UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
newsUCIPEM n. 575 –6 dicembre 2015
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ADDEBITO Separazione per uno schiaffo: scatta l’addebito?
ADOZIONE INTERNAZIONALE Il nuovo percorso di formazione di Ai.Bi.
ADOZIONI INTERNAZIONALI Bielorussia. Renzi firma la lettera: in Italia 150 bambini adottati.
Ucraina. A Odessa si va verso la chiusura degli istituti.
AFFIDO Continuità affettiva dei minori.
AFFIDO CONDIVISO Va condannato il padre che non sta con i figli nel weekend.
ANONIMATO Diritto all’oblio della partoriente.
ASSEGNO DI MANTENIMENTO Quanto pesa su mantenimento una nuova famiglia o convivenza?
Lui convive con nuova compagna? Minimo, ma dovuto all’ex.
Doppio reato per il padre che non paga l’assegno all’ex e al figlio.
No al rimborso se questo viene ridotto o escluso.
Divorzio: quanto pesa una nuova famiglia o convivenza?
CHIESA CATTOLICA La piramide capovolta.
Il linguaggio dell’amore.
Le difficoltà dei cardinali Pell, Burke e Sarah.
CHIESE EVANGELICHE La piramide capovolta. Il Sinodo cattolico, un kairòs ecumenico.
COMUNITÀ AFFIDATARIE “La Tutela dei minorenni in comunità”, la prima raccolta dati.
CONSULTORI Familiari UCIPEM Faenza. Collaborazione con il Centro per la Pastorale familiare.
Senigallia. Incontri sul ciclo della fertilità femminile.
Treviso. Pubblicata la carta del servizio.
DALLA NAVATA 2° domenica d’avvento – anno C – 6 dicembre 2015.
DENATALITÀ Il punto + basso dal 1861. Se si fosse creduto nell’adoz. internaz.
FORUM ASS.ni FAMILIARI Un Forum della famiglia all’attacco e senza paura di confrontarsi
FRANCESCO vescovo DI ROMA Conferenza stampa nel volo dalla repubblica centrafricana.
Il Papa: riaffermare ruolo donna nella famiglia e nel lavoro.
La famiglia negli insegnamenti di Papa Francesco.
GENETICA Il test prenatale servirà anche contro i tumori.
MATRIMONIO Prima mamme e poi spose. Il dato su nascite e matrimoni in Italia.
OMOFILIA L’omosessualità spiegata senza Freud.
PARLAMENTO Camera Assemblea Question time. Utilizzo del fondo per i consultori familiari.
Senato 1° Comm. Disposizioni in materia di cittadinanza
SCIENZA&VITA Fronte laico contro l’utero in affitto? Era ora!
Femministe contro l’utero in affitto “Non è un diritto”.
SEPARAZIONI Emergenza separazioni: sempre più i figli plagiati.
«Una legge diventerebbe un’arma a doppio taglio».
SESSUOLOGIA Nessuna differenza tra uomini e donne: il cervello è unisex.
Le teorie gender, la coppia umana e il dono della differenza.
Ma sesso e gender non sono nemici. Piana.
SINODO DELLA FAMIGLIA Commento alla Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi.
Metafore e realtà del Sinodo Matrimonio e società aperta
SPIGOLATURE Il vero amore non è né fisico né romantico. Kahlil Gibran
UNIONI CIVILI Unioni civili, legge da bocciare.
Unioni gay, dialogo vero con tutti e un limite di civiltà.5
VIOLENZA Moglie maltrattata e mortificata: reato anche dopo tanto tempo.
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ADDEBITO
Separazione per uno schiaffo: scatta l’addebito?
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 24473, 2 dicembre 2015.
Uno schiaffo è, di certo, un gesto riprovevole sia quando provenga dal marito che dalla moglie: ma se, nella causa di separazione tra i coniugi, tale gesto viene addotto come motivo per ottenere, nei confronti dell’ex, la dichiarazione di responsabilità (cosiddetto addebito), allora il coniuge deve anche dimostrare che è stato proprio lo schiaffo a generare la rottura insanabile della coppia. Diversamente, quando la manata è solo la conseguenza di un’unione ormai totalmente sgretolatasi essa non avrà alcuna influenza sulla sentenza finale del giudice. Non solo. Se la moglie risulta in grado di mantenersi con un reddito equivalente a quello del marito, non ha neanche diritto all’assegno di mantenimento.
A dirlo è stata poche ore fa la Cassazione con un’ordinanza che ha accolto il ricorso di un uomo, reo di aver dato uno schiaffo alla moglie quando ormai i rapporti tra i due erano al collasso. Non può essere addebitata la separazione al marito per lo schiaffo alla moglie se non c’è un legame tra il comportamento violento e l’intollerabilità della convivenza, hanno scritto i Supremi giudici. Per i quali tale gesto violento è sicuramente di un comportamento riprovevole che costituisce violazione degli obblighi matrimoniali, ma affinché possa generare l’addebito deve anche essere causa dell’intollerabilità della convivenza.
È inutile, quindi, che la donna si dia da fare per dimostrare, in giudizio, il comportamento del marito, variamente ripetuto, offensivo e riprovevole nei suoi confronti. Quello che è più importante è piuttosto la prova che, prima dello schiaffo i rapporti erano ancora “umani” e c’era possibilità di un’ancora di salvezza, mentre proprio dopo tale gesto ogni possibilità di riconciliazione si è definitivamente spezzata.
La sentenza
Raffaella Mari LPT 2 dicembre 2015-
http://www.laleggepertutti.it/105770_separazione-per-uno-schiaffo-scatta-laddebito
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ADOZIONE INTERNAZIONALE
Il nuovo percorso di formazione di Ai.Bi.
Adozione internazionale con Ai.Bi. Il nuovo percorso di formazione è un accompagnamento all’incontro con il proprio figlio: tempi più brevi e costi interamente deducibili. È una vera e propria rivoluzione quella che Amici dei Bambini ha avviato il 1° dicembre 2015 nelle modalità di formazione delle coppie interessate all’adozione internazionale. Si è aperta infatti una nuova era per l’accompagnamento degli aspiranti genitori adottivi: un’era all’insegna di tempi più brevi, un percorso interamente deducibile e soprattutto uno strutturato e professionale accompagnamento offerto alle coppie. Queste, dunque, sono caratteristiche del nuovo percorso di approfondimento per l’adozione internazionale ideato da Ai.Bi.
La differenza sostanziale rispetto al passato sta nel fatto che la formazione inizierà dopo il conferimento incarico e non più prima. Come primo passaggio dell’iter di accompagnamento all’incontro con il proprio figlio adottivo, le coppie in possesso del decreto di idoneità o che abbiano almeno terminato il percorso con i servizi sociali potranno frequentare un momento informativo molto approfondito nelle varie sedi Ai.Bi. distribuite su tutto il territorio italiano.
