non ubbidisca alla Cei. Il Cristo sta ancora in croce ma nessuno gli fa più caso: e questo, il vecchio prete che viene dalle Villas Miseria non lo accetta, come non digerisce gli attici dei cardinali. Per questo continua a visitare le periferie: quando sarà il momento, e solo allora, aggredirà le capitali della «cultura dell’indifferenza». Una battaglia perduta in partenza? Forse. Ma è la sua. Se non si capisce questo, è inutile chiedersi dove stia andando la Chiesa.

Franco Cardini, storico                     Il Messaggero            18 maggio 2016

www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/papa_vescovi_chiesa-1739661.html

 

I quattro chiodi a cui Bergoglio appende il suo pensiero

            Erano i suoi criteri guida fin dalla gioventù. E ora ispirano il suo modo di governare la Chiesa. Eccoli per la prima volta analizzati da un filosofo e missionario di frontiera. Qual è il criterio guida di papa Francesco, del suo magistero liquido, mai definitorio, volutamente aperto alle più contrastanti interpretazioni?

            È lui stesso a ricordare qual è, all’inizio della “Amoris laetitia”: “Ricordando che ‘il tempo è superiore allo spazio’, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero”. Più avanti, nella stessa esortazione, Francesco traduce così tale criterio: “Si tratta di generare processi più che dominare spazi”.

            “Il tempo è superiore allo spazio” è effettivamente il primo dei quattro criteri guida che Francesco elenca e illustra nel documento programmatico del suo pontificato, l’esortazione “Evangelii gaudium”. Gli altri tre sono: l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte.

            È da una vita che Jorge Mario Bergoglio si ispira a questi quattro criteri e principalmente al primo. Il gesuita argentino Diego Fares, nel commentare la “Amoris laetitia” sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica”, cita ampiamente degli appunti di conversazione con l’allora provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, datati 1978, tutti “sull’ambito dello spazio d’azione e sul senso del tempo”.

            Non solo. L’intero blocco della “Evangelii gaudium” che illustra i quattro criteri è la trascrizione di un capitolo dell’incompiuta tesi di dottorato scritta da Bergoglio nei pochi mesi da lui trascorsi in Germania, a Francoforte, nel 1986. La tesi verteva sul teologo italo-tedesco Romano Guardini, che infatti è citato nell’esortazione. A rivelare questo retroterra della “Evangelii gaudium è stato lo stesso papa Francesco, in un libro uscito in Argentina nel 2014 sui suoi anni “difficili” come gesuita: “Anche se non riuscii a completare la mia tesi, lo studio che feci allora mi aiutò molto per tutto quello che venne dopo, compresa l’esortazione apostolica ‘Evangelii gaudium’, visto che in essa tutta la parte sui criteri sociali è tratta dalla mia tesi su Guardini“.

            È quindi indispensabile analizzare questi criteri, se si vuole comprendere il pensiero di papa Francesco. Ed è ciò che fa nel testo che segue padre Giovanni Scalese, 61 anni, barnabita, dal 2014 capo della missione “sui iuris” dell’Afghanistan, unico avamposto della Chiesa cattolica in quel paese, dove svolge anche ruoli diplomatici come addetto dell’ambasciata d’Italia. Oltre che missionario in India e nelle Filippine e assistente generale dell’ordine dei Barnabiti, padre Scalese è stato insegnante di filosofia e rettore del Collegio alla Querce di Firenze. E da questo collegio ha preso per sé il nome di “Querculanus”, con il quale firma le riflessioni che affida a un blog, nel quale si può leggere integralmente il suo testo, qui un po’ abbreviato: I postulati di papa Francesco. Scalese tra l’altro osserva che è in forza di questi postulati di sapore storicista, hegeliano, che papa Francesco polemizza di continuo contro l’astrattezza della “dottrina”, opponendole una “realtà” a cui ci si dovrebbe adeguare. Come dimenticando che la realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata da una dottrina, “rischia di risolversi in caos”.

I quattro postulati di papa Francesco

Possono essere considerati come i postulati del pensiero di papa Francesco, dal momento che, oltre a risultare ricorrenti nel suo insegnamento, vengono da lui presentati come criteri generali di interpretazione e valutazione. Essi sono:

v  il tempo è superiore allo spazio;

v  l’unità prevale sul conflitto;

v  la realtà è più importante dell’idea;

v  il tutto è superiore alla parte.

In “Evangelii gaudium” 221 Francesco li chiama “principi”. Personalmente ritengo invece che essi possano essere considerati “postulati”, termine che nel vocabolario Zingarelli della lingua italiana designa una “proposizione priva di evidenza e non dimostrata ma ammessa ugualmente come vera in quanto necessaria per fondare un procedimento o una dimostrazione”. Sempre in “Evangelii gaudium” 221 il papa scrive che i quattro principi “derivano dai grandi postulati della dottrina sociale della Chiesa”. Ma nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa quelli che sono indicati come “principi permanenti” e “veri e propri cardini dell’insegnamento sociale cattolico” sono piuttosto la “dignità della persona umana”, il “bene comune”, la “sussidiarietà”, la “solidarietà”, ai quali sono connessi la destinazione universale dei beni e la partecipazione, oltre ai “valori fondamentali della vita sociale” come verità, libertà, giustizia, amore.

            Ebbene, si fa fatica a cogliere la derivazione dei quattro postulati di “Evangelii gaudium” dai suddetti “principi permanenti” della dottrina sociale della Chiesa. O perlomeno tale derivazione non è così evidente; occorrerebbe metterla in luce e non darla per scontata. Sta di fatto che essi sono sempre stati i principi primi del pensiero di papa Francesco. Il gesuita argentino Juan Carlos Scannone ci informa che “quando Jorge Mario Bergoglio era provinciale, nel 1974, già li usava. Io facevo parte con lui della congregazione provinciale e l’ho ascoltato richiamarli per illuminare diverse situazioni che si trattavano in quel consesso”. Si tenga presente che nel 1974 Bergoglio aveva 38 anni, era gesuita da sedici anni (1958), si era laureato in filosofia da una decina d’anni (1963), era sacerdote da cinque anni (1969), era provinciale da uno (1973-1979) e non era ancora stato in Germania (1986) per completare i suoi studi. Sembrerebbe quindi che quei quattro postulati siano il risultato delle riflessioni personali dell’allora giovane Bergoglio. Nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” Francesco li ripropone “nella convinzione che la loro applicazione può rappresentare un’autentica via verso la pace all’interno di ciascuna nazione e nel mondo intero” (n. 221).

            Primo postulato: “Il tempo è superiore allo spazio”. Tra i quattro postulati, questo sembrerebbe il più caro a papa Francesco. Lo troviamo enunciato la prima volta nell’enciclica “Lumen fidei” (n. 57). Lo ritroviamo, insieme con gli altri tre principi, in “Evangelii gaudium” (nn. 222-225). È successivamente ripreso nell’enciclica “Laudato si’” (n. 178). È infine citato, per ben due volte, nell’esortazione apostolica “Amoris laetitia” (nn. 3 e 261). Esso è però quello meno immediatamente comprensibile nella sua formulazione. Diventa chiaro solo quando viene spiegato. “Evangelii gaudium” lo illustra nel modo seguente: “Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci” (n. 223).

            Più stringata l’esposizione di “Amoris laetitia”: “Si tratta di generare processi più che dominare spazi” (n. 261). Ma in quest’ultima esortazione apostolica si fa una sorprendente applicazione del principio in questione: “Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cf Gv 16:13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali” (n. 3).

            Dobbiamo sinceramente riconoscere che la derivazione di tale conclusione dal principio in esame non è così immediata ed evidente come il testo sembrerebbe supporre. Parrebbe di capire che l’essenza del primo postulato stia nel fatto che non si debba pretendere di uniformare tutto e tutti, ma lasciare che ciascuno percorra la propria strada verso un “orizzonte” (nn. 222 e 225) che rimane piuttosto indefinito. Nell’intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro su “La Civiltà Cattolica” del 19 settembre 2013 Francesco espone il principio in una prospettiva più teologica: “Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa” (p. 468).

            Sulla rivista “PATH” della Pontificia Accademia Teologica (n. 2/2014, pp. 403-412) don Giulio Maspero individua le fonti del principio in sant’Ignazio e in Giovanni XXIII, citati da Francesco nell’intervista a padre Spadaro, e nel beato Pietro Favre, citato in “Evangelii gaudium” 171; mentre esclude come fonte Romano Guardini, egli pure citato in EG 224. Al principio viene riconosciuta “una profonda radice trinitaria”, mentre la sua chiave ermeneutica, di natura prettamente teologica, viene rinvenuta nell’affermazione della presenza e della manifestazione di Dio nella storia. Francamente, si fa un po’ di fatica a seguire il ragionamento di don Maspero in questo suo appassionato commento del principio della superiorità del tempo rispetto allo spazio. Personalmente, anziché le radici teologiche – che rimangono tutte da dimostrare – non posso non avvertire alla base del primo postulato alcuni filoni della filosofia idealistica, come lo storicismo, il primato del divenire sull’essere, la scaturigine dell’essere dall’azione (“esse sequitur operari“), ecc. Ma è un discorso che andrebbe approfondito dagli esperti in sede scientifica.

            Secondo postulato: “L’unità prevale sul conflitto”. Anche tale principio è stato enunciato per la prima volta nell’enciclica “Lumen fidei” (n. 55). La sua trattazione più diffusa si trova in “Evangelii gaudium” (nn. 226-230). Lo ritroviamo infine nell’enciclica “Laudato si’” (n. 198). EG parte da una constatazione: “Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà” (n. 226). E descrive tre atteggiamenti: “Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (n. 227).

            Il terzo atteggiamento si basa sul principio: “l’unità è superiore al conflitto“, che è appunto detto “indispensabile per costruire l’amicizia sociale” (n. 228). Tale principio ispira il concetto di “diversità riconciliata” (n. 230), ricorrente nell’insegnamento di papa Francesco, soprattutto in campo ecumenico. Il grosso problema di tale postulato è che esso presuppone una visione dialettica della realtà molto simile a quella di Hegel: “La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” (n. 228).

            Questa “risoluzione su di un piano superiore” richiama tanto la “Aufhebung” hegeliana. Non sembra poi casuale che al n. 230 si parli di una “sintesi”, che evidentemente presuppone una “tesi” e un’“antitesi”, i poli in conflitto tra loro. Anche in questo caso il discorso andrebbe approfondito.

            Terzo postulato: “La realtà è più importante dell’idea”. Esso è esposto in “Evangelii gaudium” (nn. 231-233) e successivamente ripreso in “Laudato si’” (n. 201): “Esiste anche una tensione bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza” (EG 231).

            Potrebbe sembrare che tale postulato sia quello più facilmente comprensibile e accettabile, quello più vicino alla filosofia tradizionale. L’approfondimento che ne fa “Evangelii gaudium” è assai attraente e, a prima vista, assolutamente condivisibile: “L’idea – le elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi” [Platone, “Gorgia”, 465] (n. 232).

            Nella citata rivista della Pontificia Accademia Teologica, padre Giovanni Cavalcoli si lascia andare a un entusiastico commento di tale principio, assimilandolo, senza ulteriori puntualizzazioni, al tradizionale realismo gnoseologico aristotelico-tomistico. A mio parere, però, non tiene conto di due aspetti importanti:

  1. del contesto in cui viene esposto il principio, che è un contesto sociologico con ricadute di carattere pastorale. “Evangelii gaudium” non è un saggio di filosofia della conoscenza: pur trattandosi di un principio filosofico, il terzo postulato viene utilizzato in funzione dello sviluppo della convivenza sociale e della costruzione di un popolo (n. 221);
  2. del linguaggio utilizzato, che non è un linguaggio tecnico. Quando lì si parla di “idealismi e nominalismi inefficaci” non ci si sta riferendo alle correnti storiche dell’idealismo e del nominalismo, tanto è vero che si usa il plurale. Soprattutto, i termini “idea” e “realtà” sono intesi in un significato diverso da quello in cui potrebbe intenderli la gnoseologia tradizionale. La “realtà” di cui si parla in “Evangelii gaudium” non è la realtà metafisica, sinonimo di “essere”, ma una realtà puramente fenomenica. L’“idea” non è la semplice rappresentazione mentale dell’oggetto, ma, come il testo stesso indica, è sinonimo di “elaborazioni concettuali” (n. 232) e quindi di “ideologia”. D’altra parte, l’uso di espressioni esistenziali come, per esempio, il verbo “coinvolgere” avrebbe dovuto far capire immediatamente che non si tratta del linguaggio scolastico tradizionale.

Tali osservazioni hanno conseguenze importanti. Il postulato “la realtà è più importante dell’idea” non ha niente a che vedere con l’“adaequatio intellectus ad rem”. Esso significa piuttosto che dobbiamo accettare la realtà così com’è, senza pretendere di cambiarla in base a principi assoluti, per esempio i principi morali, che sono solo “idee” astratte, che il più delle volte rischiano di trasformarsi in ideologie. Questo postulato è alla base delle continue polemiche di Francesco contro la dottrina. Significativo, a questo proposito, quanto affermato da papa Bergoglio nell’intervista a “La Civiltà Cattolica”: “Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla ‘sicurezza’ dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante” (pp. 469-470).

                Quarto postulato: “Il tutto è superiore alla parte”. Troviamo tale principio esposto diffusamente in “Evangelii gaudium” (nn. 234-237) e ripreso poi sinteticamente in “Laudato si’” (n. 141): “Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili” (EG 235).

            Va qui apprezzato tale tentativo di tenere insieme i due poli che sono in tensione tra loro – il tutto e la parte – e che in EG vengono identificati con la “globalizzazione” e la “localizzazione” (n. 234). La valorizzazione della parte, che non deve scomparire nel tutto, viene rappresentata dalla figura geometrica, cara a papa Francesco, del poliedro, in contrapposizione alla sfera (n. 236). Il problema è che il principio, così com’è formulato, non esprime tale equilibrio tra il tutto e le parti. Esso parla apertamente di superiorità del tutto rispetto alle parti. E questo è in contrasto con la dottrina sociale della Chiesa, la quale dichiara, sì, la persona un essere costitutivamente sociale, ma allo stesso tempo ne riafferma il primato e l’irriducibilità all’organismo sociale (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, nn. 125 e 149; Catechismo della Chiesa cattolica, nn. 1878-1885). C’è il rischio che, limitandosi a ripetere il quarto postulato senza ulteriori precisazioni, esso possa essere inteso in senso marxista e giustificare così l’annullamento dell’individuo nella società. Si tenga presente che, anche da un punto di vista ermeneutico, il rapporto tra il tutto e le parti non viene descritto in termini di superiorità ma di circolarità, il cosiddetto “circolo ermeneutico”: il tutto va interpretato alla luce delle parti; le parti alla luce del tutto.

            Conclusioni. Che nella realtà in cui ci troviamo a vivere, esistano delle polarità, è un fatto difficilmente controvertibile. Ciò che conta è l’atteggiamento che assumiamo di fronte alle tensioni che sperimentiamo quotidianamente nella nostra vita. Dalla considerazione dei quattro postulati nel loro insieme sembrerebbe di dover concludere che l’atteggiamento più consono sia quello di comporre, sì, i poli che si oppongono, ma presupponendo che uno dei due sia superiore all’altro: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte.

