newsUCIPEM n. 579 –10 gennaio 2016

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Epifania del Signore

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ADOZIONE                                      Se i bambini votassero, sarebbe da parte l’idea dell’adozioni gay.

ADOZIONE INTERNAZIONALE  Trasparenza: l’Italia sta rispettando i sei punti dell’Aja?

L’Italia è l’unico Paese europeo che non pubblica i dati”.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    Ai.Bi. 2015: 175 bambini adottati da 133 famiglie, +13% sul 2014

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Anticipo assegno di mantenimento e fondo di solidarietà.

Chi non paga il mantenimento riceve la cartella esattoriale.

Mantenimento per i figli: a chi spetta versare l’assegno?

ASSEGNO DIVORZILE                  La sproporzione tra i redditi non giustifica di per sé l’assegno.

CHIESA CATTOLICA                    La “misericordia” dei felici anni Settanta.

La collaborazione tra donna e uomo.

Donne e uomini nella chiesa.

“Così viviamo la nostra seconda vita da ex preti”.

CHIESE EVANGELICHE               Il miracolo della nascita.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Cremona. Corso per operatori CAV.

Frosinone. Convegno di Anatolè Onlus

                                                           Parma.            Genitori-figli. Un adolescente fra noi.

                                                                                              Il manifesto del buon conflitto

Portogruaro. 5A gennaio riprendono i percorsi formativi.

Senigallia- Fertilità femminile, incontri informativi

DALLA NAVATA                            Domenica dopo l’Epifania – anno C – 10 gennaio 2016.

DEMOGRAFIA                                La sovrappopolazione? Un mito falsamente scientifico.

DIRITTI                                            Selezione e “dignità” degli embrioni.

FORUM dell’associazioni familiari  “Il Family day un fallimento, vincemmo solo in piazza.”

FRANCESCO Vescovo di ROMA    “Non siamo capomastri, ma manovali”. La preghiera del papa.

MATERNITÀ SURROGATA                      Maternità surrogata, uno scambio ineguale.

PATERNITÀ                                     Nuovo congedo di paternità 2016

POLITICHE PER LE FAMIGLIE  Quale Family Day? Asili, bonus, congedi: la famiglia è di serie B.

UCIPEM                                            Convegno congiunto CFC-UCIPEM. Roma 2-3 ottobre 2015.

UNIONI CIVILI                              Perché fa discutere il disegno di legge, in 27 domande e risposte.

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                                                                      ADOZIONE                                                  

Se anche i bambini votassero, Renzi metterebbe da parte l’idea delle adozioni gay.

Un appello sempre più ricorrente e diffuso è quello che invita ad ascoltare la voce dei bambini. Parole che poi restano quasi sempre lettera morta. Ora però, mentre il futuro della famiglia è seriamente in pericolo anche nel nostro Paese, non si può più fare orecchie da mercante. “Ascoltiamola davvero, una buona volta, la voce dei bambini! Almeno adesso che vengono messi a rischio i diritti più importanti dell’infanzia”. Così Marco Griffini, fondatore e presidente di Amici dei Bambini, interviene sui temi legati al disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili. Il Ddl sarà al centro delle discussioni parlamentari dal 26 gennaio 2016, ma già da tempo divide il mondo politico e la società italiana.

“Il pericolo più grande – spiega Griffini – è quello di vedere negato il diritto di ogni bambino ad avere un vero papà e una vera mamma. Il Ddl Cirinnà, infatti, prevede l’introduzione anche in Italia della stepchild adoption”. Questa comporterebbe la possibilità per un componente di una coppia, anche omosessuale, di adottare il figlio del partner. “Sarebbe il via libera all’adozione gay e al ricorso sempre più diffuso alla disumana pratica dell’utero in affitto – avverte il presidente di Ai.Bi. -: cose che trasformerebbero il corpo delle donne e gli stessi bambini sempre più in una merce. Dimenticando che il diritto di avere un figlio a ogni costo non esiste, mentre esiste, ed è sacrosanto, il diritto di ogni minore ad avere un papà e una mamma”.

Eppure l’eventuale approvazione del Ddl Cirinnà sulle unioni civili, verrebbe incontro alle necessità di un numero molto limitato di persone. Mentre ben poco si fa, a livello politico e legislativo, per sostenere la famiglia. “Questo perché la lobby gay in Italia è potentissima – denuncia Griffini -. Ecco il motivo principale che spiega perché il governo stia prestando così tanta attenzione al tema delle adozioni gay e della stepchild adoption e stia al contempo trascurando le centinaia di migliaia di coppie senza figli. Queste potrebbero adottare un minore abbandonato, garantendogli il fondamentale diritto di avere un padre e una madre”. Invece l’adozione internazionale è finita ormai da troppo tempo nel dimenticatoio del premier Renzi, che, a quanto pare, preferisce accontentare le richieste delle coppie omosessuali, piuttosto che ascoltare la voce dei bambini abbandonati.

“L’adozione internazionale – ricorda Griffini – sembra destinata a una inesauribile agonia, condannata a un processo di decadimento che pare irreversibile. Senza un’Autorità Centrale che funzioni, afflitta dalla piaga della scarsa trasparenza, da costi e tempi eccessivi, da una burocrazia labirintica, l’adozione dei bambini stranieri rischia di sparire nel giro di pochi anni”. Per questo, annuncia infine il presidente di Ai. Bi., le famiglie adottive e affidatarie saranno in piazza con i loro figli al fianco dei comitati in difesa della famiglia in occasione del Family Day che si svolgerà tra fine gennaio e inizio febbraio a Roma. Una grande manifestazione in cui si porterà avanti un’importante battaglia culturale, a favore della centralità della famiglia e dei diritti dei bambini.

                                                   Ai. Bi. 7 gennaio 2016       www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONE INTERNAZIONALE

Trasparenza nell’adozione internazionale: l’Italia sta rispettando i sei punti dell’Aja?

Se c’è una causa della crisi globale dell’accoglienza adottiva su cui sono tutti d’accordo, questa è una generale mancanza di trasparenza in termini di costi. Un virus che ha infettato l’adozione internazionale a livello mondiale. Tanto da indurre il Permanent Bureau de L’Aja, l’istituzione chiamata a sorvegliare sulla corretta applicazione della Convenzione de L’Aja sulla protezione dei minori, a elaborare una serie di linee guida che portino al totale rispetto dei principi di trasparenza contabile. Buone prassi raggruppate in “sei punti” a cui anche l’Italia, come Paese ratificante della Convenzione, è chiamata ad attenersi. Ma non sempre lo fa.

            Innanzitutto, per quanto riguarda la trasparenza dei costi, L’Aja raccomanda di “assicurarsi che tutti i pagamenti siano effettuati tramite bonifico bancario verso un conto ben definito”. I pagamenti in contanti, insomma, devono essere vietati. Il nostro Paese prevedrebbe il rispetto di tale normativa, ma in genere non compie alcuna verifica per controllare che ciò avvenga davvero. Tanto che non è raro che emergano situazioni in cui le cose vanno molto diversamente: quella dei contanti in nero che molte coppie si vedono costrette a portare all’estero è una delle piaghe che maggiormente affligge l’adozione internazionale in Italia. L’Aja chiede anche che vengano sempre dettagliate le destinazioni di spesa dei costi sostenuti dalle coppie. Ma anche in questo caso, l’Italia, pur approvando a parole l’indicazione del Permanent Bureau, lascia che nei fatti le cose vadano diversamente.

            In secondo luogo, L’Aja chiede di impostare costi e spese ragionevoli. A questo scopo, il Permanent Bureau raccomanda agli enti di “retribuire i professionisti con un compenso mensile, quando il numero delle adozioni lo permette”. Ciò al fine di evitare che, chi lavora per un Ente autorizzato, cerchi di realizzare più adozioni del consentito solo per aumentare il proprio profitto personale. Un pericolo su cui l’Italia non mai intervenuta in modo chiaro.

            Al terzo punto delle buone prassi, L’Aja chiede ai Paesi di “prevedere un metodo di facile accesso che permetta alle coppie e agli altri attori di segnalare ogni tipo di abuso, anche in forma anonima”. In Italia questo attualmente non è possibile. Il numero verde della Commissione Adozioni Internazionali, a cui un tempo era possibile affidare le segnalazioni, oggi esiste solo sulla carta, ma di fatto è sospeso.

            Anche sulla prevenzione e la lotta a ogni profitto indebito, l’Italia ha mantenuto un atteggiamento fino a ora piuttosto “timido”. Non ha mai imposto esplicitamente agli enti, per esempio, di fare monitorare e controllare le proprie attività richiedendo un audit esterno annuale. Quando ciò è avvenuto, è stato per iniziativa spontanea dell’ente che ha fatto certificare il proprio bilancio da un organismo esterno. Neppure la stessa Cai, del resto, è puntuale nell’effettuare verifiche periodiche sugli enti per assicurarsi che la loro situazione finanziaria sia regolare.

            Per quanto riguarda contributi a progetti di cooperazione e donazioni, il Permanent Bureau raccomanda di prestare attenzione prevalentemente a due aspetti. Il primo: se per un verso gli enti autorizzati sono tenuti a cooperare con i Paesi in cui operano, dall’altro si chiede di interrompere questa cooperazione qualora si verifichi che un Paese non assicuri un corretto e trasparente impiego dei fondi ricevuti. Allo stesso tempo, si chiede alle coppie di verificare, quando i contributi vengono richiesti da un ente autorizzato, che l’importo sia stato fissato dal Paese di origine e non dall’ente o da un orfanotrofio con cui l’ente stesso potrebbe essere legato da partnership.

            Infine, il Permanent Bureau chiede sanzioni appropriate, chiare ed efficaci per chi crea o favorisce situazioni irregolari. Ma anche in questo caso, il nostro Paese non si è mai pronunciato con decisione: le sanzioni sono previste, ma stabilite solo in forma generica.

            Per garantire una reale trasparenza finanziaria, l’Italia deve dunque percorrere ancora molta strada. Perseverando nel rispetto delle buone pratiche che ha già adottato e soprattutto trasformando in fatti concreti le linee guida che, fino a ora, ha abbracciato solo a parole o ha completamente trascurato.

 

L’Italia è l’unico Paese europeo che non pubblica i dati”. Lettera di richiamo del Permanent Bureau.

Mentre il mondo dell’adozione internazionale va avanti, cercando occasioni di confronto e strategie di uscita dalla crisi globale, l’Italia resta indietro. Così, mentre ha fatto il suo ingresso il 2016, il nostro Paese sta ancora aspettando i dati ufficiali sulle adozioni internazionali realizzate nel 2014. Non avendo ancora pubblicato il report statistico relativo ormai a due anni fa, l’Italia viene palesemente meno alle raccomandazioni del Permanent Bureau de L’Aja e agli obblighi di trasparenza.

            Le mancanze del nostro Paese sono state messe in evidenza anche dal recente rapporto sulle adozioni internazionali del 2014 redatto dall’International Social Service. Quest’ultimo è un’organizzazione non governativa con sede a Ginevra che si occupa di adozione e tutela dei bambini fuori dal loro Paese. Nel suo rapporto, l’ISS rileva come l’Italia sia l’unico Paese a non aver ancora comunicato al Permanent Bureau de L’Aja i dati relativi al 2014. Una mancanza particolarmente grave, anche alla luce del fatto che il nostro è storicamente il secondo Paese più accogliente del mondo per quanto riguarda l’adozione internazionale. L’assenza delle informazioni relative all’Italia, quindi, finisce per falsare completamente il quadro generale.

            Nel rapporto 2014 dell’Iss, dunque, alla casella “Italia” compare un desolante “dati non pervenuti”. Il che è valso al nostro Paese un richiamo ufficiale da parte del Permanent Bureau che si occupa di monitorare il rispetto della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993.

            Dalla città olandese, si sottolinea infatti che “gli ultimi incontri delle Commissioni Speciali (del Permanent Bureau, ndr) hanno sottolineato l’importanza per gli Stati di sottoporre statistiche generali su base annua al Permanent Bureau” e che quest’ultimo “sarebbe grato se gli Stati completassero l’aggiornamento” delle statistiche “per gli anni dal 2010 al 2014 incluso”. Chiaro quindi il riferimento all’Italia, unico dei Paesi storicamente più importanti per l’adozione internazionale a non aver ancora fornito a L’Aja i dati del 2014. Venendo meno, quindi, a quanto prescritto dagli articoli 48 e 49 del documento di “Conclusioni e raccomandazioni adottate dal Quarto incontro della Commissione Speciale per la Convenzione de L’Aja sull’adozione internazionale del 1993”. Nei due articoli si ricorda infatti che tutti gli Stati che non hanno ancora provveduto a fornire le statistiche nazionali relative al 2014 sono fortemente incoraggiati a farlo “il più presto possibile” e che i Paesi sono tenuti a “sottoporre le statistiche sull’adozione internazionale al Permanent Bureau”.

            Quanto si dovrà ancora aspettare per vedere l’Italia assolvere finalmente ai suoi obblighi di trasparenza?                                     Ai. Bi. 5 gennaio 2016                www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

I dati del 2015 dell’Ai. Bi.: 175 bambini adottati da 133 famiglie, +13% rispetto al 2014.

La crisi dell’adozione internazionale non passa per Ai.Bi. Il 2015 per Amici dei Bambini è stato un anno molto positivo, facendo segnare un incremento sia sul fronte dei minori stranieri accolti da famiglie italiane che su quello delle coppie che hanno portato felicemente a conclusione il loro percorso adottivo.

            Il confronto con l’anno precedente, ci dice che i bambini stranieri adottati con Ai.Bi. nel 2015 sono cresciuti del 13%, passando da 155 a 175, ovvero 20 in più. In crescita anche le coppie che nel corso dell’anno hanno ottenuto l’autorizzazione all’ingresso in Italia del loro figlio adottivo: il loro numero è salito da 119 del 2014 a 133 del 2015. Venti coppie in più che, tradotto in termini percentuali, vuol dire un incremento del 12%.

            Tra i neo-figli adottivi delle famiglie Ai.Bi. aumentano sia i maschi che le femmine. I fiocchi azzurri dell’adozione sono passati da 89 del 2014 a 100 del 2015. Salgono anche i fiocchi rosa dell’accoglienza: nell’anno appena trascorso sono stati 75, 9 in più rispetto ai 66 dell’anno precedente.

            Analizzando la situazione Paese per Paese, le notizie più positive del 2015 sono arrivate da Brasile, Bulgaria, Russia e Cina.  Quest’ultimo è ancora in testa nella speciale classifica dei Paesi di origine dei bambini adottati con Ai.Bi.: la Cina ha primeggiato sia nel 2014 che nel 2015, ma nell’anno appena terminato rispetto a quello precedente ha fatto anche registrare un aumento di coppie e minori accolti, passando in entrambi i casi da 39 a 44 (+13%). Ottimo il risultato ottenuto anche dalla Bulgaria dove, nel 2015, le 14 coppie di Ai.Bi. (4 in più del 2014 (+40%) hanno adottato ben 22 bambini (+8 rispetto al 2014, ovvero +57%). E di vero boom dell’adozione internazionale “made in Ai.Bi.” si può parlare in Brasile, dove i dati in un solo anno si sono più che raddoppiati. Se nel 2014, nel Paese sudamericano, 6 coppie avevano accolto 10 minori, nell’anno da poco concluso le coppie sono diventate 14 (+133%) e i bambini adottati addirittura 24 (+140%). Anche la Russia nel 2015 ha quasi doppiato il 2014, passando da 13 a 20 coppie accoglienti (+54%) e da 14 a 24 minori adottati da Ai.Bi. nella Federazione (71%).

            Più attenuato l’aumento, ma pur sempre molto positivi i dati per quanto riguarda il Perù. Nel Paese andino le coppie adottive di Ai.Bi. sono salite in un anno da 13 a 16 (+23%) e i minori accolti da 21 a 23 (+9,5%). Dall’Est Europa arrivano altre due ottime notizie: dopo anni di stallo è stato accolto il primo bambino dalla Romania mentre dal Kosovo sono rientrati ben due minori (risultato migliore dal 2007). Generalmente stabili gli altri Paesi, dall’Albania al Cile alla Colombia. Quest’ultimo è anche il Paese che ha il migliore rapporto tra numero di minori adottati e numero di coppie adottive: in media ogni coppia Ai.Bi. che ha adottato in Colombia nel 2015 ha accolto 2,5 bambini.

