UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 582 –31 gennaio 2016
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ABBANDONO …del domicilio domestico e violazione del dovere di coabitazione.
ADDEBITO In una causa di separazione possono testimoniare parenti e figli?
Moglie e marito entrambi infedeli: che succede?
ADOZIONI Stepchild, una battaglia per soli 529 casi.
AFFIDI Non si sa quanti siano i bambini in mano alle strutture per minori
AFFIDO CONDIVISO Condannato il padre che vede la figlia con la nuova compagna.
ANONIMATO Lettera aperta Non lasciamo sole le gestanti in gravi difficoltà.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Le spese universitarie dei figli non l’aumentano.
Assegno di mantenimento all’ex moglie: quando non c’è reato.
BIOETICA Il Papa ci aiuta a riflettere su questioni bioetiche.
Tra “io” e “atto” non c’è diritto di usare gli altri
CHIESA CATTOLICA Scommettere sulla famiglia. (Forte).
A proposito del family day.
Il grande freddo tra Francesco, il Family Day e i vescovi.
Conferenza Episcopale Italiana Famiglia, disoccupazione e povertà. Le indicazioni della Cei.
CONSULTORI Familiari UCIPEM Padova.5 Nascere bene. Nascono nuove relazioni. E dopo?
Pescara. Affido familiare: intesa a tre Comune, Cif, Ucipem.
Portogruaro. Quattro percorsi formativi.
DALLA NAVATA 4° Domenica del tempo ordinario – anno C –31 gennaio 2016.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
FAMIGLIA Che cos’è una famiglia?
FAMILY DAY Anche gli islamici a difesa della famiglia.
Azione Cattolica
FECONDAZIONE ARTIFICIALE L’utero in affitto e la legge Cirinnà. (Piana)
FORUM Associazioni FAMILIARI Family Day opportunità per costruire e rilanciare il Paese
FRANCESCO Vescovo di ROMA Embrioni non sono merce, dare voce ai più deboli
GENITORI OMOSESSUALI C’è differenza?
La pseudoscienza contro le famiglie.
GOVERNO Enrico Costa è Ministro agli Affari regionali e alla famiglia.
OMOFILIA Omosessuali si nasce? Facile a dirsi…ma non è così
L’omosessualità è un tema presente nei Vangeli?
SEPARAZIONE E DIVORZIO Focus sui rapporti economici in caso di separazione e divorzio.
UCIPEM Congresso nazionale 2016 ad Oristano.
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ABBANDONO
Abbandono del domicilio domestico e violazione del dovere di coabitazione.
È vietato abbandonare la casa coniugale quando ancora il matrimonio è in piedi: uscire di casa e non tornarvi più senza una valida ragione è un comportamento punito sia dal codice civile, che pone tra i doveri del matrimonio quello della convivenza [art. 146 cod. civ.], che da quello penale [art. 570 cod. pen.], che punisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare.
Dunque, le conseguenze per chi lascia il domicilio domestico sono di due tipi:
- Sanzione civile: la responsabilità per la separazione (cosiddetto addebito) e la perdita del diritto al mantenimento;
- Sanzione penale: il reato per aver abbandonato il domicilio domestico è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 euro a 1.032 euro.
Quando è possibile abbandonare la casa coniugale? Se sussiste una valida ragione a spingere fuori di casa uno dei due coniugi – ragione che si ponga come vero e unico motivo della separazione in atto – allora l’abbandono del tetto è legittimo: si pensi al caso della donna che scappi perché ha subito violenza o al marito che ha scoperto la moglie tradirlo. In tali casi l’abbandono del tetto è una conseguenza di un altro e precedente comportamento, quest’ultimo da considerare come l’effettiva causa della separazione.
Dunque, l’abbandono del tetto coniugale è legittimo se determinato da situazioni di fatto, avvenimenti o comportamenti di altri (dell’altro coniuge o di suoi familiari) incompatibili con il protrarsi della convivenza, oppure quando l’abbandono dipende da una situazione già intollerabile o compromessa quando cioè c’è una crisi matrimoniale già in atto che non consente la prosecuzione della vita in comune. È chiaro, tuttavia, che l’onere della prova – cioè la necessità di dimostrare che l’abbandono del tetto è conseguenza di un altrui comportamento colpevole – spetta a chi se ne va di casa. Per cui, in assenza di prove, è bene valutare con attenzione questa mossa, che potrebbe addirittura riversarsi contro chi la compie.
Quando sussiste la valida giustificazione ad abbandonare il tetto domestico, non scatta né la sanzione civile (addebito) né quella penale (reato). Tra le cause giustificatrici dell’abbandono del domicilio, i giudici hanno ritenuto, tra le varie ipotesi, anche le seguenti:
- La prosecuzione della convivenza è intollerabile [Cass. Sent. n. 11327/2008.] o reca grave pregiudizio all’educazione della prole;
- La convivenza con i suoceri è difficile e intollerabile [Cass. Sent. n. 11064/1999.];
- Ci sono ragioni di natura economica che impongono o consigliano una diversa residenza, malgrado la contrarietà dell’altro coniuge a stabilirsi nella nuova sistemazione [Cass. Sent. 29.04.1980].
Si può andare via di casa e lasciare una lettera al proprio coniuge? La fuga da casa, giustificata con la volontà di separarsi perché non si è più innamorati, anche se anticipata da una lettera è ugualmente vietata dalla legge, salvo che – come detto prima – il motivo sia da addebitare a cause imputabili all’altro coniuge (per esempio: sue gravi mancanze). L’unica via da seguire, in tal caso, prima di lasciare casa è quella di depositare un ricorso per la separazione (v. dopo).
Quando scatta il reato per l’abbandono del tetto domestico? Commette reato chi esce dalla casa coniugale:
- Con la volontà di non farvi ritorno almeno per un lungo lasso di tempo. Un allontanamento temporaneo non è idoneo ad integrare il reato;
- Se tale comportamento ha come conseguenza cosciente e volontaria il mancato adempimento degli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge. Il sottrarsi a tali obblighi è considerato evento dannoso indispensabile per la sussistenza del delitto in oggetto.
L’assistenza non ha natura esclusivamente materiale ed economica, ma anche morale ed affettiva. Risponde del reato anche chi, dopo aver lasciato la casa coniugale, continua a somministrare i mezzi di sussistenza, ma si disinteressa completamente della moglie e dei figli, rendendosi quindi inadempiente agli obblighi morali inerenti alla qualità di coniuge e di genitore.
C’è comunque da dire che la sanzione penale è stata applicata solo di rado. Per esempio, nei seguenti casi:
- Abbandono improvviso nel quale la volontà di mettere fine al matrimonio era stata manifestata contestualmente ad un repentino e definitivo allontanamento dalla casa. Nel caso di specie, una moglie era partita per la villeggiatura insieme ai figli lasciando al marito una lettera nella quale manifestava l’intenzione di non fare più ritorno nell’abitazione comune e di intraprendere una nuova vita, in un altro luogo, con un nuovo compagno, omettendo di dare notizie al coniuge per molti giorni;
- Allontanamento che cagioni l’inadempimento cosciente e volontario degli obblighi di assistenza familiare;
- Abbandono per la volontà di coltivare senza impacci di sorta una diversa relazione sentimentale. Non sempre l’abbandono del domicilio domestico per l’esistenza di una relazione extraconiugale porta ad una pronuncia di condanna, se non preordinato a violare gli obblighi di assistenza familiare inerenti alla qualità di coniuge.
In che momento si può andare via di casa? Il momento a partire dal quale l’uscita dalla casa coniugale non integra il reato è quello della presentazione della domanda di separazione o di annullamento o di divorzio, senza bisogno di attendere il provvedimento presidenziale che autorizza i coniugi a vivere separati.
Redazione LPT 25 gennaio 2016
www.laleggepertutti.it/109709_abbandono-del-tetto-coniugale
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ADDEBITO
In una causa di separazione possono testimoniare parenti e figli?
Separazione e divorzio, ammesse le dichiarazioni di figli, parenti e affini: la prova è comunque soggetta alla prudente valutazione del giudice.
Come provare la responsabilità dell’altro coniuge e, quindi, chiedere a suo carico l’addebito? Il processo civile, si sa, è regolato dal principio dell’onere della prova carico di chi intende far valere un proprio diritto che, pertanto, dovrà anche dimostrarlo al giudice. Ed è anche noto che le cause, per essere vinte, richiedono spesso un buon testimone (meglio, se più di uno); ciò perché, per determinati eventi, non esistono documenti, né è sempre possibile procedere alla registrazione delle conversazioni. In generale, nelle cause civili, non esistono limiti alla prova testimoniale: chiunque, purché non sia una delle parti in causa o non direttamente interessato agli effetti del giudizio, può testimoniare. Quindi, di norma, possono essere testimoni anche i figli, i genitori, i coniugi (e quindi tanto il marito quanto la moglie), i parenti e gli affini.
Non esiste però un obbligo, per il giudice, di “dare per buono” tutto ciò che dice il testimone: il codice, infatti, stabilisce che le dichiarazioni del testimone vengono liberamente valutate dal magistrato secondo la sua prudente valutazione. Il che, in termini pratici, significa effettuare una ricognizione di ciò che appare verosimile e fondato e di ciò che, invece, è contraddetto da altri elementi. Così, nell’ambito della stessa testimonianza, il giudice può ritenere provati determinati fatti e altri no. Così come può credere a un testimone e non ad un altro
Redazione LPT 25 gennaio 2016
www.laleggepertutti.it/109712_in-una-causa-di-separazione-possono-testimoniare-parenti-e-figli
Moglie e marito entrambi infedeli: che succede?
Separazione con addebito doppio: se i coniugi si tradiscono a vicenda, entrambi perdono il diritto al mantenimento. Quando marito e moglie si tradiscono, reciprocamente e, più o meno, nello stesso periodo, scatta la separazione con addebito a carico di tutti e due i coniugi che hanno reso “intollerabile” il protrarsi della loro convivenza. Non ha alcuna importanza andare a verificare chi, date alla mano, abbia iniziato per prima a tradire: se i due rapporti fedifraghi sono tra loro autonomi (nel senso che l’uno non è causa dell’altro, non avendo uno scopo di vendetta e ritorsione) e si collocano nello stesso periodo, si può dire che entrambi abbiano concorso alla crisi del matrimonio. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza [Cass. Sent. n. 1259, 25 gennaio 2016].
La prova di un’infedeltà del coniuge è certo l’arma migliore e più rapida per ottenere la separazione con addebito a carico dell’ex (sempre che la crisi della coppia non dipenda da cause precedenti al tradimento). Ma chi viene scoperto a tradire può sempre dimostrare che lo stesso comportamento era contemporaneamente tenuto dall’altro coniuge. In questi casi si verifica quello che i giudici chiamano “doppio addebito”.
Cos’è il doppio addebito. Se entrambi i coniugi hanno contribuito a rendere intollerabile la convivenza con comportamenti contestuali e non causalmente connessi, il giudice può addebitare la separazione a entrambi. In tal caso il giudice valuta i comportamenti di entrambi i coniugi come gravemente contrari ai doveri imposti dal matrimonio e astrattamente idonei a produrre la rottura del rapporto coniugale [Cass. Sent. n. 16142/2013, Trib. Milano Sent. 27.02.2013].
Quali sono le conseguenze in caso di doppio addebito? In caso di doppio addebito nessuno dei due coniugi può ottenere l’assegno di mantenimento. In particolare, il giudice non può determinare alcun contributo per il mantenimento del coniuge economicamente più debole o meno colpevole. Il magistrato, inoltre, non può effettuare una graduazione fra le diverse responsabilità né fondare il riconoscimento dell’assegno sulla minore rilevanza che il comportamento di uno dei due ha avuto sulla situazione di intollerabilità della convivenza [Cass. Sent. n. 4204/2006, Cass. Sent. n. 5698/1988, Trib. Milano sent. n. 2781/2009].
Redazione LPT 26 gennaio 2016
www.laleggepertutti.it/109763_moglie-e-marito-entrambi-infedeli-che-succede
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ADOZIONI
Stepchild, una battaglia per soli 529 casi.
Le coppie omosessuali con figli in Italia, secondo il censimento Istat del 2011, sono 529. La statistica si ferma qui. Ma anche ipotizzando una media di 1,5 figli per coppia – più del tasso nazionale – non si arriva neppure a mille minori. Per il Forum delle famiglie il Ddl Cirinnà «fa tornare il diritto minorile indietro di 40 anni, ai bimbi oggetti e non soggetti di diritti». Intanto al Senato il Pd blinda il voto finale sul testo, ma cerca ancora la mediazione. Cresce l’idea della «stepchild temperata».
Le persone, certo, non sono numeri. Ma le cifre aiutano a mettere qualche punto fermo. E soprattutto a definire la platea di riferimento della stepchild adoption, più o meno temperata che sia. Dati precisi di bambini che potrebbero essere interessati alle “novità” del Ddl Cirinnà non ce ne sono. Ma esiste un ordine di grandezza che viene fuori dal censimento Istat del 2011: 529, ricordava ieri l’agenzia Redattore sociale. Queste, infatti, sarebbero le coppie dello stesso sesso con figli tra le 7.513 conviventi. Il numero viene fuori sottraendo ai 16 milioni 648 mila nuclei familiari in Italia quelli monogenitoriali (2 milioni 651 mila); dei 13 milioni 997mila restanti la quasi totalità, cioè 13 milioni 990mila, hanno dichiarato di essere eterosessuali. Ma qui la statistica si ferma, certamente molto lontano dai «100mila figli di coppie omosessuali» che viene talvolta citato, a sproposito, nel dibattito serrato di questi giorni. E sostenuto più volte anche dal Corriere della, Sera.
In più gli italiani, cinque anni fa, furono molto chiari anche sull’adozione di un bambino da parte di omosessuali. Chiudendo totalmente – 4 su 5 – a questa possibilità. Anche i giovani tra i 18 e i 34 anni, di solito più disponibili alle novità, in misura superiore ai tre quarti.
Al di là, comunque, dell’opinione diffusa tornano in aiuto i numeri per arrivare alla conclusione che l’articolo 5 del Ddl Cirinnà nasconda in realtà la volontà di far rientrare dalla finestra una pratica vietata in Italia: l’utero in affitto. Per capire, infatti, quanto la cifra dei 100miia bambini sia campata in aria, basta confrontarla con le statistiche ufficiali degli altri Paesi. Una comparazione fatta più volte anche da Mani pour tous Italia. Anche negli Stati considerati su questi temi “all’avanguardia”, il numero dei figli che vivono nella stessa casa di coppie omosessuali non si avvicina neppure alla cifra a cinque zeri. In Gran Bretagna, il censimento 2014 ha dimostrato che su 84mila coppie same sex, 9mila hanno figli. Negli Stati Uniti sono 200mila, ma su una popolazione di 318 milioni di abitanti. Un po’ improbabile, perciò, che in Italia siano 100miia su 59 milioni.
Nel nostro Paese l’Istat certifica che ci sono almeno 529 coppie dello stesso sesso con figli che convivono. Il numero dei minori però può essere solo stimato. Se si pone il criterio di 1,5 figli (anche più della media nazionale) per coppia si sale a 793, se si ragiona invece su due figli per coppia si arriva a 1.058. Pur considerando così la quota dei bambini che vivono con coppie gay che hanno scelto di non dichiarare l’orientamento sessuale – il 15% secondo l’istituto di statistica – i risultati continuano ad essere infinitamente sotto 100mila.
Se non bastasse, si può prendere in considerazione pure l’indagine di ormai 10 anni fa dell’Arcigay Modi.Di. Lo studio arriva a ipotizzare che il 5% della popolazione omosessuale abbia un figlio. Se per l’Istat gli omosessuali in Italia sono un milione, allora 50mila persone nel nostro Paese avrebbero un genitore omosessuale (la gran parte frutto di relazioni eterosessuali precedenti). Per arrivare ai 100mila sbandierati quindi servirebbe una quota di “non dichiarati” all’interno della popolazione censita nel 2011 del 100%. Cioè, statisticamente, un assurdo. In entrambi i casi, comunque si tratterebbe ugualmente di figli che hanno padre o madre che si sono dichiarati omosessuali al momento del sondaggio. E non di figli che vivono in coppie gay. Eppure qualcuno, dimenticando che la matematica non è un’opinione, vorrebbe farci credere il contrario.
Alessia Guerrieri Avvenire 27 gennaio 2016
www.avvenire.it/Politica/Pagine/Stepchild-una-battaglia-per-soli-529-casi-.aspx
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AFFIDI
Nessuno sa quanti siano davvero i bambini in mano alle strutture per minori oggi in Italia
In Italia le strutture per minori sono un mondo opaco, dimenticato dalla legge e dall’opinione pubblica. Tantissimi bambini lasciati nelle comunità, perché darli in adozione significa far perdere la retta all’istituto che li ospita. Anni perché i tribunali prendano decisioni.
Figli dello Stato. Figli di nessuno. I minori, orfani o allontanati dai genitori, parcheggiati nelle case famiglia e nelle comunità di tutta Italia sono circa 30-35mila (anche se dati certi non ne esistono). Bambini alle prese con la burocrazia già a uno, due, tre, quattro anni. Entrano in una struttura, in attesa di tornare a casa o essere adottati, e non sanno quando ne usciranno. Incastrati in un mondo nebuloso fatto di cooperative, istituzioni, servizi sociali e tribunali in cui circolano fiumi di denaro. Un miliardo di euro l’anno, o forse più. Delle strutture che li ospitano non si sa neanche quante siano – il Garante per l’infanzia ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale solo a novembre 2015. Né si sa quanto costino davvero alle casse pubbliche, visto che le rette da pagare variano dai 40 ai 400 euro al giorno. Erogate finché il minore resta tra le mura della comunità. E un bambino adottato in più, significa sempre una retta in meno.
La media di permanenza nelle strutture è di circa tre anni. Anche gli affidamenti temporanei, che dovrebbero durare al massimo due anni, spesso vengono rinnovati diventando sine die. In attesa di un decreto del tribunale dei minorenni che, a volte, non arriverà mai. Tant’è che su diecimila coppie che chiedono di adottare un bambino italiano, solo una su dieci alla fine ci riesce (leggi l’articolo sul disastro delle adozioni in Italia).
Business case famiglia. Niente controlli, niente trasparenza. Si spendono fino a 150 mila euro l’anno a bambino. Quelli che chiamavamo orfanotrofi, con i letti e castello e le camerate comuni, in teoria dal 2001 non dovrebbero esistere più. Ora si parla di case famiglia, dove una coppia ospita un numero ridotto di minori cercando di riproporre la formula familiare. O di comunità, educative o terapeutiche, gestite da addetti ai lavori. Ma in questo caso siamo alla vecchia formula che doveva scomparire e che invece rimane: è cambiato solo il nome. La retta per ogni bambino ospitato viene pagata dai Comuni. Ma un tariffario nazionale di riferimento non esiste. Ognuno fa a modo suo, come se si trattasse di un mercato qualunque. Le rette più basse si pagano al Sud, dove si toccano anche i 40 euro al giorno. Quelle più alte vengono richieste nelle comunità terapeutiche, giustificate anche dalla presenza di personale più qualificato, oltre che di psicologi e psichiatri incaricati dalle Asl. Ma anche qui le escursioni di prezzo sono enormi: da 70 fino a oltre 400 euro. Per un totale di 150mila euro all’anno per un solo bambino. E i Comuni pagano. Quando non se lo possono più permettere, le strutture chiudono e i bambini vengono parcheggiati altrove, dove c’è qualcun altro disposto a pagare. Come è successo alla comunità “Hansel e Gretel” di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno.
«Spesso le somme richieste non sono giustificate», dice Cristina Franceschini, avvocato e presidente della onlus “Finalmente liberi”. «Sono somme che i comuni potrebbero versare alle famiglie in difficoltà per attuare un progetto alternativo ed evitare che i figli vengano allontanati». Il collocamento del bambino nella comunità deve essere l’ultima soluzione. Lo dice anche il garante per l’infanzia. Ma sempre più spesso diventa la prassi. Intanto, le comunità proliferano e le rette pure. Una comunità in provincia di Treviso per tre anni ha ricevuto 400 euro al giorno per minore. Solo dopo le interrogazioni presentate in consiglio regionale, è arrivata la delibera che ha abbassato la retta a 200 euro. «Non si sa quindi perché prima si pagasse il doppio», dice l’avvocato. Una cifra simile, poco meno inferiore ai 400 euro (395 euro e 20 centesimi), si è raggiunta in un’altra comunità umbra. Per una spesa complessiva annua di oltre 137mila euro per assistere un solo minore Soldi che escono dalle casse pubbliche ed entrano in quelle di case famiglia e comunità. Spesso in assenza di controlli e senza alcuna trasparenza. I Comuni autorizzano le comunità ad aprire le porte ai bambini solo sulla base di autocertificazioni fornite dalle strutture stesse. Che stabiliscono anche le rette da ricevere, in base agli affitti da pagare e al numero di educatori assunti. Gli accreditamenti ufficiali vengono regolati dalle leggi regionali, e in molti casi arrivano solo in un secondo momento. Intanto, si comincia a lavorare. C’è sempre qualche bambino da sistemare. «Che sia una casa famiglia o una comunità non importa, se c’è urgenza non si fa troppa differenza», raccontano gli operatori.