            Personalmente ho sempre ritenuto che le tensioni vadano piuttosto “gestite”; che sia utopistico pensare che esse possano essere, finché siamo su questa terra, definitivamente superate; che, oltre tutto, sia sbagliato parteggiare per uno dei due poli contro l’altro, quasi che il bene sia solo da una parte e dall’altra ci sia solo male (una visione manichea della realtà sempre rifiutata dalla Chiesa). Il cristiano non è l’uomo dell’”aut aut”, ma dell’”et et”. In questo mondo c’è – deve esserci! – spazio per tutto: per il tempo e per lo spazio, per l’unità e per le diversità, per la realtà e per le idee, per il tutto e per le parti. Nulla va escluso, pena lo squilibrio della realtà, che può portare a conflitti devastanti.

            Un’altra osservazione che si potrebbe fare al termine di questa riflessione è che l’esposizione di questi quattro postulati dimostra che, nell’agire umano, è inevitabile lasciarsi condurre da alcuni principi, che per loro natura sono astratti. A nulla serve quindi polemizzare sull’astrattezza della “dottrina”, opponendole una “realtà” a cui ci si dovrebbe semplicemente adeguare. La realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata da alcuni principi, rischia di risolversi in caos.

            Il problema è: quali principi? Sinceramente non si vede perché i quattro postulati di cui ci siamo occupati possano legittimamente orientare lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo, mentre la medesima legittimità non possa essere riconosciuta ad altri principi, a cui viene continuamente rinfacciata la loro astrattezza e il loro carattere, almeno potenzialmente, ideologico. Che la dottrina cristiana corra il rischio di trasformarsi in ideologia, non lo si può negare. Ma lo stesso rischio viene corso da qualsiasi altro principio, compresi i quattro postulati di “Evangelii gaudium”; con la differenza che questi sono il risultato di una riflessione umana, mentre la dottrina cattolica si fonda su una rivelazione divina.

            Che non avvenga a noi oggi ciò che è accaduto a Marx, il quale, mentre tacciava di ideologia i pensatori che lo avevano preceduto, non si accorse che stava elaborando una delle ideologie più rovinose della storia.

Sandro Magister        19 maggio 2016         http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351301

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CHIESE EVANGELICHE

Benedizione delle coppie omosessuali, un anno di dibattiti tra i protestanti.

Un anno fa, la Chiesa protestante unita di Francia (Église protestante unie de France, EPUdF), adottava quasi all’unanimità una misura che permetteva ai pastori di benedire delle coppie omosessuali. Questa decisione ha suscitato una certa agitazione nel protestantesimo francese e avviato una vasta riflessione nella Federazione protestante di Francia su ciò che unisce numerose Chiese molto diverse le une dalle altre.

Quando il sinodo nazionale della Chiesa protestante unita di Francia (EPUdF), riunito a Sète (Hérault) nel maggio 2015, ha deciso di aprire “la possibilità per quelle e quelli che vi vedono un giusto modo di testimoniare il Vangelo, di praticare una benedizione liturgica delle coppie sposate dello stesso sesso che vogliono porre la loro unione davanti a Dio”, l’atmosfera era serena. Quel voto era il punto d’arrivo di lunghi mesi di dibattiti e lavori. Eppure, vive opposizioni non hanno tardato a levarsi, sia all’interno che all’esterno.

Alcune parrocchie hanno minacciato di lasciare l’EPUdF. Due di esse lo hanno fatto. Contro la decisione del sinodo, diverse decine di membri hanno dato avvio a “Les Attestants”, un movimento che, pur rifiutando la scissione, riunisce oggi quasi il 15% dei pastori e auspica un “rinnovamento” della fede per la loro Chiesa. “Ciò che ci ha spinti a creare questa corrente non è semplicemente quella decisione, ma il problema più globale del rapporto con la Scrittura”, spiega Gilles Boucomont, pastore al tempio del Marais, a Parigi, uno dei luoghi del culto luterano-riformato tra i più frequentati in Francia. “Il radicamento nelle Scritture bibliche è alla base del protestantesimo, ma la misura adottata dall’EPUdF sulla benedizione delle coppie omosessuali cita un solo riferimento, che oltretutto è tolto dal suo contesto”.

Per James Woody, pastore al vicino tempio dell’Oratoire du Louvre, la decisione non è contraria allo spirito biblico se si fa una lettura storico-critica dei testi. “Molti pastori si sono accorti nel loro ministero che lì c’era un tema vero”. In un anno, sono state benedette una decina di coppie dello stesso sesso. Anche nella Federazione protestante di Francia (FPF), di cui l’EPUdF fa parte, questo voto ha suscitato turbamento, soprattutto tra gli evangelicali, tradizionalmente difensori di posizioni più classiche sui temi della famiglia. Conseguenza di queste frizioni, in certe città francesi le celebrazioni comuni previste per il 2017 per i 500 anni della Riforma hanno subito cambiamenti di programma.

“Nessuno ha valutato le ricadute di questa decisione”, afferma Jean-Marc Potenti, pastore della Comunione delle Chiese dello Spazio francofono, evangelicale, membro sia della FPF che del Consiglio nazionale degli Evangelicali di Francia (CNEF). A capo del coordinamento evangelicale della FPF, Jean-Marc Potenti è stato in prima linea sulla scia del voto. “Quella decisione, vissuta dolorosamente, ha fortemente influito sul legame federativo”, deplora il pastore, parlando di una “vera onda d’urto”. Questi disaccordi hanno permesso di sottolineare altre disfunzioni interne alla FPF. Quindi, nel gennaio scorso, essa si è riunita per riflettere sul rafforzamento dei legami che uniscono le diverse Chiese di questa federazione, convalidando la realizzazione di un processo di consultazione e di dialogo nel corso dell’anno, condotto da una commissione di otto persone rappresentanti delle diverse sensibilità teologiche e spirituali.

Per il pastore Daniel Cassou, responsabile della comunicazione per l’EPUdF, è ora giunto il momento della “pacificazione”. Le diverse parrocchie attualmente riflettono sul problema a livello locale, in vista di una sintesi nazionale che dovrebbe essere elaborata nel prossimo ottobre. “Si tratta di riconoscere le ferite reciprocamente inflitte e di cogliere questa occasione dolorosa per fare passi avanti positivi”, spera Jean-Marc Potenti. “Per chiarire la nostra identità: tra la conciliazione della libertà di ogni Chiesa e la necessaria armonia per vivere insieme”.

Marie Malzac “La Croix”, 19 maggio 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut6791

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CONSULTORI FAMILIARI

Latina. Tribunale e consultorio, un accordo per le pene alternative.

Il tribunale di Latina potrebbe, una volta tanto, bruciare le tappe. Il presidente, Catello Pandolfi, ha comunicato che nel consultorio familiare diocesano di Latina sarà avviata la mediazione penale nel procedimento di “messa alla prova”. Si tratta di una possibilità, recentemente prevista dal nostro ordinamento, che consente di seguire un percorso alternativo sospendendo il processo se la pena non è superiore ai 4 anni.

Ora i percorsi di messa alla prova saranno ampliati e riguarderanno anche lavori di pubblica utilità. Grazie al regolamento firmato recentemente dal ministro Orlando, la possibilità viene ora rafforzata offrendo agli uffici giudiziari la possibilità di sfruttare al meglio le finalità deflattive dell’istituto. Ci saranno infatti delle convenzioni in materia di lavori di pubblica utilità che il Ministero o i Presidenti dei Tribunali competenti possono stipulare con Stato, enti locali e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il regolamento prevede che la prestazione lavorativa non sarà retribuita, verrà svolta in favore della collettività. Sono previsti lavori in ambito socio-sanitario, protezione civile, tutela del patrimonio ambientale e culturale, ma anche manutenzione di immobili e servizi pubblici.

A Latina il consultorio diocesano è anche sede dell’Ufficio “In Mediazione” di conciliazione e riparazione in ambito minorile che pratica, ormai da anni, nel settore minorile, la mediazione penale. E’ l’unico centro in provincia di Latina dove si svolge la mediazione penale minorile e per anni è stato il primo centro nel Lazio. L’idea, adesso, è di estendere i progetti anche ai maggiorenni.

Attualmente l’attività di mediazione che si svolge nel consultorio riguarda vari ambiti ed è effettuata da operatori di diversa formazione: avvocati, sociologi, psicologi, assistenti sociali, educatori che hanno frequentato corsi specifici di mediazione. L’imputato per avere l’estinzione del reato deve adempiere ad un programma di trattamento sotto la supervisione del giudice e seguito dagli operatori dell’Uepe, uffici di esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia. L’Uepe di Latina ha sottoscritto il protocollo nel febbraio 2015 con il Tribunale di Latina per l’operatività della messa alla prova, ma per la completa attuazione occorreva la previsione delle attività di mediazione penale. Ora il presidente Pandolfi ha individuato il centro diocesano in grado di garantire lo svolgimento della mediazione penale. Il centro, l’unico presente in provincia, è presieduto da Vincenzo Serra, mentre l’ufficio di mediazione è coordinato dall’avvocato Pasquale Lattari.

Marco Cusumano                  11 maggio 2016

www.ilmessaggero.it/latina/tribunale_e_consultorio_un_accordo_per_le_pene_alternative-1724979.html

 

Oristano. Convegno della Federazione sarda dei consultori familiari diocesani.

L’equipe cuore del consultorio familiare. È questo il titolo del convegno organizzato dalla Federazione regionale dei consultori familiari diocesani, in programma domenica 29 maggio dalle ore 9.30, nell’aula magna dell’ex Istituto di Scienze Religiose, in via Cagliari 179 a Oristano. L’appuntamento, presieduto da padre Christian Steiner, presidente della Federazione sarda dei consultori familiari, prevede la presenza di don Giuseppe Colleo, psicologo e psicoterapeuta, consulente etico presso il consultorio familiare “Al Quadraro” di Roma, che terrà una relazione dal titolo “La consulenza etica nel consultorio familiare”.

Gabriela Moschioni, consulente familiare, past president Ucipem (Unione italiana dei consultori familiari prematrimoniali e matrimoniali) e relatrice alla Conferenza nazionale della famiglia, promossa nel 2010 a Milano dal Ministero degli interni su “Sostegno alla famiglia e alla vita”, affronterà, invece, il tema “L’equipe luogo di accoglienza, di confronto, di crescita, di sintesi e di scelte operative”. Il convegno offre l’occasione per analizzare e conoscere meglio le potenzialità e l’utilità del lavoro dell’equipe, cuore pulsante dei consultori familiari diocesani. Un occhio di riguardo è rivolto anche alla consulenza etica che ha come scopo quello di aiutare le persone a cogliere la dimensione etico valoriale nella soluzione dei loro problemi, con particolare attenzione al rispetto dell’uomo. In Sardegna operano cinque consultori familiari diocesani nelle sedi di Cagliari, Sassari, Nuoro, Oristano e Iglesias. L’equipe di ciascun consultorio, composta da consulenti familiari, specialisti in medicina, psicopedagogia, teologia morale e diritto, offre la propria competenza a quanti desiderano essere aiutati a chiarire e a trovare una soluzione ai problemi personali, di coppia o nell’ambito della relazione genitoriale. Il servizio a favore delle persone è gratuito, e la consulenza è coperta dal segreto professionale. L’evento di maggio, aperto a tutti gli operatori dei consultori sardi, è rivolto anche a quanti intendono conoscere più da vicino il mondo della consulenza familiare. Al termine dei lavori è prevista, alle ore 12, la celebrazione della Santa Messa nella Cattedrale di Oristano. Dopo la pausa pranzo, il calendario prevede i lavori di gruppo nei locali dell’ex Istituto di Scienze Religiose.

Franca Mulas             Segretaria Consiglio Federazione Consultori familiari

www.arborense.it/Chiesa/Oristano-L-equipe-cuore-del-consultorio-familiare

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Cuneo. Attività in corso.

  • La cordata: gruppi di auto-mutuo-aiuto per separati o divorziati. Ascolto, confronto, comprensione. Basati sulla condivisione dell’esperienza vissuta.
  • Adozioni internazionali: con gruppi di formazione pre-adozione ed interventi post-adozione.
  • Gruppi di parola: uno spazio di confronto, condivisione e sostegno per bambini dai 6 agli 11 anni, figli di genitori separati o divorziati.
  • Corsi di preparazione al matrimonio:
  • Incontro con il ginecologo, lo psicologo, l’avvocato e per chi lo desidera il consulente morale.
  • Corsi di educazione alla sessualità: per ragazzi di scuole medie inferiori e superiori.

http://www.consultoriocuneo.org/attivita

           

Roma 1. Via della Pigna 13. Relazioni del XXX Seminario.

            Il XXX Seminario annuale del 5-6 marzo 2016 ha celebrato i 50 anni dell’attività e ricordato il fondatore, Luciano Cupia: “la strada per il perdono. Dalla consapevolezza dei nostri limiti all’accettazione attraverso la relazione d’aiuto”

            Un seminario tutto da ricordare non solo per il tema affrontato, il perdono, per l’importanza dei relatori, la completezza e l’esaustivita delle loro relazioni e presentazioni che hanno offerto una lettura del tema trattato dal punto di vista psicologico, pedagogico e della consulenza familiare.

Da ricordare anche per la numerosa (210 persone da tutta Italia) ed intensa partecipazione, le vivide sensazioni, le forti emozioni, i pensieri, le opinioni e le intenzioni positive sollecitate insieme ai vissuti e le sofferenze provate non sempre culminanti nella gioia della riconciliazione. Un Seminario ricco di mille spunti, quindi, iniziato con buona lena ed il passo del montanaro, avvezzo a riconoscere e superare gli abissi, e proseguito per individuare e fornire con cognizione ai consulenti familiari, attraverso anche le proprie esperienze e quelle provocate dagli esercizi svolti con la guida dei consulenti del Centro la Famiglia, strumenti validi ed idonei per affrontare con consapevolezza nella consulenza il difficile percorso della gestione del conflitto e del raggiungimento, ove/come possibile, del perdono e della riconciliazione.

Un Seminario caratterizzato dal raggiungimento di alcune tappe significative:

v  i 50 anni dalla fondazione del centro La Famiglia avvenuta ai primi di marzo 1966;

v  i 40 anni dalla creazione della Scuola per consulenti familiari nata nel dicembre 1976 dalle esperienze dei primi corsi per fidanzati;

v  i 30 anni di seminari che, nel tempo, si sono affermati come contributo, preciso, puntuale e consolidato alla formazione dei consulenti familiari e non solo.

Sono on line i materiali preparati dai relatori (cui è la proprietà intellettuale dei testi e presentazioni) delle due giornate.

cliccare su  qui                            www.centrolafamiglia.org/materiali-xxx-seminario-2016

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DALLA NAVATA

Santissima Trinità – anno C -22 maggio 2016.

Proverbi         08, 22 «Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra.»

Salmo                         08, 04 «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?»

Romani           05, 01 «Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.»

Giovanni         16, 12 «In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.»

 

Commento del santo padre Francesco.

Oggi, festa della Santissima Trinità, il Vangelo di san Giovanni ci presenta un brano del lungo discorso di addio, pronunciato da Gesù poco prima della sua passione. In questo discorso Egli spiega ai discepoli le verità più profonde che lo riguardano; e così viene delineato il rapporto tra Gesù, il Padre e lo Spirito. Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti.

