newsUCIPEM n. 577 –20 dicembre 2015

                                newsUCIPEM n. 577 –20 dicembre 2015

                                            Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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Buon Natale a tutti i lettori!

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ADDEBITO                                       Sussistono addebito della separazione e perdita assegno di mantenimento.

ADOTTABILITÀ                             Dichiarazione di adottabilità da rivedere se i genitori trovano casa e lavoro.

AFFIDO CONDIVISO                     Genitori che litigano troppo: figli ad entrambi ma in terapia.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  Mantenimento dei figli: adeguamento anche in appello.

Mantenimento ridotto al figlio con lavoro precario

CASA CONIUGALE                        Mantenimento all’ex moglie: la casa si calcola.

CONSULTORI FAMILIARI                       Legnano. Inaugurazione del “Centro Famiglia ti ascolto”.

                                                           Due genitori adottivi alla guida del Consultorio Diocesano.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Brescia. Malvina Zambolo da quarant’anni impegnata nel Consultorio.

COPPIA                                            Non rompere con lui prima di aver risposto a queste 5 domande.

DALLA NAVATA                            4° domenica d’avvento – anno C –20 dicembre 2015.

DIRITTI                                            Sì alle nozze gay, no alla maternità surrogata.

Il «signor nessuno» vero discriminato.

DONNA                                             Senza ideologie, riaffiora la donna.

FECONDAZIONE ARTIFICIALE  Fecondazione eterologa. Lo stato dell’arte dopo sentenza Corte Costituzionale.

FORUM ASS.ni FAMILIARI           La follia di una sfida.

MATERNITÀ                                   Quando è possibile il licenziamento della lavoratrice incinta?

MATERNITÀ SURROGATA                      La madre rubata.

NULLITÀ MATRIMONIALE         Convegno all’università Gregoriana.

La “prossimità” del Motu proprio di Francesco.

Al via i nuovi processi per i matrimoni “falliti”. Ma quanta confusione.

SCIENZA&VITA                             Anche dall’Europa un secco no all’utero in affitto

Quaderno n- 15. Quale scienza per quale vita? Formazione ricerca prevenzione.

SESSUOLOGIA                                Paura del «gender».

SINODO SULLA FAMIGLIA          Discernimento post/sinodale sulla Comunione ai divorziati e risposati.

“Individua coniunctio”: matrimonio autorevole e individuo libero.

UCIPEM                                            Congresso nazionale 2016 ad Oristano.

UNIONI CIVILI                               Convivenze di fatto e unioni civili.

VIOLENZA                                       Atti sessuali con minorenne, no attenuante se lei rimane incinta.

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ADDEBITO

Sussistono addebito della separazione e perdita assegno di mantenimento.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n.25337, 16 dicembre 2015.

La moglie confessa al marito il tradimento con un altro uomo. L’intollerabilità della prosecuzione della convivenza è addebitabile alla fedifraga, anche se la confessione risultasse solo fittizia.

Studio Sugamele                     19 dicembre 2015                   www.divorzista.org/sentenza.php?id=11074

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ADOTTABILITÀ

Dichiarazione di adottabilità da rivedere se i genitori trovano casa e lavoro.

Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 1 dicembre 2015, n. 24445.

            Ai fini della dichiarazione di adottabilità dei minori, la valutazione circa la condizione di «abbandono» e la «inidoneità genitoriale» deve essere basta su valutazioni «attuali», soprattutto in presenza di cambiamenti rilevanti come l’assegnazione di un alloggio e l’ottenimento di un posto di lavoro.

http://renatodisa.com/2015/12/17/corte-di-cassazione-sezione-i-sentenza-1-dicembre-2015-n-24445-ai-fini-della-dichiarazione-di-adottabilita-dei-minori-la-valutazione-circa-la-condizione-di-abbandono-e-la-inido

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AFFIDO CONDIVISO

                        Genitori che litigano troppo: figli ad entrambi ma in terapia.

                               Tribunale di Roma, prima Sezione civile, sentenza n. 23857, 13 novembre 2015.

L’affidamento condiviso a entrambi gli ex coniugi viene confermato anche in caso di persistente conflittualità tra i due, ma viene imposto di seguire un percorso di consapevolezza genitoriale. Il fatto che, dopo la separazione, gli ex coniugi litighino spesso non toglie che i figli vengano affidati ad entrambi (cosiddetto affidamento condiviso) e che pertanto gli stessi continueranno a vedere sia mamma che papà con le cadenze stabilite dal giudice della separazione o del divorzio. Tuttavia, la giurisprudenza discute sul fatto se il tribunale possa imporre o meno ai genitori di seguire un percorso di “consapevolezza genitoriale”, una sorta di terapia della coppia volta a ridurre la persistente conflittualità, il tutto ovviamente nell’interesse dei figli. Sebbene la Cassazione [Sent. n. 13506/2015] avesse escluso tale possibilità, ritenendo che il giudice non può entrare nei fatti di coppia, intervenendo da paciere anche se attraverso esperti esterni, il Tribunale di Roma, con una recente sentenza [3], ha dato interpretazione opposta.

            In prima battuta, i giudici capitolini sottolineano come l’affido condiviso dei figli a entrambi i genitori resti la regola per tutelare al meglio le condizioni per una crescita il più possibile equilibrata e serena della prole. Di conseguenza la conflittualità degli ex coniugi non può costituire ostacolo all’adozione del modello di affido condiviso. Del resto, se una coppia si separa è proprio perché vi è un conflitto insanabile e, dunque, sarebbe piuttosto strano il contrario. La revoca dell’affidamento condiviso, in favore invece dell’affido esclusivo, è possibile solo in presenza di una patologia nel rapporto tra il genitore escluso dall’affido ed il figlio, ossia l’incapacità del primo ad entrare in relazione diretta con il minore. In buona sostanza, a farla da padrone deve essere sempre l’interesse dei bambini: è a questo che il giudice deve prioritariamente vedere per deliberare sulle scelte dell’affidamento e della collocazione.

            In secondo luogo, il tribunale di Roma ritiene che il percorso terapeutico non costituisce una violazione della libertà personale delle parti e, pertanto, ben può essere stimolato dal magistrato, sempre e comunque nel prioritario interesse della prole. E ciò sia perché trattasi di un onere, ossia di una facoltà, pertanto non è mai obbligatoria (essendo prevista nell’interesse dello stesso soggetto onerato). Tanto è vero che, in caso di mancato ottemperamento all’invito del giudice, non scatta alcuna sanzione personale. Al massimo il magistrato potrà tenerne conto nel decidere il tipo di affido da applicare al caso concreto.

            In buona sostanza la prescrizione di un “onere” per le parti di proseguire il percorso di sostegno alla genitorialità, sotto il controllo dei servizi sociali incaricati, costituisce l’unico strumento disponibile, da parte del giudice, per il superamento della conflittualità tra i due genitori affinché possa essere garantita l’equilibrata crescita del minore. In difetto del relativo adempimento, a tutela del minore, restano percorribili tutte le consequenziali istanze, tese al mutamento del criterio di affidamento condiviso.

Raffaella Mari                       LPT     17 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106734_genitori-che-litigano-troppo-figli-ad-entrambi-ma-in-terapia

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

                                    Mantenimento dei figli: adeguamento anche in appello.

                        Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n.25420, 17 dicembre 2015.

Ius novorum in appello: non è domanda nuova la richiesta di adeguare l’importo dell’assegno di mantenimento a fatti intervenuti successivamente al giudizio di primo grado. Separazione e divorzio: un’unica causa sia per l’appello della sentenza di primo grado, sia per la richiesta di revisione o adeguamento dell’assegno di mantenimento ai figli. Possibile, nonostante il codice di procedura imponga che, in secondo grado, non possono essere presentate nuove domande rispetto a quelle già presentate in primo grado (cosiddetto “divieto di ius novorum”)? Si, e a confermarlo è una recente ordinanza della Cassazione.

            Secondo la Corte, infatti, nel giudizio di separazione e divorzio, i provvedimenti necessari alla tutela degli interessi morali e materiali dei figli possono essere adottati d’ufficio. E pertanto, in materia di assegno di mantenimento per il figlio, poiché si verte in tema di conservazione del contenuto del credito fatto valere con la domanda originaria, deve ammettersi la possibilità, per il genitore appellante, di chiedere un adeguamento del relativo ammontare, in base:

  1. sia alla svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio,
  2. o del sopravvento di nuove circostanze, verificatesi dopo la sentenza di primo grado: si pensi al caso delle mutate condizioni economiche dell’obbligato oppure alle accresciute esigenze del figlio.

Questo significa, in termini molto pratici, che, con la stessa causa di appello, la parte che impugna non deve necessariamente limitarsi a richiedere la riforma della sentenza di primo grado, ma può anche chiedere la revisione dell’importo del mantenimento per sopravvenuti eventi (una revisione che, a seconda del soggetto che impugna, può essere al ribasso o al rialzo). Ne deriva, quindi, che la proposizione, in primo grado o in appello, di simili istanze o eccezioni non ricade sotto il divieto di ius novorum, né con riguardo al giudizio di primo grado, né con riguardo al giudizio di appello.

                        redazione LPT  23 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106826_mantenimento-dei-figli-adeguamento-anche-in-appello

Sentenza in                             www.laleggepertutti.it/106825_mantenimento-allex-moglie-la-casa-si-calcola

 

Mantenimento ridotto al figlio con lavoro precario.

Tribunale di Treviso – Sezione I civile – Sentenza 17 giugno 2015 n. 1445

Separazione e divorzio: assegno di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne non economicamente indipendente, presupposti in caso di precariato. Solo l’indipendenza economica segna la fine dell’obbligo di mantenimento da parte del genitore separato nei confronti del figlio maggiorenne; prima di tale momento, invece, a quest’ultimo il genitore non convivente deve versare l’assegno di mantenimento secondo quanto indicato dal giudice.

            Senonché, il problema – specie di questi tempi – è definire quando si possa davvero parlare di “indipendenza economica”, un concetto purtroppo divenuto labile e relativo. Con l’aumento del precariato e il definitivo tramonto del “posto fisso”, i giovani fortunati che possono dire di aver raggiunto l’agognata indipendenza sono davvero pochi. A riguardo è interessante la sentenza del Tribunale di Treviso. In essa il giudice innanzitutto ricorda che l’obbligo di versare un contributo economico in favore dei figli non cessa fino a quando questi, una volta maggiorenni, non diventino pienamente autosufficienti da un punto di vista economico: ciò posto, lo svolgimento di un lavoro non costante e con reddito non certo da parte del figlio non consente la totale eliminazione del contributo, ma può portare ad una sua riduzione.

            La vicenda. Un padre separato aveva chiesto, nel corso del giudizio di divorzio, la cancellazione dell’obbligo di mantenimento nei confronti del figlio, il quale, divenuto maggiorenne, aveva iniziato a lavorare nel settore alberghiero. Il Tribunale, analizzata la situazione lavorativa del figlio, ha ritenuto più opportuna una riduzione dell’assegno e non invece la totale eliminazione dello stesso, giudicando non raggiunta la piena autosufficienza economica da parte del ragazzo. Quest’ultimo, infatti, dopo aver concluso il triennio presso un istituto professionale alberghiero aveva svolto solo lavori stagionali e, al momento della causa, svolgeva un tirocinio retribuito con 600 euro mensili. Secondo il Tribunale di Treviso, una formazione di studi e una serie di esperienze lavorative mettono sì il ragazzo in condizioni di lavorare (sicché può dirsi che lo stesso abbia acquisito una capacità lavorativa), ma questo non significa ancora il raggiungimento dell’indipendenza economica. Perciò è ancora necessario l’aiuto economico dei genitori e, segnatamente, del padre. In altri termini, affermano i giudici, “il fatto che egli possa godere di un lavoro non costante né certo e per un reddito che ancora non gli consente, in modo stabile, di rendersi autonomo, non legittima la totale eliminazione del contributo al suo mantenimento, ma giustifica la riduzione dello stesso”.

Redazione       LPT                14 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106466_mantenimento-ridotto-al-figlio-con-lavoro-precario

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CASA FAMILIARE

Mantenimento all’ex moglie: la casa si calcola.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n.25420, 17 dicembre 2015.

Nel determinare la misura dell’assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi in favore dell’altro coniuge o dei figli, il giudice deve tener presente che il godimento della casa coniugale costituisce un valore economico. Non solo il denaro, ma anche la casa: quando il giudice determina l’assegno di mantenimento a favore dell’ex moglie deve mettere sul piatto della bilancia anche il fatto che a questa venga eventualmente assegnata in godimento la casa familiare. Ciò per due motivi:

  1. se da un lato la casa costituisce una fonte di reddito per chi ci vive, non dovendo sostenere costi per un affitto o un mutuo, e quindi risolvendosi in un risparmio di spesa,
  2. dall’altro lato costituisce invece un impoverimento per chi ne è proprietario e ciò nonostante deve andare via, essendo infatti costretto a sostenere il costo di un canone di locazione o l’acquisto di un nuovo immobile ove vivere.

Lo chiarisce la Cassazione con una recente ordinanza. Ma a quanto ammonta, concretamente, il valore del godimento della casa, di cui il giudice deve tenere conto nel fissare l’importo del mantenimento (evidentemente decurtandolo da detto assegno)? Facile: si tratta del canone di locazione che da quell’appartamento il proprietario potrebbe ricavare se solo lo desse in affitto a terzi. Dunque, la moglie che rimane nella casa ottiene, oltre all’assegno, anche il beneficio di tale affitto, che quindi va tenuto in considerazione, per non arricchire eccessivamente l’importo del mantenimento.

            Secondo la Corte, il giudice, nel determinare la misura del contributo di mantenimento della donna (affidataria prevalente dei figli e, come tale, aggiudicataria anche della casa coniugale), deve valutare il valore economico della casa coniugale. Infatti, come più volte chiarito dalla giurisprudenza della stessa Cassazione, in tema di separazione dei coniugi, il godimento della casa familiare costituisce un valore economico – corrispondente, di regola, al canone ricavabile dalla locazione dell’immobile – del quale il giudice deve tener conto ai fini della determinazione dell’assegno dovuto all’altro coniuge per il suo mantenimento o per quello dei figli. Pertanto, nel determinare la misura dell’assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi, il giudice deve considerare, quale posta passiva, le maggiori spese del coniuge non assegnatario e, comunque, in ogni caso, deve tendere a garantire l’equilibrio economico valutando prioritariamente l’esclusivo interesse dei figli, ove presenti.

Redazione LPT          19 dicembre 2015                                          Sentenza

www.laleggepertutti.it/106825_mantenimento-allex-moglie-la-casa-si-calcola

 

Separazione e casa coniugale in proprietà esclusiva: cosa fare se l’ex non se ne va

Diversa la disciplina per ottenere il rilascio dell’immobile a seconda che il giudice si sia pronunciato o meno riguardo alla separazione e alla assegnazione della casa. “Separata in casa da dieci anni non riesco ad indurre mio marito a lasciare l’appartamento in cui viviamo e che è di mia proprietà. Egli gode di una pensione che gli permetterebbe ampiamente di andare in affitto. Mi domando a cosa appellarmi per ottenere che se ne vada senza che rivendichi dei diritti per essere stato il garante del mutuo ottenuto.”

Non risulta chiaro dal tenore della domanda se la separazione in casa cui fa riferimento la lettrice sia di mero fatto oppure se sia già intervenuta tra i coniugi una sentenza del tribunale (anche se di tipo provvisorio).

            Trattandosi di un presupposto essenziale per dare risposta al quesito, occorre procedere ad un esame di entrambe le ipotesi.