Ogni Regione stabilisce poi le modalità di controllo. Ci sono quelle che fanno ispezioni puntuali, altre che – anche per mancanza di fondi – non le fanno quasi mai. Lo stesso garante per l’infanzia ha parlato di «criticità» sul «tema dei controlli». Finché non arrivano le segnalazioni e le indagini della magistratura. L’ultimo caso è esploso a Licata, Agrigento. In una comunità per minori con disabilità psichiche, i ragazzini sono stati trovati legati con catene e scotch, costretti addirittura a mangiare i propri escrementi. Ma anche a Foggia, a luglio 2015, sono state arrestate le educatrici di una comunità, accusate di maltrattamenti sui minori. E a giugno 2015 si è concluso il processo che ha coinvolto il Forteto di Vicchio del Mugello, con la condanna in primo grado del fondatore e di altre 15 persone per maltrattamenti e abusi sessuali. La comunità, in questo caso, rifiutava le rette comunali: un gesto di apparente solidarietà, che negli anni ha tenuto lontani anche i controlli.
Anche perché, nella maggior parte dei casi non esistono rendicontazioni dettagliate delle spese sostenute dalle strutture. Non si sa quanta parte della retta serva per il sostegno del minore, e quanta liquidità resti invece nelle tasche della comunità. «Essendo per lo più cooperative e onlus, presentano bilanci stringati con pochissime voci, senza entrare nel dettaglio», dice Franceschini. Lo conferma anche un operatore di una struttura milanese: «Il Comune non ci ha mai chiesto una rendicontazione delle spese. Pubblichiamo annualmente il nostro bilancio, ma più che altro per dare conto ai donatori privati che ci sostengono». Tanto che ci sono casi limite in cui il Comune paga anche per i giorni in cui il bambino non è in comunità. «Per un minore che ho seguito, venivano spesi 310 euro al giorno», racconta l’avvocato Franceschini. «Nei due giorni a settimana in cui il ragazzo tornava a casa dai genitori, il Comune pagava comunque 290 euro».
I giudici minorili: un anno per prendere una decisione, mentre il bambino rimane chiuso in una struttura. Ma le maglie dei controlli non sono larghe solo nella gestione economica delle strutture. Bisogna guardare anche i nomi coinvolti. La onlus Finalmente Liberi nell’estate del 2015 ha presentato un dossier sulla incompatibilità di ben 211 giudici onorari minorili che ogni giorno nei tribunali decidono su adozioni e affidamenti a case famiglia, ma che sono anche fondatori, azionisti, consiglieri delle strutture per minori (in contrasto con quanto previsto da una circolare del 2010 del Consiglio superiore della magistratura) o anche solo dipendenti. La domanda che si sono posti è lecita: come fanno a decidere se tenere o meno i minori nelle case famiglia, se hanno interessi in queste stesse strutture? Ogni bambino in meno è una retta in meno, si diceva.
Alla fine il Csm si è mosso: con una nuova circolare sull’affidamento degli incarichi dei giudici onorari minorili, ha stabilito che non potranno avere non solo cariche rappresentative nelle strutture comunitarie per i minori ma neanche lavorarvi a vario titolo. Né loro, né i familiari più vicini. Ma i nuovi criteri saranno applicati nel giro di nomine per il triennio 2017-2020. Quindi, per il momento, chi aveva interessi da una e dall’altra parte potrà continuare a stare con un piede in una scarpa e con un piede in un’altra. Ma con l’apertura delle nuove candidature tra Brescia e Genova, qualcuno si sta già tirando indietro.
Perché molto spesso l’ingranaggio che fa soggiornare i bambini nelle comunità oltre i tempi dovuti si ferma proprio all’altezza dei tribunali dei minorenni. Gli assistenti sociali lavorano tutti sull’onda delle emergenze, visto che una sola persona si trova anche a seguire da 80 a 100 minori. Così «passano mesi in attesa di una risposta da parte dei tribunali per capire cosa ne sarà di un bambino», racconta un operatore. «Ci è capitato il caso di un minore che non vedeva più i genitori di origine da un pezzo. Abbiamo aspettato un anno per l’arrivo del decreto che ha dato via libera all’adozione. Nel frattempo un bambino di sette anni ha passato un altro anno della sua vita in una casa famiglia. Con tutto quello che questo comporta».
I dati: tra strutture e affido non sappiamo quanti sono gli orfani. Del resto, in Italia, non si sa neanche con precisione quante siano le strutture accreditate e quanti minori ospitino. Un database comune non esiste. Per legge, ogni sei mesi le comunità dovrebbero comunicare alle procure presso i tribunali dei minorenni il numero di bambini presenti nelle strutture. Ma non tutti lo fanno e non si è mai arrivati a una sintesi nazionale. Si è scomodato più volte anche il Comitato dell’Onu sui diritti dell’infanzia per segnalare all’Italia questa mancanza. Persino i dati di Procure e Regioni non coincidono. Solo a novembre 2015, sull’onda dell’interesse mediatico intorno agli affidamenti minorili e dopo la circolare del Csm, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale. Sono stati chiesti alle 29 procure minorili i dati sul numero di minori collocati in comunità. E «sebbene i dati avuti non arrivino ancora al dettaglio», scrive il garante Vincenzo Spadafora, «ora sappiamo che al 31 dicembre 2014 i minorenni a vario titolo collocati nelle comunità erano 19mila». Ma da questa cifra mancano i dati dei ragazzi collocati nelle famiglie affidatarie, che in base ai report passati erano più o meno lo stesso numero di quelli inseriti nelle comunità. Le strutture conteggiate sono 3.192, ma senza una differenziazione per tipologia. Non solo: in alcune regioni le autorità amministrative e sanitarie che autorizzano le aperture delle comunità per i minori non ne danno comunicazione alle procure. Quindi i dati risultano incompleti. Servirebbe un database comune, scrive il garante, ma «si prospettano tempi lunghi».
Gli altri numeri a disposizione sono quelli del ministero del Lavoro e delle politiche sociali: i dati relativi al 2010 parlano della presenza di circa 40mila minori fuori famiglia; l’aggiornamento del 2012 registra 29mila bambini nelle strutture, ma nel conteggio generale mancano Lazio, Abruzzo, Basilicata e Calabria e non viene considerato il flusso di altri 10mila bambini che si sono avvicendati nel corso dell’anno. Per ultimo, c’è anche l’indagine Istat sui presidii socio-assistenziali e socio-sanitari, anche questa relativa al 2012, che conteggia 11.571 strutture con circa 373mila posti letto, di cui il 38% occupati da minori. Risultato: in mezzo a tanti conteggi approssimativi, nessuno sa quanti siano davvero i bambini in mano alle strutture per minori oggi in Italia. Una merce preziosa che conviene tenere nell’ombra. Mentre le richieste di adozioni nazionali calano di anno in anno.
Lidia Baratta l’inkiesta 21 gennaio 2016
www.linkiesta.it/it/article/2016/01/21/orfanotrofi-umiliati-e-offesi/28975
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AFFIDO CONDIVISO
Condannato il padre che vede la figlia solo alla presenza della nuova compagna.
Tribunale di Roma, prima Sezione civile, sentenza 23 gennaio 2015
Per il Tribunale di Roma l’uomo è responsabile di violazione degli obblighi stabiliti al momento dell’affido condiviso. Il genitore che propone alla figlia di trascorrere il tempo insieme solo in presenza della sua nuova compagna è responsabile di violazione degli obblighi stabiliti al momento dell’affido condiviso. A stabilirlo è il Tribunale di Roma (sentenza allegata), condannando, in un giudizio di separazione giudiziale, un padre a versare alla figlia un risarcimento di 15mila euro per non aver adempiuto correttamente agli obblighi di visita fissati dal giudice nel disporre l’affido condiviso della minore.
Dalla separazione l’uomo, infatti, aveva tenuto una condotta caratterizzata da una perdurante assenza nei confronti della figlia, prima perché trasferitosi all’estero insieme alla nuova compagna e poi perché, una volta tornato in Italia, si era limitato a proporre alla stessa di trascorrere i fine settimana di sua spettanza presso l’abitazione della partner, dove lui stesso risiedeva. A queste proposte, la figlia aveva sempre opposto un secco rifiuto, ma l’uomo, afferma il tribunale capitolino, era “rimasto sordo, nell’incapacità di scindere il proprio ruolo genitoriale e gli inevitabili sacrifici che ne conseguono dalle proprie relazioni sentimentali, alla silente ma chiarissima richiesta di attenzione e soprattutto di esclusività – proveniente dalla figlia – lasciando che quegli stessi incontri, rimasti senza seguito, si trasformassero agli occhi della ragazza in un’ennesima cocente delusione”.
Una condotta che non può che essere inquadrata tra quelle sanzionabili ex art. 709-ter del codice civile “al fine di una sostanziale coartazione all’adempimento dei doveri genitoriali, per il pregiudizio arrecato alla minore con la propria omissiva condotta nell’esercizio dell’affido condiviso”. E la sanzione più consona, a detta del collegio romano, “tenuto conto che le omissioni paterne hanno avuto ricaduta diretta sulla minore vistasi di fatto privata dall’imprescindibile figura di riferimento paterna e che la mutilazione affettiva ha gettato in uno stato di palese sofferenza”, è quella del risarcimento del danno che, data la durata dell’inadempimento e le condizioni economiche del padre, va quantificato in 15mila euro da versarsi su un libretto di risparmio intestato alla minore, con vincolo giudiziale fino alla maggiore età.
Marina Crisafi Studio Cataldi.it 24 gennaio 2016 sentenza
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ANONIMATO
Lettera aperta Non lasciamo sole le gestanti in gravi difficoltà.
Vorremmo fare alcune considerazioni sul delicato tema del ritrovamento di neonati che vengono abbandonati, spesso a poche ore dalla nascita, come di recente accaduto a Civitanova Marche, e avanzare specifiche richieste ai mezzi di informazione rispetto alla modalità con cui questi drammatici episodi vengono riportati. Quando avvengono questi ritrovamenti di neonati fortunatamente vivi, oppure, talvolta, ormai senza vita, gettati nei cassonetti o nei bagni pubblici, si solleva nell’opinione pubblica un’ondata di condanna; pochi, però, si interrogano sui motivi che hanno determinato la condotta degli autori di questo atto; pochi pensano alla solitudine in cui le partorienti vengono lasciate in momenti così drammatici della loro vita e al dolore che accompagna questo loro gesto così disperato.
I mezzi di informazione stigmatizzano severamente l’accaduto, ma tralasciano spesso di ricordare che le partorienti, comprese le extracomunitarie senza permesso di soggiorno, che non intendono riconoscere e provvedere personalmente al proprio nato, hanno diritto a partorire in assoluta segretezza negli ospedali e nelle strutture sanitarie, garantendo, in tal modo, a se stesse e al neonato, la necessaria assistenza e le opportune cure. Com’è noto, nel caso in cui non sia stato effettuato il riconoscimento, l’atto di nascita del bambino è redatto con la dizione “nato da donna che non consente di essere nominata” e l’ufficiale di stato civile, dopo aver attribuito un nome e un cognome, procede entro dieci giorni alla segnalazione al Tribunale per i Minorenni ai fini della dichiarazione di adottabilità ai sensi della legge 184/1983. In tal modo, a pochi giorni dalla nascita, il piccolo viene inserito in una famiglia adottiva, individuata dal Tribunale fra quelle che hanno presentato domanda di adozione al Tribunale stesso. Sono circa 350 all’anno i neonati non riconosciuti che, grazie a queste disposizioni, vengono adottati.
Troppe poche volte vengono richiamate le autorità competenti ai loro precisi compiti istituzionali per garantire alle donne in gravi difficoltà la dovuta assistenza prima, durante e dopo il parto: sempre più frequentemente, purtroppo, di fronte a questi episodi, vengono attivate iniziative quali le culle/ruote termiche, che oltre a deresponsabilizzare le istituzioni, rischiano di incentivare i parti in ambienti inidonei, privi della più elementare assistenza sanitaria, con gravi pericoli per la salute e la sopravvivenza della donna e del neonato.
Come evidenziato nell’l’8° Rapporto CRC [acronimo di Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child)], presentato nel giugno 2015 “nell’intenzione dei loro promotori, le culle dovrebbero contrastare l’abbandono dei neonati, tuttavia non solo si sono rivelate inefficaci a realizzare tale obiettivo, ma rischiano di incentivare i parti in ambienti privi della più elementare assistenza sanitaria, con gravi pericoli per la salite e la vita stessa della donna e del neonato”.
Finora sono stati pochissimi i neonati depositati garanzie sanitarie per la donna e il neonato: presenza costante di una ostetrica durante tutta la durata del travaglio e nella giornata successiva al parto, possibilità di ricorso all’intervento immediato di un ginecologo e di un neonatologo in caso di complicazioni impreviste, ecc. Inoltre le culle, a differenza dei parti in ospedale, non offrono la possibilità di raccogliere i dati sanitari della partoriente, relativi ad esempio a possibili malattie geneticamente trasmettibili o altro, la cui conoscenza potrebbe rivelarsi utile, in futuro, per il loro nato.
Infine, riteniamo che i giornalisti che riportano queste tristi vicende sui media, dovrebbero astenersi dall’esprimere facili giudizi sulle partorienti che sono state spesso costrette ad abbandonare i loro nati. Chi per mestiere si occupa di “fare informazione” dovrebbe, invece, fornire precise indicazioni sul diritto riconosciuto a tutte le donne di partorire in anonimato, evidenziando che, per una donna, avvalersi di questo diritto rappresenta una scelta estremamente difficile, che deve essere rispettata e che denota un grande senso di responsabilità verso la vita nascente.
A proposito delle competenze istituzionali in materia, va segnalato che la Legge 328/2000, “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” all’art. 8, comma 5, ha attribuito alle Regioni il compito di disciplinare il trasferimento ai Comuni o ad altri Enti Locali delle funzioni di cui al Regio Decreto citato. Alle Regioni compete, quindi, di definire il passaggio ai Comuni o ad altri Enti Locali delle risorse umane, finanziarie e patrimoniali occorrenti per l’esercizio delle funzioni suddette.
A tutt’oggi ci sono Regioni che non hanno ancora legiferato in materia ed altre (come Lombardia ed Emilia-Romagna) che lo hanno fatto, attribuendo però a tutti i Comuni tali competenze, non tenendo conto della complessità e varietà delle problematiche coinvolte. Spesso le partorienti necessitano di interventi specifici, altamente specializzati, legati alla loro difficile condizione, che i piccoli Comuni non sono in grado di garantire. Inoltre, accanto a gestanti che hanno deciso di riconoscere il loro nato e prendersene cura, potendo contare sul supporto dei servizi socio-assistenziali del proprio territorio e degli interventi sopra richiamati, ci sono anche donne incerte, che non sanno se riconoscere il figlio o meno, e altre ancora che hanno già deciso di non riconoscerlo, avvalendosi del diritto alla segretezza del parto. Infine ci sono donne che non sono a conoscenza del loro diritto di partorire in anonimato e, dunque, non accedono ai servizi preposti.
Al riguardo va segnalata la positiva Legge 16/2006 della Regione Piemonte in base alla quale sono stati individuati quattro Enti Gestori cui sono state attribuite le competenze relative agli interventi socioassistenziali nei confronti di queste gestanti, interventi che devono essere forniti su semplice richiesta dell’interessata, indipendentemente dalla sua nazionalità.
Donata Nova Micucci, Presidente Anfaa 22 gennaio 2016 www.anfaa.it
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Le spese universitarie dei figli non aumentano l’assegno di mantenimento
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 439, 14 gennaio 2016
Avv. Giuseppe Tripodi sentenze Cassazione 25 gennaio 2016 ordinanza
www.sentenze-cassazione.com/separazione-le-spese-universitarie-dei-figli-non-aumentano-lassegno-di-mantenimento
Assegno di mantenimento all’ex moglie: quando non c’è reato.
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 3741, 28 gennaio 2016.
Omesso versamento del mantenimento al coniuge: il reato di mancata prestazione dei mezzi di sussistenza ai familiari, la giustificazione della disoccupazione o del reddito basso. Chi non versa il mantenimento all’ex coniuge rischia una condanna penale per mancata prestazione dei mezzi di sussistenza ai familiari, salvo che dimostri un’incapacità economica assoluta, ossia una totale assenza di redditi oggettiva e incolpevole. È quanto chiarito dalla Cassazione nella sentenza.
Mancata prestazione dei mezzi di sussistenza ai familiari. Il codice penale [Art. 570 co. 2, cod. pen.] punisce il comportamento di chi fa mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro, oppure all’ex coniuge (salvo nel caso quest’ultimo abbia subito la cosiddetta “separazione con addebito”). La pena è la reclusione fino ad un anno e la multa da 103 a 1032 euro.
Il reato è perseguibile a querela di parte (ossia solo se l’ex coniuge sporge denuncia), ma qualora vi siano dei figli minori diventa procedibile d’ufficio, per cui l’eventuale rimessione della querela non blocca il procedimento. Le condotte che possono dar luogo a una condanna per “mancata prestazione dei mezzi di sussistenza” sono le seguenti:
- Il genitore se fa mancare i mezzi ai figli minorenni o ai figli inabili al lavoro;
- Il coniuge quando fa mancare tali mezzi all’altro coniuge, anche se è intervenuta separazione, purché la separazione non gli sia stata addebitata con sentenza passata in giudicato. Per il coniuge divorziato, invece, sono previsti altri strumenti a condizione che a suo favore sia stato disposto il pagamento di un assegno;
- Il figlio quando fa mancare i mezzi agli ascendenti (genitori e nonni in condizioni di disagio economico).
Il dovere di provvedere al mantenimento dei figli e quindi di fornire loro i mezzi di sussistenza non viene meno neppure per chi è stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale.
Le condizioni affinché scatti il reato. La condanna non scatta per il semplice fatto di non aver versato il mantenimento, ma solo a patto che sussistano anche le seguenti condizioni:
- Il familiare deve versare in stato di bisogno;
- Il soggetto obbligato a versare il mantenimento deve avere la concreta capacità di fornire i mezzi di sussistenza. Se l’obbligato si trova nell’impossibilità assoluta e incolpevole di somministrare tali mezzi, non c’è nessun reato (sul punto torneremo dopo);
- La mancata assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza. Per “mezzi di sussistenza” si intendono i bisogni elementari dell’uomo come vitto, alloggio, canoni per luce e gas, abbigliamento, medicinali e le altre più strette necessità inerenti direttamente al sostentamento; spese di l’istruzione dei figli ed altri beni importanti per il beneficiario anche se rispondenti ad esigenze qualificabili come secondarie (si pensi ad un computer per studiare e, oggi, si potrebbe anche pensare al cellulare, ai mezzi di trasporto).
Il reato scatta anche se l’inadempimento è parziale: si pensi all’ordine del giudice di versare un assegno periodico di 400 euro, mentre il soggetto obbligato ne versa solo 200 per due mesi successivi. Non c’è, invece, reato, in caso di brevi ritardi [Cass. Sent. n. 25596/2012]. Il reato sussiste anche se non c’è alcuna sentenza del giudice che impone al familiare di pagare un assegno (è il cosiddetto giudizio di separazione o divorzio che fissa la misura dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge o dei figli); infatti l’obbligo di non far mancare i mezzi di sussistenza deriva, prima ancora che da un provvedimento del giudice, dalla legge (ossia dal codice penale e da inderogabili principi di solidarietà del nostro ordinamento).
La sanzione penale colpisce chi si sottrae agli obblighi di assistenza anche se altri soggetti, ad esempio l’altro genitore o i nonni provvedono in concreto al mantenimento del figlio.
Come evitare il reato. Per evitare l’incriminazione per il reato di mancata prestazione dei mezzi di sussistenza ai familiari, è necessario che il soggetto obbligato dimostri di non avere redditi e che ciò non dipenda da propria volontà. Il che, in altre parole, per l’ipotesi più frequente del disoccupato, è necessario provare di aver fatto di tutto per trovare un’altra occupazione o, per esempio, di aver subìto una malattia che abbia compromesso le proprie capacità lavorative. Le semplici sopravvenute ristrettezze economiche non sono sufficienti ad evitare la condanna penale. Infatti, secondo la giurisprudenza, le necessità dei figli sono prioritarie rispetto a quelle del genitore che è obbligato a sacrificare ulteriormente la propria personale condizione per adempiere gli obblighi di assistenza familiare. Il genitore obbligato non commette reato solo se la sua incapacità economica è incolpevole e assoluta.
Secondo l’orientamento della cassazione, infatti, l’incapacità economica, per giustificare la sospensione dell’assegno di mantenimento, deve essere di tipo assoluto, involontario e incolpevole, tanto da integrare una situazione persistente e oggettiva di indisponibilità di introiti. Il reato, dunque, non scatta tutte le volte in cui il familiare che si trovi in uno stato di indigenza tale da non consentire neppure un adempimento parziale. Tale condizione deve essere provata e non solo affermata dall’imputato e viene valutata severamente dai giudici, specialmente quando il beneficiario dell’obbligo di assistenza è un minore.