Gesù rivela in che cosa consiste questa missione. Anzitutto lo Spirito ci guida a capire le molte cose che Gesù stesso ha ancora da dire (cfr Gv 16,12). Non si tratta di dottrine nuove o speciali, ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli (cfr v. 15). Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini.

Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, mediante il Battesimo, lo Spirito Santo ci ha inseriti nel cuore e nella vita stessa di Dio, che è comunione di amore. Dio è una “famiglia” di tre Persone che si amano così tanto da formare una sola cosa. Questa “famiglia divina” non è chiusa in sé stessa, ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte. L’orizzonte trinitario di comunione ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio.

Il nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio-comunione ci chiama a comprendere noi stessi come esseri-in-relazione e a vivere i rapporti interpersonali nella solidarietà e nell’amore vicendevole. Tali relazioni si giocano, anzitutto, nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, perché sia sempre più evidente l’immagine della Chiesa icona della Trinità. Ma si giocano in ogni altro rapporto sociale, dalla famiglia alle amicizie all’ambiente di lavoro: sono occasioni concrete che ci vengono offerte per costruire relazioni sempre più umanamente ricche, capaci di rispetto reciproco e di amore disinteressato.

La festa della Santissima Trinità ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia. In questa missione, siamo sostenuti dalla forza che lo Spirito Santo ci dona: essa cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità. La Vergine Maria, nella sua umiltà, ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. Ci aiuti Lei, specchio della Trinità, a rafforzare la nostra fede nel Mistero trinitario e ad incarnarla con scelte e atteggiamenti di amore e di unità.

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2016/documents/papa-francesco_angelus_20160522.html

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DEMOGRAFIA

Dietro il grande tabù demografico.

“Ma che cosa succede in Italia?”, chiedevano dalla Francia già nel 1983. Blangiardo: “Da noi parlare di famiglia era proibito. Ti accusavano di fascismo. Se continuiamo così scenderemo fino a 40 milioni di abitanti”. Servirebbero 750 mila nascite ogni anno per mantenere l’Italia a livelli di Germania, Francia e Inghilterra.

Nell’aprile del 1983 la rivista dei demografi francesi Population et Sociétés pubblicò in prima pagina un saggio dal titolo: “Cosa sta succedendo in Italia?”. Quell’anno, per la prima volta nella storia del nostro paese, il saldo naturale fra nascite e morti risultò passivo. I dati dell’Istat indicarono nel periodo compreso fra gennaio e maggio 247.582 morti contro 244.078 nati. Non era mai successo nella storia d’Italia. Tre anni dopo, la fecondità italiana si stabilizzò sul dato più basso al mondo di figli per donna: 1,3. Da allora, soltanto piccole oscillazioni, tra 1,2 e 1,3 figli per donna. Siamo ancora fermi lì.

Quell’anno fu un demografo francese, Pierre Chaunu, a denunciare quanto stava accadendo in Italia e in Europa attraverso libri come “Un futur sans avenir. Histoire et population”. Il docente della Sorbona Chaunu, un protestante ferrigno, denunciò “i predicatori-mercanti della pillola di Pincus”, il “planning familiare che pianifica solo la sterilità”, i tedeschi sensibilizzati dalle pratiche eugenetiche criminali del nazismo che avevano trasformato il loro paese in “laboratorio del neo-malthusianesimo”, gli esperti in demografia pavidi che stavano occultando la verità. Come Giovanni Battista, Chaunu gridava nel deserto che la tragedia era imminente, che siamo all’ora X. Ma nessuno ascoltava, specie da noi. Eppure, la natalità in Italia si era dimezzata nell’arco di poco più di dieci anni: nel 1970, infatti, ogni donna italiana faceva ancora 2,4 figli. Ma per dieci anni facemmo finta che non stesse succedendo nulla di strano. Poi, nel 1997, la Banca mondiale indicò l’Italia al primo posto – a pari merito con Bulgaria, Spagna e Hong Kong – nella classifica delle nazioni con la più bassa natalità. Poi si sarebbero aggiunti colossi come Germania e Giappone.

In quel 1997, in dieci comuni italiani per la prima volta non si registrarono nascite. “L’Italia, diventata il paese più vecchio del mondo con una natalità che è sprofondata, prefigura la demografia di domani nei paesi ricchi”, scriveva quell’anno il quotidiano francese Libération. La “piramide delle età” si sarebbe rovesciata al punto che oggi il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, evoca una “apocalisse”. L’Italia è un paese che si spegne e che ha già perso una generazione. Un paese dove presto i soli famigliari di sangue saranno i propri genitori. La tendenza alla denatalità è iniziata nei primi anni Ottanta, quando la crisi economica non c’era e l’Italia conobbe i “dinks”, “double income no kids”: doppio stipendio niente bambini. “L’Italia è dal 1977 che è sotto i due figli per donna, parliamo di trentanove anni di mancato ricambio generazionale e da allora non si fa che scendere”, dice al Foglio Gian Carlo Blangiardo dell’Università di Milano, uno dei più grandi esperti in Italia di demografia. “C’è stata la pianura demografica degli anni Ottanta, in cui si viaggiava su dati drammatici. Poi, nei primi anni Novanta, sono arrivati gli stranieri, che hanno contribuito demograficamente con le nascite ma anche con i ricongiungimenti familiari e con i nuovi arrivi. Almeno fino al 2012, quando hanno smesso anche loro di fare figli e sono passati da un tasso di fertilità di 2,5 a 1,9. Nel 1990 scrissi un libro dal titolo ‘Meno italiani più problemi?’. Provavo a spiegare il fenomeno di cui ci stavamo rendendo conto”.

Come spiega questo trentennale tabù italiano sulla demografia? “Con lo scheletro nell’armadio del periodo fascista. Una volta c’erano gli ‘assegni familiari’, ma poi sono diventati assegni di povertà. Non si poteva parlare neppure di ‘intervento demografico’ ma di ‘intervento sociale’. Guai a nominare la ‘demografia’, era fascista. Anche parlare di ‘famiglia’ non era una cosa bella in quegli anni, era controcorrente. Adesso qualunque scelta politica che ha risorse scarse e sposta risorse, dando risultati nel lungo corso di dieci anni, non è politicamente opportuna. La Francia funziona perché è un secolo che investe nella famiglia. E reggono gli Stati Uniti. Da noi servirebbero degli statisti che accettano il rischio di azioni impopolari, togliendo risorse a qualcuno. Ma sono dodici milioni oggi gli ultra 65 anni e tra poco diventeranno venti milioni. Chi potrà invertire allora questo fenomeno?”.

Centomila persi nell’aborto ogni anno. L’Institute of Family Policies in America ha calcolato che “il numero di aborti nei ventisette paesi europei in un anno (1.207.646) equivale al deficit nel tasso di natalità in Europa”. E’ possibile che il buco demografico sia anche responsabilità delle politiche sulla vita, altro tabù per la cultura dominante? “Certo, facciamo un calcolo sull’Italia” continua il professor Blangiardo. “Abbiamo circa cinquecentomila nuovi nati ogni anno, abbiamo una durata di vita di ottant’anni, un banale calcolo dimostra che avremo una popolazione di quaranta milioni di abitanti. Oggi siamo sessanta milioni e viviamo ottant’anni. Servirebbero 750 mila nascite ogni anno per mantenere l’Italia a livelli di Germania, Francia e Inghilterra. Mezzo milione sono le nascite attuali. Ci sono centomila aborti legali ogni anno. Ce ne mancano 250 mila per rimanere sessanta milioni. Noi ne bruciamo centomila con questa legge che è un diritto, ma che ha avuto un prezzo preciso, altissimo”. A cosa andremo incontro? “Le condizioni attuali cristallizzate ci porteranno a una popolazione di quaranta milioni di italiani a fine secolo. Per invertire questo fenomeno servono mezzo milione di persone all’anno”. Useremo l’integrazione, come da più parti si chiede di fare? “E’ follia. Ci sono dei limiti, ragionevoli, a quanto e cosa una società possa accogliere. Allora devi provare a uscire riportando il tasso di fertilità di 1,3 a 1,6-7, gestendo così in maniera morbida la transizione verso livelli demografici che garantiscono almeno la crescita zero, non dico la crescita demografica. E questo non è possibile nell’immediato. Ci sarà invece un ridimensionamento della consistenza numerica, mentre proseguirà il processo di invecchiamento. Stiamo scomparendo per presunzione. Anche l’Impero romano aveva una crisi demografica alla sua fine. La caduta di Roma ha coinciso con la crisi demografica. E’ la storia della famosa Cornelia, la madre dei Gracchi. C’era una legge dei Romani che imponeva a chi non avesse figli di non poter portare gioielli. Qualcuno fece notare a Cornelia che lei poteva averne, ma lei rispose: ‘No, i miei figli sono i miei gioielli’. Ecco, noi non abbiamo più gioielli”.

Giulio Meotti                    Il foglio quotidiano         18 maggio 2016

www.ilfoglio.it/cultura/2016/05/18/calo-demografico-nascite-aborto-bambini-famiglia___1-v-142160-rubriche_c336.htm

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Genitori sempre più vecchi. Ed è boom di figli in provetta.

Aumenta l’età delle coppie che si affidano alla procreazione assistita. Solo il 55% ha problemi di sterilità. E in molti pagano di tasca propria. Mentre il governo studia un piano nascite il Censis certifica che dietro le culle vuote c’è anche e soprattutto l’illusione delle coppie di poter mettere al mondo un figlio anche quando il nostro orologio biologico ha detto stop. Per credere basta leggere i dati del rapporto sulla procreazione assistita, che mostra come a spingere uomini e donne verso l’opzione della provetta non sia tanto la sterilità quanto l’età anagrafica. Sempre più in aumento, tanto da toccare in media i 39,8 anni per gli uomini e i 36,7 per le donne. Tanto per capire per i ginecologi una giovane di 29 anni è già etichettata come una «puerpera attempata» e anche gli uomini dopo i 35 non è che stiano messi tanto bene in fatto di fertilità. E allora ecco che quella della procreazione assistita diventa l’ultima spiaggia per chi è già sugli «anta». Tant’è che alla provetta si aggrappa solo il 55% delle coppie con reali problemi di sterilità. Come dire che quasi la metà vi ricorre perché l’età ha reso ovuli e seme non più in grado di generare. 

Anche la via medicalmente assistita è però irta di ostacoli. Le coppie che vi ricorrono saranno pure mature, «over mind» ed economicamente solide, ma oltre il 40% lamenta gli eccessivi costi economici e la stessa percentuale si scontra con liste d’attesa troppo lunghe, mentre quasi il 44% denuncia una scarsa attenzione agli aspetti comunicativi e relazionali.  

A fare la differenza è anche la geografia. Se in media il 35% ha pagato tutto di tasca propria, al Sud il 51% ha dovuto fare da sé e al Centro la percentuale di chi ha dovuto coprire per intero i costi sale addirittura al 67%. E non si tratta di conti proprio leggeri, visto che solo per un ciclo in media si sborsano 4 mila euro, anche se poi di tentativi quasi sempre ne servono parecchi. L’indagine del Censis non lo dice, ma le cose diventano ancora più complicate quando si deve ricorrere all’eterologa, che nonostante la sentenza della Corte Costituzionale l’abbia fatta uscire dai confini dell’illegalità, resta sconosciuta in larga parte d’Italia, eccezion fatta per Toscana ed Emilia Romagna, dove il servizio pubblico in qualche modo provvede. Colpa degli ovuli impossibili da reperire gratuitamente e dei quali la legge vieta espressamente la compravendita. Anche se i recenti fatti di cronaca lasciano pensare che quei divieti non siano ovunque rispettati. 

Se la procreazione assistita diventa l’opzione di chi ha scelto di fare i figli tardi, il governo prova però a rimettere in linea il nostro orologio con quello biologico, pensando a misure a sostegno delle nascite. Perché se si fanno i figli sempre più in là negli anni è anche e soprattutto colpa dell’instabilità lavorativa e dei servizi che non ci sono. La titolare della Salute, Beatrice Lorenzin, ha già buttato sul tavolo la proposta di raddoppio del bonus-bebè: 160 euro per il primo, 240 per il secondo. Una robina da 2,2 miliardi in aggiunta ai 3,6 già stanziati per sei anni. Troppi per l’Economia, che pensa a misure più articolate, come maggiori sgravi per le rette degli asili nido e la possibilità di spalmare il congedo parentale di 6 mesi con una riduzione dell’orario di lavoro, per evitare che assenze troppo prolungate spingano le imprese a non assumere. Idee da mettere in pratica prima che il collasso demografico diventi irreversibile. 

Paolo Russo               La stampa      19 maggio 2016

www.lastampa.it/2016/05/19/italia/cronache/genitori-sempre-pi-vecchi-ed-boom-di-figli-in-provetta-8DLShLlifNqI3XdGKukC1H/pagina.html

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Famiglia ignorata, vogliamo risposte.

«Il Governo vuole essere il curatore fallimentare del Paese o investire sulla famiglia? Questo è il momento di investire sull’impresa più redditizia che abbiamo: la famiglia» spiega Gigi De Palo, presidente del Forum introducendo i lavori del convegno “Famiglia, la vera impresa in Italia” in corso a Roma in occasione della Giornata internazionale della famiglia e che ha visto la partecipazione del Ministro Costa.

«La legge sulle unioni civili non ci piace perché ha distolto l’attenzione pubblica verso i veri problemi del Paese» prosegue De Palo. «Adesso, però, e non come contropartita, ma per una questione di giustizia e di futuro, chiediamo un fisco che applichi finalmente il dettato costituzionale della “capacità contributiva”. La proposta del Forum è quella del FattoreFamiglia, una no tax area proporzionata al numero dei familiari che dipendono da quel reddito. «Ringraziamo il Ministro Costa per la proposta di un patto con le famiglie e per la volontà politica di cercare una soluzione reale e concreta. Ci sembra un segnale importante».

In occasione della Giornata internazionale della famiglia il Forum ha organizzato un incontro con il ministro Enrico Costa ed i professori Alessandro Rosina, Anna D’Addio dell’Ocse, Carlo Federico Perali durante il convegno di sabato 14 maggio 2016 “Famiglia, la vera impresa in Italia”.

Link            in  relazione     www.forumfamiglie.org/eventi.php?&evento=11698

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Dio non è un’equazione.

«Oggi in questa messa ci sono otto coppie che celebrano il cinquantesimo del loro matrimonio — è una vera testimonianza in questo tempo della cultura del provvisorio — e una coppia che celebra il venticinquesimo». Proprio per loro il Papa ha offerto la messa celebrata venerdì mattina, 20 maggio, nella cappella della Casa Santa Marta, proponendo all’omelia una riflessione sul matrimonio per ricordare che testimoniare la verità significa anche avere comprensione per le persone.

Ad attirare subito l’attenzione, ha affermato Francesco riferendosi alle letture liturgiche del giorno, è la scena raccontata nel Vangelo di Marco (10, 1-12): «Gesù, partito da Cafàrnao, venne nella regione della Giudea e al di là del fiume Giordano», e «la folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli insegnava loro, come era solito fare». Protagonista, ha spiegato il Papa, è «la folla che viene a lui: lui insegnava e loro ascoltavano». Tutte quelle persone seguivano Gesù proprio perché avevano piacere ad ascoltarlo. Il Vangelo dice che «lui insegnava con autorità, non come insegnavano gli scribi e i farisei». Per questo «la folla, il popolo di Dio, era con Gesù». Però, precisa l’evangelista Marco, c’era anche, «dall’altra parte, quel piccolo gruppetto di farisei, sadducei, dottori della legge che sempre si avvicinavano a Gesù con cattive intenzioni». Il Vangelo ci dice chiaramente che la loro intenzione era di «metterlo alla prova»: erano sempre pronti a usare la classica buccia di banana «per far scivolare Gesù», togliendogli così «l’autorità».