Ai. Bi. 4 gennaio 2016                 www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

                        Anticipo assegno di mantenimento e fondo di solidarietà.

Separazione e divorzio: nasce il Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno: l’ex che non abbia ricevuto il versamento dell’assegno di mantenimento può far ricorso al fondo statale.

            Se, a seguito di separazione tra coniugi, il marito (o la moglie, anche se l’ipotesi è meno frequente) smette di versare l’assegno di mantenimento imposto dal giudice [art. 156 cod. civ.], l’ex può ottenere il pagamento di dette somme direttamente dallo Stato, grazie al nuovo Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno, istituito dalla legge di Stabilità 2016 [L. 208/2015 art. 414, 415, 416]. Il fondo è previsto in via sperimentale per il 2016 con una dotazione di 250mila euro e, per il 2017, con 500mila euro.

            Scopo del Fondo di solidarietà è quello di intervenire non in qualsiasi caso in cui il coniuge beneficiario del mantenimento non riceva l’assegno mensile dall’ex, ma solo quando questi si trovi in un obiettivo stato di bisogno, poiché non è in grado di provvedere, da solo, al mantenimento proprio e dei figli minori, oltre che dei figli maggiorenni portatori di handicap grave, conviventi. Cerchiamo, quindi, di vedere a quali condizioni è possibile ottenere l’anticipo del mantenimento da parte dello Stato e cosa è necessario fare per avviare la procedura. Il tutto in attesa del decreto ministeriale che attui la nuova previsione normativa.

            Condizioni per ottenere l’accesso al fondo di solidarietà.

  • un provvedimento del giudice che – a seguito di giudizio di separazione o di modifica delle condizioni di separazione – dia diritto all’assegno di mantenimento; non è previsto l’accesso al beneficio nel caso in cui il coniuge abbia optato per il contributo “una tantum”, ossia per il pagamento di un’unica somma e non di un contributo continuo, da versarsi mensilmente;
  • che il coniuge tenuto al pagamento del contributo non abbia ottemperato al pagamento, a prescindere dalle ragioni. Quindi, si può ottenere l’accesso al fondo anche nel caso di oggettiva impossibilità del coniuge moroso e non solo di sua volontaria sottrazione all’adempimento del proprio dovere;
  • che il coniuge beneficiario del mantenimento viva insieme ai figli minori o maggiorenni portatori di handicap grave. Questo si intuisce dalla dizione della norma la quale stabilisce che, condizione per ottenere l’anticipo del mantenimento da parte dello Stato è che il coniuge in stato di bisogno non sia in grado di provvedere al mantenimento proprio e dei figli (minori, oltre che dei figli maggiorenni portatori di handicap grave) conviventi. Proprio l’uso della congiunzione “e” al posto della “o” fa presumere la necessaria presenza dei figli. Il fondo così si presenta come una misura di sostegno della famiglia in senso ampio, in considerazione proprio della presenza di soggetti deboli come i minorenni o i portatori di handicap. Sono quindi esclusi i coniugi separati senza figli o con figli maggiorenni non disabili;
  • che il coniuge beneficiario del mantenimento non sia in grado di provvedere al mantenimento sia di sé stesso che dei figli minori o maggiorenni portatori di handicap grave con lui conviventi. A tal fine occorrerà dimostrare di non possedere un reddito, o di avere un reddito minimo (al momento non è indicata alcuna soglia, salvo che il successivo decreto ministeriale specifichi meglio tale punto). Lo stato di bisogno si configura come la mancanza o insufficienza di mezzi atti ad assolvere le necessità primarie della vita, quindi non è solo la mancanza di quanto necessario per alimentarsi, ma anche del necessario per vestirsi, per l’abitazione ecc.

Chi non può ottenere il mantenimento da parte del Fondo di solidarietà?

  • i coniugi separati che non hanno avuto figli
  • il coniuge separato ed in stato di bisogno i cui figli non convivano con lui;
  • il coniuge separato con figli maggiorenni non disabili;
  • il coniuge separato non in stato di bisogno;
  • il coniuge divorziato. La legge infatti stabilisce che il contributo statale è dovuto solo per i coniugi separati, ma non ancora divorziati. Il che sembra essere una grave violazione del principio di parità, forse frutto di una svista da parte del legislatore. Al momento, però, è questa la corretta interpretazione. Per maggiori chiarimenti bisognerà attendere il decreto ministeriale.

Come ottenere il mantenimento dal Fondo di solidarietà nel 2016 e 2017? Il coniuge cui non sia stato pagato il mantenimento e che si trovi nelle condizioni appena descritte, al fine di ottenere il contributo da parte del Fondo di Solidarietà, deve:

  • depositare un’istanza nella cancelleria del tribunale del luogo ove egli ha residenza. L’istanza si presenta in carta semplice e non è necessario il pagamento di contributo unificato;
  • insieme all’istanza andrà depositato il provvedimento del giudice che dà diritto a ottenere il pagamento del mantenimento (la sentenza di separazione o di modifica delle condizioni di separazione);
  • la prova del mancato pagamento dell’assegno da parte dell’ex. Non essendo concepibile, però, una prova di un fatto negativo, sarà sufficiente la dichiarazione del beneficiario, eventualmente (a corroborazione di ciò) corredata da un estratto conto dal quale si evinca l’assenza degli accrediti in banca.

La procedura per ottenere l’anticipo del mantenimento dallo Stato. Dopo il deposito dell’istanza, il Presidente del tribunale o un giudice da lui delegato verifica la sussistenza dei presupposti soggettivi appena elencati, necessari per ottenere il contributo statale. In tale fase, che può durare massimo 30 giorni, il tribunale può assumere – se lo ritiene necessario – informazioni da soggetti terzi. Questa fase si può concludere in due mdi:

  1. il tribunale ritiene fondato il diritto all’accesso al fondo e accetta l’istanza. In tal caso, una volta valutata l’ammissibilità dell’istanza medesima, il Presidente del Tribunale la trasmette al Ministero della giustizia. Sarà poi il Ministero stesso a corrispondere la somma al coniuge che ne abbia fatto richiesta;
  2. il Presidente del tribunale o il giudice da lui delegato non ritiene sussistenti i presupposti per ottenere il beneficio di accesso al fondo: in tal caso il magistrato rigetta l’istanza con un decreto, senza ovviamente trametterla al Ministro della giustizia. Contro tale decisione non è possibile alcuna forma di impugnazione.

A quanto ammonta il contributo statale? La nuova norma stabilisce che lo Stato anticipa una somma non superiore all’importo dell’assegno medesimo. Questo fa intuire che l’istanza va presentata per ciascuna inadempienza. Per esempio: se il coniuge non ha versato il mantenimento relativo al mese di gennaio, l’ex potrà presentare un’istanza per ottenere il pagamento di tale importo. Se il mese successivo, l’inadempienza si ripete andrà presentata una nuova istanza con tutto l’iter e la documentazione che ne consegue. Sarà poi il Ministero della Giustizia, che ha pagato il coniuge beneficiario, a sostituirsi a quest’ultimo per ottenere il pagamento dal coniuge inadempiente. Dunque è verosimile che chi non paghi il mantenimento si vedrà recapitare una cartella esattoriale da parte di Equitalia. E questo perché la riscossione dei crediti dello Stato avviene sempre tramite l’Agente della riscossione.

Da quando entra in vigore il nuovo Fondo di solidarietà? L’anticipo del mantenimento pagato dallo Stato deve ancora entrare in vigore. Infatti la legge stabilisce che è necessario un decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di Stabilità 2016 (1° gennaio 2016) che contenga le disposizioni necessarie per l’attuazione del fondo medesimo, con particolare riguardo all’individuazione dei tribunali presso i quali avviare la sperimentazione, alle modalità di pagamento delle somme e per la riassegnazione al Fondo delle somme recuperate dal coniuge inadempiente.

Redazione LPT 5 gennaio 2016    www.laleggepertutti.it/107949_anticipo-assegno-di-mantenimento-e-fondo-di-solidarieta-come-funziona

 

Chi non paga il mantenimento all’ex moglie riceve la cartella esattoriale

Equitalia aggredisce il marito che non versa l’assegno: così funziona la rivalsa dello Stato dopo che il fondo di solidarietà del Ministero di Giustizia ha corrisposto il mantenimento. Per chi non paga il mantenimento all’ex coniuge – conseguenza della sentenza di separazione o divorzio – ora arriva anche la cartella di pagamento di Equitalia. È questa la conseguenza della nuova previsione contenuta nella legge di Stabilità 2016 [L. 208/2015 art. 226-bis, 226-ter, 226-quater].

            Pignoramento e sequestro. Chi non versa l’assegno di mantenimento si espone al rischio di un pignoramento, ossia un’azione esecutiva, di carattere civile, volta a bloccare il conto corrente bancario, lo stipendio, la pensione e ogni altro bene mobile o immobile di titolarità del debitore. Il verbale di separazione e la sentenza di separazione del giudice sono infatti i titoli esecutivi. Il coniuge interessato, tramite il suo avvocato, può porli direttamente in esecuzione forzata, senza ricorrere al giudice: può cioè redigere l’atto precetto consistente nell’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo entro un termine non inferiore a 10 giorni con avvertimento che, nel caso in cui tale adempimento non avvenga, si procederà ad esecuzione forzata.

            In caso di inadempimento del coniuge obbligato, su richiesta del coniuge interessato, il giudice può disporre anche il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato. Il coniuge può chiedere il sequestro solo se, al momento della domanda, l’altro coniuge non ha adempiuto all’obbligo di versare l’assegno. Se il coniuge obbligato non paga o ritarda il pagamento dell’assegno di mantenimento, il coniuge beneficiario può chiedere al tribunale di ordinare a terzi tendi a pagare delle somme di denaro in favore del coniuge obbligato – per esempio il datore di lavoro o l’ente di previdenza – che una parte di tali somme siano versate direttamente all’altro coniuge. È quello che si chiama ordine di pagamento diretto.

            Multa. Se il comportamento dell’ex pregiudica anche il minore od ostacoli il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il giudice – sempre nell’ambito del processo civile – può anche disporre una delle seguenti sanzioni:

  1. ammonire il genitore inadempiente;
  2. disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
  3. disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
  4. condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.

I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.

            Denuncia penale. Se l’ex versa in condizioni economiche gravose, il coniuge inadempiente può essere condannato alla reclusione fino a un anno; al contrario, se l’ex è economicamente autonomo, la pena giusta – secondo le Sezioni Unite della Cassazione – è quella della multa da 103 a 1032 euro [Cass. S.U. sent. n. 23866/2013].

Il rimborso al fondo di solidarietà del Ministero della Giustizia. La Legge di Stabilità 2016 ha previsto, in favore del coniuge in stato di bisogno, convivente con figli minori o maggiorenni con handicap, cui non sia stato versato il mantenimento, l’accesso a uno speciale Fondo di solidarietà. In pratica, il Ministero della Giustizia anticipa il pagamento dell’assegno di mantenimento, rivalendosi poi contro il soggetto obbligato al versamento, ma inadempiente. Il coniuge moroso dovrà così rimborsare allo Stato i soldi che esso ha “anticipato” in favore dell’ex. L’azione esecutiva per crediti dello Stato è portata avanti dall’Agente della Riscossione, ossia Equitalia. Dunque, fermo restando che per maggiori chiarimenti dovrà attendersi il decreto attuativo ministeriale (da adottarsi entro il 30 gennaio prossimo), è verosimile che chi non paghi il mantenimento si vedrà recapitare a casa anche una cartella di pagamento per ogni mensilità arretrata e non versata all’ex.

            Redazione LPT   5 gennaio 2016      www.laleggepertutti.it/107952_chi-non-paga-il-mantenimento-allex-moglie-riceve-la-cartella-esattoriale

Mantenimento per i figli: a chi spetta versare l’assegno?

Il giudice può porre anche a carico del genitore collocatario il versamento di un assegno all’ex per il periodo in cui starà con i figli se vi è sproporzione economica tra i genitori; ai minori va assicurato pari benessere per incoraggiarli a frequentare anche il genitore meno benestante. La separazione fra due genitori (sposati o meno che siano) determina, il più delle volte, delle soluzioni giudiziarie standardizzate in merito all’affidamento e al mantenimento dei figli, in base alle quali, di solito, il giudice:

  • colloca i minori in modo stabile presso uno dei genitori (più spesso la madre), eventualmente assegnando a quest’ultimo la casa familiare,
  • determina il calendario delle visite dei figli per il genitore non collocatario (solitamente il padre)
  • stabilisce la misura del contributo economico da quest’ultimo dovuto all’altro per il mantenimento della prole: nel periodo di convivenza con i minori, infatti, il genitore deve essere posto nelle condizioni di occuparsi economicamente di loro come quando la famiglia era unita, anche grazie all’assegno di mantenimento versato dall’ex.

Con particolare riguardo a tale provvedimento di carattere economico (che rappresenta spesso uno dei motivi di maggiore contrasto tra i genitori) non è detto tuttavia che esso si sostanzi in un obbligo ad esclusivo carico del genitore non collocatario. La decisione sulla collocazione stabile dei figli, infatti, non viene presa dal giudice sulla base delle maggiori o minori disponibilità economiche del padre o della madre, ma tiene conto dei benefici globali che il minore può trarre dalla permanenza abituale con una delle due figure genitoriali (ad esempio, come spesso avviene, la individuazione della mamma come genitore collocatario il più delle volte è legata alla tenera età dei figli o alla possibilità di un loro accudimento costante conseguente alla condizione di casalinga o lavoratrice part time). Non si può affatto escludere, quindi, che sia invece il genitore che vive stabilmente con i figli ad essere più benestante. In tal caso – come ha ricordato il Tribunale di Milano in una recente pronuncia [15 luglio 2015,] – il giudice potrà imporre a quest’ultimo di versare un assegno (cosiddetto perequativo) in favore dell’altro per il periodo in cui la prole abiterà con lui.

            Nello specifico, infatti, quando vi sia una evidente sproporzione tra le condizioni economiche dei genitori, il giudice potrà imporre anche al collocatario con maggiore disponibilità di reddito il versamento di un assegno all’ex per il tempo che il figlio trascorrerà presso quest’ultimo. In caso contrario, verrebbe a crearsi una eccessiva disparità tra i due gli stili di vita vissuti dal minore quando dimora con uno o l’altro dei genitori, con inevitabile danno a suo carico. All’atto pratico, infatti, il figlio si troverebbe a godere di un maggior benessere quando vive con il genitore collocatario e, di conseguenza, sarebbe portato a preferire la permanenza presso di lui. Tale assegno perequativo, ricorda il giudice meneghino, ha lo scopo di soddisfare delle esigenze specifiche e chiare: non corrisponderebbe, infatti, alle esigenze del figlio prevedere una regolamentazione dei rapporti economici tra i genitori che gli permetta di godere di ogni bene quando si trova con un genitore (cibo, abiti, casa confortevole, internet, tv privata, giochi, ecc.) mentre, gli consenta di disporre solo delle minime utilità quando si trova con l’altro. Una situazione simile avrebbe come inevitabile effetto quello di creare nel minore la condizione psicologica di voler stare col genitore in grado di assicurargli un maggior benessere economico, non solo a scapito dell’altro, ma soprattutto del suo pieno diritto alla bigenitorialità.

            È bene chiarire, tra l’altro, che detto assegno, ove disposto, non va inteso come una sorta di forzatura giuridica in quanto la legge [Art. 337 ter co. 4 cod. civ.] riconosce al giudice la possibilità di determinare le misure economiche in grado di garantire il più possibile alla prole la conservazione del tenore di vita avuto quando la famiglia era unita, modellandole ad un principio di proporzionalità ora che i genitori sono separati. In parole povere, in presenza di situazioni patrimoniali e di reddito particolarmente sproporzionate tra loro, il magistrato ha senz’altro il potere di porre a carico di un genitore (anche se si tratti del collocatario) l’obbligo di versare uno specifico assegno; ciò allo scopo di garantire al figlio il soddisfacimento di specifiche esigenze che l’altro genitore non è in grado di fornire.