  1. Se la separazione è di mero fatto e, dunque, nessuno dei coniugi abbia proposto la relativa domanda al tribunale, in tal caso nessuna pretesa di lasciare la casa coniugale (per quanto di proprietà) può essere avanzata da parte della lettrice nei confronti del consorte. La coabitazione, infatti, rappresenta uno di quei doveri derivanti dal matrimonio [Art. 143 cod. civ.] ai quali è possibile derogare solo su accordo dei coniugi, i quali sono liberi di concordare insieme l’indirizzo della vita familiare [Art. 144 cod. civ.] e perciò anche di avere differenti residenze o domicili (si pensi al caso in cui motivi di lavoro impongano alla famiglia di abitare in città diverse). Ove così non fosse (e quindi manchi l’accordo) la mancata coabitazione potrebbe rappresentare per il coniuge che non approvi l’allontanamento dell’altro una ragione tale da rendere intollerabile la vita matrimoniale e giustificare una sua domanda di separazione con richiesta di addebito nei confronti di chi abbia lasciato la casa, ritenendolo responsabile della rottura del matrimonio. Una analoga causa di intollerabilità della convivenza può d’altro canto individuarsi nella insistente richiesta, da parte del proprietario dell’immobile indirizzata all’altro coniuge, di lasciare la casa senza aver prima chiesto la separazione.
  2. Diverso è, invece, il caso in cui marito e moglie abbiano presentato domanda di separazione giudiziale. In tale ipotesi, infatti, anche quando i coniugi non abbiano raggiunto un accordo, già dalla prima udienza presidenziale, il giudice li autorizza a vivere separatamente. Si tratta di un’autorizzazione e non di un obbligo, ben potendo, ad esempio, marito e moglie proseguire – anche dopo la separazione – in una mera convivenza (priva di qualsiasi coinvolgimento affettivo), ad esempio dettata dalla impossibilità oggettiva di sostenere costi relativi a nuove collocazioni abitative. Convivenza che non potrebbe comunque rappresentare una forma di riconciliazione tra marito e moglie. E potrebbe ben essere questo il caso di separazione con convivenza riferito dalla lettrice.

Al contrario, invece, in presenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti, il giudice si pronuncia in merito all’assegnazione dell’immobile che, a prescindere da chi ne sia titolare, viene – di norma – assegnato tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli a conservare l’habitat domestico di sempre e, di conseguenza, assegnato a quel genitore presso il quale la prole viene collocata.

Dunque, ove non ci siano figli da tutelare, sia che i coniugi siano comproprietari della casa familiare, sia che l’immobile appartenga (come nel caso di specie) solo a uno di loro, il giudice non potrà decidere sulla assegnazione della casa. In tal caso, pertanto, mancando una normativa speciale in materia di separazione, se l’immobile è in comproprietà saranno applicabili le norme in tema di comunione, sia con riferimento al suo uso che alla sua divisione. I comproprietari, cioè potranno accordarsi fra loro per venderlo, per dividerlo, per locarlo o acquistarne l’uno la parte dell’altro; in mancanza di accordo, invece, essi dovranno intraprendere in Tribunale un giudizio di divisione.

            Se, invece, ne sia proprietario solo uno (come nel caso in esame) si dovrà applicare la normativa generale in tema di proprietà esclusiva, sicché il coniuge proprietario dell’immobile, qualora l’altro rifiuti di lasciare la casa dovrà intraprendere in tribunale un’autonoma azione a tutela del diritto di proprietà (nello specifico un’azione di occupazione senza titolo [Art. 447 bis cod. proc civ.]) al fine di ottenere la condanna al rilascio da parte dell’altro coniuge.

Schematizzando:

  1. se il giudice della separazione assegna l’immobile a uno dei coniugi, l’altro (anche se abbia la titolarità sul bene) non potrà pretendere che l’assegnatario lasci la casa ma dovrà essere lui a “fare le valige”. Ove ciò non avvenga, l’assegnatario potrà ottenere l’allontanamento del coniuge (che abita illegittimamente la casa) in modo coattivo, intraprendendo una procedura di esecuzione forzata. La sentenza di separazione costituirà, infatti, un titolo idoneo a notificargli un atto di precetto per rilascio di immobile e il conseguente intervento di un ufficiale giudiziario;
  2. se, invece, non vi sia assegnazione, la sentenza di separazione non costituirà un titolo per agire in via esecutiva, ma occorrerà intraprendere una differente azione giudiziaria basata sul titolo di proprietà.

La garanzia del mutuo. Quanto all’ulteriore questione relativa alle eventuali rivendicazioni che l’uomo potrebbe vantare per essere stato garante del mutuo (non risulta chiaro poi se sia stato semplice garante o abbia effettuato il pagamento delle rate); tali circostanze non potrebbero influire in alcun modo sul diritto della moglie a pretendere il rilascio dell’immobile.

            Si tratta, infatti, di due questioni giuridicamente separate e distinte. Tutt’al più, ove il marito abbia concretamente sostenuto delle spese per la casa egli potrà intentare un’autonoma azione giudiziaria (cosiddetta azione di ingiustificato arricchimento) per ottenere il rimborso di quanto versato. Ma anche sul punto, la giurisprudenza è piuttosto univoca nel ritenere che al coniuge che non sia titolare dell’immobile non spetta il rimborso delle spese sostenute prima della separazione in quanto devono presumersi ricollegabili ai bisogni della famiglia.

            In altre parole, fintanto che il coniuge ha convissuto nella casa, godendo dell’alloggio, il suo contribuito (consistente nel farsi garante del mutuo piuttosto che, ad esempio, pagare le bollette, o delle migliorie o qualsivoglia altra spesa per la casa) si basa su un vincolo di solidarietà familiare. Di tali esborsi egli non potrebbe pretendere il rimborso dopo la separazione, salvo che essi non abbiano comportato un ingiustificato arricchimento da parte della moglie (cosa che – ovviamente andrebbe dimostrata in un lungo giudizio).  In conclusione:

  • se non esiste una sentenza di separazione, la lettrice potrà ottenere che il marito lasci la casa solo se ciò rappresenta una scelta concordata dai coniugi;
  • se invece vi è una sentenza che le assegna l’immobile, essa costituisce un titolo tale da permetterle di agire contro il coniuge con una procedura esecutiva diretta ad ottenerne il rilascio;
  • se, invece, la sentenza nulla prevede circa l’assegnazione (ma si limita ad autorizzare i coniugi a vivere separatamente), prevale in questo caso il titolo di proprietà che dà diritto alla donna di pretendere il rilascio della casa da parte del marito con una diversa procedura (cosiddetta azione di occupazione senza titolo).

Maria Elena Casarano   LPT           17 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106696_separazione-e-casa-coniugale-in-proprieta-esclusiva-cosa-fare-se-lex-non-se-ne-va

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CONSULTORI FAMILIARI

Legnano. Inaugurazione del “Centro Famiglia ti ascolto”.

Il 28 novembre 2015 è stato presentato in una Tavola rotonda l’associazione di volontariato “Centro Famiglia ti ascolto” che si prefigge di promuovere l’attenzione alla famiglia, l’ascolto della singola persona, delle coppie, la guida ai genitori nel compito educativo. Ha costituito un consultorio familiare per un percorso sull’ascolto dalle relazioni familiari a tutto il tessuto di rapporti legati alla coppia ed al singolo.                                                   www.famigliatiascolto.eu/presentazione

Intendono porsi come un ponte verso tutte le risorse esistenti sul territorio riguardanti il settore della famiglia ed in genere della coppia. Nel progetto esprimono l’intenzione di operare:

1 – Come un Consultorio vero e proprio con tutti gli operatori qualificati e con il servizio posto sul territorio in sinergia con gli altri servizi proponiamo un centro dove prevalentemente viene seguito l’ascolto delle persone, spesso coppie su tematiche relative alla vita familiare.

2 – Se nel Consultorio essenziale è il progetto e l’equipe per realizzarlo, nella nostra realtà il progetto non perde di spessore, semplicemente l’equipe viene rivisitata non sulla base di un contratto di professionalità riconosciuta ed istituzionalmente stabilita, ma sulla volontarietà di un servizio sì qualificato per un ascolto ed un orientamento eventuale a realtà del territorio;

La sede è presso il Centro Parrocchiale San Magno (4° piano) – Piazza San Magno 10 Legnano.

            Si riferiscono al testo del 1 novembre 1991 dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia “I consultori familiari sul territorio e nella comunità” che riportano. Nel gruppo che l’aveva redatto hanno attivamente partecipato a nome dell’UCIPEM la dr Alice Calori e dr Giancarlo Marcone.           www.famigliatiascolto.eu/52-consultori-un-po-di-storia

info@famigliatiascolto.eu                                www.famigliatiascolto.eu

 

Viterbo. Due genitori adottivi alla guida del Consultorio Diocesano

Non un semplice corso di formazione, ma una vera preparazione ad affrontare la missione di sposi nel mondo. Grazia e Massimo Ranuzzi, “storici” genitori adottivi di Ai.Bi. Amici dei Bambini e della comunità La Pietra Scartata, spiegano così il senso del percorso di preparazione al matrimonio organizzato dall’ufficio della Pastorale Familiare della Diocesi di Viterbo.

I coniugi Ranuzzi sono direttori del consultorio diocesano della città laziale e gestiscono le fasi di avvicinamento al matrimonio degli aspiranti sposi della parrocchia dei Santi Marta e Biagio, sempre seguendo le indicazioni della Pastorale Familiare viterbese.

            “Consultorio diocesano e Pastorale Familiare sono due realtà diverse che interagiscono tra loro – spiega Grazia -. Il primo si occupa soprattutto di aiutare le coppie in difficoltà e quelle che si preparano al matrimonio, mentre la seconda segue queste ultime nel percorso di preparazione a questo importante sacramento”.

            Da genitori adottivi di 3 figli originari ormai adulti del Brasile, Grazia e Massimo Ranuzzi portano la loro testimonianza di famiglia accogliente in tutte le parrocchie di Viterbo, incontrando i futuri sposi e presentando loro il complesso e affascinante tema della “grazia della sterilità feconda”. Questo è uno dei circa 15 argomenti che gli aspiranti sposi della parrocchia dei Santi Marta e Biagio sono chiamati ad approfondire durante la fase di preparazione al matrimonio.

            “Un percorso che inizia con una serata di accoglienza, di conoscenza reciproca tra le coppie e di presentazione del percorso – spiega Grazia Ranuzzi -. Per tradizione questa serata di svolge il 14 febbraio, giorno di San Valentino, da sempre dedicato agli innamorati”. Quindi si entra nel vivo della preparazione con 2 week end organizzati a distanza di 15 giorni di distanza l’uno dall’altro. “Si tratta di due fine settimana ‘residenziali’ – sottolinea ancora la signora Ranuzzi -: i ragazzi arrivano il venerdì sera e stanno insieme fino alla domenica sera. Il tutto si svolge al monastero delle suore vicino alla nostra parrocchia e vede l’alternarsi di momenti di riflessione di coppia ad altri individuali”.

            Tra i temi trattati c’è proprio la grazia della sterilità feconda, un concetto centrale per tutte le famiglie adottive che vivono il loro percorso di accoglienza in modo cristiano. “Siamo io e mio marito a portare la testimonianza su questo argomento”, dice ancora Grazia Ranuzzi che presenta brevemente anche gli altri temi che i futuri sposi sono chiamati ad affrontare, sempre con l’aiuto di coppie coniugate che portano la propria testimonianza: dalla memoria e l’attualizzazione del battesimo alla procreazione responsabile, dalla missione degli sposi nel mondo alla differenza tra sposarsi in chiesa e celebrare la missione di sposi nella Chiesa. (…).

            Ai. Bi. 16 dicembre 1015

www.aibi.it/ita/viterbo-grazia-e-massimo-ranuzzi-due-genitori-adottivi-alla-guida-del-consultorio-diocesano-ecco-come-prepariamo-le-coppie-al-matrimonio

www.famigliaviterbo.it/consultorio-familiare-diocesi-di-viterbo

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Brescia. Malvina Zambolo da quarant’anni impegnata nel Consultorio.

 

«In chi ha bisogno ho trovato grande ricchezza umana. Un’occasione per pensare»: così ha reagito Malvina Zambolo alla notizia dell’assegnazione del premio Gnutti. Tra le fondatrici del Consultorio Familiare onlus, è sempre stata e rimane una donna aperta all’accoglienza, all’ascolto, all’assistenza e alla promozione umana e culturale di tutte le donne e gli uomini. E le sue parole di commento alla notizia del riconoscimento ottenuto lo confermano: contentezza, certo, che però non serba per sé, anzi la allarga subito a chi ha lavorato con lei in tanti anni, da quel 1973 quando si unì a quella che nel tempo si è rivelata un’azione efficace, solidale e fondamentale per la salute, e quindi per la vita, di tantissime donne e uomini: la creazione del consultorio.

            Un luogo diventato un punto di ascolto dove le persone, considerate tali e non utenti o clienti di un’azienda sanitaria, erano e sono accolte senza distinzione di provenienza, fede o cultura e dove i loro bisogni vengono interpretati secondo un’ottica interdisciplinare da una équipe di operatori specializzati. Un approccio che è stato un metodo di lavoro ma anche un modo di crescere e di farlo nella collaborazione, nello scambio, nella passione della condivisione: «Tutto ciò che ho fatto – racconta – è stato possibile grazie alla collaborazione con professionisti competenti ma anche, se non soprattutto, allo scambio che ho avuto con le persone che venivano da noi: c’è stata un’interazione molto profonda, una reciprocità che per me è stata fonte di ricchezza, umana e professionale. Stando a contatto con persone che soffrono e che sono prive dei mezzi elementari di sostentamento ho imparato che dal mondo dei poveri e della sofferenza si può trarre una ricchezza e un’autorevolezza straordinarie, che si tramutano in azioni di solidarietà».

            Anche oggi che è in pensione, Zambolo riceve quotidianamente manifestazioni di affetto e stima, segno che il suo agire ha dato frutti positivi. Il consultorio si è sviluppato, è diventato un fiore all’occhiello per la città; ha potenziato l’assistenza ostetrico-ginecologica, garantendo la presenza di figure di mediazione linguistica e culturale, indispensabili in un contesto come quello bresciano, dove i nuovi cittadini sono numerosi e portatori di esigenze, ma anche di potenzialità. Non a caso il consultorio ha avviato un gruppo di ascolto e di dialogo interculturale, diventando sempre più un punto di riferimento che, con la professionalità dei suoi operatori, è attrezzato per affrontare le nuove sfide, cercando di dare risposte ai disagi che vivono gli adolescenti, offrire aiuto alle donne straniere e accoglienza alle donne vittime di violenza.

                        Irene Panighetti                     Brescia oggi               17 dicembre 20015               

http://247.libero.it/focus/24780253/276/-in-chi-ha-bisogno-ho-trovato-grande-ricchezza-umana

[Malvina Zambolo ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’Ucipem dal 1981 al 1985]

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COPPIA

Non rompere con lui prima di aver risposto a queste 5 domande.

Molte donne finiscono per pentirsi delle proprie decisioni affrettate. Molte persone mettono fine alle proprie relazioni in modo affrettato, e aumentano molto la propria sofferenza. Nella mia opera di assistenza alle coppie separate che cercano la mediazione o vi sono indirizzate per cercare di risolvere problemi di custodia, pensione o divisione di beni, osservo chiaramente che la separazione non è stata ben elaborata. Il dolore è molto grande e per questo non ci si riesce a capire, e questo spesso accade perché la decisione è stata presa in un momento di rabbia o di grande dolore.

 

Per questo, se sei scoraggiata, stanca di provare e pensi alla separazione, non agire subito. Respira a fondo e rifletti su queste domande:

  1. Ti ha tradita? Non pensare che sia ovvio, bisogna esserne certi. In questi giorni ho eseguito una mediazione con una coppia separata da due anni, e solo allora sono riusciti a parlare. Lui ha detto che non ha mai capito perché lei lo abbia lasciato, e quando lei ha parlato di tradimento lui ha negato con veemenza. Mi sono chiesta se quella donna abbia posto fine al suo matrimonio prima di chiarire tutto. Bisogna analizzare come si fa fronte alla questione, perché non serve a niente mantenere la relazione e continuare a soffrire per ciò che è accaduto. Conosco molte coppie che dopo quel trauma hanno deciso di ricostruire il loro rapporto e vivono meglio di prima, ma questo è possibile solo se entrambi cambiano e se il traditore si pente sinceramente.
  2. Ti disprezza? Ti risenti per alcuni suoi comportamenti che ti fanno sentire disprezzata o non amata? Le crisi sono comuni nel rapporto a due, e accade spesso anche di provare rabbia, ma dev’essere una cosa passeggera, situazioni puntuali e brevi che si risolvono con l’impegno di entrambi. Se però sei sempre oggetto di sgridate e disprezzo, se la persona che dovrebbe ammirarti vive facendoti sentire inferiore, allora le cose sono il contrario di quello che dovrebbero essere.
  3. Da quanto tempo le cose non vanno bene tra di voi? Quando siamo feriti tendiamo a pensare che non ci sia niente di positivo intorno a noi, sembra tutto negativo. Bisogna allora mettere da parte le emozioni e valutare se c’è veramente una ragione per tutto questo o se le emozioni si stanno impossessando della nostra mente. È anche importante ricordare i bei momenti e capire se è possibile riconquistarli.
  4. Ti stai lasciando andare a fantasie? Molte donne vivono una relazione ma sognano di incontrare un’altra persona che sia migliore per loro. Osservano i mariti o i fidanzati di altre donne e si riempiono di ammirazione, e vorrebbero incontrare un compagno come il loro. Ricorda che “l’erba del vicino è sempre più verde” e fai attenzione a non lasciarti trasportare dalle apparenze.
  5. Ti stai facendo influenzare? Non è che familiari e amici a cui lui non è simpatico ti stanno influenzando? Pensa che non deve risultare gradito a tutti, ma a te. È chiaramente importante che abbia considerazione per le persone che ti circondano, ma questo non vuol dire che debba piacere sempre. Bisogna fare molta attenzione a tutto questo, perché le persone dopo la vostra separazione continueranno a condurre la propria vita, mentre è la tua che sarà stravolta.