Queste persone, ha affermato il Pontefice, «erano staccate dal popolo di Dio: erano un piccolo gruppetto di teologi illuminati che credevano di avere tutta la scienza e la saggezza». Ma «a forza di cucinare la loro teologia, erano caduti nella casistica e non potevano uscire da quella trappola». Tanto da ripetere continuamente: «Non si può, non si può!». Di queste persone, ha aggiunto il Papa, Gesù «parla tanto nel capitolo 23 di Matteo e le descrive bene».

«La questione è il matrimonio» ha messo in chiaro Francesco. Un tema, ha fatto notare, che «sembra provvidenziale, con otto coppie che celebrano il cinquantesimo delle nozze e una il venticinquesimo» presenti alla celebrazione della messa nella cappella della Casa Santa Marta. Per «due volte, nel Vangelo, questo piccolo gruppetto» rivolge una «domanda a Gesù sul matrimonio». In particolare «una volta i sadducei, che non credevano nella vita eterna, hanno presentato una domanda sul levirato», cioè riguardo a «quella donna che si era sposata con sette fratelli e poi alla fine morì: quale sarà il marito di questa nell’aldilà?». Una domanda pensata proprio per tentare di «mettere in ridicolo Gesù». Invece l’altra domanda è questa: «È lecito ripudiare una donna?». Ma «Gesù, in ambedue le situazioni, non si ferma sul caso particolare, va oltre: va alla pienezza del matrimonio».

«Nel caso del levirato — ha spiegato il Papa — Gesù va alla pienezza escatologica: “In cielo non ci saranno né marito né moglie, vivranno come angeli di Dio”». Egli va «alla pienezza della luce che viene da quella pienezza escatologica». Dunque, «Gesù ricorda la pienezza dell’armonia della creazione: “Dall’inizio della creazione, Dio li fece maschio e femmina”». È chiaro, ha affermato il Pontefice, che «lui non sbaglia, lui non cerca di fare una bella figura davanti a loro: “Dio li fece maschio e femmina”». E subito aggiunge: «Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e la donna lascerà suo padre e sua madre e si unirà al marito — è sottointeso — e i due diventeranno una carne sola». Questo «è forte», ha commentato il Papa, aggiungendo: «Una simbiosi, una carne sola, così va avanti: non sono più due, ma una sola carne». Dunque «l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».

«Sia nel caso del levirato sia in questo Gesù risponde dalla verità schiacciante, dalla verità contundente — questa è la verità! — dalla pienezza, sempre», ha fatto notare il Papa. Del resto «Gesù mai negozia la verità». Invece «questo piccolo gruppetto di teologi illuminati negoziava sempre la verità, riducendola alla casistica». A differenza di Gesù, il quale «non negozia la verità: questa è la verità sul matrimonio, non ce n’è un’altra». Tuttavia «Gesù è tanto misericordioso — ha insistito Francesco — è tanto grande che mai, mai, mai chiude la porta ai peccatori». Lo si comprende quando domanda loro: «Cosa vi ha comandato Mosè? Cosa vi ha ordinato Mosè?». La risposta è che «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio». Ed «è vero, è vero». Ma Gesù risponde così: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma». Qui, ha affermato il Pontefice, «c’è la pienezza della verità, quella verità forte, contundente, ma anche la debolezza umana, la durezza del cuore». E «Mosè, il legislatore, fece questo, ma le cose restino chiare: la verità è una cosa e un’altra la durezza del cuore che è la condizione peccatrice di tutti noi». Perciò «Gesù lascia qui la porta aperta al perdono di Dio ma a casa, ai discepoli, ripete la verità: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio”». Gesù «lo dice chiaramente, senza giri di parole: “E se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”».

Il passo evangelico ci rivela «le verità che Gesù ci dà, che sono verità piene, ricevute da Dio, dal Padre, che sono sempre così». E ci mostra anche «il modo», cioè «come Gesù si comporta davanti ai peccatori: con il perdono, lasciando la porta aperta». E «in questo riferimento a Mosè, lascia un po’ qualcosa per il perdono della gente che non è riuscita a portare avanti questo compromesso». Del resto, anche «oggi, in questo mondo in cui viviamo, con questa cultura del provvisorio, questa realtà di peccato è tanto forte». Gesù, «ricordando Mosè, ci dice che c’è la durezza del cuore, c’è il peccato». Ma «qualcosa si può fare: il perdono, la comprensione, l’accompagnamento, l’integrazione, il discernimento di questi casi». Con la consapevolezza che «la verità non si vende mai, mai». Gesù «è capace di dire questa verità tanto grande e, allo stesso tempo, essere tanto comprensivo con i peccatori, con i deboli». Invece «questo gruppetto dei teologi illuminati, che cadono nella casistica, sono incapaci sia di orizzonti grandi sia di amore e comprensione nei confronti della debolezza umana».

«Noi dobbiamo camminare con queste due cose che Gesù ci insegna: la verità e la comprensione» ha suggerito Francesco. E «questo non si risolve come un’equazione matematica», ma «con la propria carne: cioè, io cristiano aiuto quella persona, quei matrimoni che sono in difficoltà, che sono feriti, nel cammino di avvicinamento a Dio». Resta il fatto che «la verità è quella, ma questa è un’altra verità: siamo tutti peccatori, in strada». E «sempre c’è questo lavoro da fare: come aiutare, come accompagnare, ma anche come insegnare a quelli che vogliono sposarsi qual è la verità sul matrimonio». È «curioso» notare che Gesù «parlando della verità dice le parole chiare: ma con quanta delicatezza tratta gli adulteri». E così «a quella donna, che hanno portato davanti a lui per essere lapidata, con quanta delicatezza» dice: «Donna nessuno ti ha condannata, neppure io, va in pace e non peccare più!». E «con quanta delicatezza Gesù tratta la samaritana, che aveva una bella storia di adulteri», dicendole: «chiama tuo marito» e lasciando che lei dica: «io non ho marito».

In conclusione, Francesco ha auspicato «che Gesù ci insegni ad avere con il cuore una grande adesione alla verità e anche con il cuore una grande comprensione e accompagnamento a tutti i nostri fratelli che sono in difficoltà». E «questo è un dono: lo insegna lo Spirito Santo, non questi dottori illuminati che per insegnarci hanno bisogno di ridurre la pienezza di Dio a una equazione casistica».

Meditazione mattutina          20 maggio 2016

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2016/documents/papa-francesco-cotidie_20160520_dio-non-equazione.html

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GAZZETTA UFFICIALE

Pubblicata la legge 20 maggio 2016, n. 76 sulle Unioni civili e convivenze.

Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze

(G.U. n. 118 del 21 maggio 2016) Entrata in vigore: 5 giugno 2016 www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2016-05-21&atto.codiceRedazionale=16G00082&elenco30giorni=true

con ampio rimando alle note

E’ già stato osservato come sia stata sufficiente la semplice traduzione dello scopo della nuova normativa per coniare degli istituti con nomi appropriati di immediata comprensione; ci si riferisce naturalmente alle “unioni civili” che regolamenteranno le unioni di persone dello stesso sesso e alle “convivenze di fatto” che dettano una disciplina per le coppie non unite in matrimonio. Impegno appunto premiante che ha superato il rischio di fregiarci di acronimi non particolarmente accattivanti, a cominciare dai PACS (patto civile di solidarietà) dell’On. Franco Grillini, a cui hanno fatto seguito i DICO (diritti e doveri delle persone conviventi) delle On.li Pollastrini e Bindi (Governo Prodi). Così come i CUS (contratti di unione solidale) a mente dell’On. Cesare Salvi e i DIDORE (diritti e doveri di reciprocità dei conviventi) degli On.li Brunetta e Rotondi (Governo Berlusconi).

Il testo (che si compone di un unico articolo e 69 commi), contiene molti richiami a norme codicistiche e a leggi speciali che lo rendono di non immediata comprensione. Basta citare un comma qualunque, ad esempio il n.19, dove si legge testualmente: “All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano altresì le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma n. 4) e 2659 del codice civile.”. E’ di tutta evidenza che chi è non è del mestiere non è in grado di comprendere nell’immediatezza che la nuova previsione normativa rende applicabili alle unioni civili anche le norme sul diritto agli alimenti nel caso in cui uno dei due contraenti versi in stato di bisogno.

            Da qui nasce la necessità di una analisi illustrativa limitata, in questo primo intervento in questa sede alle sole unioni civili (e, quindi, dal comma 1 al comma 35) attesa la corposità dei richiami normativi.

vedi      Francesca Maria Zanasi                   Quotidiano giuridico

www.quotidianogiuridico.it/documents/2016/05/23/le-unioni-civili-in-gu-guida-pratica-sulla-legge-76-2016

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GESTAZIONE PER ALTRI

Di chi è figlio il figlio. No allo sfruttamento del corpo altrui con soluzioni flessibili per i minori.

Con l’espressione «maternità surrogata» (più volgarmente definita «utero in affitto») s’intendono quelle tecniche di fecondazione medicalmente assistita mediante le quali la fase della gestazione dell’embrione si realizza a opera di una donna (definita «madre surrogata») che s’impegna, una volta effettuato il parto, a «consegnare» il nascituro (normalmente) a due persone (definiti «coppia committente» o «genitori intenzionali») con cui si è accordata precedentemente, e dai quali può aver ricevuto (come no) entrambi i gameti o anche uno solo. Tale impegno può sorgere in base a un accordo che preveda un corrispettivo di tipo economico (si parla in tale ipotesi di «maternità surrogata commerciale») ovvero in cui non sia previsto alcun corrispettivo, se non il rimborso delle spese sostenute (in tal caso si parla di «accordo di maternità surrogata altruistico»).

Già sulla base di tale definizione possono distinguersi differenti tipologie di surrogazione di maternità con le seguenti ipotesi:

  1. entrambi i gameti sono dei «genitori intenzionali» e quindi il patrimonio genetico del figlio che nascerà è interamente derivante da essi;
  2. soltanto uno dei due gameti (o quello femminile o quello maschile) è degli stessi;
  3. nessuno dei due gameti proviene dai «genitori intenzionali», né dalla madre surrogata, ma entrambi provengano da donatore e donatrice esterni.

È abbastanza evidente che mentre le coppie eterosessuali possono accedere a tutte e tre le ipotesi, quelle omosessuali possono utilizzare soltanto la seconda e la terza. Tali differenze sono rilevanti anche sul piano giuridico, in quanto la legislazione dei paesi che riconoscono la legittimità di dette pratiche possono distinguere, e distinguono, tra le suddette previsioni, ad esempio consentendone alcune e vietandone altre.

Nell’ordinamento italiano, è stabilito invece un divieto di carattere generale: l’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 stabilisce infatti che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». Quindi nessuna delle ipotesi sopra descritte è legalmente possibile in Italia.

Se chi partorisce non è genitore. Nel contesto della legge in cui tale divieto è contenuto, lo stesso risulta(va) conseguenza diretta di un altro divieto, di carattere più generale, relativo a qualsiasi pratica di fecondazione eterologa: essendo vietata quest’ultima, infatti, a maggior ragione devono ritenersi vietate le pratiche di surrogazione di maternità. Tuttavia, il venir meno del divieto di fecondazione eterologa, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 162/2014, rende il divieto della maternità surrogata non più diretta e immediata conseguenza logica dell’altro, bensì frutto di una scelta autonoma del legislatore, come anche riconosciuto dalla Corte costituzionale. Quest’ultima, infatti, nella citata sentenza, espressamente richiama «la cosiddetta “surrogazione di maternità”, espressamente vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, con prescrizione non censurata e che in nessun modo e in nessun punto è incisa dalla presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia». Tale puntualizzazione ha l’evidente scopo di chiarire, evitando possibilità di equivoci, che il venire meno del divieto di fecondazione eterologa non comporta il venir meno del divieto di surrogazione di maternità: e per conseguire tale obiettivo di chiarificazione la Corte eccede forse un po’ nelle espressioni, essendo evidente che in qualche modo la dichiarazione d’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa produce effetti anche sull’altro: almeno – come accennato – in termini di presupposti logici e giustificativi.

Se infatti nella vigenza del divieto di fecondazione eterologa la ratio del divieto di surrogazione di maternità poteva ritenersi implicito nella necessità che il processo generativo avvenga tutto interno alla coppia, e che quindi non soltanto non vi sia alcun apporto da parte di terzi (nella fecondazione eterologa: mediante la donazione di gameti; nella maternità surrogata: mediante la gestazione in un utero diverso), ma altresì che il figlio sia interamente frutto del patrimonio genetico della coppia, con il venir meno del primo divieto la ragione giustificatrice del mantenimento del secondo sembra riposare prevalentemente nell’esigenza di tutelare la dignità della donna che si presta a «surrogare», come anche nella difficoltà (non soltanto giuridica) di distinguere tra colei che partorisce e colei che diventa madre (al di fuori delle ipotesi di adozione, ovviamente). Ma su questo diremo meglio tra poco.

Turismo genitoriale. Tornando al divieto in questione, va rilevato tuttavia come esso sia previsto anche in altri stati (ad esempio in Francia o in Spagna), mentre in altri tale pratica è ammessa e disciplinata (sempre ad esempio, Russia, India, Ucraina, alcuni stati USA, Canada): ciò apre dunque alla possibilità per coppie di cittadini italiani di ricorrere alla surrogazione di maternità ove questa sia consentita. Qualora ciò avvenga, il problema giuridico può porsi allorché tale coppia richieda all’ordinamento italiano il riconoscimento (come «proprio») del bambino nato. Tale problema si articola in duplice direzione: da un lato, in relazione al trattamento sanzionatorio cui sottoporre le persone che sono ricorse, all’estero, a tale pratica; in secondo luogo, con riguardo alla sorte del bambino nato e ai suoi rapporti giuridici con la coppia che l’ha «commissionato».

Con riguardo al primo versante, occorre in primo luogo considerare l’applicabilità della sanzione (penale) prevista dalla legge per chi ricorra a maternità surrogata (come si è detto, la reclusione da tre mesi a due anni e la multa da 600.000 a un milione di euro). Difficilmente, al riguardo, la coppia che ricorre a tale pratica può essere punita in Italia, in quanto il «fatto criminoso» avviene in territorio estero, per di più in uno stato che considera quella pratica legale e quindi non punibile. È vero, infatti, che il fatto commesso da un cittadino italiano all’estero sarebbe punibile a richiesta del ministro della Giustizia, quando l’autore si trovi sul territorio dello stato (cf. art. 9 § 2 Codice penale), secondo una lettura letterale della disposizione del Codice: tuttavia, secondo la dottrina prevalente, per punire il colpevole occorre che il fatto risulti punibile anche all’estero. Quindi, sulla base di tale interpretazione, siccome nel paese dove viene realizzata la maternità surrogata questa non viene prevista come reato, difficilmente potrà essere punita in Italia. Anche relativamente ad altri reati è difficile immaginare l’imputabilità: la giurisprudenza recente ha infatti escluso, da un lato, la possibilità di comminare in tali ipotesi la sanzione prevista per il reato di alterazione di status (che punisce chi, «nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità»). Secondo alcuni tribunali, di tale reato non possono essere imputati due coniugi rientrati in territorio italiano con un neonato partorito a seguito di surrogazione di maternità in un paese dove ciò è consentito, se l’atto di nascita risulta conforme alla legge di quel paese, in quanto la disciplina italiana stabilisce che le dichiarazioni di nascita effettuate da cittadini italiani all’estero «devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità competenti».