Lo stato di indigenza che impedisce di fare fronte ai propri obblighi deve essere involontario e incolpevole. Il reato scatta ugualmente se il genitore dichiara di essere stato in difficoltà economica senza però dimostrare tale circostanza. Allo stesso modo c’è responsabilità penale per il genitore che non adempie al mantenimento del figlio limitandosi a dedurre il suo stato di disoccupazione senza provare adeguati elementi utili a comprovare la presenza di difficoltà economiche tali da tradursi in un vero e proprio stato di indigenza economica.
Infine, c’è illecito penale nell’ipotesi in cui il padre non versi al figlio minore il denaro necessario per le esigenze basilari della vita, pur facendogli numerosi regali costosi, addirittura di valore superiore all’assegno di mantenimento.
Redazione LPT 31 gennaio 2016
www.laleggepertutti.it/110220_assegno-di-mantenimento-allex-moglie-quando-non-ce-reato
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BIOETICA
Il Papa ci aiuta a riflettere su questioni bioetiche.
Nell’udienza al Comitato nazionale di bioetica, Papa Francesco ha messo l’accento sull’impegnativo compito sostenuto da questo organismo su questioni molto delicate, dall’eutanasia alla maternità surrogata alla selezione genetica. Intervista alla vicepresidente, la prof.ssa Laura Palazzani:
R. – Ci sono moltissimi temi attualmente all’ordine del giorno. Prevalentemente legata al tema dell’unione civile, è ritornata la quesitone della maternità surrogata. A marzo ci sarà la discussione di un progetto di legge sull’eutanasia. Sono questi i due temi veramente caldi su cui la politica sta tornando a riproporre l’attenzione nell’ambito della bioetica. Ma ci sono tanti temi che non sono stati ancora approfonditi adeguatamente. Ad esempio, la questione della regolazione della fecondazione eterologa è rimasta ancora altamente problematica dopo il recente intervento della Corte costituzionale e anche la questione della selezione genetica per quanto riguarda le questioni inizio vita. Il Comitato nazionale ha recentemente elaborato vari pareri proprio per richiamare l’attenzione del governo su alcune questioni che noi riteniamo fondamentali, anche dal punto di vista della politica o della biopolitica.
. – Nello svolgere la vostra missione, come tenere conto del pluralismo che caratterizza la nostra società sotto il profilo ideologico-religioso, sia con riguardo ai diversi approcci educativi e giuridici?
R. – Il nostro metodo di lavoro è proprio il pluralismo. Ci sono esperti di diverse discipline, di posizioni etiche diverse, e tutti hanno la possibilità di esprimersi e di argomentare la propria posizione. Lo sforzo che facciamo come Comitato nazionale per la bioetica è di ascoltarci, di capirci e di cercare – forse questa è la parte più impegnativa – di elaborare, anche laddove ci sono delle divergenze, delle posizioni molto diverse da un punto di vista etico. Di lavorare per trovare delle raccomandazioni comuni, perché noi comunque ci rivolgiamo al legislatore e dobbiamo cercare di dare a quest’ultimo delle chiavi – chiamiamole “etiche minime”, come oggi va un po’ di moda – per dare degli orientamenti comuni. Adesso, dobbiamo dedicarci molto alle questioni interreligiose.
D. – Una della vostre sfide principali è quella di stimolare un dibattito o, meglio, una riflessione pubblica su determinati temi. Come valuta il lavoro svolto fin qui dal Comitato?
R. – Noi ci dedichiamo molto a questo, perché il nostro compito non è solo rivolgerci al governo, al parlamento in vista di una regolazione di queste problematiche, ma anche rivolgerci alla società che deve essere adeguatamente informata dei problemi nuovi emergenti. Infatti, alcuni pareri sono proprio dedicati all’informazione. Noi organizziamo ogni anno – ormai da più di dieci anni – conferenze per le scuole dove abbiamo creato una rete di contatti proprio per rivolgerci ai ragazzi giovani, che sono appunto le generazioni future che devono prendere coscienza di questi problemi emergenti. Poi, organizziamo degli incontri anche con gli universitari e con la cittadinanza. L’anno scorso a Trento abbiamo organizzato il nostro primo Convegno aperto alla cittadinanza, perché riteniamo che siano temi su cui ognuno di noi, come componente del Comitato, intenda aprirsi al dialogo con tutti per poter offrire il proprio contributo.
D. – Che contributo offrono gli appelli di Papa Francesco e quanto secondo lei incidono nel dibattito bioetico?
R. – Devo dire che la lettura dell’ultima Enciclica “Laudato si’”, per chi come me è una studiosa di bioetica, è veramente di grandissimo interesse. Tocca moltissimi temi che non riguardano solo il tema ecologico, come si può pensare ad un primo approccio, ma affronta a 360 gradi tantissimi problemi che sono di degrado non solo ecologico, ma sociale e umano, con una particolare attenzione proprio alle condizioni di vita di particolari fragilità e vulnerabilità causate ad esempio dalla malattia, dal disagio socio-economico. Direi che questa Enciclica, per chi studia bioetica, è un punto di riferimento essenziale dal quale attingere in vista dell’elaborazione di pareri futuri.
Notiziario Radio vaticana – 28 gennaio 2016 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
Tra «io» e «atto» non c’è diritto di usare gli altri.
Ogni persona vale ed è più della sua scelta. Nell’attuale, confuso, spesso fazioso dibattito sul riconoscimento legale di unioni tra persone che si definiscono omosessuali, c’è un elemento che, se troppo taciuto, fa perdere senso al confronto, che invece potrebbe essere salutare e non solo sterile contrapposizione. L’io, l’identità di una persona non è definita dalle sue scelte. È caratterizzata, certo, ma non definita. Per questo accettare – come vogliono opposte ideologie – che uomini e donne si definiscano in quanto omosessuali o eterosessuali è fuorviante. Lo è tanto quanto definire una persona “ebreo” o “nero”. La persona, questo meraviglioso misterioso organismo di corpo e spirito, è definito da qualcosa che gli conferisce un valore assoluto, prima e al di là delle scelte che compie e della cultura che vive.
Il suo essere creatura di Dio, per chi crede, o l’esser definito da qualcosa senza misura, per chi non accoglie l’ipotesi religiosa, è il problema in gioco oggi. Questo legame con l’infinito toglie l’essere umano dalla disponibilità di ogni potere. E lo alza sopra ogni disegno di uso e di abuso che se ne voglia fare. Per questo, come segno di rispetto di affermava: Questo legame con l’infinito toglie l’essere umano dalla disponibilità di ogni potere. E lo alza sopra ogni disegno di uso e di abuso che se ne voglia fare. Per questo, come segno di rispetto di tale valore, la saggezza popolare affermava: «Si dice il peccato, ma non il peccatore». O, in altro campo, un uomo che si macchia di un reato non “coincide” con quel reato, non ne è definito totalmente e perciò si tenta di recuperarlo. La separazione tra “io” di valore assoluto e “atto” (o scelta) che invece può e deve essere oggetto di discussione, di apprezzamento o di accusa, in quanto frutto spesso di fluttuanti volontà o di mode dettate dal pensiero dominante, è uno dei pilastri fondamentali di un sapere che custodisce l’intangibilità della persona. Vale anche per la malattia.
Un uomo non è la sua malattia, non è – come si pensava prima di Cristo, e ancora in certe civiltà – esito di colpa o errore di natura. Per questo è possibile dire che in quanto tale un uomo che ha compiuto un atto grave o che vive una dura condizione di handicap vale quanto il presidente degli Stati Uniti o una meravigliosa star. Insistere, come fa la filosofia detta “gender”, che la identità di una persona consista nelle sue scelte o nelle sue tendenze è perciò un grave attentato al valore in sé della persona. Non si separa più tra persona e atto. Tu sei un omosessuale, tu sei un eterosessuale. No, tu sei Mario, tu sei Giuseppe, tu sei rapporto con il Mistero che ti fa. Poi discutiamo sugli atti e sulle scelte. Non a caso tale filosofia, nata nei dipartimenti umanistici dall’incontro del materialismo con l’individualismo americano, non avendo più un fondamento di valore esterno alle scelte e sposando, appunto, una idea di società individualistica, finisce per fissare l’identità in certe caratteristiche o tendenze. E ovviamente, chiede che queste identità non siano discriminate dalle leggi.
Se a questo si oppone un modo di vedere contrario sulle scelte legislative, ma identico nel modo di pensare alla persona, beh, il dibattito è inutile. È solo scontro di potere. Il motivo per cui si possono pensare forme di unione (di contratto) tra persone che vogliono convivere, senza che questo coincida con il poter “usare” di una terza persona (figlio, donna in affitto ridotta al suo utero etc.) mi pare il modo più saggio per uscire da questa diatriba. È sacrosanto manifestare perché le leggi non stravolgano il senso delle parole (non è un matrimonio se non c’è mater munus, ovvero protezione dei figli generati, ma può esservi un altro tipo di contratto) e perché si proteggano i diritti dei più deboli da un commercio iniquo, contro la dignità della donna.
Ma il vero tema resta sul campo, decisivo. Lo ha gridato Leopardi alla luna: «E io che sono?». Una certa ansia che soprattutto nei giovani si nota deriva dal fatto che se «io sono quello che scelgo e che faccio», nel momento in cui commetto un errore, magari una baggianata, avverto il mio essere tutto definito dallo sbaglio. E ciò genera ansia e una dipendenza ansiogena dal giudizio altrui (spesso drogato da forme di chiacchiera social). Occorre un nuovo movimento di liberazione dell’io. Di questo il cristianesimo autenticamente vissuto si è sempre fatto carico, perché nato da un Dio che ama smisuratamente l’io di ciascuno
Davide Rondoni Avvenire 28 gennaio 2016
Tra “io” e “atto” non c’è diritto di usare gli altri.
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CHIESA CATTOLICA
Scommettere sulla famiglia.
Qual è la posta in gioco nell’attuale dibattito parlamentare sulle unioni civili riguardo al bene comune? La risposta a questa domanda richiede che si rifletta sui valori di fondo implicati nelle decisioni da prendere. Mi sembra che essi siano fondamentalmente tre: i diritti del cittadino, i suoi doveri verso la “res publica” e i doveri della stessa nel promuovere il bene di tutti, per tutti. Tra i diritti del cittadino rientra certamente quello di essere rispettato nella sua dignità di persona e nella libertà e autonomia delle sue scelte nel gestire la propria vita e nello stabilire e coltivare le relazioni stabili e durature, nell’ambito delle quali intenda viverla: da questo punto di vista, chi sceglie di costruire un patto di vita stabile con una persona di sesso diverso o dello stesso sesso, può avanzare la richiesta che i diritti connessi a un tale rapporto siano pubblicamente riconosciuti e garantiti. Si tratta di diritti personali che hanno una ricaduta sociale e pubblica e che come tali possono essere regolamentati dal legislatore.
A questa domanda di tutela dei diritti va però connessa quella – da essa inseparabile – del rispetto dei diritti altrui e della “res publica” e dell’osservanza dei doveri che ciò naturalmente comporta. Fra questi c’è il rispetto del dettato costituzionale, che all’articolo 29 esplicitamente afferma: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». La tutela dei diritti connessi alle cosiddette “unioni civili” non potrà pertanto essere attuata a scapito della famiglia, riconosciuta dalla Costituzione quale «società naturale fondata sul matrimonio» (l’uso del verbo «riconoscere» mostra chiaramente come il valore e il diritto della famiglia preesista a ogni arbitraria decisione contingente). La pari dignità dei coniugi esige non solo che i loro diritti siano tutelati, ma anche che il bene dell’unità familiare sia misura decisiva per il riconoscimento e la realizzazione dei diritti personali.
In particolare, l’articolo 30 della Costituzione afferma il «dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio», in tal modo affermando anche il diritto dei figli a ricevere da chi ha dato loro la vita tutto il necessario per la sussistenza, la crescita, l’istruzione e l’educazione. Vengono così messi in luce accanto ai diritti dei coniugi quelli dei figli, da promuovere e tutelare fino al punto che se i genitori risultassero incapaci a farlo lo Stato deve provvedere adeguatamente: «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti». La promozione e tutela della famiglia, riconosciuta come bene fondante, esige dunque l’attenzione ad essa in tutte le sue componenti, sì che i diritti e doveri dei coniugi siano contemperati con quelli dei figli e della loro crescita armonica e integrale.
Questa riflessione aiuta a comprendere le riserve da esprimere in particolare circa la cosiddetta “stepchild adoption”, l’adozione da parte del partner di una coppia omosessuale unita civilmente del figlio o dei figli dell’altro. Dal punto di vista dei minori quest’adozione dovrà misurarsi col diritto naturale di essi ad avere una relazione educativa che implichi la reciprocità dei sessi, necessariamente richiesta nell’atto riproduttivo che ha dato loro la vita: come la nascita è frutto dell’azione congiunta di un padre e di una madre, così la crescita dei figli non può ignorare il loro naturale bisogno di relazionarsi a genitori legati dalla reciprocità maschile – femminile.
All’obiezione che tutto questo in tanti casi della vita non viene a realizzarsi, si deve rispondere che ciò non può essere ragione sufficiente a che la legge codifichi come diritto una tale possibilità. Detto con parole diverse, il diritto naturale dei figli ad avere un padre e una madre non solo nell’atto generativo, ma nell’intero processo della loro crescita ed educazione, va rispettato e tutelato in tutti i modi in cui la legge possa farlo. L’adozione del figlio del partner da parte di una coppia dello stesso sesso implicherebbe il venir meno di uno dei ruoli fondamentali nella crescita della persona, quello paterno o quello materno, a favore di una genitorialità sessualmente univoca e perciò non equiparabile a quella naturale, senza contare la complessità dei rapporti affettivi in cui il minore verrebbe a trovarsi in relazione da una parte ai genitori naturali, dall’altra al genitore aggiunto dello stesso sesso del partner.
Queste riflessioni sono dettate da una cura per l’umano nella sua integralità, che non ha alcun intento polemico o discriminatorio: come ha affermato in maniera chiara Papa Francesco nel suo discorso al Tribunale della Rota Romana in occasione della recente inaugurazione dell’Anno Giudiziario (22.01.2016), «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione… La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Citando il grande Papa del dialogo, Paolo VI, Francesco ha poi aggiunto: «Per mezzo del matrimonio e della famiglia Iddio ha sapientemente unite due tra le maggiori realtà umane: la missione di trasmettere la vita e l’amore vicendevole e legittimo dell’uomo e della donna, per il quale essi sono chiamati a completarsi vicendevolmente in una donazione reciproca non soltanto fisica, ma soprattutto spirituale». In tal modo, Dio «ha voluto rendere partecipi gli sposi dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna» (12 febbraio 1966).
Mons. Bruno Forte “Il Sole 24 Ore” 31 gennaio 2016
www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-01-31/scommettere-famiglia-113502.shtml?uuid=ACtTpvKC
A proposito del family day.
Pubblico con piacere questa pacata riflessione di Paolo Tassinari, diacono di Fossano. Esprime molte perplessità che mi sento di condividere appieno.
Fra pochi giorni si terrà a Roma al Circo Massimo il “Family Day”: mentre da un lato sono condivisibili alcune delle istanze per cui buona parte del mondo cattolico ha scelto di aderire a questa manifestazione (sostenere la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, ribadire che il bisogno dei minori è di crescere con un papà ed una mamma, il rifiuto del mercato dell’utero in affitto), dall’altro trovano ampio spazio anche coloro che si contrappongono integralisticamente a qualunque forma di riconoscimento delle unioni di fatto. Le ragioni di questi ultimi purtroppo sembrano prevalere sulle buone ragioni delle diverse anime ispiratrici dell’evento, almeno stando a dichiarazioni apparse sui social network, e non sarà facile smarcarsi per alcune di esse, più equilibrate e propositive.
Ad esempio, in un comunicato a firma di Toni Brandi (Presidente Pro Vita onlus) è scritto: “E’ ufficiale: il 30 gennaio ci ritroveremo tutti a Roma al Circo Massimo per far sentire forte la nostra voce contro le unioni civili e contro ogni compromesso sul Ddl Cirinnà; per manifestare il nostro amore per il bene comune e per i diritti dei bambini, i quali hanno bisogno di una mamma e un papà”.
www.notizieprovita.it/notizie-dallitalia/pro-vita-tutti-in-piazza-il-30-gennaio-per-opporsi-alle-unioni-civili
E’ vero che il Ddl Cirinnà è un documento inadeguato, perché sembra fare “copia/incolla” di ciò che è proprio della famiglia per poi applicarlo frettolosamente alla unione omosessuale; è altrettanto vero però che una proposta alternativa non è stata avanzata in questi anni dal variegato mondo cattolico, il quale sovente ha declinato l’entrata nel merito della questione, come se farlo fosse una resa alle posizioni laiciste.
Hanno scritto in questi giorni i Vescovi piemontesi: “Ribadiamo che tutte le unioni di coppie, comprese quelle omosessuali, non possono essere equiparate al matrimonio e alla famiglia. Tenuto fermo questo principio, anche le unioni omosessuali, come tutte le unioni affettive di fatto, richiedono una regolamentazione chiara di diritti e di doveri, espressa con saggezza. Riconosciamo certo la grande importanza e la delicatezza di questo tema che deve essere affrontato e dibattuto, ma non pervenendo a compromessi politici, frutto di equilibrismi tra poteri, che porterebbero a conseguenze negative a tutti i livelli, sociali e culturali, per le famiglie stesse”.
Prendere sul serio le istanze delle coppie omosessuali quindi è oggi un compito del legislatore riconosciuto dai Vescovi non solo piemontesi, e affidato ad ognuno secondo le proprie specificità: come comunità cristiana però quale immagine stiamo restituendo con eventi come quello previsto il 30 gennaio? Cosa stanno pensando “di noi” le coppie omosessuali? È ingenuo sostenere che la famiglia sia oggi sotto attacco perché anche in Italia, dopo tanti altri paesi europei che l’hanno già fatto, forse si arriverà a una qualche legislazione in tema di unioni omosessuali; a minare la famiglia piuttosto è la perdita del lavoro, il mancato sostegno alle famiglie numerose, la violenza entro le mura domestiche, l’odio fra i coniugi, i rancori tra fratelli, prepotenze più o meno taciute, eredità contese e cose del genere. Su questi fronti è necessario fare sentire la voce della comunità cristiana, affinché si promuovano politiche familiari lungimiranti e coraggiose, e l’impegno del mondo cattolico nelle sue diverse componenti di certo non manca.
Nello stesso tempo però rispetto alla discussione in corso, il ruolo dei laici cattolici è quello di essere il “partito della famiglia”, o di un’idea di famiglia, come se si trattasse di una competizione tra gruppi, oppure è quello di operare per il bene comune, cioè a favore di tutti? E il bene comune è certamente quello delle famiglie fondate sul matrimonio, ma riguarda anche i divorziati, i conviventi e le coppie omosessuali: avere chiara questa prospettiva, mantenendo il senso delle differenze, significa riconoscere e “dire bene” del positivo che c’è in ogni autentico legame caratterizzato da affetto, fedeltà, impegno e stabilità.
Una certa parte del cattolicesimo italiano e specialmente di quello da cui proviene l’iniziativa del Family Day, pare invece resistere a questa logica di “bene-dizione”, che anche in Italia chiede di essere tradotta in “buona-dizione” attraverso scelte politiche e legislative ponderate e sagge; una questione di “stile”, come il recente Convegno ecclesiale di Firenze ha mostrato, piuttosto che di “piazza”.
Scrive acutamente Duilio Albarello, teologo monregalese, sulla sua pagina di Facebook: “Pure i laici cattolici dovrebbero avere la creatività di trovare forme meno ambigue e meno equivocabili della dimostrazione muscolare, per esprimere il loro eventuale dissenso, così da evitare che il loro essere sale e lievito, assumendo una misura sproporzionata, finisca di far esplodere la pasta e di rendere il cibo immangiabile”.
Andrea Grillo e Paolo Tassinari blog: Come se non 27 gennaio 2016
www.cittadellaeditrice.com/munera/vescovi-piemontesi-tutte-le-unioni-affettive-di-fatto-richiedono-una-regolamentazione
Il grande freddo tra Francesco, il Family Day e i vescovi
I giorni della merla del gennaio 2016 vedono andare in scena il grande freddo tra papa Francesco e il Family Day, e in qualche modo anche tra il papa e i vescovi italiani. Il papa avrebbe avuto occasione di parlare del Family Day prima e anche dopo la manifestazione di ieri al Circo Massimo. Ma anche all’Angelus di oggi domenica 31 gennaio 2016 il papa non ha fatto menzione alcuna di un evento ispirato dai vescovi e guidato dal movimentismo cattolico che si oppone alla legge sulle unioni omosessuali. Al contrario, all’Angelus Francesco ha sottolineato che “nessuna condizione umana esclude dall’amore di Dio” (lo ha ripetuto due volte). Tra i molti possibili motivi di questa distanza tra il papa e un evento auspicato e benedetto dai vescovi italiani, ce ne sono tre di particolare importanza.
Il primo è che papa Francesco evita qualsiasi occasione che possa prestarsi a una manipolazione politica della sua persona e parola: uno sguardo alla provenienza ideologica dei politici al Circo Massimo ieri (la stessa di quella del Family Day 2007, tranne Matteo Renzi che allora sostenne la manifestazione) fa capire perché.
