newsUCIPEM n. 595 – 1maggio 2016

newsUCIPEM n. 595 – 1maggio 2016

                               Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

20135 MILANO – via S. Lattuada, 14-c.f. 801516050373-. 02.55187310

ucipem@istitutolacasa.it                                           www.ucipem.com

“Notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line                    Direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

Le news sono così strutturate:

v  Notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

v  Link a siti internet per documentazione.

I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti, dal n. 527 al n. 594 andare su:

http://ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=category&id=84&Itemid=231

In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviateci una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.comcon oggetto: “richiesta di disconnessione news”.                      1.010 iscritti

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADDEBITO                                                         Le scuse non sono ammissione di responsabilità.

                                                                              La separazione con addebito non impedisce l’affidamento dei figli

ADOZIONE                                                        Adozioni in crisi, crescono i «fallimenti».

ADOZIONE INTERNAZIONALE                    Un’Agenzia pubblica per le adozioni? Ecco perché sì.

                                                                              Agenzia nazionale, otto voci per analizzare la proposta

ADOZIONI INTERNAZIONALI                      L’educazione emotiva per i docenti che hanno i piccoli adottati.

AMORIS LAETITIA                                           C’è una “rivoluzione” in AL, si chiama coscienza.

Sinodo sulla famiglia: dal giudizio alla benevolenza.

AL ai vescovi africani su famiglia, matrimonio e omosessualità.

Sacerdoti sposati: oltre l’emarginazione e la «condanna»?

ASSOCIAZIONI                                                 Registrazione di un’associazione.

CHIESA CATTOLICA                                        Libera discussione sul dogma della infallibilità del papa.

Papa Francesco ha riaperto il confronto sul dogma dell’infallibilità.

C. A. I.                                                                  Accordi con Cina e Cile.

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM            Brescia. Donne che hanno la fortuna di invecchiare     

Roma 1. Due strumenti per ottimizzare la consulenza familiare.

                                                                               Senigallia. Affrontare le difficoltà delle varie fasi della vita.

                                                                               Trapani. Progetto “La vita non dipende”

                                                                                                Corso post-parto: ti accogliamo.

DALLA NAVATA                                              6° Domenica di Pasqua – anno C –1 maggio 2016.

Commento di Luciano Manicardi, vicepriore a Bose

DEMOGRAFIA                                                  L’immigrazione non basta la svolta sono i neonati.

DIVORZIO                                                          I divorzi con il cane, il giudice stabilisce visite e alimenti.

Il giudice non è tenuto a decidere l’assegnazione di animali.

EMBRIONI                                                         Nel grembo materno una voce sempre più nitida.

FAMIGLIA                                                          Si fa presto a dire famiglia.

FECONDAZIONE ASSISTITA                         Quanti genitori per un figlio?

FRANCESCO VESCOVO di ROMA             Il clericalismo deforma la Chiesa, i laici sono protagonisti.

“Anche oggi nella Chiesa ci sono resistenze allo Spirito”

INFERTILITÀ                                                      La provetta? Non risolve. E’ l’ora della prevenzione.

MATRIMONIO                                                 Matrimonio indissolubile? Sì, ma per pochi eletti.

                                                                              Il matrimonio islamico.

NULLITÀ MATRIMONIALE                           Nullità matrimoniale canonica, riconoscimento a maglie larghe.

OMOFILIA                                                         Sognare una pastorale e una teologia dell’orientamento sessuale

PARLAMENTO Camera Assemblea         Data della prossima conferenza nazionale sulla famiglia.

PASTORALE FAMILIARE                                                Umanesimo formato famiglia per costruire Chiesa e società.

SINODO SULLA FAMIGLIA                           Anche nelle situazioni difficili.

VARIE ED EVENTUALI                                    Le mille e una forma di tradimento”

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADDEBITO

Le scuse non sono ammissione di responsabilità

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 8149, 22 aprile 2016.

La confessione contenuta in una lettera non è sufficiente ad imputare la responsabilità della fine del matrimonio al coniuge che la scrive. La lettera con la quale il coniuge ammette i propri errori non basta per addebitargli la separazione: a dirlo è la Cassazione con una recente sentenza. La Corte respinge così la richiesta di un uomo che aveva esibito al giudice alcune missive inviategli dalla ex moglie in cui la stessa faceva il “mea culpa” riconoscendo di aver tenuto un comportamento sbagliato.

            A incidere sulla valutazione della confessione sono alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto bisogna valutare il tempo trascorso dall’invio della lettera al giudizio di separazione: tanto più è ampia la distanza, tanto meno valore avrà l’ammissione di responsabilità. In secondo luogo bisogna valutare l’incidenza che hanno avuto i comportamenti confessati rispetto alla crisi della coppia: se, infatti, risulta che gli stessi non siano stati l’effettiva causa dell’intollerabilità della convivenza, allora nessuno valore potrà essere loro attribuito. In terzo luogo, bisogna valutare le condotte confessate: è chiaro, infatti che l’ammissione di un tradimento ha un peso differente rispetto alle scuse per un comportamento sgarbato o poco comprensivo. È infatti necessario che dalla lettera risulti che il coniuge sia venuto meno ai fondamentali doveri del matrimonio.

            La semplice autocritica, fatta in un contesto riservato e riferita ad una relazione come il matrimonio in cui “abitualmente il comportamento dei coniugi esprime luci ed ombre” e, quindi, è anche possibile – ed ammesso – il piccolo sbaglio, non ha alcun rilievo. Ma se anche il coniuge che fa il “mea culpa” si assume la responsabilità della separazione, ciò non significa che il giudice debba prendere tali affermazioni per “oro colato” senza operare alcuna valutazione. Il tribunale è sempre chiamato a verificare il fondamento giuridico delle confessioni effettuate da una delle due parti fuori dal giudizio. Infatti, per costante giurisprudenza, nel giudizio di separazione tra coniugi, al fine di stabilire a chi dei due vada l’addebito, le ammissioni di una parte non possono assumere valore [art. 2730 cod. civ.] di confessione in senso stretto, ma possono essere utilizzate – unitamente ad altri elementi probatori – quali indizi liberamente valutabili, sempre che esprimano non opinioni o giudizi o stati d’animo personali, ma fatti obiettivi, suscettibili, in quanto tali, di essere valutati giuridicamente come indice della violazione di specifici doveri coniugali [Cass. sent. n. 22786/2004].

            Redazione Lpt                       26 aprile 2016                                    Sentenza

www.laleggepertutti.it/118920_separazione-e-addebito-le-scuse-non-sono-ammissione-di-responsabilita

            La separazione con addebito non impedisce l’affidamento dei figli

                        Tribunale di Roma – sentenza. n. 460/2016.

            Il coniuge che subisce l’addebito per la separazione (ossia la dichiarazione di responsabilità per la fine del matrimonio) non perde necessariamente i figli: l’affidamento della prole, infatti, segue sempre la regola generale che è quella dell’affido condiviso, salvo che uno dei due genitori si sia dimostrato inadeguato nella gestione dei bambini. A dirlo è una sentenza del Tribunale di Roma.

            L’essersi macchiato di responsabilità nei confronti dell’ex – responsabilità che hanno decretato il naufragio delle nozze – per aver posto delle condotte contrarie ai doveri imposti dal codice civile in tema di rapporti tra i coniugi, non implica anche la perdita dei figli. Infatti, una cosa è la dichiarazione di addebito da parte del giudice – quella cioè che consegue nei confronti del coniuge che, con il proprio comportamento colpevole, ha reso intollerabile la convivenza -, un’altra invece la decisione sull’affidamento dei minori che la legge impone dover essere, come regola, sempre “condiviso”.

            Il regime di affidamento dei figli minori impone un principio di pari responsabilità di entrambi i genitori, corollario anche del diritto dei figli a mantenere rapporti sia con il papà che con la mamma (cosiddetto diritto alla bigenitorialità). L’unica deroga possibile – che comporta il cosiddetto affido esclusivo (ossia solo a uno dei genitori) – scatta quando vi sia uno specifico interesse dei minori, come nel caso di inadeguatezza di uno dei genitori nella gestione dei figli. Così, per esempio, l’uomo che abbia posto atteggiamenti violenti e aggressivi contro la ex moglie, ed a cui sia stata addebitata la separazione, non perde l’affidamento dei figli. Lo perderebbe se le condotte lesive fossero state poste anche nei riguardi dei bambini.

            I litigi tra “ex”, per quanto gravi possano essere, non toccano la sfera dei loro rapporti con i bambini. Come ricorda la sentenza in commento, neanche un clima di forte tensione fra i coniugi, per quanto caratterizzato da liti e grida o da comportamenti violenti, non preclude l’affido condiviso, sempre che i figli mostrino di riconoscere entrambi i genitori come figura di riferimento e abbiano un buon legame affettivo con ciascuno di loro. Solo precise controindicazioni nell’interesse dei bambini possono portare a escludere il regime ordinario di affidamento condiviso.

Raffaella Mari                       LPT                27 aprile 2016

www.laleggepertutti.it/118975_la-separazione-con-addebito-non-impedisce-laffidamento-dei-figli

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADOZIONE

Adozioni in crisi, crescono i «fallimenti».

Sempre più coppie rinunciano al bimbo dopo averlo accolto. Alberto Pezzi: «Bisogna lavorare meglio soprattutto sul post-adozione, le famiglie non devono restare sole». I costi sono ormai insostenibili, come lo sono i tempi d’attesa. L’età media dei bambini è cresciuta, ma è salita (e non di poco) anche quella delle coppie aspiranti. Le risorse dei servizi sono sempre meno e i cosiddetti fallimenti sono cresciuti. Questo è forse il dato più «destabilizzante» per istituzioni e servizi. Adozioni: è crisi anche in Emilia-Romagna, che non si discosta dal panorama nazionale in questa fotografia di un mondo ancora poco conosciuto, spesso edulcorato.

            Il dossier della Regione. Oltre a curare le ferite profonde dei bambini che aspettano una famiglia, ci si trova a dover curare un sistema che inizia a dare segnali di fatica. Che si tratti di adozioni internazionali o nazionali, poco cambia. Il dossier realizzato dalla Regione su 10 anni di adozioni in Emilia- Romagna, usato come riferimento anche dal Tribunale dei minori, evidenzia come, per quanto riguarda le adozioni dall’estero, rispetto al quadro internazionale in regione la diminuzione delle adozioni è ancora più consistente, attestandosi al -35,7% tra il 2011 e il 2013. Una flessione confermata dai dati della Città metropolitana: erano 75 i bimbi arrivati nel 2004, calati a 49 nel 2010, scesi a 38 nel 2014. Nel capoluogo la situazione non è dissimile: nel 2010 erano 20 i bimbi adottati dall’estero, saliti a 32 nel 2011, un numero poi crollato tra il 2013 e il 2015, quando ne sono arrivati 12.

In calo anche le adozioni nazionali. Nel 2013 sono stati poco oltre 1.000 i bambini adottati con sentenze dei Tribunali dei minori: 55 in Emilia- Romagna dove il tasso di adozioni nazionali (7,7% per 100 mila minorenni) è inferiore alla media nazionale (pari a 9,9) e in calo di un punto rispetto al 2012. Solo a Bologna i minori italiani dati in adozione sono passati, secondo i numeri forniti dal Centro per le famiglie di via del Pratello, dai 10 del 2010 ai 3 del 2015. «In Italia — spiega Chiara Labanti, responsabile del Centro per le famiglie dell’Asp — ci sono pochi bambini dichiarati adottabili, perché il più possibile si cerca di mantenerli nel loro contesto familiare».

Gli special needs. Mentre «sulle adozioni internazionali — spiega Gino Passarini, responsabile del Servizio politiche familiari della Regione — sicuramente ha inciso la crisi economica che ha limitato le disponibilità delle famiglie. Ma c’è anche una lettura positiva: i bambini stranieri vengono adottati di più nel loro Paese. I minori che arrivano qui invece sono sempre più quelli che chiamiamo special needs». Cioè gravemente malati e già grandi. «Ormai la media d’età dei minori che arrivano da fuori è di 6 anni — spiega Tiziana Giusberti, coordinatrice dell’equipe adozioni e affidi per la Psicologia dell’Ausl —, il che vuole dire che arrivano anche ragazzini di 12- 13 anni». Un’età che spaventa gli aspiranti genitori. Tanto che in Emilia-Romagna si è registrato un notevole calo negli accessi dei coniugi al primo colloquio informativo, quasi dimezzatisi dagli 834 del 2004 ai 465 del 2013. Solo a Bologna le coppie che hanno sospeso l’indagine psicosociale preadottiva sono state 42 nel 2014, più che raddoppiate rispetto al 2004. «Eppure — continua Giusberti — bisogna sfatare il pregiudizio secondo cui il bambino molto piccolo sia più facile rispetto a quello grande se adottato. Molti problemi in realtà emergono in seguito». Fatto sta che i casi di «fallimenti adottivi» rischiano di esplodere.

I fallimenti adottivi. In Emilia-Romagna tra il 2006 e il 2014 ne sono stati registrati 66: 8 nel corso del primo anno di adozione e 58 dopo il primo anno. E si è saliti da un tasso dell’1,85% di fallimenti nel 2006 al 7,1% del 2014. La crisi in genere scoppia durante l’adolescenza. «Le difficoltà sono oggettive — ammette Alberto Pezzi, presidente regionale dell’associazione Famiglie per l’accoglienza: ci sono minori che arrivano tra gli 8 e i 12 anni dopo molto tempo in orfanotrofio, l’inserimento è duro. Bisogna lavorare meglio sulla formazione pre-adottiva, ma soprattutto sul post-adozione, le coppie non devono restare sole. In questo momento stiamo seguendo 5 casi di rischio di fallimento». È proprio sul post adozione che si stanno interrogando i servizi sociali. «Io lo so così bene che a Casalecchio — dice Giusberti — ho fondato il servizio Adozione Affido Accoglienza e seguo 6 gruppi in post-adozione da molti anni. Bisogna esserci molto, quando arriva il bambino, oggi più che mai vista la complessità dell’adozione e dei minori». Il post-adozione «istituzionalizzato» di Casalecchio è l’unico caso in Italia. «Il che la dice lunga su quanto ancora ci sia da fare», ammette Giusberti. «Ma è la strada giusta — dice Sara Costanzo Naso, referente casalecchiese dell’associazione -Ci vuole un villaggio che lavora a fianco dei servizi —: da noi non ci sono casi di fallimenti, il lavoro che stiamo facendo dà i suoi frutti. E sono nate delle storie d’amore meravigliose tra noi e i bimbi».

Daniela Corneo          Corriere di Bologna             18 aprile 2016

http://corrieredibologna.corriere.it/bologna/notizie/cronaca/2016/17-aprile-2016/mondo-crisi-adozioni-regione-calo-piu-forte-dato-nazionale-240315257986.shtml

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADOZIONE INTERNAZIONALE

Un’Agenzia pubblica per le adozioni? Ecco perché sì

            Anna Maria Colella è la direttrice di Arai-Regione Piemonte, l’unico ente pubblico nel campo delle adozioni internazionali. È a questa esperienza che fa esplicito riferimento la recente proposta di legge che vorrebbe istituire anche in Italia un’Agenzia Nazionale per le Adozioni Internazionali. Ci ha scritto per dare il suo contributo al dibattito.

            È necessario mantenere alta la cultura di accoglienza nel nostro Paese, in un sistema adozioni pubblico-privato razionalizzato e riorganizzato secondo le esigenze attuali dei bambini, delle coppie, dello scenario nazionale e internazionale. Credo che le deputate Rossomando, Quartapelle e Zampa, con tutti i colleghi che hanno sottoscritto la proposta di legge n. 3635 presentata alla Camera dei Deputati, abbiano ben interpretato l’esigenza di tante coppie italiane di potersi avvalere anche di un servizio pubblico, come normalmente già succede in Spagna, in Francia, in Germania.

            Ritengo, condividendo quanto anticipato su questo tema dalle deputate, che la proposta di istituire un servizio nazionale per le adozioni internazionali vada collocata nell’ambito di un più ampio dibattito avviato in Parlamento sulla riforma della legge delle adozioni e che quindi vada sviluppato un confronto costruttivo sulle strategie di rete che possono essere messe in campo per contrastare la crescente sfiducia da parte delle famiglie verso l’accoglienza adottiva, in particolare quella internazionale, che nasce sia dalla rappresentazione sociale data dell’adozione (tempi lunghi di attesa, costi elevati…) sia dal significativo cambiamento rispetto ai profili dei bambini che possono essere accolti in adozione (ovvero bambini grandicelli, gruppi numerosi di fratelli, bambini che presentano delle situazioni sanitarie particolari). Non posso dire adesso quanto risparmieranno le coppie italiane con questa Agenzia: al momento posso solo portare l’esempio del nostro lavoro nelle regioni, dove le coppie Arai, così come stabilito dalla Regione Piemonte, partecipano alla spesa in base al reddito Isee per quanto riguarda i servizi resi in Italia in Italia e coprono tutte le spese dei servizi resi all’estero. L’AFA, Agenzia nazionale francese, invece non richiede contributi alle coppie per i servizi resi. In ogni caso il servizio pubblico italiano per le adozioni non deve essere un carrozzone, ma una struttura molto contratta con personale altamente qualificato e competente, che dia risposte concrete alle famiglie, ai bambini, ai Paesi stranieri.

            Il problema attuale, in base alla mia esperienza, è la necessità di una riorganizzazione del sistema Italia, a partire dalla Cai fino alla presenza di 62 Enti Autorizzati. Tale numero, decisamente elevato, ha comportato negli anni importanti conseguenze: tra queste, in particolare, la presenza di troppi enti nello stesso Paese straniero crea situazioni di “concorrenza” e aumento dei costi per gli enti autorizzati presenti, che non giova né alla parte straniera né a quella italiana. A titolo di esempio, in Colombia l’Italia è rappresentata da 20 enti autorizzati, un dato incredibile: gli enti degli altri Paesi al massimo sono due-tre in ciascun Paese.

            L’adozione internazionale deve essere percepita come un fatto pubblico e collettivo. Il Permanent Bureau della Conferenza de L’Aja ha sottolineato la virtuosità e l’importanza di affiancare agli enti di natura privata anche un ente di natura pubblica, a garanzia delle procedure adottive. In questo senso si possono citare l’esperienza francese (con l’Agence Francaise de l’Adoption), quella spagnola (che consente alle regioni di regolamentare le attività di adozione internazionale) e quella italiana, che ha creato in Regione Piemonte l’Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali, poi convenzionata con le Regioni Liguria, Valle d’Aosta, Lazio e Calabria. Come evidenziato da una ricerca condotta dall’Università Bocconi nel 2011, inoltre, la situazione italiana vede, rispetto agli altri Paesi, un numero superiore di enti e la mancanza di un organismo pubblico operante sull’intero territorio nazionale.

            L’ente pubblico ha conquistato negli anni, a livello nazionale ed internazionale, apprezzamento e interesse verso il suo operato. La presenza dell’Arai nel sistema italiano ha permesso di realizzare un equo bilanciamento di soggetti attivi consentendo ad operatori pubblici di affiancarsi, senza prevaricazioni e supremazie, ad operatori privati in un’ottica che consenta agli aspiranti genitori un più ampio ventaglio di scelta. Come precisato dall’onorevole Anna Rossomando, i tempi sembrano maturi per una riorganizzazione dell’ente pubblico al fine di assicurare a tutte le coppie italiane la possibilità di avvalersi di un servizio pubblico per lo svolgimento di una pratica adottiva all’estero.

            Nel contempo vanno riorganizzati dallo Stato anche gli enti privati, attraverso diverse azioni: tra queste sicuramente che, anche attraverso il sistema di consorzi tra enti, si riduca il numero degli enti autorizzati italiani soprattutto nei Paesi stranieri. Auspico quindi che si apra un dibattito costruttivo tra istituzioni e rappresentanti del privato sociale sull’attuale scenario delle adozioni internazionali, al fine di razionalizzare il sistema anche attraverso l’istituzione di un’Agenzia nazionale per le adozioni internazionali, che operi con la collaborazione delle Regioni, che da un lato realizzi adozioni nei Paesi stranieri, e che contemporaneamente possa porsi come interlocutore nazionale con le varie istituzioni che intervengono nell’iter adottivo. In un’ottica di contenimento della spesa pubblica ciò comporterebbe il superamento dell’art. 39 bis, comma 2, della legge n.184/1983 s.m.i., che consente alle Regioni e alle Province autonome di poter istituire un servizio pubblico per le adozioni internazionali, e permetterebbe di creare anche in Italia un sistema uniforme sull’intero territorio nazionale, al pari di quanto già previsto da altri Paesi d’accoglienza europei

            Anna Maria Colella   Vita.it             26 aprile 2016

www.vita.it/it/article/2016/04/26/unagenzia-pubblica-per-le-adozioni-ecco-perche-si/139132/

Agenzia nazionale, otto voci per analizzare la proposta

Agenzia sì o Agenzia no? È una provocazione, un segnale di incoraggiamento alle famiglie o il primo indizio esplicito di una volontà politica che punta a rottamare il sistema attuale, imperniato sugli enti privati, per ripartire con un’unica agenzia pubblica? L’abbiamo chiesto a otto persone in prima linea

            Agenzia sì o Agenzia no? La proposta di istituzione dell’Agenzia italiana per le adozioni internazionali, presentata nei giorni scorsi, che con una dotazione di 3 milioni di euro si affiancherebbe agli attuali 61 enti privati autorizzati, fa discutere. Si va a ridisegnare l’impalcatura di tutto il sistema? È una provocazione? Un segnale di incoraggiamento alle famiglie? O il primo indizio esplicito di una volontà politica che punta a rottamare il sistema attuale, imperniato sugli enti privati, per ripartire con un’unica agenzia pubblica?

            Anna Maria Colella, la direttrice dell’Agenzia regionale per le adozioni internazionali del Piemonte, operativa dal 2004 e negli anni successivi convenzionatasi con altre quattro regioni (Valle d’Aosta, Liguria, Lazio e Calabria), l’unico ente pubblico d’Italia, cui la proposta di legge fa esplicito riferimento, è intervenuta su Vita.it per presentare, dal suo punto di vista, i vantaggi dell’avere un ente pubblico. Ma che ne pensano gli altri? Ecco alcune opinioni.