            È bene che, in ogni caso, i genitori in procinto di separarsi non dimentichino che hanno sempre la possibilità di sottoporre alla valutazione del giudice accordi riguardanti i figli (anche nati fuori dal matrimonio) diversi da quelli “standard” [art. 337 ter co.2 cod. civ.], individuati in premessa. Se, infatti, le circostanze concrete lo permettono (come le residenze non troppo distanti dei due genitori, la dimostrata capacità di collaborazione degli stessi nella gestione dei figli) essi potranno, ad esempio, scegliere di non prevedere una collocazione prevalente dei figli, ma che gli stessi stiano per lo stesso tempo con il papà e con la mamma (cosiddetto collocamento alternato). In tal caso:

  • ciascun genitore provvederà a soddisfare le loro esigenze per il tempo che abiteranno insieme
  • oppure , anche in questo caso, il genitore più benestante potrà versare il proprio contributo all’altro.

Non va dimenticato, tuttavia, che il giudice può intervenire anche in caso di accordo quando, esso appaia lesivo del benessere morale e materiale dei minori, in ragione delle accertate disponibilità economiche delle parti, del tenore di vita pregresso e degli attuali bisogni dei figli. Onde evitare, perciò, il rischio che il tribunale possa modificare quanto stabilito dai genitori, il consiglio rimane sempre quello che essi curino con attenzione le condizioni della separazione, soffermandosi nella individuazione delle modalità di affidamento e mantenimento della prole, non solo sui propri personali bisogni, ma anche su quelli dei propri figli i quali, specie quando troppo piccoli, non sempre possono essere in grado di manifestarli apertamente.

            Maria Elena Casarano                     Lpt                  8 gennaio 2015

www.laleggepertutti.it/108150_mantenimento-per-i-figli-a-chi-spetta-versare-lassegno

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ASSEGNO DIVORZILE

La circostanza della sproporzione tra i redditi degli ex coniugi non giustifica di per sé l’assegno.

Corte d’Appello di Palermo, 22 dicembre 2015, n. 1902

            La sussistenza di una sproporzione tra i redditi degli ex coniugi non giustifica di per sé il riconoscimento di un assegno divorzile se le condizioni economiche siano, comunque, idonee a garantire un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di vita in comune, dovendosi, peraltro, ritenere inevitabile un certo deterioramento delle rispettive condizioni, quale effetto diretto della separazione ed in ragione della duplicazione delle voci di spesa fissa.

news studio Sugamele            8 gennaio 2016                      newswww.divorzista.org/sentenza.php?id=11182

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CHIESA CATTOLICA

La “misericordia” dei felici anni Settanta.

C’è una lettera della Congregazione per la dottrina della fede del lontano 1973 che, ripescata oggi, è stata esibita per dimostrare che allora vigeva la “probata Ecclesiae praxis in foro interno” di consentire la comunione ai divorziati risposati, e che quindi oggi non si tratterebbe che di ripristinare quella felice pratica pastorale, purtroppo interrotta dai “rigorismi” di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’autore del ripescaggio, come riferito nell’ultimo servizio di “www.chiesa”, è stato il vescovo di Albano Marcello Semeraro, molto prossimo a papa Jorge Mario Bergoglio.

            Ma il “ballon d’essai” lanciato da Semeraro in vista dell’attesa pubblicazione da parte del papa delle conclusioni che egli trarrà dal sinodo sulla famiglia non è stato affatto accolto passivamente dalla folta schiera dei contrari alla comunione ai divorziati risposati. A loro giudizio, quella lettera del 1973 non rappresentava affatto una autorizzazione, da parte della Chiesa gerarchica, di una prassi “misericordiosa” per chi pur violava il sesto e il nono comandamento, che proibiscono l’adulterio. Anzi, quella lettera – vi si leggeva – era stata scritta e trasmessa ai vescovi di tutto il mondo proprio per contrastare le “ragioni dottrinali o pastorali che qua e là vengono portate come argomento per giustificare gli abusi contro la vigente disciplina circa l’ammissione ai sacramenti di coloro che vivono in unione irregolare”.

            In realtà la questione era piuttosto complicata. In quei primi anni Settanta, nei paesi del mondo in cui era stato introdotto il divorzio nelle legislazioni civili, si era fatto impellente l’interrogativo su che fare con i cattolici sposati in chiesa e poi divorziati e risposatisi civilmente. Nella prassi pastorale c’era incertezza e alcuni confessori assolvevano e ammettevano alla comunione alcuni degli “irregolari”, specie nel caso in cui il penitente si riteneva sicuro della nullità del suo precedente matrimonio, pur in assenza di una sentenza canonica che certificasse tale nullità. La lettera del 1973, molto breve e non chiarissima, non risolse affatto quell’incertezza diffusa. Tant’è vero che ad essa seguì, due anni dopo, una puntualizzazione.

            La richiesta di chiarimenti era venuta dagli Stati Uniti, e la congregazione per la dottrina della fede rispose con una lettera del suo segretario, il teologo domenicano e arcivescovo Jean Jérôme Hamer, indirizzata all’arcivescovo di Chicago Joseph Louis Bernardin, all’epoca presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti. Questa seconda lettera, in data 21 marzo 1975, è rubricata come “Littera circa partecipationem” in “Leges Ecclesiae”, vol, VI, n. 4657, p. 7605. E aggiunge alcune precisazioni circa l’applicazione agli “irregolari” della “approvata prassi della Chiesa in foro interno”:

            “Questa frase [probata Ecclesiae praxis] dev’essere intesa nel contesto della tradizionale teologia morale. Queste coppie [di cattolici che vivono in unioni coniugali irregolari] possono essere autorizzate a ricevere i sacramenti a due condizioni: che cerchino di vivere secondo le esigenze dei principi morali cristiani e che ricevano i sacramenti in chiese in cui esse non sono conosciute, in modo da non creare alcuno scandalo”.

            Non c’è chi non veda come le due condizioni qui richiamate sono le stesse della “Familiaris consortio” del 1981 del “rigorista” Giovanni Paolo II, con la sola differenza che l’impegno a “vivere secondo le esigenze dei principi morali cristiani” è stato ulteriormente esplicitato da papa Karol Wojtyla in impegno a “vivere in piena continenza” con chi non è il proprio coniuge.

            È vero che anche dopo di allora ha continuato a riproporsi per i pastori l’interrogativo su che fare con chi si riteneva sicuro della nullità del suo precedente matrimonio ma trovava preclusa la via di una sentenza canonica che la certificasse. È il caso che lo stesso Joseph Ratzinger – sia come cardinale che come papa – ha riconosciuto più volte come bisognoso di “ulteriori studi e chiarificazioni”. Ma è un caso che oggi è praticamente venuto meno, dopo che papa Francesco ha talmente facilitato il ricorso alle sentenza di nullità da rendere inutile il ripiego nel foro interno.

            Con i nuovi processi matrimoniali, infatti, chi è certo in coscienza della nullità del suo matrimonio può ritenersi anche sicuro di veder certificata canonicamente tale nullità. Nel suo caso, il ricorso al foro interno non ha più ragione di esistere. I fatti parlano. Prima ancora che il sinodo si concludesse e al di fuori delle stesse discussioni sinodali, papa Francesco ha già risolto a modo suo la “vexata quaestio” della comunione ai divorziati risposati: con la sua rivoluzione dei processi matrimoniali. Sempre ammesso che tale rivoluzione vada in porto, visti i problemi che sta sollevando la sua applicazione.

Sandro Magister        4 gennaio 2016                      http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it

 

La collaborazione tra donna e uomo.       

            Se si guarda alla Chiesa dall’esterno, l’impressione che riceviamo da ogni cerimonia vaticana, qualsiasi riunione di alto livello che si occupa del futuro, qualsiasi momento di comunicazione con l’esterno, è che siamo di fronte a un mondo rigorosamente maschile, nel quale non esiste collaborazione con donne. Le donne — e ben si sa che sono molte e indispensabili nella vita della Chiesa — non compaiono, non si sente la loro voce, e quindi spesso si deduce un po’ frettolosamente che obbediscano in silenzio. Per fortuna, invece, non è così: non solo negli anni più recenti, ma in tutta la millenaria storia della Chiesa la collaborazione fra donne e uomini è stata importante e fruttuosa.

In questo numero anche la santa del mese, Paola, può vantare una storia di collaborazione con Girolamo proprio agli albori della vita cristiana: dal loro sforzo comune è nata la Vulgata, cioè la traduzione latina della Bibbia su cui si è fondata per secoli la tradizione scritturale. E la nostra pagina teologica si apre quest’anno a una nuova serie — le figure femminili nell’Antico Testamento — che ci raccontano grandi vicende di collaborazione fra matriarche e patriarchi, solidale e talvolta anche conflittuale. In tempi recenti, la crescente autonomia raggiunta dalle donne nella vita sociale ha favorito il nascere di nuove e interessanti forme di collaborazione: pensiamo ad esempio allo stretto rapporto fra Hans Urs von Balthasar e Adrienne von Speyr, medico e mistica, dal quale sono nati importanti e innovativi scritti teologici. E non possiamo certo dimenticare la fondatrice del movimento dei Focolari, Chiara Lubich che, oltre a essere la prima e finora unica donna a fondare un movimento ecclesiale, ha impostato tutta la sua organizzazione sulla collaborazione fra donne e uomini, declinata negli anni con grande creatività in molti settori. La proposta di Lubich è chiaramente quella di una Chiesa che sia fondata sulla collaborazione fra donne e uomini, una Chiesa che faccia della differenza fra i sessi la sua fonte di ricchezza, e il movimento da lei fondato si propone come esempio profetico.

In questo numero presentiamo altre esperienze vive e oggi in crescita di collaborazione fra i sessi, ma anche storie del passato, importanti perché rivelano le antiche radici di questo lavorare insieme, nella Chiesa e per la Chiesa. Prenderne atto è molto importante, perché è il primo passo per pensare a una Chiesa più viva e calda, una Chiesa che non si limiti a difendere la differenza, ma la scopra al suo interno, e decida finalmente di viverla in tutte le sue forme vitali.

Lucetta Scaraffia       osservatore romano inserto rosa    2 gennaio 2016

www.focolare.org/press/it/news/2016/01/02/la-collaborazione-tra-donna-e-uomo

Donne e uomini nella chiesa.

Fra i molti documenti che hanno illuminato il cammino della chiesa italiana e alimentato la sua vita in questo ultimo periodo è da segnalare il numero 3 della rivista Esodo , dal titolo “Uomini e donne nella Chiesa”. Il quaderno presenta alcune riflessioni storiche e teologiche sulla dualità maschile/femminile e i riflessi che essa riverbera nella situazione attuale della chiesa italiana. La pertinenza delle riflessioni relative a questo tema è da leggere anche nel contesto della valorizzazione del laicato e, in particolare della fede dei poveri e degli emarginati, alla quale Papa Francesco si richiama continuamente.

Nel Convegno decennale della Chiesa italiana svoltosi a Firenze dal 9 al 13 novembre scorso Papa Francesco si è rivolto alla Chiesa italiana invitandola a «camminare insieme in un esempio di sinodalità». Riguardo alle scelte da compiere ha ripetuto: «Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme». Rivolto al clero, con il richiamo scherzoso a Don Cammillo e Peppone di Giovannino Guareschi, ha ammonito: «Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte».

La ragione di questa urgenza è teologica: lo Spirito opera in tutta la struttura ecclesiale e la missione è svolta oggi soprattutto in ambito secolare e profano. Per questo il Papa ammonisce: «sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo». Rinvia in merito alle riflessioni proposte nel primo paragrafo del capitolo terzo dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium «Tutto il popolo di Dio annunzia il Vangelo» (cfr. nn. 111-134). Egli conclude con l’invito: «Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese». L’insistenza con la quale Papa Francesco ha ricordato di non dare troppa fiducia alle strutture di potere, sia economiche che culturali va pure in questa direzione.

Papa Francesco lo ha ripetuto anche nell’ultima Enciclica, come ha ricordato nello Slum di Kangemi a Nairobi il 27 novembre 2015 scorso: «Voglio fare riferimento alla saggezza dei quartieri popolari. Una saggezza che scaturisce da ‘un’ostinata resistenza di ciò che è autentico’ (Laudato sii, 112), da valori dimenticato. Voi siete in grado di tessere ‘legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo’ (ibid. 149)».

Insieme anche nella differenza di genere a Firenze Papa Francesco ha esortato la chiesa italiana a superare la tentazione di aggrapparsi alle strutture di potere come garanzia di sicurezza: «Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo. La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività… Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme».

La contrapposizione clero laici ha una declinazione corrispondente nella complementarietà maschio/femmina. La ricerca del potere infatti ha molta attinenza con l’esclusiva presenza maschile nelle strutture gerarchiche della Chiesa cattolica. In questa prospettiva acquista particolare significato il citato quaderno della rivista Esodo, che con molta chiarezza affronta il tema della presenza femminile nella Chiesa.

Il discepolato femminile. Tutti gli interventi del numero di Esodo insistono sul fatto che nella Chiesa cattolica non esiste un vero riconoscimento delle donne. A questo dato le teologhe rispondono non rivendicando diritti, ma chiedendo ascolto. Sono infatti consapevoli che in virtù del battesimo costituiscono il Popolo di Dio come gli uomini e hanno un compito da svolgere al femminile all’interno della Chiesa.

Lilia Sebastiani (Gesù la relazione trasformatrice pp. 16-22) osserva che Gesù ha con le donne un rapporto singolare, che risana la vita delle seguaci, le rende discepole e diacone. «È così assoluta la libertà mostrata da Gesù nei suoi rapporti con le donne così forte l’appello profetico implicito nel suo agire – e perciò non indolore, allora come oggi, se si vuole prenderlo sul serio -che gli stessi evangelisti mostrano un certo imbarazzo nel restituire quella novità. In parte per i normali limiti culturali e psicologici, ma anche per lo scrupolo pastorale di non sconcertare troppo i destinatari dell’annuncio, e di non mostrare al mondo pagano la comunità cristiana come luogo di allarmante disordine. Così quanto dell’evento di Gesù poteva risultare troppo sorprendente o difficile da capire viene omesso o sfumato, forse già nella fase della trasmissione orale. La questione del discepolato femminile è senz’altro uno degli aspetti più reticenti, più sfumati e adattati. Non poté essere eliminato, però, per la sua importanza fondamentale e per il ruolo di testimoni che le donne ebbero nel momento della morte di Gesù e dopo». (p. 21).

Maria Cristina Bartolomei a una domanda posta da Paola Cavallari (E tutti furono ripieni di Spirito Santo pp. 23-28) se la Chiesa debba chiedere scusa alle donne osserva che non è questa la via da percorrere dato che anche le donne sono la chiesa: «Quello che chiediamo è il riconoscimento. In effetti si potrebbe pensare a un chiedere scusa da parte delle autorità ecclesiali per non averci riconosciuto… ma c’è il pericolo di mettere la chiesa qui e le donne là. A questo proposito la faccio partecipe di una fantasia che ho da tanto tempo, anche se non si realizzerà mai. Un piccolo segno da porre da parte delle donne cattoliche potrebbe essere questo: scegliamo una domenica all’anno, andiamo a messa, andiamo a prendere la comunione, facciamo un inchino davanti al corpo del Signore e non prendiamo la comunione: per segnalare che non ci sentiamo incluse pienamente nella comunione della chiesa. Non è una contestazione. È un segnale forte, visibile. Noi siamo qui, condividiamo… ma non ci sentiamo incluse pienamente (p. 27).