Dopo questo passaggio preliminare, gli aspiranti genitori potranno consegnare ad Ai.Bi. tutta la documentazione, in modo che venga effettuata una prima valutazione rispetto al loro progetto adottivo. In base a specifici parametri – dall’età della coppia alla disponibilità dei Paesi di origine dei minori – si potrà verificare la possibilità per gli aspiranti genitori di adottare con Amici dei Bambini, e, per chi vorrà, verrà fissato un colloquio individuale al fine di individuare il possibile progetto adottivo. A questo punto la coppia potrà decidere di conferire il mandato ad Ai.Bi. E fino a qui sarà tutto gratuito!
A partire da questo momento inizierà il vero percorso di accompagnamento. Si comincerà con un week end maturativo di un giorno e mezzo, in cui si cercherà di individuare il Paese al quale rivolgere la disponibilità della coppia. All’incontro maturativo seguirà un colloquio individualizzato, specifico per la coppia.
Per proseguire poi con altri 4 incontri formativi sui temi più sensibili dell’adozione internazionale: il primo incentrato sui bisogni sanitari dei bambini adottabili, il secondo relativo alle situazioni di abusi e maltrattamenti sui minori, il terzo dedicato ai bambini più grandi e alle fratrie, per concludere con un quarto sul Paese di destinazione. I quattro incontri non saranno concentrati, ma distribuiti lungo il tempo dell’attesa. Per un totale di ben 28 ore di accompagnamento all’incontro con il proprio figlio!
Iniziando dopo il conferimento dell’incarico, il vero e proprio percorso formativo con Ai.Bi. fa interamente parte dell’iter adottivo. Di conseguenza, le relative spese sono deducibili dal reddito complessivo per un ammontare pari al 50%, come previsto dalla risoluzione numero 77 del 28 maggio 2004 dell’Agenzia delle Entrate. In essa si afferma, infatti, che le famiglie che adottano un minore straniero possono fruire della deduzione dal reddito complessivo del 50% delle spese sostenute per la procedura di adozione internazionale, purché certificate e documentate dall’ente a cui ci si è affidati.
Ai. B i. 04 dicembre 2015
www.aibi.it/ita/adozione-internazionale-con-ai-bi-il-nuovo-percorso-di-formazione-e-un-accompagnamento-allincontro-con-il-proprio-figlio-tempi-piu-brevi-e-costi-interamente-deducibili
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Bielorussia. Renzi firma la lettera che porterà in Italia 150 bambini adottati
La firma tanto attesa è arrivata. Anche se non è quella che ci si sarebbe aspettati all’inizio di questa lunga vicenda. Dopo mesi e mesi, la lettera di garanzia richiesta dalla Bielorussia alle istituzioni italiane per dare il via libera al completamento delle procedure di adozione internazionale di 150 bambini è finalmente stata siglata e inviata. A firmarla però è stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, in quanto presidente della Commissione Adozioni Internazionali, e non la vicepresidente della stessa Cai a cui proprio il premier ha delegato le funzioni presidenziali.
Una firma, quella di Renzi, arrivata dopo settimane di mediazione e interessamento alla questione da parte dei funzionari del ministero degli Affari Esteri e della Presidenza della Repubblica. Decisivo forse è stato un tweet di Maurizio Faggioni, presidente di Bambini di Chernobyl Onlus, uno degli enti autorizzati che seguono una parte consistente delle famiglie coinvolte in questa vicenda: giovedì 26 novembre 2015, infatti, Faggioni ha scritto a Renzi pregandolo di firmare la fatidica lettera, ricordandogli che, negli istituti bielorussi, ci sono 150 bambini adottati da coppie italiane che attendono disperati di poter finalmente abbracciare i loro genitori. Nella mattinata di domenica 29 arriva la comunicazione da parte dell’ambasciatrice del Quirinale Emanuela D’Alessandro in cui si annuncia l’avvenuta firma della lettera. Missiva che lunedì 30 novembre risulterebbe inviata – a quanto riferisce lo stesso Faggioni -, tramite la Farnesina, all’ambasciatore italiano a Minsk e al suo collega bielorusso a Roma. Insomma, si intravede la felice conclusione di una vicenda che si è protratta fin troppo a lungo, con continui blocchi e ritardi causati unicamente dalle istituzioni italiane. Basti l’esempio proprio di questa firma: una semplice formalità per una lettera che la Bielorussia richiede all’Italia a garanzia del fatto che i minori bielorussi accolti nel nostro Paese vengano trattati nel pieno rispetto dei loro diritti.
Proprio per evitare che in futuro si ripeta uno stallo simile a quello appena risolto, Faggioni ha proposto già da tempo di “standardizzare” la lettera di garanzia. “Si tratterebbe di renderla un automatismo – spiega il presidente di Bambini di Chernobyl Onlus – da attuare, da parte delle autorità italiane, ogni volta che la Bielorussia invia in Italia la lista con i nominativi dei bambini adottabili”. Questa la proposta che lo stesso Faggioni porterà all’incontro con la Presidenza del Consiglio da cui è stato convocato per giovedì 3 dicembre.
Ripercorrendo i fatti, il 19 maggio le autorità italiane inviano a Minsk la richiesta di adottabilità dei minori bielorussi. Dall’Est Europa la risposta, con i nomi dei minori adottabili, arriva il 22 luglio. Il 3 agosto la Cai augura “buon lavoro” agli enti interessati. Ma la possibilità di procedere con le adozioni in realtà ancora non c’è. Faggioni lo scopre direttamente in Bielorussia dove si reca per il disbrigo di alcune pratiche burocratiche. Ne nasce un botta e risposta tra il suo ente e la Cai. “Dal 15 settembre la Commissione ha mantenuto nei confronti della vicenda un silenzio assoluto – ricorda Faggioni – che, a mio avviso, non è altro che un’ammissione di colpa. Di fronte alle nostre richieste di informazioni, la Cai ci ha tacciato di diffondere ‘notizie fantasiosi e infondate’ che creano ‘ingiustificato allarmismo’ tra le famiglie. In merito a questa vicenda, il mio ente presenterà una querela chiedendo alla Cai una rettifica”. Da settembre a inizio novembre sono le stesse famiglie coinvolte a prendere la parola, scrivendo direttamente al premier e al capo dello Stato. Il 9 novembre, con la mediazione del Quirinale e della Farnesina, la lettera arriva sulla scrivania di Renzi. A fine mese, finalmente, giunge anche la firma che dà il via libera all’arrivo dei bambini bielorussi in Italia. “Tutto dovrebbe completarsi entro fine gennaio”, annuncia Faggioni, che, insieme a tutte le famiglie e ai bambini in attesa, vede finalmente la luce in fondo al tunnel.