Il secondo motivo è che il linguaggio e lo stile di papa Francesco sono molto diversi da quelli visti al Family Day, nonostante il tentativo degli organizzatori di dare un messaggio positivo e non “contro” qualcuno.
Il terzo motivo è che papa Francesco ha ridefinito il suo rapporto con i movimenti cattolici in generale: nei suoi discorsi ai movimenti (CL, Neocatecumenali, etc.). Francesco ha sempre invitato queste aggregazioni a non costruirsi come élite separate. La chiesa di Francesco è una chiesa di popolo e non di élite politiche o culturali.
Questo detto, la settimana appena passata – il Consiglio permanente CEI, il Family Day, e l’Angelus del papa – ha dato il quadro di una chiesa italiana dal volto profondamente diverso rispetto a solo pochi anni fa. È una situazione di grande ambiguità da un lato e di grandi possibilità dall’altro. I vescovi italiani hanno dato sostegno al Family Day, ma senza comparire direttamente. Gran parte dei movimenti ecclesiali hanno declinato l’invito ad andare al Family Day (CL, Agesci, Focolari), ma altri movimenti sono andati, come sono andati a Roma anche membri di quei movimenti che ufficialmente non c’erano (come i ciellini). I Neocatecumenali sono parte dell’anima del Family Day ma il fondatore Kiko Arguello non si è visto (e ha accusato di essere stato censurato) data la gaffe (per così dire) di cui si era reso protagonista qualche mese fa.
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/01/29/i-dieci-giorni-che-cambiarono-il-family-day-una-lettera-rivelatrice-di-kiko-arguello/
http://www.ilpost.it/2015/06/23/kiko-arguello-femminicidio
A questo punto, in una chiesa ancora in gran parte plasmata culturalmente dal trentennio di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è lecito chiedersi ora chi siano i cattolici di papa Francesco. Non sono i vescovi, o almeno non la maggior parte di essi. Non sono i cattolici organizzati in associazioni e movimenti che scendono in piazza, visto che usano slogan e parole d’ordine che non fanno parte dello stile di Francesco. Non sono i politici, visto che papa Francesco tiene molto alla distanza tra il papato e la politica interna italiana. Il Family Day ha menzionato pochissimo papa Francesco, e Francesco non ha mai menzionato il Family Day. L’elezione di Francesco e il suo pontificato hanno chiuso l’era del linguaggio dei “valori non negoziabili” e dell’omosessualità come “intrinsecamente disordinata”. Ma una parte del cattolicesimo italiano è ancora legata a quelle parole d’ordine: i vescovi sono in mezzo al guado tra un laicato organizzato che ancora crede nelle tattiche del trentennio precedente, e un papa che sta innovando profondamente non solo il linguaggio ma anche le priorità dell’azione pubblica della chiesa, nonché il ruolo del papato all’interno della chiesa.
Massimo Faggioli, storico del Cristianesimo l’Huffington Post 31 gennaio 2016
www.huffingtonpost.it/massimo-faggioli/grande-freddo-tra-francesco-family-day_b_9124428.html
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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Famiglia, disoccupazione e povertà. Le indicazioni della Cei.
Pubblicato il comunicato finale del Consiglio episcopale permanente. Il cardinale Bagnasco: «Unicità dell’istituto matrimoniale e lavoro ai giovani»
L’unicità dell’istituto matrimoniale, politiche familiari efficaci, aiuto per i giovani esclusi dal lavoro e per gli adulti che lo hanno perso. E ancora, povertà, il dramma dei migranti, la persecuzione dei cristiani, l’accoglienza che viene sempre meno. Sono questi i temi trattati dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, nella prolusione conclusiva del Consiglio riunitosi a Roma dal 25 al 27 gennaio.
Nelle parole dei vescovi, si legge nel comunicato finale, «è stato riaffermato l’impegno a continuare una pastorale di prossimità a chi è nella fatica, oltre all’incoraggiamento perché non venga meno la fiducia». Nel «solco dell’eredità spirituale» del Convegno ecclesiale di Firenze – e, in particolare, del discorso del Santo Padre e dell’esperienza sinodale – il confronto ha aiutato a mettere a fuoco «alcune priorità in vista di un’agenda condivisa: famiglia, scuola e poveri, terreno di quella missionarietà che trova nell’educazione la propria finalità».
La volontà di valorizzare gli orientamenti contenuti nell’Evangelii gaudium è emersa anche «a fronte del processo in corso di secolarizzazione, per arrivare all’individuazione e all’assunzione di nuove forme di presenza testimoniale e di azione pastorale». In questa chiave, «il Consiglio permanente ha affrontato le proposte per un rilancio del Progetto culturale».
Una comunicazione specifica è stata offerta in merito alla riforma del processo matrimoniale canonico, rispetto alla quale i vescovi hanno espresso la «piena condivisione per le ragioni che hanno ispirato il Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus di Papa Francesco». Il Consiglio permanente ha approvato inoltre i nuovi parametri per l’edilizia di culto per il triennio 2016-2018 e ha esaminato gli Statuti di associazioni di fedeli.
Redazione Roma sette 29 gennaio 2016
www.romasette.it/famiglia-disoccupazione-e-poverta-le-indicazioni-della-cei/
Testo ufficiale
www.chiesacattolica.it/chiesa_cattolica_italiana/news_e_mediacenter/00078452_Famiglia___misura_di_civilta.html
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Padova. Nascita e oltre. Nascere bene. Nascono nuove relazioni. E dopo?
Si propongono 4 occasioni di incontro per mamme, bimbi e papà a partire da marzo 2016
Le tematiche proposte:
- Mamme e bimbi (fino al 2° mese di vita del neonato/a): Ci raccontiamo la nascita (piccoli problemi del dopo: allattamento e altro).
- Mamme e bimbi: Il 4° trimestre di gravidanza: il feeling madre-figlio (piccole tappe di crescita da 0 a 1 anno).
- Mamme e papà: Donna, non solo mamma.
- Mamme e papà: Come ci cambia un figlio? Chi ci insegna l’arte di educare?
Inoltre ogni giovedì, dalle ore 10,00 alle 11,30 è presente in consultorio l’ostetrica per fornire alla donna e alla coppia informazioni, consigli, confronti su gravidanza, parto, allattamento, dopo parto.
www.consultorioucipem.padova.it/index.php/iniziative-formative/maternit%C3%A0.html
Pescara. Affido familiare: intesa a tre Comune – Cif- Ucipem
Si chiama “La famiglia un luogo di accoglienza” il progetto ammesso ai finanziamenti regionali in virtù di cui ieri l’Amministrazione comunale ha siglato un protocollo a tre con il Consultorio Familiare CIF e UCIPEM, Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali al fine di promuovere, sostenere ed estendere l’istituto di affido familiare. Un progetto finanziato da risorse regionali e con una parte in cofinanziamento, di cui l’Ente è capofila nell’ambito degli interventi in favore della famiglia.
Alla firma erano presenti l’assessore alle Politiche Sociali Giuliano Diodati, il dirigente del Settore Marco Molisani e i responsabili di Cif e Ucipem, Gabriella Federico e don Cristiano Marcucci.
“L’intesa che decolla serve per dare supporto sociale, nonché psicologico alle famiglie perché si aprano all’istituto dell’affido – dice l’assessore Diodati – Un istituto che serve ai bambini perché trovino accoglienza in nuclei familiari in cui rigenerarsi, anche se temporaneamente, cercando di limitare al massimo la permanenza in istituto. Sono tante le famiglie disponibili ad accogliere questi ragazzi, si tratta di minori che hanno spesso problemi complessi da gestire, il protocollo oltre a prepararle ad accoglierli, dando gli strumenti che servono in un percorso di affido, servirà anche in parte a sostenerle.
I partner in questa impresa sono di grande competenza e umanità: Cif e Ucipem collaborano fra loro dal ’98, sono nella rete dei soggetti che ci coadiuvano nell’azione sociale come Ente e ci aiuteranno anche a promuovere di più l’affido. Vogliamo parlarne: lo faremo nelle scuole, attraverso iniziative di sensibilizzazione e conoscenza, invitando la cittadinanza ad aprirsi a questo particolare tipo di accoglienza. Lo faremo perché vedere un minore in difficoltà seguito da una famiglia è per un’istituzione un modo anche per reintegrarlo in una vita sociale più aperta di quella dell’istituto. Un traguardo, questo, a cui contiamo di arrivare con l’aiuto delle nostre strutture comunali che ogni giorno affrontano problematiche sensibili e con la competenza degli altri firmatari dell’intesa”.
Redazione l’opinionista www.lopinionista.it/notizie/affido-familiare-intesa-a-tre-comune-cif-ucipem-lassessore-diodati-un-gesto-di-generosita-e-di-accoglienza-che-molte-famiglie-potranno-fare-per-migliorare-la-vita-dei-minori-358740.html
Portogruaro. Quattro percorsi formativi.
Percorso formativo è un’occasione per imparare a migliorare le relazioni affettive, la gestione delle emozioni e dei conflitti, per crescere come persona, per migliorare il rapporto con i figli. In particolare questo percorso si rivolge ai genitori di figli adolescenti o preadolescenti. Verranno alternati momenti teorici a momenti interattivi ed esperienziali, offrendo ai partecipanti la possibilità di accrescere la propria capacità di apprendere attraverso la partecipazione attiva e lo scambio di esperienze, prospettive e vissuti in un clima di accoglienza e rispetto reciproci.
Genitori e figli – lavori in corso. 3 incontri 25 febbraio, 3 e 10 marzo 2016.
- Adolescenti: li conosciamo? dr Roberta Sossai, specialista in Pedagogia clinica
- Vecchie e nuove dipendenze. dr Alessia Amodeo, psicologa e psicoterapeuta
- Che fatica capirsi! Confitti e comunicazione efficace. dr Valentina Marcato, psicologa e psicoterapeuta
Affrontare il dolore della perdita e separazione. 4 incontri3, 10, 17 e 24 marzo 2016.
Finalità del corsoElaborare il dolore del passato e schiudersi al nuovo. Gli incontri si propongono di analizzare le diverse situazioni di distacco e di individuare le possibili vie di uscita riflettendo sulla propria esperienza nel confronto con gli altri.
Conduce: dr Laura Del Maschio, psicologa e psicoterapeuta
- Lutti, separazioni, perdite…
- Condividere il dolore per renderlo più accettabile
- Mobilitare le proprie risorse
- Ricostruire il proprio mondo interno ed esterno
Dalla coppia alla famiglia. 4 incontri per coppie in cammino 1, 8, 15 marzo e 5 aprile 2016.
Rivolti a coppie di fidanzati, sposi e conviventi che sia no interessate ad approfondire aspetti psicologici e relazionali della vita di coppia e di famiglia.
Conducono gli incontri dr Giuliano Bidoli, dr Francesca Barrano, dr Valentina Marcato.
E’ un’opportunità di formazione e confronto sulla dimensione psicologica e relazionale della coppia e un’occasione per riflettere sulla ricchezza e la profondità del matrimonio, nella gioia e nella consapevolezza che la propria vita di coppia e di famiglia si costruisce insieme.
E’ preferibile un colloquio di conoscenza con la coppia prima dell’inizio del percorso.
- Parlami … ho tante cose da dirti! La comunicazione all’interno della coppia
- Noi nel conflitto …vicini e lontani. Leggere, gestire, superare il conflitto
- La culla che cambia la vita. Come affrontare i cambiamenti all’arrivo di un figlio
- Aggiungi un posto a tavola. La relazione con le famiglie d’origine e la “sana distanza”
Menopausa: un cambiamento naturale. 4 incontri: 11 e 18 marzo, 1 e 8 aprile 2016.
- Il corpo che cambia. dr Maria Maddalena Casarotto, Dirigente Ginecologia, Pordenone
- Cambiamento psicologico in menopausa. dr Laura Del Maschio, psicologa e psicoterapeuta
- Benessere fisico: l’importanza di un’alimentazione corretta. dr Marianna Drigo, nutrizionista
- Benessere fisico: l’importanza del movimento in menopausa. dr Elisabetta Lazzaro, fisioterapista
http://www.consultoriofamiliarefondaco.it/?p=1151
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DALLA NAVATA
4° Domenica del tempo ordinario – anno C –31 gennaio 2016.
Geremia 01, 05 «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni.»
Salmo 71, 15 «La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza.»
1 Corinzi 12, 31 «Desiderate intensamente i carismi più grandi.»
Luca 04, 24 «Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria.
Commento al Vangelo di Enzo Bianchi
(…) Ed ecco la reazione dell’uditorio: “Tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Con la sua omelia Gesù ha colpito l’uditorio, ha saputo destare l’interesse e la meraviglia perché le sue erano anche “parole di grazia” (lógoi tês cháritos). Come il Messia del salmo 45, Gesù è lodato perché “la grazia è sparsa sulle sue labbra” (v. 3). Potremmo dunque dire che la prima predicazione di Gesù al ritorno nel suo villaggio d’origine inizialmente è stata un successo.
Ma il racconto subisce una svolta improvvisa. Quelli che hanno appena approvato e “applaudito” Gesù dicono: “Costui è il figlio di Giuseppe, il carpentiere che ben conosciamo come nostro concittadino. È un uomo, nient’altro che un semplice uomo ordinario, nulla di più!”. Le parole di Gesù hanno meravigliato quella gente, ma egli non pretende nulla, e soprattutto non pretende di avere autorità. Il messaggio che egli ha dato è buono – pensano gli abitanti di Nazaret – ma è il messaggio di un uomo ordinario, come lo si vedeva e lo si poteva descrivere conoscendo bene suo padre Giuseppe. L’entusiasmo e la meraviglia non conducono alla fiducia in Gesù, perché i presenti non si accontentano di parole: occorrono segni, miracoli per avere autorità ed essere riconosciuti!
Gesù, conoscendo i pensieri del loro cuore (cf. Gv 2,24-25), passa all’attacco duro, frontale. Non evita il conflitto, non lo tace, ma anzi lo fa esplodere. “Certamente” – dice – “alla fine dei vostri ragionamenti vi verrà in mente un proverbio: ‘Medico, cura te stesso’. Ovvero, se vuoi avere autorità e non solo pronunciare parole, fa’ anche qui a Nazaret, tra quelli che conoscono la tua famiglia, ciò che hai fatto a Cafarnao!”. È una tentazione che Gesù sentirà più volte rivolta a sé: qui tra i suoi, più tardi a Gerusalemme (cf. Lc 11,16) e infine addirittura sulla croce (cf. Lc 23,35-39). È la domanda di segni, di azioni straordinarie, di miracoli: ma tutta la Scrittura ammonisce che proprio questo atteggiamento è il primo atteggiamento degli uomini religiosi che rifiutano Dio. Sempre “gli uomini religiosi chiedono segni” (cf. 1Cor 1,22) In verità a Cafarnao Gesù aveva compiuto azioni di liberazione da malattia e peccato, ma queste erano, appunto, soltanto “segni” per manifestare la sua volontà: la liberazione da tutti i mali, la liberazione per tutti, come Gesù ha appena letto nel profeta Isaia.
Di fronte a questo repentino cambiamento di umore dell’uditorio nei suoi confronti, Gesù pronuncia alcune parole cariche di mitezza e, insieme, di rincrescimento, parole suggerite dalla sua assiduità alle Scritture, soprattutto ai profeti. Con un solenne “amen” emette una sentenza breve ma efficace, acuta come una freccia: “Nessun profeta è bene accetto nella sua patria, nella sua terra”. Gesù la pronuncia con rincrescimento per il rifiuto patito ma anche con una gioia interiore indicibile, perché da quel rifiuto riceve una testimonianza. Lodandolo per le sue parole di grazia non gli davano testimonianza, ma ora, rigettandolo, sì: perché questo accade a chi è profeta, a chi porta sulla sua bocca una parola di Dio e la consegna a chi ascolta. Gesù dunque in quel momento riceve la testimonianza dello Spirito santo che sempre lo accompagna e che gli dice: “Tu sei veramente profeta, per questo conosci il rigetto!”. Sì, profeta a caro prezzo, e solo chi conosce il rifiuto per le sue parole – che possono essere cariche di grazie ma non vengono accolte per il mancato riconoscimento della sua autorevolezza (exousía) – conosce anche la mite e serena certezza di svolgere un servizio non in nome proprio, ma in nome del Signore; non per interesse personale, ma in obbedienza a una vocazione e a una missione vissute e sentite come più forti della propria disposizione interiore e dei propri desideri umani. Questo è l’atteggiamento degli uomini di Dio, dei profeti, come ascoltiamo a proposito di Geremia nella prima lettura (cf. Ger 1,17-19).
Qui va inoltre messa in risalto la tensione tra Nazaret, la patria, e Cafarnao, città straniera per Gesù, ma dove egli incontrerà proprio stranieri, non ebrei che hanno una fede da lui mai vista in Israele, all’interno del popolo di Dio (cf. Lc 7,9): è più facile per Gesù operare in spazi stranieri che in quelli propri del popolo di Dio. (…)
Con queste parole Gesù, nella sua missione, fa cadere ogni frontiera, ogni muro di separazione: non c’è più una terra santa e una profana; non c’è più un popolo dell’alleanza e gli altri esclusi dall’alleanza. No, c’è un’offerta di salvezza rivolta da Dio a tutti. Anzi, il Dio di Gesù ama i pagani perché ha come nostalgia di loro, che durante i secoli sono rimasti lontani da lui. Gesù dunque li va a cercare, a incontrare e trova in loro una fede-fiducia che gli permettono quell’azione liberatrice per la quale era stato inviato da Dio. Segue
Enzo Bianchi, monaco e priore nel monastero di Bose.
http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/01/enzo-bianchi-commento-vangelo-31.html#more
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FAMIGLIA
Che cos’è una famiglia?
Dalla risposta che daremo a questa domanda dipende il futuro dell’umano e dell’umanità. E’ questo il senso del libro del filosofo francese Fabrice Hadjadj, che in “Qu’est-ce qu’une famille? Suivi de ‘La Transcendance en culottes’ et autres propos ultra-sexistes” (Salvator) ha raccolto, ampliati, i suoi interventi pubblici più importanti dell’ultimo anno sui temi della famiglia, della filiazione, dei loro rapporti con la tecnoscienza. Nato a Nanterre nel 1971, sposato con l’attrice Siffreine Michel, con la quale ha avuto sei figli (undici anni la più grande, due il più piccolo), Hadjadj è figlio di ebrei tunisini. Dopo una giovinezza che egli stesso definisce “atea e anarchica”, a ventisette anni si è convertito al cattolicesimo, e ora dirige l’istituto europeo di studi Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, fondato dieci anni fa con lo scopo di studiare e far conoscere l’antropologia cristiana. Ed è rimarchevole e visibile in tutta l’opera di Hadjadj – ricordiamo, tradotto in italiano, “Mistica della carne. La profondità dei sessi”, Medusa – la presenza di entrambe le radici, ebraica e cristiana.
La questione di “che cos’è una famiglia” può sembrare “così elementare da farci chiedere se è il caso di porsela”, scrive il filosofo, ed è forte il pericolo di ripetere banalità o di complicare ciò che è semplice. Ma è diventato necessario riscoprire l’evidenza, come aveva profetizzato lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton, da che siamo passati dall’avvenimento della nascita come conseguenza dell’incontro amoroso tra un uomo e una donna, come portato “logico e genealogico” della differenza sessuale, a un’impostazione di tipo aziendal-tecnologico di “produzione del figlio”. Tutti noi proveniamo da una famiglia, e la famiglia è un fondamento che “si situa al principio delle nostre vite concrete” al punto che “diventa impossibile giustificarla o spiegarla, perché bisognerebbe ricorrere a un principio anteriore, e allora la famiglia non sarebbe che una realtà secondaria e derivata, e non più una matrice”.
Per questo, dice Hadjadj, spiegare che l’uomo discende da una scimmia è diventato più facile “che spiegare che un bambino discende da un uomo e da una donna”, perché nel primo caso la tesi reclama delle lunghe e laboriose argomentazioni, mentre nel secondo non c’è niente da capire e niente da rivelare, ma un dato iniziale di cui prendere atto, come quello dell’esistenza del mondo esterno. Per questo, rispondere alla domanda “che cos’è una famiglia” diventa, ammesso che non lo sia sempre stata, “la questione filosofica per eccellenza”, in quanto ricerca dell’essenza della realtà. L’essenza della famiglia sfugge tuttavia a ogni ambizione descrittiva, perché rinvia a qualcosa che non può essere “fabbricato”, che non può nemmeno essere “scelto”, e che “sfugge alla premeditazione come all’ideologia”. E’ per questo che “decostruire” la famiglia – come pretende chi oggi parla di molte forme intercambiabili, dove all’artificio si attribuisce lo stesso rango della filiazione naturale – significa in realtà distruggerla.