            Gianfranco Arnoletti, presidente del Cifa. «L’Agenzia nazionale darebbe alle famiglie una sensazione di sicurezza e tranquillità, in particolare dopo le pesanti accuse all’opacità del sistema adozioni lanciate dalla stessa presidente della CAI. Il risparmio economico per le coppie, di cui tanto si parla, non mi sembra così grande: per i servizi Italia Cifa ha una cifra fissa di 5.500 euro, Arai tre fasce che vanno dai mille ai 3mila euro, in base all’Isee. Io credo che il confronto vada fatto con la fascia più alta, perché le famiglie che adottano con Isee sotto i 24mila euro sono poche: il risparmio quindi è di 2mila euro su cifre complessive che arrivano anche a 35mila euro. Proprio perché non è una cifra elevata, perché non riconoscere a tutti questo vantaggio? Non sono contrario a un ente pubblico nelle adozioni, ma a patto che si giochi tutti la stessa partita, non che qualcuno stia in campo con una palla e qualcun altro con una palla quadrata. E poi anche l’ente pubblico ha il dovere dell’efficienza, proprio perché sta utilizzando soldi pubblici: quanto costano alla collettività queste adozioni? Cifa ha un bilancio più o meno simile a quello dell’Agenzia disegnata, 3 milioni di euro: facciamo 220 adozioni all’anno, questa Agenzia quante ne farebbe? Quante ne fa Arai?».

            Cristina Nespoli, portavoce del coordinamento CEA. «Ad una prima lettura della proposta di legge vedo il rischio che l’Agenzia sia soltanto una sovrastruttura di cui non si sente la mancanza. C’è un riferimento esplicito all’esperienza francese, ma ricordo che la Francia ha risentito più di noi dei problemi nei rapporti internazionali, non mi sembra che avere un’Agenzia nazionale sia una garanzia migliore. E poi che cosa c’è di più autorevole, all’estero, della Presidenza del Consiglio dei Ministri? La Francia ha un maggiore protagonismo del Ministero degli Affari Esteri, ma più volte è successo insieme all’ambasciatore cambiasse, nel Paese estero, la politica delle adozioni internazionali. L’Italia è stata un esempio per tanti anni, rischiamo di mandare all’aria un’esperienza che ha dato tante cose buone. Insomma, faccio fatica a vedere la necessità di un’Agenzia, piuttosto serve rivedere alcuni meccanismi di funzionamento del sistema».

            Pietro Ardizzi, portavoce del coordinamento OLA. «Ho forti dubbi, vorrei comprendere meglio la proposta e soprattutto da cosa nasce l’esigenza di creare un’Agenzia nazionale. Se si vuole dare a più famiglie la possibilità di adottare con il pubblico basterebbe estendere le convenzioni di Arai con altre regioni, perché invece proporre un’Agenzia? Qual è il vantaggio? Io vedo soprattutto il rischio di creare un altro ente carrozzone. Quanto costa questa macchina? Devono spiegarlo, non è perplessità la mia ma desiderio di capire quali sono i vantaggi in termini economici e di efficienza».

            Paola Crestani, presidente del Ciai. «Sono favorevole a un’Agenzia nazionale pubblica, ma all’interno di una riforma complessiva, che riveda il numero degli enti che si affiancano all’Agenzia e garantisca che tutti siano di qualità: in questo momento la proposta mi sembra solo quella di un ente in più. Sicuramente il pubblico sarebbe un benchmark di qualità, ma non dimentichiamo che questi benchmark esistono già, nelle linee guida e nelle linee guida dell’Aja. Tre milioni di euro mi sembra un budget eccessivo, non vorrei che i costi aumentassero anziché diminuire e il fatto che li paghi lo Stato anziché le famiglie non è una rassicurazione. Un’ultima nota sul post adozione: è giusto che sia a carico dello Stato, ma a questo punto dovrebbe essere gratuito per tutte le famiglie, non solo per chi si rivolge all’ente pubblico».

            Marco Griffini, presidente di AiBi. «Siamo di fronte alla distruzione delle adozioni internazionali, non possiamo neanche permetterci di pensare alla ricostruzione, qualunque idea si possa avere per essa. Mi viene il sospetto che si voglia far morire tutti gli enti attuali per ripartire con l’Agenzia pubblica. L’Agenzia può essere fatta solo nel momento in cui ci fosse la gratuità dell’adozione, altrimenti è sperequazione. Se parliamo di sistema misto deve essere a pari condizioni, serve un regime di libere convenzioni, come nella sanità, altrimenti sarebbe il dejà vu di quel che abbiamo vissuto in sanità negli anni Settanta».

            Antonella Miozzo, presidente di Afaiv. «Non sono contraria, ma in questo momento di caos assoluto sono scettica sull’utilità dell’Agenzia e di questa proposta di legge. 62 enti sono troppi, ci sono criticità, ma il sistema Italia esiste e ha aspetti buoni. Mi chiedo come funzionerebbe concretamente un’Agenzia Nazionale? Come può seguire davvero le famiglie se ha soltanto due sedi, a Roma e a Torino? Si appoggia ai servizi? Sarebbe un sogno, se i servizi non fossero da anni in via di smantellamento, se non avessero personale così poco formato. La riforma deve partire dal basso, dai servizi territoriali e da chi fa le cose, non dall’alto. Ho paura che si vada a creare soltanto un ente in più».

            Monya Ferritti, presidente del coordinamento Care. «È una proposta che sto seguendo con interesse, e trovo due fattori positivi: il concepire le adozioni come un fatto collettivo e il beneficio per le famiglie, economico e di servizi diffusi e di buona qualità. Dell’Agenzia disegnata mi sembra positivo il fatto che essa possa seguire nel post adozione tutte quelle coppie che non hanno più l’ente, le coppie miste che vogliono adottare nel Paese d’origine di uno dei due, anche quando l’Italia non sia presente con un ente autorizzato, che sia prevista esplicitamente l’operatività nei Paesi scoperti, l’assoluta novità per cui l’Agenzia potrebbe segnalare ai Tribunali italiani le coppie disponibili ad adottare un bambino special needs e quindi aiutare a trovare una famiglia per i minori italiani di difficile collocazione. È un bel segnale di investimento sulle adozioni, per quanto non sia risolutivo. L’ente pubblico farebbe da benchmark sulla trasparenza, so che alcuni fanno l’obiezione dei costi, ma tante cose ci costano tanto, bisogna vedere i benefici che generano».

            Anna Guerrieri, presidente di Genitori si diventa. «In quanto associazione famigliare, nella mia valutazione parto dai tre bisogni più sentiti dalle famiglie: supporto nel post adozione, semplificazione e trasparenza delle prassi, riduzione dei costi. L’Agenzia nazionale pubblica ha a che fare con questi tre punti? Sì, a patto che ci sia un reale investimento per farla funzionare. È interessante la riduzione di costi, la trasparenza delle prassi, lo stimolo e la specializzazione che l’ente pubblico porterebbe nei servizi, in ogni Regione: l’Agenzia dovrebbe avere un pool di operatori esperti in adozioni internazionali all’interno di ogni regione, con un forte investimento nella formazione, dappertutto. L’Ente descritto poi necessita di avere Paesi aperti, con una vera presenza all’estero, ad esempio attraverso accordi con le ambasciate».

Sara De Carli             Vita.it             27 aprile 2016

www.vita.it/it/article/2016/04/27/agenzia-nazionale-otto-voci-per-analizzare-la-proposta/139174/

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ADOZIONI INTERNAZIONALI

L’educazione emotiva per i docenti chiamati ad accompagnare i piccoli adottati

Chioggia (Ve). A scuola arriva una materia nuova. La sfida dell’accoglienza passa dalla scuola. Ed è una sfida non semplice, per la quale bisogna essere pronti ad affrontare difficoltà, ma anche emozioni. Ecco perché l’équipe adozioni dell’Azienda Ulss 14 di Chioggia, in provincia di Venezia, in collaborazione con Amici dei Bambini ha organizzato una serie di incontri di formazione per gli insegnanti referenti per gli alunni adottati. Il ciclo di incontri, iniziato il 29 febbraio, vivrà il suo terzo appuntamento lunedì 2 maggio, alle ore 17. La location sarà sempre la sala riunioni del Distretto socio-sanitario di via Vespucci a Sottomarina di Chioggia.

            Per l’occasione la psicologa e psicoterapeuta consulente di Ai.Bi. Veneto Cristiana Pilotto e l’assistente sociale dell’équipe adozioni di Chioggia Alessandra Morini incontreranno i docenti delle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado che, secondo le Linee guida per l’inserimento scolastico dei minori adottati, si occupano di favorire l’ingresso e l’integrazione dei minori accolti in adozione nel panorama educativo italiano.

            Al centro di questo terzo incontro ci saranno il bisogno di rassicurazione e di attenzione positiva di tutti i bambini adottati e i loro scatti di collera che ogni docente deve essere pronto a fronteggiare. Nella seconda parte del pomeriggio, invece, si prenderanno in esame i sistemi educativi e le caratteristiche delle scuole delle diverse parti del mondo da cui provengono i piccoli figli adottivi. Per accompagnarli adeguatamente nella loro nuova realtà scolastica italiana, infatti, è indispensabile infatti conoscere la realtà educativa di provenienza.  Infine, spazio al dibattito nel corso del quale gli insegnanti presenti potranno raccontare e confrontare le proprie esperienze.      Concentrando l’attenzione sull’educazione emotiva in classe, si darà dunque continuità ai temi affrontati nel corso dei primi appuntamenti: dal profilo dei bambini adottati alle caratteristiche degli istituti di provenienza fino alle eventuali difficoltà di apprendimento. Lo scopo degli incontri è infatti quello di integrare gli strumenti metodologici, formativi e relazionali utilizzati dagli insegnanti per accompagnare nel miglior modo possibile l’inserimento sociale e culturale dei minori adottati, armonizzando le loro storie con quelle dell’intera classe.

                                   Ai. Bi.  29 aprile 2016            www.aibi.it/ita/category/archivio-news

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

AMORIS LAETITIA

C’è una “rivoluzione” in Amoris laetitia, si chiama coscienza.

In Amoris laetitia la parola coscienza (al singolare e al plurale) compare 21 volte. Non prendendo in considerazione le 6 volte che essa viene utilizzata o come «obiezione di coscienza» o come sentimento o come consapevolezza, essa viene assunta come elemento primario in cui rispecchiarsi dal punto di vista etico e spirituale 15 volte.

            L’appello alla coscienza morale. La coscienza è la chiave interpretativa decisiva per la corretta comprensione di tutta l’esortazione postsinodale. Solo alla luce della comprensione della prospettiva con cui papa Francesco entra in dialogo con i fedeli, appellandosi alla loro coscienza morale, infatti, è possibile condividere le sue posizioni, per molti aspetti rivoluzionarie, rispetto a temi come i sacramenti alle «cosiddette» coppie irregolari, ai metodi per la programmazione della maternità/paternità responsabile e all’omosessualità.

La prima volta che nell’esortazione compare la coscienza è al n. 37, dove, partendo da un’autocritica ecclesiastica sul passato, il pontefice invita a non diffidare dell’autonomia soggettiva dei fedeli di Cristo: «Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». Quindi per Francesco la formazione delle coscienze non consiste nella loro oggettivizzazione mediante contenuti esternamente elaborati ed aventi presunzione di universale validità, ma nel riconoscimento della dignità e della propositività di una soggettività credente.

La coscienza degli sposi: tra genitorialità responsabile e libero arbitrio. La seconda volta la coscienza compare al n. 42, nella accezione di coscienza degli sposi nei riguardi della maternità/paternità responsabile, la cui peculiare libertà viene elevata a sollecitudine ecclesiale contro ogni forma di prevaricazione da parte dello stato: «E’ vero che la retta coscienza degli sposi, quando sono stati molto generosi nella trasmissione della vita, può orientarli alla decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri, ma sempre “per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto”».

La terza volta compare al n. 222 nell’ambito di una citazione della Relatio Synodi 2015 n. 63, ancora in riferimento alla maternità/paternità responsabile: «La scelta responsabile della genitorialità presuppone la formazione della coscienza, che è “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (GS 16). Quanto più gli sposi cercano di ascoltare nella loro coscienza Dio e i suoi comandamenti (cf. Rm 2,15), e si fanno accompagnare spiritualmente, tanto più la loro decisione sarà intimamente libera da un arbitrio soggettivo e dall’adeguamento ai modi di comportarsi del loro ambiente».

Al n. 265 la coscienza compare come soggetto morale a cui obbedire senza interferenze esteriori: «Per quanto la coscienza ci detti un determinato giudizio morale, a volte hanno più potere altre cose che ci attraggono».

La coscienza per il discernimento personale… Altre 8 volte la coscienza è citata in riferimento al discernimento delle situazioni dette «irregolari». Due volte al n. 298 la coscienza viene citata come tribunale ultimo delle proprie decisioni in merito a questioni spirituali e responsabilità sociali: «Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. (…) C’è anche il caso di quanti (…) talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido”».

Altre 2 volte la coscienza viene citata al n. 300 come atteggiamento personale rispetto ad un approccio sacramentale risolutivo: «“(…) sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento (…)”. Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che “orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio”».

…e per quello congiunto. Al n. 302 la coscienza del fedele viene citata come interlocutore del discernimento che i pastori devono applicare: «Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti padri sinodali: “In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. (…) Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni”».

Infine al n. 303 la coscienza viene citata per 3 volte come la sede dove i discernimenti congiunti, personale del fedele ed ecclesiale del pastore, possano pervenire ad una “sicurezza morale” di quello che Dio stesso sta chiedendo in quel momento contingente, sebbene questo venga riconosciuto come ideale soggettivo e non oggettivo: «(…) possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore (…) Ma questa coscienza (…) può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo».

No alla linea difensiva, sì al contributo di singoli soggetti. L’esortazione Amoris laetitia risulta permeata dalla profonda revisione con cui il magistero ecclesiale si rapporta alla coscienza: essa non viene più vista con la diffidenza di alcuni precedenti documenti magisteriali, ma con benevolenza e fiducia nelle sue capacità di pervenire al migliore discernimento possibile anche nelle singole anime dei fedeli di Cristo. Viene così modificata la posizione ecclesiale rispetto alla coscienza personale: viene abbandonata la prospettiva difensiva di alcuni documenti recenti, come Humanae vitae o Veritatis splendor, per aprire la coscienza morale ecclesiale ai contributi dei singoli soggetti, per quanto applicabili solo a specifici casi personali, senza alcuna presunzione di generalizzazione.

La fonte della coscienza morale non è più esclusivamente ecclesiale, ma alla sua formazione sono chiamati a partecipare attivamente le coscienze individuali di tutti i credenti. La coscienza non è più percepita come un contenitore da riempire con norme confezionate in relegati luoghi di produzione etica, ma essa stessa viene chiamata a contribuire alla formazione della coscienza ecclesiale a partire dal singoli fedeli di Cristo e dalle loro vicissitudini esistenziali.

Andrea Volpe 26 aprile 2016 – blog Moralia Associazione teologia italiana per lo studio della morale

                        www.lindicedelsinodo.it/2016/04/ce-una-rivoluzione-in-amoris-laetitia.html

Sinodo sulla famiglia: dal giudizio alla benevolenza.

Dalla lunga frequentazione dei testi pontifici, ho imparato che bisogna leggerli due volte. In una prima lettura, si parte febbrilmente alla ricerca delle parole che si vorrebbe sentire, a rischio di rimanere delusi se non le si trova. Da questo punto di vista, Amoris laetitia non ha derogato alla regola. Su nessuno dei problemi controversi, che si tratti della contraccezione, della coniugalità omosessuale o dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati, papa Francesco non dà esplicitamente la risposta attesa da molti fedeli, tra cui il sottoscritto. Una seconda lettura fa scoprire il testo e le sue ricchezze. E offre qualche sorpresa se si sanno leggere le note a piè di pagina.

Gli ultimi paragrafi dell’esortazione apostolica ne riassumono perfettamente lo spirito quando il papa scrive: “In nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio” (§ 307), per proseguire: “Tuttavia, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno” (§ 308). E, come per rispondere anticipatamente alle obiezioni, precisa: “Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità”

In queste espressioni, è già detto tutto. E le duecentosessanta pagine, organizzate in trecentoventicinque paragrafi è solo lo sviluppo di questa doppia esigenza: fedeltà e apertura. Se papa Francesco, facendosi espressione del sinodo romano, non vuole metter mano alla dottrina, è perché essa esprime il “progetto di Dio” sulla famiglia, e ciò che propone la Chiesa attraverso il sacramento del matrimonio gli sembra corrispondere a ciò a cui continuano ad aspirare massicciamente i nostri contemporanei: un amore che dura, vissuto nella fedeltà e nella fecondità.

L’esortazione apostolica riafferma quindi la convinzione della Chiesa che il solo modello familiare utile alla società è quello che si basa sul matrimonio eterosessuale indissolubile e fecondo. “Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società” (§ 52), scrive papa Francesco. Il che, evidentemente, non corrisponde allo stato attuale dell’opinione pubblica in un paese come la Francia. Comunque, prendendo atto della diversità delle famiglie e delle situazioni, il testo riconosce l’esistenza “di elementi positivi” in altre forme matrimoniali: convivenza, matrimonio civile, seconde nozze. Invita quindi i preti ad accogliere le persone come sono, senza rinunciare a proporre loro l’ideale preconizzato dalla Chiesa attraverso quella che il testo chiama “pedagogia divina”.

Per papa Francesco, il percorso è chiaro: “due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione […]. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno” (§ 296). Ora, appunto, il problema sollevato dal rifiuto di ammettere ai sacramenti i divorziati risposati è quello di una “condanna a vita”. È vero che l’esortazione apostolica non toglie “esplicitamente” il divieto, ma le affermazioni di papa Francesco ci fanno comprendere che invita a toglierlo, nel discernimento.

Scrive: “È possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato… si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa” (§ 305). Per chi non è addentro al linguaggio ecclesiastico questo potrà sembrare banale o oscuro. Ma non è così. Il fatto di parlare di “aiuto della Chiesa” può già suggerire che ci possa essere una possibile allusione all’accesso ai sacramenti. Una lettura più attenta mostra che questa frase rinvia ad una nota a piè di pagina n. 351, in cui si dice: “In certi casi, può anche trattarsi dell’aiuto dei sacramenti”. Ecco che è stato detto! Il cerchio è chiuso. Senza preavviso, evitando ogni provocazione inutile su un tema sensibile, papa Francesco, come l’assemblea sinodale lo autorizzava a fare, apre una porta chiusa da sempre (1).

Lo sapevamo astuto e determinato. Eccone la prova, in totale fedeltà alle delibere dei Padri sinodali. È un punto che è opportuno sottolineare: si è stupiti della volontà manifesta di papa Francesco di “stare al gioco” della collegialità sinodale, non andando al di là del consenso espresso al termine delle due sessioni.

Dobbiamo trarne la conclusione che sta cambiando un’epoca per la Chiesa? Certamente no! Anche se la lettura, per quanto rapida, di questo testo seduce per la sua ricchezza e per l’apertura che propone, c’è per lo meno un punto che continua a fare problema. Certo, la Chiesa accetta di guardare la società così com’è, evitando di moltiplicare le condanne che si potevano trovare negli scritti dei suoi predecessori. Ma questa descrizione delle realtà della famiglia contemporanea sembra interpellarlo solo sulla sua capacità – o incapacità – di far prevalere la propria “visione” nella società. Mai la Chiesa si riconosce messa in discussione “a fondo” da qualsiasi realtà nuova.

Si nota qui una distanza, per non dire una contraddizione, rispetto alle affermazioni di papa Francesco nella sua intervista alle riviste gesuite dell’estate 2013, in cui dichiarava: “la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce… Le scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione” (2). Ora, si resta stupiti che su un tema sensibile come la contraccezione, l’esortazione torni per quattro volte sull’enciclica Humanae Vitae per sottolinearne la pertinenza in particolare per quanto riguarda il rapporto esclusivo che esisterebbe tra metodi naturali e rispetto della dignità della persona (§ 82), il che meriterebbe un esame più ampio.

Allo stesso modo, sulla questione omosessuale, sorprende che l’esortazione dia la sensazione di non “ascoltare” le persone omosessuali stesse e di non parlare loro. Se non per confermare, come per le altre persone che si trovano in situazioni non conformi all’insegnamento del magistero, che esse sono amate da Dio e hanno il loro spazio nella Chiesa. La sola attenzione pastorale riguarda le loro famiglie – genitori o figli – che il testo invita ad accompagnare con carità. Sembra un po’ poco.

Che dire d’altro? Che bisogna leggere e senza dubbio rileggere Amoris laetitia, come invita a fare lo stesso papa Francesco. Dedicandovi il tempo necessario per entrare in una riflessione non esplicitabile con i codici binari e sbrigativi della comunicazione nelle nostre società moderne. Per la Chiesa, resterà aperta malgrado tutto una domanda essenziale: come far prendere coscienza di questo nuovo sguardo sulle realtà familiari a coloro che si sono allontanati dalla Chiesa?

 (1) È perfino possibile che questa “apertura sia sfuggita ai membri della Segreteria dello Stato del Vaticano che hanno tradotto il testo in diverse lingue. In un documento pedagogico “domande e risposte” fornito ai vescovi e ai giornalisti, scrivono a proposito dei divorziati risposati: “Anche se non possono prender parte pienamente alla vita sacramentale della Chiesa, sono incoraggiati a partecipare attivamente alla vita della comunità”. Questa era la posizione della Chiesa… prima dell’esortazione!

(2) Papa Francesco, intervista dell’agosto 2013.

René Poujol    www.renepoujol.fr, ‘8 aprile 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut4460

 

Le sfide della “Amoris Laetitia” ai vescovi africani su famiglia, matrimonio e omosessualità.

Questa è la reazione all’esortazione (del Papa) del gesuita Agbonkhianmeghe Orobator, rettore del Hekima University College di Nairobi e noto teologo africano: “Ammetto che questa è una reazione iniziale al testo, il risultato di una “lettura affrettata”, contraria alle raccomandazioni del Papa [nel paragrafo 7].