Anche l’imputabilità per il reato (meno grave dell’altro) di falsa attestazione o dichiarazione su qualità personali (art. 495, § 2, n. 1 Codice penale) è stato escluso, in quanto la sanzione prevista per detto reato non può applicarsi alla condotta di chi rende dichiarazioni mendaci sull’identità, lo stato o altre qualità del minore, in epoca successiva alla formazione dell’atto di nascita, per ottenerne il riconoscimento in Italia.

Un caso: due sposi vanno in Ucraina. Esclusa dunque, almeno in base alla giurisprudenza attuale, la punibilità in Italia di chi ricorra a maternità surrogata in paesi ove tale tecnica è consentita dalla legge, il problema si sposta sulla sorte del bambino nato mediante detta tecnica: e qui occorre distinguere l’ipotesi in cui sia l’ovulo che lo spermatozoo siano di soggetti esterni alla coppia committente da quella in cui uno dei due gameti (o anche entrambi) provenga dalla stessa; giacché in questa seconda ipotesi almeno uno dei due «genitori intenzionali» è anche genitore biologico. La legislazione dei vari paesi stabilisce regole diverse nelle due situazioni: e quindi per definire il rapporto giuridico che viene a costituirsi tra genitori intenzionali e bambino nato dalla madre surrogata occorre riferirsi alla legislazione del paese in cui tale pratica venga realizzata. In ogni caso, deve essere esclusa l’attribuzione del bambino alla madre surrogata, la quale si è impegnata contrattualmente a non rivendicare alcun diritto in merito a esso (e non avrà verosimilmente alcuna intenzione di partorire quel figlio «per sé»).

Come dunque l’ordinamento italiano regola i rapporti tra «genitori intenzionali» e figlio nato mediante surrogazione di maternità? Di norma, le coppie italiane che ricorrono all’estero a tale pratica richiedono il riconoscimento della genitorialità così ottenuta anche da parte dell’ordinamento italiano, in primo luogo mediante il riconoscimento dell’atto di nascita redatto dallo stato estero. Di uno di questi casi si è occupata la giurisprudenza, giunta fino al giudizio della Corte di cassazione (e da questa risolto con la sentenza 11.11.2014, n. 24001). Il caso di specie riguardava due coniugi (quindi un uomo e una donna) che si erano recati in Ucraina ed erano colà ricorsi alla maternità surrogata, mediante fecondazione eterologa sia da parte maschile sia femminile (in altri termini, i gameti impiantati nella madre surrogata non appartenevano a nessuno dei componenti della coppia). La legge ucraina, come afferma la Corte di cassazione, consente la surrogazione di maternità soltanto nell’ipotesi in cui almeno il 50% del patrimonio genetico del nascituro provenga dalla coppia committente: pertanto, nel caso in questione, era stata violata anche la legge ucraina. I due componenti della coppia avevano successivamente dichiarato di essere i genitori biologici del figlio nato mediante surrogazione: per questa ragione essi erano stati sottoposti a procedimento penale per alterazione di stato. Tuttavia, nel certificato di nascita redatto in Ucraina i due erano riconosciuti genitori biologici, e tale atto di nascita era stato debitamente «apostillato» nell’ordinamento italiano: termine che indica, come afferma ancora la Corte di cassazione, l’autenticità del documento in relazione agli aspetti formali, ma non ne comporta l’automatica efficacia nell’ordinamento italiano. Dunque, i due coniugi chiedevano il riconoscimento nell’ordinamento italiano di quel documento redatto in Ucraina, e mediante il quale essi venivano riconosciuti genitori del bambino nato attraverso surrogazione di maternità.

Contrario all’ordine pubblico. Per comprendere la particolarità del caso, è bene sottolineare, inoltre, che i coniugi in questione avevano da tempo superato l’età in cui è consentita l’adozione di un neonato, e che per tre volte era stata respinta la loro domanda di adozione per «grosse difficoltà nella elaborazione di una sana genitorialità adottiva». Questo dunque il quadro cui si riferisce la sentenza della Cassazione: un quadro oggettivamente molto particolare, tale da rendere problematica una valutazione di carattere generale sulla decisione assunta (la quale, alla luce degli elementi indicati, appariva quasi scontata, ma anche difficilmente estendibile ad altre ipotesi).

In ogni caso, la decisione della Corte di cassazione stabilisce alcuni principi generali che devono essere attentamente considerati. Essa, confermando la decisione appellata (emessa dal Tribunale per i minorenni di Brescia), ricorda che in base all’art. 65 della legge n. 218/1995 i provvedimenti giudiziari stranieri in materia di filiazione possono essere trascritti e sono efficaci in Italia a condizione che essi non siano contrari all’ordine pubblico: secondo la Cassazione, il certificato di nascita emesso in Ucraina in questa circostanza (ancorché, nel caso specifico, sbagliato: ma ciò non rileva) va considerato contrario all’ordine pubblico italiano, in quanto «il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come già suggerisce la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali. Vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo tra le parti, l’ordinamento affida progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato». Tali affermazioni hanno carattere generale e, tuttavia, subito dopo, la sentenza sembra voler segnalare la particolarità del caso, rilevando che «le aperture registrate in dottrina verso alcune forme di maternità surrogata solitamente non riguardano la surrogazione eterologa, quella cioè realizzata mediante ovociti non appartenenti alla donna committente, che è priva perciò anche di legame genetico con il nato (…) né tantomeno riguardano le ipotesi in cui neppure il gamete maschile appartiene alla coppia committente, come nella specie».

In sostanza, sembra indicare la Cassazione, l’ipotesi in cui la surrogazione di maternità avvenga senza alcun gamete dei genitori committenti è palesemente contraria all’ordine pubblico: ma ad analoga conclusione può giungersi anche nelle altre ipotesi? La domanda resta senza risposta, sebbene il principio affermato dalla Cassazione risulti espresso in termini generali.

Interessante, anche in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di cui subito si dirà, è il passaggio della sentenza della Cassazione in cui si precisa che la decisione di non riconoscere in Italia il certificato ucraino non può considerarsi contrastante con la tutela del superiore interesse del fanciullo, che sempre deve essere garantita: al contrario, spiega la Corte di cassazione, «il legislatore italiano ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione (…) la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico”. Di conseguenza, la Cassazione ritiene che la coppia in questione non abbia mai assunto alcuna potestà genitoriale e che dunque, in mancanza di altri parenti del minore, correttamente il Tribunale per i minorenni ne abbia accertato lo stato di abbandono, dichiarandolo adottabile per affidarlo a una diversa coppia.

La gravità di tale conseguenza – peraltro coerente con la ricostruzione giuridica operata – sul piano personale e, soprattutto, sui diritti del minore, fa intendere tutta la complessità del problema: un bambino che senza alcuna responsabilità vive, magari per mesi e anche per anni, con una coppia e che da un certo punto in poi viene allontanato da essa per essere affidato a un’altra famiglia.

Il best interest del minore. Proprio con riguardo a tale ultimo aspetto, deve essere segnalato il diverso orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione II), espressasi sul punto (ma relativamente a diverso caso di specie), da ultimo con la sentenza 27.1.2015, n. 25358/12, Paradiso e Campanelli contro Italia. Il caso cui si riferisce quest’ultima decisione è abbastanza simile all’altro: si trattava sempre di una coppia italiana che, questa volta in Russia, aveva stipulato un contratto a titolo oneroso con una società per l’individuazione di una donna che accettasse di farsi impiantare nel grembo un embrione; in forza di tale contratto il bambino, una volta nato, è stato consegnato alla coppia committente, e nel certificato di nascita i coniugi sono stati registrati come padre e madre. Anche in questa circostanza i gameti non provenivano dalla coppia committente bensì da terzi; in questo caso, però, a differenza dell’altro, la coppia committente era stata autorizzata all’adozione internazionale. Tornati in Italia, i due «genitori» hanno chiesto all’anagrafe comunale di provvedere alla registrazione del certificato di nascita del bambino rilasciato dagli uffici russi: registrazione che è stata negata per i già segnalati motivi di ordine pubblico, con conseguente successivo allontanamento del bambino dalla coppia e suo affidamento ad altra coppia.

La Corte di Strasburgo (con 5 voti favorevoli e 2 contrari) ha condannato l’Italia al pagamento di una somma a favore della coppia in questione, ritenendo che essa avesse subito un danno morale causato dalla ingiusta rottura dei rapporti familiari con il bambino: secondo la Corte, infatti, e a differenza di quanto affermato dalla Corte di cassazione, il «miglior interesse del bambino» si realizza mantenendo il bambino nella «famiglia di fatto», «anche nell’ipotesi in cui questa si sia formata a seguito di utilizzazione di tecnologie (“maternità surrogata”) e procedure (aliene alla disciplina italiana riguardante l’istituto dell’adozione internazionale) marcatamente lesive, anche con risvolti giuspenalistici, di disposizioni legislative interne all’ordinamento italiano: tale “interesse” – secondo i giudici di Strasburgo – prevarrebbe sull’ordine pubblico interno». Il punto critico di tutta la vicenda relativa alla pratica della maternità surrogata sta – a mio avviso – proprio qui, come dirò in conclusione: non mi pare infatti che possa mettersi in discussione, almeno nel nostro paese, la valutazione negativa di tale pratica, e che quindi essa debba essere evitata, vietata, sanzionata, impedita. Il problema è invece un altro: una volta che la surrogazione di maternità sia stata utilizzata all’estero, quale sorte deve essere garantita al figlio nato mediante essa?

Una soluzione che da alcune parti è stata prospettata, e che ha esercitato notevole influenza anche sul dibattito relativo all’approvazione della legge sulle unioni civili, consiste nella possibilità d’affidare in adozione alla coppia «committente» il bambino nato mediante surrogazione di maternità. In tale ipotesi, come già accennato, la coppia si reca all’estero e stipula un contratto di surrogazione di maternità; una volta avuto il bambino torna in Italia e chiede alle autorità italiane che il bambino le venga assegnato in adozione. In tali casi, una prima distinzione da operare è tra il caso in cui la coppia sia di tipo eterosessuale rispetto all’ipotesi in cui i committenti siano due persone dello stesso sesso. Nella prima ipotesi, infatti, sussiste (perlomeno) la prima delle condizioni poste dalla legge sull’adozione: quella secondo la quale «l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni» (art. 3 legge n. 184/ 1983). Ovviamente questa è condizione necessaria ma non sufficiente: occorre che i coniugi posseggano tutti gli altri requisiti stabiliti dalla legge (e che quindi sia accertata e dichiarata la loro idoneità ad adottare), e occorre altresì che il bambino sia dichiarato adottabile.

Quando la coppia è omosessuale. Nel caso, invece, di coppia omosessuale, si possono prospettare situazioni diverse. Vi può essere l’ipotesi di due donne che, recandosi all’estero, si sottopongono a tecniche di fecondazione eterologa (in Italia ciò non è possibile, in quanto il ricorso a tale tecnica è consentito soltanto alle coppie coniugate): una di esse diventa dunque madre naturale, l’altra non ha alcun rapporto giuridico con il bambino che nasce. In tale circostanza alcune sentenze hanno riconosciuto l’adozione del bambino a favore della seconda donna, sulla base di quanto già stabilisce la legge, motivando tale soluzione in forza della tutela dell’interesse del minore che deve tener conto della valorizzazione di quel «legame inscindibile che, a prescindere da qualsiasi “classificazione giuridica”, nulla ha di diverso rispetto a un vero e proprio vincolo genitoriale». Si tratta, in questo specifico caso, di un’ipotesi di stepchild adoption non collegata a surrogazione di maternità, in quanto la maternità è condotta da una delle due donne, la quale è pertanto, come si è detto, madre biologica.

Diversa è l’ipotesi in cui il bambino nasca non a seguito di fecondazione eterologa bensì in forza di surrogazione di maternità: e ciò può avvenire – sempre rimanendo nelle ipotesi di coppie omosessuali – nel caso di una coppia omosessuale maschile (ove questa è l’unica soluzione possibile), come anche nel caso di coppia omosessuale femminile (dove invece tale ipotesi è eventuale, potendosi ricorrere a maternità surrogata con entrambi i gameti estranei alla coppia committente). In tali ipotesi, dunque, il bambino che eventualmente nasca verrà affidato alla coppia committente, sulla base della legislazione del paese in cui tale operazione si è realizzata: ma per l’ordinamento italiano questo rapporto genitoriale, come si è detto, non può essere riconosciuto, in quanto ritenuto contrario all’ordine pubblico. E allora potrebbe ricorrersi all’istituto dell’adozione: se uno o una dei due è genitore biologico (in quanto ha messo il proprio gamete), l’altro potrebbe essere riconosciuto genitore adottivo. Si realizzerebbe così una situazione che qualcuno ha definito di «un genitore biologico e un genitore sociale»: ove con «sociale» s’intende, appunto, quello adottivo.

Tale possibilità è stata di recente ammessa anche a favore di una coppia di uomini (si tratta della sentenza del Tribunale per i minori di Roma emessa alla fine del 2015 ma resa nota a marzo 2016, dopo essere divenuta definitiva). In particolare, si è trattato del caso di due uomini, regolarmente sposati in Canada secondo le leggi di quel paese, che hanno avuto un figlio con il seme di uno dei due e mediante maternità surrogata: il bambino che è nato, dunque, risulta figlio biologico dell’uomo che ha messo il seme, e il Tribunale ha riconosciuto l’adozione a favore dell’altro. In tutte queste ipotesi, l’adozione è stata riconosciuta – come detto – sulla base della legislazione vigente, e in particolare di quanto previsto dall’art. 44 della legge sull’adozione (la già richiamata n. 184/1983). In esso è disciplinata l’adozione «in casi particolari», casi cioè diversi da quelli «ordinari» cui si riferisce l’art. 6 della stessa legge. Tra tali casi «particolari» vi è l’ipotesi indicata alla lettera d): «Quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo». Siccome in tale ipotesi la legge non richiede che vi siano dei coniugi, e anzi si stabilisce che «l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato», il Tribunale per i minorenni di Roma ha ritenuto di poter riconoscere l’adozione a favore del partner. Rispetto ai casi «ordinari» di stepchild adoption, la particolarità di questa ipotesi è data dal fatto che il bambino è nato mediante maternità surrogata, mentre in altre circostanze il figlio di cui si chiede l’adozione a vantaggio del partner è figlio biologico di un componente della coppia, e nato o a seguito di rapporto naturale ovvero di fecondazione assistita (ma potrebbe essere anche figlio adottivo dello stesso).