Ai. Bi. 30 novembre 2015
Ucraina. Nella regione di Odessa si va verso la chiusura degli istituti.
Nella regione ucraina di Odessa l’era degli istituti sta per finire. A fine novembre la governatrice Maruya Gaydar, a nome dell’amministrazione regionale, ha firmato un accordo di collaborazione con l’organizzazione non governativa internazionale “Hope & Homes for children” che condurrà alla riforma del sistema di tutela sociale dei minori. Questo verrà progressivamente uniformato agli standard europei, anche attraverso la chiusura di quasi tutti gli istituti. Attualmente nella regione di Odessa ci sono circa 6mila minori che vivono negli istituti e per i quali la riforma prevede il collocamento presso famiglie accoglienti o case famiglia oppure il reinserimento nella famiglia di origine. “Il 50% della popolazione locale – fa notare la funzionaria del Servizio regionale per i minori, Alla Kiriyat – crede che gli istituti siano un bene, ma in realtà questi non sono neppure paragonabili con la realtà familiare”.
Mantenere in vita gli istituti non è neppure utile dal punto di vista economico: la maggior parte del finanziamento, infatti, viene destinato alla gestione della struttura e non alla cura dei bambini e degli adolescenti che vi sono collocati. Si prevede che la riforma verrà attuata nell’arco di alcuni anni. Nei primi 6 mesi, gli specialisti saranno chiamati ad analizzare la realtà degli istituti e le condizioni di vita dei bambini che vi risiedono, condurranno ricerche presso le famiglie della regione e svilupperanno i servizi sociali ad hoc per i casi specifici. Qualora, per esempio, un bambino si trovi in istituto perché necessita di un particolare servizio medico, nell’ambito della riforma le autorità cercheranno di garantire tali servizi nel luogo in cui vive la famiglia del minore.
In ogni caso, la prima opzione che gli specialisti valuteranno sarà il reinserimento del bambino nella famiglia biologica. Nel caso in cui i genitori siano stati privati della responsabilità genitoriale, per esempio, si cercherà di aiutarli a ripristinarla e a risolvere i problemi per i quali il minore è stato allontanato.
La possibilità di una riforma lascia comunque dei dubbi tra gli esperti del settore. Alcuni operatori del Servizio per minori sostengono che non tutti gli istituti potranno chiudere. “Ci sono bambini che per ragioni sanitarie – dichiarano – non potranno stare né con la famiglia biologica né con una famiglia accogliente”. “La riforma non avverrà velocemente, perché la società non è ancora pronta”, afferma il direttore di un istituto, mentre un suo collega ricorda come “in 10 anni non sia stato adottato alcun bambino con ritardi mentale e questi minori, anche da adulti, non possano vivere senza il supporto almeno degli operatori sociali”.
La riforma prevede comunque che venga individuata una nuova famiglia per i bambini rifiutati dai loro genitori, mentre per quelli un po’ più grandi, qualora non si trovi una famiglia accogliente, si cercherà una soluzione presso una casa famiglia o una comunità con caratteristiche assimilabili a quelle di una famiglia.
Fonte: Segodnya
Ai. Bi. 3 dicembre 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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AFFIDO
Continuità affettiva dei minori
Tribunale Milano – nona Sezione civile ordinanza 26 novembre 2015.
La finalità della legge 173 del 2015 è quella di preservare «il diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» sancendo, in tal direzione, una sorta di preferenza nel caso di procedimento adottivo, in favore delle famiglie che hanno instaurato con il fanciullo un legame significativo affettivo.
In materia di procedimento civile avente ad oggetto (anche) la responsabilità genitoriale, la norma sulla partecipazione dell’affidatario o del collocatario al processo, di cui all’art. 5, comma I, Legge 184 del 1983, come modificata dalla Legge 173 del 2015, opera esclusivamente nell’ipotesi in cui il minore versi in una situazione di affidamento familiare: ne consegue che la norma non opera nel caso di affidamento del fanciullo al Comune o ai Servizi Sociali, con collocamento protettivo in ambiente comunitario e non familiare poiché in questo caso non sussiste una continuità affettiva da tutelare nei sensi di cui alla legge 173 cit. Un argomento di conferma si trae dall’art. 5 comma III della Legge 184 del 1983 che estende le norme dell’articolato (quindi pure l’art. 5 comma I) anche «nel caso di minori inseriti presso una comunità di tipo familiare o un istituto di assistenza pubblico o privato»: norma di estensione che opera solo in quanto le norme siano «compatibili». Si stima non compatibile il nuovo periodo introdotto dalla l. 173 del 2015 in caso di affidamento all’ente con collocamento comunitario.
Giuseppe Buffone Il Caso.it, 13763 – 02 dicembre 2015
www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fam.php?id_cont=13763.php
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AFFIDO CONDIVISO
Va condannato il padre separato che non sta con i figli nel weekend.
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 47287, 30 novembre 2015.
Va condannato il padre separato che non sta con i figli nel weekend, ma non perché ha violato l’ordine del giudice. Per la Cassazione si configura il reato ex art. 570, 1° co, c.p. e non quello più grave della mancata esecuzione dolosa del provvedimento che regola l’affido. – Compie reato il padre separato che non sta con i propri figli nei weekend e in estate come stabilito dal giudice nel provvedimento regolatore dell’affidamento e del diritto di visita.
Ma a configurarsi non è la fattispecie della mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice, bensì il reato previsto e punito dal primo comma dell’art. 570 c.p., per essersi l’uomo sottratto agli obblighi di genitore. Così ha stabilito la Cassazione, (sentenza allegata), accogliendo il ricorso di un padre già condannato ex art. 570 c.p., secondo comma, per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai suoi due bambini. Nella vicenda, la Corte d’Appello di Lecce addebitava all’uomo l’aver disatteso l’autorizzazione a tenere con sé i figli il sabato e la domenica e nel periodo festivo, non esercitando il relativo diritto.
Ma per la Cassazione, il mancato esercizio di un diritto non può integrare il reato ex articolo 388 c.p., avente la ratio di tutelare l’effettività della giurisdizione. Ciò implica comunque che “in tutti i casi previsti – hanno osservato gli Ermellini – debba venire in considerazione l’effettività di una pronuncia giurisdizionale, in quanto da essa discendano misure cui corrispondono doveri di comportamento, positivo o omissivo, incidenti sulle specifiche situazioni contemplate dalla norma”. In particolare, occorre che venga in rilievo “la cogenza di provvedimenti giurisdizionali, idonei a risolvere peculiari situazioni di conflitto”. Tuttavia, nel caso delle misure concernenti l’affidamento dei figli minori, il rilievo cogente del provvedimento “si proietta sulle modalità dell’affidamento e sulla regolamentazione delle rispettive facoltà degli aventi diritto, posto che invece, a prescindere dal provvedimento, già sussiste in capo al genitore il dovere di cura e di assistenza nei confronti dei figli minori, previsto dalle norme del codice civile”.