Hadjadj fa notare che “stiamo assistendo da qualche decennio, da parte degli stessi che volevano sbarazzarsi della famiglia, a uno strano ritorno del rimosso famigliare”. Coloro che la denunciavano come luogo di tutte le oppressioni e nefandezze “ora vogliono fare dei figli il prodotto di una manipolazione genetica (poiché l’égalité reclama che due uomini o due donne possano averli con i loro gameti); il che va ben al di là dell’oppressione e della repressione”, perché si traduce in fabbricazione pura e semplice. Questa contraddizione è però la prova “che non si può decostruire il dato naturale, ma solo costruirgli accanto un suo simulacro”. In questa logica di fabbricazione – e non di attesa del mistero che è il “dono” del figlio all’interno della relazione carnale tra uomo e donna – vediamo esaltate come caratteristiche della “vera” famiglia quelle che richiamano all’amore, all’educazione, al “progetto genitoriale responsabile”, al rispetto della libertà e dell’autonomia del figlio: chi si sentirebbe di negare tutto questo?
E quanti cattolici, sottolinea Hadjadj, in perfetta buona fede, ripetono le stesse cose? Eppure, mettendo l’accento sui citati e lodevoli aspetti “noi manchiamo ancora l’essenza della famiglia”, perché quegli elementi, “amore, educazione, libertà, dicono tutto salvo l’essenziale, e cioè che i genitori sono i genitori e il figlio è il figlio”. Pretendendo di fondare “la famiglia perfetta sull’amore, l’educazione e la libertà, quello che si fonda, in realtà, non è la perfezione della famiglia ma l’eccellenza dell’orfanotrofio. Non c’è dubbio: in un eccellente orfanotrofio si amano i bambini, li si educa e si rispetta la loro libertà”, ma nessun orfanotrofio modello è una famiglia. Non siamo molto lontani dall’utopia-incubo del “Mondo Nuovo” di Aldous Huxley, dove “non basta far l’amore per essere ‘abilitati’ ad avere un figlio”, ed eccoci in un attimo (ci siamo già, ve ne siete accorti?), al “regno delle incubatrici e dei pedagoghi, e alla svalutazione dei veri genitori. Il padre è rimpiazzato dall’esperto, la famiglia dalla firma professionale”.
E’ la “famiglia già defamiliarizzata”, perché sempre più spesso sentiamo dire che “un padre e una madre possono essere meno amorevoli, meno competenti e meno rispettosi di due uomini o due donne, e certamente meno efficaci di un’organizzazione composta dai migliori specialisti. Questa organizzazione potrà passare per la migliore delle famiglie, che si identificherà con il miglior orfanotrofio”. La grande rimozione e l’inganno alla base della teoria della famiglia che possiamo riassumere con “basta l’amore”, hanno a che fare con la sostituzione del sesso con la tecnica. “Il principio della famiglia è troppo umile, troppo elementare, in apparenza troppo animale, e dunque vergognoso… Avete capito, il principio della famiglia è nel sesso. Anche quando si tratta di una famiglia adottiva, o di una famiglia spirituale, dove il padre è un Padre abate, e i fratelli sono monaci, le pure e alte denominazioni che si usano vengono all’inizio dalla sessualità… e si enunciano a partire da quel fondamento sensibile che è la nostra fecondità carnale. E’ perché un uomo ha conosciuto una donna e dal loro abbraccio, per sovrappiù, sono stati generati dei figli, che esiste il nome di padre, di madre, di figlio, di figlia, di sorelle e di fratelli”. La famiglia è dunque, prima di tutto, il luogo dove si articolano la differenza dei sessi e la differenza delle generazioni. Sarà pure una banalità, dice Hadjadj, ma è la realtà. La famiglia naturale può anche essere il luogo dove “tutto va male”, ma ciò che si pensa di poterle sostituire (surrogati dove il figlio è fabbricato attraverso tecniche sempre più parcellizzate e sofisticate di procreazione artificiale) è l’anticamera del totalitarismo, esercitato sull’essere che si vuole privo di ancoraggio alla differenza dei sessi e delle generazioni.
Che cosa è, allora, una famiglia? Hadjadj risponde che è “il fondamento carnale dell’apertura alla trascendenza. La differenza sessuale, la differenza generazionale e la differenza di queste due differenze ci insegnano a volgerci verso l’altro. E’ il luogo del dono e dell’accoglienza incalcolabile di una vita che si sviluppa con noi ma anche malgrado noi, e che ci spinge sempre più avanti nel mistero dell’esistenza”. La famiglia non è un orfanotrofio eccellente, né un club di incontri tra affini né una fabbrica di androidi. Ed è attraversata “senza tregua, come ogni avventura, da conflitti, sconfitte, offese che suscitano rancore e che esigono il perdono”. Ma è anche “l’avventura della nostra umanità e l’esercizio della nostra carità”. Primo luogo di esistenza e quindi “di resistenza: all’ideologia, al conformismo, alla programmazione”. In quanto fondata sulla carnalità e sulla differenza sessuale, è anche l’istituzione anarchica per eccellenza, come spiegava Chesterton.
Lo è, conclude Hadjadj, perché si tratta “di un’istituzione senza istitutori, fondata nelle nostre mutande, nel nostro desiderio, in un congiungimento anteriore a ogni contratto, in uno slancio naturale che precede le nostre prospettive e che le oltrepassa: la famiglia è anarchica anche per gli stessi genitori. Il figlio che nasce dalla loro unione non è né il risultato del loro calcolo né la realizzazione dei loro sogni, ma un dono oscuro che li attraversa e li trascende”. Fare del figlio un prodotto slegato dall’unione sessuale e dal mistero della differenza, ridurlo a oggetto (fabbricabile) di un diritto, significa puntare a un’umanità meno libera, manipolata e manipolabile
Nicoletta Tiliacos per Il Foglio blog di Costanza Miriano 26 gennaio 2016
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FAMILY DAY
Anche gli islamici a difesa della famiglia
Non si tratta di posizioni confessionali, ma di semplice buon senso e ragionevolezza. Proprio per questo, sabato, al Circo Massimo, verranno anche alcuni fedeli islamici. A tal proposito, abbiamo raggiunto per un’intervista Ben Mohamed Mohamed, presidente dell’Associazione Culturale Islamica in Italia e imam della Moschea Alhuda di Centocelle, a Roma.
Lei ha dichiarato che parteciperà al Family Day del 30 gennaio. Perché?
Il Family day è la difesa della famiglia. Oggi il mondo è impazzito e con certe leggi si vuol condurre alla rovina il genere umano. Per noi, musulmani, tutti giorni sono family day.
Ci può riassumere la posizione dell’Islam sulla famiglia?
«Uomini, temete il vostro Signore che vi ha creati da un solo essere, e da esso ha creato la sposa sua, e da loro ha tratto molti uomini e donne» (Corano, Sura Annisà [Le donne], versetto 1).
Il genere umano fu creato a partire da Adamo ed Eva, che rappresentano in realtà l’unica forma possibile di famiglia, come il Creatore – Gloria a Lui l’Altissimo! – ha voluto. Negare questa verità evidente significa negare la propria esistenza. Perciò Allah, il Creatore dell’universo e della vita, ha stabilito che la famiglia sia composta da entrambi i genitori, e ha ordinato di prestare un assoluto rispetto alla madre e al padre, un precetto che viene subito dopo l’adorazione di Dio stesso:
«Il tuo Signore ha decretato di non adorare altri che Lui e di trattare bene i vostri genitori. Se uno di loro, o entrambi, dovessero invecchiare presso di te, non dir loro “uff!” e non li rimproverare; ma parla loro con rispetto, e inclina con bontà, verso di loro, l’ala della tenerezza; e dì: “O Signore, sii misericordioso nei loro confronti, come essi lo sono stati nei miei, allevandomi quando ero piccolo”» (Sura Al Isrà [Il Viaggio notturno], versetti 23-24).
Dio ha legato in modo speciale l’uomo e la donna, ovvero le due parti della famiglia, in modo che entrambi siano la base della continuità del genere umano, vivendo nell’amore (naturale) e creando un ambiente (naturale) benedetto per la crescita delle future generazioni:
«Fa parte dei Suoi segni l’aver creato da voi, per voi, delle spose, affinché riposiate presso di loro, e ha stabilito tra voi amore e tenerezza. Ecco davvero dei segni per coloro che riflettono» (Sura Ar-Rum, v. 21).
Negare tutto ciò e andare a legittimare altre “forme di famiglia” è solo una un’assoluta follia, che porta alla rovina la miglior creatura che Dio ha mai creato, l’essere umano, e alla violazione dei diritti fondamentali dei bambini.
Cosa dice l’Islam sull’educazione dei bambini? Chi ha la maggior responsabilità di educarli? Lo Stato o la famiglia?
I diritti e i doveri sono intrinsecamente uniti. I genitori, che sono alla base dell’esistenza stessa del bambino, hanno in tutti Codici del mondo la priorità esclusiva del diritto di educare i loro figli. Infatti, normalmente nessuno è disposto a sacrificarsi per loro come i genitori e quindi nessuno può essere più adatto alla loro educazione, vivendo col sogno di vedere i propri figli nelle migliore condizioni. Se mancano i genitori, però, è la società e dunque lo Stato, che devono sostituirsi ad essi.
Cosa pensa delle adozioni da parte di persone dello stesso sesso?
Stiamo proprio scherzando! Tutti gli studi scientifici e le ricerche affermano che il bambino ha il bisogno fondamentale di vivere con i propri genitori naturali. Con questi bizzarri progetti di adozione stiamo dando vita a “fabbriche umane” (basti pensare all’utero in affitto: donne che producono bambini come macchine. È la forma moderna di schiavitù…). Il tutto non per soddisfare il bisogno del bambino, ma il lusso di chi non vuole assumersi la responsabilità di fare dei figli. Penso che stiamo vivendo una fase storica in cui si cerca di legalizzare la distruzione del genere umano.
Redazione Pro Vita 28 gennaio 2016
www.notizieprovita.it/filosofia-e-morale/family-day-anche-gli-islamici-a-difesa-della-famiglia
Lettera del rabbino capo di Roma al Family day: “Vostra manifestazione importante”
Messaggio al Family day del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, nella breve lettera letta dal palco della manifestazione. Nella lettera si afferma che “la vostra manifestazione è importante” perché, aggiunge l’esponente ebraico, “non si stravolga” il concetto di famiglia in una società già carente di certezze. Il rabbino capo di Roma ha poi aggiunto che “i bambini non sono animali da esperimento”.
Piera Matteucci La repubblica 30 gennaio 2016 mattino
www.repubblica.it/politica/2016/01/30/news/family_day-132356069/?ref=HREA-1
Rabbino capo di Roma Di Segni smentisce adesione.
“Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, non ha partecipato né aderito alla manifestazione denominata Family Day di oggi, né ha inviato alcun messaggio. Qualcuno non autorizzato potrebbe aver citato una risposta alla precedente manifestazione che comunque non era un’adesione ma un invito al dialogo”. Lo rende noto l’Ufficio del Rabbino Capo di Rom
Rosa Femia La repubblica 30 gennaio 2016 pomeriggio
www.repubblica.it/politica/2016/01/30/news/family_day-132356069/?ref=HREA-1
Azione Cattolica. Il Disegno di legge non ci piace.
«Una legge per regolare le convivenze omosessuali e garantire a esse un riconoscimento da parte dello Stato va fatta. L’ha detto la Corte Costituzionale, ma lo dice soprattutto la necessità di dare una risposta a chi attende da tempo che lo Stato regolamenti in modo specifico diritti e doveri connessi a questo tipo di relazione affettiva, evitando di lasciare campo libero a decisioni creative del potere giudiziario, con il rischio di forzare sempre più spesso, e a volte in maniera disinvolta, i confini di una sana divisione dei poteri.
Tuttavia la legge, così com’è stata proposta in Parlamento, non ci piace. Non la condividiamo. Innanzitutto perché è piena di rimandi al diritto matrimoniale: in questo modo, le unioni civili finiscono per essere assimilate nei fatti al matrimonio, malgrado a parole il Disegno di legge dica una cosa diversa quando afferma che si tratta di “una specifica formazione sociale”. Un’ambiguità che nasce, evidentemente, dalla necessità di raggiungere un compromesso tra idee, culture, sensibilità e interessi differenti. Cosa che in democrazia può rivelarsi necessaria, lo sappiamo. Ma siamo anche convinti che non si dovrebbero fare leggi poco chiare, soprattutto su temi così importanti e delicati: si dovrebbe, al contrario, fare di tutto per non generare equivoci, avendo il coraggio e la saggezza di cercare un possibile punto alto di sintesi tra le diverse spinte e aspettative, più che un loro semplice giustapporsi. Questa è una legge che meriterebbe di essere fatta oggetto di uno sforzo maggiore di ponderatezza, precisione ed equilibrio. Auspichiamo davvero con forza che il Parlamento si dia il tempo e le modalità necessarie per farlo, con il necessario sforzo di ascolto delle istanze del Paese.
C’è un’altra importante ragione per cui questa legge non ci piace, ed è ben nota: l’idea di introdurre la stepchild adoption. Perché siamo convinti che anche questa legge, come ogni legge, deve proteggere innanzitutto i soggetti più deboli, più indifesi, più esposti ai rischi che possono nascere dall’intervenire su una materia così delicata. E questi soggetti sono i figli, i piccoli. Invece, ci sembra che la proposta avanzata sia pensata innanzitutto non per garantire i diritti dei figli, quanto piuttosto per permettere di soddisfare l’aspirazione di genitorialità degli adulti, trasformando così un desiderio in un diritto. Ma questo è un campo in cui non ci può essere spazio per interessi di parte», l’Associazione auspica e invita i membri del Parlamento a votare non secondo l’ideologia di partito o le convenienze, ma secondo coscienza.
Azione Cattolica, 18 gennaio 2016
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FECONDAZIONE ARTIFICIALE
L’utero in affitto e la legge Cirinnà.
La questione della «madre surrogata» o dell’«utero in affitto» – il termine tecnicamente più preciso è «gestazione per altri» (gpa) – è venuta, negli ultimi mesi, con insistenza alla ribalta anche nel nostro paese. A renderla attuale è stato il dibattito sul disegno di legge Cirinnà relativo ai diritti delle unioni omosessuali che andrà prossimamente in discussione in Parlamento. Il nodo maggiormente critico di tale disegno è costituito dalla cosiddetta stepchild adoption, ossia dalla possibilità di adozione, anche nel caso di coppia omosessuale, del figlio del partner. La giustificazione che si adduce è che questa possibilità, oltre a rendere paritetico il rapporto dei due membri della coppia nei confronti del figlio, assicura soprattutto a quest’ultimo la tutela dei propri diritti nel caso in cui il padre o la madre originari venissero a mancare. L’assenza di tale dispositivo importa infatti che l’uomo o la donna che non sono direttamente padre o madre non godano di alcun diritto nei confronti del figlio del partner, e non siano conseguentemente vincolati da alcun dovere e da alcuna responsabilità nei suoi confronti.
La proposta Cirinnà è accusata di costituire una sorta di «cavallo di Troia» attraverso il quale si introdurrebbe di fatto – non certo di diritto perché la legge 40 non lo prevede – il consenso all’utero in affitto. La possibilità del ricorso all’adozione finirebbe infatti per favorire chi ricorre alla pratica della surrogazione avendo la garanzia di un riconoscimento del bambino come figlio della coppia. A reagire con forza nei confronti di tale progetto sono stati anzitutto alcuni ambienti del mondo cattolico, che, muovendo talora da rigide posizioni ideologiche, sono giunti ad affermare che si tratterebbe in realtà di un escamotage truffaldina. Ma la reazione che ha suscitato maggiore clamore è stato l’appello proveniente dal gruppo femminista «Libere», che opera all’interno del movimento «Se non ora quando», e sottoscritto, tra le altre, da Stefania Sandrelli, Grazia Francescano, Cristina Comencini e Dacia Maraini. In tale appello, che non si riferisce direttamente alla proposta Cirinnà, si legge: «Nessun essere umano può essere ridotto a mezzo. Facciamo appello alle istituzioni europee – Parlamento, Commissione e Consiglio – affinché la pratica della maternità surrogata venga dichiarata illegale in Europa e sia messa al bando a livello globale». Si tratta di affermazioni drastiche, che non possono essere sospettate di confessionalismo e che rivelano la gravità di una prassi, che mette seriamente a repentaglio la dignità della donna.
Le ragioni del rifiuto. Non sono certo mancati interventi duri di esponenti del Lgbt, che non hanno esitato a definire omofobica tale presa di posizione, addebitandola alla più bieca cultura di destra e accusandola di mettere seriamente in discussione l’intero impianto del segno di legge Cirinnà. Per questo è importante mettere anzitutto a fuoco le motivazioni del «no» alla maternità surrogata – un «no» peraltro presente nei dispositivi legislativi della stragrande maggioranza degli Stati europei – evidenziandone l’alto significato antropologico ed etico. La prima di tali motivazioni è presente nell’appello delle femministe citato, laddove, facendo eco a un noto principio kantiano, si sottolinea l’esigenza che nessun soggetto umano venga trattato come mezzo ma sempre come fine, e che, di conseguenza, non possa venire subordinato al perseguimento di un altro obiettivo, fosse pure alto e nobile. La inaccettabilità etica della maternità surrogata è perciò dovuta al fatto che la ricerca della propria felicità avviene mediante lo sfruttamento della donna, il cui corpo è ridotto a incubatrice per conto di terzi. Si tratta di una forma di egoismo individualistico, che non valuta il trauma cui è sottoposta colei che si trova a portare in grembo una creatura, sentendola crescere dentro di sé per nove mesi, partorendola e dovendola poi consegnare ad altri.
Se poi si considera che questo avviene, nella stragrande maggioranza dei casi, con donne povere, appartenenti a classi disagiate e ad aree socialmente marginali, le quali vengono indotte dalla loro condizione ad offrire il proprio corpo per danaro –non è irrilevante che la maggior parte delle coppie italiane, in larga misura eterosessuali, che ricorrono alla maternità surrogatasi rivolgano a paesi come l’Ucraina, la Russia, l’India e il Nepal – appare evidente l’immoralità di un mercimonio che fa di esse – come ci ricorda la nota femminista francese Sylviane Agacinski – le vere «schiave moderne». Accanto a queste considerazioni riguardanti il rispetto della dignità e dei diritti della donna, non manca (e non è meno rilevante) – è questo il secondo ordine di motivazioni – la scarsa attenzione ai diritti del bambino. Lo sdoppiamento della maternità, tanto nel caso della coppia eterosessuale che di quella lesbica – accanto alla madre biologica vi è infatti la madre che lo ha generato – può dare origine a una situazione conflittuale – si pensi soltanto alla eventualità che la madre che lo ha portato in grembo fino alla nascita rivendichi il proprio diritto alla maternità nei confronti della coppia committente – con ricadute pesantemente negative sullo sviluppo della personalità del bambino. Analogamente (e in termini ancor più problematici), questo succede nel caso in cui a ricorrere alla maternità surrogata è una coppia gay. Non è difficile in questo caso immaginare, accanto ai rischi già richiamati, il disagio del bambino, che scopre l’esistenza della propria madre, la quale risulta essere, nella maggior parte dei casi, del tutto estranea alla sua vita.
Le obiezioni più rilevanti. Non mancano tuttavia situazioni, sia pure con una rilevanza quantitativa minimale, nelle quali a sottoporsi alla maternità surrogata sono persone la cui disponibilità è frutto di altruismo. È questo il caso di madri che si offrono di portare a compimento la gravidanza per la propria figlia che si trova nell’impossibilità di farlo o di altre donne che si mettono, senza nulla pretendere, al servizio delle coppie che non sono in grado di avere altrimenti un figlio. Vi è allora chi obietta: perché non ammettere, in questi casi la pratica della maternità surrogata, la quale non ha qui nulla a che fare con l’utero in affitto? La risposta non può che essere negativa. La ragione di fondo sta nella considerazione che introdurre, sia pure entro con fini precisi (peraltro difficilmente definibili), la maternità surrogata finirebbe per dare luogo a una inevitabile deriva, con lo sviluppo degli effetti negativi già ricordati. Siamo qui di fronte a un limite invalicabile della legge, la quale – come già affermava Aristotele – vale nella pluralità dei casi ma non nella totalità (in pluribus sed non in omnibus), e lascia per questo sempre sussistere eccezioni o casi emergenti. La gravità delle conseguenze implicate dal riconoscimento della pratica della maternità surrogata esige che si proceda con il massimo rigore: l’interesse generale non può che avere il sopravvento su quello particolare. A questa prima obiezione se ne associa un’altra, riguardante le coppie gay, le quali al contrario delle coppie lesbiche, non possono che ricorrere, per avere un figlio, alla maternità surrogata. La proibizione di tale pratica – si osserva – provocherebbe una disparità nei diritti; darebbe cioè luogo a un stato di vera sperequazione. Ora, a parte le considerazioni già fatte circa la strumentalizzazione della donna e il possibile disagio del bambino, non si può dimenticare che esistono altre strade per l’esercizio della genitorialità – basti pensare all’adozione – e che ci si deve confrontare, d’altronde, con alcuni limiti naturali mai totalmente superabili.