Il disegno Cirinnà. Merita infine richiamare brevemente il dibattito relativo al disegno di legge sulle unioni civili e alle prospettive che esso potrebbe aprire. Il disegno di legge Cirinnà prevedeva, nella sua versione originaria, una modifica della legge sull’adozione, con riguardo proprio all’adozione in casi particolari; al posto della previsione attuale, in forza della quale un minore può essere adottato «dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge», s’intendeva introdurre la seguente: il minore può essere adottato «dal coniuge o dalla parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». In sostanza, si sarebbe introdotta la possibilità di riconoscere l’adozione a vantaggio del partner di un’unione civile del minore che già fosse figlio (naturale o adottivo) dell’altro componente della coppia. Com’è noto, nel testo approvato dal Senato tale previsione non compare, essendo stata eliminata sulla base di un accordo politico tra le forze interne della maggioranza. Essa richiede, comunque, qualche precisazione.

In primo luogo, sebbene la stepchild adoption possa anche non riguardare la maternità surrogata, tuttavia potrebbe applicarsi anche in relazione a essa: e per questa ragione vi è chi sostiene che ammettere la prima (in generale) potrebbe indurre a favorire il ricorso all’altra. In sostanza – questo è il ragionamento – se una coppia sa che il figlio che avrà mediante maternità surrogata (all’estero, ovviamente) sarà riconosciuto come proprio figlio adottivo, potrebbe essere indotta a ricorrervi con più facilità. Si tratta di un’ipotesi sicuramente ragionevole, che tuttavia richiede di essere approfondita. Che cosa, infatti, dovrebbe prevedere la legge, al fine di evitare la realizzazione dell’ipotesi prospettata? Essa dovrebbe espressamente escludere la possibilità di adottare un figlio avuto mediante maternità surrogata: ma se questi è il figlio biologico di uno dei due, difficilmente potrà essere sottratto a tale genitore biologico, al massimo non potrà essere dato in adozione all’altro. E anche nell’ipotesi in cui nessuno dei due sia genitore biologico, occorrerebbe stabilire non tanto l’impossibilità di adozione, quanto soprattutto l’obbligo di allontanare il bambino dalla coppia per darlo in adozione ad altri: e come verrebbe tutelato in tale ipotesi il best interest del minore? Il punto è assai delicato, come si dirà, e il dibattito pubblico non lo ha adeguatamente considerato: in ogni caso è evidente che il problema reale non è l’adozione, quanto il mantenimento del minore nel contesto familiare di fatto.

In secondo luogo, si è visto come, in base alla legislazione vigente, alcuni tribunali abbiano già ammesso la stepchild adoption, anche in ipotesi di maternità surrogata. Per rovesciare tale giurisprudenza, in attesa di una pronuncia della Corte costituzionale sul punto, la legge dovrebbe prevedere un esplicito divieto (con i problemi appena indicati): ma se non stabilisce nulla (come fa il Ddl Cirinnà, nella versione approvata), consentirà, verosimilmente, a quella giurisprudenza di consolidarsi. E ancora, occorre considerare se l’eventuale divieto di adozione a favore del partner possa consentire il perseguimento dello scopo, da molte parti e anche autorevolmente sostenuto, di consentire al figlio di avere «un padre e una madre». Nel caso di due donne o due uomini che vivono insieme, che hanno fatto ricorso alla maternità surrogata, e di cui una o uno è genitore biologico, è pacifico che il bambino continuerà a vivere in quel contesto familiare, indipendentemente dal riconoscimento dell’adozione a favore del partner: immaginare che, una volta preclusa la via dell’adozione, la madre biologica o il padre biologico decidano di separarsi dal loro partner di fatto e si uniscano a una persona di sesso diverso, al fine di consentire al figlio di avere un padre e una madre, sembra ipotesi fuori dalla realtà delle cose (e sinceramente non saprei quanto auspicabile per il bambino).

La prospettiva più probabile è che quella situazione di fatto rimanga tale, con l’unica conseguenza che il partner non-genitore non avrà alcun legame giuridico con il figlio: soluzione che non ottiene l’obiettivo che si vorrebbe perseguire, e che al contempo priva il figlio stesso della garanzia di veder riconosciuto, sul piano giuridico e quindi dei diritti, il proprio legame con il partner del proprio padre o della propria madre. Per questa ragione, pensare che non ammettendo in tali casi la stepchild adoption si possa ottenere l’obiettivo di garantire a ogni figlio un padre e una madre mi pare frutto di un evidente errore, così come pensare che se non si riconosce l’adozione per le coppie omosessuali queste non avranno più figli e non li cresceranno più.

Dignità. Come si è cercato di dimostrare attraverso questa complessa ricostruzione dei profili giuridici della surrogazione di maternità, i problemi che si pongono sono molti e difficilmente risolvibili. Il nodo di fondo mi pare costituito dalla necessità, da un lato, di evitare nella misura massima possibile il ricorso a tali pratiche, e al contempo di salvaguardare il best interest dei bambini nati in base a esse. Che infatti, e da un lato, la pratica della maternità surrogata debba avversarsi mi pare facilmente dimostrabile, anche in relazione ai documenti internazionali in materia di diritti delle persone. Basti richiamare, al riguardo, l’art. 21 (rubricato «divieto di profitto») della Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazione della biologia e della medicina, firmata a Oviedo il 4.4.1997, e recepita nel nostro paese con legge 28.3.2001 n. 145, in forza del quale «il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto»: principio che dovrebbe escludere il ricorso alla surrogazione di maternità perlomeno in tutti i casi in cui ciò sia determinato da un compenso di tipo economico (che costituiscono la normalità).

A ciò si aggiunga il valore della dignità umana, in alcuni ordinamenti espressamente sancito (come ad esempio nell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»), e comunque principio cardine del patrimonio costituzionale comune (europeo e non solo). Tale principio dovrebbe impedire che alcune donne siano costrette, soprattutto per ragioni economiche, a partorire un figlio con cui non avrebbero alcun legame, e a mettere il proprio corpo a disposizione per soddisfare un’esigenza di altri.

Al contempo, tuttavia, i documenti internazionali vincolanti anche il nostro paese impongono di ricercare, sempre e comunque, il best interest of the child:16 così, ad esempio, l’art. 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che «in tutti gli atti relativi ai bambini (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente». La necessità di far valere il divieto sopra indicato posta di fronte all’esigenza di far prevalere sempre e comunque il principio del superiore interesse del minore comporta l’estrema difficoltà nel trovare soluzioni adeguate per regolare i rapporti familiari dei figli nati sulla base del ricorso alla maternità surrogata:17 e al riguardo la vera alternativa non è, come sembra emergere dal dibattito pubblico, tra adozione sì e adozione no, ma tra mantenimento di essi all’interno del nucleo familiare che li ha «ordinati» o allontanamento da esso e conseguente adozione a vantaggio di altre famiglie. Un’alternativa davvero difficile e talvolta drammatica.

Emanuele Rossi               Regno Attualità n.6               note in link pdf

www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=992450▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

NON PROFIT

Guida fiscale per gli enti non profit

Le novità dell’Unico Enti non Commerciali 2016; l’elenco di tutti i prossimi adempimenti per accedere al cinque per mille; un agile vademecum sulle regole di iscrizione dell’associazione al Registro delle imprese e al REA; come funziona il credito d’imposta per ricerca e sviluppo, che l’Agenzia delle Entrate ha confermato anche per gli enti non commerciali; un’analisi delle novità che vedranno presto la luce con la riforma del Terzo Settore: sono questi gli argomenti che lo staff di ConfiniOnline ha inserito in una speciale guida di taglio estremamente agile, destinata anche ai non addetti ai lavori.

            ConfiniOnline, struttura da sempre attenta alla crescita professionale degli enti non profit, offre gratuitamente a tutte le organizzazioni Non profit interessate, una guida fiscale per gli enti non profit, strumento di aggiornamento che potrà essere molto utile nei prossimi adempimenti. Obiettivi

  • facilitare la compilazione della dichiarazione dei redditi e gli adempimenti successivi
  • illustrare le scadenze che attendono gli enti che hanno presentato l’istanza di accesso al 5 x mille
  • fornire una panoramica delle novità della riforma del Terzo Settore a seguito dell’approvazione da parte del Senato
  • precisare lo “stato dell’arte” per quanto attiene agli obblighi di iscrizione al REA e al Registro delle imprese da parte degli enti non profit
  • proporre uno spunto di riflessione sulle opportunità legate al recente credito d’imposta previsto per le attività di ricerca e sviluppo

Per poter ricevere gratuitamente entro il 4 giugno pv la Guida realizzata dagli esperti fiscali di ConfiniOnline, è sufficiente registrarsi.                                                   www.confinionline.it/guidafiscale

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NULLITÀ MATRIMONIALI

Acireale. Servizio di consulenza pastorale-giuridica per le coppie in crisi

Il vescovo di Acireale Antonino Raspanti presenta il Servizio di consulenza pastorale-giuridica per le coppie in crisi. La diocesi di Acireale ha istituito un Servizio diocesano di consulenza pastorale-giuridica per accompagnare i fedeli che intendono avviare la causa di nullità del loro matrimonio. Il nuovo servizio dà seguito al Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus di papa Francesco che ha riformato il processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio. Più che un ufficio è una rete di collaborazione tra persone: alcuni sacerdoti, il direttore e i membri dell’Ufficio diocesano per la pastorale familiare, il consultorio familiare, alcuni legali, la cancelleria della curia diocesana.

Il nuovo servizio, tra l’altro, condurrà i fedeli a una migliore comprensione della loro situazione sul piano morale e canonico; cercherà di aiutarli a superare le crisi coniugali, se possibile, o almeno a rappacificare gli animi; illustrerà il senso del procedimento canonico di nullità, consigliando come procedere; compirà l’indagine pregiudiziale o pastorale per raccogliere gli elementi utili per l’eventuale processo.

 Ieri il Servizio è stato presentato nella curia di Acireale. Come ha spiegato il vescovo Raspanti, «i parroci saranno i primi operatori: saranno loro a condurre le coppie al servizio, anche se le coppie hanno libero accesso. Abbiamo voluto che siano i parroci a seguire queste coppie senza mai lasciarle, comunque vada a finire. In tal modo questo servizio non si limiterà agli aspetti giuridico processuali ma aiuterà questi fedeli a riscoprire di appartenere ad una comunità».

Maria Gabriella Leonardi    Avvenire                    15 maggio 2015

http://cattolicisiciliani.blogspot.it/2016/05/nullita-matrimoniali-il-vescovo-di.html

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OMOADOZIONE

Lo psicologo Crocetti: «Ma l’apertura ai gay è un rischio»

«Oggi politica, cultura, società mettono al centro i bambini in modo solo nominalistico. In realtà i nuovi contesti di normalità sono una fonte di grande angoscia per chi, come noi, da trent’anni si occupa di infanzia dal punto di vista clinico». E i nuovi ‘contesti di normalità’ per Guido Crocetti, docente di psicologia clinica alla Sapienza di Roma, direttore della Scuola di specializzazione Cipspsia (Centro italiano di psicoterapia psicanalitica per l’infanzia e l’adolescenza)– che da domani a Bologna festeggia il trentennale con un convegno internazionale – si chiamano anche utero in affitto, omogenitorialità, fecondazione eterologa e tutto quell’arcipelago di situazioni bioetiche, antropo-sociali e ambientali che rappresentano altrettanti fattori di rischio per la crescita equilibrata dei minori.

            Sotto quale aspetto l’utero in affitto può essere considerato un rischio per lo sviluppo interiore del bambino?

Certa politica pretenderebbe di considerare l’utero un ambiente neutro, intercambiabile, mentre il bambino che cresce nella ‘pancia della mamma’ stabilisce con lei una relazione profonda e insostituibile. Affittare l’utero è un’aberrazione assoluta della nostra cultura che si vorrebbe far passare per normalità. Esistono studi scientifici inoppugnabili che dimostrano tutti i rischi psicologici connessi a questa pratica. Rischi che si ripercuotono sull’equilibrio cognitivo del bambino. Purtroppo la politica non sembra tenerne conto, ancora.

            In effetti c’è una cultura che dà già dato per assodato che i bambini si possano ‘fabbricare’ senza il contributo di una mamma e di un papà.

Purtroppo tutte le pratiche di fecondazione in vitro, con le infinite variazioni sul tema, hanno finito quasi per convincere certa gente dell’inutilità della partecipazione maschile e femminile allo straordinario evento della nascita e della crescita di un bambino. Ma si tratta di un gigantesco equivoco. In ogni momento della loro vita, dal concepimento all’adolescenza, i bambini hanno la necessità di avere accanto a sé una mamma-donna e un papà-uomo. Certo, si può crescere anche senza, lo sappiamo. Ma a che prezzo? A che prezzo per il bambino stesso e per la società che sarà poi chiamata a sopportarne le conseguenze?

            Quindi anche le coppie omogenitoriali rappresentano un’incognita per lo sviluppo equilibrato della psiche infantile?

Un bambino ha bisogno di un’identità di genere certa, senza equivoci. Ecco perché è un errore cancellare l’identità di genere dai programmi scolastici, come in troppi contesti si cerca di fare oggi. Non si tratta di un capriccio ideologico, ma dei riscontri indiscutibili della pedagogia di base. Il bambino ha bisogno di far riferimento a un padre e a una madre. Non c’è discussione possibile su questo. Ecco perché esistono pesanti interrogativi sull’opportunità di aprire all’adozione omosessuale in modo indiscriminato.

            Qual è l’aspetto che la preoccupa di più?

Le maggior parte delle coppie omogenitoriali trasmette un’avversione profonda per l’altro sesso, che diventa pesantemente negativa per l’equilibrio di un minore. Tanto è vero che questa avversione interiorizzata, diventerà poi protagonista delle sue scelte future.

            Lei dice ‘la maggior parte’? Esiste dunque una percentuale di coppie omosessuali con caratteristiche diverse?

Anche le coppie omosessuali, come quelle eterosessuali, non sono tutte uguali. Sulla base della mia esperienza clinica, farei una distinzione tra omosessuali ‘biologici’ e omosessuali di tipo ‘difensivo’. Soltanto i primi, che probabilmente non superano il 10% del totale, possono formare coppie ‘sane’, cioè coppie di persone che riescono a conservare un rapporto equilibrato con l’altro sesso, con cui c’è accettazione e dialogo. L’altro da sé è riconosciuto e serenamente integrato, anche se non viene scelto come partner sessuale. Queste persone vivono la propria intimità in modo privato e discreto, senza ostentazioni e senza forme esibizionistiche. Sono persone il cui orientamento sessuale è stato probabilmente influenzato già in epoca prenatale dai desideri dei genitori, le cui aspettative sul figlio hanno una capacità straordinaria di determinarne lo sviluppo.

            Parlerete anche di questi aspetti da domani a Bologna, al convegno che ricorda il trentennale del Cipspsia?

Parleremo naturalmente di infanzia e di adolescenza, e di tutti quei contesti facilitanti, indifferenti, abusanti e maltrattanti. Metteremo in evidenza come in trent’anni le emergenze si siano trasferite dalla relazione genitori-figli a contesti sociali più preoccupanti, oltre a quelli a cui abbiamo accennato. Senza dimenticare tutte le fragilità di coppia che si traducono spesso in confusione e sovrapposizione dei ruoli genitoriali. Complicato, certo, ma allo stesso tempo generativo per chi, come noi, accompagna la crescita dei bambini e non può che guardare con preoccupazione alla deriva etica e sociale del nostro tempo.

Luciano Moia             Avvenire                    19 maggio 2016

www.avvenire.it/Politica/Pagine/Ma-lapertura-ai-gay-un-rischio-.aspx

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PARLAMENTO

Senato 2°Commissione Giustizia. Disposizioni sul cognome dei figli.