In altre parole, l’effettività del provvedimento va valutata in base alla sfera di operatività e al tipo di conflitto che intendere dirimere, e non può invocarsi relativamente al mancato esercizio di facoltà riconosciute e correlate a preesistenti obblighi primari, come il dovere di cura, assistenza morale e materiale dei figli. Per cui deve ritenersi integrato nei confronti dell’uomo, il reato di cui all’art. 570 comma primo c.p., nella parte in cui fa riferimento a comportamento contrario all’ordine delle famiglie con sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale.
La parola passa dunque al giudice del rinvio per ridefinire il trattamento sanzionatorio a seguito della riqualificazione del fatto.
Marina Crisafi newsletter studio Cataldi 4 dicembre 2015
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ANONIMATO
Diritto all’oblio della partoriente.
Tribunale Milano, prima Sezione, sentenza n. 11475, 14 ottobre 2015.
Non è ammissibile la dichiarazione giudiziale di maternità nei confronti di una donna che al momento del parto ha dichiarato di non voler essere nominata, poiché altrimenti verrebbe frustrata la ratio della intera disciplina, ravvisabile non solo nell’esigenza di salvaguardare la famiglia legittima e l’onore della madre, ma anche di impedire che onde evitare nascite indesiderate, si faccia ricorso ad alterazioni di stato o a soluzioni ben più gravi quali aborti o infanticidi. Questa conclusione non muta alla luce dei recenti interventi delle Alte Corti poiché tanto nella pronuncia Godelli della Corte Europea, quanto nella sentenza n. 278/2013 della Corte Costituzionale, gli organi giudicanti, confermando la perdurante validità del fondamento costituzionale del diritto all’oblio della partoriente hanno censurato la “cristallizzazione” e l’”immobilizzazione” del diritto della madre, ed il fatto che non siano presenti strumenti che consentano di indagare la perdurante attualità dalla scelta della madre trascorsi numerosi anni dalla sua espressione.
In particolare, la Corte Costituzionale ha individuato il punto di equilibrio tra i contrapposti interessi, in conformità alla Corte di Strasburgo, nella reversibilità dell’anonimato e soprattutto nel riconoscimento in favore dell’adottato del potere di dare impulso ad una procedura che, pur con le dovute cautele, consenta di verificare se persiste ancora la volontà di mantenere l’anonimato, ovvero se la donna, anche valutando il desiderio del figlio di conoscere le proprie origini, non muti la propria volontà al riguardo. Tuttavia, le Corti menzionate sono risultate assolutamente ferme nel ritenere che la volontà della madre di rimanere anonima, allorché non vi sia espressione di un diverso avviso da parte della stessa, sia degna di tutela e debba prevalere sull’interesse del figlio a conoscere le proprie origini e la propria identità biologica.
Giuseppe Buffone Il Caso.it n. 13782 – 04 dicembre 2015
testo integrale www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fmi.php?id_cont=13782.php
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ASSEGNO DI MANTENIMENTO
Divorzio: quanto pesa sul mantenimento una nuova famiglia o convivenza?
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 24414, 30 novembre 2015.
Marito e moglie dopo la separazione o il divorzio: assegno di mantenimento all’ex non sempre compatibile con la nuova relazione.
Dopo la separazione, l’assegno di mantenimento può essere negato se uno dei due si rifà una vita e sposa o convive con un/a nuovo/a partner? Dipende da chi dei due intraprende la seconda relazione. Secondo, infatti, l’orientamento della Cassazione, ribadito peraltro giorni fa.
- se a convivere o sposare una nuova persona è il beneficiario del mantenimento, l’assegno di mantenimento non è più dovuto. Quest’ultimo, infatti, sia che salga sull’altare, sia che intraprenda una relazione di fatto stabile e duratura con un’altra persona, accetta tutti i rischi – anche economici – connessi con la nuova convivenza. E quindi non può continuare a pesare sul precedente coniuge;
- se, invece, la nuova convivenza o le seconde nozze interessano il coniuge obbligato a versare l’assegno di mantenimento, il giudice potrà ricalcolare la misura di tale importo, alla luce delle sue mutate condizioni economiche (divenute, ovviamente, più ridotte per le mutate condizioni familiari e per l’obbligo di mantenere anche la nuova famiglia). In questo caso, dunque, il tribunale dovrà fare una valutazione caso per caso: indubbio è, infatti, che gli ex coniugi abbiano diritto a rifarsi una vita e a intraprendere una nuova relazione, avere altri figli, ecc., cosa che di certo sarebbe impossibile se – in ipotesi di reddito basso – l’assegno di mantenimento rimanesse sempre nella stessa misura. Ma la riduzione di tale importo (e, ancora di più, la totale cancellazione) non è così automatica, ma deve passare sotto il vaglio del giudice.
Nella sentenza in commento, peraltro, la Suprema Corte ricorda che i parametri per determinare l’ammontare dell’assegno di mantenimento (in caso di separazione) o quello divorzile (in caso di divorzio) sono:
- pregresso tenore di vita della famiglia;
- condizioni economiche e patrimoniali dei due coniugi: scopo dell’assegno è, infatti, eliminare sproporzioni tra i due redditi;
- potenzialità reddituali attuali dei due coniugi: si dovrà valutare, da un lato, se il coniuge obbligato al versamento è soggetto a nuove spese (affitto, ecc.) e se il coniuge beneficiario, invece, è ancora abile al lavoro e può procurarsi da sé un reddito proprio;
- durata del matrimonio;
- oneri di contribuzione al mantenimento della nuova famiglia da parte del soggetto onerato al mantenimento.
redazione Lpt 2 dicembre 2015 sentenza
http://www.laleggepertutti.it/105774_divorzio-quanto-pesa-sul-mantenimento-una-nuova-famiglia-o-convivenza
Lui convive con una nuova compagna? Minimo, ma dovuto l’assegno alla ex
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 24414, 30 novembre 2015.
Per la Cassazione, valutati tutti i presupposti, deve riconoscersi l’attribuzione di un modesto assegno divorzile all’ex moglie. Lui si è rifatto una vita con la nuova compagna e paga pure il mantenimento alle figlie, ma i presupposti ci sono tutti per versare comunque un assegno, sia pur minimo, all’ex moglie. Lo ha stabilito la Cassazione, con l’ordinanza (allegata), rigettando il ricorso di un uomo avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma che determinava in 200 euro al mese l’assegno divorzile a suo carico e a favore dell’ex moglie.
A nulla sono valse le censure dell’uomo sull’omissione di fatti decisivi per il giudizio da parte del giudice del merito, considerate generiche e insussistenti, perché, secondo gli Ermellini, la corte d’appello ha valutato adeguatamente i presupposti per l’attribuzione di un sia pur modesto assegno divorzile alla ex consorte.