Esiste un diritto assoluto al figlio proprio? Ma, al di là delle considerazioni fin qui fatte, si deve riconoscere che la questione di fondo, la quale rende, in definitiva, ragione nelle differenti posizioni sulla maternità surrogata, è quella del diritto della coppia al figlio proprio. Vi è, a tale riguardo, chi pensa che tale diritto sussista ed abbia carattere di assolutezza e chi, invece, ritiene che si possa semplicemente parlare di legittimo desiderio, il cui esercizio deve fare concretamente i conti con i limiti della realtà. L’appello delle femministe ricordato, fornisce in proposito una risposta inequivocabile. «Siamo favorevoli – si legge nel documento – al pieno riconoscimento dei diritti civili per lesbiche e gay, ma diciamo a tutti, anche agli eterosessuali: il desiderio di figli non può diventare un diritto da affermare a ogni costo». La trasformazione del desiderio in diritto incondizionato, oltre a condurre talora alla negazione dei diritti fondamentali dell’altro – è il caso della donna che si sottopone alla pratica dell’utero in affitto con la perdita della propria dignità –, finisce per dare vita a una logica del possesso, che si proietta (e non può che proiettarsi) anche nel rapporto con il figlio, con il rischio di non rispettarne l’autonomia decisionale, e dunque di limitarne la libertà.
E la legge Cirinnà? Non si può, infine, eludere un’ultima domanda. Il «no» alla legalizzazione della maternità surrogata implica automaticamente – come alcuni hanno ventilato – il rifiuto della proposta di legge Cirinnà? Non lo riteniamo. Intanto perché non esiste nel nostro ordinamento giuridico alcun presupposto che possa far pensare a una eventuale legalizzazione della maternità surrogata. Ma poi soprattutto perché la stepchild adoption si limita a prendere atto di una situazione già esistente – la presenza di una creatura venuta al mondo tramite la fecondazione artificiale o l’utero in affitto – e a regolamentarla, tenendo in considerazione l’interesse preminente del bambino, al quale vengono dati due genitori, anziché uno, garantendogli in tal modo una condizione di maggiore sicurezza. Il fatto che la richiesta venga talora da chi è ricorso a una discutibile pratica, scavalcando la legislazione del proprio paese per andare a comprare un figlio attraverso lo sfruttamento di una donna indigente e mettendolo, fin dall’inizio, in una condizione di difficoltà, non depone di per sé a favore della concessione. Ma non si può (e non si deve), in ogni caso, dimenticare – come si è più volte sottolineato – che i diritti del bambino godono di un’assoluta priorità, e vanno per questo tutelati e promossi senza alcuna limitazione.
Giannino Piana n. 2 del 2016 di Rocca http://www.c3dem.it/20965
www.rocca.cittadella.org/rocca/autori/00000120_Piana.html
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
De Palo: Family Day opportunità per costruire e rilanciare il Paese
Crescono le adesioni al Family Day che si terrà a Roma il prossimo 30 gennaio. Il Comitato organizzatore dell’evento ribadisce l’impegno a fermare il Ddl Cirinnà sulle unioni civili, che domani approda in Parlamento per le questioni pregiudiziali presentate dalle opposizioni, ma il cui voto slitta al 2 febbraio. Il provvedimento prevede anche l’adozione del figlio partner, punto cruciale che divide ulteriormente la politica italiana. Al microfono il presidente del Forum delle Famiglie, Gianluigi De Palo, sottolinea che il Family Day dirà “no” al Ddl Cirinnà mostrando la bellezza e il dinamismo dell’Italia, ovvero della famiglia:
R. – Credo che sia una bella occasione. Se riusciamo a portare in piazza tutte quelle famiglie che non sono contro qualcuno, ma che vogliono dire in questo Paese, al Paese intero, che la famiglia è un bene da preservare, ma soprattutto che è un bene da rilanciare; se riusciamo ad alzare il livello del dibattito senza contrapposizioni ideologiche ma cercando di dire in maniera chiara che siamo contrari al Ddl Cirinnà perché svilisce la famiglia e, nello stesso tempo, chiediamo a questo Paese che la famiglia venga tutelata perché siamo anni luce indietro rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo perché non nascono più bambini – e in Italia fare un figlio diventa la causa maggiore di povertà nonostante una crisi demografica – credo che raggiungeremo un bell’obiettivo.
D. – C’è chi vuole però cavalcare l’onda della contrapposizione. Forse fa comodo.
R. – Le contrapposizioni inducono le persone a non dialogare. Io sono convinto che anche sul tema delle unioni omosessuali se ci si mette attorno ad un tavolo e si vedono i diritti individuali delle persone si trova un accordo in poco tempo. Il problema oggi è che c’è una radicalizzazione di questo scontro e quindi si vuole far passare questa legge, oggettivamente scritta male perché è impugnabile anche da parte della Corte Costituzionale e che apre anche ad una pratica che è quella dell’utero in affitto che credo nessuna donna di buon senso, onesta intellettualmente, possa definire positiva.
D. – Lei ha detto anche che il Ddl Cirinnà svilisce il matrimonio
R. – Svilisce il matrimonio e deresponsabilizza perché se si apre un riconoscimento giuridico di tutte le unioni civili ditemi voi per quale motivo un giovane domani dovrebbe sposarsi civilmente, nel senso che non c’è più nessun vantaggio, nessun motivo. Credo che la priorità sia innanzi tutto farsi una domanda: il matrimonio è ancora utile? Il matrimonio è solo qualcosa che ha a che fare con i cattolici oppure lo Stato ha a cuore una coppia che si impegna in un legame duraturo fatto di responsabilità e doveri? Oggi come oggi non stiamo dando una risposta seria a questa domanda, che è una domanda profondamente laica e concreta.
D. – Quindi questa tematica non riguarda solo i cattolici.
R. – Questa tematica riguarda tutti. Vorrei chiarire una cosa. L’Italia è composta da circa 60 milioni di persone: di queste, 59 milioni 400mila secondo i dati Istat vivono all’interno di una famiglia. Io non credo che ci siano due piazze che numericamente rappresentino gli uni e gli altri. Da una parte c’è chi porta avanti una serie di diritti degli omosessuali e soprattutto cerca di difendere una legge; dall’altra parte non c’è solo una piazza – quella del Circo Massimo di sabato – ma il resto dell’Italia, c’è il Paese intero, quel Paese reale che fatica ad arrivare alla fine del mese, quelle mamme che devono nascondere il pancione perché altrimenti vengono licenziate, quei giovani che non riescono a sposarsi perché non hanno un lavoro, non hanno una casa. Allora io credo che per questo noi dobbiamo cercare di dare risposte a tutto il Paese, indipendentemente se credenti o non credenti.
D. – Dunque sta dicendo che la politica non sta leggendo il Paese reale?
R. – Questo oggi è il grande problema della politica, perché tra i social network e i giornali non si incontrano più le persone, non si stringono più le mani. È triste che certe leggi vengano fatte senza ascoltare realmente e pienamente il Paese reale. La politica, quando non ascolta il Paese reale, poi alla fine, come in questo caso, fa dei provvedimenti che spaccano un Paese in una divisione ideologica che ricorda i tempi delle leggi sull’aborto e sul divorzio.
D. – Molti riportano tabelle in cui si fa vedere che l’Italia è un fanalino di coda in Europa per quanto riguarda la legislazione dei cosiddetti “matrimoni gay” o le unioni civili. In sostanza 15 Paesi europei avrebbero già le legiferato in materia.
R. – Credo che sicuramente c’è un ritardo in tanti campi rispetto all’Europa. Noi prendiamo ad esempio questi temi, invece non prendiamo ad esempio le politiche fiscali, famigliari scandinave o francesi. Sicuramente c’è bisogno di una legge che regolamenta le unioni omosessuali – questo lo hanno detto in molti, il cardinale Ruini, il cardinale Bassetti, il cardinale Bagnasco – ma non equipariamole al matrimonio, perché altrimenti dovremmo cambiare la Costituzione. Dobbiamo trovare delle soluzioni che vadano a toccare i diritti individuali delle persone, troviamoci attorno ad un tavolo, ma non trasformiamole in matrimonio. E non utilizziamo gli articoli 143, 144 e 147 del Codice civile che fondamentalmente, qualora venissero usati come si sta facendo con il Ddl Cirinnà, direbbero a 14 milioni di persone sposate in Italia che hanno sbagliato, che potevano aspettare un po’ e molto probabilmente, senza prendersi dei doveri, avrebbero avuto tutta una serie di diritti.
D. – Lei sarà in piazza il 30 gennaio guardando al 31, ha detto più volte. Che cosa significa?
R. – Io sarò in piazza il 30 con molte associazioni del Forum. Sono contento di esserci ed auspico veramente che riusciremo a dare un segnale concreto, non solo per poter dire “C’eravamo più noi, c’erano più loro”, ma per dire cosa proponiamo al nostro Paese, per il quale una famiglia dà dei figli! L’Italia è la famiglia perché l’Italia è fatta di famiglie. Senza le famiglie non andremmo da nessuna parte. In un mondo dove c’è la gara a chi è meno italiano, le famiglie che staranno lì, fondamentalmente diranno: “Vale la pena essere italiano”. Quindi immaginate quale amore ci può essere in quella piazza: una piazza che parla di futuro, perché sarà la piazza più giovane del mondo. E proprio per questo dico “Guardiamo anche al 31”. Il girono dopo chiedo a tutte le associazioni, a tutte le persone di buona volontà lì presenti, di essere con lo stesso entusiasmo unite nella sfida più grande che abbiamo: trasformare questo Paese, rilanciarlo dal punto di vista della famiglia, perché solo così riusciremo ad uscire da questa spirale; solo così riusciremo anche ad uscire da una crisi che non è solo economica, ma è anche antropologica e valoriale.
Massimiliano Menichetti Notiziario Radio vaticana – 27 gennaio 2016
http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Francesco: embrioni non sono merce, dare voce ai più deboli
Rispettare gli esseri viventi soprattutto i più deboli, la scienza non prevarichi mai sull’uomo. E’ l’esortazione levata da Papa Francesco nell’udienza al Comitato Nazionale per la Bioetica. In particolare, il Pontefice ha ribadito che gli embrioni umani non devono essere mai trattati come materiale scartabile. Ancora, ha detto che le applicazioni biotecnologiche non devono essere guidate da scopi commerciali. L’indirizzo d’omaggio al Papa è stato rivolto dal presidente del Comitato, prof. Francesco Paolo Casavola.
Servire l’uomo sempre come fine e mai come mezzo. Papa Francesco ha colto l’occasione dell’udienza al Comitato italiano per la bioetica per sottolineare quanto la Chiesa sostenga gli sforzi che, nella società civile, promuovono “la ricerca del vero e del bene nelle complesse questioni umani ed etiche”.
Far sentire la voce dei più deboli, scienza serva l’uomo. Quindi, ha ribadito che se è noto a tutti “quanto la Chiesa sia sensibile alle tematiche etiche”, forse “non a tutti è altrettanto chiaro che la Chiesa non rivendica alcuno spazio privilegiato in questo campo”. Di qui un appello a difendere i più deboli: “Si tratta, in sostanza, di servire l’uomo, tutto l’uomo, tutti gli uomini e le donne, con particolare attenzione e cura – come è stato ricordato – per i soggetti più deboli e svantaggiati, che stentano a far sentire la loro voce, oppure non possono ancora, o non possono più, farla sentire. Su questo terreno la comunità ecclesiale e quella civile si incontrano e sono chiamate a collaborare, secondo le rispettive, distinte competenze”.
Mai utilizzare la biotecnologia contro la dignità umana. Il Papa ha così evidenziato che il Comitato “ha più volte trattato il rispetto per l’integrità dell’essere umano e la tutela della salute dal concepimento fino alla morte naturale, considerando la persona nella sua singolarità, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo”: “Tale principio etico è fondamentale anche per quanto concerne le applicazioni biotecnologiche in campo medico, le quali non possono mai essere utilizzate in modo lesivo della dignità umana, e nemmeno devono essere guidate unicamente da scopi industriali e commerciali”.
Affermare la verità dell’uomo in un contesto segnato dal relativismo. La bioetica, ha detto il Papa, “è nata per confrontare, attraverso uno sforzo critico, le ragioni e le condizioni richieste dalla dignità della persona umana con gli sviluppi delle scienze e delle tecnologie biologiche e mediche” che “nel loro ritmo accelerato, rischiano di smarrire ogni riferimento che non sia l’utilità e il profitto”. Né ha mancato di rilevare quanto sia impegnativo il “lavoro di ricerca della verità etica” in “un contesto segnato dal relativismo e poco fiducioso nelle capacità della ragione umana”: “Voi siete consapevoli che tale ricerca sui complessi problemi bioetici non è facile e non sempre raggiunge rapidamente un’armonica conclusione; che essa richiede sempre umiltà e realismo, e non teme il confronto tra le diverse posizioni; e che infine la testimonianza data alla verità contribuisce alla maturazione della coscienza civile”.
Riflettendo sul lavoro del Comitato, Francesco ha quindi chiesto che vengano affrontate “le cause del degrado ambientale”. Auspico, ha detto, “che il Comitato possa formulare linee di indirizzo, nei campi che riguardano le scienze biologiche, per stimolare interventi di conservazione, preservazione e cura dell’ambiente” anche “per la protezione delle generazioni future”.
Tutelare embrioni, non sono materiale di scarto. Il Pontefice ha inoltre messo l’accento sul tema della disabilità e “della emarginazione dei soggetti vulnerabili, in una società protesa alla competizione, alla accelerazione del progresso”: “E’ la sfida di contrastare la cultura dello scarto, che ha tante espressioni, tra cui vi è il trattare gli embrioni umani come materiale scartabile, e così anche le persone malate e anziane che si avvicinano alla morte”.
Dal Papa, infine, l’invito ad uno “sforzo sempre maggiore verso un confronto internazionale in vista di una possibile” armonizzazione “delle regole delle attività biologiche e mediche, regole che sappiano riconoscere i valori e i diritti fondamentali”.
Alessandro Gisotti Notiziario Radio vaticana – 28 gennaio 2016
http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
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GENITORI OMOSESSUALI
Genitori omosessuali. C’è differenza?
Ricci: sì, è un peso sui bimbi. Costantino: no, dati Usa lo negano.
Giancarlo Ricci, psicanalista lacaniano, psicologo e saggista, è stato giudice onorario presso il Tribunale di Milano ed è studioso di Freud.
Antonella Costantino, neuropsichiatra infantile, è direttore della Uonpia (Unità operativa di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza) Ospedale Maggiore di Milano. È tra i massimi esperti nella «Comunicazione aumentativa e alternativa» per le disabilità relazionali.
Nel dibattito sulle unioni civili il tema omogenitorialità è stato lasciato un po’ in disparte. Eppure non si può fare a meno di affrontarlo visto che la legge, se venisse approvata senza stralciare la parte dedicata alla stepchild adoption pur nelle varie versioni allo studio, introdurrebbe di fatto l’omogenitorialità nell’assetto giuridico italiano. Per un bambino non c’è davvero alcuna differenza tra avere due “papà” o due “mamme”, oppure due genitori eterosessuali?
Ricci: L’ipotesi di una famiglia omogenitoriale basata sul legame tra due individui dello stesso sesso, dove uno farebbe “da padre” e l’altro “da madre”, nega di fatto lo statuto di madre e di padre. È una negazione anatomica, biologica, culturale, antropologica, ma soprattutto simbolica. Tutto ciò non è senza conseguenze psichiche per il figlio o la figlia: vacilla la costruzione dell’identità sessuale, della differenza tra i sessi, del mito delle origini. Risulta scardinata la struttura della parentela, della genealogia, della filiazione, della trasmissione da una generazione all’altra.
Costantino: Dal punto di vista scientifico, il problema che si pone non è tanto se vi sia o no una differenza, ma se e come e attraverso quali fattori tale differenza impatti sul benessere dei bambini e sul loro sviluppo. Oggi le differenze negli assetti familiari sono vastissime e non riguardano solo il genere dei genitori o le loro scelte sessuali. Le famiglie monoparentali, vedove, separate, adottive, affidatarie, allargate, omogenitoriali o con culture di provenienza molto diverse tra i genitori sono una percentuale rilevante delle famiglie in cui crescono i bambini, negli Stati Uniti si parla di un terzo circa. Gli studi esistenti evidenziano che i fattori di rischio per la salute mentale sono gli stessi, trasversalmente a tutti gli assetti familiari.
Chi sostiene la tesi della “nessuna differenza” spiega che non è tanto importante il “genere” dei genitori, quanto la loro “funzione genitoriale”. Ma dal punto di vista psicopedagogico è davvero così?
Ricci: Da qualche anno, grazie alla visione gender, si parla sempre più di “funzione genitoriale” per giustificare l’idea che chiunque possa esercitare una funzione genitoriale, quindi anche coppie gay o lesbiche. È importante ricordare, invece, che è un elemento psichico strutturale il fatto che i figli possano crescere “immersi” nel duplice riferimento maschile e femminile rappresentato da un padre e da una madre. La differenza del loro statuto costituisce la garanzia simbolica che il figlio potrà crescere affermando a sua volta la differenza della propria individualità soggettiva. Ciò è fondamentale. Se così non fosse, rischia di incarnare, replicandolo, il desiderio dei genitori.
Costantino: Fare ricerca in questo campo è evidentemente complesso, perché il numero di variabili in gioco è molto alto, con rilevanti interazioni reciproche e pertanto richiede studi longitudinali e metodologie rigorose. Negli studi di buona qualità viene evidenziato come gli elementi maggiormente significativi per favorire uno sviluppo armonico dei bambini siano rappresentati dalla qualità delle relazioni tra genitori e figli, dallo spazio per la condivisione di emozioni, dal senso di competenza e di sicurezza dei genitori nell’esercitare il proprio ruolo e dal supporto economico e sociale disponibile. Se si corregge per tali fattori, la ricerca non evidenzia differenze significative tra le diverse tipologie di famiglie.
Spostare il discorso dal piano del “genere” a quello della “funzione” non rischia di dimenticare che una persona per crescere deve scoprirsi “figlio” al di là delle “competenze” genitoriali?
Ricci: Il concetto di filiazione, contrariamente a quello di riproduzione, è il dispositivo simbolico, sociale e individuale che presiede al progetto di fare un figlio. L’attuale modalità biotecnologica scompone il concetto di filiazione frammentando funzioni e statuti: nega la funzione paterna, svilisce il corpo della donna, riduce lo statuto materno a funzione riproduttiva. Un certo uso ideologico delle biotecnologie rischia di disintegrare l’edificio simbolico della filiazione. Quest’ultimo garantisce una permutazione dei posti simbolici (di padre in figlio) permettendo la possibilità che una società possa progettare il proprio futuro, cosa non del tutto evidente in questi tempi.
Costantino: Ci si scopre “figlio” attraverso le competenze genitoriali e la qualità delle relazioni che si sviluppano con le persone che si prendono cura di noi. Si tratta di una percezione di sé che non deriva dalla biologia o dalla genetica (per fortuna, basti pensare a tutto il complesso tema dell’adozione) ma dalla percezione che abbiamo giorno per giorno dell’amore, dell’ascolto, della fiducia, della presenza rispettosa e non invasiva dell’altro, capace di darci limiti fermi e sereni tutte le volte che è necessario, ma anche di restare al nostro fianco e accompagnarci quando crescendo abbiamo bisogno di allontanarci o scegliamo percorsi diversi da quelli che si aspettava.
Il diritto preteso da due omosessuali di avere un figlio comporta logicamente che quel bambino provenga da altrove. Questa volontà non rischia di creare diritti di serie A, quelli dei genitori, e di serie B, quelli del figlio?
Ricci: C’è un’evidenza inconfutabile che sembra sparire nel polverone dei dibattiti sui diritti gay: formalizzare o meno una relazione amorosa tra due individui adulti è un conto. Tutt’altra cosa quando entra in gioco il destino di un minore o di un nascituro, come nel caso dell’adozione omogenitoriale o della fecondazione eterologa. Qui la faccenda compie logicamente un salto radicale perché è introdotto un terzo. Infatti ne va del destino di un essere vivente che è collocato in uno status simbolico e giuridico di serie A o di serie B. Dobbiamo chiederci: tutto ciò non è forse un atto che rischia di essere razzista? Il diritto non dovrebbe garantire uguaglianza e pari opportunità per ciascuno?
Costantino: Il tema del possibile conflitto tra il diritto dei bambini e quello dei genitori è certamente di grande rilevanza e di non facile soluzione. È evidente che, come ci ricorda la convenzione Onu dei diritti dei fanciulli, l’interesse superiore del bambino deve sempre essere la considerazione preminente.
Esistono decine di ricerche realizzate soprattutto negli Usa in ambiente gender e altrettante “contro-ricerche” che dimostrano come questi studi abbiano attinto a modelli e campionature arbitrarie. Una guerra di dossier da cui emerge come un bambino inserito in una famiglia omosessuale, rappresenti una sorta di sperimentazione antropologica. Ma ne abbiamo il diritto?
Ricci: Nel corso della formazione psichica di un individuo è fondante la storia familiare, la sua narrazione e la sua narrabilità: la vicenda dell’origine, il riferimento a una genealogia, la strutturazione di un’identità che affonda le radici nell’incontro tra un uomo e una donna. Nel caso di una coppia gay, che ha cercato di “avere” a tutti i costi un bambino, il tema dell’origine rimane ingarbugliata in una dissipazione simbolica in cui posti e funzioni risultano confusi. Pur di nascondere questa evidenza viene detto che se c’è amore c’è tutto. Love is Love, si dice. Niente di più demagogico. Il nodo è che l’amore, in qualunque caso, è una condizione indispensabile ma non sufficiente per istituire.