La teologa Serena Noceti conclude il suo intervento (Una diaconia dimenticata pp. 29-34) con la sottolineatura delle molte opposizioni alle novità: «È in atto un cambiamento ecclesiale, che è complessivo, ma le resistenze sono innumerevoli; molti passi – sul piano strutturale – devono essere ancora compiuti perché le donne possano partecipare ai processi comunicativi, partecipativi, decisionali, che fanno chiesa a pieno titolo, e la questione ministeriale è al cuore di questa auspicata e necessaria trasformazione. Le condizioni concrete di partecipazione delle donne vengono stabilite dal corpo ecclesiale nel suo insieme (ad esempio, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle chiese locali), ma per tanti aspetti dipendono da condizioni di fattibilità, decise anche dalla gerarchia (ad oggi, maschile). A livello ecclesiale non si può negare la persistenza di stereotipi androcentrici o di strutture a matrice patriarcali dure a morire. Ma un tavolo di dialogo franco e coraggioso sulla ‘questione femminile’ deve essere aperto e non procrastinata una revisione coraggiosa sul piano pastorale. Per il futuro della chiesa e soprattutto per fedeltà all’evangelo di Gesù» (ib. p. 33).

Paola Cavallari, dopo aver ricordato che «dagli studi antropologici risulta un dato certo: la donna è trasversalmente esclusa dalle istituzioni di tutte le culture, sia in ambito sacro che laico» (Giullari di Dio ib. pp. 35-39 qui p. 36), a proposito della Chiesa cattolica scrive: «Le donne non rivendicano diritti, non pretendono di essere arbitre di verità. Il paradigma della dualità invoca e custodisce l’ospitalità a letture molteplici della Parola. Esse hanno riscoperto, nonostante tutto, una nuova buona novella, disseppellendo significati rispettosi in merito alla loro dignità. Stanno scoprendo con giubilo che Dio le ama, e di essere predilette da Dio, insieme ai popoli reietti della terra. Chiedono che sia loro concessa la voce pubblica per dirlo e la visibilità per mostrarlo nei culti; per cantare in libertà il loro essere giullari di Dio. Non la via della rappresentanza, né dell’insignificanza, ma della sequela mistico-politica» (pp. 38-39). La via sinodale indicata da Papa Francesco alla Chiesa di fatto implica anche la inclusione delle donne nelle sue strutture decisionali perché la vita ecclesiale sia di fatto un camminare insieme: popolo (intero) e pastori.

Carlo Molari  “Rocca” n. 1, 1 gennaio 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut421

 

“Così viviamo la nostra seconda vita da ex preti”

In Italia i sacerdoti che hanno rinunciato all’abito talare sono tra i 5 e i 7mila. Viaggio tra i «dimissionari» che rientrano in società, spesso con una compagna. C’è chi si è “convertito” in assistente sociale, qualcuno lavora in fabbrica, altri si sono reinventati imprenditori o rappresentanti. I più fortunati insegnano, in tanti sono alla ricerca disperata di un lavoro, ma quasi nessuno dice di aver perso la fede.

Benvenuti nel (complicato) mondo degli ex preti, quelli che hanno abbandonato la tonaca per rientrare nella società, spesso in compagnia di una moglie. Una società che li vede alle prese con una nuova vita e una nuova identità, impegnati con la necessità di dover ricominciare senza mai aver compilato un curriculum o cercato casa, orfani dell’abbraccio della Chiesa e della prospettiva di una pensione elargita dalla Cei. Talvolta prigionieri di una perenne “terra di mezzo” non solo sociologica, ma anche psicologica perché chi abbandona l’abito talare non può più esercitare, ma per la fede cattolica il sacramento del sacerdozio rimane impresso in modo «indelebile». In qualche modo, dunque, si è preti per sempre. Quanto al matrimonio, chi – tra di loro – lo ha celebrato con rito civile si è posto al di fuori della Chiesa. Chi, dopo un processo diocesano, ha atteso la dispensa papale ha potuto invece pronunciare il sì davanti a un ex collega.

            Ma quanti sono gli “spretati”? Difficile dirlo. Secondo le stime di alcune associazioni negli ultimi cinquant’anni in Italia si sono dimessi tra i 5 e i 7mila sacerdoti. I dati più aggiornati dell’Ufficio centrale di Statistica della Chiesa cattolica riferiscono di 64 defezioni (il termine include anche coloro che hanno lasciato per motivi diversi dal matrimonio) tra i preti italiani nel corso del 2013 (43 quelle dei diocesani, le rimanenti riguardano consacrati appartenenti a ordini religiosi). «Ma in media – spiegano i funzionari dell’ufficio – ogni anno il 10% dei dimissionari ci ripensa». Occorre tener presente che nel nostro Paese ci sono quasi 50mila preti (per l’esattezza: 47.560 di cui 31.956 diocesani e 15.604 religiosi).

            La questione dell’esercito degli ex è comunque nell’agenda di Papa Francesco. Lo ha assicurato lui stesso incontrando il clero romano, nel febbraio scorso 2015.

            «Speriamo, ma non ci contiamo più di tanto», butta lì Giovanni Monteasi, 76 anni, “spretato” dal 1983, un figlio e una vita lavorativa spesa nella formazione professionale. Lui è il presidente di Vocatio, un’associazione di preti sposati. «Non siamo contro il celibato, ma per la libertà di scelta: i preti dovrebbero avere la possibilità di scegliere se sposarsi o no». Sulla stessa linea Lorenzo Maestri, 83 anni, direttore della rivista Sulla Strada: «Sono contento di aver rinunciato a questa chiesa medievale, anche se ho pagato un prezzo altissimo: sono stato parroco per 20 anni, quando ho annunciato la mia decisione mi sono ritrovato tutti contro, dal sacrestano al vescovo. Ho fatto il muratore, il rappresentante di commercio e poi l’insegnante. Senza contare la diffidenza della gente, anche se negli ultimi anni il clima è cambiato».

            Ci sono i conti con la coscienza e quelli con la fine del mese. Giuseppe I., 51 anni, siciliano, si è dimesso a gennaio del 2014 e si è sposato civilmente a Roma con la sua compagna che oggi fa la maestra. Solo pochi anni fa lei era una suora. «Eravamo amici. Fui proprio io – racconta lui – ad accompagnarla in un percorso spirituale che la portò ad entrare in una congregazione e poi missionaria in Africa». Un breve periodo e lei lascia la missione, anche lui vacilla. «Ci siamo innamorati. È stato come avvertire un passaggio di Dio nelle nostre vite, quasi che lui volesse creare qualcosa di nuovo e diverso dalle nostre povere esistenze». Inutile parlare con il vescovo, con lo psicologo, inutile l’anno di discernimento in monastero: il sentimento non svanisce. «Adesso sto cercando lavoro, frequento un corso di inglese, mi piacerebbe impegnarmi nel sociale, a contatto con i giovani. Ho mandato decine di curricula, ma non mi ha risposto nessuno. Ho bisogno di lavorare, è una questione di dignità. Viviamo in affitto a Roma, con il solo stipendio di A. (non pronuncia mai la parola moglie, ndr), i miei confratelli sono quasi tutti spariti…». Un figlio? «Se arriva siamo aperti alla vita, ci fidiamo della Provvidenza».

L’amarezza di chi sente abbandonato ha segnato anche l’esperienza di Ernesto Miragoli, 61 anni, di Como, oggi titolare di un’impresa edilizia con quattro dipendenti. «Ero una “promessa” del clero comasco, – ricorda – appassionato di storia dell’arte, collaboravo con i giornali e le tv locali. Mi innamorai, potevo servire la Chiesa da sposato ma me lo hanno impedito. Avevo lavorato per la mia Chiesa fino all’età di 32 anni, eppure da quel giorno del 1986 ero diventato invisibile, una specie di “lebbroso”. Mi aiutò un laico, il direttore di un giornale locale che mi affidò una pagina di cronaca per 800mila lire al mese. Un sostegno che mi permise di galleggiare, fino a quando – dopo aver letto un’inserzione – mi trasformai in un imprenditore edile. Oggi abbiamo tre figli, ho ottenuto la dispensa, andiamo regolarmente a messa e qualche volta, quando sento certe corbellerie dall’altare, mi viene voglia di salire e farla io, la predica…».

            Il “segreto” per non restare prigioniero di una vita e di una mentalità da ex sacerdote? Cambiare aria, accumulare esperienze e solo allora tornare nel proprio paese. È la strada seguita da Giuseppe Zanon, 78 anni, da Gottolengo (Brescia): «I miei genitori erano malati e mi misero in collegio. A 13 anni è arrivato un frate e mi ha detto: “Vieni in seminario, potrai studiare e giocare”. Fu una specie di sequestro di persona. A 33 anni abbandonai i voti. Cristo non ti sbatte la porta in faccia perché ti sei innamorato, questo lo fanno gli uomini. Per me è stato decisivo vivere a Milano, aiutato da mio fratello e da un religioso. Lì ho studiato e mi sono laureato. Ho vissuto vent’anni da single, poi nel 1991 ho conosciuto Daniela e ci siamo sposati. Solo allora sono tornato a Gottolengo per insegnare lettere alla scuola media. Oggi sono in pensione e do una mano in parrocchia. Offendermi se mi danno del prete? Macché. Quando il parroco è malato, gli amici al bar mi prendono in giro: “Vai tu a dir messa”. Ma io sono felice di essere un prete, anche se non “esercito” più…».

            Mauro Pianta Vatican Insider                      8 gennaio 2016          

www.lastampa.it/2016/01/07/vaticaninsider/ita/inchieste-e-interviste/cos-viviamo-la-nostra-seconda-vita-da-ex-preti-mISx0BRE2yAVmkEYkFlwgI/pagina.html

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CHIESE EVANGELICHE

Il miracolo della nascita.

La maternità surrogata porta con sé molti problemi, domande e perplessità, anche nelle nostre chiese. Un contributo al dibattito in corso. Cinque donne morte di parto in una settimana. Forse una coincidenza. Nonostante i non pochi casi di malasanità che si verificano in Italia, è difficile sostenere che i responsabili siano distrazione e superficialità di medici e personale. Nel nostro paese si conta una cinquantina di questi casi all’anno, in media con Francia o Regno Unito. Le cause sono in primo luogo emorragie, età avanzata della partoriente, tagli cesarei non necessari, ma anche le condizioni durante la gestazione, come il diabete, la pressione alta, l’essere in sovrappeso. E può capitare anche di morire durante il parto per una banale influenza.

            Queste notizie mi hanno spinto a riflettere, una volta di più, sul fatto che, pur nella piena fiducia verso la scienza medica, le tecniche e le strumentazioni più avanzate, ogni nascita è un miracolo, esposto al fallimento, come la morte è una possibilità che fa parte della vita e non è una sorta di confine esterno che molti vorrebbero spingere sempre più avanti nell’età, in molti casi in modo del tutto insensato.

            Mi sento di affermare che la vita è un dono e la maternità non è un diritto, ma una possibilità che a volte non si realizza. Oggi sappiamo molto di più sulle cellule, sui neuroni, le reazioni chimiche, le proteine, il Dna nei nostri corpi: questa meravigliosa crescita nella conoscenza non è in contrasto con la certezza che la vita è un dono di Dio. Anche se la creazione di intelligenza artificiale, o addirittura di un essere umano, fa parte del nostro folle, prossimo futuro.

            Questa riflessione si collega anche al tema della maternità surrogata (chiamata sbrigativamente e a volte con spregio “utero in affitto”) che è stato affrontato da un’intervista di Federica Tourn a tre donne, due delle quali pastore (Daniela Di Carlo, Letizia Tomassone, Monica Fabbri). Con accentuazioni diverse (gestione del proprio corpo in totale libertà, dono di maternità, conseguenze di una legge che vieta la fecondazione eterologa, approvata con un referendum, ma poi bocciata dalla Corte costituzionale), le donne intervistate si dicono favorevoli alla libertà di decisione sull’uso del proprio corpo e quindi alla possibilità che una coppia che non può avere figli utilizzi l’utero di una donna disponibile. Se mai si chiede che una eventuale legge impedisca quello che rischia di diventare un mercato della merce “utero”. Forse nell’articolo su Riforma sarebbe stata opportuna anche una voce contraria.

            La Corte europea ha affermato che «la pratica della gestazione surrogata che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, deve essere proibita». Sono d’accordo, a parte l’ipocrita definizione di “paesi in via di sviluppo”. Tutti sanno che sono paesi dove la disperazione per la fame e per la guerra costringe donne e bambine a vendere l’unica cosa che possiedono, il loro corpo, intero per la prostituzione, o a pezzi (rene, fegato e oggi anche utero). Ma a questo divieto occorre aggiungerne un altro: è vietato far morire di fame il prossimo.

            Emotivamente mi colloco fra i contrari, ma capisco che la questione è veramente complessa, anche perché si intreccia con quella delle unioni civili fra persone dello stesso sesso non ancora regolamentata nel nostro paese, nonostante i richiami fatti dalla Corte europea. Le domande e le perplessità, a volte il rifiuto delle unioni di coppie omosessuali, della decisione sinodale sulla loro benedizione, della “gestazione surrogata”, sono ben presenti nelle nostre chiese. La si smetta di dire che, se siamo laici, dobbiamo essere aperti alla totale libertà, compreso l’utero in affitto. Qui la laicità non c’entra proprio per niente. E’ necessaria la chiarezza di informazioni, il rispetto e la pazienza reciproca.

            E perché non parlare, di nuovo, anche dell’affido, della possibilità che esso sia aperto anche alle coppie omosessuali, che si liberi dalle complicate pratiche burocratiche, acquistando la sua positiva valenza di educazione all’essere genitori?

Marco Rostan            07 gennaio 2016            http://riforma.it/it/articolo/2016/01/07/il-miracolo-della-nascita

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Cremona. Corso per operatori CAV.

Riprende giovedì 13 gennaio presso il Consultorio UCIPEM di via Milano 5 a Cremona, il corso di formazione e di aggiornamento per operatori e volontari del Centro di Aiuto alla Vita e del Movimento per la Vita. Si tratta di un percorso articolato in otto tappe, per approfondire vari aspetti legati al tema dell’accoglienza e del supporto alla vita umana nascente che ha avuto inizio lo scorso dicembre con un incontro tenuto dal dr Alberto Rigolli, specialista in ostetricia e ginecologia all’ospedale di Cremona, sulla legge 194\1978 che regola l’aborto chimico e chirurgico. Il 13 gennaio 2016, invece, toccherà al dr Paolo Emiliani, presidente del movimento per la Vita di Cremona e del Forum dell’Associazione Familiari, che approfondirà il tema: «I nuovi scenari dell’accoglienza e del rifiuto della vita nascente». Giovedì 27 gennaio 2016, invece, la prof. Milena Fracassi, il dr Paolo Reggiani e la signora Lidia Santi tratteggeranno la storia del Movimento per la Vita e del Centro Aiuto alla Vita in Italia e a Cremona.

  • 18 febbraio 2016. La relazione d’aiuto. dr Marco Galli
  • 3 marzo 2016. L’aspetto psicologico in particolare nella sindrome post-aborto

dr.sa Mariangela Menta, Sig.ra Grazia Caraffini

  • 17 marzo 2016           Gli attuali servizi di sostegno alla maternità sul territorio cremonese

dr.sa Maria Grazia Antonioli, direttrice consultorio UCIPEM, dr.sa Fiorella Frassi, dr.sa Paola Mosa, dr Paolo Reggiani

  • 7 aprile 2016 Incontro con i professionisti della rete di carità
  • 21 aprile 2016 il dolore spirituale e la cura dell’anima. don Maurizio Lucini, Don Primo Margini

www.diocesidicremona.it/blog/prosegue-il-corso-di-formazione-per-operatori-e-volontari-del-centro-aiuto-alla-vita-e-del-movimento-per-la-vita-08-01-2016.html

www.ucipemcremona.it

Frosinone. Convegno di Anatolè Onlus

            Il Consultorio Familiare Anatolè Onlus è una realtà molto importante nell’ambito sociale di Frosinone. Un numero crescente di persone che vivono una condizione di disagio si rivolgono a questa organizzazione per trovare aiuto e sollievo, per tornare a vivere serenamente la propria vita quotidiana.