                        Se dopo aver riflettuto molto sei convinta che sia meglio optare per una rottura, allora starai prendendo una decisione matura e non correrai il rischio di pentirtene.

Aleteia                        [Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]        16 dicembre 2015           

http://it.aleteia.org/2015/12/16/non-rompere-con-lui-prima-di-aver-risposto-a-queste-5-domande/?utm_campaign=NL_it&utm_source=topnews_newsletter&utm_medium=mail&utm_content=NL_it-Dec%2016,%202015%2001:22%20pm

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DALLA NAVATA

                                    4° domenica d’avvento – anno C –20 dicembre 2015.

Michea            05, 04 «Egli stesso sarà la pace».

Salmo              80, 18 «Proteggi … il figlio dell’uomo che per te hai reso forte».

Ebrei                           10, 02 «Entrando nel mondo, Cristo dice “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato».

Luca                           01, 44 «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo».

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DIRITTI

Sì alle nozze gay, no alla maternità surrogata.

Votata a Strasburgo una relazione dedicata ai diritti umani. Testo positivo sulle nozze omosessuali mentre la pratica dell’utero in affitto è ritenuta compromettente per la dignità della donna. Parlamento Ue dice sì ai matrimoni gay ma condanna la maternità surrogata.  Riunito in sessione plenaria a Strasburgo, l’Europarlamento ha votato la relazione a firma Cristian Dan Preda sui diritti umani, la democrazia nel mondo nel 2014 e la politica dell’Ue nel merito. Un documento che tratta diverse questioni: dalla sviluppo alla migrazione ai rifugiati, dalla libertà di pensiero alla pena di morte. Un paragrafo, in particolare, è dedicato al tema dei matrimoni gay e della maternità surrogata.

            Il rapporto era già stato approvato con una maggioranza schiacciante nella Commissione competente (47 a favore, 4 contrari, 4 astenuti) ma si profilava un’accesa discussione su alcuni punti sensibili. Se sulla questione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso il testo è molto positivo, impietosa è invece la condanna della pratica della surrogazione, ritenuta dalla commissione compromettente per la dignità umana della donna perché mercificherebbe il suo corpo e le sue funzioni riproduttive. La maggioranza dei votanti pensa che questo tipo di gestazione, che prevede lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per un ritorno economico o di altro genere, in particolare nel caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba essere proibita e trattata come questione urgente negli strumenti per i diritti umani.

            “Il Parlamento europeo ritiene che l’Ue dovrebbe proseguire gli sforzi per migliorare il rispetto dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuate (Lgbti), in linea con gli orientamenti dell’Ue sul tema. Si rammarica che 75 Paesi criminalizzino ancora l’omosessualità, e 8 di essi prevedano la pena di morte, e ritiene che le pratiche e gli atti di violenza contro le persone in base al loro orientamento sessuale non debbano rimanere impuniti; è preoccupato per le restrizioni alle libertà fondamentali dei difensori dei diritti umani delle persone Lgbti, e invita l’Ue ad aumentare il proprio sostegno nei loro confronti; constata che i diritti delle persone Lgbti sarebbero maggiormente tutelati se avessero accesso a istituti giuridici quali unione registrata o matrimonio”, si legge nel testo.

            L’Ue inserisce il rapporto nell’ambito di una politica fondata sui princìpi di democrazia, universalità e indivisibilità

dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sul rispetto della dignità umana e dei principi di uguaglianza e di solidarietà. Il risultato non costituisce un atto legislativo, ma è rappresentativo della posizione del Parlamento su queste tematiche.

Stop agli “uteri in affitto”, che riducono la donna, il suo grembo e i bambini a una merce, con lo sfruttamento soprattutto delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo. Questo importante messaggio è emerso questa mattina in assemblea plenaria al Parlamento europeo, all’interno del Rapporto annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo – riferito al 2014 – e la politica dell’Unione Europea in materia, preparato dal popolare rumeno Cristian Dan Preda.

I vertici del gruppo socialista avevano chiesto di votare contro l’emendamento, ma il gruppo si è poi spaccato e buona parte degli italiani del Pd hanno votato a favore, consentendo a popolari e conservatori di raggiungere il risultato dell’approvazione.

            Il Rapporto sui diritti umani, per molti versi controverso, ha visto assorbire un emendamento dell’eurodeputato popolare slovacco Miroslav Mikolasik che segna un punto assolutamente importante, soprattutto a fronte della rapida diffusione della pratica della maternità surrogata, che sempre più attira critiche – ora anche di parte laica e femminista – nonché di vari esponenti omosessuali. Il paragrafo in questione (il 114) afferma che il Parlamento europeo «condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce; considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba esser vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani» a disposizione dell’Ue nel dialogo con i Paesi terzi. Il testo così emendato, prima ancora di essere approvato al Parlamento, aveva già ottenuto amplissima maggioranza in ben tre commissioni parlamentari. Anzitutto in quella che ha l’ultima parola in materia, e cioè gli Affari esteri, con 47 sì, 4 no e 4 astenuti. E così anche nelle altre due commissioni consultate: Sviluppo (22 sì, un no e un astenuto), e Diritti della donna e parità di genere (23 sì, 6 no e nessun astenuto).

            Alcuni gruppi (soprattutto Liberali e Sinistra) hanno votato sì al documento nel suo complesso pur non condividendo l’emendamento sulle madri in affitto. Peraltro è stato invece bocciato in sede di commissione parlamentare un altro emendamento (firmato sempre da Mikolasik) che pure sembrava la logica conseguenza (si chiedevano «chiari princìpi e strumenti legali internazionali per l’affrontare le questioni relative alla maternità surrogata allo scopo di prevenire l’abuso di diritti umani come lo sfruttamento delle donne e il traffico di essere umani, e la protezione di diritti, interessi e benessere dei bambini»).

            Il gruppo dei Liberali aveva chiesto un voto separato specificamente su questo paragrafo. E i Conservatori, che pure sono favorevoli, avevano chiesto di spezzare in due tronconi il paragrafo – uno relativo alla condanna generale, l’altro alla questione specifica delle donne nei Paesi poveri – e i relativi voti. Già nel 2011 i Popolari erano riusciti a far passare un emendamento sulla maternità surrogata sempre nell’ambito del rapporto annuale sui diritti umani nel mondo, ma in tutt’altro clima culturale (pareva che la questione non toccasse così da vicino anche l’Europa) e senza che nel testo si facesse menzione di condanne, limitandosi a parlare di «grave problema della maternità surrogata » e affermando che donne e bambini non possono essere «considerati merci sul mercato internazionale della riproduzione». Da allora il fenomeno non ha fatto che estendersi. Oltre alla condanna della surrogazione di maternità, il documento approvato oggi ribadisce alcuni concetti assai controversi che però erano già entrati nel rapporto annuale dello scorso anno (relatore Pier Antonio Panzeri, Pd) suscitando grande clamore dopo il contestato varo del documento nel suo insieme. Tra questi, l’ampio uso del concetto di «identità di genere», l’incoraggiamento agli Stati membri perché garantiscano alle persone omosessuali «l’accesso a istituti legali, possibilmente attraverso unioni registrate o matrimoni», e la richiesta di assicurare il «facile acceso all’aborto sicuro» nel quadro della pianificazione familiare.

            Il sostegno alle unioni gay. Nel rapporto sui diritti umani c’è anche un forte sostegno alle nozze gay. “L’Ue – si legge – dovrebbe proseguire gli sforzi per migliorare il rispetto dei diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuate (Lgbti), in linea con gli orientamenti dell’Ue sul tema”, e si “constata che i diritti delle persone Lgbti sarebbero maggiormente tutelati se avessero accesso a istituti giuridici quali unione registrata o matrimonio”.

Giovanni Maria Del Re                     avvenire         17 dicembre 2015

www.avvenire.it/Vita/Pagine/europa-prova-fermare-utero-affitto.aspx

 

Il «signor nessuno» vero discriminato

La Consulta ha, dunque, stabilito con la sentenza n. 229 depositata lo scorso 11 novembre 2015, che non è reato selezionare gli embrioni nei casi in cui la pratica sia finalizzata a evitare l’impianto di quelli affetti da gravi malattie trasmissibili.                                     www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=229

La questione di costituzionalità era stata sollevata dal tribunale di Napoli, dopo che un gruppo di medici era stato rinviato a giudizio con l’accusa di effettuare selezione genetica e sopprimere gli embrioni affetti da patologie. In rapporto a precedenti sentenze della Corte, quest’ultimo pronunciamento non sorprende in quanto si colloca nell’orizzonte di un crescente indebolimento dei diritti del concepito. E ciò comporta una deriva apparentemente inarrestabile verso l’eugenetica. La base di questo processo è la convinzione di tanti che l’embrione possieda meno diritti di chi è già nato: l’embrione non ha la tutela assoluta che gli spetta in quanto persona.

Durante i lavori preparatori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, talune delegazioni proposero che il diritto alla vita fosse inteso dal concepimento sino alla morte naturale, ma la proposta non passò. Forse anche per questo in molti Paesi i criteri impiegati nei tribunali e nelle Corti costituzionali per gestire i problemi bioetici sono l’autodeterminazione (dell’adulto), la non discriminazione (tra adulti), il diritto alla salute (dell’adulto): a ciò si accompagna un silenzio preoccupante sull’embrione, vera res nullius e oggetto a disposizione, sebbene sia evidente che selezionare gli embrioni costituisca una violazione grave del principio di non-discriminazione. La condizione di debolezza dei diritti del concepito è tale che taluni hanno preso atto con qualche soddisfazione per il fatto che la Corte ha “salvato” quelli sovranumerari destinandoli alla crioconservazione. Inviterei a riflettere su ciò che ormai tanti considerano una procedura banale: il congelamento indefinito dell’embrione che lo blocca nello stadio iniziale dell’esistenza. In realtà è un atto di violenza (violenza tecnologica e “bianca”, ma violenza estrema), perché nega alla radice un diritto umano molto più fondamentale di altri, e in specie dei diritti di libertà dell’adulto: intendo il diritto naturale incoercibile del concepito di svilupparsi e di nascere. Questo aspetto non sembra più turbare la nostra Corte costituzionale, che nella sentenza n. 96/2015 non ha ritenuto di prendere in considerazione i diritti dei concepiti in esubero.                                  www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=96

La Corte ha pareggiato situazioni non paragonabili: nel caso in questione, la soppressione tramite aborto del feto malato da un lato e l’intervento di selezione embrionale per impiantare solo quelli sani dall’altro, tralasciando ogni considerazione sugli altri embrioni creati nel processo di fecondazione artificiale. Dunque, almeno indirettamente la Corte sembra ritenere che l’embrione sia un “signor nessuno”. Si tratta di questioni in cui il primo passo consiste nello stabilire la realtà delle cose o il loro statuto, prima ancora che il lecito e l’illecito che seguirà di conseguenza. Occorre comprendere quanto ci sta dinanzi, e ciò vale in specie per l’embrione umano: persona o grumo di cellule? Non si può rispondere a questa domanda se non con una determinazione di vero-falso o di sì-no. La risposta comporta conseguenze incalcolabili tra cui, nel caso del sì, il ripensamento del criterio di bilanciamento tra diritti diversi cui la nostra Corte ricorre con frequenza; stupisce che la consapevolezza di ciò non sembri diffusa. Se l’opinione prevalente sarà che l’embrione è un ammasso insignificante di cellule, l’esito sarà la produzione artificiale della vita umana, la selezione eugenetica, il congelamento protratto, l’attribuzione degli embrioni in esubero alla ricerca con conseguente distruzione. Inoltre la tecnica entrerà profondamente nell’ambito geloso dello sbocciare della vita umana individuale e in quello della relazione primaria e univoca genitore-figlio, già compromessa dalla fecondazione eterologa. Bisognerà pur prendere atto che affidarsi senza discernimento alla tecnica comporta un grave rischio. Essa conosce le regole di produzione di oggetti, non le norme dell’agire ossia le norme entro cui debbono interagire i soggetti, mentre sono proprio queste che servono.

Vittorio Possenti, università di Venezia        Avvenire 15 dicembre 2015

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DONNA

Senza ideologie, riaffiora la donna.

La breccia che si è aperta anche in Italia nel femminismo può permettere di comprendere alcune deformazioni culturali sulla maternità e il corpo delle donne, smascherando strutture imposte da sistemi di pensiero. Finalmente anche da noi – come ormai in molte nazioni – si è aperta una crepa nel mondo compatto del femminismo occidentale. Finalmente le donne, dopo il bagno corrosivo della lettura decostruzionista, cominciano a volersi riappropriare del proprio corpo, colto come parte integrante dell’identità. Non sarà un percorso facile, ma è già iniziata la messa in crisi di quel linguaggio performativo che ha visto mutare di segno linguistico l’orizzonte materno: il bambino è diventato feto, la donna incinta un sistema uterino di approvvigionamento, l’utero in affitto trasformato nella più garbata maternità surrogata, quasi a voler recidere le parole della relazione tra madre e figlio, in nome di una ipertestualizzazione della realtà e di una decostruzione della categoria dell’ordine naturale dei sessi.

L’utero in affitto, in particolare, sembra rappresentare l’avvenuta decorporeizzazione della soggettività femminile, dal momento che il corpo della donna, secondo Judith Butler, non è che un mero epifenomeno delle degenerazioni linguistiche operate dal biopotere politico e sociale e, dunque, da scomporre nelle sue parti, privando di ogni ipotesi di senso e di verità il dato della natura. Come è noto, infatti, quest’ultima, avendo perduto il suo statuto di matrix, ossia come grembo produttore di vita e come “luogo” della nascita alla carne, come “origine” genealogico della catena generazionale, non è, sempre secondo Butler, che un ideologema, parola da disfare e da separare da qualsiasi contesto relazionale. La donna dunque – continua l’ideologa americana – va definita come «un fantasma dietro una voce completamente priva di suono», e l’eventuale presenza di un “tu” o di un “noi” semplici epifenomeni di una performance, di un “discorso” senza voce.

Se, dunque, il corpo è un prodotto del discorso e il feto una produzione sociale da gestire politicamente, va da sé che il corpo si separa dalla mente, dando l’impressione che l’estrema teoreticizzazione della questione femminile abbia finito col perdere di vista la realtà del senso comune e di produrre un modello culturale che ha sfinito (nel senso di far finire) il senso della gravidanza e con essa il significato della soggettività femminile. Butler e compagne, infatti, sembrano dimenticare la ricca gamma delle autopercezioni del proprio corpo, attraverso le quali – come rende evidente l’esperienza comune – si vive nella differenza tra il “dentro” e il “fuori” attraverso la gestione della propria vita interiore che il corpo rimanda all’esterno. Ancora più evidente nella donna gestante la comparsa della differenza all’interno della propria vita fisica tramite la presenza del bambino esprime sensibilmente che la vita “altra” si fa strada al suo interno in un’esperienza unica e irripetibile. L’utero in affitto, prodotto tecnogeno ed espressione drammatica dell’ipertestualizzazione del corpo femminile, rappresenta la punta estrema della strumentalizzazione delle donne in difficoltà ma anche ormai la figura sconsolante del nichilismo postmoderno che ci avvolge.