Costantino: Dal punto di vista scientifico, dobbiamo monitorare e approfondire costantemente quali sono le potenziali conseguenze che i cambiamenti del modo di crescere i bambini, che avvengono indipendentemente da quanto possiamo ritenere giusto o sbagliato, possono avere sulla loro salute mentale. E abbiamo soprattutto il dovere di farlo con un metodo rigoroso che ci protegga dal rischio di influenzare i risultati alla luce delle nostre personali convinzioni, che possono essere pro o contro il cambiamento in atto, e di farlo “con” i bambini e non “sui” bambini. È la sfida più difficile per un buon ricercatore.
Sulla base delle nostre conoscenze scientifiche, abbiamo oggi la possibilità di affermare che i processi di crescita non rischiano di subire orientamenti patologici dal confronto con modelli genitoriali rappresentati da persone che sono entrambi uomini o entrambe donne?
Ricci: Se viene meno la possibilità, per un bambino o per una bambina, di trovarsi in un processo di identificazione con il genitore dello stesso sesso, le conseguenze psichiche sono serie. Sarebbe compromesso il processo di sessuazione che è la via attraverso cui un soggetto, nel corso di quasi due decenni della sua vita, dalla nascita all’adolescenza, approda alla propria identità sessuale. Far crescere un bambino nell’omogenitorialità significa sottoporlo a un lavoro psichico immane rispetto all’acquisizione della sua identità sessuale e più in generale rispetto alla sua soggettività esposta facilmente a una deriva identitaria.
Costantino: Fortunatamente oggi sappiamo che i processi di crescita e di formazione dell’identità personale e sessuale avvengono attraverso tutte le relazioni significative che i bambini e gli adolescenti strutturano nel corso della loro vita, e che è proprio questa ricchezza di identificazioni con possibili elementi differenti che sostiene la resilienza (il saper far fronte e superare le avversità) e lo sviluppo positivo. La ricerca non evidenzia una maggiore percentuale di omosessualità tra i bambini cresciuti in famiglie omoparentali.
Evidenzia invece un maggior livello di rischio per la salute mentale per tutte le situazioni di differenza (inclusa la vedovanza, la presenza di fratelli con disabilità o di genitori gravemente ammalati o disabili) nel momento in cui l’ambiente sociale e in particolare i pari anziché essere supportivi sono discriminanti. La presenza di differenze di qualunque tipo, se non adeguatamente gestita nei contesti scolastici e sociali, diviene spesso occasione di vittimizzazione e bullismo, con tutte le conseguenze purtroppo note.
Luciano Moia Avvenire 22 gennaio 2016
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/genitori-omosessuali.aspx
La pseudoscienza contro le famiglie.
«L’omogenitorialità è contraria ai diritti dei bambini, all’evidenza e ai riscontri scientifici», recita un volantino del comitato Difendiamo i nostri figli, principale organizzatore del Family Day. I protagonisti di questo dibattito – intensificato in concomitanza con la discussione in sede parlamentare del Ddl Cirinnà che include la stepchild adoption more (la possibilità di adottare, all’interno di una coppia omosessuale e in costanza di unione civile, il/la figlio/la del/la partner, non, come da più parti sottinteso, la possibilità di adottare tout court) – fanno riferimento al variegato mondo dei movimenti in difesa della famiglia cosiddetta tradizionale o “naturale”: Giuristi per la Vita, Scienza e Vita, Voglio la mamma, Sentinelle in piedi, Generazione famiglia – La Manif Italia.
Un aspetto interessante del discorso pubblico prodotto da questo insieme di attori – principalmente attraverso conferenze e diffusione di video, testi e opuscoli – è costituito dal tentativo di ricorrere all’argomentazione scientifica per sostenere l’illegittimità di ogni forma di riconoscimento di un legame familiare tra genitori omosessuali e i loro figli. L’argomento “scientifico”, ad esempio, viene dettagliatamente illustrato nel libretto “L’omogenitorialità ovvero l’adozione omosessuale” edito dal collettivo La Manif pour tous Italia, di Massimo Gandolfini (medico, specializzato in neurochirurgia e in psichiatria, portavoce del Comitato Difendiamo i nostri figli) e Roberto Marchesini (psicologo psicoterapeuta). La tesi di fondo è che l’evidenza scientifica sinora prodotta a livello internazionale sull’omogenitorialità è troppo scarsa e viziata da falle metodologiche. Esaminiamo di seguito i principali elementi di critica.
«Ci sono poche ricerche». La mole di ricerche sulla crescita, la salute e l’adattamento dei bambini cresciuti con genitori omosessuali è costituita – secondo Gandolfini e Marchesini – da “soli 9 studi” (p. 4). Non si comprende come questi 9 studi siano stati identificati, ma quello che è certo è che, sin dagli anni 70, la comunità scientifica ha prodotto centinaia di ricerche sull’argomento, che hanno continuato a confermare l’assenza di danni sui bambini derivanti dal crescere con genitori dello stesso sesso, e hanno soprattutto analizzato in profondità processi, dinamiche e transizioni della famiglia a fondazione omosessuale.
«I campioni sono viziati». La seconda obiezione riguarda presunti vizi nel campionamento nelle indagini sinora condotte. Sempre secondo gli autori, mancherebbero ricerche sui “grandi numeri” (e se questo è vero per l’Italia, non lo è certo per altri Paesi, come gli Stati Uniti). In mancanza di grandi numeri, si ricorre allora a un paragone inquietante e scientificamente improponibile. Gli autori affermano che gli effetti dell’assenza di una figura paterna o materna sarebbero infatti già stati resi noti dall’enorme mole di ricerche sulle patologie e le sofferenze “dell’infanzia orfana, abbandonata, istituzionalizzata” (p. 17), come se i bambini che crescono con due genitori dello stesso sesso potessero essere assimilati a bambini che hanno subito un abbandono o una perdita. Sempre rispetto al campionamento, si addita come grave problema il fatto che nelle indagini esistenti i genitori partecipanti “si sono offerti volontari” (p. 5). In realtà, come gli autori dovrebbero ben sapere ma fingono di ignorare, in ogni ricerca che coinvolge soggetti umani i partecipanti devono essere volontari, poiché il ricercatore è tenuto (per legge, e per etica professionale) a rispettare in ogni fase della ricerca la loro libera scelta di prendere parte allo studio. La correttezza metodologica nella costruzione di un campione è responsabilità del ricercatore e non ha nulla a che vedere con la volontarietà dei partecipanti.
«Manca il gruppo di controllo». L’unica metodologia di ricerca scientificamente valida, secondo Gandolfini, è quella di tipo sperimentale. Applicata alle relazioni familiari, questa idea di ricerca richiederebbe di isolare l’orientamento sessuale dei genitori, o la convivenza prolungata con una coppia omosessuale, come fattore che incide sullo sviluppo dei figli, e misurare i suoi effetti a partire dallo scarto rispetto a un gruppo di controllo costituito da famiglie eterosessuali “pure” (che dovrebbero essere sposate e intatte – a rappresentare la “norma”, probabilmente). Su questo punto, le questioni aperte sono due. Innanzitutto, la ricerca sull’omogenitorialità utilizza già modelli sperimentali e quasi sperimentali sin dai suoi albori. La più recente bibliografia ragionata in materia, elaborata da Federico Ferrari in La famiglia inattesa. I genitori omosessuali e i loro figli, mostra che quasi la metà degli studi condotti, anche in Italia, ha utilizzato un gruppo di controllo per studiare salute psicofisica, adattamento sociale, capacità genitoriali e molti altri temi. La ricerca sperimentale, però, sia in medicina sia nel campo delle scienze umane, ha abbandonato da tempo il modello causale lineare che vorrebbe Gandolfini (genitori omosessuali = aumentato rischio di disagi nei figli) e utilizza modelli di spiegazione complessi e multi-fattoriali, che tengono conto, per esempio, del fatto che una famiglia non vive in un vuoto, ma ha delle caratteristiche (come la condizione economica, o la storia familiare); interagisce con un contesto – con le sue norme e i suoi sistemi di significato – ed è protagonista di dinamiche sociali (per esempio, ha o non ha una rete di supporto). Lo studio della relazione famiglia-contesto consente, inoltre, di comprendere l’esperienza di stress nelle situazioni di costante disconferma sociale dei genitori (minority stress) e le probabili ripercussioni sulla vita quotidiana dei figli.
Infine, la logica sperimentale è una modalità di ricerca, non l’unica. È adatta a rispondere ad alcuni tipi di domande (un farmaco funziona? L’introduzione di un nuovo metodo di insegnamento ha un impatto sulla riuscita scolastica dei bambini?), ma non a tutte le domande a cui la ricerca scientifica può e deve dare risposte. Gandolfini e Marchesini criticano la ricerca corrente sull’omogenitorialità, colpevole a loro avviso di studiarla come fenomeno sociale esistente.
Sarebbero pertanto inutili e tendenziose le indagini sulla vita concreta delle famiglie con genitori dello stesso sesso: studiare queste famiglie senza l’obiettivo di verificarne la “validità” porterebbe, pericolosamente, a considerarle parte integrante dell’universo sociale. Tutto questo dimenticando -piccolo particolare – che la scienza, almeno da Galileo in poi, si propone di indagare in modo approfondito e critico i fenomeni reali, e non di dare, al prezzo di dubbie contorsioni pseudoscientifiche, patenti di legittimità o circoscrivere le possibilità di esistenza di ciò che non si conforma a un modello dominante.
Chiara Sità Ricercatrice in pedagogia, UCSC Milano, Università di Verona
Massimo Prearo Centro di ricerca Politesse, Università di Verona
La rivista il mulino 28 gennaio 2016
www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:3089
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GOVERNO
Enrico Costa è il nuovo ministro agli Affari regionali e alla famiglia.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha firmato il 29 gennaio 2016, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, il decreto di nomina a ministro senza portafoglio di Enrico Costa, già sottosegretario di Stato presso il ministero della Giustizia. Costa prenderà la delega agli affari regionali e alla famiglia. Subito dopo il nuovo ministro ha prestato giuramento nelle mani del Capo dello Stato
www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-01-29/giura-quirinale-enrico-costa-nuovo-ministro-affari-regionali–193254.shtml?uuid=ACIiwAKC
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OMOFILIA
Omosessuali si nasce? Facile a dirsi…ma non è così.
Uno scienziato americano rilancia la tesi della predisposizione biologica all’omosessualità. Gli esperti cattolici: è uno studio sbagliato. Essere gay o lesbiche non è una scelta, ma una predisposizione biologica sulla quale solo successivamente intervengono fattori socio-ambientali, culturali ed educativi. A sostenerlo è uno scienziato statunitense, Simon LeVay, omosessuale e attivista del movimento gay (L’Espresso, 5 gennaio 2016). Nel 1991, come racconta nel suo libro “Gay, Straight, and the Reason Why. The Science of Sexual Orientation” (appena tradotto da Cortina con “Gay si nasce? Le radici dell’orientamento sessuale”, con una prefazione dello psichiatra Vittorio Lingiardi) LeVay pubblicò un breve articolo su Science intitolato “Una differenza nella struttura dell’ipotalamo tra uomini eterosessuali e omosessuali”, prendendo in esame campioni di ipotalamo di uomini e donne deceduti e sottoposti all’autopsia, di cui la metà gay (tutti deceduti per Aids).
Partendo dalle sue ricerche è quindi giunto ad affermare che le origini dell’orientamento vanno ricercate nell’interazione tra gli ormoni sessuali e il cervello in via di maturazione. Queste interazioni sono ciò che predispone lo sviluppo della nostra mente verso un certo grado di “mascolinità” o di “femminilità”. Più specificamente, lo sviluppo sessuale è regolato da una sequenza di interazioni, simile a una cascata, tra geni, ormoni sessuali e cellule del corpo e del cervello in sviluppo. Processi che non avvengono in completo isolamento dal mondo esterno, ma interagiscono con i fattori ambientali, sviluppandosi poi in maniera differenziata negli individui e producendo così orientamenti sessuali diversi.
“No” alle credenze tradizionali. Lingiardi nella prefazione di “Gay si nasce” evidenzia che LeVay “tenta di riunire le varie linee di ricerca in una teoria coerente dell’orientamento sessuale, in contrasto con le credenze tradizionali che hanno ascritto l’omosessualità a dinamiche familiari, apprendimenti, esperienze sessuali precoci o libera scelta”.
“Complessità inesauribili”. Allo stesso tempo, Lingiardi afferma che la forza della biologia non significa rivendicare l’esistenza di una causa-effetto lineare, come lo stesso LeVay ricorda più volte nel corso del suo studio. “Abbiamo a che fare con complessità inesauribili”, sottolinea lo psichiatra, “e la verità è che ancora non sappiamo come esattamente le forze biologiche, la regolazione affettiva nelle relazioni primarie, le identificazioni, i fattori cognitivi, l’uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla sua sessualità”.
Cause dell’orientamento sessuale. Nicola Carone, curatore insieme a Luca Rollè dell’edizione italiana del libro di LeVay, tiene a fare una premessa ad Aleteia: “Oggi le più importanti associazioni scientifiche e professionali, in accordo con i risultati della ricerca empirica, concordano sul fatto che nessun aspetto – genetico, ormonale, evolutivo, sociale e culturale – sia di per sé sufficiente a spiegare le cause dell’orientamento sessuale. Ma non va dimenticato che, per molto tempo, la psicologia e la psicoanalisi hanno creduto di trovare una risposta in una particolare configurazione familiare, sostenendo che le persone omosessuali sarebbero il “prodotto” di madri iperprotettive e di padri assenti o poco coinvolti”.
Studi su gemelli. Per distinguere le influenze ambientali da quelle genetiche sull’orientamento sessuale “alcuni ricercatori hanno condotto studi sui gemelli: sia l’ereditarietà sia l’ambiente familiare non condiviso, cioè la porzione di variabilità che non è spiegata né dalla genetica né dalla somiglianza familiare dovuta all’ereditarietà (ambiente familiare condiviso) avrebbero un effetto significativo sullo sviluppo dell’omosessualità in entrambi i sessi”.
Genotipi e cultura. Data la “circolarità dell’interazione tra geni ed esperienza”, una premessa corretta, secondo Carone sarebbe la seguente: “Quanto le differenze osservate tra le persone dipendono dalle differenze tra genotipi e quanto dalle differenze tra gli ambienti e le culture nei quali sono nate, sono state cresciute ed educate?”.
Differenze biologiche e di personalità. Da qui, lo studioso, evidenzia che LeVay, da neuroscienziato, “si sofferma soprattutto sulle differenze biologiche (tra cui il rapporto tra la lunghezza delle dita e del busto, la dimensione dell’INAH3), ma cita anche alcune caratteristiche di genere, tratti cognitivi e di personalità. Io ritengo che la differenza fondamentale sia nel modo in cui omosessualità, bisessualità ed eterosessualità vengono considerate e trattate socialmente: ancora stigmatizzata la prima, quasi del tutto ignorata la seconda, ritenuta la norma la terza”.
La tesi di Freud. Lo stesso LeVay, prosegue il curatore dell’edizione italiana di “Gay si nasce”, “afferma che gli elementi socioculturali influiscono notevolmente sui modi in cui l’orientamento sessuale si esprime anche all’interno di una stessa categoria, e conferma quanto sia dannoso, oltre che inefficace, il tentativo di modificare l’orientamento sessuale, dal momento che è “un aspetto piuttosto stabile della natura umana” (p. 5). A questo proposito, già Sigismund Schlomo Freudnel 1920 sosteneva che “l’impresa di trasformare un omosessuale pienamente sviluppato in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta; l’unica differenza è che quest’ultima, per ottimi motivi di ordine pratico, non viene mai tentata” (p. 145)”.
I limiti di Levay. Ma in questo studio di LeVay si possono trovare anche dei limiti? “Alcuni studi – replica Carone – nel campo delle neuroscienze presentano sempre il rischio di un certo riduzionismo. Un altro limite, riguarda il fatto che le ricerche da lui condotte hanno coinvolto adulti sessualmente attivi per un consistente periodo di tempo, rendendo difficile stabilire se differenze strutturali erano già presenti alla nascita o si sono formate in età adulta, magari proprio per effetto del comportamento sessuale”.
Uno studio strumentalizzato. Va detto che gli studi di LeVay non vennero più ripresi da nessun altro ricercatore, ma servirono agli attivisti gay per affermare che gli omosessuali costituiscono una sorta di “popolazione” di individui nati diversi. Le sue ricerche servirono a soddisfare la sete di notizie a favore della liberalizzazione sessuale e dell’attivismo gay. Tuttavia, fu lo stesso LeVay ad ammettere con candore di non essere riuscito a provare che “omosessuali si nasce”. Secondo quanto riportato da David Nimmons nell’articolo “Sex and the Brain” apparso sulla rivista Discover (marzo 1994), LeVay avrebbe dichiarato quanto segue: “Bisogna considerare ciò che non sono riuscito a dimostrare. Non ho provato che l’omosessualità è genetica, né ho trovato una causa genetica dell’omosessualità. Non ho dimostrato che omosessuali si nasce. Affermare il contrario è l’errore più comune di chi cerca di trarre delle conclusioni sul mio lavoro”. A distanza di dieci anni dalle prime notizie sulla sua ricerca, LeVay ha poi ammesso su una rivista gay che i suoi studi erano stati strumentalizzati, cioè ingigantiti, usati impropriamente e travisati a scopo politico, anche se, dal punto di vista dell’attivismo gay, la strumentalizzazione era stata di grande utilità (Mubarak Dahir, “Why Are We Gay?”, in The Advocate, 17 luglio 2001).
“Ok alla prudenza di Lingiardi”. Il mondo cattolico, invece, come reagisce alle tesi di LeVay? Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici dice di condividere “la prudenza e la correttezza” del professor Lingiardi, quando afferma che, in relazione alla genesi dell’orientamento omosessuale, “abbiamo a che fare con complessità inesauribili”. “Perciò – taglia corto Cantelmi – quando leggo titoli come “Vi dimostro che gay si nasce” (L’Espresso, 5 gennaio) è piuttosto una enfatizzazione ideologica, assai lontana dai dati reali”.
I due errori di LeVay. Il presidente degli psichiatri cattolici annuncia due considerazioni per “ridimensionare” lo studio di LeVay. “La prima: il tutto parte da uno studio di oltre 15 anni fa sul cervello di omosessuali deceduti per AIDS, in una epoca in cui le terapie farmacologiche erano agli esordi e le conseguenze della malattia coinvolgevano tutti gli organi, anche il cervello. Una notevole quantità di critiche furono fatte alla metodologia e alla limitatezza delle osservazioni di Le Vay”.
“Il “peso” di geni e traumi. La seconda considerazione, prosegue Cantelmi, “appartiene ad un ragionamento meno emotivo di quel “Vi dimostro…”. Partiamo da un esempio che non c’entra nulla: sono migliaia gli studi genetici che riguardano la schizofrenia, per esempio, e nessuno è ancora in grado di stabilire quanto pesi la genetica e quanti geni sono coinvolti e quanto invece pesino esperienze precoci disorganizzanti o traumatiche, aspetti familiari e ambientali e persino aspetti sociali”. E questo “vale ancora di più quando dalla patologia passiamo a fenotipi comportamentali normali”.
“Universo” da scoprire. Insomma, conclude Cantelmi, “ha ragione Lingiardi, quando afferma che “la verità è che ancora non sappiamo come esattamente le forze biologiche, la regolazione affettiva nelle relazioni primarie, le identificazioni, i fattori cognitivi…le pressioni culturali…contribuiscano alla formazione del soggetto e alla sua sessualità””.
Favorire non è determinare. Emiliano Lambiase, psicologo e psicoterapeuta, coordinatore del CEDIS (il primo centro italiano per la cura delle dipendenze comportamentali) concorda su un punto: il fatto che ci siano “elementi biologici a favorire un orientamento sessuale piuttosto che un altro è un elemento ormai condiviso da quasi tutti. Gli indizi sono davvero tanti, e per tanti elementi diversi. Favorire, però, non vuol dire determinare: non tutti quelli che hanno avuto questi “favoritismi” biologici sono divenuti omosessuali; non tutti hanno avuto gli stessi “favoritismi”; non tutti quelli che non li hanno avuti sono divenuti eterosessuali ma alcuni anche omosessuali”. Una delle ultime ipotesi è quella epigenetica.
“Alzato un polverone”. Inoltre, continua Lambiase, affermare che sia un dato biologico a determinare l’orientamento sessuale “non dice niente riguarda la normalità o meno o l’immutabilità o meno (sono sostanzialmente immutabili e solo modificabili anche altre caratteristiche di personalità del tutto apprese e non innate)”. Ma in Italia, attacca lo psicologo, “siamo bravi a rivangare vecchie tesi solo perché viene tradotto, con ritardo, un libro di anni fa. Questo è possibile solo perché non leggiamo la letteratura internazionale (nemmeno i vari commenti divulgativi) nel momento in cui vengono pubblicati in lingua originale. Insomma, un gran polverone per un dibattito ormai superato”. Quindi, “per ora non sappiamo ancora (e forse mai sapremo) quali sono le origini dell’omosessualità”.