            La struttura, della quale è Presidente don Ermanno D’Onofrio ed è diretta con grande impegno e capacità dalla dott.ssa Alessandra Testani, fornisce assistenza ai richiedenti aiuto nel campo della Consulenza Coniugale e Familiare, della Psicologia e di tutte quelle discipline che riguardano la persona umana e che si occupano del suo benessere esistenziale. Professionisti di varia formazione collaborano affinché tutti coloro che richiedono un supporto alla propria condizione possano trovare risposte adeguate ed efficaci per migliorare la propria vita.

Tra le Anatolè Onlus, due articolazioni della struttura si trova anche il C.I.S.P.e.F., un Istituto di Formazione per Consulenti Coniugali e Familiari, attivo anche in specializzazioni collaterali o di supporto. Il Consultorio organizza annualmente un Convegno informativo e formativo, durante il quale vengono trattati i temi più scottanti della condizione umana nella relazione con gli altri, ed argomenti inerenti la professione di Consulente Coniugale e Familiare, che si sta sviluppando ovunque, dopo l’emanazione della Legge 4 del 2013, che la riconosce quale attività professionale degna di tutela.

Il Convegno si svolge normalmente nel mese di dicembre, ed ha la sua sede nel salone delle Terme di Pompeo, di Ferentino, concessa con generosità e lungimiranza dalla proprietà. Il Convegno del 2015, tenutosi il 18 dicembre 2015 con notevole partecipazione di pubblico e condotto dal “moderatore” Aurelio Cesaritti, ha avuto come tema: “Consulenza Familiare e Relazione di Aiuto: alla scoperta di una professione”. I tre relatori, che hanno apportato il loro prezioso contributo di conoscenza ed esperienza professionale, sono stati: il dr Pantaleo Nestola, Presidente della Federazione Laziale dei Consultori di ispirazione cristiana, la dott.ssa Francesca Frangipane, membro del consiglio direttivo nazionale dell’Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali, e don Ermanno D’Onofrio, Presidente del Consultorio stesso, psicologo e psicoterapeuta, esperto di problemi dell’età evolutiva.

In un secondo intervento sulla “Metodologia della Ruota” quale strumento di analisi, don Ermanno è stato coadiuvato dalle ex-allieve del XIV Corso di formazione tenutosi nella sede de L’Aquila. Il folto pubblico era composto da persone interessate ad una migliore conoscenza dei problemi della società odierna e delle persone che li vivono quotidianamente, Professionisti, ex-Allievi ed Allievi dei Corsi di Formazione del C.I.S.P.e.F. che si tengono ormai in varie regioni italiane, da Tirocinanti presso il Consultorio e dai numerosi Volontari che ne costituiscono l’ossatura operativa.

 Una parte interessante del Convegno è stata costituita dall’ascolto di tre video-interviste che “padri storici” della Consulenza Coniugale e Familiare hanno rilasciato appositamente per arricchire, con i loro contributi, il contenuto di questo IX Convegno del Consultorio Anatolè: Padre Domenico Correra, Mons. Charles Vella e la Dott.ssa Alice Calori. Per documentare i lavori dei Convegni Annuali, il Consultorio ha deciso di pubblicarne gli Atti, ogni anno. Gli Atti del VII Convegno sull’Identità di Genere sono già stati pubblicati: quelli dell’VIII Convegno su “Quando la Famiglia non c’è Più: la Mancanza del Padre” saranno pubblicati a breve, mentre gli Atti di questo IX Convegno sulla Consulenza Familiare lo saranno quanto prima. Le pubblicazioni sono inserite nella collana letteraria “Incontro alla Vita”, che è soltanto una delle prestigiose attività della Fondazione Internazionale Il Giardino delle Rose Blu Onlus, e si possono acquistare presso la sede della Fondazione o del Consultorio Anatolè.

            Jackal tg24info          7 gennaio 2016

www.tg24.info/ferentino-consulenza-familiare-e-relazione-di-aiuto-convegno-di-anatoleonlus

 

www.consultorioanatole.it/site

            Parma.            Genitori-figli. Un adolescente fra noi. Parliamone insieme.

Cosa cambia nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza? Quali criticità emergono? Quali sono le maggiori difficoltà che genitori e figli incontrano?

Due cicli di incontri di gruppo, rivolti ai genitori e a tutti coloro che accompagnano gli adolescenti nel loro percorso di crescita. L’obiettivo è quello di creare un’occasione di confronto e di scambio fra adulti, accogliere difficoltà, offrire sostegno e attivare risorse.

 A cura della dr sa Erika Vitrano, psicologa

Primo ciclo:     26 novembre, 3 dicembre 2015, 07 gennaio, 4 febbraio 2016.

Secondo ciclo: 17 marzo, 14 aprile, 19 maggio 2016.

Progetto in collaborazione con Centro Diocesano di Spiritualità Coniugale La Tenda di Sara e Abramo e Corte Solidale Anna Micheli. L’iniziativa gode del patrocinio e del finanziamento del Comune di Parma, Assessorato alla Partecipazione.

                                                                                                                        http://www.famigliapiu.it

                                                        Il manifesto del buon conflitto

Pagina di Vita Nuova a cura di Famiglia Più

  1. Non confondere il conflitto con la violenza. Il conflitto lo usi per affrontare l’ostacolo, la violenza per eliminare chi ti ostacola.
  2. Utilizza il conflitto come antidoto alla violenza. Se impari a saper gestire i momenti di crisi e di contrarietà non avrai motivo di ricorrere alla violenza contro gli altri o te stesso.
  3. Non cercare il colpevole È la forma più arcaica e primitiva di affrontare il conflitto che rischia di portarti unicamente al rancore e alla vergogna.
  4. Impara a sostare nel conflitto. È meglio che cercare subito la soluzione. Il conflitto nasconde tante informazioni che puoi esplorare. Il conflitto provoca tante emozioni che puoi saper riconoscere e rispettare.
  5. Impara a comunicare e ascoltare anche in presenza di contrasti, leggi il conflitto non come minaccia ma come occasione di cambiamento. Così puoi sviluppare la tua competenza conflittuale.
  6. Usa la domanda maieutica. Rappresenta una forma molto efficace di comunicazione: crea interesse reciproco e ti permette di cogliere i punti di vista altrui.
  7. Prenditi cura dei tuoi tasti dolenti, saranno tuoi alleati! Nei conflitti avrai capito che emergono le tue emozioni e i tuoi dolori infantili. Prenditene cura, così sviluppi la necessaria capacità di capire te stesso e gli altri.
  8. Educa bene. Dove c’è violenza c’è anche cattiva educazione. Educare bene è la base della vita come il cibo, riguarda tutti, anche te. Impegnati per avere scuole di qualità e perché i genitori non siano lasciati soli nella crescita dei figli.
  9. Aiuta i bambini a litigare bene. Nei litigi infantili evita di cercare il colpevole o imporre la soluzione. Sostieni i bambini a comunicare e a darsi le reciproche versioni dei fatti. In questo modo faciliti la loro ricerca di accordi possibili.

                                                                                                                        http://www.famigliapiu.it

Portogruaro. A gennaio riprendono i percorsi formativi.

Il 12 gennaio 2016 incomincia il laboratorio avanzato sull’assertività, cioè sulla capacità di sostenere le proprie ragioni senza essere aggressivi né passivi, nel rispetto di sé e degli altri. 5 incontri dalle 20.30 alle 22.30 condotti dalle psicologhe Valentina Marcato e Sara Pauletto.

http://www.consultoriofamiliarefondaco.it

            Senigallia- Fertilità femminile, incontri informativi

            L’associazione Iner – Marche (Istituto per l’Educazione alla Sessualità ed alla Fertilità), in collaborazione con il Consultorio Familiare Ucipem Villa Marzocchi, sta organizzando un nuovo corso base per la conoscenza del ciclo della fertilità femminile (metodo sintotermico Roetzer) e della sessualità umana, che si terrà nei giorni 27 febbraio, 6, 13 e 20 marzo alle ore 21,15 presso la sala di Serra De’ Conti.

            Scopo del corso, rivolto a donne e a coppie, è insegnare a saper riconoscere i propri tempi di fertilità e sterilità durante il corso del ciclo femminile, attraverso l’osservazione dei segni che il corpo della donna naturalmente mostra e la corretta applicazione di specifiche regole. Verranno approfondite le basi biologiche della fertilità, il metodo sintotermico del dr Roetzer, dagli aspetti applicativi alle ricadute sulla vita di coppia, tematiche come la relazione tra sessualità e procreazione responsabile.

Il Centro Iner di Senigallia opera in rete con gli altri centri italiani (per maggiori informazioni www.ineritalia.org), ma è l’unico per le Marche: con il corso viene quindi offerta – sottolineano i promotori – una possibilità importante, che sicuramente accresce la consapevolezza di quello che la donna vive.

            Il corso è promosso con il patrocinio dell’Asur Marche Av 2 e la collaborazione del Centro servizi per il volontariato.

www.senigallianotizie.it/1327369303/fertilita-femminile-incontri-informativi-a-serra-de-conti

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DALLA NAVATA

                                   Domenica dopo l’Epifania – anno C – 10 gennaio 2016.

Isaia                  40, 05 «Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato.»

Salmo                         104, 30 «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra.»

Tito                   02, 05 «Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, …»

Luca                 03, 21 «Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì ….»

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DEMOGRAFIA

La sovrappopolazione? Un mito falsamente scientifico.

            Anche la nota rivista “Nature” smentisce la tesi secondo cui l’aumento della popolazione produrrebbe fame e povertà. Gli screening sono un antidoto sicuramente efficace all’insorgere dei tumori; gli antiossidanti giovano sempre all’organismo; nell’uomo il cervello ha dimensioni più grandi rispetto a quello degli animali; le persone imparano più facilmente quando viene usato il metodo d’apprendimento che prediligono; l’aumento della popolazione è destinato ad accrescere fame e povertà. Qual è il comun denominatore tra queste affermazioni? Il fatto che siano dei miti falsamente scientifici.

            Lo rivela la famosa rivista scientifica Nature, in un articolo uscito nel mese scorso. Dopo il Wall Street Journal quindi, un altro accreditato organo d’informazione smonta la tesi della sovrappopolazione. Nell’articolo in questione viene proposta una breve cronistoria di questo mito. Si legge allora che fu Thomas Malthus, nel 1798, a teorizzare che una crescita esponenziale della popolazione nel mondo avrebbe prodotto fame e povertà. Le teorie di Malthus trovarono ampio consenso nel mondo accademico e vennero compendiate da alcuni testi usciti nella metà del secolo scorso, in particolare da La bomba demografica di Paul Ehrlich (1968) e da I limiti dello sviluppo, che pubblicò nel 1972 il Club di Roma, nota Ong formata da economisti, scienziati, filantropi e uomini d’affari.

            L’idea che la popolazione umana stesse crescendo troppo rapidamente penetrò nell’opinione pubblica, a tal punto da diventare una convinzione di larga diffusione. Idea che tuttavia si trova oggi ad inciampare dinanzi alla realtà della crisi demografica, la quale colpisce specialmente i Paesi economicamente più sviluppati. Joel Cohen, ricercatore demografico della Rockfeller University di New York, spiega a Nature che non è affatto vero che la popolazione stia crescendo in modo esponenziale. La popolazione mondiale, infatti, sta crescendo con un tasso che è all’incirca la metà di quello che si registrava fino al 1965. Oggi ci sono circa 7,3 miliardi di abitanti nel mondo, che dovrebbero diventare 9,7 miliardi entro il 2050. Numeri che, secondo la rivista scientifica, non propiziano gli “scenari apocalittici” che sono stati previsti da numerosi studiosi in passato. Nature cita ad esempio il fisico Albert Bartlett, il quale a partire dal 1969 ha tenuto oltre 1.742 lezioni per spiegare come la crescita della popolazione umana avrebbe fatto scaturire “terribili conseguenze”.

            Basterebbe tuttavia attenersi ai dati prodotti dall’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite per rendersi conto di come simili scenari non siano plausibili. È stato del resto dimostrato che la produzione alimentare globale supera la crescita della popolazione. Le calorie dei cereali coltivati attualmente sono sufficienti per alimentare tra i 10 e i 12 miliardi di abitanti. Eppure fame e malnutrizione persistono in tante parti del pianeta. Secondo Cohen, questo è dovuto alle diseguaglianze sociali: “i ricchi possiedono tanto e i poveri poco”. Pertanto il problema dell’indigenza non è dovuto alla nascita di molti bambini, bensì a una non equa distribuzione delle ricchezze.

“La sovrappopolazione non è realmente una sovrappopolazione, ma una questione di povertà”, afferma Nicholas Eberstadt, demografo presso l’American Enterprise Institute, un think tank definito “conservatore” da Nature. Egli accusa quindi i tanti sociologi e biologi che, anziché studiare seriamente le cause della povertà, continuano a sventolare il mito falsamente scientifico della sovrappopolazione. Secondo Cohen, “anche le persone che conoscono i fatti usano (il mito della sovrappopolazione) come una scusa per non occuparsi dei problemi che abbiamo in questo momento”, come ad esempio un sistema economico ingiusto, che continua a favorire i ricchi a discapito dei meno abbienti. Il ricercatore della Rockfeller University auspica che su questo tema vi sia un inversione di tendenza, anche se resta alquanto pessimista. Egli è infatti consapevole che i miti sono molto difficili da sfatare. Gli fa eco Paul Kirschner, psicopedagogista presso la Open University dei Paesi Bassi, il quale commenta amaro: “Quanto più i miti vengono smentiti, quanto più duro diventa spesso il loro nocciolo”. E quello della sovrappopolazione sembra davvero granitico.

Federico Cenci                       ZENIT.org     4 gennaio 2016

www.zenit.org/it/articles/la-sovrappopolazione-un-mito-falsamente-scientifico?

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DIRITTI

Selezione e “dignità” degli embrioni.

La legge 40 sulla procreazione assistita ha subìto nel corso degli anni un processo di progressivo smantellamento, grazie a una serie di interventi della Corte costituzionale, sollecitati dalle richieste di revisione di molti tribunali locali, che hanno portato al ridimensionamento di alcuni articoli e all’abrogazione di altri. A subire le conseguenze di questo processo sono stati – come era prevedibile – i punti più significativi e più controversi della legge, che risulta oggi pertanto del tutto snaturata nei suoi connotati originari.

L’ultimo colpo di piccone a questa opera di smantellamento è costituito dalla sentenza 229 dello scorso 11 novembre con la quale la Consulta, rispondendo a un quesito sollevato dal tribunale di Napoli, ha cancellato il divieto di selezione degli embrioni quando la coppia è portatrice di gravi malattie geneticamente trasmissibili.

Un’osservazione preliminare. Prima di prendere in esame questa sentenza, che merita anche dal punto di vista etico di essere valutata – ovviamente sul terreno dell’etica pubblica – è importante dare spazio a una considerazione di carattere generale. Da più parti si è osservato (e non a torto) che l’opera di demolizione messa in atto verso la legge 40 si è verificata (e sta tuttora verificandosi) nel silenzio di quanti in passato sono spesso insorti nei confronti di interventi, in primis dell’esecutivo o del Parlamento (ma anche della Consulta), quando venivano toccate questioni che avevano ricevuto l’assenso popolare attraverso il referendum abrogativo.

È vero che in questo caso (ma anche in diversi altri) la conferma della legge vigente è avvenuta grazie al mancato raggiungimento del quorum necessario e che sull’astensione ha esercitato un peso rilevante (anche se non in assoluto decisivo, se si considera la percentuale assai ridotta dei votanti) la presa di posizione della Cei, in particolare del suo Presidente di allora cardinale Ruini, che ha invitato il mondo cattolico a disertare le urne. Ciò non toglie che la mancata reazione ai numerosi interventi della Corte costituzionale da parte di chi è stato in passato solerte nel difendere la volontà popolare lasci quanto meno perplessi. L’uso di due pesi e di due misure a seconda delle convenienze -lo dico senza tema di essere considerato di parte essendomi, in occasione del referendum, apertamente schierato (anche su questa rivista) contro la legge 40 – è un modo fazioso di procedere che non fa bene alla democrazia.