Non è forse giunto il momento di ridire come la sfera del sensibile possa e debba restituirci la dimensione dell’affiorare della carne nel pensiero e nell’esperienza della donna in gravidanza? Che, come ci dice il linguaggio comune, è in «stato interessante», nel senso proprio del termine, stato cioè di “inter- esse”, di vita relazionale, quella che attraverso il linguaggio del corpo (e non dell’utero) esprime la complicità segreta di due esistenze che reciprocamente si incontrano: un bambino e la sua mamma.

            [G1] Paola Ricci Sindoni          Avvenire 17 dicembre 2015

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Fecondazione eterologa. Lo stato dell’arte dopo sentenza Corte Costituzionale

A poco più di un anno e mezzo dalla sentenza della Corte Costituzionale, nell’aprile 2014, che ha dato il via libera anche in Italia alla fecondazione eterologa, sarebbero tra le 500 e le 1.000 le donne trattate e, ad oggi, circa un centinaio i bimbi già nati. Dati ufficiali non sono ancora disponibili, ma le prime stime dell’eterologa in Italia arrivano dagli esperti riuniti a Roma per il meeting europeo sull’infertilità ‘Strategies to improve IVF success rate’. ”Non esiste ancora un censimento ufficiale – spiega Ermanno Greco, presidente del Congresso e direttore del Centro di medicina e biologia della riproduzione dello European Hospital di Roma – ma stimiamo, su tutto il territorio nazionale, che siano 500-1.000 le pazienti trattate, ovvero che hanno ricevuto ovociti o, nella maggioranza dei casi, spermatozoi da donatori, per effettuare l’eterologa. Sempre secondo prime stime, sarebbero un centinaio i bambini già nati da fecondazione eterologa, mentre altri devono ancora nascere ed un’ulteriore percentuale di casi riguarda le gravidanze non andate a buon fine”.

Ad oggi, però, ancora molti sono i problemi sul tappeto che rendono in vari casi impossibile il ricorso all’eterologa, a partire dalla carenza di ovociti donati: ”Solo la metà sono italiani, mentre per il restante 50% – spiega Greco – è necessario ricorrere a banche estere. Le percentuali di successo nelle gravidanze si aggirano intorno al 55-60%, come all’estero, ma l’80% dei trattamenti viene effettuato su ovociti congelati”. Una situazione che risulta ancora più complessa nei centri pubblici: ”Al momento – rileva lo specialista – l’80% dei trattamenti per eterologa avviene in centri privati e solo il 20% in strutture pubbliche, dove l’iter per il reperimento di ovociti da banche estere è più lungo”. Una soluzione alla mancanza di donazioni di ovociti, sostiene però Greco, ”sarebbe prevedere per le donatrici, come già avviene in molti altri Paesi, un contributo in denaro”.

In Italia, ricordano gli esperti, sono circa 60mila le coppie che ogni anno hanno problemi di infertilità, ma i tassi di gravidanze con la procreazione medicalmente assistita migliorano: ciò, rileva Greco, ”anche grazie alle innovative tecniche di diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni, che permettono di raddoppiare le percentuali di successo. Grazie a queste metodiche è infatti possibile trasferire un solo embrione, quello che ha una maggiore vitalità, e ottenere il massimo risultato, tanto che l’80% delle coppie che fa il trasferimento dell’embrione dopo la diagnosi preimpianto ottiene la gravidanza al primo tentativo”. Ma il meeting è stato anche occasione di confronto sui più recenti studi che puntano ad ottenere gameti ‘artificiali’ utilizzando cellule staminali somatiche. Proprio un anno fa, nel dicembre 2014, l’Università di Cambridge ha infatti annunciato di aver ottenuto precursori di ovuli e spermatozoi a partire da staminali della pelle ‘riprogrammate’. Per sapere però se i gameti artificiali ‘funzionano’, portando alla formazione di embrioni sani, bisognerebbe fecondarli, un passo che la ricerca non ha compiuto trovandosi ad affrontare complessi problemi di ordine etico. Ma la strada resta aperta e ”se la ricerca proseguirà in questa direzione – conclude Greco – in un futuro non lontano, donne e uomini infertili potrebbero comunque avere gameti con il proprio patrimonio genetico grazie alle cellule staminali”.

Manuela Correra      per agenzia stampa Ansa)         aduc  14 dicembre 2015

http://salute.aduc.it/notizia/fecondazione+eterologa+stato+dell+arte+dopo_131904.php

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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI

La follia di una sfida.

            Cari amici, eccomi, presidente del Forum delle famiglie da meno di un mese. Un tempo breve, ma sufficiente a rendermi conto della bellezza e della “follia” di questa sfida. Sento sulle mie spalle la responsabilità di dovere dare la giusta voce ai 4 milioni di famiglie che costituiscono la base del Forum articolata in 400 associazioni locali e nazionali e in 20 forum regionali per un totale di 12 milioni di persone! Tanta gente.

Quel Paese reale che troppo spesso viene dimenticato dalla politica, che si ritrova a combattere con le difficoltà della quotidianità. Proveremo a far riflettere tutte le amministrazioni, dal comune più piccolo al Governo. Cercheremo di portare il nostro contributo, senza scadere in polemiche sterili, perché abbiamo chiara una cosa: il futuro del nostro Paese è direttamente proporzionale al futuro della famiglia.

Quoziente familiare? FattoreFamiglia? Non lo so, cambiamogli nome, facciamolo a scaglioni, ma le famiglie chiedono un fisco più equo e noi lavoreremo ogni giorno per questo. E se lo faremo con costanza e fantasia, sono certo che ci riusciremo.

Tutti insieme.Questa speranza metto davanti al presepe. Un regalo prezioso per tutti che la coincidenza con l’anno giubilare rende ancora più concreto e possibile.

Un abbraccio e buon Natale a tutti voi e alle vostre famiglie!

Gigi De Palo, presidente

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MADRE SURROGATA

La madre rubata.

Ci ha messo un po’ più di una settimana, la scrittrice Dacia Maraini, per confessare che forse la sua firma sotto l’appello per la messa al bando in tutto il mondo della pratica dell’utero in affitto, denunciata come nuova forma di schiavitù dalle donne di “Se non ora quando. Libere”, lei l’aveva messa con un po’ troppa fretta. Se le promotrici dell’appello affermano di rifiutare “di considerare la ‘maternità surrogata’ un atto di libertà o di amore”, e di non poter accettare “solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarca ma del mercato”, la quasi pentita Maraini esortava mercoledì scorso dalle colonne del Corriere della Sera a “parlarne ancora”. Forse, dice, non è giusto vietare per legge la maternità surrogata (espressione più gentile per indicare la “gestazione per conto terzi” seguita da consegna del neonato a una coppia committente, etero od omosessuale) anche nei casi accertati di disinteressata solidarietà con chi non ha altro modo per fare figli.

Andrebbe spiegato, non solo alla Maraini, che la maternità surrogata (o utero in affitto) è già vietata e sanzionata per legge, non solo in Italia ma in quasi tutta l’Europa, comprese la Francia e la Spagna dei matrimoni gay. Giovedì scorso, a conferma di questo orientamento generale, il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza un documento in cui “condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce” e “considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei paesi in via di sviluppo, debba esser vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani”.

A quel divieto appena ribadito, in Europa fanno eccezione la Gran Bretagna, la cui legge è pero così restrittiva da funzionare meglio di un divieto (la madre “portatrice”, che può essere solo una parente o un’amica della coppia committente e che non deve ricevere denaro in nessuna forma, nemmeno in quella mascherata da rimborso spese, ha sei mesi di tempo per decidere di tenersi il bambino) e la Grecia. Divieti più o meno modulati sono attivi anche in altri paesi, mentre Australia, Canada e soprattutto Stati Uniti, India e vari paesi del blocco ex sovietico – come l’Ucraina – sono i più permissivi, nel senso che tutto o quasi è consentito e affidato alla contrattazione tra le parti.

Se ora si discute – e ci si divide – tanto attorno all’utero in affitto anche in Italia e anche in casa femminista, è perché la faccenda è diventata di attualità come corollario (inevitabile, secondo alcuni, pretestuoso e inconsistente, secondo altri) della normativa sulle unioni civili attualmente in discussione in Parlamento, prima firmataria Monica Cirinnà del Pd. L’istituto, previsto dal disegno di legge, della stepchild adoption, grazie alla quale diventerebbe possibile l’adozione del figlio naturale del partner dello stesso sesso, nasconderebbe in realtà l’avallo dell’utero in affitto per le coppie di uomini, che non hanno altro modo di ottenere un figlio se non quello di usare, dove è consentito, una madre surrogata. Un’obiezione buona solo ad affossare le unioni civili, replicano coloro che si oppongono a qualsiasi stralcio della stepchild adoption dal testo di legge. Quell’istituto avrebbe solo il senso di “tutelare le famiglie di fatto” e soprattutto i bambini che già vivono con coppie dello stesso sesso. Lo sostengono in un contrappello la sociologa Chiara Saraceno, l’economista Daniela Del Boca e alcuni comitati locali di Se non ora quando, soprattutto del Piemonte e del Trentino. Siamo contrarie alle pratiche mercantili, precisa la Saraceno sulla Stampa, “ma la solidarietà esiste”, e allora si potrebbe normare ma non proibire del tutto, ché tanto chi vuole troverà sempre il modo di rivolgersi ai paesi dove la pratica è ammessa.

L’argomentazione è delle più classiche e rischia di essere perfino seducente. Se non fosse che allora – sempre di contratto tra adulti consenzienti si tratta – bisogna capire come mai non è consentito a nessuno vendere un rene, e come mai a nessuna donna è permesso vendere il proprio neonato, cose che invece continuano ad accadere – illegalmente – in paesi lontani, senza che nessuno, o quasi, pensi di normarle. Il fatto è che nel mercato del biolavoro globale indirizzato alla procreazione, passare per i corpi di donna (fornitori di ovociti e fornitori di utero) è inevitabile. Quello che si può fare, visto che la tecnica lo consente, è declassare la gravidanza a “servizio gestazionale”. Anche ben pagato, come in America o in Canada, o a prezzi stracciati, come nelle fattorie procreative indiane o nelle cliniche russe o ucraine. Ma dietro il profluvio di parole, spiegazioni, distinguo e inni alla solidarietà, e perfino dietro certe belle foto di famiglia in posa sorridente con i committenti felici, i bambini e le madri portatrici pure – nei rarissimi casi in cui esse appaiono, perché in genere il loro compito è sparire per sempre dopo il parto – il passaggio di soldi c’è. Sempre. Non lo nega nemmeno la donna americana che lavora in un call center intervistata da Repubblica un paio di settimane fa, la quale si dichiara orgogliosa di aver reso felici le due donne di cui ha portato in grembo i figli genetici. Ma non è azzardato pensare che non l’avrebbe fatto senza la contropartita di qualche decina di migliaia di dollari. Oppure ci sbagliamo, e da qualche parte esistono legioni di donne agiate e generose, che non vedono l’ora di rendersi utili regalando bambini a coppie sterili, del tutto gratuitamente. Con tanti saluti alla mistica dello scambio e del dialogo intrauterino tra madre e figlio durante la gravidanza.

Qualche caso di vera “donazione di utero” a titolo totalmente gratuito in realtà esiste. L’ultimo in ordine di tempo registrato dalle cronache riguarda una donna di cinquantotto anni di Salt Lake City (Utah), la quale ha messo a disposizione il proprio corpo per partorire il figlio della figlia, che non poteva portare avanti una gravidanza. Inutile sottolineare che lei con quel figlio-nipote un rapporto lo avrà sempre, mentre in quasi tutti i casi di maternità surrogata la prima premura è quella di separare in fretta la puerpera dal neonato, per metterlo subito a contatto con quelli che saranno i suoi “veri” genitori. In altri termini, ciò che è considerato non desiderabile per chiunque venga al mondo – la repentina separazione dalla madre – e che diventa accettabile solo se dettato da seri problemi medici del bambino o della madre, nel caso del nato da gravidanza surrogata è routine prestabilita.

Il prossimo 2 febbraio al Parlamento francese si terrà un convegno internazionale contro la maternità surrogata. Lo promuove, tra gli altri, la filosofa femminista e psicoanalista Sylviane Agacinski, donna di sinistra e fondatrice di Corp (Collettivo per il rispetto della persona). Nel suo saggio intitolato “Corps en miettes” (“Corpi in briciole”, Flammarion, 2013), la Agacinski lamenta la subordinazione di una certa gauche alle lusinghe della tecnoscienza, ricorda che dal 1991 la Francia giudica illegale la pratica dell’utero in affitto, “in quanto contraria ai diritti della persona”, e si chiede come mai invece la questione della legalizzazione della maternità surrogata torni periodicamente alla ribalta, veicolata da progetti di legge e dall’idea che sia il diritto a “fondare una famiglia” a legittimare i possibili metodi di procreazione. Al contrario, sostiene la Agacinski, sono “le condizioni etiche e giuridiche della procreazione che devono decidere i mezzi possibili di fondare una famiglia”. Il pur comprensibile desiderio di figlio non può giustificare la riduzione a mezzo “della vita di una donna nel corso di nove mesi”. Intervistata da Avvenire (il quotidiano della Cei che nel 2013, a firma di Assuntina Morresi, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta a puntate sulla maternità surrogata nel mondo), la femminista francese ripete che “l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa”. Sulla sua stessa linea c’è la filosofa femminista Luisa Muraro,

fondatrice della Libreria delle donne di Milano, che ha argomentato sul Corriere della Sera del 7 dicembre il suo deciso rifiuto di una pratica che “non è un diritto e non è libertà”. Luisa Muraro aggiunge che “ci sono cose sgradevoli e contrarie alla civiltà e altre che la favoriscono. La relazione materna è una di queste ultime. Va custodita come un bene. Non sappiamo cosa può produrre nelle creature future quel ‘passaggio’. Probabilmente man mano che la libertà femminile si rafforza si vedranno situazioni speciali che consentiranno di trasformare la relazione materna in qualcosa di nuovo. Se necessario. Occorrono, però, garanzie di gesti fatti per amore e liberamente. Finché ci sarà l’utero in affitto è inutile farsi illusioni: passerà per donazione quella che è una compravendita”. La maternità surrogata è stato anche uno dei temi centrali di un importante e affollato incontro organizzato alla Casa internazionale delle donne di Roma, il 22 novembre scorso, dal Gruppo delle femministe del mercoledì, e intitolato “Curare la differenza.

Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie Arcobaleno”. Come ha scritto Letizia Paolozzi sul sito Donnealtri, “il tentativo era quello di prestare attenzione anche senza necessariamente condividere. Seguire un filo con la pratica che è di molte donne, quella del ‘partire da sé’ e dello sguardo lungo sulla vita, sui sentimenti, sui desideri, evitando i comportamenti logori di una certa politica (maschile?) fatta di appelli, contrappelli, raccolta di firme”. La discussione è partita dalla constatazione che il tema della maternità surrogata “è diventato un campo di battaglia. Certo, la madre surrogata è il punto più delicato, dal punto di vista femminista, nella costruzione di nuove famiglie. Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna? Come permettere la realizzazione di desideri senza mettere in gioco la libertà dell’altra? Non c’è il rischio di farne una mera questione di mercato? C’è differenza tra il desiderio di maternità e il desiderio di paternità, senza donne? Perché questo desiderio non sceglie l’adozione? Non riconoscendo nessuna differenza fra desiderio di maternità e desiderio di paternità, ritenendo che l’accesso alla genitorialità biologica sia un diritto universale e neutro, non ricadiamo nella conservazione dell’universo simbolico Molte domande, tutte essenziali, e variatissime le risposte, nelle quali ha aleggiato spesso, espresso come timore, lo spettro di qualcosa che si può rozzamente (ma non troppo) chiamare “cancellazione della madre”.