Francamente, mi aspettavo dal testo più di quanto ho avuto, ma non sono deluso. Vorrei evitare di chiamarlo “innovativo” o “rivoluzionario”. Non credo fosse stata l’intenzione del Papa. Credo che ci sia ancora un lungo cammino prima di fare dei passi veramente coraggiosi, che sono grandemente in ritardo su argomenti critici come il ruolo della donna nella Chiesa, le unioni omosessuali, i diritti riproduttivi, ognuno dei quali è affrontato e analizzato nel documento.

Guardando all’esortazione dalla prospettiva della Chiesa d’Africa, credo che il tono realistico del documento sia una guida di cui abbiamo molto bisogno. In altre parole, capire che il primo compito della Chiesa non è litigare su questioni morali contestate. Inoltre, malgrado la “Gioia dell’Amore”, la vita famigliare e il matrimonio possono essere luoghi di enorme stress, pesi e incubi [paragrafo 30]; non deve essere idealizzata [paragrafo 36]. Se sappiamo cosa questo significhi, possiamo cominciare ad abbassare i toni delle nostre rigide posizioni e vedere la vita famigliare e il matrimonio come opportunità, piuttosto che come problemi [paragrafo 7].

La mia lettura mi dice che Francesco riafferma in termini incontrovertibili l’insegnamento della Chiesa su aborto, contraccezione, controllo delle nascite e matrimonio. Quello che non dobbiamo dimenticare è che egli è altrettanto intransigente nell’affermare la centralità della coscienza [paragrafo 303], del discernimento, dell’accompagnamento pastorale e della compassione.

Per come la vedo io, quando l’esortazione parla di coscienza, essa mette un’arma potente nelle mani dei cattolici sposati, divorziati, e risposati. Per dirla semplicemente, Francesco dà loro il permesso di partecipare alla vita eucaristica della Chiesa senza la paura o l’impedimento da parte della polizia morale che lancia pietre, mascherando la sua crociata moralizzatrice sotto il mantello della dottrina [paragrafo 305]. Parte del suo messaggio è che abbiamo bisogno di astenerci dalla pratica comune di equiparare l’“irregolarità” con il “peccato mortale” [paragrafo 301]. Abbiamo bisogno di rispettare le diverse e complesse realtà delle situazioni delle persone ed evitare generalizzazioni, giudizi affrettati ed etichette.

Francesco apre un’opportunità unica per un rinnovamento della vita famigliare e del matrimonio. Vedo la sua esortazione come l’inizio di una “svolta pastorale” nell’insegnamento della Chiesa su matrimonio e vita famigliare [paragrafo 199], una metodologia nuova che si focalizza sull’ascoltare di più e sul discernimento della voce della coscienza piuttosto sulla preoccupazione di soddisfare i comandi di rigidi precetti morali. Oso dire che coloro che hanno bisogno di essere istruiti in questa metodologia sono soprattutto coloro che siedono nei confessionali, nei tribunali ecclesiastici e che presiedono le curie episcopali – in altre parole, tutti quelli che rientrano nella categoria dei “pastori”. Penso che vada a credito del Papa l’ammettere la tragica inadeguatezza dei pastori a questo proposito [paragrafo 202]. I pastori devono essere coloro che imparano; hanno bisogno che gli sia insegnato meglio!

Se i vescovi africani fossero saggi, capirebbero che il Papa dà loro l’opportunità di essere creativi nell’affrontare situazioni pastorali che riguardano la vita familiare e il matrimonio. Francesco sta dicendo in realtà: “Non nascondetevi sotto il velo del magistero!” [paragrafo 3]. Invece, dobbiamo porgere molta attenzione a quegli elementi unici delle culture africane che permettono alla Chiesa africana di inventare soluzioni pastorali innovative riguardo la vita famigliare e il matrimonio, rimanendo sensibili ai bisogni e alle tradizioni locali [paragrafo 3]. Abbiamo la grande opportunità di essere creativi!

Inoltre, in un continente dove almeno trentotto Paesi criminalizzano l’omosessualità, l’incisivo appello del Papa per il rispetto della dignità umana, per una guida pastorale rispettosa per evitare discriminazioni ingiuste, di aggressione e di violenza [paragrafo 250] dovrebbe spingere la Chiesa d’Africa ad abbracciare con tutto il cuore le famiglie africane e i loro membri LGBT che sono stati stigmatizzati, emarginati ed esclusi dalla vita della Chiesa.

I pastori hanno bisogno di dissociarsi dai governi e dai politici che perseguitano le persone gay e mostrare esempi di rispetto per la loro dignità. In Africa diciamo che la Chiesa è la “famiglia di Dio” e ciò implica accogliere tutti senza discriminazione. Il marchio preminente di questa Chiesa e della Chiesa del mondo è l’ospitalità. Chiaramente, Francesco sta richiamando la Chiesa africana a praticare ciò che predica, diventando una Chiesa che accoglie tutti in famiglia senza discriminazioni”.

Joshua J. McElwee National Catholic Reporter (USA) 11 aprile 2016, liberamente tradotto da Silvia Lanzi

www.gionata.org/noi-vescovi-abbiamo-bisogno-di-una-guida-come-questa-lamoris-laetitia-secondo-un-teologo-africano

Sacerdoti sposati: oltre l’emarginazione e la «condanna»?

L’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) si basa su una scelta consapevole e decisa, una scelta che papa Francesco richiama formalmente in un luogo delicato del documento, il n. 296 del capitolo VIII, proprio là dove si esplicitano i principi del «Discernimento delle situazioni dette “irregolari”». Si tratta di un’autocitazione: il papa richiama infatti un passo della sua omelia del 15 febbraio 2015, tenuta durante la celebrazione dell’eucaristia con i nuovi cardinali.

            Ecco quel che dice: «Il Sinodo si è riferito a diverse situazioni di fragilità o d’imperfezione. Al riguardo, desidero qui ricordare ciò che ho voluto prospettare con chiarezza a tutta la Chiesa perché non ci capiti di sbagliare strada: «due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare (…). La strada della Chiesa, dal concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione (…). La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero (…). Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita!»” (AL 296).

            La logica dell’emarginazione non è dunque e non deve essere la logica della Chiesa. Il contesto fa riferimento a situazioni che si possono configurare come disordini oggettivi dei soggetti (l’AL al n. 297 usa la nozione giuridica di «peccato oggettivo», forse non la più felice). Ma se la necessità di una logica di non emarginazione vale in casi simili, quanto più deve valere quando si tratta di situazioni del tutto non disordinate, ma anzi recepite dalla Chiesa e ritenute da essa conformi alla volontà di Dio.

            Mi riferisco al sacerdozio sposato della Chiesa cattolica, ovvero agli uomini sposati cattolici che esercitano il ministero sacerdotale rimanendo sposati e realizzando anche il ministero coniugale. Ho già avuto modo di far notare l’incredibile fatto che ai due Sinodi sulla famiglia sono stati invitati rappresentanti di tutte le categorie nella Chiesa, di tutti gli stati di vita, ma non dei sacerdoti sposati cattolici.

L’esortazione Amoris laetitia sembra riconoscere che il Sinodo non è stato saggio quando non ha invitato nessun rappresentante delle famiglie sacerdotali: la loro esperienza sarebbe stata utile. Almeno a questo fa pensare quel che leggiamo in AL 202: «“Il principale contributo alla pastorale familiare viene offerto dalla parrocchia, che è una famiglia di famiglie, dove si armonizzano i contributi delle piccole comunità, dei movimenti e delle associazioni ecclesiali” (Relatio finalis 2015, n. 77; Regno-doc. 34,2015,32). Insieme con una pastorale specificamente orientata alle famiglie, ci si prospetta la necessità di “una formazione più adeguata per i presbiteri, i diaconi, i religiosi e le religiose, per i catechisti e per gli altri agenti di pastorale” (Relatio finalis 2015, n. 61; Regno-doc. 34,2015,27). Nelle risposte alle consultazioni inviate a tutto il mondo, si è rilevato che ai ministri ordinati manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie. Può essere utile in tal senso anche l’esperienza della lunga tradizione orientale dei sacerdoti sposati».

            Una proposta per il Giubileo. È un testo che credo tutti i sacerdoti sposati cattolici saluteranno con gratitudine; è infatti uno dei rarissimi accenni da parte del magistero della Chiesa al fatto che essi posso avere qualcosa da dire alla Chiesa intera sulla famiglia, sui suoi problemi e sulla pastorale familiare in generale. Anche se qualcuno non mancherà di osservare che il linguaggio è ambiguo, giacché si parla dei sacerdoti sposati della tradizione orientale, come se non fossero cattolici DOC, e niente si dice dei sacerdoti sposati latini che pure esistono (si pensi solo a tutti i ministri anglicani e protestanti sposati e ordinati dopo la conversione senza interrompere la vita coniugale). Qualunque sia il significato da attribuire a questo minuscolo accenno del n. 202, è lecito sperare che possa essere l’inizio di un processo di dis-emarginazione del sacerdozio sposato. Forse in futuro si comincerà a tenerne conto quando si parlerà ancor di più della ricca diversità delle vocazioni e non della loro gerarchia (AL lo fa ampiamente ai nn. 158-162); forse ci si ricorderà anche dei seminaristi del clero sposato quando si parlerà della formazione seminaristica (AL 203 non sembra ricordarli) e forse si comincerà a riflettere sul ruolo della presbytera e della famiglia sacerdotale quando si penserà al rapporto tra parrocchia e famiglia.

            Oltre ai sacerdoti sposati emarginati ma non condannati, come quelli dei quali abbiamo or ora parlato, nella Chiesa ci sono anche i sacerdoti sposati emarginati e condannati a non esercitare più il ministero sacerdotale, pur avendo avuto una valida ordinazione sulla base di un discernimento ecclesialmente operato. Tale condanna è una sanzione canonica legata a obblighi concernenti il ministero sacerdotale nella ordinaria forma latina, per lo più obblighi legati alla promessa di celibato. Perché non cogliere l’occasione del Giubileo straordinario della misericordia per attivare percorsi di riammissione all’esercizio attivo del ministero per sacerdoti nella condizione suddetta? Se ai ministri convertiti al cattolicesimo si permette di ricevere l’ordinazione e di esercitare il ministero sacerdotale rimanendo sposati, perché non si provvede ad articolare seri percorsi di riammissione all’esercizio del sacramento dell’ordine, andando incontro a coloro che riconoscono di aver ferito la Chiesa e di aver mancato a impegni assunti ma che insieme – in accordo con la loro famiglia – chiedono la misericordia della Chiesa mettendosi a disposizione dei suoi bisogni con tutto ciò che sono, con tutto il loro essere ordinato?

            Anche a loro, a molti di loro, possono e debbono essere applicate – io credo – le forti parole di papa Francesco che leggiamo in AL 297: «Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia “immeritata, incondizionata e gratuita”. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino».

            Basilio Petrà. 18 aprile 2016.           Blog Il Regno. Il testo apparirà anche su Il Regno-attualità n. 6/2016

www.lindicedelsinodo.it/2016/04/sacerdoti-sposati-oltre-lemarginazione.html#more

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

ASSOCIAZIONI

Registrazione di un’associazione.

L’associazione, dopo la costituzione, deve richiedere l’attribuzione del codice fiscale, utilizzando uno specifico modello (AA5/6) previsto per i soggetti diversi dalle persone fisiche non titolari di Partita IVA.

Se invece l’associazione intende richiedere anche l’attribuzione della partita iva il modello da utilizzare sarà AA7/10.

Nel primo caso sono previste due modalità: o direttamente presso qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate, o mediante spedizione con raccomandata indirizzata ad un qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate.

Nel secondo caso, in cui si richiede la Partita IVA, l’attribuzione del codice fiscale /partita iva dovrà essere effettuata entro 30 giorni dall’inizio dell’attività associativa.

La registrazione è curata direttamente dal notaio nell’ipotesi in cui l’atto costitutivo sia stato redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata.

Negli altri casi (scrittura privata non autenticata) la registrazione può essere richiesta presso un qualsiasi ufficio dell’Agenzia delle Entrate, presentando richiesta di registrazione (modello 69) in duplice esemplare (due originali o un originale ed una copia), previo pagamento dell’imposta di registro mediante F23 (codice tributo 109T) e dell’imposta di bollo (il costo di norma è di poco superiore ai 200 Euro).

www.nonprofitonline.it/default.asp?id=508&id_n=6751

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CHIESA CATTOLICA

Libera discussione sul dogma della infallibilità del papa.

Hans Küng, il teologo svizzero, professore emerito di teologia ecumenica presso l’Università di Tubinga, in Germania, dice che ha ricevuto una lettera da Papa Francesco che risponde “alla mia richiesta di una libera discussione sul dogma dell’infallibilità”. Küng ha rifiutato di mostrare la lettera al National Catholic Reporter, per “la riservatezza che devo al Papa”, ma dice che la lettera è datata 20 marzo e che gli è pervenuta tramite la nunziatura di Berlino poco dopo la Pasqua. Küng dice che nella lettera “Francesco non ha fissato alcuna restrizione” alla discussione. Küng ha anche detto che egli è molto incoraggiato dalla recente Esortazione apostolica, Amoris Laetitia. “Io non prevedevo questa nuova libertà che Francesco ha aperto nella sua esortazione post-sinodale”. Küng ha scritto nel comunicato diffuso a NCR e ad altri media: “Già nell’introduzione, egli scrive ‘Non tutte le questioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte dagli interventi del magistero.” Küng aggiunge: “Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero” e rende possibile una discussione sull’infallibilità. Il 9 marzo, Küng aveva diffuso un “appello urgente a Papa Francesco per consentire una discussione aperta e imparziale sulla infallibilità del papa e dei vescovi”. L’appello è stato diffuso contemporaneamente in più lingue e in tante pubblicazioni. Di seguito il testo della dichiarazione sulla lettera del papa che Küng ha rilasciato ai media. La versione inglese è stata consegnata e diffusa contemporaneamente dal National Catholic Reporter e da Tablet a mezzanotte del 27 aprile.

Nota della Redazione (Dennis Coday)

Dichiarazione di Hans Küng.

Il 9 marzo 2016 ho diffuso un Appello a Papa Francesco perché desse spazio ad una libera discussione, senza pregiudizi e del tutto aperta, sul problema dell’infallibilità. Essa è stata pubblicata sulle principali riviste di diversi paesi. Sono stato felice di ricevere una risposta personale da Francesco subito dopo Pasqua. E’ del 20 marzo e mi è stata trasmessa dalla nunziatura del Vaticano a Berlino.

Della risposta del papa, i seguenti punti sono importanti per me:

Il fatto che Francesco ha risposto e non ha lasciato, per così dire, cadere nel vuoto il mio testo;

Il fatto che egli stesso ha risposto e non tramite il suo segretario privato o il segretario di Stato;

Mi ha risposto in maniera fraterna, in lingua spagnola, rivolgendosi a me come Lieber Mitbruder (“Caro Fratello”) in tedesco e queste parole personali sono in corsivo;

Con evidenza egli ha letto molto attentamente l’Appello, a cui avevo aggiunto una traduzione spagnola;

Che ha espresso forte apprezzamento per le considerazioni che mi avevano portato a scrivere il Volume 5 delle mia opera completa, in cui suggerisco di discutere dal punto di vista teologico le diverse problematiche che il dogma dell’infallibilità solleva alla luce della Sacra Scrittura e della tradizione con l’obiettivo di approfondire un dialogo costruttivo tra la chiesa “semper reformanda” del XXI secolo e le altre chiese cristiane e la società postmoderna.

Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione. Egli ha così risposto alla mia richiesta di dare spazio a una libera discussione sul dogma dell’infallibilità. Penso che sia ora indispensabile utilizzare questa nuova libertà per portare avanti la riflessione sulle definizioni dogmatiche, che sono motivo di polemica all’interno della Chiesa cattolica e nel suo rapporto con le altre chiese cristiane.

Non prevedevo tutta questa nuova libertà che Francesco ha aperto nella sua esortazione postsinodale, Amoris Laetitia. Già nell’introduzione, egli dichiara: “Non tutte le discussioni di questioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte dagli interventi del magistero”. Egli denuncia “la morale burocratica e fredda” e non vuole che i vescovi si comportino come se fossero gli “arbitri della grazia”. Egli dice che l’Eucaristia non è un premio per le persone perfette ma è un “nutrimento per i deboli.”

Egli cita ripetutamente dichiarazioni fatte al Sinodo dei vescovi o dalle conferenze episcopali nazionali. Francesco non vuole più essere l’unico portavoce della chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero. Sono pienamente convinto che in questo nuovo spirito aperto a una discussione libera e imparziale sul dogma dell’infallibilità, questo problema chiave per il futuro della Chiesa potrà essere discusso al meglio.

Sono profondamente grato a Francesco per questa nuova libertà ed unisco il mio grazie di cuore all’aspettativa che i vescovi e i teologi sappiano senza riserve adottare questo nuovo spirito e unirsi nel ringraziamento partecipando a questo compito in conformità con le Scritture e con la grande tradizione della Chiesa.

Hans Küng e Dennis Coday              “ncronline.org”         26 aprile 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut439

Küng: Papa Francesco ha riaperto il confronto sul dogma dell’infallibilità.

Infallibilità del Papa. Il teologo svizzero Hans Küng aveva scritto a Bergoglio chiedendogli una riflessione: «Imploro papa Francesco – si leggeva nella sua lettera al pontefice – che mi ha sempre risposto in modo fraterno: riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene».

            Il Corriere della Sera (28 aprile) rivela che Papa Francesco ha risposto a Küng, «con una lettera fraterna, apprezzando le mie considerazioni», evidenzia il teologo, che poi aggiunge: «Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione».

            Francesco, scrive il Corriere, non ha mai parlato del dogma dell’infallibilità, sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Del resto nessuno Oltretevere ritiene abbia mai pensato di metterlo in discussione. Diverso è dire che Francesco non abbia posto «alcun limite alla discussione», come riferisce Küng. Anche perché si tratta del dogma forse più frainteso, oltre che dibattuto. Il Concilio Vaticano I non disse affatto, come molti credono, che il Papa è infallibile tout court. Il Papa è un essere umano e la prima cosa che Bergoglio disse al conclave, subito dopo l’elezione, fu: «Io sono un peccatore».

            Dopo lunghe discussioni, nel 1870 si stabilì che il Papa è infallibile solo «quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi». Sono casi rarissimi, come quando nel 1950 Pio XII proclamò solennemente l’Assunzione di Maria in cielo. Ma l’estensione dell’infallibilità resta dibattuta tra i teologi. La posizione di Küng è netta: vorrebbe abolirla o almeno sottoporla ad una revisione radicale.

            La citazione di Rahner. Padre Edoardo Scognamiglio, Ofm docente Teologia dogmatica presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli), premette non a caso ad Aleteia: «Sembra che il teologo gesuita Karl Rahner amasse ripetere questa frase: “Può esistere una Chiesa senza il papa ma non un papa senza la Chiesa”. Citiamo questo detto per aiutare i credenti a riscoprire il ministero petrino all’interno della Chiesa, ossia come servizio per l’unità della fede».

            Al servizio della Chiesa. Il primato del Vescovo di Roma, prosegue il teologo, «è sempre a servizio della Chiesa cattolica, ossia della tradizione viva della fede che nei secoli è vissuta e trasmessa a tutti i credenti in Cristo Gesù. Dobbiamo liberarci dall’idea che papa Francesco voglia o possa dire qualcosa che sia contro la tradizione della Chiesa cattolica». Certamente, aggiunge Scognamiglio, «dobbiamo essere in grado di distinguere la dottrina della Chiesa cattolica da ciò che sono le opinioni personali o che possono essere le stesse ipotesi che, in un determinato campo, vescovi, teologi e pure romani pontefici, possono suggerire o formulare in maniera privata e personale. Un dato di fatto, dal punto di vista teologico, è certo: il ministero petrino è sempre votato all’unità della Chiesa. Anche un pronunciamento infallibile del Santo Padre avviene sempre nella sua qualità di Pastore della Chiesa».

            Le verità di fede- Perché queste precisazioni? Il teologo spiega: «Le ho fatte per dire che l’infallibilità del Santo Padre è da rileggere sempre come servizio alla Chiesa e per la comprensione più approfondita delle verità rivelate». Nel dialogo epistolare tra papa Francesco e il teologo Hans Küng «non è stato messo in discussione il dogma dell’infallibilità del papa, bensì il modo come intendere oggi questo primato in prospettiva collegiale, in rapporto al mondo e alla storia. Sappiamo benissimo che una dichiarazione infallibile del Santo Padre – evento abbastanza singolare e raro – riguarda la materia di fede e di morale. È necessario distinguere tra i linguaggi della fede che mutano nel tempo e i contenuti delle verità di fede che hanno una loro stabilità».

            La comunicazione di Francesco. Papa Francesco «sta agendo sui linguaggi della fede per comunicare una verità di fede con una modalità più accessibile. Di solito, una definizione dogmatica – un dogma – non è come un meteorite che spunta fuori all’improvviso sulla nostra orbita ecclesiale. Si tratta di una verità che è maturata nel tempo, ossia come frutto di un processo lento di recezione di una dottrina essenziale alla vita stessa della Chiesa cattolica e che, in qualche modo, è già presente nella tradizione viva della comunità credente».

            Maestro “ex cathedra”. Una definizione dogmatica – pronunciata ex cathedra dal Santo Padre o da un Concilio in comunione con il vescovo di Roma – «è sempre il riflesso della coscienza della Chiesa nel tempo. In altre parole – sottolinea Scongnamiglio – una verità di fede interpella la vita dei credenti e penetra profondamente nel vissuto ecclesiale di ogni comunità. Il Santo Padre, quando da solo prende una decisione dottrinale obbligante in forma definitiva per tutti i credenti, agisce nella sua funzione di maestro supremo della Chiesa cattolica, ossia ex cathedra, facendo appello alla sua suprema autorità dottrinale. Ovviamente, il papa non è mai infallibile nella sua condotta personale e nelle sue opinioni private. Oggetto dell’infallibilità sono tutte le verità della Rivelazione libere da errori e travisamenti». Il magistero della Chiesa può, quindi, «manifestare il suo giudizio su tutto ciò che con le dottrine rivelate è in un rapporto tale da distruggere o mettere in pericolo, se affermato o negato, la fede nel suo insieme o una sua qualche singola verità».