La questione della selezione. Queste osservazioni nulla tolgono al valore dell’ultima sentenza della Corte sulla quale è importante sviluppare, in chiave etica, alcune riflessioni. L’oggetto è – come già si è detto – la possibilità di selezione degli embrioni in alcuni casi particolari, quando cioè ci si trova in una situazione di grave pericolo per la vita o per la sanità del nascituro. La presa di posizione della Consulta è in realtà destinata a dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 40/2004 «nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata a evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità». Ciò che, in altre parole viene abrogato è il divieto presente nell’art. 13, 3b nei confronti di «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni»; divieto che riguardava anche il caso del trasferimento in utero degli embrioni con anomalie genetiche e che prevedeva perciò una sanzione penale per il medico che avesse trasferito nell’utero i soli embrioni sani o portatori sani di malattie genetiche.

Per comprendere il senso di questa sentenza è anzitutto necessario tenere conto del fatto che essa ha fatto seguito (fino a costituirne, in qualche misura, la logica conseguenza) a un’altra precedente sentenza nella quale la Corte, correggendo la legge 40, legittimava la diagnosi pre-impianto, la quale serve a stabilire se l’embrione è sano oppure non lo è. Al di là di questo dato, che costituisce un importante presupposto, non mancano, in ogni caso, e vengono addotte con precisione le motivazioni che giustificano la selezione, le quali sono riconducibili, da un lato, alla tutela della salute dell’embrione e, dall’altro, al diritto della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica. A garanzia del carattere non eversivo di tale intervento vi è anzitutto l’affermazione della chiara limitazione della possibilità di selezione con la netta esclusione di forme legate a fattori non strettamente di ordine terapeutico, quali la scelta del sesso o del colore degli occhi del nascituro, e con il rifiuto che la diagnosi pre-impianto possa venire usata come amniocentesi. L’ambito della possibilità di intervenire è dunque chiaramente circoscritto; il riferimento è esclusivamente alle «malattie genetiche trasmissibili», i cui criteri di gravità sono quelli stabiliti dalla legge sull’aborto e il cui accertamento deve avvenire – è scritto nel testo della sentenza – mediante il ricorso ad «apposite strutture pubbliche».

Questo contenimento del ricorso alla selezione rende ingiustificati gli interventi allarmistici di alcuni settori del mondo cattolico che hanno visto nella sentenza una adesione alla «cultura dello scarto» o che considerano la selezione un assenso ai principi dell’eugenetica e un loro inserimento nell’ordinamento italiano. Si deve poi aggiungere – ed è questo un motivo che, per la sua rilevanza, non può essere disconosciuto – che il dispositivo introdotto dalla Consulta finisce per sanare una situazione contraddittoria che, mentre consentiva, da un lato, grazie alla legge 194\1978, la possibilità di ricorrere all’aborto quando si scopre che l’embrione già sviluppato è portatore di una malformazione derivante da patologia genetica, impediva, dall’altro, l’uso di una tecnica – quella della selezione degli embrioni – la quale costituisce un attentato meno grave alla vita e rappresenta un atto meno traumatico per la donna e per la coppia.

La tutela della dignità dell’embrione. Rispondendo nella seconda parte della sentenza a un ulteriore quesito sollevato dal medesimo tribunale di Napoli con riferimento all’art. 14 della legge 40 e respingendo l’istanza da esso avanzata, la Consulta afferma con forza il «no» alla soppressione degli embrioni cosiddetti «soprannumerari», frutto della procreazione medicalmente assistita, estendendo esplicitamente tale divieto anche a quelli che, in base all’esito della diagnosi di pre-impianto, risultano affetti da grave malattia genetica. A giustificare questa posizione è l’esigenza di «tutelare la dignità dell’embrione», poiché – scrivono i giudici – esso «non è certamente riducibile a mero materiale biologico», e la sua soppressione «non trova giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista». Il «no» della Corte che afferma dunque con chiarezza come la stessa malformazione dell’embrione «non giustifica un trattamento deteriore di esso rispetto a quelli sani» viene da alcuni considerato in contraddizione con l’ammissione della possibilità di selezione, sia pure praticata in casi specifici.

Ma non è così. Le limitazioni imposte all’esercizio della selezione – limitazioni già segnalate – sono infatti la chiara indicazione che l’embrione non viene considerato come semplice «cosa», ma che ad esso viene riconosciuta una dignità che deve essere, nei limiti del possibile, rispettata. Mentre, nello stesso tempo, il consenso alla pratica, in casi estremi, della selezione è dovuto al riconoscimento che si danno situazioni gravemente conflittuali nelle quali è doveroso scegliere il male minore. La strada che si apre è allora quella della crioconservazione degli embrioni residuali. Il che impone la fissazione di regole, che consentano di stabilire tempi e modi della procedura, con una presa di posizione circa la possibilità (o meno) dell’impiego degli embrioni nel campo della ricerca e, più in generale, circa il loro destino, stante il fatto che, tranne i pochissimi casi in cui possono venire ancora impiegati per la procreazione assistita in seguito al fallimento del primo tentativo, non possono che essere, nella maggior parte dei casi, alla fine eliminati. Si deve, in definitiva, riconoscere che la posizione assunta dalla Consulta è ispirata a equilibrio e ragionevolezza. Anche se rimangono aperti problemi di non poco conto che affronteremo nei prossimi numeri.

Giannino Piana                      “Rocca” n. 1, 1 gennaio 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut5

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Gianluigi De Palo: “Il Family day un fallimento, vincemmo solo in piazza. Ora aiuti, non adozioni gay”

Gianluigi De Palo è da meno di due mesi presidente del Forum delle Associazioni familiari, un’organizzazione che riunisce con la benedizione della Cei 47 associazioni nazionali e 20 Forum regionali e in rappresentanza di 4 milioni di famiglie.

            Nel Paese è aperto il dibattito sulle unioni civili. Una parte del mondo cattolico è pronta a replicare il Family Day dello scorso giugno. E, insieme, c’è chi propone “Un’ora di guardia” è cioè un’ora di preghiera in difesa della famiglia. Cosa pensa?

“Pregare è sempre una buona cosa perché aiuta a smuovere le montagne. Riguardo al Ddl siamo contrari per tanti motivi, ma mi domando: perché questa fretta non la mettiamo su un fisco più equo? Quali sono le priorità? Le famiglie che non arrivano alla fine del mese e che se fanno un figlio diventano povere o il desiderio di alcuni di vedere riconosciuti i loro diritti senza una controparte di doveri? Io credo che alle comunali di primavera gli italiani si ricorderanno se è stato fatto qualcosa per le loro famiglie”.

            Il Ddl apre alla stepchild adoption. Nel mondo cattolico c’è chi è critico e propone in alternativa l’affido “rinforzato”. Lei da che parte sta?

“Dalla parte del più debole, sempre, dei bambini e delle mamme costrette ad affittare il loro corpo per necessità. Affido e adozione sono parole serie e delicate. Stiamo facendo un dibattito urlato o stiamo mettendo in campo i veri esperti? Questa è la vera domanda”.

Lei ha detto al settimanale Vita che il Family Day del 2007 [Presidente del forum il prof. Giovanni Giacobbe; Giancarlo Marcone a nome dell’UCIPEM votò contro l’adesione] è stato uno dei più grandi fallimenti a cui ha assistito. La Chiesa delle battaglie di piazza non esiste più?

“Il 2007 è stato un successo per la piazza. Eravamo un popolo festoso che è riuscito a far sentire la sua voce. Il fallimento a cui faccio riferimento è stato quello di chi non ha saputo dare seguito alle esigenze di tutte quelle famiglie. Ce ne accorgiamo oggi che viviamo il paradosso del tasso di natalità più basso al mondo nel Paese in cui una delle prime cause di povertà è mettere al mondo un figlio. Abbiamo parato un rigore, ma poi abbiamo smesso di giocare”.

Il Forum era il “braccio armato” della Cei sui temi della famiglia. Oggi non è più così?

“L’unica cosa di cui siamo armati è l’amore per i nostri figli. Il Forum è al servizio delle famiglie italiane. Piuttosto credo che sia giunto il momento di essere più incisivi: se non riusciamo a mettere al centro del dibattito una fiscalità più equa per le famiglie italiane e la priorità del momento è sulle unioni civili, forse vuol dire che dobbiamo fare di più. E lo faremo”.

Quale mandato le ha dato la Cei nominandola presidente?

“Non sono stato nominato. Sono stato eletto dalle associazioni che danno voce ad oltre 4 milioni di famiglie. Il mandato è semplice: la famiglia fatta da mamma, papà e figli è la grande occasione che abbiamo per uscire dalla crisi. Aiutiamola e aiuteremo il Paese”.

Qual è il passo che Francesco chiede alla Chiesa italiana?

Francesco non chiede passi, li fa e noi proviamo a seguirlo, zoppicanti. Vale più l’esempio di mille parole “

Paolo Rodari  la repubblica              6 gennaio 2016

www.repubblica.it/cronaca/2016/01/06/news/gianluigi_de_palo_il_family_day_un_fallimento_vincemmo_solo_in_piazza_ora_aiuti_non_adozioni_gay_-130717189/

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

“Non siamo capomastri, ma manovali”. La preghiera del papa per la Curia.

            Una preghiera, non molto nota, comunemente attribuita a mons. Oscar Romero ma composta da mons. Kenneth Edward Untener, vescovo di Saginaw dal 1980 al 2004, e pronunciata per la prima volta dal card. John Dearden, storico vescovo di Detroit (dal 1958 al 1980), ha concluso, il 21 dicembre 2015 scorso, il discorso natalizio di papa Francesco alla Curia Romana. Un discorso, come hanno riportato i media, improntato sulla metafora degli “antibiotici curiali” da opporre come rimedio alle malattie di cui la Curia soffre, perché “Ecclesia semper reformanda“.

            La preghiera pronunciata dal papa in quell’occasione è particolarmente significativa, sia per il contenuto – che consente di leggere in filigrana un riferimento al proprio pontificato – sia per la figura dalla quale è stata pronunciata per la prima volta, un cardinale che ha avuto un ruolo di rilievo nella Conferenza episcopale statunitense fino alla fine degli anni ’80 ma che, soprattutto, ha partecipato in qualità di padre conciliare ai lavori del Vaticano II, contribuendo alla stesura della Gaudium et spes e della Lumen gentium e ed è stato molto attivo nel campo della lotta alla discriminazione razziale negli Usa.

            Ma non solo. La figura del card. Dearden ha un valore anche simbolico, e lo ha dimostrato il fatto che il riferimento da parte del papa abbia inquietato gli animi di un settore conservatore della Chiesa cattolica, soprattutto anglofona, come il blog inglese Torch of the Faith, che parla di un “sentimento di scoraggiamento” trasmesso dal papa con il suo discorso e del fatto che “i cattolici tradizionalisti del mondo aggrotterebbero le sopracciglia per questa “preghiera”, che suggerisce che “nessun credo porta la perfezione”.

Ma soprattutto, è il riferimento stesso a Dearden a provocare sconcerto presso i cattolici più conservatori, i quali lo hanno sempre considerato un “progressista riservato” per il suo stile di governo basato sul consenso, quando fu primo presidente della Conferenza episcopale Usa (1966-1971): fu sotto la sua guida che negli Usa vennero autorizzati i ministri straordinari dell’Eucaristia e venne ripresa una pratica ormai abbandonata da secoli, l’ordinazione diaconale di laici sposati. Nel 1976, quando venne lanciata l’iniziativa Call to Action con lo scopo di coinvolgere la comunità cattolica statunitense nella ricerca della libertà e della giustizia (poi dando vita all’omonima associazione), Dearden ne fu alla guida, con una massiccia consultazione dei laici. Naturalmente, il suo coinvolgimento in quella che sarà poi giudicata dall’ala più tradizionalista della Chiesa un’associazione ai limiti dell’apostasia – per la critica al magistero sui temi delle donne prete, dell’aborto, della contraccezione e dei divorziati risposati; venne anche posto sotto inchiesta dal Vaticano nel 2006 – ne fece un “radicale”. Così come radicale è considerato, dalla stessa ala, papa Francesco, specialmente riguardo alla sua agenda sul clima: “Quella conferenza del 1976 – si legge sul blog Torch of the Faith – mostra alcuni interessanti paralleli con i giorni di papa Francesco e la saga che circonda il Sinodo di Roma sulla famiglia e l’agenda sul cambiamento climatico”. In sintesi: “Alla luce di tutto questo possiamo solo chiederci se l’inclusione di quella “preghiera” del radicale John Francis Dearden indica qualcosa di più del semplice fantasma di un’idea”.

            Ecco di seguito il testo della preghiera “incriminata”, introducendo la quale il papa ha detto: “Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano”.

Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.

Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.

Niente di ciò che noi facciamo è completo. Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.

Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.

Nessuna preghiera esprime completamente la fede.

Nessun credo porta la perfezione.

Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.

Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.

Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta: noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.

Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.

Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.

Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.

Non possiamo fare tutto, però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.

Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene

Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.

Una opportunità perché la grazia di Dio entri e faccia il resto.

Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.

Siamo manovali, non capomastri, servitori, non messia.

Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

Adista Notizie n. 1 del 09 gennaio 2016                   www.adista.it/articolo/55820

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MATERNITÀ SURROGATA

Maternità surrogata, uno scambio ineguale.

Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che — ricordiamolo — ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita — a mia conoscenza — solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.

Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.

La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.

«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).

Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico — e anche un po’ sospetto — appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).

Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che — da Marcel Mauss in avanti — si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali? Il confronto con la donazione del rene — con tutte le differenze del caso — può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico. La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale?

In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti. È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura. Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici. Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.

Valentina Pazé                       “il manifesto”, 9 gennaio 2016.

http://ilmanifesto.info/maternita-surrogata-uno-scambio-ineguale/

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PATERNITÀ

Nuovo congedo di paternità 2016

Le nuove ipotesi di congedo obbligatorio e facoltativo del padre lavoratore: durata, copertura, come fare domanda. Sono parecchie le novità introdotte nel 2016 nell’ambito della tutela dei genitori-lavoratori: dalla previsione del congedo facoltativo retribuito anche per i liberi professionisti, all’allargamento della platea di beneficiari dei voucher babysitter ed asili nido, sino all’estensione del congedo di paternità. La novità, per quanto concerne questo congedo (introdotto perla prima volta dalla Legge Fornero di Riforma del Mercato del lavoro), consiste nell’obbligo, per il lavoratore padre, di fruire di due giorni di assenza, anche in modo non continuativo, entro 5 mesi dalla nascita del figlio.

            Congedo di paternità obbligatorio. Pertanto, da una sola giornata di congedo di paternità obbligatorio, si è passati a due giornate, che non saranno fruibili in alternativa all’astensione obbligatoria della madre, ma si aggiungeranno al congedo di maternità. Certo è ben poca cosa, e si potrebbe fare molto di più, considerando anche le legislazioni in materia degli altri Paesi Europei, ma è comunque un piccolo passo verso una miglior tutela della genitorialità e della conciliazione famiglia-lavoro in generale.

            Congedo di paternità facoltativo. Oltre ai due giorni di astensione obbligatoria, poi, il dipendente ha la possibilità di godere di altre due giornate di assenza: le due giornate ulteriori, però, consistono in un’assenza facoltativa, fruibile in alternativa all’astensione della lavoratrice madre, e devono pertanto essere defalcate dai giorni spettanti alla madre per il congedo di maternità obbligatorio.

            Congedo di paternità: retribuzione e contribuzione. Sia nell’ipotesi delle assenze per congedo di paternità obbligatorio, che in quella delle assenze per congedo di paternità facoltativo, l’Inps copre le giornate offrendo un’indennità pari al 100% della retribuzione globale, ed accreditandovi la contribuzione figurativa (in buona sostanza, il dipendente percepisce stipendio e contributi in misura piena, come se si trattasse di normali giornate lavorative).