Nel caso concreto, infatti, la decisione impugnata ha tenuto conto dei vari criteri ai fini della determinazione dell’obbligo dell’assegno divorzile, valutando “oltre al pregresso tenore di vita della famiglia, le condizioni economiche e patrimoniali dei coniugi, le loro potenzialità reddituali attuali, la durata del matrimonio, gli oneri di contribuzione al mantenimento delle figlie”, nonché l’incidenza “della convivenza more uxorio intrapresa successivamente alla separazione”.
Per cui, assegno confermato e ricorso inammissibile, oltre alla condanna alle spese di giudizio.
Marina Crisafi newsletter studio Cataldi 4 dicembre 2015
www.studiocataldi.it/articoli/20228-lui-convive-con-una-nuova-compagna-minimo-ma-dovuto-l-assegno-all-ex.asp
Doppio reato per il padre che non paga l’assegno all’ex e al figlio.
Tribunale di Bologna, Sezione penale, sentenza n. 3147\2015-
Per il Tribunale di Bologna, è concorso formale eterogeneo se la mancata corresponsione dell’assegno divorzile fa mancare i mezzi di sussistenza al minore. Il mancato versamento dell’assegno divorzile e l’omessa corresponsione del mantenimento a moglie e figli sono due condotte autonome, pertanto colui che ponga in essere ambedue i comportamenti sanzionati dalla legge, sarà responsabile di concorso formale eterogeneo. Lo ha stabilito la sentenza del Tribunale di Bologna che ha rigettato l’istanza di un padre che aveva omesso di versare, eccetto una prima rata, il mantenimento dovuto alla figlia minore. Un simile comportamento priva la minore dei mezzi necessari per la sua sussistenza, non rilevando a tal proposito la circostanza che la figlia fosse cresciuta con la madre occupata in attività lavorative saltuarie. Infatti, “ai fini della configurabilità del delitto cui all’articolo 570, comma 2, n. 2, CP, l’obbligo di fornire i mezzi di sussistenza al figlio minore ricorre anche quando vi provveda in tutto o in parte l’altro genitore con i proventi del proprio lavoro e con l’intervento d’altri congiunti, atteso che tale sostituzione non elimina lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo”.
Il Tribunale ha anche evidenziato che “sono autonome le condotte di colui che manca di corrispondere l’assegno divorzile e di colui che non versa il mantenimento, potendo realizzarsi la prima ipotesi senza che si consumi la seconda, qualora, ad esempio, l’obbligato versi soltanto una parte dell’assegno divorzile, così consumando senz’altro il reato speciale ma senza privare dei mezzi di sussistenza i familiari creditori”.
Se invece il fatto storico da cui scaturiscono i due comportamenti sia esattamente lo stesso, il giudice ha stabilito che sussiste concorso formale eterogeneo tra il delitto di cui all’art. 12 – sexies della L. n. 898/1970 e quello di cui all’articolo 570, comma 2, ip. n. 2 del CP, qualora la mancata corresponsione dell’assegno divorzile faccia altresì mancare al figlio minore i mezzi di sussistenza (cfr. Cassazione penale sez. VI 05 aprile 2011 n. 16458). Pertanto, la pena a carico del padre è stata fissata a quattro mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena essendo l’uomo incensurato.
Lucia Izzo newsletter studio Cataldi 4 dicembre 2015
Separazione: no al rimborso dell’assegno di mantenimento se questo viene ridotto o escluso.
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n.23409, 16 novembre 2015.
Irripetibili le somme corrisposte fino al definitivo pronunciamento. Può accadere che dopo la fase presidenziale, nella quale viene disposto a carico di uno dei coniugi l’obbligo al versamento di un assegno di mantenimento a favore di quello meno abbiente, si giunga, a conclusione della successiva fase di merito, ad una decisione definitiva che riduce ovvero esclude del tutto l’obbligo di mantenimento a carico del coniuge precedentemente onerato. Allo stesso modo, può verificarsi che dopo la decisione definitiva in merito alla domanda di divorzio, l’assegno di mantenimento originariamente disposto a conclusione del giudizio per separazione dei coniugi, possa essere decurtato ovvero totalmente escluso.
In questi casi, il coniuge gravato non ha diritto al rimborso (totale o parziale) delle somme fino a quel momento versate a titolo di assegno di mantenimento, in favore del coniuge beneficiario. Sul punto, di recente, è intervenuta la Corte di Cassazione la quale, a seguito di richiesta di rimborso, ha escluso detta possibilità.
Evidenziando come: “Qualora, a seguito la decisione che nega il diritto del coniuge al mantenimento o ne riduce la misura non comporta la ripetibilità delle maggiori somme corrisposte in forza di precedenti provvedimenti non definitivi, qualora, per la loro non elevata entità, tali somme siano state comunque destinate ad assicurare il mantenimento del coniuge fino all’eventuale esclusione del diritto stesso o al suo affievolimento in un obbligo di natura solo alimentare, e debba presumersi, proprio in virtù della modestia del loro importo, che le stesse siano state consumate per fini di sostentamento personale” (In precedenza, nello stesso senso: Cass. civ. Sez. I, n. 6864 del 20 marzo 2009; Cass. civ. Sez. I, n. 28987 del 10 dicembre 2008). Ciò vale anche quando la problematica si pone in virtù del provvedimento presidenziale, emesso nella fase dei provvedimenti contingibili e urgenti posti a tutela dei coniugi e della prole, considerato che alla luce della giurisprudenza di legittimità, anche in questo caso è esclusa l’irripetibilità delle somme versate a titolo di mantenimento (Cfr.: Cass. civ. Sez. VI, n. 23409 del 16 novembre 2015. In precedenza: Cass. civ. Sez. I, n. 23441 del 16 ottobre 2013). Giova, infine, ricordare come le circostanze che possono comportare la riduzione ovvero l’esclusione del diritto a percepire l’assegno di mantenimento, possono essere diverse, a titolo di esempio, il peggioramento delle condizioni economiche del coniuge onerato in correlazione con quelle dell’ex coniuge, le mutate esigenze di vita in considerazione dell’età del minore, ormai adolescente (Cfr.: Cass. civ. Sez. I, Sent. 13-11-2015, n. 23291),
Deve essere altresì ricordato come, la quantificazione dell’assegno di mantenimento, deve basarsi su elementi concreti e non potenziali, tanto è vero che: “in tema di attribuzione dell’assegno di divorzio, di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10, l’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sostentamento per ragioni obiettive costituisce ipotesi non già alternativa, ma meramente esplicativa rispetto a quella della mancanza assoluta di tali mezzi, dovendosi, pertanto, trattare di impossibilità di ottenere mezzi tali da consentire il raggiungimento non già della mera autosufficienza economica, ma di un tenore di vita sostanzialmente non diverso rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, onde l’accertamento della relativa capacità lavorativa va compiuto non nella sfera della ipoteticità o dell’astrattezza, bensì in quella dell’effettività e della concretezza, dovendosi, all’uopo, tenere conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in rapporto ad ogni fattore economico – sociale, individuale, ambientale, territoriale” (In tal senso: Cass. civ. Sez. VI, Ord., 23-10-2015, n. 21670).