In sede referente

C1628 Disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli, approvato dalla Camera dei deputati.

(1226) Lo Giudice, (1227) Buemi, (1229) Lumia, (1230) Alessandra Mussolini, (1245) Malan, (1383) Giovanna Mangili.

            18 maggio 2016. Riferisce il senatore Lo Giudice (PD) sul disegno di legge n. 1628, approvato dalla Camera dei deputati in un testo unificato. Il disegno di legge che riforma le norme in materia di cognome, nasce da dall’esigenza, da un lato, di dare pari dignità alle donne nell’ambito del rapporto coniugale e familiare, dall’altro, di allineare il nostro ordinamento a quello di altri Paesi europei, oltre che ai pronunciamenti di organismi internazionali, in ordine alla possibilità di riconoscere al figlio il cognome di entrambi i genitori. In questa direzione, per altro, vanno anche numerosi pronunciamenti provenienti da fonti convenzionali internazionali. Ad esempio, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, resa esecutiva in Italia dalla legge 14 marzo 1985, n. 132, ha chiesto la realizzazione della parità della donna nell’ambito coniugale e familiare. Il Consiglio d’Europa, a sua volta, ha raccomandato agli Stati membri la piena eguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome ai figli. Soprattutto, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo del 7 febbraio 2014, relativa al ricorso (n. 77 del 2007) contro la Repubblica italiana, ha dato un forte impulso per l’avvio della riforma del cognome dei figli. La Corte di Strasburgo ha stabilito infatti che i genitori hanno il diritto di dare ai propri figli anche il solo cognome della madre. L’Italia è stata condannata per aver negato a una coppia tale diritto. Nella sentenza, i giudici hanno riscontrato una violazione dell’articolo 14 sul divieto di discriminazioni basate sull’appartenenza di genere della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 8 concernente il rispetto della vita familiare. La Corte ha dunque affermato che il nostro Paese “deve adottare riforme” legislative o di altra natura per rimediare alla violazione riscontrata. Sotto tale profilo può essere utile rivolgere lo sguardo ad altri Paesi europei.  (…)

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=974470

 

Camera. Assemblea. Commercializzazione di gameti ai fini della fecondazione eterologa

18 maggio 2016 Interrogazione a risposta immediata 3-02262, presentato da Gian Luigi Gigli, illustrato da Mario Sberna. Iniziative di competenza volte a garantire il rispetto del divieto di commercializzazione di gameti ai fini della fecondazione eterologa              passim

(…) sembra esistere un largo giro per la commercializzazione di ovociti per la cui «donazione» veniva corrisposto un «rimborso economico» di 1000 euro; (…) oltre ai rischi della stimolazione ormonale, vi sono evidentemente anche quelli legati all’anestesia ed all’intervento in laparoscopia, è questo il motivo a giudizio degli interroganti per il quale nessuna donna di buonsenso, a meno che non si tratti di persone legate da rapporti di parentela o di affettività molto stretti, è disponibile a sottoporsi ai cicli di stimolazione e ai prelievi, risultandone una evidente insufficienza di ovociti rispetto alla domanda interna di accesso alla fecondazione eterologa; (…) a tale carenza si può rispondere incoraggiando l’adozione, anche attraverso la semplificazione delle procedure per l’adozione internazionale, oppure facendo come hanno fatto il Friuli Venezia Giulia e la Toscana, (…) quali verifiche intenda compiere il Ministro interrogato, per quanto di sua competenza, per accertare le modalità con cui, nei Paesi (esteri) con i quali sono in corso intese con le autorità sanitarie regionali, risulti possibile spacciare per «rimborsi» quelli che ad avviso degli interroganti il caso Antinori ha evidenziato essere «compensi» a donne in condizioni di bisogno, indagando, in particolare, attraverso i Nas sulla provenienza dei gameti da parte di tutte le strutture di riproduzione assistita sia pubbliche sia, soprattutto, private.

Beatrice Lorenzin, Ministra della salute. Signora Presidente, ringrazio gli onorevoli interroganti perché mi consentono di ribadire ancora una volta la linea dell’Italia, secondo la quale le donazioni di organi, cellule e tessuti e quindi anche di cellule riproduttive è volontaria e gratuita, così come previsto dalla nostra norma vigente. Ricordo inoltre che le direttive europee su cellule e tessuti prevedono una responsabilità diretta in capo alle autorità competenti, individuate da ogni singolo Paese, per ciò che riguarda l’autorizzazione dei centri dei tessuti. Pertanto, nel momento in cui un centro di un Paese europeo è autorizzato dalla rispettiva autorità competente ed opera in conformità ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria, le importazioni dai centri di detto Paese estero devono presumersi in linea con il dato normativo italiano ed europeo, quindi ci deve essere un’equivalenza. Quanto poi alla quota che viene rimborsata dal centro ricevente a quello inviante per le predette importazioni, la stessa dovrebbe coprire unicamente i costi sostenuti per garantire la sicurezza delle donazioni, l’applicazione dei criteri di selezione del donatore, la raccolta, la lavorazione, il personale, il trasporto e così via, senza alcuna maggiorazione. Sono peraltro i centri esteri da cui si importano i gameti a dover dichiarare di non aver pagato i donatori, stabilire le modalità dell’importazione ed eventualmente verificarne ulteriori requisiti, oltre l’autorizzazione delle rispettive autorità competenti. È responsabilità di chi importa, ovvero dei centri importatori ed eventualmente delle regioni che hanno loro concesso l’autorizzazione ad operare. Quanto infine alle attività di verifica nei confronti dei centri di procreazione medicalmente assistita, evidenzio che sono previste per legge regolari ispezioni che vengono effettuate dal CNT insieme alle regioni almeno ogni due anni, nel corso delle quali viene verificata la rispondenza dei centri e i requisiti di qualità e sicurezza richiesti dalle normative europee. Inoltre, per ogni importazione, è prevista la segnalazione al CNT e il registro dei donatori di gameti, per la PMA di tipo eterologo, la cui istituzione ho fortemente voluto proprio per garantire la tracciabilità delle cellule dal donatore al nato e viceversa, delle seguenti informazioni: centro di partenza, centro di arrivo e quantità di gameti che vengono importati. Pertanto, l’attività di import-export è costantemente sotto il controllo delle autorità competenti, che garantiscono in tal modo la completa tracciabilità delle donazioni delle cellule riproduttive, oltre ovviamente, qualora ci siano dei casi di segnalazione di sospetti, l’intervento delle autorità competenti.

Segue replica del deputato Gigli.

pdf  stenografico 18 maggio pag. 64 in                    http://www.camera.it/leg17/207

 

2° Commissione Giustizia.

Indagine conoscitiva sull’attuazione della legislazione in materia di adozioni ed affido.

11 aprile 2016. Audizione di rappresentanti dell’Associazione amici dei bambini (Ai.Bi.) Marco Griffini, del Coordinamento Oltre l’adozione, dell’Associazione La Gabbianella e altri animali-onlus, dell’Associazione Network aiuto assistenza accoglienza-onlus (NAAA), del Coordinamento delle Associazioni familiari adottive e affidatarie in rete (CARE), del Forum delle Associazioni familiari Maria Grazia Nasazzi Colombodella Comunità Papa Giovanni XXIII Valter Martini, del Centro internazionale per l’infanzia e la famiglia (CIFA) e dell’Unione famiglie adottive italiane.

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c02_adozioni&anno=2016&mese=04&giorno=11&idCommissione=02&numero=0001&file=indice_stenografico

16 maggio 2016. Audizione di Andrea Orlando, Ministro della Giustizia, di Arnaldo Morace Pinelli, professore di diritto privato presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, di rappresentanti dell’Agenzia regionale per le adozioni internazionali – Piemonte, di rappresentanti del Movimento per la vita e di rappresentanti del Movimento per l’infanzia.

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c02_adozioni&anno=2016&mese=05&giorno=16&idCommissione=02&numero=0002&file=indice_stenografico

18 maggio 2016. Audizione di Enrico Costa, Ministro per gli Affari regionali e le autonomie con delega alla famiglia, di Laura Laera, Presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze e di Paolo Sceusa, Presidente del Tribunale per i minorenni di Trento

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c02_adozioni&anno=2016&mese=05&giorno=18&idCommissione=02&numero=0003&file=indice_stenografico

Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza

Indagine conoscitiva sui minori fuori famiglia.

17 maggio 2016. Audizione della Presidente del Coordinamento delle associazioni familiari affidatarie ed adottive in rete (CARE), e dei rappresentanti del Coordinamento associativo «Ubi minor».

www.camera.it/leg17/1079?idLegislatura=17&tipologia=indag&sottotipologia=c36_fuori&anno=2016&mese=05&giorno=17&idCommissione=36&numero=0022&file=indice_stenografico

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PROCREAZIONE

Stile di vita papà pesa su feto e progenie, ‘vizi’ modificano Dna

Lo stile di vita dei futuri papà influenza i figli sin dal grembo materno: Alimentazione, fumo, alcol, sedentarietà. I ‘vizi’, infatti, sono in grado di modificare le informazioni genetiche portate dagli spermatozoi, segnando così anche le future generazioni, secondo uno studio guidato da Joanna Kitlinska, specialista di biochimica e biologia cellulare e molecolare dell’università Georgetown (Washington) e pubblicato sul American Journal of Stem Cells. Sin dall’inizio gli spermatozoi sono soggetti a modificazioni che saranno poi trasmessi ai figli.

            “Sappiamo che alimentazione, ormoni e situazione psicologica della madre incidono sulla struttura degli organi, sulla risposta cellulare e sull’espressione genica dei figli – spiega Kitlinska- ma il nostro studio dimostra che la stessa cosa accade per quanto riguarda i padri: possono influenzare non solo i figli direttamente, ma anche le generazioni future”. L’epigenetica ci aiuterà “a mettere a punto raccomandazioni, per aiutare a cambiare gli stili di vita”.

AdnKronos Salute                 18 maggio 2016

www.panorama.it/scienza/salute/salute-stile-di-vita-papa-pesa-su-feto-e-progenie-vizi-modificano-dna

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PROCREAZIONE RESPONSABILE

Questione non solo di «metodo» in Amoris laetitia

            Amoris laetitia non confligge con il magistero precedente, ma apre sempre a nuove possibilità esistenziali. Questo è particolarmente evidente anche in riferimento ai diversi temi connessi alla procreazione responsabile. L’esortazione va compresa alla luce di «chiavi di lettura», che papa Francesco fornisce per ogni questione affrontata, e che, nello specifico della sessualità matrimoniale, sono riportate al n. 36: «Abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione» (AL36).

            Come uscire da queste secche ecclesiastiche? Al n. 68 il Papa cita l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI in riferimento alla paternità responsabile (HV 10) e al n. 81 riprende dal Sinodo il ruolo dell’uomo e della donna, a loro affidato dal Creatore, in merito ad essa: «Secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cf. Gen 1,27-28).

            In questo modo il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione e li ha contemporaneamente resi strumenti del suo amore, affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana» (AL 81). Alla luce di queste premesse il Pontefice al n. 82 precisa che: «L’insegnamento della Chiesa “aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità”» (AL 82).

            Qui si rinvia alla bellezza dell’Humanae vitae in merito alla valutazione morale dei metodi contraccettivi, ma l’unico criterio esplicitamente citato è «rispettare la dignità della persona», che si presume sia riferito a tutte le componenti familiari, cioè marito, moglie e figli in atto e figli in potenza.

            La «questione dei metodi». Infine papa Francesco affronta esplicitamente la «questione dei metodi» al n. 222 nei seguenti termini: «L’accompagnamento deve incoraggiare gli sposi ad essere generosi nella comunicazione della vita. Conformemente al carattere personale e umanamente completo dell’amore coniugale, la giusta strada per la pianificazione familiare è quella di un dialogo consensuale tra gli sposi, del rispetto dei tempi e della considerazione della dignità del partner. In questo senso l’enciclica Humanae vitae (cf. 10-14) e l’esortazione apostolica Familiaris consortio (cf. 14; 28-35) devono essere riscoperte al fine di ridestare la disponibilità a procreare in contrasto con una mentalità spesso ostile alla vita […]».

            Fin qui il papa richiama il magistero post conciliare soprattutto in chiave di procreazione responsabile rispettosa delle persone, inquadrandola nell’ambito di uno spirito di apertura alla vita. Ma, continuando al n. 222, il papa fa proprie le riflessioni del Sinodo, che si agganciano direttamente alla Costituzione conciliare Gaudium et Spes: «La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (GS 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti […], tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo».

            Rimane valido quanto affermato con chiarezza nel concilio Vaticano II: «I coniugi […], di comune accordo e con sforzo comune, si formeranno un retto giudizio: tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli […]; valutando le condizioni sia materiali che spirituali della loro epoca e del loro stato di vita […]. Questo giudizio in ultima analisi lo devono formulare, davanti a Dio, “gli sposi stessi” (GS 50c)». Qui, con le parole del Concilio, viene ribadito che il precetto della procreazione ai fini del «dominio della terra» viene affidato dal Creatore agli sposi, che di conseguenza ne sono ministri e responsabili.

            Il controllo delle nascite: non solo i metodi naturali. E, finalmente concludendo il n. 222 della sua esortazione, il papa introduce la questione dei metodi di controllo delle nascite con un incipit tutto personale «d’altra parte», ma continuando a rifarsi ancora alle parole del Sinodo, che, però, si limitano ad «incoraggiare» le coppie all’uso dei metodi naturali, così come promossi dalla Humanae vitae e dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «D’altra parte, “il ricorso ai metodi fondati sui ritmi naturali di fecondità” (Humanae vitae, 11) andrà incoraggiato. Si metterà in luce che “questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica” (CCC 2370)».

            Dalla essenziale trattazione fatta dal papa, qui emerge l’abbandono del precedente linguaggio magisteriale improntato a termini quali “permesso” e “proibito” e a giudizi morali generali, quale intrinsece malum: la «categoria del divieto» viene sostituita dalla «categoria dell’incoraggiamento».

            I metodi naturali non vengono misconosciuti, ma altri metodi, seppur non citati, vengono subordinati alla coscienza degli sposi e al rispetto della dignità delle persone coinvolte.

Andrea Volpe             il regno Moralia

www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloMoralia?idDetail=123

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UNIONI CIVILI

            Unioni civili, uno sguardo etico- teologico.

Dall’11 maggio 2016 anche l’Italia come ultimo paese dell’Europa occidentale ha deliberato una legge in materia di unioni civili per coppie sia etero- che omosessuali. Una valutazione etico-teologica delle unioni civili deve attuare una distinzione tra legislazione civile, giudizio morale ed accompagnamento pastorale.

Il dovere di dare una legge. Il legislatore ha risposto con questa legge ad un dato di fatto, vale a dire l’aumento negli ultimi decenni delle coppie conviventi che non scelgono di compiere il passo definitivo del matrimonio civile e/o religioso. Se questo sviluppo appare da un lato deplorevole, dall’altro è necessario anche prenderne atto e trovare una regolamentazione a livello giuridico. Il legislatore ha il dovere di dare un profilo giuridico alle formazioni sociali – anche quelle specifiche e particolari – basandosi sulla Costituzione e tutelando i diritti umani fondamentali, come p.es. quello al rispetto della «vita privata e familiare» di cui parla l’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La CEDU (Corte europea per i diritti umani) nel luglio scorso ha condannato l’Italia proprio perché nella mancanza del riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso ha riconosciuto una violazione dell’articolo sopraccitato.