Nuovi approfondimenti. Circa l’infallibilità del Santo Padre, osserva il teologo dogmatico, bisogna considerare due cose molto importanti. «Anzitutto, il pronunciamento ex cathedra del Santo Padre è da ricondurre sempre alla vita di fede della Chiesa, in rapporto di ubbidienza e d’interdipendenza, nella piena conformità alla Tradizione viva della Chiesa. In secondo luogo, tale definizione dogmatica ha la sua storia e, quindi, in quanto formula, nella sua comprensione e definizione, ammette degli approfondimenti e delle variabili». Ossia, una definizione infallibile «non è una formula ultima, definitiva, che abbraccia ogni realtà. È sempre un punto fermo che ammette nuovi approfondimenti. Da ciò risulta che ogni pronunciamento infallibile del Santo Padre non può mai oltrepassare la fede della Chiesa».

            L’auto-partecipazione di Dio. Il bisogno di papa Francesco manifestato al teologo Hans Küng di approfondire il significato dell’infallibilità del romano pontefice, «rivela il carattere essenzialmente sociale ed ecclesiale del dogma, poiché la Rivelazione che gli sta alla base è rivolta alla Chiesa. D’altra parte, lo ripetiamo, il dogma rende tangibile l’unità della Chiesa ed è il modo di presentarsi della permanente validità della Parola di Dio diretta alla Chiesa e da lei conservata nella Tradizione viva». Questo, conclude Scognamiglio, «vuol dire che il dogma è vita in quanto in esso avviene l’auto-partecipazione di Dio stesso e, quindi, può essere compreso solo nella realtà stessa di quanto viene creduto, ossia attraverso la Grazia, cioè per fede».

            Gelsomino Del Guercio/Aleteia29 aprile 2016         

http://it.aleteia.org/2016/04/29/kung-lettera-papa-francesco-confronto-dogma-infallibilita/?utm_campaign=NL_it&utm_source=daily_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Apr%2029,%202016%2007:18%20pm

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

COMMISSIONE ADOZIONI INTERNAZIONALI

                                               Accordi con Cina e Cile.

La Commissione Adozioni Internazionali ha comunicato di aver concluso altri due importanti accordi di collaborazione in materia di adozioni, uno con l’Autorità Centrale della Repubblica Popolare Cinese, l’altro con l’Autorità Cilena. Le intese bilaterali sono state sottoscritte rispettivamente nel luglio 2015 e nell’ottobre 2015, ma ora la Cai ne annuncia l’operatività.

Dopo gli accordi con Burundi e Cambogia, rispettivamente firmati il 25 luglio 2014 e il 17 settembre 2014, resi noti nell’ottobre di quell’anno, ieri e oggi la Commissione Adozioni Internazionali ha comunicato di aver concluso altri due importanti accordi di collaborazione in materia di adozioni, uno con l’Autorità Centrale della Repubblica Popolare Cinese, l’altro con l’Autorità Cilena.

Le intese bilaterali sono state sottoscritte rispettivamente il 9 luglio 2015 e il 23 ottobre 2015, ma ora la Cai ne annuncia l’operatività, facendo cenno in entrambi i casi all’«approfondita e produttiva sessione di lavoro tenutasi a Roma». L’intesa «semplifica le relazioni tra i due Paesi e pone al centro del percorso adottivo l’interesse superiore del minore».

In base al report statistico del 2013, dal 2000 i bambini adottati da coppie italiane in Cina sono 613 (il primo accordo risale al 2008 e nel 2013 i bambini avevano in media 3,5 anni), dal Cile 689 (nel 2013 avevano in media 7,6 anni), dal Burundi 51 (3,9 l’età media). In Cambogia le famiglie non possono adottare da anni: fra il 2000 e il 2011, anno degli ultimi (42) arrivi, 839 bambini cambogiani hanno trovato famiglia in Italia (dati CAIRapporto statistico 2011).

www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2016/accordo-di-cooperazione-con-la-cina.aspx

www.commissioneadozioni.it/it/notizie/2016/accordo-cooperazione-con-il-cile.aspx

Sara De Carli             Vita.it             27 aprile 2016

www.vita.it/it/article/2016/04/27/operative-le-intese-bilaterali-con-cile-e-cina/139162

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Brescia. Donne che hanno la fortuna di invecchiare          

Il Consultorio Familiare Onlus vuole contribuire a promuovere una nuovo cultura dell’invecchiamento. Per questo organizza un ciclo di incontri per capire come le donne invecchiano.

I           l titolo “Donne che hanno la fortuna di invecchiare” è stato scelto dal gruppo “Donne” di Milano. Alcune di loro saranno presenti al primo incontro.

v  10 maggio 2016 Come invecchia la donna nel XXI secolo.

Elisabetta Donati, sociologa Università di Torino

v  17 maggio 2016 l’arte di invecchiare.

Marina Piazza, saggista già presidente della Commissione Nazionale Pari Opportunità

v  24 maggio 2016 invecchiare nell’arte.                    Carlo Cristini, psicogerontologo Università di Brescia

Gli incontri si terranno alle pre 18 nella S. Agostino, ingresso cortile Palazzo Broletto Brescia

www.consultoriofamiliare.org/iniziative.php

Roma 1 v. della Pigna 13\a. Due strumenti per ottimizzare la consulenza familiare

14 maggio 2016. Ore 9-13 in sede. Seminario Apprendere la “Storia degli Eventi Critici” ed il “Disegno delle relazioni familiari”

  • Che cosa è la storia degli eventi critici. La conoscenza dei propri eventi critici permette di valorizzare la resilienza che nel corso del tempo si è attivata e di ampliare il raggio delle nostre possibilità di scelta. La storia degli eventi critici è un importante strumento per affrontare il presente con meno paure e più consapevolezza. Questa integrità consente di scegliere con maggiore lucidità, lungimiranza e libertà la via da percorrere
  • Che cosa è il disegno delle relazioni familiari. La creazione di un disegno delle relazioni familiari è sempre un’esperienza cognitivo-affettiva che, se accompagnata dalle verbalizzazioni di chi lo compila, può far emergere la natura delle relazioni familiari. Rappresenta pertanto un ottimo trampolino di lancio per uno, o più incontri, finalizzati alla presa di coscienza di “dove si è” e di “come si è”. Dalla consapevolezza di sé può nascere un buon “contratto” su come si “vorrebbe essere” e sarà pertanto più semplice lavorare restando sul piano della realtà. L’invitare le persone ad argomentare il proprio disegno, consente in modo efficace di “fotografarsi”.

Animano il Seminario:

            La Dott.ssa Sara Capriolo, Psicologa, Consulente familiare;

            La Dott.ssa. Chiara Narracci, Sociologa, Scrittrice, Consulente e Mediatore familiare.

Gli strumenti proposti consentono di guardare velocemente al passato per poter poi concentrare la consulenza nel “qui ed ora”, evidenziando “le cause e gli effetti degli eventi” ed “i limiti e le risorse interne” per gestirsi al meglio! Pertanto, il Seminario si rivolge principalmente ai Consulenti familiari ed a coloro che hanno frequentato la Scuola per Consulenti familiari.

info@centrolafamiglia.org                                       www.centrolafamiglia.org

            Senigallia. Affrontare le difficoltà delle varie fasi della vita.

Continuano gli incontri formativi del lunedì presso la sede del Consultorio Familiare di Serra de’ Conti, in via Garibaldi 42: lunedì 2 maggio 2016 dalle ore 17,00 alle 19,00 per un confronto sul tema: le stagioni della vita: affrontare le difficoltà delle varie fasi della vita.

L’incontro, aperto a tutti, sarà condotto dalla psicopedagogista Renata D’Ambrosio.

A cura del CIF di Serra de’ Conti e del Consultorio Familiare UCIPEM di Senigallia.

Il consultorio è sorto nel 2015 grazie all’impegno congiunto del CIF locale e provinciale, dell’UCIPEM di Senigallia e dell’Amministrazione Comunale di Serra de’ Conti.

www.comune.serradeconti.an.it

www.parrocchiaportone.it/new/consultorio-familiare

            Trapani. Progetto “La vita non dipende”

            Il 15 aprile 2016 è iniziato il progetto “La vita non dipende” che il Consultorio porterà avanti in collaborazione con l’A.S.P. n. 9 di TP e con il comune di Buseto Palizzolo. Il progetto sarà rivolto agli alunni, ai docenti e ai genitori delle III classi della scuola secondaria di primo grado di Buseto Palizzolo.

            Corso post-parto: ti accogliamo.

1° 04 maggio: Alimentazione. Primi problemi e piccole patologie del neonato (pediatra: dr Cappello N.);

2°16 maggio: Disostruzione pediatrica, teoria, dimostrazione e tecniche di esecuzione (sig. Alestra T.);

3° 23 maggio Una nuova famiglia. Rapporto genitori/figli (pedagogista: prof. Lamia V.)

4°30 maggio: Io e il mio bambino: la nascita della relazione genitoriale (psicologa dr De Vita M.A.)

5° 06 giugno: Il massaggio infantile: informazione e tecniche (psicologa: dr Basiricò T.)

6° 13 giugno: Tecniche di massaggio dolce per bambini dai 0 ai 3 anni (sig. Di Giorgio F.)

                               Il Consultorio è convenzionato con l’ASP di Trapani

www.consultoriocrescereinsieme.org

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DALLA NAVATA

6° Domenica di Pasqua – anno C -1 maggio 2016.

Atti                             15, 02 «Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.»  

Salmo              67, 03 «perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti.»

Apocalisse      21, 22. «In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio.»

Giovanni         14, 26 «Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.»

Commento di Luciano Manicardi, vicepriore della comunità monastica di Bose

Grazie allo Spirito, Cristo pone la sua dimora nel credente (vangelo); grazie allo Spirito, le diverse componenti del cristianesimo primitivo riunite a Gerusalemme, attraverso un faticoso cammino sinodale, risolvono uno spinoso problema che stava producendo tensioni e divisioni (1° lettura).

Se il vangelo parla dell’inabitazione di Cristo nel credente, del credente come dimora di Dio e di Cristo, la seconda lettura propone la visione della Gerusalemme escatologica in cui la dimora “sacramentale” di Dio, il tempio, è sostituito dalla Presenza stessa dell’Agnello e di Dio. I temi che traversano le letture di questa domenica sono l’azione personale, ecclesiale, storica ed escatologica dello Spirito e la dimora di Dio (il credente, la chiesa, il Regno).

L’inizio del testo liturgico del vangelo è costituito dalla risposta di Gesù a Giuda (“non l’Iscariota”: Gv 14,22) che gli aveva chiesto perché mai si sarebbe manifestato solo ai suoi, ai discepoli, e non al mondo. Questo discepolo è sulla stessa lunghezza d’onda dei fratelli di Gesù che lo spingevano a uscire dal nascondimento, a manifestare pubblicamente i suoi segni e prodigi, a svelarsi a tutti con i convincenti mezzi del prodigioso, dello straordinario (“Nessuno agisce di nascosto, se vuole essere riconosciuto pubblicamente. Se fai queste cose, manifestati al mondo!”: Gv 7,4). Questa lunghezza d’onda traversa l’etere e le epoche e sempre si ripropone nella chiesa come tentazione di cercare un consenso facile, di evitare piccolezza e umiltà per cercare i grandi numeri, per avere pubblicità e audience. Di fronte a ciò, ecco l’esigenza di verità espressa da Gesù. Senza una relazione personale autentica con il Signore, senza una vita spirituale nascosta, ma reale, tutto il resto rischia di essere scena, politica ecclesiale, apparenza di vita più che autentica vita. Senza l’azione interiore e nascosta dello Spirito nel credente, la chiesa rischia di essere raduno di militanti, più che comunione di discepoli. Ecco dunque che Gesù ribadisce quelle verità elementari e irrinunciabili che fanno di un uomo un credente: l’amore per il Signore, l’ascolto della sua Parola (cf. v. 23), la vita interiore animata dallo Spirito (cf. v. 26).

E, in corrispondenza al ritratto del credente (cf. v. 23), Gesù abbozza il ritratto di colui che non crede (cf. v. 24): è colui – dice Gesù – che non mi ama e dunque non ascolta la mia Parola. Colui che non vive né cerca né desidera una relazione con Gesù, che non lo confessa Signore, che non ascolta né obbedisce alla sua Parola, che non accoglie in sé il suo Spirito. Amando il Signore, il credente ascolta la sua Parola e fa abitare nel proprio intimo il Signore stesso: “Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (v. 23). La venuta del Signore non è solamente evento futuro e lontano, imponente e grandioso, ma evento chiamato a inverarsi nell’oggi nel nascondimento del cuore di un uomo. Solo uomini e donne resi dimora della vita trinitaria, coscienti della vita divina in loro, sanno narrare e annunciare il Regno di Dio universale.

Il Signore saluta i suoi discepoli donando loro la sua pace, e il suo saluto prelude non alla sua scomparsa, ma al suo ritorno: “Vado e verrò a voi” (v. 28). Ai discepoli è chiesto di vincere il turbamento e il timore con l’amore e di entrare così nella gioia. La gioia che manifesta l’amore di chi attende la venuta del Signore. La gioia della presenza (cf. Gv 3,29) diviene la gioia dell’attesa (cf. v. 28).

Nell’assenza del Signore (cf. v. 25) lo Spirito Consolatore svolgerà la funzione di maestro interiore, di guida capace di illuminare e orientare il credente nel mondo (cf. v. 26). Ogni maestro o guida spirituale non deve far altro ormai che porsi a servizio del maestro interiore, dello Spirito. Se il maestro interiore è nel battezzato, allora l’opera di educazione e di approfondimento della fede deve soltanto suscitare e stimolare l’interiorità del credente, il quale ha già in sé le risorse basilari per il suo cammino di fede. Altrimenti si fa opera non di e-ducazione, ma di se-duzione; non si attua una liberazione, ma si instaura una dipendenza.

http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2013/04/manicardi-5-maggio-2013-vi-domenica-di.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DEMOGRAFIA

L’immigrazione non basta la svolta sono i neonati.

Come salvaguardare l’ equilibrio demografico dell’ Italia Di fronte ai segnali di debolezza che il bilancio demografico del 2015 ha messo in luce dal record della più bassa natalità mai registrata dai tempi dell’ Unità Nazionale al preoccupante rialzo della mortalità sino al forte calo degli stessi residenti viene da chiedersi quale sia il modello di popolazione che potremmo attenderci qualora le tendenze che andiamo osservando dovessero consolidarsi e diventare espressione normale comportamento degli italiani.

Rispetto alla dimensione numerica la risposta è agevole e immediata. C’è infatti una formula che consente di calcolare il totale di abitanti che spetterebbero a un collettivo demografico sulla base dei livelli di natalità e di mortalità che esso esprime, semplicemente facendo il prodotto tra la frequenza annua di nati e la durata media della vita (la così detta ‘speranza di vita alla nascita’). Per l’Italia tale formula mostra che se si dovesse registrare costantemente 488 mila nascite e una speranza di vita di 80 o 85 anni rispettivamente per maschi e femmine residente andrebbe via via riducendosi sino a stabilizzarsi a ‘crescita zero’ attorno a 40 milioni di abitanti.

In assenza di apporti migratori, il comportamento demografico espresso oggi dal nostro paese, se dovesse persistere senza alcun cambiamento, ci porterebbe dunque a una dimensione demografica ridotta a 2/3 di quella attuale. Anche senza voler rilanciare, seppur in chiave moderna e con argomentazioni politico-economiche, l’idea che ‘il numero è potenza’, non sembra difficile cogliere gli effetti rivoluzionari, e verosimilmente problematici, di tale trasformazione. Una trasformazione che pare altresì destinata a consegnarci un ulteriore aumento del rapporto tra anziani e popolazione in età attiva, ossia di quell’ indice di carico sociale la cui crescita va di pari passo con l’incremento dell’incidenza della spesa ‘legata all’ età’ (pensioni e sanità in primo luogo) sul prodotto interno lordo. Attualmente tale indice è pari al 36% (circa un anziano ogni tre attivi), ma nello scenario che vede la stabilizzazione al livello di 40 milioni di residenti si prevede possa raggiungere il 43%.

Con tali premesse, non sorprende osservare come l’immigrazione straniera venga spesso chiamata in causa quale rimedio tanto per il calo numerico, quanto per l’invecchiamento demografico: «gli immigrati impediscono la decrescita», «salvano le nostre pensioni», «raddrizzano i conti del welfare». Non vi è dubbio che attraverso un saldo migratorio positivo sia possibile compensare come per altro è avvenuto fino a circa dieci anni fa il deficit tra nati e morti e consentire una certa stabilità del totale degli abitanti, ma poiché per mantenere l’ Italia a 60 milioni di abitanti sarebbero necessari annualmente in base alla formula di cui si è detto 728mila nati (ben più dei 488mila del 2015), ci si chiede se sia ragionevole supporre/auspicare che i 240 mila mancanti vengano interamente recuperati attraverso altrettante migrazioni nette. È ben vero che sul piano strettamente contabile nati e immigrati sono unità equivalenti, ma non è detto che siano anche del tutto fungibili.

Se infatti ragioniamo in termini di carico sociale, mentre un neonato è destinato a fornire alla società cui appartiene un contributo per l’intero intervallo di età lavorativa (convenzionalmente 20-64 anni), ogni immigrato che giunge in età superiore alla soglia di ingresso nel mercato del lavoro (e che si sia definitivamente stabilito nel Paese ospitante), offre un contributo assai più ridotto per la fase produttiva, mentre dà luogo a un carico sociale identico per quella di quiescenza. D’ altra parte, con qualche esercizio di simulazione è facile verificare come la tanto enfatizzata riduzione del carico sociale attribuita ai ‘giovani immigrati’ sia un beneficio del tutto transitorio. Nel lungo periodo gli effetti dell’ipotetica compensazione derivante dalla sostituzione dei neonati con immigrati sono destinati a produrre un accrescimento del carico sociale, con un’intensità che sarà tanto più accentuata quanto più i flussi di immigrazione saranno caratterizzati da soggetti giunti da noi in età matura. In ultima analisi, non si tratta certo di mettere in discussione il valore dell’immigrazione a supporto della vitalità demografica di un Paese che da quasi quarant’ anni non è capace di garantirsi adeguati livelli di ricambio generazionale, bensì di riconoscerne la reale portata. Giusto per evitare che, sopravvalutando gli effetti (temporanei) dell’immigrazione, si rischi di ritenere meno pressante quell’ azione di sostegno alla fecondità e conseguentemente alla famiglia che da più parti viene rivendicata come indispensabile per salvaguardare a lungo termine gli equilibri demografici nella popolazione italiana.

Giancarlo Blangiardo                       Avvenire         29 aprile 2016

www.scienzaevita.org/rassegna

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

DIVORZIO

                        I divorzi con il cane, il giudice stabilisce visite e alimenti.

Ormai nelle separazioni si litiga di più per gli animali che per le case. Una famiglia felice: lei, lui e il cane. Poi, le prime crepe, i litigi e la situazione che precipita sino alle carte bollate per la separazione. Un amore però resta granitico: quello per Lulù, un golden retriever. Così, due quarantenni della provincia di Pavia hanno chiesto ai propri avvocati di concordare un piano dettagliato non solo per spartire la casa o le auto ma anche per Lulù. Il giudice, emettendo il decreto di omologazione, ha stabilito che il cane resterà all’ex moglie, ma lui verserà gli «alimenti» anche per contribuire al suo mantenimento. In compenso potrà vederlo su appuntamento. Casi simili stanno diventando sempre più frequenti nelle aule di giustizia.

A marzo, a Roma, due coniugi in fase di separazione hanno discusso su chi dovesse tenere il proprio terranova. Lui sosteneva che l’animale avrebbe sofferto nel suo nuovo monolocale dove era andato a vivere. Così l’ex moglie, oltre a ottenere la casa con giardino, ha avuto gli alimenti anche per il cane. L’ex marito inoltre dovrà, ogni 15 giorni, riparare gli eventuali danni fatti in giardino dal giocoso animale. Lo scorso febbraio, invece, era stato il tribunale di Como a riconoscere come valida l’intesa raggiunta da una coppia, in fase di separazione consensuale, che stabiliva minuziosamente sia la gestione economica sia la disciplina delle visite. I giudici hanno messo nero su bianco che quel patto poteva essere omologato perché non era contrario né alla legge né all’ordine pubblico e, poi, garantiva il diritto di vedere, in alternanza, l’animale.

            Una ratio che è diventata oramai una vera e propria giurisprudenza costante. «Queste notizie sorprendono l’opinione pubblica ma non noi legali – spiega Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione avvocati matrimonialisti italiani – perché oramai le coppie litigano più per gatti o cani che per le case. Per questo spero che presto venga approvata una proposta di legge, ferma in Parlamento, che modificherebbe il codice civile e disciplinerebbe con chiarezza il caso degli affidi degli animali dopo una separazione sottraendoli alla sola giurisprudenza formatasi in questi anni».

Una proposta di legge presentata nel lontano aprile del 2013. «Per fortuna, negli ultimi anni, si è affermata una nuova coscienza di amore e rispetto per gli animali e i loro diritti – afferma l’onorevole Michela Vittoria Brambilla, prima firmataria del disegno di legge – e per questo ho ritenuto necessario cambiare prospettiva al diritto italiano che ancora oggi considera gli animali come dei semplici oggetti».

All’estero, invece, già sono intervenuti. «Il Trattato di Lisbona – prosegue Brambilla – impone di considerare gli animali come esseri senzienti e le costituzioni di Austria, Svizzera e Germania già si sono adeguate. La mia proposta di legge mira a tutelare gli animali e il loro benessere perché anche loro possono risentire delle separazioni familiari e dell’eventuale allontanamento dalla casa in cui hanno trascorso parte della loro vita. Per questi motivi chiedo alla politica di approvare il provvedimento al più presto».

Sentenza Tribunale di Como                   www.divorzista.org/sentenza.php?id=11841

Alessio Ribaudo         corriere della sera                 26 aprile 2016

www.corriere.it/cronache/16_aprile_26/i-divorzi-il-cane-giudice-stabilisce-visite-alimenti-8a405d2c-0b81-11e6-a8d3-4c904844517f.shtml?refresh_ce-cp

Divorzio: il giudice può mandare a “terapia” tutta la famiglia per il bene dei figli.