L’errore di LeVAY. Lambiase è molto critico sulla metodologia utilizzata da LeVay, che, ricordiamo, ha preso in esame campioni di ipotalamo di uomini e donne deceduti e sottoposti all’autopsia, di cui la metà gay (tutti deceduti per Aids). Riguardo l’ipotalamo, il direttore del Cedis cita il libro Il sesso del cervello, in cui si bacchetta il metodo LeVay: “La comunità scientifica ha avanzato delle serie obiezioni, non soltanto a causa delle implicazioni ideologiche di questa tesi, ma soprattutto perché la validità dei risultati pubblicati può essere contestata. La distorsione principale è che gli uomini omosessuali coinvolti nella ricerca erano affetti da AIDS (contrariamente agli uomini e alle donne eterosessuali)”.
“Scientificamente non valido”. Com’è ben noto, si legge ancora su Il sesso del cervello, “il virus dell’AIDS penetra nel cervello, causando delle lesioni. Di conseguenza, il confronto tra omosessuali deceduti a causa dell’AIDS e il gruppo di controllo non è scientificamente valido. Inoltre, è poco plausibile che un minuscolo nucleo dell’ipotalamo controlli i comportamenti sessuali umani, estremamente complessi e vari, perché condizionati dalla storia personale di ciascun individuo. Non è sorprendente dunque constatare che altre équipe di ricerca non siano riuscite a replicare i risultati di LeVay”. Lambiase chiosa: “La ricerca è stata fatta a posteriori, su uomini deceduti per AIDS, quindi come poter dire se quella zona del cervello era così in origine oppure lo è divenuta?”
Gelsomino Del Guercio Aleteia 18 gennaio 2016
http://it.aleteia.org/2016/01/18/omosessuali-si-nasce-facile-a-dirsima-non-e-cosi
L’omosessualità è un tema presente nei Vangeli?
Gesù prende mai posizione a favore o contro di essa? E contempla le unioni omosessuali? Le Sacre Scritture che dicono a riguardo? «Il tema è spinoso da diversi punti di vista, ma chiaro – premette il professore Robert Gahl jr, docente di Etica Fondamentale della Pontificia Università della Santa Croce – Va detto che non siamo dei letteralisti biblici, come lo sono alcuni fondamentalisti evangelici, quindi non possiamo stabilire con certezza cosa Gesù intendesse quando pronunciava un discorso dalla mera analisi delle parole dette. Bisogna, invece, leggerle nel contesto e nel senso che furono sempre interpretate dalla Chiesa, che è la comunità che ci tramanda la Bibbia come testo di riferimento».
Gahl evidenzia: «La nostra non è una “religione del libro”, ma una “religione di fede”, nel senso che crediamo in una persona, Gesù Cristo, che ha fondato la Chiesa, e nei suoi insegnamenti». E ancora: «Normalmente un cattolico legge i Vangeli non come componenti autonome, ma come facenti parte delle Sacre Scritture, e pertanto vanno contestualizzati». Ora con il docente di Etica Fondamentale della Pusc incamminiamoci in questo viaggio nei Vangeli per capire Gesù cosa pensava in relazione alla sessualità e come le Sacre Scritture si innestano.
Sessualità deviata. Un concetto ricorrente, evidenzia Gahl, è quello di “porneia”. Si tratta di una parola che viene intesa in italiano come impurità. La radice della parola appare in:
v Matteo 5,32 (31 Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; 32 ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio);
v Matteo 21,31-32 (31 Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L’ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32 È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto);
v Matteo 15-19 (Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie);
v Matteo 19-09 («Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio»);
v Luca 15-30 (Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso);
v Giovanni 8,41 (Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!»);
v Marco 7,21 (Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi);
v Marco 7, 20-23 (20 Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. 21 Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, 22 adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza).
Unione uomo-donna. Nei Vangeli, quindi, si esprime con chiarezza il concetto di una sessualità deviata che richiama all’adulterio e alla prostituzione come accezioni fortemente negative. Una sessualità “corretta” è quella vissuta dal marito con la propria moglie. Ci sono numerosi insegnamenti positivi, infatti, che illuminano su come deve essere vissuto il matrimonio: Gesù parla di unico matrimonio come tra uomo e donna. Uno su tutti: Matteo 19, 4-5 (4 Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: 5 Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola). Sempre da questo passo dal Vangelo si evince chiaramente che i sessi sono due: maschio e femmina.
Sodoma e Gomorra. Sempre per quanto riguarda la sessualità deviata, ricorrenti, in tal senso, sono i riferimenti alla distruzione divina delle città di Sodoma e Gomorra (Matteo 10,15; Matteo 11,24; Luca 17, 28-37). Distruzione che sarebbe avvenuta per gli atti impuri commessi dai suoi abitanti e di cui Dio sarebbe stato a conoscenza. Giuda 1,7-8 parla de “la fornicazione e i vizi contro natura”, che probabilmente è una descrizione dell’omosessualità. Ezechiele 16,49-50 dice che era di non aiutare i poveri pur essendo ricchi, di essere superbi e commettere abominazioni. La natura delle abominazioni non è specificata, ma è la stessa parola usata per condannare l’omosessualità in Levitico 18,22 (Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole)
Il significato di “Sodom”. Sul motivo della distruzione di Sodoma e Gomorra è in corso un dibattito ampio con gli studiosi divisi tra omosessualità o inospitalità, come cause dell’ira divina. Molto interessante, spiega Gahl, è un paragrafo molto del libro di Mark Jordan, The Invention of Sodomy in Christian Theology.
Jordan, teologo americano, difensore dell’ideologia gay, mentre sostiene che la parola “sodomia” fu coniata nel suo senso attuale da San Pier Damiani, teologo medioevale, nell’XI secolo, come un atto specifico nella sua fisicità, ammette comunque che la parola “Sodom” ha significato di sterilità e disordine sessuale dal tempo di Gesù e che Padri della Chiesa, nell’antichità (è il caso di Sant’Agostino, San Girolamo, San Gregorio) intendevano la parola anche con un significato di delitti maschili sessuali contro la natura.
Contesto e Vangelo. Jordan, -evidenzia il docente di Etica Fondamentale della Santa Croce Robert Gahl jr, – cerca di rileggere la tradizione, gettare colpa su alcuni teologi medievali, e poi propone uno sviluppo di dottrina a favore della omosessualità. Riconosce che la Chiesa l’ha sempre ritenuta immorale ma ritiene che tale giudizio risentiva più dal contesto culturale che dal vangelo cristiano.
Gli “abomini” degli abitanti. Le tesi dello storico dell’Università di Yale John Boswell, autore di Christianity, Social Tolerance, and Homosexuality e del teologo D. Sherwin Bailey, autore di Homosexuality and the Western Christian Tradition (1955) puntano a escludere l’omosessualità come una causa scatenante della distruzione di Sodoma, e sostengono che Sodoma fu distrutta perché il popolo di Sodoma aveva cercato di violentare gli angeli (Boswell), e per stupri e inospitalità (Bailey), senza mai alludere alla presunta omosessualità. L’apologeta cristiano Greg Koukl ricostruisce il racconto della Genesi (19, 5-8) e replica ai due autori evidenziando che le gravi malvagità commesse dagli abitanti, gli “abomini”, la sessualità deviata riconducono invece a rapporti omosessuali tra gli abitanti.
La condanna di san Paolo. Molto nette, invece, sono le parole di San Paolo sui rapporti sessuali tra uomini. A differenza dei Vangeli, non si limita a spiegare quali sono le “buone pratiche” sessuali e quali quelle deviate, ma c’è un affondo diretto, per esempio, agli “atti ignominiosi uomini con uomini”. Nella lettera di San Paolo ai Romani 1,27 c’è un passaggio cruciale, che va contestualizzato: [24] Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, [25] poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen. [26] Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. [27] Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. [28] E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, “
Ancora più netta, è la lettera di San Paolo ai Corinzi 1, 9-10: [9] O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, [10] né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio.
Mentre nella lettera a Timoteo 1, 10, rilancia il monito contro i sessualmente deviati: [8] Certo, noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne usa legalmente; [9] sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, [10] i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini. Qui emerge una parola greca molto dibattuta: arsenokoites, cioè uomini che dormono insieme, che condividono la stessa stanza seconda la lettura tradizionale delle Sacre Scritture. E quindi potrebbe risultare un altro riferimento diretto alla omosessualità.
Il dibattito sulla volontarietà. In riferimento al Levitico 20, 13, invece, emerge che se un uomo ha relazioni carnali con un altro uomo, ambedue hanno commesso un atto abominevole; e dovranno esser messi a morte; il loro sangue ricadrà su loro. Si parla di essere messi a morte, di sangue sulla loro testa. Alcuni studiosi non tradizionalisti mettono in discussione questa lettura, secondo loro il rapporto sessuale sarebbe frutto di una violenza o non è consensuale tale relazione. Pertanto non si può considerare omosessuale.
La teologia medioevale. Infine bisogna ricordare che fino alla teologia medioevale, perlomeno, lo sposarsi tra uomo e donna, la condanna di qualsiasi atto impuro al di fuori di questa unione era un comportamento ovvio, non era neppure al centro delle discussioni, era evidente. Il “libro Gomorriano” di San Pier Damiani è il primo testo ad affrontare in maniera diretta il tema dell’omosessualità: tutti gli ecclesiastici colpevoli di qualsiasi atto omosessuale devono essere immediatamente degradati, a qualunque grado essi appartengano. Damiani ritiene completamente assurdo che quelli che si macchiano abitualmente con questa malattia purulenta osino entrare nell’ordine o rimanere nel loro grado.
Gelsomino Del Guercio Aleteia 29 gennaio 2016
http://it.aleteia.org/2016/01/29/cosa-pensava-gesu-della-omosessualita
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SEPARAZIONE E DIVORZIO
Focus sui rapporti economici in caso di separazione e divorzio.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 225, 11 gennaio 2016.
A seguito di una separazione o di un divorzio, come spesso accade, i rapporti tra gli ex coniugi non risultano certo idilliaci ed uno dei principali motivi di contrasto riguarda la definizione degli aspetti economici.
Tanto è vero che il contenzioso in materia è estremamente corposo e spazia dall’assegnazione della casa coniugale, all’assegno di mantenimento, fino a sfociare in problematiche di carattere penale.
La Suprema Corte di Cassazione, con tre recentissime sentenze, ha affrontato proprio questi aspetti. Interessante il caso sottoposto all’attenzione della IV sezione civile della Corte di Cassazione, risolto con l’ordinanza n. 225, dell’11.01.2016, in materia di onere della prova in relazione ai redditi percepiti dai coniugi. La questione atteneva a due ex coniugi – uno dei quali aveva iniziato una nuova stabile convivenza – a cui il giudice di primo grado aveva chiesto conto in merito all’effettiva consistenza patrimoniale, anche con la produzione degli estratti conto bancari, al fine di eventualmente prevedere e determinare l’assegno di mantenimento in favore del coniuge meno abbiente. Sta di fatto che proprio il coniuge che nel frattempo si era creato una nuova famiglia, non ottemperava all’ordine del giudice, così impedendo all’altro coniuge che – nel frattempo aveva diligentemente prodotto tutta la documentazione richiesta – di poter compiutamente approntare e calibrare le proprie difese, anche in virtù dell’esatta conoscenza del patrimonio dell’ex coniuge. La Suprema Corte, oltre a ricordare il proprio precedente per cui: “L’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo”, circostanza che escluderebbe alla radice qualsivoglia obbligo di mantenimento a carico dell’altro coniuge, evidenzia come in caso di mancato ottemperamento ad un ordine del giudice, tale comportamento risulta foriero di determinate conseguenze. Circostanza per la quale solo uno dei coniugi onerati aveva ottemperato ad una richiesta giudiziale senza dubbio rivolta ad entrambe le parti in causa. Tanto è vero, sottolinea la Suprema Corte, che: “pur avendo il giudice, al riguardo, poteri discrezionali, va ricordato che l’inosservanza dell’ordine di esibizione di documenti integra un comportamento dal quale il giudice può desumere argomenti di prova a norma dell’art. 116, comma secondo, cod. proc. civ. … quando la richiesta è di tipo simmetrico e rivolta ad entrambe le parti, un tale comportamento risulta neutro ove le medesime abbiano osservato lo stesso contegno (positivo o negativo) ma non quando una abbia lealmente eseguito la richiesta e l’altra no”. Ciò posto, ferma restando la discrezionalità del giudicante, lo stesso, tuttavia, qualora decida di utilizzare la documentazione fornita “lealmente” dalla parte diligente, deve anche rigorosamente motivare come intenda valutare il comportamento della parte che non ha adempiuto al suo ordine (“comportamento negativo”), pena il difetto di motivazione. Conclude pertanto la Corte enunciando il seguente principio: “In tema di prova in ordine alla capacità reddito-patrimoniale dei coniugi nei giudizi di separazione e divorzio, ove il giudice abbia chiesto ad entrambe le parti l’esibizione della documentazione relativa ai rapporti bancari da ciascuna intrattenuti, ed una sola di essi abbia ottemperato alla richiesta fornendo materia per gli accertamenti giudiziali, il giudice che di essi abbia fatto uso ha l’obbligo di motivare in ordine al significato del comportamento omissivo della parte inottemperante, costituendo l’asimmetria comportamentale ed informativa un comportamento da cui desumersi argomenti di prova a norma dell’art. 116, comma secondo, cod. proc. civ.”
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 223, 11 gennaio 2016.
Entrando nel merito della congruità dell’assegno di mantenimento e della sua determinazione, risulta pacifico che ciò debba essere valutato sulla scorta della consistenza patrimoniale di entrambi i coniugi, nella quale rientra a pieno titolo anche l’eventuale patrimonio immobiliare. Tuttavia, una cosa è la proprietà di una abitazione, un’altra è la mera disponibilità di un appartamento, sia essa dovuta a titolo di amicizia, cortesia ovvero in virtù di una occupazione di fatto. Tanto ha stabilito la Corte di Cassazione. A seguito della sentenza di primo grado di scioglimento degli effetti civili del matrimonio concordatario e la previsione dell’obbligo, a carico di uno dei due coniugi, di versare in favore di quello meno abbiente un assegno di mantenimento, dopo il rigetto dell’appello, il coniuge gravato dell’obbligo di versamento dell’assegno divorzile proponeva ricorso per cassazione, in virtù della presunta mancata verifica delle condizioni patrimoniali del coniuge beneficiario. In particolare, il coniuge ricorrente eccepiva che il giudice di secondo grado, al pari di quello del primo, non avrebbe tenuto conto della circostanza relativa alla disponibilità di un appartamento in capo all’altro coniuge, circostanza che, a suo dire, avrebbe comportato una diversa quantificazione, al ribasso, dell’assegno di mantenimento di cui era stato onerato. Di contrario avviso la Suprema Corte, la quale, dopo aver premesso che il dedotto motivo di appello comporta, essenzialmente, un non consentito riesame delle risultanze processuali sotto forma di una diversa valutazione delle stesse, richiesta inammissibile in sede di giudizio di legittimità, tuttavia, non disdegna di entrare nel merito e respingere il ricorso anche sotto tale aspetto. Riferisce il Collegio come: “nell’impianto motivazionale della decisione impugnata, non risulta trascuratezza decisiva la presunta occupazione di fatto di un immobile da parte intimata, atteso che una tale situazione – ove anche esistente e, quindi, in ipotesi, pienamente provata – va considerata precaria e come tale facilmente risolubile da parte dell’avente diritto con gli ordinari strumenti volti a recuperarne il possesso o la detenzione”. A tal proposito, infatti, la misura dell’assegno in favore del coniuge più debole, non può tener conto di circostanze precarie, che per loro natura possono venir meno in tempi anche brevi. Peraltro, riferisce la Corte, anche il sopraggiungere di nuove relazione e filiazioni del coniuge obbligato, non possono comportare diminuzione del dovere di contribuzione posto a suo carico. Con ciò conclude la Corte, con riferimento all’occupazione di fatto di un immobile da parte dell’ex moglie: “la valutazione di una tale utilità fuoriesce dall’ambito valutativo proprio dei valori legalmente posseduti da ciascuno dei coniugi, rimanendo la difficoltà di liberazione dell’immobile da parte del proprietario un dato di fatto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali”
www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17506068/L-occupazione-di-fatto-di-un-immobile-da-parte-del-beneficiario-non-vale-a-ridur.html
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 535, 8 gennaio 2016.
Ancora di recente la Suprema Corte, si è occupata anche dal punto di vista penalistico di una questione abbastanza frequente, vale a dire la violazione dell’obbligo del versamento dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge beneficiario. La legge 1 dicembre 1970, n. 898, disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, e prevede che il tribunale stabilisca a carico del coniuge non affidatario, tra l’altro, la modalità e la misura di contribuzione al mantenimento dei figli, con la corresponsione di assegno di mantenimento, nonché il criterio di adeguamento automatico dello stesso (art. 5). Inoltre, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, in virtù delle condizioni patrimoniali dei coniugi, nonché delle ragioni della decisione, può disporre l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente, a favore dell’altro, un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive, indicando il criterio di adeguamento automatico del predetto assegno, che deve essere almeno parametrato agli indici di svalutazione monetari (art. 6). L’art. 12-sexies della predetta legge, dispone quindi che: “Al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge si applicano le pene previste dall’art. 570 del codice penale”. Vale a dire la reclusione fino a un anno o la multa da Euro 103,00 a Euro 1.032,00 (art. 570 c.p.). La Corte di Cassazione chiarisce quando ricorrono i presupposti per l’applicabilità dell’art. 12-sexies della L. 898/1970 ovvero quelli per l’applicabilità dell’art. 570 c.p., che prevede e punisce la diversa fattispecie relativa alla violazione degli obblighi di assistenza familiare. Ed invero, chiarisce la Corte: “ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 12-sexies L. n. 898/1970 è sufficiente dimostrare la volontaria sottrazione all’obbligo di corresponsione dell’assegno determinato dal tribunale”, di contro, ai fini della sussistenza del reato previsto dall’art. 570 c.p., è necessario che: “all’inadempimento consegua anche il far mancare i mezzi di sussistenza”. In altri termini, ferma restando la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento, il discrimine tra i due reati è pertanto dato: 1) dallo stato di bisogno dei familiari beneficiari dell’assegno; 2) la consapevolezza dell’obbligato in merito alla necessità dei propri congiunti; 3) la sua effettiva capacità di fornire i mezzi di sostentamento. Tanto è vero che: “il reato previsto dall’art. 570, secondo comma n. 2, cod. pen. ha come presupposto necessario l’esistenza di un’obbligazione alimentare ai sensi del codice civile, ma non assume carattere meramente sanzionatorio del provvedimento del giudice civile nel senso che l’inosservanza anche parziale di questo importi automaticamente l’insorgere del reato, di tal che, per configurare l’ipotesi delittuosa in esame, occorre che gli aventi diritto all’assegno alimentare versino in stato di bisogno, che l’obbligato ne sia a conoscenza e che lo stesso sia in grado di fornire i mezzi di sussistenza” Con la sentenza, la Corte ricorda il proprio precedente per cui: “ai fini della configurabilità del reato previsto è punito dall’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, ivi compresa la oggettiva rilevanza del mutamento di capacità economica intervenuta, in relazione alla persona del debitore, mentre deve escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (Sez. 6, n. 159898 del 09/04/2014, S. Rv. 259895)”. Ciò posto, affinché possa ritenersi configurato il reato di cui all’art. 12-sexies L. 898/1970, risulta sufficiente il mero inadempimento dell’obbligo di mantenimento imposto dal giudice, mentre per la configurabilità del diverso reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare, ex art. 570 c.p., occorre che il giudice accerti ed evidenzi la mancanza dei mezzi di sussistenza, in considerazione delle effettive disponibilità economiche e al tenore di vita del soggetto obbligato, in relazione all’osservanza del “minimo vitale” e alle altre esigenze di vita giornaliera del beneficiario.
http://renatodisa.com/2016/01/21/corte-di-cassazione-sezione-vi-8-gennaio-2016-n-535-il-reato-previsto-dallart-570-secondo-comma-n-2-c-p-ha-come-presupposto-necessario-lesistenza-di-unobbligazione-alimentare-ai-sensi/
Avv. Paolo Accoti news della settimana. Studio Cataldi.it 18 gennaio 2016
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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
Congresso nazionale 2016 ad Oristano.
Il prossimo congresso si terrà in Sardegna, a Oristano, da venerdì 2 a domenica 4 settembre 2016.
Sono invitati gli operatori dei consultori familiari pubblici e del privato sociale e quanti si interessano della famiglia e dei servizi a lei dedicati.
Il congresso tratterà della “Famiglia crocevia di differenze e il ruolo che il consultorio può assumere sia sotto il profilo gestionale che educativo”.
Entro fine gennaio 2016 sarà reso noto il programma definitivo.
L’assemblea dei consultori Soci dell’Unione si terrà venerdì 2 settembre 2016.
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Il responsabile dei trattamenti è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea
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