L’attuale legge risponde anche a questo giudizio della CEDU. Vede incluse non solo le convivenze omo-, ma anche quelle eterosessuali. Vengono regolati diritti e doveri come cognome, eredità, reversibilità della pensione, assistenza carceraria e ospedaliera, adozione. Senza entrare in merito circa le differenze della regolamentazione giuridica riguardo alle coppie omo- ed eterosessuali, bisogna constatare che per le prime sono previste «unioni civili», che includono p.es. la reversibilità della pensione ma non l’adozione del figlio del partner, mentre le seconde sono riconosciute come «convivenze civili», con minori diritti e obblighi reciproci (p.es. nel campo dell’eredità), includendo però il diritto di adozione. In tutte e due le forme non è comunque previsto l’obbligo di fedeltà.

Una richiesta di non-discriminazione. Il riconoscimento dei diritti civili fa parte della richiesta di non-discriminazione: esso non rispecchia semplicemente il fatto che ormai la maggioranza degli italiani accetta le forme di convivenza non matrimoniali, ma anche la sensibilità crescente nei confronti di persone che in passato sono state spesso discriminate perché non contraevano matrimonio.

Riguardo alle persone omosessuali la Chiesa stessa ha ribadito ripetutamente che non devono essere soggette a discriminazioni: «Ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare “ogni marchio di ingiusta discriminazione” e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza» (Amoris laetitia 250).

In quest’ottica la legge attuale non è una sconfitta, ma piuttosto espressione di rispetto dei diritti civili individuali e del fatto che anche persone omosessuali hanno il desiderio e la ferma volontà di stabilire relazioni stabili e durature e di assumersi responsabilità e i rispettivi doveri nei confronti sia del partner sia della comunità civile.

Interrogativi etico-teologici. A livello teologico-etico si pongono certamente domande serie, come p.es. quella della relazione tra unioni e convivenze civili da un lato e la famiglia dall’altro. Bisogna chiedersi, in particolare, se il riconoscimento delle unioni e convivenze civili significhi un indebolimento del concetto di famiglia inteso dalla Costituzione italiana (art. 29–31), cioè della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, aperto alla procreazione e all’educazione dei figli. Prima di tutto è doveroso constatare che, secondo la legge appena deliberata, i diritti e i doveri per le unioni e convivenze civili non sono uguali a quelli matrimoniali e che cioè non è avvenuta un’equiparazione al matrimonio. Viene tutelata la differenza fondamentale tra matrimonio e unioni e convivenze civili, anche se un certo avvicinamento in particolare delle unioni civili di coppie omosessuali al matrimonio non si può negare.

Pur non parlando di matrimonio, le unioni civili (dove tuttavia non vige l’obbligo di fedeltà) in molti ambiti sono regolamentate in modo analogo al matrimonio. Ribadendo con Amoris laetitia 251, che «circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia», il compito della Chiesa ora non dovrà essere quello di mettere in discussione la legge deliberata. Si tratterà piuttosto di rinforzare il matrimonio e la famiglia attraverso una politica familiare molto più attenta ai particolari bisogni di essi, come giustamente mons. Nunzio Galantino, il segretario della CEI, ha sottolineato in una sua prima reazione. Per quel che riguarda una valutazione teologico-etica delle unioni e convivenze civili si deve riconoscere che esse non corrispondono all’insegnamento ecclesiale sul matrimonio. Tuttavia bisogna riconoscere ugualmente che anche in queste forme di unione e di convivenza le persone si possono impegnare a vivere e testimoniare valori cristiani come la fedeltà, la dedizione generosa e l’impegno cristiano.

In modo particolare per le convivenze eterosessuali si devono analizzare con attenzione i motivi ovvero gli ostacoli all’origine della decisione di non sposarsi. L’esortazione postsinodale Amoris laetitia offre un’ampia riflessione su questo aspetto (cf. p.es. nr. 131–132). Bisogna inoltre considerare «la situazione particolare di un matrimonio solo civile o, fatte salve le differenze, persino di una semplice convivenza in cui, “quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”» (Amoris laetitia 293).

Uno stile di discernimento. La stessa logica dello sguardo che apprezza i valori vissuti concretamente e che cerca di accompagnare una coppia verso una sempre maggiore umanizzazione del suo amore e della sua relazione personale in modo analogo vale anche per le unioni civili omosessuali. Papa Francesco in Amoris laetitia sviluppa il metodo del discernimento personale e pastorale, dell’accompagnamento spirituale e pastorale e dell’integrazione. Ribadisce infatti che «si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino» (Amoris laetitia 297; sottolineatura mia).

Anche se le unioni civili omosessuali non vengono nominate, indirettamente sono incluse, perché il papa si riferisce «a tutti, in qualunque situazione si trovino». Perciò mi sembra legittimo collegare queste persone anche al seguente compito pastorale: «[C] compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro sempre possibile con la forza dello Spirito Santo» (ibid.).

La legge sulle unioni e convivenze civili può essere letta nell’ottica del superamento di varie discriminazioni e della tutela dei diritti individuali civili. Tuttavia per la Chiesa rappresenta una grande sfida su come accompagnare queste persone, soprattutto quelle che coltivano il desiderio sincero di impegnarsi come cristiani e di confrontarsi seriamente con la dottrina ecclesiale. Infine – anche indipendentemente dalla nuova legge – rimane il compito importante della Chiesa di ribadire e difendere i diritti e i bisogni particolari delle famiglie, costitute dai coniugi e dai loro figli.

Martin M. Lintner     il regno Moralia

www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloMoralia?idDetail=122

           

Non è la legge a cambiare usi e costumi.

Come prevedibile, l’approvazione della legge sulle unioni civili ha dato la stura a reazioni spesso contraddittorie e scomposte. Avversione ed esaltazione sono due facce della stessa medaglia. Siamo davanti al medesimo quadro in cui la confusione tra i piani, la commistione tra religione e politica, il tornaconto elettorale si intrecciano con apocalittiche visioni metafisiche e con altrettanto esagerate premonizioni di un “sole dell’avvenire” che sta per sorgere. Se osserviamo bene però, ancora una volta, questa legge serve semplicemente per regolamentare l’esistente. Non vuole “costruire l’uomo nuovo” o “scardinare” la natura umana, come i più spaventati (o in mala fede) temono.

Non bisogna dare troppa importanza alla capacità di Renzi. La famiglia non viene distrutta. E l’intenzione non è certo quella di voler “schiavizzare” le donne oppure dare ulteriori poteri ai magistrati, come stigmatizzato dall’onorevole Brunetta in un impeto vetero berlusconiano. La legge vuole dare una cornice giuridica a stili di vita ormai ampiamente presenti nella società. La legge viene sempre “dopo”. È illusorio pensare che una normativa sia in grado di modificare i costumi, di reprimere, magari con la minaccia della coercizione o con lo spauracchio della repressione, scelte personali dettate da forze ben più potenti, come la libertà individuale e il desiderio di una vita felice.

Nella realtà avviene il contrario. La questione dell’omosessualità è emblematica per esemplificare questo punto. Secoli di persecuzione, pene esemplari, totale emarginazione, leggi punitive non hanno fermato i movimenti di emancipazione cominciati negli anni Sessanta. Come mai le leggi non hanno impedito il mutamento dei costumi? Come mai l’omosessualità non è stata estirpata? Come mai ancora oggi nei paesi in cui questi “diversi” sono ancora colpevolizzati, il fenomeno esiste ugualmente?

Questo vale anche per il matrimonio in generale. La diffusione delle convivenze “libere”, prive cioè di vincoli giuridici, è avvenuta in un contesto che, con le parole e con le leggi, condannava violentemente questo comportamento. Le leggi tutelavano esclusivamente il matrimonio; i figli generati al di fuori della famiglia tradizionale erano degeneri, figli di nessuno. Il divorzio era vietato. Nonostante questo la società è andata in una determinata direzione (non dico che sia un’evoluzione). Fatto sta che oggi è normale, normalissimo, approvato dai più, tollerato da tutti, avere un compagno o una compagna, non sposarsi mai, sciogliere un legame e ricostruirne un altro nel giro di poco tempo, avere diversi partner nel corso della vita. Non dico che questo sia un bene. Anzi denota la fragilità dei rapporti umani.

Ma ciò è avvenuto quando la Chiesa cattolica aveva molta più presa nella società, quando il partito comunista si schierava per la famiglia tradizionale, quando la Democrazia Cristiana era saldamente al governo. Non comandavano Robespierre e neppure Zapata. È la cultura generale, non le leggi varate dallo Stato, a imprimere le svolte dei costumi. Chiaramente la tendenza inarrestabile della modernità è quella di allargare il perimetro delle libertà individuali: la soddisfazione di se stessi viene prima della responsabilità per altri e del bene comune della società. Cento anni fa si esaltava la morte per la patria, perché il singolo era in posizione subalterna. Il legittimo desiderio di amore di un omosessuale scompariva di fronte alla necessità di tutelare il decoro pubblico e i buoni costumi. I disabili dovevano essere nascosti. Qualche secolo fa la libertà religiosa non era tollerata in nome della vera Fede, e oggi questo accade ancora in troppi paesi del mondo. Questo processo può portare anche ad aberrazioni, con un’esaltazione disumanizzante del potere della tecnica («lo posso fare, e quindi lo faccio»), con l’individualismo esasperato, con il sorgere di nuove forme di ingiustizia.

La legge può sanzionare, dichiarare lecito o illecito (non a livello religioso!) un comportamento, cercare di ordinare la società, non certo determinare i processi storici. Chi legittimamente si oppone a questa tendenza libertaria può fare una battaglia culturale. Il cardinal Ruini, riesumato per l’occasione, afferma durissimo: «Equiparare al matrimonio le unioni tra persone dello stesso sesso significa stravolgere dei parametri fondamentali, a livello biologico, psicologico, etico, parametri che fino a pochi anni fa tutti i popoli e tutte le culture hanno rispettato. È quindi un problema gravissimo, per l’umanità e oggi per l’Italia».

Pensare che il colpevole di questa catastrofe cosmica sia Matteo Renzi e che i salvatori dell’umanità siano Gasparri, Giovanardi e Quagliariello, sembra però veramente ridicolo.

Piergiorgio Cattani    Trentino” 20 maggio 2016

http://piergiorgiocattani.it/post/144665497714/non-%C3%A8-la-legge-a-cambiare-i-costumi

 

Convivenze di fatto: contratto di convivenza con effetti anche tributari.

La “gestione” della convivenza di fatto, disciplinata dalla legge sulle unioni civili, deve trovare la propria regolamentazione in un apposito atto avente data certa. Si tratta del contratto di convivenza, un contratto – inedito nell’ordinamento civilistico – a contenuto assolutamente libero, che può includere anche (la specificazione) del “regime patrimoniale della comunione dei beni”. Le scelte manifestate in sede di “registrazione” dell’atto influenzano i diversi trattamenti tributari applicabili, con riferimento alle imposte sui redditi – l’imputazione dei redditi a ciascuno del conviventi può essere paritaria oppure meno, a seconda delle scelte praticate – ma anche alle imposte sui trasferimenti – imposta di registro o di successione.

La legge sulle unioni civili e convivenze di fatto è stata definitivamente approvata “con la fiducia”. E, perciò, il testo normativo (com’è naturale che accada in casi del genere) manca di titoli e sottotitoli e le singole disposizioni sono espresse in un unico articolo con tanti commi (numerati cronologicamente) senza intestazione (o comunque indicazioni) idonee ad evidenziarne il contenuto.

L’intero articolo 1 ha 69 commi. Una parte di questi (dal comma 1 al comma 35) si occupa delle unioni civili; un’altra parte (dal comma 36 alla fine) disciplina le vicende riferite alle convivenze di fatto.

E di queste convivenze vogliamo parlare oggi. Per conviventi di fatto – lo dice espressamente la legge – “si intendono due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

A differenza della definizione di una unione civile – dove si parla di due persone maggiorenni dello “stesso sesso” – per “le convivenze di fatto” non si pongono paletti. Dobbiamo convincerci che la “convivenza di fatto” riguarda anche persone dello stesso sesso. Ma non è questo l’elemento che ci interessa al momento. Qui vogliamo solo prendere atto degli spazi che, sotto il profilo reddituale o soltanto patrimoniale, possono generare correlazioni tributarie.

É la stessa legge che al riguardo, ci aiuta a venirne fuori. I “conviventi di fatto” – lo dice la legge (art. 1, comma 50) – possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un “contratto di convivenza”. Un contratto (inedito nell’ordinamento civilistico), a contenuto assolutamente libero.

Una successiva disposizione (art. 1, comma 53) ci fa, poi sapere che tale contratto può (quindi, una semplice facoltà) contenere determinate previsioni, espressamente nominate nel testo normativo. Per quanto ci interessa, veniamo a sapere in concreto che il contratto di convivenza può contenere “le modalità di contribuzione (connesse) alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo”. All’evidenza, qualcosa di simile a quanto prevede il Codice civile in tema di matrimonio. Si tratta di regolamentazione della “gestione” della convivenza che, in quanto tale, rimane entro spazi che non evocano correlazioni tributarie di sorta.

Il “contratto di convivenza”, peraltro – sempre secondo la formulazione della legge – può contenere anche (la specificazione) del “regime patrimoniale della comunione dei beni”. Si tratta di una specificazione che presuppone l’accettazione, da parte dei conviventi, del particolare regime della comunione dei beni. I soggetti che “registrano” la convivenza devono sapere – e questo la legge non lo dice espressamente – che il regime patrimoniale della comunione dei beni può essere derogato dalla volontà delle parti se intendono mantenere il regime della separazione degli stessi o, addirittura, adottare appositi regimi convenzionali svincolati da ogni schema predeterminato dalla legge.

La scelta adottata in sede di “registrazione” dell’atto di convivenza interferisce, comunque, sul versante delle imposte sui redditi (l’imputazione dei redditi a ciascuno del conviventi può essere paritaria oppure no a seconda delle scelte praticate) ma anche le imposte sui trasferimenti (imposta di registro o di successione) hanno qualcosa da pretendere. Va sottolineato, comunque, che le scelte manifestate nell’atto di convivenza non possono che riguardare beni acquisiti dopo la “registrazione” dell’atto. La “costituzione” della convivenza di fatto, in assenza di disposizioni transitorie capaci di incidere sulle scelte pregresse, non consente una diversa chiave di lettura.

É incerto, invece, se, allo stato dell’arte, la disciplina delle “convivenze di fatto” possa su questo versante consentire un trattamento agevolato, analogo a quanto è espressamente previsto – nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra coniugi – per i trasferimenti di determinati beni coinvolti nel regime patrimoniale della comunione dei beni. La tentazione porta verso una risposta positiva. Ma non è detto che tale risposta sia correttamente giustificata. Sul punto, pesa un precedente. Nel disegno di legge, infatti, il trattamento agevolato era espressamente previsto; ma tale previsione non è stata recepita in sede di approvazione definitiva della legge da parte del Parlamento.

E tutto questo, qualcosa vorrà dire. Un minimo di cautela, allora, comunque, ci sta.

Tommaso Lamedica – IPSOA                      21 maggio 2016

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