Paolo Accoti newsletter studio Cataldi 4 dicembre 2015
www.studiocataldi.it/articoli/20186-separazione-coniugi-no-al-rimborso-dell-assegno-di-mantenimento-se-questo-viene-ridotto-o-del-tutto-escluso.asp
Divorzio: quanto pesa sul mantenimento una nuova famiglia o convivenza?
Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 24414, 30 novembre 2015.
Marito e moglie dopo la separazione o il divorzio: assegno di mantenimento all’ex non sempre compatibile con la nuova relazione. Dopo la separazione, l’assegno di mantenimento può essere negato se uno dei due si rifà una vita e sposa o convive con un/a nuovo/a partner? Dipende da chi dei due intraprende la seconda relazione. Secondo, infatti, l’orientamento della Cassazione, ribadito peraltro due giorni fa:
- se a convivere o sposare una nuova persona è il beneficiario del mantenimento, l’assegno di mantenimento non è più dovuto. Quest’ultimo, infatti, sia che salga sull’altare, sia che intraprenda una relazione di fatto stabile e duratura con un’altra persona, accetta tutti i rischi – anche economici – connessi con la nuova convivenza. E quindi non può continuare a pesare sul precedente coniuge;
- se, invece, la nuova convivenza o le seconde nozze interessano il coniuge obbligato a versare l’assegno di mantenimento, il giudice potrà ricalcolare la misura di tale importo, alla luce delle sue mutate condizioni economiche (divenute, ovviamente, più ridotte per le mutate condizioni familiari e per l’obbligo di mantenere anche la nuova famiglia). In questo caso, dunque, il tribunale dovrà fare una valutazione caso per caso: indubbio è, infatti, che gli ex coniugi abbiano diritto a rifarsi una vita e a intraprendere una nuova relazione, avere altri figli, ecc., cosa che di certo sarebbe impossibile se – in ipotesi di reddito basso – l’assegno di mantenimento rimanesse sempre nella stessa misura. Ma la riduzione di tale importo (e, ancora di più, la totale cancellazione) non è così automatica, ma deve passare sotto il vaglio del giudice.
Nella sentenza in commento, peraltro, la Suprema Corte ricorda che i parametri per determinare l’ammontare dell’assegno di mantenimento (in caso di separazione) o quello divorzile (in caso di divorzio) sono:
- pregresso tenore di vita della famiglia;
- condizioni economiche e patrimoniali dei due coniugi: scopo dell’assegno è, infatti, eliminare sproporzioni tra i due redditi;
- potenzialità reddituali attuali dei due coniugi: si dovrà valutare, da un lato, se il coniuge obbligato al versamento è soggetto a nuove spese (affitto, ecc.) e se il coniuge beneficiario, invece, è ancora abile al lavoro e può procurarsi da sé un reddito proprio;
- durata del matrimonio;
- oneri di contribuzione al mantenimento della nuova famiglia da parte del soggetto onerato al mantenimento.
La sentenza www.laleggepertutti.it/105774_divorzio-quanto-pesa-sul-mantenimento-una-nuova-famiglia-o-convivenza
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CHIESA CATTOLICA
La piramide capovolta.
Sorpresa! Per quella novità che viene dallo Spirito, tanto cara a papa Francesco, o forse per le astuzie della storia, la vera questione che ha dominato il Sinodo non è stata la famiglia ma la riforma del papato, e perciò della Chiesa. E mentre sul primo tema la minoranza immobilista si è presentata ben agguerrita e in rimonta rispetto alla precedente fase sinodale, sulla riapertura della questione del primato e della figura della Chiesa si è trovata spiazzata, in conflitto con se stessa e soccombente.
Il risultato è stato straordinario sia sotto il primo che sotto il secondo profilo. Quanto al primo, la famiglia e la coppia umana, assunte nella molteplicità delle loro situazioni, non sono tate destinatarie di lusinghe e condanne, com’era fino ad ora, ma solo di misericordia: i divorziati risposati non sono più considerati pubblici peccatori, ma “sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti” e si vedrà come “possano essere superate” le diverse “forme di esclusione” di cui oggi sono gravati, in ambito liturgico e in ogni altra dimensione ecclesiale; non è vero, come dicono gli antipapa, che la comunione non è stata nemmeno nominata, lo è stata invece nella forma della negazione della negazione: “non sono scomunicati”, dunque avranno l’eucarestia. E quanto alla pillola anticoncezionale, l’Humanae vitae di Paolo VI viene citata in tutte le sue sagge motivazioni ma la sua proibizione dei mezzi “non naturali” per la paternità responsabile viene lasciata cadere, e di fatto abrogata. Come aveva scritto papa Francesco nel suo programma Evangelii Gaudium, “ci sono norme o precetti ecclesiali che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza educativa come canali di vita. San Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio ‘sono pochissimi’. Citando sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posteriormente si devono esigere con moderazione ‘per non appesantire la vita ai fedeli’ e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera’”. Perciò il papa ricordava “ai sacerdoti che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile” (Evangeli Gaudium, n. 43, 44).
Il governo collegiale della Chiesa. Quanto alla riforma del papato e della Chiesa, la regola da onorare è che nella Chiesa “nessuno può essere ‘elevato’ al di sopra degli altri” e la novità è che essa è sì una piramide, come è stata rappresentata finora ma, ha detto Francesco, è “una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della sua base”, dove il “vertice” non è solo il papa, ma è anche il Sinodo, è il governo collegiale della Chiesa universale; e il principio è che rispetto all’astrattezza delle dottrine e delle norme è il discernimento che guida le scelte dei pastori e dei fedeli, e la decisione sulla scelta morale da fare nella situazione data non si prende a Roma, ma nel profondo della coscienza di ciascuno in cui Dio dimora come in un tempio. Ecco una Chiesa in cui è bello vivere.