Vale per Paola Tavella, autrice con Alessandra Di Pietro di “Madri selvagge” e convinta che “un essere umano non si possa né vendere né comprare”, e anche per Claudia Mancina, che però mette l’accento sull’autodeterminazione delle donne che accettano di portare avanti una gravidanza per altri ed è contraria a una legge proibizionista, purché sia salvo in ogni momento il diritto della madre surrogata di tenersi il figlio. Vale per giornalista Franca Fossati, che si chiede come mai tra i giovani e giovanissimi l’accettazione della maternità surrogata passi senza grandi problemi, come qualcosa di scontato, e per la saggista e giornalista Ida Dominijanni, che riflette sulla tendenza apparentemente invincibile, della quale l’America è battistrada, alla progressiva indifferenziazione sessuale. Qualcosa di organico al mercato, in nome della quale si plasmano nuovi diritti, come quello alla genitorialità di coppie per loro natura sterili.

Nicoletta Tiliacos       “Il Foglio”      19 dicembre 2015   

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MATERNITÀ

Quando è possibile il licenziamento della lavoratrice incinta?

La legge impedisce il licenziamento della donna incinta entro determinati termini e a particolari condizioni. Cercheremo di riassumerle qui di seguito. È vietato il licenziamento:

  • della lavoratrice dall’inizio della gravidanza e sino al compimento di 1 anno di età del bambino. L’inizio della gestazione si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza [Art. 4, c. 1, DPR 1026/76; art. 87, c. 1, D.Lgs. 151/2001.];
  • del padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno di età del bambino;
  • causato dalla domanda o dalla fruizione dell’astensione facoltativa e del congedo per malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore.

La lavoratrice non può essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salvo che ciò avvenga a seguito della cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice stessa è addetta [Art. 54, c. 4, D.Lgs. 151/2001].

            Qualora il datore di lavoro intimi il licenziamento nonostante ricorra il suddetto “periodo di tutela”, il licenziamento è nullo. L’illegittimità del licenziamento discriminatorio, nullo o orale è sanzionata con la reintegra sul lavoro, a prescindere dalla dimensione occupazionale aziendale. Il regime di tutela cambia solo in relazione alla data di assunzione del lavoratore.

            Il divieto di licenziamento prescinde dal fatto che il datore di lavoro fosse o meno a conoscenza della condizione di gravidanza della dipendente, perché dipende dal fatto in sé della imminente maternità. Di conseguenza l’interessata può ottenere il ripristino del rapporto di lavoro mediante la presentazione al datore di lavoro di idonea certificazione, dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano.

            Eccezionalmente è consentito il licenziamento della lavoratrice incinta solo nei seguenti casi:

1-      colpa grave del lavoratore costituente giusta causa di risoluzione del rapporto. La valutazione della gravità del comportamento della lavoratrice deve comunque tenere conto delle sue particolari condizioni psico-fisiche dettate dal momento [Cass. sent. n. 16060/2004, C. App. Ancona sent. 19.08.2009]. Ad esempio, è stato ritenuto: legittimo il licenziamento giustificato da

  • gravi inadempimenti (assenze ingiustificate ed inaffidabili) della lavoratrice [Cass. sent. n. 9405/2003.];
  • illegittimo il licenziamento intimato a causa di un’assenza ingiustificata protrattasi per pochi giorni [Cass. sent. n. 19912/2011];
  1. cessazione dell’attività aziendale. In particolare il licenziamento viene ritenuto giustificato solo in presenza della cessazione totale dell’attività aziendale [Cass. sent. n. 1334/1992] mentre non è giustificato nell’ipotesi di cessazione del ramo d’azienda alla quale la lavoratrice è addetta [Cass. sent. n. 18363/2013]. È illegittimo il licenziamento motivato da ragioni di ristrutturazione produttivo-organizzativa in quanto non costituenti un’ipotesi di cessazione dell’attività d’azienda;
  2.  ultimazione della prestazione per la quale il lavoratore è stato assunto o scadenza del termine nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato;
  3. esito negativo della prova : in tal caso, il licenziamento è legittimo solo se il datore di lavoro non è a conoscenza dello stato di gravidanza. In caso contrario, per tutelare la lavoratrice da eventuali abusi, il datore di lavoro deve motivare il giudizio negativo circa l’esito della prova. Così è possibile valutare i motivi reali del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza [C. Cost. sent. n. 172/1996].

Redazione            LPT     16 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106627_quando-e-possibile-il-licenziamento-della-lavoratrice-incinta

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NULLITÀ MATRIMONIALE

Convegno all’università Gregoriana.

La riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio al centro del convegno organizzato questa mattina a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana. L’evento dedicato alla memoria del card. Urbano Navarrete si è svolto in occasione della Giornata dell’Avvocatura Ecclesiastica. Sulle novità apportate dal Motu Proprio di Francesco è stato intervistato uno dei membri della commissione ad hoc istituita dal Papa, Paolo Moneta, professore ordinario all’università di Pisa e avvocato della Rota Romana: 

R. – La riforma parte dalla preoccupazione di Papa Francesco verso quei fedeli che hanno avuto un’esperienza matrimoniale negativa, e che quindi vorrebbero tornare in piena comunione con la Chiesa. Ora, la Chiesa – come noto – non ammette il divorzio, però ammette con una certa ampiezza una verifica e un accertamento della originaria validità del matrimonio, e quindi si è dotata da secoli di un processo per accertare la nullità del matrimonio. Questo processo, come un po’ tutti i processi, si era un po’ appesantito: in certe situazioni finiva per protrarsi troppo a lungo. Quindi il Papa ha invitato a una riflessione sulla possibilità di snellire questo processo, e quindi ha istituito una Commissione apposita che ha preparato un progetto che poi il Papa ha sostanzialmente approvato e promulgato in forma di Motu Proprio. I Motu Propri sono due: uno riguarda la Chiesa latina e uno le Chiese orientali, però hanno lo stesso contenuto.

D. – Lei ha fatto parte di questa Commissione: obiettivo, ci conferma, non è tanto la nullità dei matrimoni quanto la celerità dei processi. La nullità resta, all’interno della visione promossa da questo pronunciamento, un evento eccezionale, o no?

R. – Resta certamente un evento non consueto, però certamente si è preso atto che specialmente nei tempi moderni, con la disgregazione della famiglia, con la mentalità che si è diffusa anche nelle nostre società occidentali e anche nell’ambito della Chiesa, più spesso possono verificarsi dei motivi di nullità.

D. – Solo una considerazione sulla non-necessità della doppia sentenza conforme: questa riguarderà solo i nuovi processi o anche quelli già in corso?

R. – La disposizione entra in vigore l’8 luglio 2015, e quindi i processi iniziati anche precedentemente, processi che attualmente sono in corso, o anche arrivati alla fine ma non alla pubblicazione della sentenza, beneficeranno di questa abolizione della “doppia conforme”. In sostanza, tutte le sentenze pubblicate a partire dal 9 dicembre 2015 diventano immediatamente esecutive senza che occorra la conferma in sede di appello.

D. – Aspetto importante a cui il Papa ha tenuto molto è quello della gratuità delle procedure.

R. – La gratuità delle procedure in Italia c’è già per disposizione della Conferenza episcopale italiana, di almeno 15 anni fa: quindi, la Conferenza episcopale ha deciso di finanziare i Tribunali ecclesiastici con i proventi dell’8 per mille, e di istituire presso i Tribunali ecclesiastici alcuni avvocati che prestino la loro opera gratuitamente. Dico: quasi gratuitamente, perché i Tribunali sono tenuti a percepire un contributo forfettario alle spese processuali di 520 euro, che però rimane l’unico contributo che viene chiesto ai fedeli.

D. – La figura dell’avvocato, come esce da questa riforma?

R. – La figura dell’avvocato praticamente non subisce particolari cambiamenti, nel senso che le procedure rimangono sempre di tipo contenzioso e quindi richiedono la presenza dell’avvocato. Quindi, l’avvocato svolge una funzione importante che il Motu Proprio sottolinea, cioè di preparazione alla causa della nullità di matrimonio. E poi, è importante la funzione dell’avvocato perché è lui che può instradare la causa verso un tipo di processo chiamato “più breve”, che consente uno snellimento veramente importante della causa. E’ compito dell’avvocato cercare di mettere in luce che si tratta di una causa che presenta i presupposti per essere trattata in via breve.

D. – Processo breve che presuppone l’accordo dei coniugi, all’interno del quale è centrale la figura del vescovo?

R. – Sì: il processo breve viene sottoposto al giudizio finale del vescovo: questa è una novità importante. Certamente, c’è il problema che i vescovi non sono naturalmente strettamente esperti di questo tipo di cause e quindi possono avere difficoltà di valutazione. Però, è previsto che ci sia un giudice che svolge l’istruttoria della causa e che quindi poi potrà riferire al vescovo e indirizzarlo sulla decisione più appropriata per il caso.

D. – L’aspetto della gratuità è importante per venire incontro alle tante coppie che fanno richiesta di questo processo, ma può penalizzare la libera professione degli avvocati, ad esempio degli avvocati rotali?

R. – Bè, questo è un punto molto delicato. Sì, sì: perché gli avvocati stabili, quelli cioè che sono stipendiati dai Tribunali ecclesiastici, certamente tolgono molte cause al mercato dei liberi professionisti, e quindi c’è preoccupazione, scontento, soprattutto presso i giovani avvocati, di vedere limitato ulteriormente il loro ruolo. Proprio recentemente è uscito un Rescritto del Santo Padre che prevede anche presso la Rota una maggiore presenza degli avvocati “ex ufficio”: è un’indicazione che dovrà poi essere tramutata e regolamentata a livello della Rota. Però, anche questo suscita qualche preoccupazione, nel senso che potrebbe preludere a una maggiore limitazione del patrocinio di fiducia, anche nell’ambito della Rota.

D. – In questa sede del convegno qui alla Gregoriana vengono prese in esame anche alcune criticità, alcuni aspetti che vanno meglio approfonditi.

R. – Sì. Si tratta di aspetti a volte tecnici: questo convegno aveva lo scopo e la finalità di chiarire. Sono convinto che la normativa processuale di qualunque tipo sia abbia bisogno di un riscontro pratico: disposizioni che a volte sembrano chiare, a contatto con la pratica, poi, fanno sorgere problemi imprevisti o imprevedibili. Io come consiglio direi: sperimentiamo questa normativa a livello di pratica dei tribunali; dopo di ché, senz’altro, come è sempre avvenuto, si troverà la strada più opportuna per attuare l’intento del Santo Padre, cioè quello di rendere i processi più rapidi.

D. – Ed è concreto il rischio di un uso illegittimo del processo breve?

R. – Bè, nella situazione italiana direi di no; in altre situazioni, forse sì. Penso soprattutto ai Paesi di tradizione anglosassone dove già i processi vengono svolti in maniera piuttosto superficiale, quindi il processo breve potrà incentivare maggiormente una trattazione piuttosto ridotta della causa.

D. – Le chiedo, avendo lei lavorato appunto all’interno della Commissione, se secondo lei il contenuto di queste novità apportate è stato ben compreso dall’opinione pubblica?

R. – La stampa in generale ha – direi – accentuato l’aspetto di riforma, di rottura con il passato: è stata una riforma che si inserisce e mantiene le coordinate tradizionali, quindi per usare un’espressione cara al precedente Pontefice, “un rinnovamento nella continuità”. Cioè, si è inciso sul processo matrimoniale ma non si è stravolto questo processo. Quindi, non dovrebbero esserci fughe in avanti: si tratta di una riforma sì, certamente importante, però non rivoluzionaria.

Notiziario Radio vaticana – 15 dicembre 2015       http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

 

La “prossimità” del Motu proprio di Francesco.

Se c’è una cifra che caratterizza la normativa per le cause di nullità matrimoniale introdotta con il Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, entrato in vigore lo scorso 8 dicembre, è “la prossimità”. Ne è convinto monsignor Adolfo Zambon, vicario giudiziale del Tribunale ecclesiastico regionale del Triveneto, per il quale le nuove norme favoriscono «una vicinanza reale tra fedele e giudice, grazie all’accessibilità del tribunale, all’uso di un linguaggio appropriato, all’inserimento nella pastorale familiare ordinaria, ma anche un’attenzione alla parte convenuta e una prossimità tra fedele e vescovo».

Intervenendo all’incontro di studio, promosso a Roma dall’Associazione canonistica Italiana e dalla Facoltà di diritto canonico della Pontificia università Gregoriana in memoria del cardinale Urbano Navarrete (1920-2010), illustre canonista e per molti anni rettore dell’ateneo dei gesuiti, Zambon ha messo in luce alcune delle principali novità della riforma, tra cui quella che riguarda «i titoli per individuare il tribunale di competenza» e «l’istruttoria nel processo più breve». «In quest’ultimo caso, anche se le parti sono d’accordo, l’ammissione finale a tale forma processuale – ha ricordato agli oltre 380 partecipanti al convegno – spetta al vicario giudiziale, segno che l’ambito della decisione non è a discrezione dei coniugi e dunque non si tratta di un’autocertificazione».

Del resto, il Motu proprio «si propone di rendere più agile e snello il processo di nullità, senza abbandonare il modulo giudiziario o l’accertamento rigoroso», ha osservato Paolo Moneta, già docente all’università di Pisa e membro della Commissione speciale di studio per la riforma del processo matrimoniale canonico istituita da papa Francesco, sottolineando che si è voluto “avvicinare, senza scadimenti, l’istanza giudiziaria alle esigenze dei fedeli”, soprattutto oggi che i fallimenti matrimoniali e le situazioni di irregolarità sono più diffusi che in passato.

A tre mesi dalla pubblicazione, tuttavia, sono ancora molti, è stato rilevato, gli aspetti del testo che meritano un approfondimento e una verifica sul campo, come ad esempio cosa si debba intendere per “consenso” dei coniugi in caso di processo più breve o per “cause di nullità evidente”. L’auspicio, espresso da monsignor Gianpaolo Montini, promotore di giustizia del supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, è che “con il contributo della giurisprudenza locale e dei tribunali della Santa Sede si possano risolvere quelle questioni interpretative che la prassi fa inesorabilmente emergere”.

            Stefania Careddu       Avvenire         17 dicembre 2015                  www.scienzaevita.org/rassegna

 

Al via i nuovi processi per i matrimoni “falliti”. Ma quanta confusione.              estratto

Il Vaticano prima tiene in vita e poi abroga l’efficiente sistema dei tribunali regionali introdotto in Italia da Pio XI. In pericolo anche il riconoscimento civile delle nuove sentenze. Dal giorno dell’Immacolata sono in vigore in tutto il mondo i due motu proprio – il secondo per le Chiese cattoliche di rito orientale – con cui papa Francesco ha rivoluzionato i processi di nullità matrimoniale. (…)

Rescritto del Santo Padre Francesco sul compimento e l’osservanza della nuova legge del processo matrimoniale, 11 dicembre 2015. Il Rescritto si articola in un’introduzione e in due parti.

La prima delle due parti è di poche righe e archivia per sempre il “Qua cura” di Pio XI e altre norme analoghe del passato: “Le leggi di riforma del processo matrimoniale succitate abrogano o derogano ogni legge o norma contraria finora vigente, generale, particolare o speciale, eventualmente anche approvata in forma specifica (come ad es. il motu proprio ‘Qua cura‘, dato dal mio antecessore Pio XI in tempi ben diversi dai presenti)”.

Nella seconda sezione si vieta il ricorso alla Rota romana “dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione”. Ed è il punto sottoposto a severa critica dal canonista Guido Ferro Canale, nella nota alla fine di questo servizio.

Mentre nell’introduzione la frase emblematica è la seguente:

“Le leggi che ora entrano in vigore vogliono proprio manifestare la prossimità della Chiesa alle famiglie ferite, desiderando che la moltitudine di coloro che vivono il dramma del fallimento coniugale sia raggiunta dall’opera risanatrice di Cristo, attraverso le strutture ecclesiastiche, nell’auspicio che essi si scoprano nuovi missionari della misericordia di Dio verso altri fratelli, a beneficio dell’istituto familiare”.

Si può notare come qui si continui ad adottare una formula, quella del “fallimento coniugale”, che già nel motu proprio “Mitis iudex Dominus Iesus” aveva sollevato critiche da parte di giuristi.

Dire “matrimonio fallito”, infatti, non è la stessa cosa che dire “matrimonio nullo”. La nullità è propria di un matrimonio che non è mai stato tale, mentre il fallimento può riguardare un matrimonio in sé validissimo.