Tribunale di Roma, prima sezione, Sentenza n. 25777/2015.

Il percorso terapeutico mirato non ostacola la libertà personale del nucleo familiare ma rappresenta un’opportunità. Talvolta accade che, per garantire ai figli la bigenitorialità e continuare a garantire l’affido condiviso, il giudice disponga che il nucleo familiare, nella sua interezza, segua un percorso terapeutico mirato. A tale decisione si addiviene, di solito, quando i rapporti tra i genitori sono molto tesi e rischiano, così, di compromettere la serenità dei figli.

In materia, tuttavia, la Corte di cassazione, con la recente sentenza numero 13506/2015, ha sostenuto che una simile imposizione possa configurare un ostacolo alla libertà personale dei membri della famiglia. Tale orientamento, però, non sembra aver avuto particolare seguito. Almeno non nel tribunale di Roma.

            Con la sentenza numero 25777/2015, infatti, la prima sezione di tale ufficio ha ritenuto che la prescrizione di seguire un percorso terapeutico non limita la libertà personale e di autodeterminazione ma è solo volta a favorire le condizioni familiari necessarie affinché i figli crescano in maniera quanto più possibile serena. Si tratta, insomma, di uno strumento teso a offrire alla prole, che veda la propria famiglia disgregarsi, delle maggiori opportunità di “buona vita”. Nel caso di specie, il C.T.U chiamato ad esaminare il contesto familiare di una coppia divorziata, in cui l’ex marito lavorava spesso lontano dai figli e si era risposato, nonostante tali aspetti e il fatto che il rapporto tra gli ex coniugi era apertamente conflittuale, si era espresso per l’opportunità dell’affidamento condiviso e di affidare a tal fine il nucleo familiare a un percorso terapeutico teso a superare le criticità dei rapporti, anche tra genitori e figli.

            Il giudice capitolino, facendo leva sulle predette argomentazioni e ritenendo fondamentale garantire il permanere delle relazioni affettive, educative e di accudimento, ha quindi fatto proprie e convalidato le osservazioni dello specialista. Dato il conflitto, peraltro, la scelta del percorso più indicato e del professionista da consultare spetta alla madre, collocataria, in piena autonomia. Il padre potrà contestare tale scelta solo per gravi motivi.

Valeria Zeppilli                      Newsletter Giuridica studio Cataldi 26 aprile 2016

www.studiocataldi.it/articoli/21821-divorzio-il-giudice-puo-mandare-a-quotterapia-quot-tutta-la-famiglia-per-il-bene-dei-figli.asp

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

EMBRIONI

Nel grembo materno una voce sempre più nitida.

Negli ultimi anni si è accresciuta la consapevolezza di cosa sia un embrione, pur permanendo stabile il paradosso che si sa cosa è ma non si vuole ammetterlo. Sappiamo che l’embrione è vivo ed è umano ma si continua a volerlo manipolare, a farne cellule da studio. Sappiamo sempre più cose sulla capacità di sviluppo dell’embrione umano e sulla sua fragilità. Il genetista David Hollar spiega come un ambiente embrionale alterato possa segnare per il resto della vita l’espressione del Dna, cosa che dovrebbe mettere in guardia da manipolazioni e sperimentazioni, perché per quanto in teoria qualcuno sostenga che una cellula embrionale possa essere usata per curare, siamo certi che la cellula sarà la stessa dopo averla lavorata in laboratorio? E in che modo sarà cambiata? Sappiamo della bellezza dello sviluppo dell’embrione umano, sia per le possibilità che i ginecologi oggi hanno di mostrare il suo cuore che batte e le sue fattezze (embrione si dice fino a 8 settimane dal concepimento) sia per la ricerca immunologica che va svelando un paradosso meraviglioso: a differenza di qualunque altro corpo estraneo, il corpo materno non rigetta come un trapianto difettoso l’embrione annidato nell’utero, pur non essendone una sua parte. Basterebbe raccontare la bellezza per aiutare tanti a capire cosa abbiamo davvero davanti: un embrione, il cui nome, in maniera significativa, deriva dal greco en-bryon, «che fiorisce dentro».

Papa Francesco ha mosso le acque in questo àmbito chiedendo a credenti e non credenti che non si parli di vita prenatale come qualcosa di isolato dal resto della vita e proponendo un impegno più ampio, di difesa della vita infantile, della vita alla sua alba, che comprende il mondo prenatale e quello dell’infanzia già nata. Questo piccolo ma importante spostamento di prospettiva richiama chi ha sempre sostenuto l’importanza di difendere l’embrione a occuparsi anche della cura dei bambini con problemi sociali e sanitari; e chi difende i bambini a farlo sin dall’alba della vita, come già accade con campagne internazionali per la difesa dei 1000 giorni fondamentali, cioè quelli dal concepimento al secondo anno di vita. È un’indicazione paterna, capace di mostrare come la Chiesa non si voglia dimenticare di nessuno, anche quando guarda qualcuno con particolare affetto.

Carlo Bellieni             Avvenire                    28 aprile 2016

http://carlobellieni.com/?p=2273

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FAMIGLIA

Si fa presto a dire famiglia

Famiglia è ancora una parola decente che può essere pronunciata senza provocare irritazione, fanatismi o allergie ideologiche? Famiglia è ancora una condizione fondamentale e irrinunciabile del processo di umanizzazione della vita oppure è un tabù da sfatare? Se c’è stato un tempo nel quale essa appariva circondata da un alone di sacralità inviolabile non rischia forse oggi di essere condannata come una sopravvivenza ottusa della civiltà patriarcale? Sono solo i cattolici più intransigenti a sostenere la sua esistenza come indispensabile alla vita umana?

Dal punto di vista laico della psicoanalisi la famiglia resta una condizione essenziale per lo sviluppo psichico ed esistenziale dell’essere umano. La vita umana ha bisogno di casa, radici, appartenenza. Essa non si accontenta di vivere biologicamente, ma esige di essere umanamente riconosciuta come vita dotata di senso e di valore. Lo mostrava “sperimentalmente” un vecchio studio di Renè Spitz sui bambini inglesi orfani di guerra che dovettero subire il trauma della ospedalizzazione (Il primo anno di vita del bambino, Giunti 2009). La solerzia impeccabile delle cure somministrate dalle infermiere del reparto nel soddisfare tutti i bisogni cosiddetti primari dei bambini non erano sufficienti a trasmettere loro il segno irrinunciabile dell’amore. Effetto: cadute depressive gravi, anoressia, abulia, marasma, stati di angoscia, decessi. Se la vita del figlio non è raccolta e riconosciuta dal desiderio dell’Altro, resta una vita mutilata, cade nell’insignificanza, si perde, non eredita il sentimento della vita. Non è forse questa la funzione primaria e insostituibile di una famiglia?

Accogliere la vita che viene alla luce del mondo, offrirle una cura capace di riconoscere la particolarità del figlio, rispondere alla domanda angosciata del bambino donando la propria presenza. La clinica psicoanalitica ha riconosciuto da sempre l’importanza delle prime risposte dei genitori al grido del figlio. Non si tratta solo di soddisfare i bisogni primari perché la vita umana non è la vita di una pianta, né quella dell’animale, non esige solo il soddisfacimento dei bisogni, ma domanda la presenza del desiderio dell’Altro; vive, si nutre del desiderio dell’Altro. La vita umana non vive di solo pane, ma dei segni che testimoniano l’amore.

L’attualità politica ci impone a questo punto una domanda inaggirabile: tutto questo concerne la natura del sesso dei genitori? Essere capaci di rispondere alla domanda d’amore del figlio dipende dalla esistenza di una coppia cosiddetta eterosessuale? La famiglia come luogo dove la vita del figlio viene accolta e riconosciuta come vita unica e insostituibile – ogni figlio è sempre “figlio unico”, afferma Levinas– è un dato naturale, un evento della biologia? Siamo sicuri che l’amore di cui i figli si nutrono scaturisca, come l’ovulo o lo spermatozoo, dalla dimensione materialistica della biologia? Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni che riflettono una concezione naturale della famiglia contengono una profonda e insuperabile contraddizione in termini? Se, infatti, quello che nutre la vita rendendola umana non è il “seno”, ma il “segno” dell’amore, possiamo davvero ridurre la famiglia all’evento biologico della generazione? Non saremmo invece obbligati a considerare, più coerentemente, che un padre non può essere mai ridotto allo spermatozoo così come una madre non può mai essere ridotta ad un ovulo? La domanda si allarga inevitabilmente: cosa significa davvero diventare genitori? Lo si diventa biologicamente o quando si riconosce con un gesto simbolico il proprio figlio assumendosi nei suoi confronti una responsabilità illimitata? Le due cose non si escludono ovviamente, ma senza quel gesto la generazione biologica non è un evento sufficiente a fondare la genitorialità.

In questo senso Françoise Dolto affermava che tutti i genitori sono genitori adottivi. Generare un figlio non significa già essere madri o padri. Ci vuole sempre un supplemento ultra- biologico, estraneo alla natura, un atto simbolico, una decisione, un’assunzione etica di responsabilità. Un padre e una madre biologica possono generare figli disinteressandosi completamente del loro destino. Meritano davvero di essere definiti padri e madri? E quanti genitori adottivi hanno invece realizzato pienamente il senso dell’essere padre e dell’essere madre pur non avendo alcuna relazione biologico-naturale coi loro figli? Questo ragionamento ci spinge a riconsiderare l’incidenza del sesso dei genitori.

Ho già ricordato come l’amore sia a fondamento della vita del figlio. Ma l’amore ha un sesso? Prendiamo come punto di partenza una formula di Lacan: “l’amore è sempre eterosessuale”. Come dobbiamo intendere seriamente l’eterosessualità? Questa nozione, per come Lacan la situa a fondamento dell’amore, non può essere appiattita sulla differenza anatomica dei sessi secondo una logica elementare che li differenzia a partire dalla presenza o meno dell’attributo fallico. L’amore è eterosessuale nel senso che è sempre e solo amore per l’Altro, per l’eteros. E questo può accadere in una coppia gay, lesbica o eterosessuale in senso anatomico. Non è certo l’eterosessualità anatomica – come l’esperienza clinica ci insegna quotidianamente – ad assicurare la presenza dell’amore per l’eteros! È invece solo l’eterosessualità dell’amore a determinare le condizioni migliori affinché la vita del figlio possa trovare il suo ossigeno irrinunciabile.

Massimo Recalcati                La Repubblica”          1 maggio 2016

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/05/01/si-fa-presto-a-dire-famiglia56.html?ref=search

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FECONDAZIONE ASSISTITA

Quanti genitori per un figlio?

L’eliminazione del divieto di fecondazione eterologa con la sentenza 162/2014 della Consulta è stata la prima modifica significativa della legge 40\2004, sicuramente la più importante. Per comprenderne la portata è necessario guardare alla legge 40 nella sua effettiva impostazione: non una somma di divieti, come falsamente è stata rappresentata per essere demonizzata fin dalla sua approvazione, ma la fecondazione assistita come un percorso per coppie sterili o infertili, in cui la filiazione avviene nel quadro di una antropologia naturale. Possono cioè cercare di avere figli con queste tecniche un uomo e una donna (sposati o conviventi) che non riescono ad averne naturalmente, entrambi vivi e in età potenzialmente fertile.

Una volta concepito, il nascituro può essere oggetto di ricerca solo a tutela del suo sviluppo, e non per essere distrutto. E infine, non si può scegliere di quale figlio diventare genitori, concependone tanti, scegliendo i sani e scartando i malati. Insomma: il concepimento è trasferito in vitro, ma tutto il resto di quel che riguarda la filiazione resta inalterato, a partire dal fatto che ogni bambino ha un solo padre e una sola madre, senza distinguere quelli genetici, biologici e legali.

Con la fecondazione eterologa tutto cambia, perché si stabilisce che il figlio non è di chi lo genera fisicamente ma di chi ha manifestato l’intenzione di averlo: si introduce la figura del cosiddetto “donatore di gameti”, cioè di una persona estranea alla coppia a cui cede i propri gameti (molto spesso con rimborsi o indennità che mascherano il pagamento) e che rinuncia al bambino che ne nascerà. È quindi un contratto fra le parti a stabilire chi sarà l’effettivo genitore, contratto tanto più necessario se a essere “donati” sono gli ovociti. In questo caso, infatti, la figura materna, dal punto di vista biologico, si divide in due: la madre genetica – che dà i propri ovociti – e quella gestazionale, a cui saranno trasferiti in utero gli embrioni, e che porterà avanti la gravidanza, partorendo. Come abbiamo visto nel drammatico scambio degli embrioni due anni fa all’Ospedale Pertini di Roma, in mancanza di un contratto fra le parti – la “donatrice” e la gestante – non esiste un criterio per individuare la “vera” madre. In quel caso i giudici hanno invocato la legge italiana per cui è madre colei che affronta il parto, ma si tratta di una norma di un tempo antico, quando era impossibile che una donna partorisse un figlio non suo.

Se poi guardiamo all’utero in affitto, solitamente, il contratto prevede che la madre legale sia una terza donna, senza alcun altro legame con il bambino se non il contratto stesso. Ma se si parla di “contratti”, di “banche” di gameti, e di genitori “committenti” si introducono necessariamente gli elementi base di un mercato, quello del corpo umano e delle sue parti, che fiorisce soprattutto grazie alle nuove tecniche di fecondazione assistita. È il mondo nuovo che negli ultimi anni abbiamo cercato di raccontare da queste pagine. Con inquietudine e preoccupazione.

Assuntina Morresi     avvenire         28 aprile 2016

www.scienzaevita.org/?s=Quanti+genitori+per+un+figlio%3F

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Papa: il clericalismo deforma la Chiesa, i laici sono protagonisti.

La Chiesa non è una élite di sacerdoti” e lo Spirito Santo “non è solo ‘proprietà’ della gerarchia ecclesiale”, che deve sempre “incoraggiare” e “stimolare” gli sforzi che i laici compiono per testimoniare il Vangelo nella società. Papa Francesco ha voluto contribuire con una lettera al cardinale Marc Ouellet, presidente della Pontifica Commissione per l’America Latina, al lavoro svolto all’inizio di marzo dall’organismo proprio “sull’indispensabile impegno dei laici nella vita pubblica” dei Paesi latinoamericani.

“Non è mai il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti“. È netto come d’abitudine, Papa Francesco, nel riaffermare dove si trovi il punto di equilibrio del rapporto prete-laico cristiano e nel mettere a fuoco le “tentazioni” del clero che, spostando talvolta questo equilibrio, inducono in errori e alimentano derive. Nella lettera al cardinale Ouellet, Francesco parla dei laici latinoamericani, anche se il valore delle sue considerazioni è chiaramente universale. Una delle “deformazioni più grandi” del rapporto sacerdote-laico, denuncia, è il “clericalismo” che, annullando da un lato “la personalità dei cristiani” e sminuendo “la grazia battesimale”, finisce dall’altro per generare una sorta di “élite laicale”, per cui i laici impegnati sono “solo quelli che lavorano in cose ‘dei preti'”. Senza rendercene conto, insiste, “abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede”. E queste sono “le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi”.

Invece, sottolinea il Papa, anzitutto mai dimenticare che la “nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro Battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare”. E poi, stare in mezzo al gregge, in mezzo al popolo: ascoltarne i palpiti, fidarsi della “sua memoria” e del suo “olfatto”, confidando che “lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo “Spirito non è solo ‘proprietà’ della gerarchia ecclesiale”. Questo, avverte Francesco, “ci salva” da certi slogan che “sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio – dice – ricordo “la famosa frase: ‘È l’ora dei laici’ ma sembra che l’orologio si sia fermato”.

“La Chiesa – prosegue ancora Francesco – non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi”, ma “tutti formiano il Santo Popolo fedele di Dio” e dunque, scrive, “il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica” significa per vescovi e sacerdoti “cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare” tutti “i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza”, promuovendo “la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia”.

“È illogico, e persino impossibile – rimarca ancora il Papa – pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta”. “Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica”. Al contrario, indica, “dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale”. Per la sua “realtà” e “identità”, perché “immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica”, dobbiamo riconoscere – soggiunge Francesco – che il laico ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede”.

Al clericalismo che pilota, uniforma, fabbrica “mondi e spazi cristiani”, va opposta – asserisce Francesco – la cura della “pastorale popolare”, tipica dell’America Latina, perché, “se ben orientata”, è “ricca di valori”, di una “sete genuina” di Dio, di “pazienza”, di “senso della croce nella vita quotidiana, di “dedizione” e capace di “generosità e sacrificio fino all’eroismo”. “Nel nostro popolo – ricorda – ci viene chiesto di custodire due memorie. La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati”. “Perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo”. Quando “sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo“. “Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore – conclude – sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia. Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio. I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro”.

Alessandro De Carolis                      Notiziario Radio vaticana -26 aprile 2016

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Testo ufficiale      

Lhttp://w2.vatican.va/content/francesco/it/letters/2016/documents/papa-francesco_20160319_pont-comm-america-latina.html

“Anche oggi nella Chiesa ci sono resistenze allo Spirito”

«Anche oggi nella Chiesa ci sono resistenze alle sorprese dello Spirito», ma lo Spirito stesso aiuta a vincerle e ad andare avanti. Lo ha detto Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata questa mattina a Santa Marta, come riferisce Radio Vaticana.

Il Papa ha commentato la Lettura degli Atti sul «concilio di Gerusalemme», la prima riunione nella quale gli apostoli e i discepoli dovettero decidere se la Chiesa dovesse imporre ai pagani la legge mosaica, circoncisione compresa. Francesco ha osservato che «il protagonista della Chiesa» è lo Spirito Santo. «È Lui che dal primo momento ha dato la forza agli apostoli di proclamare il Vangelo», è Lui che «fa tutto, lo Spirito che porta la Chiesa avanti», anche «con i suoi problemi», anche «quando scoppia la persecuzione» è Lui «che dà la forza ai credenti per rimanere nella fede», anche nei momenti «di resistenze e di accanimento dei dottori della legge». Nel caso raccontato dagli Atti degli Apostoli, c’è – ha spiegato il Papa – una duplice resistenza all’azione dello Spirito: quella di chi credeva che «Gesù fosse venuto soltanto per il popolo eletto» e quella di chi voleva imporre la legge mosaica, compresa la circoncisione, ai pagani convertiti. Bergoglio fa notare che allora «ci fu una grande confusione in tutto questo».

Lo Spirito – ha detto il Papa – metteva i cuori su una strada nuova: erano le sorprese dello Spirito. E gli apostoli si sono trovati in situazioni che mai avrebbero creduto, situazioni nuove. E come gestire queste nuove situazioni? Per questo il brano di oggi, il passo di oggi, incomincia così: “In quei giorni, poiché era sorta una grande discussione”, una calorosa discussione, perché discutevano su questo argomento. Loro, da una parte, avevano la forza dello Spirito – il protagonista – che spingeva ad andare avanti, avanti, avanti… Ma lo Spirito li portava a certe novità, certe cose che mai erano state fatte. Mai. Neppure le avevano immaginate. Che i pagani ricevessero lo Spirito Santo, per esempio».

I discepoli, pertanto, «avevano la patata bollente nelle mani e non sapevano che fare». Così, convocano una riunione a Gerusalemme dove ognuno può raccontare la propria esperienza, di come lo Spirito Santo scenda anche sui pagani. «E alla fine si sono messi d’accordo – ha sottolineato Francesco – Ma prima c’è una cosa bella: “Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo, che riferivano quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le nazioni, in mezzo a loro”. Ascoltare, non avere paura di ascoltare. Quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore. Ascoltare: “Tu che pensi e perché?”. Ascoltare con umiltà. E dopo avere ascoltato, hanno deciso di inviare alle comunità greche, cioè ai cristiani che sono venuti dal paganesimo, inviare alcuni discepoli per tranquillizzarli e dirgli: “Sta bene, andate così”».

I pagani convertiti non vengono dunque obbligati alla circoncisione. Una decisione che viene comunicata attraverso una lettera nella quale «il protagonista è lo Spirito Santo». Infatti, i discepoli scrivono: «Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso…». Questa – spiega il Papa – è la strada della Chiesa «davanti alle novità, non le novità mondane, come sono le mode dei vestiti», ma «le novità, le sorprese dello Spirito, perché lo Spirito sempre ci sorprende. E come risolve la Chiesa questo? Come affronta questi problemi, per risolverli? Con la riunione, l’ascolto, la discussione, la preghiera e la decisione finale».

«Questa è la strada della Chiesa fino ad oggi – ha continuato Francesco – E quando lo Spirito ci sorprende con qualcosa che sembra nuova o che “mai si è fatto così”, “si deve fare così”, pensate al Vaticano II, alle resistenze che ha avuto il Concilio Vaticano II, e dico questo perché è il più vicino a noi. Quante resistenze… Anche oggi resistenze che continuano in una forma o in un’altra, e lo Spirito che va avanti. E la strada della Chiesa è questa: riunirsi, unirsi insieme, ascoltarsi, discutere, pregare e decidere. E questa è la cosiddetta sinodalità della Chiesa, nella quale si esprime la comunione della Chiesa. E chi fa la comunione? È lo Spirito! Un’altra volta il protagonista. Cosa ci chiede il Signore? Docilità allo Spirito. Cosa ci chiede il Signore? Non avere paura, quando vediamo che è lo Spirito che ci chiama».

Lo Spirito – ha detto Papa Bergoglio – delle volte ci ferma», come ha fatto con San Paolo, per farci andare da un’altra parte, «non ci lascia soli», «ci dà il coraggio, ci dà la pazienza, ci fa andare sicuri sulla strada di Gesù, ci aiuta a vincere le resistenze e ad essere forti nel martirio». «Chiediamo al Signore – ha concluso – la grazia di capire come va avanti la Chiesa, di capire come dal primo momento ha affrontato le sorprese dello Spirito e, anche, per ognuno di noi la grazia della docilità allo Spirito, per andare sulla strada che il Signore Gesù vuole per ognuno di noi e per tutta la Chiesa».