La riforma del papato. La questione del papato era stata posta esplicitamente da Francesco nel discorso del 17 ottobre nel cinquantesimo anniversario dell’istituzione del Sinodo. Lì papa Francesco aveva parlato di nuovo di una “conversione del papato”, che aveva già annunciato, poco dopo essere stato eletto, nella esortazione pastorale Evangelii Gaudium, dove aveva scritto: “Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiesto agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato” (n. 32). Il tema però non era nuovo. Anche questo capitolo della riforma della Chiesa era stato aperto da Giovanni XXIII quando nel famoso discorso della luna, quell’11 ottobre 1962 la sera dell’apertura del Concilio, aveva messo anche il papa nel gran corteo dei fedeli dicendo: “Sento le vostre voci. La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi diventato padre per la volontà di Nostro Signore, ma tutt’insieme, paternità e fraternità, è grazia di Dio”. E ora gli ha fatto eco papa Francesco dicendo: “Il papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa, ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi”. Sul piano dottrinale era stato il Concilio Vaticano II a collocarlo così, nonostante le resistenze di Paolo VI che aveva inflitto al Concilio la “nota praevia” al capitolo tre della Costituzione dogmatica Lumen Gentium perché, dopo tutto il cambiamento elaborato dal Concilio, tutto restasse come prima. E prima le cose per il ruolo del papato nella Chiesa non andavano bene. Grazie alla secolare lievitazione della dottrina romana sul primato, a partire dall’idea di Gregorio VII che il papa fosse santo d’ufficio “per i meriti di san Pietro“, fino a giungere al papa “che decide da se stesso e non per il consenso della Chiesa” secondo la prepotente formula del Concilio Vaticano I, il vescovo di Roma era diventato la copia di Dio, l'”alter Christus”, “il dolce Cristo in terra“, quale era rappresentato nella suprema sovrana figura di Pio XII. E certo sarebbe stata una buona cosa per la Chiesa avere un altro Cristo in terra, se non fosse che in tal modo il Cristo vero non c’era più, e la sua controfigura in nessun caso poteva essere tale da colmarne il vuoto.
Con Giovanni XXIII e il Vaticano II cambia la percezione del papa, e comincia la serie dei papi che non fanno miracoli, anche se bisogna dire in verità che per la vischiosità del passato la Chiesa ha continuato a fare santi tutti i papi più recenti. Tuttavia Giovanni XXIII è stato canonizzato, per volontà di papa Francesco, con “un solo” miracolo, mentre secondo le regole ce ne vorrebbero due; in realtà il vero miracolo che ha fatto è stato di convocare il Concilio, quello è bastato. Quanto a Giovanni Paolo II, miracoli o non miracoli, la gente lo voleva “santo subito”, e così è stato. Ma dopo il Concilio, che aveva rimesso Pietro nel collegio degli apostoli e il suo successore nel collegio dei vescovi, era stato proprio papa Wojtyla che aveva posto, senza però cominciare da sé stesso, il problema della riforma del papato, quando nella sua enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint, aveva detto di sentire la “responsabilità di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova”. Prima di quell’enciclica, secondo la testimonianza del camaldolese don Innocenzo Gargano, Giovanni Paolo II parlando con dei teologi del Pontificio Istituto Orientale che erano alla sua tavola, chiese loro di studiare come potessero intendersi oggi le parole di Gesù a Pietro del Vangelo di Luca: “e tu, quando ti sarai convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc. 22, 31-34). Da che cosa, oggi, si doveva convertire il papato per poter confermare i fratelli?
La rinunzia di Benedetto XVI. Dopo di allora il grande evento che ha riaperto la questione della riforma del papato è stata la rinuncia di Benedetto XVI, che ha tolto alle dimissioni del papa quel significato di pavido rifiuto che Dante aveva cucito addosso alla rinuncia di Celestino V, e ne ha affermato il valore teologico, come possibile esito di un ministero esposto alla debolezza e alla precarietà come ogni altro ministero nella Chiesa. Veniva in tal modo demitizzata la figura papale, rimessa nella condizione comune dei discepoli, anche se primaziale nel servizio e nella carità, e l’istituzione del “papa emerito” entrava tranquillamente, come quella dei vescovi emeriti, nella tradizione della Chiesa. Tuttavia, nonostante questi avvenimenti e queste avvisaglie profetiche, una riforma del papato stentava ad apparire sull’orizzonte della Chiesa. Al Corso di studi cristiani di Assisi dell’agosto del 2013, cinque mesi dopo l’elezione di Bergoglio, si disse che dopo il Concilio non era riuscita la riforma della Chiesa perché questa non si può fare se non si fa la riforma del papato, ma la riforma del papato non è possibile se non è il papa stesso a farla, e che ora toccava a papa Francesco porre mano ad essa, e si aggiunse che già in quell’avvio del suo ministero se ne intravvedevano le premesse. Quando i responsabili della Pro Civitate Christiana a settembre portarono a Francesco gli atti del Convegno e gli riferirono questa opinione egli, come ha raccontato Tonio Dell’Olio, non negò e disse: “Povero papa!”.
Cominciando da Santa Marta. In effetti fin dall’inizio il modo di essere e di fare il papa di Francesco è stato una riforma del papato: il presentarsi come vescovo di Roma, l’inchinarsi al popolo, l’abitare a Santa Marta, la lettura e il commento quotidiano del Vangelo, il mettersi davanti, in mezzo e dietro al gregge perché questi ha il fiuto per indicare nuove strade, l’ascolto dei vescovi e il farne risuonare anche le voci più periferiche in tutta la Chiesa, la riforma della Curia, sognata come una piccola Chiesa, ma vista come afflitta da quindici piaghe, l’ecumenismo secondo la logica non della sfera ma del poliedro, dove ogni parte è unita ma in rapporto diverso con tutte le altre parti, la parola data ai discepoli, i poveri riconosciuti come i primi evangelizzatori, le porte delle celle dei carcerati assurte a porte sante giubilari, i peccatori, gli infortunati e gli scarti della vita tutti perdonati e oggetto di misericordia.
La sfida del Sinodo dei vescovi. Ed è così che si è arrivati al Sinodo dei vescovi che da alcuni è stato visto come una sfida tra il papa e il movimento conservatore; un confronto che quest’ultima ha vissuto come se si trattasse di una sfida sulla fede (“Permanere nella verità di Cristo” avevano scritto polemicamente cinque cardinali), e come se la fede stesse in una Chiesa che chiuda le porte, una Chiesa che usi l’eucarestia come una mannaia, che metta sulla cattedra di Mosè quelli che “usano il Vangelo come pietre morte da scagliare contro gli altri” e infine una Chiesa che neghi la comunione ai cristiani risposati. Il gruppo conservatore ha perso la sua partita perché si è trovato coinvolto in un momento di vera sinodalità, che ha rivelato la ricchezza e la fecondità del metodo collegiale di governo, in una Chiesa già nuova, e perché si è trovato di fronte lo straordinario carisma del papa che ha ottenuto dal Sinodo soluzioni di misericordia e nello stesso tempo ha dato nuovo vigore e nuova credibilità al ministero petrino, che i tradizionalisti non potevano cercare di distruggere senza tradire se stessi e le loro stesse dottrine.
Così le conclusioni del Sinodo, sia nel merito che nel metodo, sono state profondamente sapienziali e innovative, facendo già vedere l’attuazione di quello che papa Francesco aveva detto il 17 ottobre nella circostanza solenne dei cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo.