L’uso dell’espressione “matrimonio fallito” può indurre a pensare che le sentenze di nullità siano equiparabili a dei divorzi, cioè proprio ciò che lo stesso papa Francesco sembra temere là dove scrive, nel proemio del motu proprio “Mitis iudex Dominus Iesus”, a proposito della facilità e rapidità dei nuovi processi: “Non mi è sfuggito quanto un giudizio abbreviato possa mettere a rischio il principio dell’indissolubilità del matrimonio”.

Ma c’è di più. La riforma dei processi matrimoniali promulgata da papa Francesco può incontrare serie difficoltà di applicazione anche in campo civile, oltre che in campo ecclesiastico. In paesi a regime concordatario come l’Italia le sentenze di nullità emesse da un tribunale ecclesiastico hanno effetti civili attraverso la “delibazione” – o “exequatur” –, cioè l’atto con cui il tribunale civile attribuisce forza esecutiva alla sentenza del tribunale ecclesiastico, equiparandola a una sorta di divorzio.

            La “delibazione” è data però a condizione che la sentenza del tribunale ecclesiastico – come anche di un tribunale straniero – sia stata emessa dopo un regolare contraddittorio nel quale le parti abbiano avuto pari opportunità di accusa e di difesa. Ora, il processo “più breve” con giudice unico il vescovo, la maggiore novità introdotta e incoraggiata dalla riforma di Francesco, che può arrivare a sentenza in meno di due mesi con una procedura sommaria, per un tribunale civile italiano manca dei requisiti indispensabili per una “delibazione”. È quindi facile prevedere il contrasto che ne deriverà tra i due regimi giuridici, quello dell’Italia e quello della Chiesa.

Ma il caso italiano sarà solo uno fra tanti. Eleggendo ogni vescovo a economo della grazia nella sua diocesi, con poteri fulminei di scioglimento dei matrimoni “falliti”, papa Francesco ha posto un precedente che avrà seri effetti anche “extra ecclesiam”, con contraccolpi giuridici diversi da nazione a nazione. Tornando al rescritto papale del 7 dicembre, nel quale si vieta il ricorso alla Rota romana “dopo che una delle parti ha contratto un nuovo matrimonio canonico, a meno che consti manifestamente dell’ingiustizia della decisione”, ecco qui di seguito le conseguenze che ne derivano, a giudizio di un giovane canonista di valore come Guido Ferro Canale. (allegato)

L’analisi è molto tecnica ma nello stesso tempo chiara. Anche se dopo una sentenza di nullità e un nuovo matrimonio canonico si palesasse l’ingiustizia della sentenza, Ferro Canale mostra che le contraddizioni del dispositivo rendono comunque impraticabile un ricorso alla Rota. In pratica – scrive – varrà da qui in avanti la regola che “nel dubbio si sta per le nuove nozze”. E ciò “equivale a negare l’indissolubilità del primo matrimonio”, attribuendo di fatto a una pur dubbia sentenza, una volta celebrate le nuove nozze, l’effetto d’aver sciolto il precedente vincolo matrimoniale.

Sandro Magister        Newsletter www.chiesa                      16 dicembre 2015

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351193

Rescritto del padre Francesco sul compimento e l’osservanza della nuova legge del processo matrimoniale

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/12/11/0981/02193.html

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SCIENZA&VITA

Anche dall’Europa un secco no all’utero in affitto

“Il voto con cui il Parlamento europeo sancisce la condanna dell’utero in affitto rimarca con forza l’importanza di non cedere alle lusinghe della dittatura dei desideri che, in nome di presunti diritti dei più forti, rendono l’essere umano merce e tolgono dignità ai più deboli”, commenta Paola Ricci Sindoni, presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.

            “In attesa di strumenti legali chiari per contrastare efficacemente questa pratica, non possiamo che essere soddisfatti di questa autorevole ed esplicita condanna della maternità surrogata vista per quello che è: strumento di prevaricazione e sfruttamento. E’ evidente che gli appelli internazionali lanciati da più parti stanno finalmente trovando ascolto in sedi istituzionali”.

            “L’utero in affitto, prodotto tecnogeno ed espressione drammatica dell’ipertestualizzazione del corpo femminile, rappresenta la punta estrema della strumentalizzazione delle donne in difficoltà ma anche ormai la figura sconsolante del nichilismo postmoderno che ci avvolge”

Comunicato    n. 202 17 dicembre 2015

www.scienzaevita.org/scienza-vita-anche-dalleuropa-un-secco-no-allutero-in-affitto

 

Quaderno n. 15. Quale scienza per quale vita? Formazione ricerca prevenzione.

L’Associazione Scienza & Vita compie 10 anni. Dieci anni di servizio a favore della persona umana, di promozione e tutela della vita. «Abbiamo mosso dei passi importanti, attraverso un ventaglio di temi aperti al mondo, che guardano al futuro dell’uomo anche attraverso la buona scienza». Scrivono così Paola Ricci Sindoni e Paolo Marchionni, presidente nazionale e consigliere nazionale di Scienza & Vita, nell’editoriale che apre il numero 15 de I Quaderni di Scienza & Vita. Il Quaderno ha per tema “Quale scienza per la vita? Formazione, ricerca, prevenzione”, e contiene gli atti del convegno nazionale in occasione del decennale, con il discorso di Papa Francesco all’Associazione. Sono otto i temi del confronto in questo Quaderno: dal Ti amo per sempre, alla Naturalezza della Vita, passando per La cultura dello scarto, La vita è mia, Tutti a scuola, La vita nelle nostre mani, Tic Tac, Essere o non Essere.

            Molteplici e diverse sono le riflessioni offerte da giovani, adulti, autorità, associati, studiosi e studenti: persone, accomunate tutte dalla passione e dal desiderio di darsi una risposta, seppur parziale. I loro racconti, i loro volti ritratti nel video del convegno ne sono una testimonianza viva, spontanea, efficace e ci invitano ad una continua riflessione. Il caloroso invito e insieme la sfida lanciata da Papa Francesco all’Associazione Scienza & Vita – pubblicata in questo Quaderno – e oggi rivolta a noi tutti, è dunque quella di «rilanciare una rinnovata cultura della vita», consapevoli che «il grado di progresso di una civiltà si misura proprio nella capacità di custodire la vita, soprattutto nelle sue fasi più fragili, più che dalla diffusione di strumenti tecnologici». Una sfida sempre più impegnativa aperta al confronto continuo e al «dialogo fecondo con tutto il mondo della scienza, anche con coloro che, pur non professandosi credenti, restano aperti al mistero della vita umana».

            Con il Discorso di Papa Francesco all’Associazione Scienza & Vita, la Prolusione di S. Em. Card. Angelo Bagnasco e i contributi di: Carlo Bellieni, Paola Binetti, Maria Luisa Di Pietro, Luciano Eusebi, Adriano Fabris, Maurizio Faggioni, Massimo Gandolfini, Pier Giorgio Liverani, Beatrice Lorenzin, Chiara Mantovani, Paolo Marchionni, Daniela Notarfonso, Felice Petraglia, Paola Ricci Sindoni, Lucio Romano, Davide Rondoni, Luisa Santolini, Silvia Vannuccini.

I racconti di: Pietro Bucolia, Luca Busson, Regina Maria Elefante, Eleonora Lattaruolo, Alessandro Leoncini, Emanuela Lulli, Simone Nencioni.            Disponibile anche in versione e-book su                           www.scienzaevita.org

www.scienzaevita.org/nuovo-quaderno-sv-quale-scienza-per-quale-vita

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SESSUOLOGIA

Paura del «gender». Quando gli stereotipi impediscono la discussione sulla sessualità e sui ruoli sociali.

Nel luglio di quest’anno alcune donne cattoliche di Parma (fra cui la sottoscritta) scrivono una lettera aperta alle principali associazioni ecclesiali presenti in diocesi per comunicare il proprio disagio rispetto alla infiammata battaglia contro il «gender», che vede parte del mondo cattolico fra i protagonisti più attivi e convinti. Ci firmiamo scherzosamente «Le sante Lucie»; tutte siamo da decenni coinvolte in modo attivo nella vita della Chiesa locale.

La nostra lettera, inviata anche a testate e siti cattolici, ha un notevole e immediato riscontro in Rete, mentre l’unica risposta in diocesi viene dal Movimento ecclesiale d’impegno culturale, che in ottobre organizza l’incontro «“Gender”: cerchiamo di capire». Sono previste un’introduzione per ricordare le motivazioni della lettera, poi una ricognizione sull’uso del termine «gender», quindi il confronto tra le persone presenti. Le quali, la sera della riunione, sono numerose, tanto che ci si deve spostare in una sala più capiente.

Delegata dalle «sante Lucie», introduco riprendendo i punti essenziali del nostro testo: prendiamo le distanze dalla logica amico/nemico su cui ci pare impostata tutta la faccenda, segnaliamo approssimazioni e vere e proprie distorsioni delle fonti nei discorsi e nei documenti «anti-gender», riteniamo che usare il termine-ombrello gender per realtà molto diverse tra loro sia deleterio, perché si tratta di prospettive culturali e pratiche sociali eterogenee e non assimilabili. Sottolineo che scriviamo in quanto cattoliche, e che per noi è un problema vedere come gli impegni che ci siamo assunte in questi anni sono ora in odore di eresia (ad esempio la promozione delle donne, il contrasto alla violenza di genere, i progetti educativi per potenziare la ricchezza umana di maschi e femmine al di là del condizionamento di modelli limitanti quando non negativi, il lavoro sul linguaggio); pensiamo che nella Chiesa anche su questi temi si debba prevedere e garantire il pluralismo delle posizioni.

Dopodiché illustro il termine «genere», che definisco come la continua reinterpretazione socio-culturale del dato biologico della dualità sessuale, che coinvolge non solo l’autopercezione e le relazioni tra individui, ma anche sistemi simbolici e religiosi e l’organizzazione della vita collettiva.

Ricordo che da una quarantina d’anni questa consapevolezza, tramite i gender studies, ha costituito uno strumento euristico e ermeneutico del quale oggi non possiamo fare a meno, e che della prospettiva di genere hanno beneficiato anche le discipline teologiche. Sottolineo che i gender studies hanno riportato alla luce le voci e le esistenze delle donne (quindi sono proprio il contrario dell’in-differenziato), e che ciò ha comportato contestualmente l’indagine sulla costruzione della maschilità: un tema che ha strettamente a che fare anche con la violenza contro le donne, molto diffusa anche tra i giovani.

Accenno poi al concetto di «gender» in filosofia, all’istanza etica che muove anche posizioni molto discusse come quelle di Judith Butler. Infine spiego la differenza tra genere e orientamento sessuale. Termino dicendo che come credenti ci può interrogare la constatazione che nelle Scritture non ci sia un unico modello di femminile e di maschile a cui possiamo appoggiarci, e che dobbiamo riflettere sul fatto che Gesù ha sempre travalicato le prescrizione di genere, sia maschili sia femminili, del suo tempo.

Insulti in nome del Vangelo. Molte cose in pochi minuti, certo, ma nel resto della serata c’era il tempo per riprendere i vari aspetti, fare domande, portare contributi. E invece. Il moderatore della serata chiede a chi vuole intervenire di segnalarlo subito per organizzare i tempi, e immediatamente si alzano diverse mani, quasi tutte di persone che fanno interventi apparentemente coordinati in anticipo, con toni e contenuti che mi spiazzano. Non perché non li capisca o non sappia cosa rispondere. Piuttosto, mi spiazzano perché sono fuori contesto, come se non avessero ascoltato niente di quanto detto fino a quel momento.

A parte un signore che ci insulta (ma insulta anche monsignor Galantino, siamo in buona compagnia), e con tono alterato dice che c’è fin dal Settecento una lobby gay che ha lo scopo di distruggere la Chiesa, gli altri in rapida successione dicono che «adesso a scuola vogliono insegnare a masturbarsi ai bambini di quattro anni, e gli insegnano a dubitare del proprio genere, e quei libretti UNAR distribuiti nelle scuole ecc.».

Ripetono pedissequamente quanto si trova nei siti delle associazioni e dei movimenti «anti-gender»; qualcuno ha proprio i fogli stampati e legge da lì. Un signore «rivela» d’aver trovato su Internet il documento dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS, che in effetti si trova molto facilmente, è messo in Rete proprio per essere letto), e cita l’ormai famosa «matrice»; al che altri, nella sala, interrompono dicendogli che il documento va letto dall’inizio, se si vuole capire il senso della matrice e non farle dire ciò che non dice.

Diverse persone commentano ad alta voce, teste si scuotono, l’aria è molto tesa. Poi altri interventi riportano l’attenzione sulla violenza contro le donne, sul reale contenuto del comma 16 della legge 107, sugli stereotipi di genere nel mondo dell’infanzia, sulla tendenza della nostra società verso l’in-differenziato; ma clima della serata è ormai compromesso, e si è pure fatto molto fatto tardi. Il moderatore mi ridà la parola per qualche minuto.

Faccio alcune precisazioni: sugli standard OMS (invitando a leggere gli scritti di Alberto Pellai su questo tema), sulla necessità di adottare una prospettiva di genere se si vogliono cogliere le dinamiche specifiche della violenza contro le donne, e poi di nuovo sulla necessità di distinguere le varie questioni.

L’incontro si chiude. Raccolgo i miei fogli e la tristezza che mi vien fuori da tutte le parti, mentre due signore mi si avvicinano e, in nome del Vangelo, m’insultano.

Cosa dire, di una serata così? I membri del gruppo «contestatore» si scambiavano segni di «vittoria» mentre si alternavano negli interventi iniziali; e d’altra parte io e le altre «Lucie» abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà da persone sconcertate da certi comportamenti e interessate al nostro modo di porre le questioni.

Tuttavia, si trattava non di vincere o di perdere, ma di mettere in movimento uno scenario che, a dispetto dei toni infiammati, è in stallo. Se avessi voluto «vincere» avrei smascherato fin dall’inizio l’inconsistenza degli argomenti «anti-gender», perché li conosco piuttosto bene. Ma visto che nella lettera se ne contestava l’attendibilità, tutto mi sarei immaginata tranne che venissero riproposti tali e quali come se niente fosse.

«Loro» non sono «noi». Non è piacevole sentirsi apostrofate come «ingenue disinformate» e «prive di senso critico» (forse avremmo dovuto sciorinare i nostri curricula, che proprio insignificanti non sono?); né è stato edificante vedere come chi si vanta di manifestare in silenzio contro i decreti Scalfarotto e Cirinnà abbia invece riversato rabbia e aggressività in una riunione ecclesiale, senza – mi pare – essere provocati in alcun modo. Ma il vero problema, a mio parere, è che tutto questo ha impedito al resto dei presenti di parlare con calma per capire che cosa, in tutto ciò che è stato messo nel calderone «gender», può essere positivo e che cosa invece suscita perplessità e perché, e magari elaborare una scaletta di temi per futuri dibattiti.

Nelle settimane successive, quando mi sono trovata a parlare di genere in altre città, si è più di una volta verificata una situazione analoga: qualunque fosse la prospettiva specifica su cui si stava lavorando, diverse erano le mani alzate e gli interventi che invece di portare un contributo sul merito – anche dissonante, questo è normale – ripetevano le stesse frasi, le stesse citazioni prive di fondamento (siamo arrivati a: «la teoria gender è una cosa che c’entra con la chimica, perché c’è una legge in Inghilterra che obbliga a dare ai bambini delle sostanze per bloccare lo sviluppo così poi loro possono scegliere di essere del sesso che vogliono; lo so perché l’ho sentito in una conferenza dell’avvocato XY»). Allora, di nuovo, diverse mezz’ore sottratte al lavoro previsto per dimostrare che non è così, mostrare le prove, riportare le questioni nel loro ambito proprio.

Soprattutto, ogni volta, ho come l’impressione che ci siano alcuni buchi neri che risucchiano le competenze culturali e professionali delle persone – credo sinceramente – cattoliche, e ciò mi interroga ulteriormente. Il principale di questi «buchi neri» mi pare si spalanchi ogni volta si mette in discussione la «naturale differenza fra uomini e donne». Si reagisce con veemenza perfino di fronte all’idea che a scuola qualcuno dica che una bambina da grande potrà guidare un camion o che un papà stirerà. Eppure lo sappiamo tutti che le donne i camion li guidano (e fanno molto altro) e i papà stirano. Se questa è considerata una deriva anti-cristiana e anti-umana, credo che sarebbe il caso di dirlo chiaramente, e di spiegarne i motivi, e ragionarci insieme. Se il problema invece fosse altro, va nominato per quello che è.