Andrea Tornielli        La Stampa-Vatican Insider   28 aprile 2016

www.lastampa.it/2016/04/28/vaticaninsider/ita/vaticano/anche-oggi-nella-chiesa-ci-sono-resistenze-alle-sorprese-dello-spirito-npxihaJB9RR2pWfrEc6IQJ/pagina.html

 

Testo              http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2016/documents/papa-francesco-cotidie_20160428_novita-e-resistenze.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

INFERTILITÀ

La provetta? Non risolve. E’ l’ora della prevenzione

L’infertilità non è l’anticamera automatica della procreazione medicalmente assistita. Grazie a un approccio multidisciplinare appropriato e a una diagnosi precoce, spesso è possibile ottenere una gravidanza in modo naturale. Il vero problema spesso è il fattore tempo. Come spiega Riccardo Marana, direttore dell’Isi, l’Istituto scientifico internazionale «Paolo VI» di ricerca sulla fertilità e infertilità umana del Gemelli, «dopo i 35 anni le possibilità diminuiscono notevolmente sia per l’invecchiamento biologico degli ovociti e la diminuzione del loro numero, sia perché con gli anni ci si espone al rischio di fattori ambientali o infettivi».

Le possibilità di gravidanza scende dal 25% a 24 anni al 13% a 36 anni. E il problema non si risolve con la Pma. Il Piano nazionale della fertilità del ministero della Salute lo dice: «Dopo i 45 anni la possibilità di avere un bambino con i propri ovociti attraverso le tecniche di Pma è aneddotica». Fondamentale resta la prevenzione. «Esistono sostanze capaci di influenzare la capacità riproduttiva – rimarca Marana –. È documentata un’associazione tra interferenti endocrini e anticipo della menopausa di 3.8 anni». Il danno da fumo «anticipa la menopausa di 1-3 anni». Pericolose le malattie infiammatorie pelviche: «Il 70% delle salpingiti si verifica in donne che hanno meno di 25 anni. La diagnosi precoce e l’intervento terapeutico tempestivo e completo – rimarca Marana – costituiscono il miglior mezzo per prevenire le sequele sulla fertilità. L’occlusione tubarica prossimale è presente nel 10-25% delle donne con patologia tubarica». Importante riconoscere e curare l’endometriosi, che riguarda il 7-10% delle donne in età fertile

Senza dimenticare di affrontare il problema al maschile: anche i ricercatori dell’Isi hanno dimostrato che «soggetti con parametri seminali marcatamente bassi necessitano di un inquadramento diagnostico terapeutico completo e possono concepire anche senza una normalizzazione degli stessi parametri seminali».

            Graziella Melina        Avvenire                    28 aprile 2016

 Nella pagina di                 www.scienzaevita.org/?s=Quanti+genitori+per+un+figlio%3F

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

MATRIMONIO

Matrimonio indissolubile? Sì, ma per pochi eletti.

Non solo la dottrina della Chiesa, ma le stesse parole di Gesù sul matrimonio sono ormai reinterpretate nei modi più diversi. Secondo il biblista Silvio Barbaglia, nei Vangeli l’indissolubilità assoluta vale solo per le coppie che vivono come fratello e sorella “per il regno dei cieli”

Tra le quasi 60 mila parole dell’esortazione apostolica postsinodale, le parole “indissolubile” e “indissolubilità” ricorrono appena 11 volte. E nemmeno una volta nell’ampio e cruciale capitolo ottavo, quello sulle coppie “cosiddette irregolari”: Ma nulla vi si trova scritto di chiaro ed esplicito che intacchi il dogma dell’indissolubilità del matrimonio cristiano.

            Stando infatti al cardinale Christoph Schönborn – esegeta ufficiale dell’esortazione per investitura di papa Francesco –, le eccezioni che qua e là vi balenano riguardano solo il “discernimento personale e pastorale dei casi particolari” ma non toccano in nessun modo la dottrina, né tanto meno mettono in forse la permanente assolutezza delle parole di Gesù contro il divorzio: “Non separi l’uomo ciò che Dio ha unito” (Matteo 19, 6).

            In realtà, su questo punto specifico, né il dogma né i Vangeli risultano oggi al riparo da contestazioni e reinterpretazioni, ai vari livelli della Chiesa e anche dopo la pubblicazione della “Amoris lætitia”.

            Per quanto riguarda la dottrina dell’indissolubilità, infatti, sono ormai numerosi coloro che teorizzano che l’amore sponsale possa “morire” e con esso anche sciogliersi il vincolo sacramentale. Per non dire della prassi diffusa di dare la comunione ai divorziati risposati, anch’essa una smentita di fatto dell’indissolubilità del matrimonio. Solo pochissimi esegeti, però, si sono finora spinti a reinterpretare in modo radicalmente nuovo su questo punto gli stessi Vangeli, sostenendo che nemmeno per Gesù l’indissolubilità del matrimonio fosse un assoluto.

            Uno di questi è il monaco camaldolese Guido Innocenzo Gargano, stimato studioso dei Padri della Chiesa, già priore del monastero romano di San Gregorio al Celio, docente al Pontificio Istituto Biblico e alla Pontificia Università Urbaniana, secondo il quale Gesù non ha affatto revocato la concessione mosaica del ripudio, né ha mai escluso dal regno dei cieli chi vi ricorra “per la durezza del cuore”:

Un altro è il biblista Silvio Barbaglia, sacerdote della diocesi di Novara e docente di Sacra Scrittura presso la facoltà teologica dell’Italia settentrionale, in un saggio che è da pochi giorni in libreria: S. Barbaglia, “Gesù e il matrimonio. Indissolubile per chi?”, Cittadella Editrice, Assisi, 2016

            La sua esegesi batte una via diversa da quella di padre Gargano. A suo giudizio Gesù ha sì detto parole inequivocabili sull’indissolubilità del matrimonio. Ma le ha dette non per tutti, ma soltanto per una cerchia ristretta dei suoi discepoli, le coppie sposate che avevano lasciato tutto – parentado, proprietà, consuetudini – per seguirlo nella missione itinerante, in fedeltà matrimoniale assoluta ma anche, da lì in avanti, in continenza sessuale perfetta, come “eunuchi per il regno dei cieli”.

            E gli altri discepoli, molto più numerosi, che non seguivano Gesù in missione ma restavano nelle loro città e villaggi e all’interno di famiglie di tipo patriarcale? A questi – spiega Barbaglia Gesù non chiedeva l’immediato distacco dalle tradizioni mosaiche, compreso il “libello di ripudio”. Essi però potevano vedere nelle coppie missionarie che vivevano in castità come fratello e sorella l’anticipazione profetica della vita dei risorti, “dove non si prende né moglie né marito ma si è come angeli nel cielo” (Matteo 22, 30), e ne potevano trarre stimolo per “una via di purificazione” dei propri modelli matrimoniali, ancora segnati da tratti non conformi – ripudio, poligamia, ecc. – rispetto a “com’era in principio”, ad Adamo ed Eva prima del peccato.

            Anche Paolo – prosegue Barbaglia – fece lo stesso. Ad alcuni, alle coppie che partivano in missione, come Aquila e Priscilla, proponeva la scelta profetica: “Il tempo ormai si è fatto breve: d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero” (1 Corinzi 7, 29). Ma agli altri, i più, non chiedeva l’astinenza sessuale, ma una relazione il più possibile stabile e fedele. E lo stesso dovrebbe fare anche la Chiesa d’oggi, secondo Barbaglia. Non “universalizzare” per tutti il dogma dell’indissolubilità, in ogni condizione di spazio e di tempo, ma distinguere tra due gradi della vita matrimoniale: quello dei pochi chiamati a una particolare vocazione sponsale “per il regno dei cieli”, e quello della moltitudine.

            Per la moltitudine il vincolo matrimoniale si fonderebbe semplicemente sul battesimo e per celebrarlo come matrimonio cristiano basterebbe una semplice benedizione. Mentre il sacramento vero e proprio del matrimonio sarebbe riservato solo ai pochi che lo abbracciano “per il regno dei cieli”, magari dopo anni di vita di coppia da semplici sposi cristiani e dopo aver avuto figli. Il sacramento segnerebbe l’inizio di una nuova vita povera e missionaria, con rinuncia all’esercizio della sessualità e con fedeltà indissolubile anche dopo la morte di uno dei coniugi.

            L’indissolubilità varrebbe quindi in modo assoluto solo per questi pochi, mentre per i molti – scrive Barbaglia – avrebbe “forma relativa, sebbene tensionale rispetto a quella assoluta”. E questa situazione, “che è quella comune e ordinaria per la maggioranza dei cristiani, potrebbe permettere di risolvere positivamente anche l’annoso problema della comunione ai battezzati, divorziati ma risposati, che nella Chiesa chiedono di ricominciare una nuova vita di fedeltà”, con o senza un previo cammino di penitenza a seconda delle responsabilità di ciascuno nella rottura del precedente vincolo. Questo doppio grado di matrimonio Barbaglia lo presenta come un “esercizio di scuola”, per ora solo teorico, derivato dalla suddetta esegesi dei Vangeli. A cui aggiunge anche un’altra “ipotesi”, relativa a un clero sposato.

            Come nella Chiesa primitiva preti e vescovi coniugati esercitavano il ministero astenendosi però dai rapporti sessuali con le spose, così, secondo Barbaglia, potrebbe avvenire di nuovo anche nella Chiesa cattolica di domani. Diaconi, preti, vescovi eserciterebbero il ministero nei rispettivi stati celibatari o matrimoniali, “ma entrambi connotati dall’essere ‘eunuchi per il regno dei cieli’, come nel gruppo apostolico gesuano e nella Chiesa delle origini”.

            Un “esercizio di scuola”, quest’ultimo, che non troverà molto favore in chi fa campagna per l’avvento di un clero sposato, ma certo non lo immagina in continenza sessuale perfetta.

            Sandro Magister                    chiesaespressonline    25 aprile 2015

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351280

                                    Il matrimonio islamico.

Generalità. Il diritto islamico classico riconosce e tutela unicamente la famiglia legittima, basata su un vincolo di sangue (nasab), fondata sulla discendenza maschile, all’interno della quale l’uomo gode di potestà matrimoniale e genitoriale, da cui deriva un diritto di correzione (ta’dhib) rispetto alla moglie ed ai figli secondo regole strettamente patriarcali. A tal proposito, il Corano recita che «sugli uomini c’è un grado maggiore», anche traducibile con «gli uomini hanno maggior responsabilità in materia di rapporti familiari» (II, 228). In base alla Sunnah, l’autorità familiare va però espletata rispettando i principi della concertazione e della complementarietà dei coniugi in materia di decisioni familiari. Non esiste nessun grado di parentela naturale fuori dal matrimonio, né tantomeno è ammessa la tradizionale forma di adozione. L’adozione, in quanto istituto che equipara i figli adottivi a quelli legittimi, è espressamente vietata dal Corano (XXXIII, 4-5) perché rescinde i legami tra il minore abbandonato e la famiglia di origine. Gli stessi versetti parlano però di «figli adottivi» nel senso di ammettere altre forme di protezione del minore che non consistano in adozioni legittimanti. Il diritto islamico prevede, perciò, l’istituto della Kafala (richiamato dalla Convenzione ONU del 1989), simile sotto molti aspetti all’ affidamento illimitato o sine die. Il matrimonio (nikah) è considerato un atto lodevole e meritorio la cui principale funzione si sostanzia nella legalizzazione dei rapporti sessuali, altrimenti illeciti, e nell’assicurazione della continuazione della specie. Pertanto, come nel diritto canonico, la Shari’ah attribuisce una grande importanza all’aspetto della consumazione del matrimonio. Sotto il profilo delle categorie delle azioni umane il matrimonio è doveroso (fard) o necessario (wajib) per l’uomo che teme di cadere nella fornicazione restando scapolo, che è in grado di mantenere una moglie e certo di non nuocerle sposandola; è riprovevole o reprensibile (makruh) nel caso in cui l’uomo abbia il dubbio o la certezza di rendere infelice la donna; è infine illecito o vietato (haram, mahdhur) in presenza di una delle ipotesi disciplinate di impedimento al matrimonio (Vercellin). Dal punto di vista dei furu’ al-fiqh il matrimonio rende leciti i rapporti tra uomo e donna e si sostanzia in un vero e proprio negozio giuridico. Sotto questo profilo, il diritto islamico classico non lo riconosce come sacramento né conferisce alcuna importanza all’elemento dell’ maritalis (cioè dalla voglia dei coniugi della vita comune), costituendo il matrimonio un contratto bilaterale di diritto civile. Questa concezione è stranamente analoga a quella del nostro «matrimonio canonico» che è visto anch’esso sotto l’ottica contrattualistica, mentre il matrimonio civile nel nostro ordinamento prevede la concezione del matrimonio come «atto». L’ oggetto del contratto matrimoniale è duplice: per l’uomo è rappresentato dai diritti di godimento sessuali e di autorità maritale nei confronti della donna, per la donna è costituito dal diritto al donativo nuziale obbligatorio (mahr) e al mantenimento (nafaqa). Dal punto di vista della Shari’ah il matrimonio è un contratto formale che, in quanto espressione esplicita di un consenso, una volta validamente formato non può più essere impugnato dalle parti. Per la sua validità non è necessaria una celebrazione «pubblica»; oggi, comunque, è anche prevista la trascrizione in apposito registro tenuto in tribunale. Il diritto malichita, in passato, riconosceva il matrimonio valido se a questo veniva data una certa pubblicità, poiché è questa che distingue l’unione legittima (matrimonio) dall’unione libera o fornicazione (zina). Infatti, la dottrina malichita prescrive l’intervento alla cerimonia di due testimoni musulmani, maschi, puberi e sani di mente. Gli elementi essenziali o pilastri perché il matrimonio sia valido e conforme alla Shari’ah sono: la capacità giuridica dei contraenti, il consenso, l’intervento del tutore (wali) e la costituzione del donativo nuziale (mahr).

La capacità giuridica e l’intervento del tutore (wali). Le parti del contratto matrimoniale non necessariamente coincidono con i coniugi. Occorre infatti distinguere tra capacità di essere titolare di un rapporto matrimoniale, che per la Shari’ah si acquisisce in linea di principio con la nascita, e capacità di contrarre matrimonio, che per le diverse scuole è collegata al raggiungimento della pubertà (dai 15 ai 17 anni per la donna, dai 15 ai 18 anni per l’uomo). Il tutore matrimoniale (wali) interviene il linea generale a contrarre matrimonio in nome e per conto del nubendo/a in età immatura, ma non solo. Le diverse scuole giuridiche hanno infatti delle posizioni differenti circa i soggetti del contratto di matrimonio: – secondo gli schafi’iti, essi sono l’uomo e l’agnato maschio più prossimo della donna, in qualità di wali, che esprime il consenso in sua vece (la donna rappresentando l’oggetto del contratto); – per le altre scuole, pur essendo la donna soggetto del contratto, la sua manifestazione di volontà deve essere, a pena di nullità o annullabilità, integrata da quella del wali. Il wali deve essere musulmano, di sesso maschile, avere capacità giuridica e capacita di agire. Secondo i malichiti, il wali può essere un ebreo o un cristiano qualora la futura sposa dovesse appartenere, rispettivamente, alla religione ebraica o a quella cristiana. L’esercizio della tutela matrimoniale avviene secondo un ordine di chiamata stabilito dalla Shari’ ah (figlio, padre, fratello germano, fratello consanguineo, figlio del fratello germano, figlio del fratello consanguineo, avo paterno, agnati maschi, qaddi, vicino).

Il consenso. Fino al raggiungimento della pubertà il padre o l’agnato più prossimo è titolare della wilayat al-ijbar, ossia del potere di costrizione al matrimonio esercitabile in linea di principio sia sulla donna che sull’uomo. Per la scuola malichita e sciafi’ ita tale potere permane anche in seguito al raggiungimento della pubertà nel caso della donna che sia ancora illibata. Quasi tutte le legislazioni vigenti negli Stati arabi oggi hanno vietato i matrimoni precoci e soppresso l’istituto del wilayat al-ijbar, coerentemente con il dettato coranico che non ammette alcuna forma di costrizione al matrimonio. Se la donna non può più essere costretta a contrarre matrimonio resta, comunque, l’assistenza e il concorso di volontà del wali nella scelta dello sposo (soltanto l’Iraq ha soppresso completamente questa figura). Anche laddove venga riconosciuto alla donna il diritto di contrarre personalmente matrimonio, il relativo contratto può essere impugnato dal wali per inadeguatezza dello sposo o esiguità del donativo nuziale e sciolto giudizialmente, ciò a tutela di una presunta incapacità valutativa che si ritiene possa danneggiare la donna. In particolare, per quanto concerne l’età matrimoniale, le diverse legislazioni nazionali hanno fissato un’età sotto la quale è possibile sposarsi solo su autorizzazione del giudice, per ragioni di utilità o provate necessità, dopo che il wali abbia dato il proprio consenso ( es. in Libia l’età fissata è di 20 anni per entrambi, in Marocco 18 per il maschio e 15 per la femmina, in Tunisia 20 e 17); spesso per evitare che i giudici autorizzino comunque unioni in tenerissima età, nei vari Paesi islamici è stata fissata un’altra età inferiore a quella matrimoniale, al di sotto della quale è impossibile che il matrimonio sia materialmente registrato.

Il donativo nuziale (mahr). Il mahr, o donativo nuziale, è sempre citato nel Corano congiuntamente al nikah e costituisce il quarto elemento essenziale del contratto matrimoniale, poiché, senza di esso il contratto è nullo. Il Corano infatti recita: «…vi è permesso cercare [mogli] utilizzando i vostri beni in modo onesto e senza abbandonarvi al libertinaggio. Così come godrete di esse, verserete loro la dote che è dovuta» (IV,24). Più che un semplice prezzo di vendita, esso sembra rappresentare il corrispettivo per il consenso che la donna dà al marito per l’uso che egli fa della potestà matrimoniale o più semplicemente un corrispettivo o prezzo del godimento sessuale (Vercellin). Il mahr è un donativo determinato ed obbligatorio che deve essere versato in contanti all’atto del matrimonio (per la scuola malichita), ma costituisce soltanto una promessa obbligatoria negli altri casi. Esso viene attribuito esclusivamente alla donna e rimane di sua esclusiva proprietà, in questo senso si colloca agli antipodi rispetto all’istituto della dote della tradizione occidentale, mentre è stato paragonato all’istituto della Morgengabe del diritto germanico. Per gran parte dei musulmani il mahr ha un valore simbolico, ma può essere al contempo considerato un parametro di valutazione della serietà delle intenzioni del futuro sposo ed il suo ammontare deve essere esplicitamente definito nel contratto matrimoniale. Solo le scuole di rito hanafita e malichita definiscono un valore minimo del mahr al di sotto del quale il matrimonio non è valido. Anche se il donativo deve essere generalmente pagato al momento della stipulazione del contratto, spesso è consuetudine stipulare che una metà sia pagata subito ed il resto ad un termine stabilito. Questa parte residua di mahr si chiama kali e costituisce un credito della moglie verso il marito. Nel contratto matrimoniale deve essere indicato il termine per il pagamento del kali; in caso di omissione delle indicazioni del termine; il contratto è rescindibile finché il matrimonio non sia stato consumato; se la consumazione è già avvenuta, il giudice assegna al marito un termine per effettuare il pagamento. La dote è di esclusiva proprietà e disponibilità della moglie (Mudawana del Marocco n. 16) che la gestisce come crede, senza interferenza del marito, in quanto, per alcune scuole, costituirebbe il prezzo che l’uomo paga affinché la sposa si offra a lui fisicamente. Il mahr non costituisce, come si potrebbe pensare, una sorta di «risarcimento per la verginità perduta», poiché quest’ultima non rappresenta un requisito fondamentale alla contrazione del matrimonio: i precetti religiosi consentono a donne vedove o divorziate di impegnarsi in un nuovo matrimonio (nell’ultimo caso, essendo lecito il divorzio) e di ricevere una nuova dote dal secondo marito.

La poligamia. Il matrimonio è monoandrico poliginico; cioè solo l’uomo può avere più mogli, fino ad un massimo di quattro. La poligamia viene giustificata sulla base di un unico versetto contenuto nel Corano, dall’enunciato piuttosto complesso: «E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti» (IV,3). Il Corano prescrive al marito il dovere di essere equo e trattare allo stesso modo ognuna delle sue mogli, anche sotto il profilo della soddisfazione sessuale. Inoltre, poiché per ogni donna sposata l’uomo deve essere in grado di pagare il donativo, senza intaccare i diritti matrimoniali delle precedenti mogli, risulta evidente come l’esercizio di questa facoltà da parte dell’uomo sia strettamente correlata alle sue condizioni economiche; se non esiste questo presupposto la moglie può chiedere al qaddi (giudice) di pronunciare il divorzio. La poligamia è stata fortemente messa in discussione a partire dalla fine del diciannovesimo secolo da alcuni giuristi modernisti e, comunque, è stata ufficialmente abolita dapprima in Turchia nel 1926 ed in seguito anche in altri Paesi come l’Albania o la Tunisia, mentre Paesi come l’Egitto, la Siria, l’Iraq, l’Algeria hanno introdotto notevoli restrizioni pur senza abolirla ufficialmente. Le soluzioni attualmente adottate per scoraggiare la poligamia sono: a) riconoscere alla donna la facoltà di inserire nel contratto matrimoniale una clausola che escluda un nuovo matrimonio, dandole il diritto di chiedere il divorzio (conservando la dote) nel caso in cui detta clausola non venga rispettata dal marito (Giordania, Marocco); b) anche in assenza di clausole contrattuali, riconoscere alla donna il diritto di chiedere il divorzio secondo la legge qualora il marito si risposi (Algeria) o manchino le condizioni economiche; c) subordinare la possibilità del marito di sposare un’altra donna all’adempimento di determinate condizioni sottoposte alla valutazione del giudice ( Siria, Iraq, Libia). In realtà, molti autori ritengono che sia lo stesso Corano a scoraggiare la poligamia, imponendo all’uomo la giustizia fra più mogli (che, intesa come uguale trattamento, risulta essere un obiettivo difficilmente realizzabile) e suggerendo che la scelta di una sola moglie sia il modo migliore per evitare «deviazioni dalla retta via». Essi sostengono, inoltre, che il citato versetto vada contestualizzato storicamente: la poligamia sarebbe stata un’espediente, nei periodi di guerra e in epoche in cui era precluso alla donna il diritto al lavoro, per sostentare le vedove dei caduti ed i loro figli (probabilmente, gli orfani citati dallo stesso versetto coranico).