            Congedo di paternità: modalità di fruizione. Per quanto riguarda i due giorni di congedo di paternità obbligatorio, possono essere goduti anche in contemporanea al congedo di maternità obbligatorio, o facoltativo (congedo parentale), della madre, in quanto tali assenze non sono alternative tra loro. È invece alternativa alla maternità obbligatoria la fruizione delle due giornate di congedo di paternità facoltativo: in pratica, la madre dovrà rinunciare a un numero di giornate corrispondenti a quelle fruite facoltativamente dal padre, anticipando la fine dell’astensione obbligatoria post-parto.

            Congedo di paternità: adozione e affidamento. Sia il congedo obbligatorio di paternità, che quello facoltativo, sono riconosciuti anche in caso di adozione ed affidamento, entro i 5 mesi dall’ingresso del figlio nel nucleo familiare.

            Congedo di paternità: come fare domanda. La domanda di congedo di paternità, obbligatorio o facoltativo, deve essere inviata per iscritto al datore di lavoro, o all’amministrazione del personale competente, con un preavviso di almeno 15 giorni.

            Nell’ipotesi del congedo facoltativo, sarà necessario allegare alla richiesta una dichiarazione della lavoratrice madre di mancato godimento del congedo obbligatorio di maternità, per un numero di giornate equivalenti alle assenze facoltative fruite dal padre; la stessa dichiarazione dovrà pervenire anche al datore di lavoro della madre.

            Congedo di paternità che sostituisce la maternità obbligatoria. Esiste un altro congedo cosiddetto “ di paternità obbligatoria” , che non va confuso col congedo obbligatorio di paternità di cui abbiamo parlato: si tratta del congedo di paternità “sostitutivo”, ossia dell’astensione retribuita dal lavoro riconosciuta al padre, al posto della maternità obbligatoria, nelle ipotesi in cui il congedo non possa essere riconosciuto alla madre (ad esempio in caso di morte, grave infermità, abbandono del bambino, o di affidamento esclusivo del figlio al padre). Qualora il lavoratore abbia diritto al congedo di paternità “sostitutivo”, potrà sommare tale congedo anche con le due giornate di congedo di paternità obbligatorio.

            Congedo di paternità facoltativo e congedo parentale. È facile fare confusione, a causa della somiglianza dei nomi, anche tra congedo di paternità facoltativo e congedo parentale (quest’ultimo è noto anche come maternità facoltativa): mentre il primo, come abbiamo visto, consiste in due giornate in più d’assenza per il lavoratore padre, in sostituzione di due giornate della maternità obbligatoria, il congedo parentale è un’assenza, ugualmente facoltativa, della durata massima di 10 mesi cumulabili tra madre e padre (in alcuni casi 11), per un massimo di 6 mesi a genitore (a meno che il bambino non abbia un solo genitore).

            Il congedo parentale è solo parzialmente retribuito, fino ad un massimo di complessivi 6 mesi (tra i due genitori), e non oltre i 6 anni del bambino (3 anni per i lavoratori autonomi, una volta che entrerà in vigore il nuovo Jobs Act sul lavoro autonomo); può essere fruito, dal 2015, anche in modalità oraria, e sino ai 12 anni di età del figlio.

Noemi Secci    Lpt      8 gennaio 2016

www.laleggepertutti.it/108152_nuovo-congedo-di-paternita-2016

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POLITICHE PER LE FAMIGLIE

Ma quale Family Day? Asili, bonus, congedi: la famiglia è di serie B.

All’orizzonte, l’ipotesi Family Day ricorda all’Italia che è la patria del Cattolicesimo. Alfano arriva a minacciare il carcere per la maternità surrogata, il governo lotta per le unioni civili. Ma, nella nazione che per ben 52 anni è stata guidata da cattolici, ci si dimentica che per le politiche sociali familiari è uno dei paesi messi peggio in Europa. E negli ultimi due anni, quelli del governo Renzi, la situazione non è migliorata.

Pil: i nuclei familiari pesano pochissimo. Partiamo dai numeri generali, che più di tutti forniscono il quadro completo della situazione. La spesa pubblica per la famiglia e le sue politiche è pari solo a 16,5 miliardi, che corrispondono ad appena l’1 per cento del Pil. I dati sono dell’Osservatorio sull’imprenditoria femminile, presentato a novembre e ci collocano al 22esimo posto tra i paesi dell’Ue dove, invece, la media è dell’1,7 per cento. Eurostat, nel 2012, idave l’1,4 per cento contro una media europea del 2,2 (la differenza è quasi la stessa) mentre durante il Family Day del 2007, eravamo all’ 1,1 per cento di Pil contro la media del 2,4 europeo.

Il sogno del diritto al nido pubblico. Nel 2012, ancora solo in corsa per la guida del Pd, Renzi ripeteva che bisognava “dare al 40 per cento dei bambini sotto i tre anni un posto in un asilo nido pubblico entro il 2018”. Proponeva di arrivare al 40 per cento di copertura (il trattato di Lisbona prevede sia il 33) per gli aventi diritto creando 450 mila nuovi posti. Poi, il 1° settembre 2014 aveva addirittura promesso “Mille Asili in mille giorni”. E invece? Invece, secondo l’indagine 2015 di Cittadinanzattiva, meno del 12 per cento dei bambini tra 0 e due anni usufruisce del servizio comunale (18 per cento secondo le stime del governo, ma su una fascia tra 0 e 6 anni), un bambino su cinque resta in lista d’attesa e gli altri devono andare in un asilo privato.

Maternità, misure insufficienti. Ben vengano il congedo parentale a ore, l’estensione del congedo facoltativo e il bonus baby sitter. Però, per le donne tra 25 e 44 anni senza figli, il tasso di attività lavorativa è pari all’82,1 per cento mentre scende al 63 per le donne della stessa età con figli. La differenza, rapido calcolo, è di oltre il 19 per cento. L’ultima indagine campionaria sulle nascite condotta dall’Istat con l’Isfol, mostra come il 22,3 per cento delle neo-madri che risultavano occupate in gravidanza, non lo sono più dopo il parto: il 18,4 per cento in più rispetto al 2005. Di queste, quasi una su quattro è stata licenziata mentre per una su 5 si è concluso un contratto o una consulenza.

Paternità: non basta. Se è vero che la legge di Stabilità dovrebbe raddoppiare il congedo obbligatorio (pagato cioè al 100 per cento) per i papà, che passerà da uno a due giorni, secondo i dati Istat 2013 sono maschi soltanto il 12 per cento dei beneficiari del congedo e, secondo le prime stime, la situazione è migliorata in percentuali minime. “È ancora troppo poco pagato”, diceva la sociologa Chiara Saraceno all’Espresso qualche mese fa. Il facoltativo, infatti, è retribuito solo il 30 per cento e molti scelgono di non prenderlo.

Incentivi bebè, ma non per tutti. La legge di Stabilità 2016 ha confermato il bonus per i nuovi nati: 80 euro mensili, che raddoppiano sotto i 7 mila euro di reddito. Non è però per tutti: spetta solo alle famiglie con Isee superiore ai 25 mila euro. Una restrizione che, come fanno notare gli esperti, lo rende una misura contro la povertà e non per favorire la natalità. L’Italia, infatti, con 8,5 bambini ogni mille abitanti è in fondo alla classifica della natalità in Europa (dati Eurostat).

Assegno troppo familiare. Non si fanno più figli, però l’assegno familiare resta vantaggioso quasi solo per chi ne ha tanti. Per le coppie senza figli, il reddito deve essere inferiore ai 24 mila euro all’anno e l’importo dell’indennità non supera quasi mai 50 euro al mese. Ben più consistente per i nuclei familiari con almeno 4 figli. Peccato che, come scritto sopra, nessuno ne fa più, perché non c’è lavoro.

Disoccupazione, nella lotta, perdiamo. “Le politiche attive del mercato del lavoro non sono sufficientemente sviluppate per affrontare le carenze, anche a causa della frammentazione dei servizi per l’impiego. La spesa per le politiche del mercato del lavoro è inferiore alla media dell’Ue ed è destinata solo in parte modesta all’assistenza nella ricerca del lavoro”: è solo parte di quanto contenuto nella Relazione per paese della Commissone Europea per il 2015. E secondo l’Eurostat, l’Italia spende per i disoccupati la quota

più bassa del Pil fra i paesi dell’Ue: il 2,9 per cento contro una media del 5,6 per cento.

Adozioni internazionali: gli enti fantasma. Allarme per l’utero in affitto. Eppure, se una coppia volesse adottare, non troverebbe un governo devoto. Dopo il caso delle 31 adozioni del Congo bloccate per questioni burocratiche (Renzi aveva twittato a maggio del 2014 “Benvenuti #acasa. Ora con la riforma del Terzo Settore ancora più attenzione alle adozioni internazionali”), Il sole 24 ore ha raccontato come la Cai, la Commissione per le Adozioni Internazionali, non si sia riunita per più di un anno. I componenti si sarebbero

incontrati l’ultima volta a giugno del 2014. Inoltre, mancano dati ufficiali. Sarà perché le adozioni si sono dimezzate negli ultimi dieci anni e perché, secondo l’Aibi, Associazione Amici Dei Bambini, sono diminuite del 15 per cento nel primo trimestre del 2015, dopo il calo del 25 per cento rispetto al 2013. Ovviamente, la riforma del Terzo Settore è arenata in Senato.

Virginia Della Sala    “il Fatto Quotidiano”, 9 gennaio 2016

www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut6808

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Convegno congiunto CFC-UCIPEM. Roma 2-3 ottobre 2015.

Relazione di Francesco Lanatà, presidente dell’UCIPEM.

(…)      Oggi vi voglio parlare di due ponti. Il primo è quello tra le due nostre associazioni UCIPEM e CFC i cui lavori sono stati avviati dai due Presidenti che mi hanno preceduto: Beppe Sivelli e Gabriela Moschioni insieme a don Edoardo Algeri e Domenico Simeone. Sono state queste quattro persone che in questi ultimi anni hanno gettato le fondamenta di questo ponte con importanti occasioni di collegamento e contatti personali sia formali che informali.

            A questo va aggiunto il dato di fatto che alcuni consultori aderiscono ad ambedue le associazioni. Vanno aggiunte nel loro piccolo le “Reti Informali” dei consultori di ispirazione cristiana della Toscana e della Puglia costituite dai consultori CFC e UCIPEM.

Non è quello di oggi un momento di fusione, né tantomeno di con-fusione; i ponti non servono per fondere, servono per collegare, servono per favorire la comunicazione. Con le parole di Papa Francesco potremmo definire questo momento come: “espressione di una diversità riconciliata”, come un’occasione che ci consentirà di sostenerci vicendevolmente, di dare maggiore copertura sul territorio nazionale e avere maggiore incisività nei rapporti col pubblico. D’altronde fu proprio mons. Pietro Fiordelli [primo Presidente del Comitato Episcopale per la Famiglia della CEI] che nel 1975 ebbe a dire: ”Per i consultori cattolici e per quelli dell’UCIPEM lungo il cammino potrebbero verificarsi anche situazioni nuove”. Penso che quelle parole oggi si stanno concretizzando.

Il desiderio di un incontro formale anche a livello nazionale negli ultimi tempi era diventato molto forte ed è pertanto che con grande gioia ho abbracciato l’idea di Domenico Simeone di organizzare questo convegno congiunto che oggi ci vede qui insieme. Sono certo che a questo ne seguiranno altri e che le occasioni di incontro a livello locale e regionale si intensificheranno. Il desiderio di offrire alla famiglia un aiuto professionalmente qualificato all’insegna della stessa fede in Cristo e arricchito dalla diversità di impostazione delle due associazioni permetterà di superare qualsiasi ostacolo possa essere da altri frapposto.

Veniamo adesso al secondo ponte. Questo è un ponte piuttosto complesso e articolato. Pensiamo per un momento a quelle strade sopraelevate futuristiche con diversi livelli e molti punti da raccordare. Questo ponte è fatto di raccordi costruiti e poi distrutti, è fatto di progetti non accettati, di progetti accettati e mai attuati, ma è fatto anche di collaborazioni importanti. È il ponte con il settore pubblico, con i consultori pubblici. Se per il bene delle famiglie e delle persone che le compongono è indispensabile la comunicazione tra le nostre due associazioni, per lo stesso motivo non meno importante è la possibilità di comunicare e di collaborare sia con i consultori pubblici che con l’intero settore sociosanitario nazionale. Perché questo avvenga è necessaria la volontà di ambedue le parti. Sappiamo che i percorsi che hanno portato alla nascita dei nostri consultori e di quelli pubblici sono stati diversi come pure diverse sono le metodologie di lavoro e parte degli obiettivi. Sappiamo benissimo che nel tempo ciò ha portato molta diffidenza.

Dobbiamo domandarci allora se questa volontà di comunicare c’è, quali possono essere i punti di incontro e in che modo si può collaborare. Bisogna tenere presente che è proprio in queste situazioni che vale il principio di sussidiarietà. Per capire questo è necessario fare qualche piccolo riferimento storico e qualche valutazione sulla situazione attuale.

Tutti sappiamo che il nostro primo consultorio in assoluto è nato a Milano nel 1948 ad opera di don Paolo Liggeri il quale aveva bene in mente di ricostruire la famiglia distrutta dalla violenza della guerra. A quel consultorio se ne sono aggiunti altri, 27 per la precisione, che nel 68 hanno dato origine all’UCIPEM: Unione dei Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali. Nella sua carta (14.12.1979), tuttora immutata, l’UCIPEM assumeva come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana, riconosciuta tale fin dal concepimento, considerata, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia. Di essa ogni operatore ne ha sempre rispettato le scelte, riconoscendo il primato della coscienza e ne ha favorito lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

Il servizio consultoriale è un’attività di consulenza, di promozione e di aiuto anche negli aspetti di informazione, di prevenzione e di educazione. Il tutto coerentemente con la definizione che San Tommaso, nel “De veritate”, ha dato della consulenza: “La consulenza è nient’altro che il ragionamento circa le cose da fare”. “La consulenza è la persuasione libera a fare qualche cosa, senza forzare l’individuo a farlo”.

I consultori pubblici sono nati con finalità diverse, sotto la spinta dei movimenti femministi, sviluppatisi dall’inizio degli anni ’70. Tant’è che il primo testo della Legge 405\1975 era sostanzialmente diverso da quello che noi oggi conosciamo. Importantissimo è stato il contributo che l’UCIPEM ha dato alla stesura definitiva del testo di legge. Ritengo un obbligo morale verso un mio grande predecessore, il prof. Sergio Cammelli, riportare un piccolo stralcio della sua relazione presentata al Congresso tenuto a Salsomaggiore il 28 aprile del 1979.

Nella sua introduzione egli così scriveva: “Ci è sembrato doveroso mettere a disposizione di tutti un patrimonio veramente unico in Italia, metterlo a confronto con altre diverse esperienze e inserirlo in una realtà continuamente in evoluzione, un patrimonio di cui si trovano tracce evidenti nella stessa legge statale (n.405 – 29 luglio 1975) che istituisce i Consultori familiari.

È stato proprio l’intervento diretto e deciso della nostra Unione, di tutti i nostri Consultori, che ha persuaso i parlamentari, tempestati da telegrammi, dell’opportunità di ritirare un progetto di legge il cui testo era già stato concordato in sede di Commissione per inserirvi alcuni punti fondamentali destinati a fare del consultorio non già un servizio ambulatoriale medico-sanitario, ma un servizio globale che si propone come scopo primario “l’assistenza psicologica e sociale” e i “problemi della coppia e della famiglia” (art. 1 – comma A), servizio assicurato con una puntualizzazione molto significativa da un “personale di consulenza e di assistenza in possesso di titoli specifici in una delle seguenti discipline: medica, pedagogica e assistenza sociale” (art. 3).

            La Legge 405 apriva così un sufficiente spazio per l’assistenza psicologica e sociale tuttavia, anche se veniva definita da qualcuno come “un ponte tra sanitario e sociale al servizio della famiglia”, tradiva ancora una certa preoccupazione igienico-sanitaria che ha indotto la maggior parte delle regioni, nella fase attuativa, a restringere l’aspetto della consulenza familiare tant’è che in quasi tutte le regioni non è prevista la figura del consulente familiare che ne è invece la figura cardine e insostituibile.