Un altro buco nero riguarda la violenza di genere. C’è chi interviene per dire che anche le donne fanno del male agli uomini, e che quella contro le donne è una violenza come le altre: il problema è che non s’insegna più il rispetto, mentre «a me hanno sempre insegnato che le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Alla luce di quanto ormai sappiamo su questo fenomeno – i dati, gli studi che li analizzano e li interpretano – è difficile attribuire questi interventi a semplice «ignoranza»; a me pare piuttosto una rimozione. E ancora una volta mi sorge la domanda: che cosa, nella nostra fede, porta a questa rimozione?

O forse c’è il timore che ripensare la maschilità indebolisca la «naturale differenza»?

E poi, l’omosessualità: più che un buco nero, un tabù. Certo, «noi» li rispettiamo, ma ho spesso sentito esclamare, anche in contesti molto selezionati, frasi del tipo: «Ah, tutti questi gay che invadono le scuole e vogliono insegnare l’omosessualità». E magari nella stessa sala ci sono persone omosessuali, o genitori di giovani omosessuali. «Loro», semplicemente, non è previsto che siano fra «noi».

L’ultimo buco nero assomiglia piuttosto a un muro di gomma. Per quanto si sollecitino i gruppi sul confronto tra parola di Dio e comprensione del tema sesso-genere, non si riesce ad avere riscontri. Eppure la Bibbia e la storia della Chiesa hanno molto da dire su quanto si cambia, quanto si possa migliorare o anche quanto si possa sbagliare nell’elaborare e prescrivere modelli di maschilità e femminilità. Ma quando si propone di vedere che cosa significa, oggi, la frase «A sua immagine… maschio e femmina li creò», semplicemente si viene ignorate. Mi domando perché.

Rita Torti                   il regno attualità        15 novembre 2015

www.dehoniane.it/control/ilregno/articoloRegno?idArticolo=991489

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SINODO SULLA FAMIGLIA

Discernimento” post/sinodale sulla Comunione ai divorziati e risposati. Secondo S. Ignazio? No! Secondo San Paolo.

Grandi discussioni sull’esito, soprattutto da parte di chi teme che non corrisponda alle proprie attese, che in fondo non erano esattamente attese, ma solo rinnovate conferme senza alcun dubbio e senza alcuna sfumatura degli esiti del Sinodo del 1980, suggellati dalla “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II. E’ noto che i temi di fondo sull’argomento matrimonio, famiglia, sessualità e dintorni sono parecchi, ma quello principale emerso dalla discussione effettiva delle due sessioni riguarda la possibilità della ammissione alla Comunione Eucaristica per i divorziati e risposati. In vista di questo esito la chiave del problema pare l’affermazione o il rifiuto della necessità del “discernimento”, e quindi della conoscenza precisa delle condizioni di coppia, della storia pregressa e di tutto ciò che costituisce la situazione dei richiedenti di fronte alla realtà pastorale ed alla

disciplina della Chiesa, e ancora più in profondità di fronte alla Parola di Dio, e quindi alla sostanza della fede cattolica.

L’argomento forte dei cosiddetti “conservatori”, che si scandalizzano appena qualcuno ipotizza qualche “novità” in materia, è il ricorso prima all’accusa di infedeltà alla “dottrina”, data per certa e univoca per 2000 anni, quindi contraria alle loro opinioni, il cui esito dovrebbe essere sempre e comunque una negazione della possibilità, o poi in extremis alla concessione generosa del “permesso”, ma a condizione del pentimento per aver infranto un sacramento – anche nel caso di

soggetti abbandonati senza colpa alcuna – e la promessa formale di una futura vita “tamquam frater et soror”, che implica la concessione della vita comune, “comune casa, comune mensa, comune affetto reciproco”, ma senza “communio thori”, e cioè senza incontro coniugale vero e proprio.ontro coniugale vero e proprio. A parte ogni considerazione del fatto che, in questa prospettiva i due conviventi sarebbero in una situazione stabile di “occasione prossima”, anzi “prossimissima”, di “peccato”, quel peccato di adulterio che sarebbe un venir meno alla realtà di “fratello e sorella”, si potrebbe ricordare che i sacramenti sono fatti per l’uomo, e non l’uomo per i sacramenti. Vale per questi ciò che Gesù stesso ha detto del “sabato”, precetto fondamentale della morale ebraica? Forse potrebbe valere, ma mettiamo da parte questo argomento. Ne segue un no assoluto. Nessuna eccezione? Nessuna!

Nessuna possibilità, e anzi minaccia esplicita di “scisma” possibile e quasi necessario, anche a firma di illustri uomini di Chiesa, “suppliche filiali” apparentemente devotissime, “libelli” che chiedono le dimissioni del successore di Pietro già ora, e soprattutto nel caso in cui Papa Francesco assumesse una posizione comunque diversa, invocando una “misericordia” che non può, per loro, essere senza limiti, e i cui limiti vogliono essi stessi stabilire andando a ripescarli in documenti del passato unicamente indirizzati alla visione statica e esclusiva della teologia morale tradizionale, almeno in Occidente.

Tutto chiaro? Sì, ma con una non piccola obiezione: ci si dimentica che nella storia bimillenaria della Chiesa per secoli non c’è stata una forma unica della disciplina del matrimonio cristiano, e questo ha comportato varie forme anche in tema di Comunione ai peccatori riconosciuti come tali: non solo diniego, ma concessione a certe condizioni. Nel merito del matrimonio è p. es. noto che in certi casi un secondo matrimonio è stato concesso dalle Chiese orientali fino ad oggi, e quindi sarebbe difficile sostenere il “quod ubique, quod semper, quod ab omnibus”. E’ un fatto accertato, e documentato anche da illustri studi storico-teologici: ancora oggi le Chiese dei fratelli d’Oriente su questo punto hanno una disciplina diversa, come la hanno anche in merito ad altri argomenti di morale, in particolare di morale famigliare e sessualità.

Resta però evidente che l’argomento forte di quelli che qui chiamerò “conservatori” – pur senza dare al termine un significato sospetto o di rifiuto – è tratto dalle parole di Gesù con cui viene detto che uno che lascia la sua sposa e si unisce a un’altra donna è adultero (Mt. 19, 8 e Mc 10, 12) In questo testo resta tuttavia agitata la questione del “mè epì porneìas” (“salvo il caso di concubinato”? O altro significato trovato in decenni di ricerche) che ha giustificato spesso la diversa disciplina orientale, rifiutata dalla teologia morale cattolica. Niente da fare! I difensori ecclesiastici e laici più o meno “devoti” del “no” assoluto si riferiscono sempre e univocamente a questo testo evangelico, e di recente sul “Foglio” (14/10, pp. 1 e 5) si leggeva che questo divieto è “il precetto dei precetti contenuto nel Vangelo”! Una gerarchia dei precetti ad uso polemico proprio: è libertà, ma forse il precetto di tutti i precetti può pensarsi anche un altro, e lo si trova sulla stessa bocca di Gesù, interrogato precisamente su questo, e lui nel caso non parla di matrimonio, né di adulterio.

In realtà forse non si è preso in considerazione, e la cosa stupisce davvero, l’unico testo del Nuovo Testamento sulle condizioni necessarie per accedere alla Comunione eucaristica. E’ un passo esplicito di San Paolo. Eccolo, dalla prima Lettera ai Corinzi (11, 23-29): “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice, perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.”

Cosa chiede San Paolo ai suoi di Corinto, in questo testo che appare l’unico precisamente riguardante la questione delle condizioni di accesso alla Comunione eucaristica? L’espressione è “probet autem seipsum homo” (Ogni uomo esamini se stesso)! Il verbo greco usato nell’originale è “dokimàzo” nel suo imperativo presente, e indica l’esame di se stesso, dunque un vero e proprio “discernimento” di coscienza. Non sembri una novità inaudita. Anche nelle condizioni per riconoscere la gravità di un peccato, di ogni peccato, si richiede “piena avvertenza e deliberato consenso”: è Catechismo di sempre, anche

di quello di San Pio X, tanto strumentalizzato da alcuni, anche illustri, e da tanto tempo. E qui c’è qualcosa di più preciso, e direttamente in materia. Parola biblica! Con essa dovrebbero fare i conti coloro che pensano che il discernimento” e il “foro interno” del quale alla conclusione del Sinodo si è parlato come possibile punto di arrivo responsabile ed equilibrato sia invenzione dei gesuiti moderni che equivocano su Sant’Ignazio, e dei teologi tedeschi alla Kasper e simili, che dopo aver combinato mezzo secolo orsono “il guaio” del Vaticano II ora vogliono distruggere anche la morale cattolica. Esaminare con onesta coscienza, insieme ai “pastori” del Popolo di Dio che è la Chiesa, e di lì partire per risolvere un problema come quello preso qui in considerazione, dunque, non è una concessione mondana allo “spirito del tempo”, alla moda progressista e lassista, alla comodità dei peccatori che vogliono un chiavistello per introdursi a forza nel recinto della casa di Dio. Sia detto con buona pace di cardinali – parecchi e illustri – e di teologi di scuola non solo tradizionale, ma tradizionalista anche in questo campo: il Sinodo ha lasciato aperto un problema, e la disposizione di un buon uomo di Chiesa, buon teologo, o anche semplicemente buon fedele laico che pensa e ama la Chiesa, con Pietro che oggi si chiama Francesco, può essere tranquillamente quella dell’attesa e della speranza. L’ultima parola spetta a Pietro.

Gianni Gennari          Vatican Insider                      18 dicembre 2015

/www.lastampa.it/2015/12/18/vaticaninsider/ita/commenti/discernimento-postsinodale-sulla-comunione-ai-divorziati-e-risposati-secondo-santignazio-no-secondo-san-paolo-IU5jmqp2EgWRON6vbCHhIM/pagina.html

 

“Individua coniunctio”: matrimonio autorevole e individuo libero.

Pubblico uno stralcio (solo i prime tre paragrafi) della relazione da me tenuta a settembre, a Roma, in occasione di un Simposio organizzato dalla Associazione INTAMS “Individua coniunctio” – Che cosa significa il matrimonio indissolubile nell’età della libertà individuale?

Cum igitur instinctus naturalis sit in specie humana ad hoc quod coniunctio maris et feminae sit individua, et quod sit una unius, oportuit hoc lege humana ordinatum esseS. Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, III, 123, 7

“Ubi gratia largenda est, Christus adest; ubi exercenda severitas, soli adsunt ministri, deest Jesus” Ambrogio, De Abraham, I, 6, 50

Il titolo della mia relazione vuol mettere in luce “la” questione che risulta sottesa al dibattito in corso: ossia il conflitto – che ritengo non insuperabile – tra due letture della “identità umana” e del suo rapporto con il Vangelo che appartengono a due epoche e a due concezioni diverse della cultura cristiana. Il Vangelo può essere tradotto nella prima o nella seconda. Il principio di autorità (“individua coniunctio”), tipico della società tradizionale e “chiusa”, si confronta con il principio di libertà (“individua libertas”), che caratterizza la società tardo-moderna e “aperta”. Mi sono convinto che la pretesa di ricondurre direttamente al Vangelo la dottrina del matrimonio rischia continuamente di confondere una legittima (ma variabile) esigenza sociale e culturale con la verità incontrovertibile della Parola di Dio, risultando così incapace di mediare la “differenza culturale” necessaria per un accesso non fondamentalistico al Vangelo e alla esperienza degli uomini.

Che la “coniunctio” matrimoniale sia “individua” è una esperienza culturale tanto antica quanto l’uomo. La tutela del “coniuge” e quella dei “terzi” (figli) è una evidenza sociale e culturale innegabile, anche oggi e nonostante tutto. Ciò che nella storia è mutato è il modo con cui questa esigenza viene tutelata dalle istituzioni. Su questo piano deve essere interpretata la novità tardomoderna di una “legislazione” che si prende cura delle nuove forme di “famiglie allargate”, nelle quali viene superata la indissolubilità assoluta, introducendo un principio formale – e paritario – di dissolubilità relativa. Ciò che non si poteva sciogliere, per una giustificata istanza meta-individuale, ora può essere sciolto, ad istanza dell’individuo, anche se non senza condizioni determinate e vincolanti. “Individuo” diventa, ora, il predicato anzitutto del singolo e non della comunione

matrimoniale. Questo passaggio culturale non può essere giudicato in modo unilaterale. L’autorità del matrimonio si confronta oggi con l’autorità della coscienza, della libertà e della autodeterminazione del singolo nonché con la storia di queste delicate relazioni: nuovi equilibri sorgono, senza che l’istanza “comunitaria” venga semplicemente cancellata a favore della istanza “individuale”. Questo fenomeno comporta un lento lavoro di risignificazione teologica del matrimonio, nel quale occorre distinguere bene i livelli della esperienza, della pratica e della teoria. Anche in teologia, a partire dalla tarda modernità, non si dà in alcun caso un “sapere senza soggetto”. Ogni illusione, in questo ambito, è sempre controproducente. Ciò che mi accingo a fare è proprio un lavoro di distinzione e di discernimento, utile per non sbagliare la direzione del domandare e quella del rispondere intorno alla qualifica “indissolubile” del matrimonio. Mi interrogherò sul “significato” del termine (§.1), sulla sua recezione classica e tardo-moderna (§.2), per focalizzare poi il rilievo che Dignitatis Humanae ha avuto nella storia recente di tale recezione (§.3). A ciò farò seguire un rapido quadro del dibattito attuale sul tema (§.4), formulando poi alcune “tesi fondamentali” per un ripensamento (§.5), indicando le principali prospettive di soluzione effettiva ed efficace dell’impasse attuale (§.6) e concludere con la formulazione di una ipotesi di ripensamento sistematico e disciplinare della “individua coniunctio” (§.7).

1. A quale livello parliamo di “indissolubilità”? La storia della parola – dell’aggettivo “indissolubilis” o “individuus”o “indivisibilis” applicato al matrimonio – risale in origine ad Agostino, ma è stata sviluppata soprattutto dalla riflessione giuridica e sistematica della scolastica. Essa non dipende però, direttamente, dalla “storia religiosa” o dalla “tradizione teologica cristiana” in senso stretto. Uno specchio sufficientemente lucido di questa situazione si trova nel pensiero di S. Tommaso d’Aquino. Potremmo così sintetizzare le acquisizioni più sorprendenti di un suo grande testo della ScG (III, 123): nel contesto tradizionale, la “giustificazione” della indissolubilità è antropologica, prima che teologica. Ciò ha indotto la tradizione, progressivamente, a proporre un concetto “fisico” e “ontologico” di indissolubilità, la cui evidenza anticipa e quasi spiazza il Vangelo, che sarebbe solo la ribattitura di una evidenza maturata su un terreno filosofico-antropologico, sottratto alla storia, alla tradizione e alla cultura. “Elevare il matrimonio a sacramento” è la espressione riferita a Cristo che spesso viene ripetuta, non di rado senza vera comprensione, della “differenza” che tale sacramento manifesta nel quadro della esperienza cristiana. Ciò dipende, probabilmente, dalla competenza giuridica esclusiva che la Chiesa cattolica ha avuto sulla materia matrimoniale fino al 1804 e che molto ha pesato sul modo di pensare e di disciplinare il tema.

In altri termini, dovremmo riconoscere che il modello medievale di comprensione del matrimonio indissolubile, passando per la “forma canonica” tridentina, è giunto fino alla codificazione del 1917: in questa vicenda possiamo scoprire un progressivo irrigidimento del paradigma “oggettivante”, che, muovendo da motivazioni “culturali” e “tradizionali” del tutto pacifiche nel mondo premoderno, sempre più ha assunto e trascritto nel proprio registro esigenze istituzionali e motivi apologetici. Si è quasi potuto identificare, nella “resistenza di una competenza giuridica esclusiva della Chiesa sul matrimonio”, la sopravvivenza di un “potere temporale”, di una “societas perfecta”, di una possibilità di determinare, senza mediazioni, la società e la cultura in “obbedienza” al Vangelo. Tutto questo va considerato come “contesto prossimo” del definirsi della nozione di “indissolubilità”, che, in quanto termine astratto – non più soltanto come “aggettivo” di “coniunctio” o di “vinculum – è una tipica “negazione di negazioni” su cui la Chiesa tardo-moderna si è “arroccata” di fronte alle nuove evidenze culturali dell’epoca liberale: avviene con “indissolubilità” un fenomeno simile a quanto accade con “infallibilità” e con “inerranza”. Su queste “negazioni di negazioni” è stata edificata una barricata contro la corrosione moderna dei costumi e delle coscienze che oggi rende assai difficile attingere alla verità della esperienza dei soggetti e della Parola di Dio. La nostra storia teologica ci impedisce di fare i conti con la realtà: questo “mondo ideale” inquina il nostro rapporto con il reale, cui deve essere riconosciuto il primato.