Il perfezionamento del contratto matrimoniale. Per il Corano si ritiene in linea generale che il contratto di matrimonio si perfezioni al momento dello scambio dei consensi. Esistono, tuttavia, alcuni Paesi in cui si fa riferimento al momento della consumazione del matrimonio (assimilato alla presa di possesso nella compravendita per i contratti reali, rispetto ai quali lo scambio di consensi costituisce solo un negozio preliminare). In ogni caso la consumazione costituisce un elemento essenziale: – se la donna ha contratto due matrimoni; tra di essi è considerato valido quello consumato; – in caso di scioglimento per morte del marito o divorzio; la donna ha diritto a tutto il mahr solo se il matrimonio è stato consumato, altrimenti le spetta solo la metà dello stesso.

Gli effetti del matrimonio e i rapporti tra i coniugi. Nel Corano si legge: «Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Dio concede agli uni rispetto alle altre [nell’ambito dei rapporti familiari] e perché spendono [per esse] i loro beni». Dal punto di vista della Legge sacra, l’autorità dell’uomo sulla donna è strettamente correlata all’obbligo di mantenimento, la cui estensione non viene però definita. Si ritiene, generalmente, che esso comprenda il cibo, il vestiario e l’alloggio e che, comunque, debba essere commisurato alle effettive disponibilità economiche del marito. Come corrispettivo, la donna deve prestare obbedienza al marito e rispettarne la potestà: il marito è comunque esonerato dall’obbligo di mantenimento fino a che il matrimonio non sia stato consumato. In virtù della potestà maritale, per la legge islamica, il marito è titolare di una serie di diritti; la moglie in particolare: 1. Deve abitare con lui (regola non valida per il marito); 2. Lo deve seguire ovunque egli voglia trasferire la sua dimora, salvo clausole contrarie stabilite nel contratto nuziale o speciali circostanze del caso; 3. Non deve uscire dal domicilio coniugale senza il consenso, anche tacito, del marito; 4. Non deve mostrarsi in pubblico senza velo; 5. Non deve ricevere estranei in casa, salvo i parenti stretti con cui è vietato il matrimonio e i fanciulli impuberi; 6. Se il marito lo vieta, non può lavorare fuori dalle mura domestiche, a meno che non vi siano clausole nel contratto matrimoniale che dispongono diversamente. La moglie può negarsi al marito solo: 1. Se è malata o incinta; 2. Se il marito non ha pagato il dono nuziale o quella parte del dono esigibile in contanti; 3. Se si trova in pellegrinaggio o nel periodo mestruale; 4. Se rifiuta per ragioni legate alla sfera emotiva, purché tale rifiuto non si protragga nel tempo. Nei rapporti patrimoniali tra coniugi vige il sistema della netta separazione dei beni e, salvo poche eccezioni, con il matrimonio la donna musulmana acquisisce la piena capacità di gestire autonomamente il proprio patrimonio. Considerando che il suo mantenimento e quello dei figli gravano interamente sul marito, la sua posizione, sotto il profilo della tutela patrimoniale, è stata ritenuta per molti versi migliore rispetto a quella della donna occidentale. Ruoli diversi sono riconosciuti ai coniugi per quanto attiene alla cura e all’educazione dei figli: alla donna, che ha il compito di allevarli, curarli e sorvegliarli, spetta il diritto di custodia (hadana) anche in caso di scioglimento del matrimonio, mentre all’uomo spetta, nell’ambito del suo potere di preminenza e correzione, la potestà (wilaya) di decidere sulla loro educazione, istruzione, avviamento al lavoro e matrimonio, oltre al diritto-dovere dell’amministrazione dei beni e la rappresentanza legale dei minori. Il loro mantenimento è a esclusivo carico del padre.

Le condizioni apponibili al contratto matrimoniale. I moderni legislatori, in alcuni casi, hanno riconosciuto la possibilità di mitigare il dovere di obbedienza della moglie e il generale esercizio della potestà maritale attraverso l’apposizione di stipulazioni accessorie al nikah, anche fuori del contratto o successivamente alla conclusione dello stesso. Tali condizioni possono avere come oggetto disposizioni quali il permesso alla moglie di esercitare una professione o di partecipare alla vita pubblica, l’impegno da parte del marito a non trasferire il domicilio coniugale dalla città d’origine o a non contrarre altri vincoli matrimoniali. La violazione dell’accordo non può produrre lo scioglimento del contratto, in quanto tale scioglimento rappresenterebbe una deroga alla tradizionale legge coranica, ma conferisce alla moglie solo il diritto al risarcimento dei danni.

Gli impedimenti. È vietato (haram) contrarre matrimonio con i maharim (persone che non si possono sposare). Gli impedimenti costituiscono cause di nullità del contratto e si distinguono in perpetui e temporanei. Sono perpetui i vincoli di parentela (tra ascendenti e discendenti e collaterali), affinità o allattamento esplicitamente citati dal Corano (IV, 23). La parentela di latte (tra la nutrice ed alcuni suoi parenti stretti da un lato, e l’allattato dall’altro) è del tutto equiparata, come è possibile notare, a quella di sangue. Questo impedimento è mantenuto anche dalle attuali codificazioni: codice del Marocco (art. 28), dell’Iraq (art. 16), Legge ottomana del 1917 (artt. 18 e 54), Codice della Siria (art. 35), della Tunisia (art. 17), Codice algerino della famiglia (artt. 27, 28, 29). Tra gli impedimenti temporanei ritroviamo: – il precedente «triplice ripudio» (per gli schiavi duplice) effettuato da un uomo nei confronti della stessa donna (salve determinate condizioni); – la differenza di religione: è vietato il matrimonio sia per l’uomo che per la donna con una persona appartenente all’ahl al-awthan (Gente degli idoli: cioè a religioni politeiste), mentre è vietato solo per la donna il matrimonio con una persona appartenente alla Gente del Libro (cristiani, ebrei) in forza della trasmissione in linea paterna dell’appartenenza all’Islam e del divieto islamico di acquisire il cognome del marito (che rescinderebbe i legami con la famiglia di origine e trasformerebbe il matrimonio in un «passaggio di proprietà» dal padre al marito); – l’esistenza di precedente valido vincolo matrimoniale per la donna (quinto vincolo matrimoniale per l’uomo per i Paesi dove è riconosciuta la poligamia); – la «combinazione» (jam): l’uomo non può avere contemporaneamente come mogli due donne imparentate tra loro entro i gradi proibiti di consanguineità, affinità o parentela di latte (non è possibile, ad esempio, sposare due sorelle); – la condanna penale di un coniuge. Un ulteriore impedimento consiste nel fatto di trovarsi in uno stato di malattia mortale trasmissibile. Prima dell’abolizione della schiavitù, erano considerati leciti sia il matrimonio che il concubinato tra la schiava ed il suo padrone (Corano IV, 3; 24-25); il matrimonio, in particolare, era equiparato a tutti gli effetti a quello tra nubendi entrambi liberi, con la sola eccezione del reato di adulterio, a seguito del quale alla schiava era inflitta metà della pena (in virtù della sua debolezza sociale).

La nullità e l’annullabilità del matrimonio. Il matrimonio non produce i suoi effetti ed è nullo quando manca uno degli elementi essenziali del contratto, ovvero in presenza di un impedimento o di un difetto di forma; può essere annullabile in presenza di alcuni vizi (vizi del mahr, vizi del consenso o «vizi redibitori» come l’impotenza) o di alcune clausole contrarie all’essenza del negozio (ad esempio se si stabilisce che i coniugi non faranno vita comune o che il marito non avrà l’obbligo di mantenere la moglie). La dottrina concorda unanimemente sul fatto che le cause di nullità assoluta debbano essere esplicitamente previste dalla Shari’ah. Accade però che uno stesso elemento possa essere considerato causa di nullità o di annullabilità a seconda delle diverse scuole (si pensi, ad esempio, la mancanza del wali, cioè del tutore, rende annullabile il matrimonio per i malichiti, mentre per gli sciafi’iti è causa di nullità). Per la Shari’ah anche il matrimonio nullo produce, comunque, alcuni effetti, quali l’obbligo per la donna di osservare il ritiro legale (‘idda), il suo diritto al pagamento del mahr stabilito, il riconoscimento da parte dell’uomo del figlio concepito con la donna.

Lo scioglimento del matrimonio: ripudio (talaq) e divorzio (tafri q-khul’). Il diritto islamico classico contempla tre fattispecie tipiche di scioglimento del matrimonio: il ripudio (talaq), il divorzio giudiziale chiesto da uno dei coniugi per gravi motivi (tafriq) e il divorzio per mutuo consenso (khul’). A queste cause devono aggiungersi quelle collegate alla conversione e all’apostasia, che fanno cadere il vincolo matrimoniale in conseguenza di quello religioso. Secondo il diritto islamico classico: a) qualora il marito si converta alla religione islamica e la moglie sia monoteista, il matrimonio mantiene la sua validità; se la moglie non è monoteista e non accetta di convertirsi ad una delle religioni monoteiste, il matrimonio è sciolto; b) qualora la moglie si converta alla religione islamica, il marito deve obbligatoriamente seguirla, pena lo scioglimento del matrimonio; c) poiché l’apostata non ha il diritto di sposarsi, se l’apostasia avviene dopo il matrimonio, questo è da ritenersi sciolto. Il ripudio unilaterale (talaq) è un’azione riservata unicamente al marito, che ha il diritto di rinviare la moglie alla famiglia di origine senza esser tenuto in nessun modo a motivare la sua decisione. Oggi, con l’evoluzione del costume, la nuova disciplina codicistica (Mudawana) ha attenuato tale istituto quasi fino a cancellarlo. Del talaq, comunque, esiste una minuziosa disciplina nello stesso Corano e nell’intera Shari’ah: nel complesso è necessaria, per allontanare la donna, una triplice dichiarazione verbale del marito (purché non sia stata effettuata in momenti di collera), che può essere portata a conoscenza della moglie anche tramite terzo, ma è lecito ricorrere a tale istituto nei soli casi in cui risultino impossibili la riconciliazione ed il protrarsi della convivenza matrimoniale. A seconda della formulazione adottata, il ripudio può essere revocabile o definitivo, nel qual caso produce immediatamente lo scioglimento del matrimonio. Se un marito ha ripudiato per tre volte la moglie (triplice ripudio), potrà risposarla solo dopo che la stessa abbia sposato un altro marito e il matrimonio sia stato consumato da quest’ultimo. La Sharia’ ah prevede che l’uomo pronunci per tre volte davanti alla moglie la formula «io ti ripudio» con dichiarazioni separate e a distanza di tempo (per consentire un più attento ripensamento), e quando la moglie non sia mestruata. Il fatto di pronunciare in un’unica dichiarazione il triplice ripudio è diventato una consuetudine in principio proibita, ma successivamente ritenuta valida da alcune scuole. La giurisprudenza sciita nega la validità della suddetta forma di ripudio e prevede un iter più complesso che lasci maggiore spazio al ripensamento: il marito (o un suo rappresentante) deve manifestare la sua volontà di ripudiare la moglie presso uno Shaykh (che, ad es., può trascriverla in un atto formale), per tre volte e a distanza di un mese l’una dall’altra. Solo al terzo ripudio, il matrimonio può considerarsi sciolto. Tale procedura è attualmente prevista in Iran, ma anche nei Paesi a maggioranza sunnita gli sciiti possono farvi ricorso. Oltre al talaq esistono altre varianti del ripudio, come l’ila’ (dichiarazione di astinenza dai rapporti sessuali per più di quattro mesi da parte del marito) o li’an o «giuramento imprecatorio» (dichiarazione del marito che la moglie ha avuto rapporti sessuali illeciti o di non essere il padre del figlio che le è nato). Nonostante la Shari’ah definisca il ripudio come un atto da adottare solo in caso di necessità, classificandolo tra gli atti riprovevoli o reprensibili, e raccomandi l’instaurazione di procedure di conciliazione degli sposi, nella generalità degli ordinamenti musulmani, l’uomo non è tenuto a dare conto delle proprie motivazioni, rimanendo, il ripudio, un atto perfettamente libero e discrezionale.

I legislatori moderni hanno cercato di limitare il ricorso al ripudio in vari modi: sottoponendolo al controllo del giudice prevedendo una serie di correttivi, quali una formula sacrale, che la moglie debba essere informata, stabilendo un diritto al risarcimento a favore della donna in caso di ripudio arbitrario o pregiudizievole per la stessa, nonché vietando il ripudio in caso sia pronunciato sotto effetto di droga, alcool, collera. La possibilità per la moglie di richiedere il divorzio giudiziale (tafriq) varia considerevolmente da scuola a scuola. È di regola unanimemente riconosciuta in presenza di gravi motivi che rendano impossibili i rapporti sessuali come l’evirazione, la castrazione e l’impotenza. Altri gravi motivi possono essere ravvisati nell’assenza del marito, nei maltrattamenti o nel mancato adempimento dell’obbligo di mantenimento. Il diritto islamico ammette infine il divorzio per mutuo consenso (tafriq-khul’), generalmente nei casi in cui la donna non può richiedere quello giudiziale e a condizione che ella rifiuti la parte di dote pagabile a termine (‘iwad). Tale diritto viene espressamente previsto dal Corano (II, 229; IV, 128), che parla appunto di una sorta di «riscatto» dovuto al marito, ovvero una compensazione materiale per l’interruzione della convivenza matrimoniale. Un tafriq-khul’ ripetuto tre volte ha gli stessi effetti del triplice ripudio. Il matrimonio islamico, anche se può essere sciolto con relativa facilità, è in generale concepito per durare. Soltanto la tradizione sciita ammette il matrimonio a termine, anche detto matrimonio di «piacere» (nikahmut’ah).

La filiazione e il divieto di adozione: la kafala. Il diritto islamico classico riconosce soltanto la filiazione legittima, in quanto ogni rapporto sessuale al di fuori del matrimonio e del concubinato è considerato illecito ed il rapporto giuridico che lega il genitore al figlio deve necessariamente collegarsi alla generazione biologica. Esso pertanto, sulla base di due versetti coranici (XXXIII, 4-5), vieta l’adozione legittimante, che rescinde i rapporti tra il minore abbandonato e la famiglia di origine. È però previsto l’istituto della kafala, che presenta molte affinità con l’affidamento illimitato o sine die. Chiunque può pertanto assumersi l’impegno di provvedere alle necessità di un’infante abbandonato, pur senza attribuirgli il proprio nome, potendo altresì concedergli fino ad un terzo dell’eredità, ovvero quella parte non spettante agli eredi legittimi, mediante un atto di ultima volontà (tandhil). È ritenuto legittimo il figlio nato almeno sei mesi dopo il matrimonio, rappresentando questo periodo la durata minima della gravidanza stabilita dal Corano. Si presume legittimo anche i figlio della moglie nato dopo lo scioglimento del matrimonio, purché non sia trascorso il termine massimo della gestazione. In assenza di precise disposizioni coraniche sulla durata massima della gestazione si sono sviluppate diverse opinioni (due anni per gli hanafiti, quattro per gli hanbaliti, sette per i malichiti) sulla base della cosiddetta teoria del feto dormiente, per cui il concepito può per un certo periodo di tempo, vivere di vita latente nel grembo della madre. La filiazione si può stabilire anche per riconoscimento. Il padre può riconoscere un figlio nato all’interno del matrimonio, la cui paternità naturale è ignota e che per la sua età possa ragionevolmente presumersi figlio di colui che lo riconosce come suo. Il ricorso al riconoscimento era necessario per il figlio nato dall’unione della schiava con il proprio padrone, in cui il rapporto di concubinato era lecito, ma il nasab non poteva stabilirsi per presunzione a causa della mancata costituzione del matrimonio.

Studio Legale Sugamele                    www.divorzista.org/sentenza.php?id=2778

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

NULLITÀ MATRIMONIALE

Nullità matrimoniale canonica, riconoscimento a maglie larghe.

Corte d’Appello di Catania, sentenze 11 e 12 gennaio 2016.

Con due sentenze a distanza di un giorno l’una dall’altra, la Corte d’appello di Catania ha contraddetto l’interpretazione delle Sezioni unite, delibando nel nostro ordinamento una sentenza canonica dichiarativa della nullità del matrimonio in cui la convivenza è durata per un periodo superiore a tre anni

La Corte d’appello di Catania recepisce una sentenza religiosa senza l’accordo fra i coniugi e dopo lunga convivenza. Via libera alla delibazione, ossia al recepimento all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, anche se la durata della convivenza coniugale ha superato i tre anni e la richiesta è stata presentata da una sola parte, con l’altra in opposizione.

Lo ha dato la Corte d’appello di Catania, da ultimo con la sentenza del 12 gennaio scorso che, soprattutto per quanto riguarda i tempi della convivenza, si pone in contrasto con il più recente orientamento della Cassazione. Una linea già seguita da molti altri tribunali di merito.

La questione. Il matrimonio cattolico è indissolubile. Può quindi essere solo dichiarato nullo, con la conseguenza che tutti gli effetti decadono fin dall’inizio, come se il matrimonio non fosse mai esistito. Le sentenze canoniche di nullità matrimoniale possono peraltro essere dichiarate efficaci nel nostro ordinamento dalla Corte di appello competente per territorio. La conseguenza è la nullità, con valore retroattivo anche degli effetti civili, nel caso in cui sia stato trascritto nei registri dello stato civile (matrimonio concordatario).

La Cassazione. Con la sentenza 16379/2014 le Sezioni unite della Cassazione, superando il proprio orientamento iniziato con la sentenza 4700/1988, hanno attribuito alla convivenza come coniugi protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio la natura ostativa al riconoscimento civile delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale (articolo 8 della legge 121/1985). La ratio è quella di tutelare il coniuge più debole, il quale, una volta riconosciuta agli effetti civili la sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio, sarebbe insufficientemente garantito nel caso in cui, con il divorzio, avrebbe diritto al miglior trattamento (articoli 5 e seguenti della legge 898/1970). La Corte d’appello, quando riconosce gli effetti civili una sentenza canonica di nullità, può infatti attribuire, a favore del coniuge che ne abbia il diritto e ne faccia richiesta, una provvisionale parametrata sulle norme del Codice civile che regolano il matrimonio putativo: un onere di sicuro inferiore per la parte gravata rispetto al trattamento per il coniuge più debole previsto dalla legge 898/1970 in caso di divorzio.

Le sentenze di Catania. La sentenza dell’11 gennaio della Corte d’appello di Catania è una delle più recenti pronunce che, disattendendo il disposto delle Sezioni unite, hanno delibato nel nostro ordinamento una sentenza canonica dichiarativa della nullità di un coniugio in cui la convivenza è durata per un periodo superiore a tre anni.

Ma il disposto della Cassazione viene superato anche quando le parti non sono concordi sull’efficacia civile della sentenza canonica. Con la sentenza del 12 gennaio scorso la Corte di appello di Catania ha infatti delibato una sentenza canonica di nullità di un vincolo matrimoniale in cui la convivenza si era protratta per oltre tre anni e la delibazione era stata richiesta da una parte in opposizione all’altra. In questa ipotesi i giudici, verificando le condizioni di efficacia nel nostro ordinamento della pronuncia canonica, hanno accertato che le disposizioni di questa non siano contrarie all’ordine pubblico italiano, inteso come «insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale» (Cassazione 27592/2006). E specificamente hanno esaurito la questione dell’ordine pubblico nella mancanza di contrasto fra la causa di nullità canonica (simulazione unilaterale) e il nostro ordinamento, in quanto la riserva mentale era conosciuta o comunque conoscibile dall’altro contraente al momento del matrimonio. Il concetto di ordine pubblico, ossia della coerenza interna dell’ordinamento, diventa così graduabile ed elastico, come se alcune cause di contrasto con il nostro ordinamento siano “più giuste” di altre, o addirittura finiscano per assorbirle.

Andrea Bettetini        il sole 24 ore   26 aprile 2016

www.oua.it/sentenze-nullita-matrimoniale-canonica-riconoscimento-a-maglie-larghe-il-sole-24-ore

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

OMOFILIA

Omosessualità. Sognare una pastorale e una teologia dell’orientamento sessuale.

Intervento presentato dal filosofo Damiano Migliorini al IV Forum dei cristiani LGBT di Albano Laziale il 16 aprile 2016; pubblicato sul sito http://www.gionata.org/ il 18.4.2016 (ndr).

Estratto della parte finale

Tirando le fila, visto che siamo in un Forum, e visto che dobbiamo sognare, ma anche pensare alle strategie… Credo ci siano delle direzioni che i movimenti cristiani Lgbt italiani dovrebbero considerare come le sfide più urgenti:

            Elaborare una spiritualità biblica, sistematica, non difensiva, ma propositiva, il più possibile basata su solide basi ermeneutiche. Cioè un lavoro di interpretazione dei passi della Scrittura che possano dire qualcosa di positivo sull’omosessualità – come han fatto le femministe. Questo passa per un’indagine bibliografica, un’analisi critica e un’opera di sistematizzazione da proporre al panorama cattolico italiano. Non l’ho compiuta nel mio libro, ma vedo che vi è chi si muove in questa direzione, come il portale del Progetto Gionata. Esiste la Bibbia delle donne, esiste anche la Bibbia Queer… Raccogliendo il materiale si potrebbe cercare di fare un lavoro sistematico di lettura spirituale della Bibbia per le persone omosessuali, che permetta di compiere una rivisitazione analoga a quella delle femministe dei testi biblici. Faccio un esempio banale: il bellissimo passo di Qo 4, 9-12, non è forse la celebrazione dell’aiuto reciproco? Cosa conta che atti sessuali si compiono, se la persona sola trova un compagno con cui dormire insieme e condividere le fatiche? Non è qui indicato con chiarezza qual è la priorità assoluta, il bene umano fondamentale da tutelare?