Quanto della legge è stato realizzato nel concreto? Per rispondere a questa domanda prendiamo in considerazione i risultati di un’indagine ministeriale sui consultori pubblici di tutto il territorio nazionale pubblicata nel novembre 2010 dalla Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria. Scopo di tale rilevazione era verificare da una parte la consistenza della forza operativa, dall’altra le attività svolte e di esse quante erano orientate alle raccomandazioni del Progetto Obiettivo Materno Infantile, il cosiddetto (POMI).

L’indagine così concludeva “ … i consultori familiari non sono stati, nella maggior parte dei casi, né potenziati né adeguatamente valorizzati. In diversi casi l’interesse intorno al loro operato era stato scarso ed ha avuto come conseguenze il mancato adeguamento delle risorse e degli organici”. Era risultato infatti che, anche nei momenti della loro maggiore diffusione sul territorio, l’obiettivo della legge 34/1996, di avere un consultorio ogni 20.000 abitanti, era stato raggiunto solo in alcune aree. Al momento dell’indagine se ne contavano circa 2.100.

Per ciò che concerne l’attività era emerso che il 23% dei CF disponeva di un’équipe consultoriale composta da 1-3 figure professionali fondamentali, il 45% disponeva di 4-5 figure, il 21% di 6-7 figure e solo il 4% dei consultori ottemperava alla normativa garantendo la presenza di tutte le 8 figure previste dal POMI. Le figure più presenti risultavano essere, l’ostetrica, lo psicologo, l’assistente sociale e il ginecologo. Queste figure in molti casi non erano presenti contemporaneamente e questo rendeva difficile l’attività di équipe con conseguente impoverimento del servizio offerto.

La composizione di questi organici ha fatto sì che le attività dei consultori fossero quelle prettamente ginecologiche, come l’attività ambulatoriale di routine, la prevenzione dei tumori genitali femminili, l’attuazione delle procedure pre IVG e il counseling psicologico. Altre importanti attività come la mediazione familiare e lo stesso counseling post IVG erano scarsamente rappresentate. Del tutto assente era la consulenza familiare proprio perché nei consultori pubblici non esiste la figura del consulente familiare.

Da tutto questo si deduce che non tutto quello che la 405 prevedeva all’articolo 1 comma A viene attuato. La presa di coscienza di ciò ha portato il SSN a perfezionare alcuni rapporti con i nostri consultori come il convenzionamento in Lombardia e in qualche altra regione dell’Italia. In particolare in Lombardia, UCIPEM e CFC hanno collaborato anche alla stesura della regolamentazione normativa e all’accreditamento di quasi tutti i consultori familiari.

Questo convenzionamento è tuttavia da considerarsi come l’unico rapporto stabile tra Sistema Sociosanitario e i nostri consultori. Esistono si altre forme di collaborazione ma esse sono basate su progetti sviluppati solo a livello locale. Questi rapporti, pur costituendo parsimoniose ma, allo stesso tempo, proficue esperienze a vantaggio della famiglia, sono sempre sottoposti agli umori dei vari personaggi politici di turno e ai flussi economici; non sono certo un esempio di collaborazione stabile e continuativa, né tanto meno costituiscono un esempio di integrazione.

            Da tempo si parla con una certa insistenza della necessità di riforma della 405 e di rilancio dei consultori familiari. Per tale motivo alla Conferenza Nazionale sulla Famiglia del 2010 l’UCIPEM ha presentato il Progetto di Legge dal titolo “Disciplina dei Consultori familiari” che è tutt’ora agli atti della conferenza. Questo progetto, se preso in considerazione, potrebbe costituire un importantissimo pilastro per la costruzione di un grande ponte tra i nostri consultori e il pubblico. Il rilancio potrebbe allora passare per la strada dell’impegno comune dove i nostri consultori sono pronti a mettere a disposizione di tutti un patrimonio che in Italia è veramente unico.

Un patrimonio fatto di circa 300 consultori familiari tra quelli della CFC e quelli dell’UCIPEM, un patrimonio fatto di migliaia di operatori tra consulenti familiari, psicologi, mediatori familiari, educatori, medici, infermieri, ostetriche, legali e assistenti sociali, che lavorano riuniti in èquipe interdisciplinari. Operatori motivati e professionalmente qualificati, in grado di dare risposte pertinenti alle difficoltà e ai bisogni emergenti indotti dai cambiamenti che coinvolgono le famiglie in una società sempre più in rapida trasformazione. Operatori che lavorano in pieno spirito di gratuità per il bene della persona e della famiglia in cui essa è inserita. Un patrimonio fatto di una metodologia di lavoro di inestimabile valore come la relazione di aiuto.

Se sono migliaia gli operatori dei nostri consultori non immaginiamo neanche quale sia il numero delle persone e della famiglie che ogni anno a loro si rivolgono, che da loro ottengono accoglienza e condivisione della loro sofferenze e che, grazie a loro, hanno risolto i loro problemi relazionali. Professionalità, accoglienza, condivisione, umile ascolto della povertà e della grandezza delle persone; sono questi requisiti per i quali, pur nella nostra modesta realtà di laici, nell’impegno intrapreso, abbiamo la gioia di essere strumenti della “misericordia di Dio”.

Francesco Lanatà, presidente

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▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬UUNIONI CIVILI

                                                   La Cei e i due «partiti» sui diritti alle coppie gay.

            Ufficialmente non ne hanno parlato. «Solo un accenno en passant», filtra dall’ufficio di presidenza della Cei, riunito per definire l’ordine del giorno del prossimo Consiglio permanente dei vescovi, previsto dal 25 al 27 gennaio2016, poco prima del «Family day» annunciato a fine mese. Sullo sfondo, comunque, resta sempre ciò che disse Papa Francesco all’Assemblea generale dei vescovi italiani, il 18 maggio dell’anno scorso 2015: i credenti laici «non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota o del monsignore-pilota o di un input clericale». Il che spiegava la mancata adesione della Cei alla manifestazione di piazza San Giovanni del 20 giugno scorso e spiega oggi la freddezza dell’episcopato davanti alla nuova convocazione, con una preoccupazione in più: evitare le polemiche di allora per il mancato appoggio dell’episcopato — con relative distinzioni tra la linea «dura» del presidente Bagnasco e quella «dialogante» del segretario generale Galantino — tanto più se la partecipazione fosse massiccia.

La situazione appare comunque definita: niente convocazioni o benedizioni formali, «non è stagione», si spiega negli ambienti Cei: i cattolici organizzati in quanto tali «vanno in piazza per pregare». Dopodiché, come diceva al Corriere il cardinale Gualtiero Bassetti, «i cristiani sono cittadini come tutti e hanno il diritto di difendere le loro idee», tenuto conto che «diversa è la vocazione dei laici e dei sacerdoti o vescovi». Si tratta «di avviare e curare un processo» di confronto più che «creare singoli eventi», spiegava, don Paolo Gentili, dell’ufficio famiglia della Cei.

Quanto al contenuto, tuttavia, la faccenda è un po’ più complessa. Il Ddl Cirinnà, così come è stato presentato, vede contrari tutti i vescovi, anche i più «progressisti». Il motivo fondamentale è l’articolo che prevede la cosiddetta «stepchild adoption», che per i vescovi porterebbe oltretutto a legittimare la pratica dell’«utero in affitto». In generale, si ripete, non è accettabile qualsiasi forma di «equiparazione» tra le unioni civili fra omosessuali e la famiglia formata da uomo e donna «definita dalla Costituzione».

Detto questo, sulle unioni civili in sé i vescovi appaiono divisi. Nell’ultimo Sinodo sulla famiglia, in Vaticano, non se ne è discusso, poiché il problema è essenzialmente italiano: altrove la questione non si poneva oppure, a cominciare dagli europei, era già stata risolta. In via riservata, molti vescovi tedeschi si dicevano «stupiti» dalle resistenze degli italiani davanti a una legge che l’episcopato in Germania ha accettato, «è un dovere e un diritto dello Stato regolare le unioni omosessuali, se distinte dal matrimonio».

In Italia non tutti la pensano così. La Cei di Ruini fece le barricate contro i Dico poiché riteneva che bastasse il riconoscimento dei «diritti individuali», punto, non della coppia in quanto tale. Molti continuano a pensarla così, anche se l’accettazione delle unioni civili si sta facendo strada assieme alla consapevolezza che i Dico non erano poi così terribili. In questo senso le parole di un cardinale come Gualtiero Bassetti — «le unioni civili vanno riconosciute in quanto tali, purché non ci si facciano equivoci col matrimonio» — sono un segnale importante. Resta tuttavia la divisione. E un’ambiguità che le frasi del tipo «prima si parli delle famiglie» riescono appena a velare.

Gian Guido Vecchi                    Corriere della sera, 9 gennaio 2016

www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20160109/281908772132433/TextView

 

Cos’è e perché fa discutere il disegno di legge, in 27 domande e risposte.

  1. Cosa regolamenta il disegno di legge? Le norme riguardano le unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze.
  2. Come è articolato? È composto da due capi e 23 articoli. Il primo capo inserisce nel nostro ordinamento l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso quale “specifica formazione sociale”, ai sensi di quanto prevede l’articolo 2 della Costituzione. Si tratta dunque di un legame diverso dal matrimonio fra eterosessuali, anche se presenta molti doveri e diritti in comune con esso. Il secondo capo disciplina la convivenza di fatto, sia eterosessuale che omosessuale.
  3. Quali sono le condizioni per costituire un’unione civile? Bisogna essere maggiorenni e recarsi di fronte all’ufficiale di stato civile con due testimoni. L’ufficiale provvede alla registrazione. L’unione non è possibile quando: una delle due persone sia già sposata o abbia un’altra unione; una delle due persone sia interdetta; sussistano rapporti parentela analoghi a quelli che impediscono il matrimonio; una delle due persone sia stata condannata per omicidio del coniuge dell’altra persona o di chi le sia stato unito civilmente. Nel caso di rinvio a giudizio o di sentenza non definitiva l’unione è sospesa.
  4. Cosa deve indicare chi si unisce? Il regime patrimoniale e l’eventuale adozione di un cognome comune. È anche possibile anteporre o posporre al cognome comune il proprio.
  5. Quali sono i diritti e i doveri derivanti dall’unione? Sono disciplinati dall’articolo 3. Tra i più rilevanti: fedeltà, assistenza morale e materiale, coabitazione, contribuzione ai bisogni comuni, potere e dovere di concordare l’indirizzo della vita familiare, estensione delle disposizioni di legge e dei contratti previste per matrimoni e coniugi anche alle unioni.
  6. Che succede per l’eredità? Si applicano le stesse norme esistenti per i coniugi.
  7. Cos’è la stepchild adoption? Letteralmente “Adozione del figliastro”, è disciplinata dall’articolo 5. Si tratta dell’istituto per il quale una delle due persone può adottare il figlio naturale dell’altra, come avviene per i coniugi.
  8. È vero che permette la pratica dell’utero in affitto? No. La gravidanza di un figlio conto-terzi in Italia è proibita. Chi sostiene questa tesi ha il timore che, aprendo all’adozione del figlio naturale di un compagno, aumenti il numero di coloro che si recheranno all’estero nei paesi in cui è possibile avere un figlio pagando la donna che poterà a termine la gestazione.
  9. Cosa propone chi è contro la stepchild adoption? Un istituto simile all’affido, detto “affido rinforzato”, con più tutele per il minore, ma più blando dell’adozione. L’articolo dovrebbe essere modificato con un emendamento al Senato.
  10. Come si scioglie un’unione civile? Con le stesse modalità di un matrimonio.
  11. Cosa succede a un matrimonio in cui uno dei coniugi cambi di sesso? Se non c’è volontà di divorziare il matrimonio è trasformato in un’unione civile.
  12. Che accade alle pensioni di reversibilità, la norma per la quale al coniuge spetta una parte della pensione del partner defunto? Si applica in caso di unione civile tra persone dello stesso sesso, ma non in caso di convivenza. Secondo le stime più accreditate, il costo per lo Stato potrebbe arrivare a regime a una quarantina di milioni l’anno.
  13. Le unioni civili entrano in vigore con l’approvazione della legge? Ci sarà un periodo transitorio. Quindi il governo entro sei mesi dovrà emanare i decreti attuativi.
  14. Cosa dice il disegno di legge riguardo alle convivenze di fatto? Le disciplina come relazioni attenuate rispetto al matrimonio o alle unioni civili. È un rapporto che lega due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia che non siano né matrimonio né unione civile.
  15. Quali sono diritti e doveri della convivenza? La reciproca assistenza in caso di malattia, di ricovero, la possibilità di visita in carcere. Ciascun convivente può inoltre designare l’altro quale suo rappresentante con pieni poteri in caso di malattia o di morte per le decisioni in materia di salute, donazione di organi, funerali.
  16. Cosa prevede il disegno di legge per la casa di residenza? Il convivente superstite ha il diritto di continuare ad abitare nella stessa casa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore ai due anni, e comunque per non più di cinque anni. Il convivente ha inoltre diritto di succedere al deceduto nei contratti di affitto. Ai conviventi si applicano le regole riguardanti i nuclei familiari per l’assegnazione delle case popolari.
  17. Esiste un obbligo di mantenimento o di corresponsione di alimenti in caso di cessazione della convivenza di fatto? Il giudice lo può stabilire per un periodo proporzionale alla durata della convivenza.
  18. Che succede nel caso un convivente lavori nell’impresa dell’altro? Gli spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare, a meno che tra i due non esista un altro rapporto di società o di lavoro subordinato.
  19. Quali sono gli altri campi in cui un convivente è parificato al coniuge? L’interdizione, l’inabilitazione, il risarcimento dei danni.
  20. Cos’è il contratto di convivenza? Lo strumento con il quale i conviventi fissano la comune residenza, le modalità di contribuzione alla vita comune e il regime patrimoniale.
  21. Quando è impossibile la convivenza? Nel caso una delle due persone sia sposata, abbia un’unione civile o un altro contratto di convivenza, o ancora se sia minore, interdetta o sia stata condannata per omicidio o tentato omicidio del partner dell’altra.
  22. Come si pone fine al contratto di convivenza? Per accordo tra le parti, recesso unilaterale, morte di uno dei contraenti, matrimonio o unione civile di uno dei conviventi.
  23. Cosa accade in caso uno dei conviventi sia straniero? Si applica la legge vigente nel paese di registrazione.
  24. Ok, ma alla fine quanto costa allo Stato l’applicazione della legge? 130,3 milioni fino al 2025.
  25. Quali sono le posizioni dei partiti rispetto al disegno di legge? Nella maggioranza il Pd è favorevole, ma una trentina di senatori, i cosiddetti catto-dem, si oppongono alla stepchild adoption, come pure i centristi di Ncd. Tra le opposizioni il tema delle adozioni vede contrari anche Lega e Forza Italia, sia pure con alcuni distinguo su base personale. Il M5S e Sel sono favorevoli.
  26. Cosa dice la chiesa cattolica? È contraria alla legge, soprattutto nella parte relativa alle adozioni, e sostiene che, piuttosto delle unioni civili, sarebbero più urgenti interventi a sostegno della famiglia. Lo scorso ottobre, in un’intervista televisiva il vescovo Nunzio Galantino, segretario della Cei, ha dichiarato: “Vorrei fosse chiaro che, se dovessi, farei una legge sulla famiglia e per la famiglia, non farei questo”. Tuttavia non c’è una chiusura totale al riconoscimento di diritti delle coppie omosessuali, come ha affermato il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo di Ancona, ad Andrea Tornielli su La Stampa: «Si possono trovare gli strumenti per venire incontro a certe esigenze di chi vive questo tipo di unioni».
  27. Quando se ne discuterà in Parlamento? Il disegno di legge arriverà in aula al Senato il 26 gennaio.

 

Massimo Russo                            La Stampa      6 gennaio 2016

www.lastampa.it/2016/01/06/italia/politica/unioni-civili-cos-e-perch-fa-discutere-il-disegno-di-legge-in-domande-e-risposte-vMXAjAxIRYtoxYSU5gVtFK/pagina.html

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