2. Come abbiamo recepito tale discorso negli ultimi 200 anni? Dalla “opposizione” al moderno al Concilio Vaticano II, fino a Familiaris Consortio. Il Vangelo del matrimonio per antica tradizione riposa e fiorisce, dunque, su evidenze “di convenienza”, che tuttavia nella storia possono mutare. Il mutamento degli ultimi 200 anni è stato strutturale. Se lo guardiamo in prospettiva, osserviamo una serie di svolte molto rilevanti, che riguardano la determinazione del soggetto in relazione alle proprie azioni. La “coscienza”, non più intesa solo come “giudizio”, ma come “abito”, risulta profondamente trasformata da questi mutamenti.

Nello sviluppo storico non possiamo non ammirare la libertà e la forza con cui la Chiesa, lungo i secoli, è intervenuta con la propria dottrina e con la propria disciplina a “regolare”, “governare” e “articolare” la relazione matrimoniale tra uomini e donne. Ed è ovvio come, proprio in materia matrimoniale, la accuratezza e la finezza della intelligenza ecclesiale abbia dovuto tener conto della “complessità dei livelli in gioco”. Vorrei qui ricordare, con grande ammirazione, la lucidità con cui

Tommaso imposta il discorso nella sua “Summa contra Gentiles” a proposito del matrimonio: lo spazio descritto da questo lampo di luce appare assai ricco e finemente articolato. Soprattutto esso ridefinisce a dovere i diversi livelli (naturale, civile, ecclesiale) su cui la “generatio” prende il suo senso e svolge il suo ruolo. Venendo da molti secoli fa, questa descrizione sommaria ci riconcilia con il mondo che abbiamo dinanzi a noi. Soprattutto mostra di quanta “autonomia” godesse il “matrimonio” nella concezione scolastica e quanto difficile sia oggi, soprattutto per alcuni settori del mondo cattolico, ascoltare con libertà questa parola medievale. Se liberiamo la parola medioevale dalle retroproiezioni moderne (tridentine) e tardo-moderne (dal Codex in poi), tale parola può diventare per noi motivo di profezia ecclesiale e principio di nuova lucidità. Essa contiene, in altri termini, una “visione prospettica” della questione matrimoniale che il dibattito teologico dell’ultimo secolo ha quasi totalmente smarrito, rinchiudendosi in evidenze teologiche troppo asettiche e troppo isolate dal sostrato naturale e culturale del sacramento.

Il Concilio Vaticano II, tuttavia, non ha perduto l’occasione di dire una parola autorevole in proposito, che è rimasta tuttavia come implicita e in secondo piano, rispetto ad altri temi portanti della dottrina conciliare. Il “bonum coniugum” è la categoria “intersoggettiva” che appare in GS e che attesta l’inizio ufficiale di un riposizionamento della dottrina matrimoniale secondo una “prospettiva nuova”. E’ lo sguardo che inizia a mutare, per un atto di fedeltà al Vangelo e alla esperienza degli uomini (GS 46). Mutare lo sguardo, nella prospettiva di una valorizzazione “personalistica” del matrimonio, significa mediare in modo diverso la libertà del soggetto e l’autorità del vincolo. Soprattutto significa uscire dalle logiche che oppongono semplicisticamente oggettivo e soggettivo, per accedere a logiche intersoggettive. Questa svolta crea lo spazio, direi lo spazio concettuale ed esperienziale, per tradurre la dottrina della indissolubilità in termini nuovi, creando le condizioni per una disciplina diversa. Lo spunto conciliare, rimasto a lungo quiescente, ha ispirato i due passaggi fondamentali con i quali ci troviamo a fare i conti: il primo, attestato da Familiaris Consortio (1981), è avvenuto con il riconoscimento della “non separazione” dei divorziati risposati dalla Chiesa (§ 84); il secondo, oggi auspicato da papa Francesco, di un annuncio di misericordia effettivo, capace di riconoscere non solo il peccato, ma anche la malattia; non solo una fine, ma anche un inizio; non solo una perdita di comunione, ma anche una possibile nuova esperienza di comunione. Tutto questo, in quanto sviluppo post conciliare, trova certamente in GS 47-52 il suo presupposto primo, come è ovvio. Ma, ancora più radicalmente, poggia sul presupposto di una “scoperta”, a dire il vero assai innovativa, che il Concilio Vaticano II ha realizzato anzitutto nella Dichiarazione Dignitatis Humanae (=DH). L’esame dell’influsso che, a lunga gittata, questo testo ha esercitato sulla teologia e sulla disciplina del matrimonio, merita una analisi più attenta di quanto normalmente non si faccia. In effetti, essendo collocato il sacramento del matrimonio “a cavallo” tra esperienza privata ed esperienza pubblica, esso risente in modo molto più forte del mutamento di prospettiva che – sul piano pubblico – è stato introdotto con la assunzione positiva della “libertà di coscienza” nell’orizzonte della rivelazione cristiana.

3. Nuova autocoscienza del soggetto e nuovo equilibrio tra libertà e autorità: le acquisizioni di “Dignitatis Humanae”. Forse non avevano pensato, i padri conciliari del Concilio Vaticano II, che la accettazione della “società aperta” – che avviene ufficialmente con il testo di DH – avrebbe tanto modificato proprio il sacramento che sta “a cavallo” tra privato e pubblico, istituendo le “forme” della comunione vivibile tra uomo e donna. La storia stessa della collocazione del matrimonio nel “sistema giuridico” – il diritto di famiglia può essere collocato, di volta in volta, nel “diritto privato” o nel “diritto pubblico” – avrebbe potuto facilmente far capire che la accettazione della “libertà di coscienza” – come principio tanto osteggiato dal magistero della Chiesa cattolica per quasi due secoli – avrebbe profondamente inciso su tutte le forme di “comunione visibile”, e anzitutto sul matrimonio-famiglia. La grammatica del matrimonio cristiano è destinata a cambiare profondamente, quando ad ogni soggetto viene riconosciuta, per principio, una relazione originaria con la libertà. Alla donna come all’uomo, al figlio come al padre, al figlio legittimo come al figlio naturale. Questo nuovo orizzonte di “percezione” e di “esperienza” del mondo e dell’uomo – nel quale l’accesso alla libertà è assicurato “per principio” ad ogni soggetto – muta non tanto l’atto del matrimonio, quanto il rapporto di matrimonio. E lo rende, allo stesso tempo, più profondo e più fragile.

Non è questo il luogo adeguato per una analisi accurata del testo della Dichiarazione De libertate, ma possiamo soltanto assumere alcune dimensioni-chiave del testo, per coglierne le conseguenze indirette nella riformulazione della questione familiare e matrimoniale nel nostro tempo e, appunto, all’interno di una “società aperta”. E’ invece una esperienza piuttosto amara costatare che una non piccola parte della teologia cattolica del matrimonio sembra oggi volere – e quasi dovere –retrodatare il calendario civile e politico di almeno duecento anni, per poter dire qualcosa di significativo per gli uomini e le donne di buona volontà. I due dati fondamentali della Dichiarazione De libertate sono:

  1. la accettazione che non si è liberi perché si è nel vero, ma che la libertà è condizione della verità;
  2. che questo assunto è non solo “tollerato”, ma teologicamente e antropologicamente fondato, oltre che giuridicamente da tutelare.

Questo rapporto tra libertà e verità, che subisce un approfondimento tanto solenne e così vistosamente differente dal passato, costringe ben presto a una profonda revisione di tutte le esperienze e di tutte le istituzioni “comunitarie”. Esso ridefinisce, in qualche modo, le “forme della comunione vissuta”. In primis, questo vale per il matrimonio, anche se immediatamente era parso che lo Stato e la città (e la Chiesa) fossero i “luoghi” più tipici di esercizio della libertà. Vi è dunque

un impatto serio e sapiente di DH sulla teologia del matrimonio e sul modo di pensare il vincolo “indissolubile” che lo costituisce.

Andrea Grillo in “Come se non” – 19 dicembre 2015         www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non

note        www.cittadellaeditrice.com/munera/individua-coniunctio-matrimonio-autorevole-e-individuo-libero/

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UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Congresso nazionale 2016 ad Oristano.

Il prossimo congresso insieme all’assemblea si terrà in Sardegna, a Oristano, da venerdì 2 a domenica 4 settembre 2016.

Sono invitati gli operatori dei consultori familiari pubblici e del privato sociale e quanti si interessano della famiglia e dei servizi a lei dedicati.

Il congresso tratterà della “Famiglia crocevia di differenze e il ruolo che il consultorio può assumere sia sotto il profilo gestionale che educativo”.

Entro fine gennaio 2016 sarà reso noto il programma definitivo.

L’assemblea dei consultori Soci dell’Unione si terrà venerdì 2 settembre 2016.

Voglio approfittare di questa occasione per inviare a tutti voi i più cari auguri per un Santo Natale.

Francesco Lanatà, presidente                      14 dicembre 2015

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Convivenze di fatto e unioni civili.

Con delibera adottata il 23 ottobre 2015, resa pubblica il 15 dicembre durante l’incontro su “svoltosi alla Camera dei Deputati, il Consiglio Nazionale Forense -massimo rappresentante istituzionale dell’Avvocatura italiana- ha rappresentato al Parlamento ed al Governo “l’improrogabile e indefettibile necessità di garantire la tutela della vita privata e familiare delle coppie di fatto e delle coppie omosessuali, nel rispetto della Costituzione e dei suoi principi democratici”.

www.consiglionazionaleforense.it/site/home/area-stampa/comunicati-stampa/articolo9408.html

Pur senza farvi espresso riferimento, la delibera sembra guardare al dibattito attualmente in corso sul Ddl AS 2081 (cd. Ddl Cirinnà), recante – appunto – “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, il cui iter riprenderà il 26 gennaio 2016 prossimo con la discussione generale in Aula, al Senato.

Il documento muove da alcune premesse rilevanti, sul piano del metodo e del merito. L’intervento dell’Avvocatura italiana nel dibattito politico, parlamentare e sociale in corso è infatti giustificato – in punto di metodo – sul rilievo secondo cui “il contributo positivo alla promozione e alla tutela dei diritti fondamentali, dell’eguaglianza e della pari dignità sociale è componente essenziale della missione istituzionale dell’Avvocatura, in coerenza con la sua funzione istituzionale e la sua responsabilità sociale”.

La delibera passa poi ad elencare alcuni profili di merito, dalle quali discende la necessità di una presa di posizione. Anzitutto, il rilievo centrale assunto – nel nostro sistema costituzionale – dalla centralità della persona umana, della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili tra cui rientra “quello di esprimere la propria identità ed il proprio orientamento sessuale e di realizzare compiutamente ed in conformità ad essi le scelte inerenti alla vita privata, come quelle relative alla costruzione di una famiglia”: il principio del libero svolgimento della personalità si salda, poi, con il principio di eguaglianza, il quale – imponendo di evitare ogni trattamento discriminatorio – garantisce “alle diverse forme dell’affettività umana pari dignità sociale”. Tali riferimenti sono corroborati, più avanti nel testo, dal richiamo ai conformi orientamenti del diritto dell’Unione europea e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con riferimento specifico al riconoscimento delle unioni omosessuali, la delibera del CNF si mantiene su una posizione allineata a quella espressa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 138/2010, richiamandone il passaggio relativo alla qualificazione della coppia omosessuale in termini di formazione sociale protetta dall’art. 2 e, soprattutto, il ruolo centrale del legislatore cui resta affidata, nell’esercizio della propria discrezionalità, la scelta in merito alla forma del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali.

Tra considerazione del quadro costituzionale e sovranazionale, e rispetto della discrezionalità del legislatore, il Consiglio Nazionale Forense esprime una posizione chiara in ordine alla necessità “improrogabile e indefettibile” di provvedere a dotare l’Italia di uno “strumento giuridico adeguato per il riconoscimento di tutte le unioni che costituiscono realizzazione del diritto inviolabile dell’uomo di essere garantito nell’espressione della propria affettività”, specificando simile istanza nella garanzia della “tutela della vita familiare” di tutte le unioni

Articolo 29     19 dicembre 2015

www.articolo29.it/2015/avvocatura-e-tutela-delle-coppie-omosessuali-la-delibera-del-consiglio-nazionale-forense/

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VIOLENZA

                        Atti sessuali con minorenne, no attenuante se lei rimane incinta.

Corte di Cassazione, terza Sezione penale, sentenza n. 49572, 16 dicembre 2015.

Fare sesso con una ragazza minore di età, anche se consenziente, esclude qualsiasi sconto di pena se c’è una gravidanza. Fare sesso con una minorenne consenziente costituisce sempre reato, anche se, proprio per via della volontà della vittima, è prevista un’attenuante: la pena, infatti, viene diminuita di ben due terzi [Art. 609 cod. pen. co. 3]. Tale attenuante (cosiddetta “della minore gravità”) scatta tutte le volte in cui risulti che l’atto sessuale, con riferimento ai mezzi, alle modalità, alle circostanze dell’azione, non abbia compromesso o coartato (o comunque lo abbia fatto in modo assai blando) la libertà personale o sessuale della vittima. Come dire che bisogna investigare il grado di partecipazione di questa all’atto, la sua volontà e la consapevolezza, anche in base al grado di maturazione raggiunto.

            Tuttavia, con una sentenza pubblicata ieri , la Suprema Corte ha chiarito che tale sconto di pena non si applica più se la minorenne rimane incinta: la gravidanza, insomma, esclude l’attenuante della “minore gravità”. E ciò per via dell’innegabile danno al normale sviluppo psico-fisico che provoca alla vittima lo scoprire di aspettare un figlio. È necessario, infatti, ricordare che, nel determinare la pena, il giudice penale deve tener conto della gravità del reato, in base anche all’entità del danno cagionato alla persona offesa [Art. 133 cod. pen.].

In caso di atti sessuali con minore di 14 anni – si legge in sentenza – il consenso della vittima (nel nostro caso la ragazza), sebbene in astratto non del tutto trascurabile ove congiunto alla obiettiva minima intrusività delle condotte poste in essere, assume una rilevanza assolutamente marginale ai fini del riconoscimento dell’attenuante. Ciò che rileva è la necessità di valutare il fatto alla luce di tutte le componenti nonché degli elementi indicati dal codice penale. E fra di essi, come detto, vi è certamente la gravità del danno cagionato. Per cui, prosegue la sentenza, “non v’è dubbio che l’aver provocato lo stato di gravidanza di una minore non ancora dodicenne determina un danno oggettivo al normale sviluppo psico-fisico”.

            Secondo poi la Cassazione, un altro motivo per escludere l’attenuante è la reiterazione dei rapporti sessuali.

Redazione LPT           17 dicembre 2015

www.laleggepertutti.it/106725_atti-sessuali-con-minorenne-no-attenuante-se-lei-rimane-incinta

Nel caso di specie, atteso l’innegabile danno psico fisico alla vita della minore, costretta ad una gravidanza all’età di neppure dodici anni, non è stata riconosciuta al ricorrente l’attenuante ex art 609 quater terzo comma c.p., attesa anche la condotta assolutamente priva di senso di responsabilità dello stesso imputato.

sentenza     http://www.osservatoriofamiglia.it/contenuti/17506030/Atti-sessuali-con-minorenne-infradodicenne-e-conseguente-gravidanza–Negato-rico.html

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Le comunichiamo che i suoi dati personali sono trattati per le finalità connesse alle attività di comunicazione di newsUCIPEM. I trattamenti sono effettuati manualmente e/o attraverso strumenti automatizzati. Il titolare dei trattamenti è Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali Onlus- UCIPEM ONLUS – 20135 Milano-via S. Lattuada, 14.

Il responsabile dei trattamenti è il dr Giancarlo Marcone, via Favero 3-10015-Ivrea

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