I gruppi di credenti omosessuali, e le singole persone, hanno anche il compito di andare dai loro pastori e porsi in dialogo con loro; con i Vescovi, certo, ma anche coi sacerdoti; pure con quelli che magari all’apparenza sono inavvicinabili. Abbiamo pensato il nostro libro in tal senso, come uno strumento, come un possibile regalo che ciascuno può fare al proprio sacerdote, o al proprio vescovo. Il linguaggio e lo stile – oltre all’impostazione generale e i contenuti ponderati – sono pensati a questo scopo: creare un ponte, una comunicazione. Dobbiamo essere consapevoli che per la maggioranza dei presuli, l’omosessualità è un tema lontano, poco conosciuto; pochissimi poi hanno la possibilità di parlare con credenti omosessuali che sappiano mostrare loro un percorso di fede e di amore; se pensiamo a quanto importante è la relazione per acquisire una verità, allora non possiamo sottrarci al compito primario di instaurare relazioni, fatte di parresia e apertura di cuore. Questa è la pastorale che possiamo svolgere nei loro confronti, sapendone accettare con pazienza e tenerezza le lentezze, le ruvidezze, le incomprensioni; siamo noi a dover fare il primo passo!

Chi mastica un po’ di filosofia e teologia ha il compito di elaborare una fenomenologia dell’amore omosessuale e dei suoi atti; questa operazione è urgente perché oggi la teologia morale cattolica si muove – partendo dal pensiero di Giovanni Paolo II – su un sofisticato intreccio tra fenomenologia dei gesti e metafisica tomista; proporre una diversa e coerente lettura fenomenologica degli atti d’amore omosessuale è una risposta importante;

Come abbiamo visto, è poi necessario creare una proposta morale solida e integrabile in quella metafisico-tomista; o crearne una alternativa che la Chiesa possa accogliere (opzione che ritengo molto più difficile, per le ragioni addotte).

Con l’etica, è necessaria una rivisitazione dell’antropologia che sappia accogliere le acquisizioni moderne sull’orientamento sessuale.

            C’è qualcuno che vuole farsi avanti?

Testo completo con 12 note

www.lindicedelsinodo.it/2016/04/omosessualita-sognare-una-pastorale-e.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

PARLAMENTO

Camera. Assemblea   Data della prossima conferenza nazionale sulla famiglia

28 aprile. 2016 Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata.

(Iniziative di competenza per la fissazione della data della prossima conferenza nazionale sulla famiglia – n. 3-02216) Sberna e Gigli. – Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Per sapere – premesso che:

  • La conferenza nazionale sulla famiglia è un grande momento istituzionale di partecipazione, confronto ed elaborazione sui temi della famiglia che prevede il coinvolgimento delle diverse realtà politiche, sociali, produttive e culturali del Paese. Un’occasione preziosa d’incontro tra saperi e poteri, tra conoscenze professionali e responsabilità politico-istituzionali;
  • La prima conferenza nazionale sulla famiglia, prevista dalla legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria per il 2007) come appuntamento importante per definire le linee guida per l’elaborazione del primo piano nazionale per la famiglia, fu promossa dall’allora Ministro delle politiche per la famiglia nell’ambito delle iniziative tese al rilancio delle politiche familiari e fu realizzata a Firenze nel maggio 2007. Il piano nazionale di politiche familiari, previsto dall’articolo 1, comma 1251, della legge finanziaria per il 2007, è stato poi approvato per la prima volta il 7 giugno 2012;
  • il Presidente del Consiglio dei ministri Renzi aveva garantito – come pubblicato da agenzie di stampa – che prima della scadenza del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea sarebbe stata convocata, ma ad oggi nulla è avvenuto; eppure gli obiettivi della conferenza sono tuttora assolutamente prioritari: non si tratta infatti di promuovere eventi celebrativi vuoti e formali, ma di indicare vere e proprie proposte, verificate in termini di sostenibilità, che concorrano alla costruzione di un modello di welfare più europeo e più moderno in grado di realizzare una piena cittadinanza sociale della famiglia;
  • Infatti proprio nei Paesi europei ove più forti e strutturate sono le politiche di sostegno più forte è la libertà delle famiglie di diventare, di essere e di rimanere famiglia;
  • I tre soggetti coinvolti delle politiche familiari – pubblica amministrazione, privato sociale e imprese – devono integrare la loro azione, non solo a livello di gestione, ma anche di progettazione;
  • Sono infatti necessarie politiche di appoggio, di accompagnamento e di sostegno che riconoscano la famiglia come bene comune e ne valorizzino il ruolo attivo e propulsivo sul versante educativo, sociale ed economico
  • Se il Ministro interrogato non intenda porre in essere iniziative di competenza volte a definire la prossima data della conferenza nazionale sulla famiglia. (3-02216)

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0615&tipo=documenti_seduta&pag=allegato_a#si.3-02216

Mario Sberna. Grazie, signora Presidente. Signor Ministro, premetto che non è a lei che dovremmo porre questa domanda, sapendo che ha appena ricevuto la delega alla famiglia e, peraltro, ha già dimostrato che il tema le è molto caro. Tuttavia, devo chiedere a lei perché la conferenza nazionale sulla famiglia, voluta dal Governo Prodi e rifatta nel 2010, è scomparsa dall’agenda. Il Premier Renzi aveva detto che l’avrebbe fatta entro la fine del semestre europeo. Non so se si intendeva questo semestre europeo o quello che avremo tra quindici anni, perché di fatto non c’è stata nel 2014 e pare, non ci sono notizie, che ci sia nel 2016. È un momento istituzionale di partecipazione, di confronto e di elaborazione sui temi della famiglia, che prevede il coinvolgimento delle diverse realtà politiche, sociali, produttive e culturali del Paese.

Insomma, gli obiettivi della conferenza sono davvero prioritari. Non si tratta, infatti, di promuovere eventi celebrativi vuoti e formali, ma di indicare vere proposte, verificate in termini di sostenibilità e in grado di realizzare una piena cittadinanza sociale alla famiglia. Vorremmo sapere che questo avverrà prima della fine del 2016.

Enrico Costa, Ministro per gli affari regionali e le autonomie. Signora Presidente, in via preliminare, desidero esprimere una condivisione in merito a quanto segnalato dagli onorevoli interroganti su un punto in particolare, una frase, un’affermazione: il rilancio delle politiche familiari non ha bisogno di eventi celebrativi vuoti e formali, ma di proposte concrete. Ha bisogno – questo lo dico io – che siano in grado di interpretare i bisogni delle famiglie, che siano capaci di garantire la tutela dei diritti delle famiglie in tutte le sue componenti e in tutte le problematiche generazionali, ma anche di assicurare l’attuazione delle politiche della famiglia in ogni ambito, che sia lavorativo, che sia economico, che sia socio-educativo. Io sono il presidente dell’Osservatorio nazionale della famiglia, che è istituito presso il Dipartimento per le politiche della famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e questo organismo sarà un organismo molto prezioso per fornire un efficace supporto tecnico-scientifico che ci possa aiutare a fornire delle risposte che siano risposte adeguate, innovative, attuali, come politiche per la natalità e per l’infanzia, la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, il sostegno alle famiglie numerose e a quelle che si prendono cura dei disabili e degli anziani. Proprio in vista anche di questo obiettivo, sto procedendo alla ricostituzione di questo organismo. È imminente ormai la fase di acquisizione di tutte le designazioni e potrò quindi provvedere a convocare questo Osservatorio. Perché ho fatto questa premessa? Perché all’avvio dei lavori dell’Osservatorio potranno quindi essere definite e concordate anche le iniziative necessarie ad individuare i temi e le modalità per l’indizione dello svolgimento della III Conferenza nazionale sulla famiglia, come sollecitato dagli onorevoli interroganti. Ai fini dell’elaborazione di politiche nazionali e per la famiglia è infatti necessaria la sintesi e l’apporto costruttivo di tutti gli attori coinvolti, lo hanno evidenziato gli interroganti, a partire dalle famiglie, le istituzioni governative, gli enti territoriali, le organizzazioni pubbliche e private, ciascuno con il proprio ruolo, con le proprie competenze, con le proprie risorse, per concorrere ad un obiettivo comune, quindi sostenere le politiche familiari e creare contestualmente concrete opportunità di sviluppo a livello nazionale e locale per la famiglia stessa. Consideriamo la famiglia il nucleo fondamentale e naturale della società, che a sua volta cresce e si sviluppa se sussiste un costante e quotidiano impegno e soprattutto, aggiungo, un approccio coerente e un approccio organico. Ci sono tanti provvedimenti finalizzati a sostenere la famiglia, sono nel nostro ordinamento piuttosto frammentari, è necessario unirli, coordinarli, renderli organici e dare quindi, anche dal punto di vista normativo, un punto di riferimento chiaro di presenza dello Stato a sostegno delle famiglie.

Gian Luigi Gigli. Signora Presidente, grazie signor Ministro perché dalle sue parole rileviamo innanzitutto un’attivazione concreta, già in essere, per quanto riguarda la costituzione e il riavvio di questo importante strumento che è l’Osservatorio per la famiglia. Poi prendiamo atto di un impegno, certamente non stiamo qui noi a fare le pulci sui tempi che sono stati dati, perché, come è stato rilevato, è appena entrato in attività e ciononostante questa sensibilità ci lascia ben sperare. Le chiediamo però di fare presto, perché su questi temi delle politiche familiari un gap, come quello che di fatto si rileverà, di circa otto anni alla fine, non è poca cosa. Noi abbiamo osservato in questi anni interventi episodici, spesso con caratteristiche assistenziali. C’è bisogno invece di un piano organico per la famiglia, c’è bisogno di un welfare a misura di famiglia e per fare questo c’è bisogno del supporto di tutto il mondo associativo, degli attori in particolare appunto che si muovono da sempre, con passione e con coraggio, per il sostegno alla famiglia, penso al forum delle famiglie, penso a tutte le associazioni familiari. Noi le chiediamo appunto di far presto, perché c’è ormai un’urgenza: le famiglie, non voglio dire che sono alla canna del gas, ma certamente non sono state oggetto di attenzione speciale. Si continua ad avere una cultura che è basata sull’individuo, sui suoi diritti, non a caso l’accelerazione sul tema delle unioni civili avrebbe meritato di essere l’accelerazione appunto per i temi per la famiglia.

Non c’è stata certamente la stessa attenzione. Recuperiamo, facciamo qualche cosa, perché altrimenti noi questo Paese lo perderemo, lo perderemo intanto dal punto di vista della natalità, lo perderemo dal punto di vista della speranza di futuro, lo perderemo dal punto di vista dei giovani che se ne stanno andando tutti quanti perché le loro famiglie non ce la fanno più a sostenerli.

pag. 70

www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0615&tipo=stenografico#sed0615.stenografico.tit00070.sub00050

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

PASTORALE FAMILIARE

            Umanesimo formato famiglia per costruire Chiesa e società.

La nuova carta costituzionale della famiglia, Amoris laetitia, celebra la cultura dell’incontro, del dialogo, della misericordia, dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’ascolto. Modellare la pastorale della famiglia su questa lunghezza d’onda, mettendo da parte linguaggi specialistici e dettati normativi, diventa quindi obbligatorio per riuscire a parlare con la stessa efficacia a tutte le famiglie, anche nelle circostanze che un tempo sarebbero state definite “difficili” o “irregolari”. Sollecitazione tanto più importante se l’obiettivo è rimettere al centro la bontà della differenza sessuale, della ricchezza della reciprocità maschile e femminile, oggi, minacciata dai luoghi comuni delle gender theories e dalla tendenza ad applicare anche alle relazioni logiche di utilitarismo e di sincretismo etico.

Se n’ è parlato ad Assisi, dove lunedì si è conclusa la Settimana nazionale di studi sulla spiritualità coniugale e familiare, organizzata dall’ Ufficio famiglia Cei. Ultimo appuntamento di un percorso triennale che ha avuto come snodo le “radici sponsali della persona umana”. Fondamentale la domanda che ha fatto da spartiacque agli interventi dei relatori e ai contributi dei circa cinquecento partecipanti: come costruire un nuovo umanesimo, mostrando a tutti che l’unione stabile di un uomo e di una donna, rispettosi delle reciproche peculiarità, si traduce in speranza e futuro per la società e per la Chiesa?

Nelle sue conclusioni, don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio famiglia Cei, ha intrecciato le suggestioni di Amoris laetitia con le cinque vie del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze. Ecco allora che uscire la prima delle cinque vie significa «andare oltre gli schemi consueti di contrapposizione e partorire la cultura dell’incontro». Annunciare, la seconda via, «significa sperimentare il passaggio dalla piccola chiesa domestica alla Chiesa formato famiglia». Abitare, la terza via, può essere intesa come lo sforzo di «umanizzare gli ambienti e stare vicino alle case, cioè essere Chiesa che vive tra le case degli uomini». E così educare, quarta via, «implica curare la formazione integrale dell’umano, illuminando la promessa del matrimonio cristiano», mentre trasfigurare, la quinta, significa «prendere il quotidiano» e rilanciarlo nelle dimensione del “per sempre” in una prospettiva d’ infinito.

«Ma tutto questo ha sottolineato il direttore dell’Ufficio famiglia occorre dirlo con un linguaggio all’ insegna della concretezza che, secondo le indicazioni di Amoris laetitia, esce dai soliti schemi e chiede un cambio di volto dell’intera comunità cristiana e un aiuto da famiglia a famiglia».

Le cinque vie del nuovo umanesimo familiare erano state declinate anche dalle testimonianze pastorali. Paolo Ramonda, leader della “Papa Giovanni XXIII”, aveva raccontato di paternità e di maternità verso gli ultimi del mondo; Giancarla Stevanella, presidente Cic e Iner Verona, dell’ educazione dei giovani all’ amore; don Nico Rugliano, parroco a Messina, aveva raccontato come si passa dalle baracche di periferia alla Chiesa come casa; Maria Grazia Colombo, vicepresidente Forum, aveva ribadito l’ esigenza dell’ alleanza scuola-famiglia; Elena ed Enrico di Nomadelfia avevano messo in luce la gioia di una genitorialità offerta ai piccoli più sfortunati con la semplicità del radicalismo evangelico. Semplicità e chiarezza che diventano anche il modo più efficace per muoversi nel solco della verità.

«Per parlare semplice occorre sapere le cose, ha fatto notare lo psichiatra Paolo Crepet chi parla complicato non sa molto. Oggi c’ è un demone da sconfiggere, spaventoso, l’onnipotenza umana. Era sempre stata vista come una patetica presunzione. Oggi si è trasformata in qualcosa di ancora più pericoloso perché si è innestata sulla tecnologia».

Luciano Moia             Avvenire         27 aprile 2016

www.forumfamiglie.org/rassegna.php

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

SINODO SULLA FAMIGLIA

Anche nelle situazioni difficili.

«Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (Amoris laetitia, n. 325). È con queste parole che si conclude il testo della esortazione apostolica. Le parole iniziali di un documento pontificio vengono citate spesso e sono largamente conosciute, non fosse altro perché le prime due ne formano anche il titolo e quindi vengono sempre scelte con cura. Ma vale la pena guardare anche alle ultime parole. L’incoraggiamento a non perdere la speranza a causa dei propri limiti è posto alla fine di un lungo documento, nel quale Papa Francesco definisce un compito molto esigente che ci è affidato nella cura pastorale della Chiesa. Si tratta di una cura pastorale che prende sul serio la necessità di rispondere davvero in modo concreto alla storia e alla situazione di vita individuale, che le persone portano con sé quando si rivolgono a noi. E soprattutto: di non predicare dall’alto un ideale, ma di incoraggiare a vivere il Vangelo nelle rispettive situazioni di vita e a scoprirlo come fonte dell’amore.

Proprio nella sfera vitale della sessualità, della relazione, del rapporto di coppia, del matrimonio, della genitorialità e della famiglia, per ogni persona che ci si pone di fronte abbiamo a che fare — in realtà da sempre, ma oggi con più forza e inevitabilmente — con una storia propria, con aspettative, impronte, desideri e anche ferite proprie. E solo in rarissimi casi è possibile classificare e valutare meramente in base a categorie esterne quali aspetti e motivazioni sono collegati a tale storia.

In questa situazione, che, senza esagerare, talvolta è possibile definire confusa e complicata, va testimoniato il Vangelo di Gesù Cristo, il messaggio dell’amore di Dio che rende felici. È un compito davvero impegnativo per la cura pastorale, poiché senza un processo di dialogo personale, e talora anche più intenso, tutto ciò non sarà possibile. La triade «accompagnare, discernere e integrare» descritta da Papa Francesco, diventerà il cantus firmus della pastorale se essa vuole davvero raggiungere l’uomo e dischiudere quel cammino che Dio stesso percorre con queste persone. Ciò non mancherà di avere ripercussioni sulla formazione e sul profilo dei nostri sacerdoti, come anche delle nostre collaboratrici e dei nostri collaboratori nella pastorale. Dovremo dedicare ancor più attenzione al dialogo e all’accompagnamento pastorale, ma ciò farà bene al profilo pastorale. Si tratta, di fatto, di rinnovare — proprio nell’ambito del matrimonio e della famiglia — una cura pastorale esigente, che poi può portare anche ai sacramenti del matrimonio, della riconciliazione e dell’eucaristia, i quali esprimono in modo particolare la communio con Cristo e la Chiesa.

Dinanzi alla vastità e alla complessità delle esigenze poste da Amoris laetitia, un aspetto decisamente positivo del documento è che Papa Francesco non ha bisogno di modificare la grande dogmatica e non introduce nuovi orientamenti, dei quali occorrerebbe tener conto. Anzi, egli riconduce questa dogmatica sempre al suo nucleo e anche al suo linguaggio, che deriva dal Vangelo, sicché molte cose vengono riscoperte. Anche l’indicazione che gli insegnamenti e le norme della Chiesa hanno bisogno di un adattamento nella prassi pastorale non è un’innovazione introdotta da Papa Francesco. I numerosi riferimenti non solo ai suoi predecessori, ma, nella questione dell’adattamento, anche a san Tommaso d’Aquino, fanno vedere chiaramente che si tratta di importanti beni rinvenuti nel tesoro della tradizione della Chiesa.

Una dimostrazione concreta è, per esempio, il riferimento a una riflessione di san Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, I-II, 94,4) che Papa Francesco cita al n. 304 di Amoris laetitia. Riguarda il fatto che le norme e le regole generali, quando vengono applicate a situazioni concrete, specifiche, non sempre sono del tutto adeguate. Non sempre tutti possono comprendere il significato esatto, e a volte la situazione non può essere davvero racchiusa pienamente in una regola. Allora serve la saggezza umana per trarre il meglio da ogni situazione, rispettando la regola solo in parte o non rispettandola affatto, perché altrimenti non si otterrebbe nulla di sensato. Papa Francesco rende questa sobria teoria d’azione feconda per la Chiesa, poiché da essa emerge chiaramente: agire saggiamente non è «parlare in modo incomprensibile» o «lassismo», bensì imprescindibile se si vogliono raggiungere obiettivi ragionevoli. Perciò quanti hanno in cura le anime devono agire con saggezza, e questo nel senso dell’insegnamento della Chiesa e al tempo stesso alla luce della misericordia, che per principio deve caratterizzare l’azione della Chiesa. Salus animarium suprema lex!

Su questo sfondo si comprende anche perché Amoris laetitia pone particolare enfasi su alcuni aspetti. Tra questi vi sono, accanto all’attenzione da parte dei pastori, anche il rispetto della coscienza individuale, che occorre formare, ma non sostituire (cfr. n. 37), e la necessità di trovare nelle Chiese particolari soluzioni più inculturate, «attente alle tradizioni e alle sfide locali» (n. 3). Il compito che ne deriva per la pastorale è di andare incontro individualmente alle persone, alla luce della misericordia e dell’amore di Dio, offrendo loro accompagnamento e comunione, a prescindere dalla situazione di vita nella quale si trovano e dal fatto che questa corrisponda o meno in ogni aspetto all’insegnamento della Chiesa. Tale compito è tanto indispensabile quanto profondamente cattolico ed esigente. E non riguarda solo il matrimonio e la famiglia, ma tutte le situazioni della vita. A partire dalle riflessioni sinodali, Papa Francesco afferma: «Le realtà che ci preoccupano sono sfide. Non cadiamo nella trappola di esaurirci in lamenti autodifensivi, invece di suscitare una creatività missionaria. In tutte le situazioni “la Chiesa avverte la necessità di dire una parola di verità e di speranza. […] I grandi valori del matrimonio e della famiglia cristiana corrispondono alla ricerca che attraversa l’esistenza umana” (Relatio synodi 2014, 11)» (n. 57).

In un certo senso si può affermare che Papa Francesco stesso ci precede su questo cammino, avendo redatto l’esortazione postsinodale in modo tale da rappresentare una vasta proposta di orientamenti, che va incontro a tante situazioni di vita comuni, che non condanna, ma invita.

Con molta probabilità, ogni lettrice o lettore interessato da questo testo, e certamente tutti coloro che sono impegnati nella pastorale, vi troveranno qualcosa da poter portare con sé, meditare e realizzare nella vita. Lasciamoci quindi contagiare dall’impeto pastorale del testo e seguiamo l’esortazione di Papa Francesco a «cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (n. 325).

Reinhard Marx, Cardinale arcivescovo di München, presidente della Conferenza episcopale tedesca                   L’Osservatore Romano 27 aprile 2016

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2016/04/anche-nelle-situazioni-difficili.html

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

VARIE ED EVENTUALI

Le mille e una forma di tradimento”

Conferenza del 5 maggio 2016: “Relatore: dott.ssa Elisabetta Orioli, psicologa psicoterapeuta

Centro Giovani Coppie ore 21 P.zza San Fedele, 4 – Milano, Sala Ricci

Esiste il tradimento che investe la coppia come un ciclone, ma ci sono altre forme di tradimento nella relazione, che non sempre minano la sua esistenza, ma sono senz’altro fonte di sofferenza. Spesso coloro che vivono questi tradimenti non ne sono consapevoli. Infatti non sono facili da riconoscere perché a volte sono sotterranei, altre volte si presentano come comportamenti virtuosi. Proveremo ad individuare quelli più frequenti in cui tutti ci possiamo imbattere.

www.centrogiovanicoppiesanfedele.it/conferenze

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus – 20135 Milano-via S. Lattuada, 14.

 Il responsabile dei trattamenti è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea. newsucipem@gmail.com

▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬

Condividi, se ti va!