Una Chiesa sinodale per il terzo millennio. In quel discorso il papa aveva di nuovo rivendicato la continuità col Concilio, e l’aveva identificata nella sinodalità come caratteristica della Chiesa, non per le prossime settimane, ma per il terzo millennio. E come aveva fatto il Concilio nella Lumen Gentium, il papa è partito dal popolo di Dio, dalla totalità dei battezzati, che non può sbagliarsi nel credere, un popolo che non è solo discepolo, ma i cui membri, come discepoli, non sono semplicemente ascoltatori della Parola, ma evangelizzatori, suggeritori e continuatori della fede. Sicché, ha detto il papa, ci sono tre livelli della vita della Chiesa di cui il Sinodo doveva mettersi all’ascolto: l’ascolto del Popolo “secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: ‘Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet'” (traduzione ad uso dei nostri neo-costituenti: “Quello che riguarda tutti deve essere trattato da tutti”); l’ascolto dei Pastori, ossia dei vescovi che “attraverso i Padri sinodali agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa”; l'”ascolto del vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come ‘Pastore e Dottore di tutti i cristiani’ (Vaticano I), ‘garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa’ (Francesco, alla conclusione del Sinodo dell’anno scorso, 18 ottobre 2014)”.
Il papa descriveva poi la sinodalità “come dimensione costitutiva della Chiesa”, che al suo primo livello si realizza nella Chiese particolari, dove è decisivo il funzionamento degli organismi di partecipazione sia dei preti che dei fedeli (organismi di comunione), al secondo livello si realizza nelle Conferenze episcopali come istanze intermedie della collegialità (“non è opportuno che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori”, per cui è necessario “procedere in una salutare `decentralizzazione'”; al terzo livello si realizza nella Chiesa universale, dove il Sinodo dei vescovi, come voleva il Concilio, “diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale”.
Una Chiesa sinodale è per sua natura votata all’ecumenismo nelle relazioni con le altre Chiese e, ha detto Francesco, “sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce”, col papa battezzato tra i battezzati e vescovo tra i vescovi, “chiamato nel contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese”. Perciò, alla conclusione del Sinodo, e questo è appunto uno dei suoi frutti più preziosi, papa Francesco ha ribadito “la necessità e l’urgenza di pensare a ‘una conversione del papato'”, per la costruzione di quella Chiesa sinodale che ci fa anche coltivare “il sogno” di una società civile giusta e fraterna e di “un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno dopo di noi”.
Raniero La Valle “Rocca” n. 22, 15 novembre 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Stampa.HomePage?tipo=numaut196
Il linguaggio dell’amore.
«Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia!». Chi non conosce questa frase rivolta da Lucia all’Innominato nel c. XXI dei Promessi Sposi? Tutti, poi, sanno che martedì prossimo 8 dicembre papa Francesco, aprendo la Porta Santa della Basilica di S. Pietro inaugurerà il Giubileo Straordinario da lui indetto e dedicato appunto al tema della misericordia. Di questo evento hanno parlato e scritto molti osservatori, dai teologi ai giornalisti e la bibliografia si è infittita con pubblicazioni di ogni genere. Noi ora vorremmo attestarci su un terreno molto ristretto e specifico di taglio filologico. Ogni realtà, infatti, ha nel lessico adottato la sua identità più specifica: così, è evidente che per l’italiano l’organo “fisico” simbolico di questa virtù è il cuore (miseri-cordia) che conosce i fremiti della compassione e condivisione nei confronti del misero.
Nel linguaggio biblico, invece, assistiamo a un fenomeno curioso perché, sia per l’ebraico sia per il greco, le due lingue capitali delle S. Scritture (l’aramaico è molto marginale, avendo solo una presenza circoscritta nei cc. 2-7 del libro di Daniele), la sede della misericordia è l’utero materno o la generatività paterna. In ebraico è il sostantivo rehem, al plurale rahamîm, che designa primariamente il grembo materno e che viene trasformato in una metafora emozionale applicata innanzitutto a Dio che si ritrova, così, connotato anche femminilmente. Illuminante per l’immagine e il concetto è un passo del libro del profeta Isaia: «Si dimentica forse una mamma del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai!» (49,15). Esplicito è il Salmo 103 che rimanda, invece, alla generatività paterna: «Come un padre prova misericordia (rhm) per i suoi figli, così il Signore prova misericordia per quelli che lo temono» (v.13), cioè per i suoi fedeli.
Non elenchiamo i passi ove questa metafora generazionale è assegnata a Dio. Basti solo citare un paio di frasi: «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò, con immensa misericordia» (Isaia 54,7), ove è usato appunto il vocabolo rahamîm; «Pietà di me nel tuo amore, nella tua grande misericordia (rahamîm) cancella la mia iniquità», e questa è l’invocazione iniziale del celebre Miserere, il Salmo 51. È interessante notare che tutte le sure del Corano (tranne la IX, frutto forse di un frazionamento) si aprono proprio con due aggettivi arabi modulati sulla stessa radice rhm del termine biblico: «Nel nome di Dio misericorde e misericordioso» (bismi Llah al-rahman al-rahim).
Essere misericordiosi equivale ad essere presi “fin nelle viscere”, con un amore totale, spontaneo, assoluto, fino a compiere quel gesto estremo di donazione, delineato da Gesù nei discorsi dell’ultima sera della sua vita terrena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).
Passiamo, così, al greco neotestamentario ove – come accade anche per le Scritture ebraiche – sono adottati vari termini sinonimici, a partire dal vocabolo éleos e dal verbo eleéô (coi loro derivati appaiono 78 volte), presente nell’invocazione liturgica Kyrie eleison, «Signore, abbi misericordia!».
Ma il più suggestivo è il verbo splanchnízomai, evocato 12 volte: esso rimanda proprio agli splànchna, le “viscere” materne della compassione. Gesù ha il cuore attanagliato da questa tenerezza misericordiosa quando incrocia i sofferenti sulle strade della sua terra. Così gli accade quando s’imbatte nel funerale del ragazzo del villaggio galilaico di Nain, figlio unico di una vedova (Luca7,13), o quando vede davanti a sé la folla affamata che lo ha seguito e ascoltato (Marco 6,34); anzi, in un altro caso, esplicitamente confessa: «Splanchnìzomai per questa folla che mi segue da tre giorni senza mangiare» (Marco 8,3). La stessa esperienza si ripete davanti ai due ciechi di Gerico (Matteo 20,34), oppure con un lebbroso (Marco 1,41) e così via.
Una rappresentazione intensa del valore simbolico del vocabolo è da cercare in due tra le sue parabole più celebri, riferite solo da Luca, lo scriba mansuetudinis Christi, come lo ha definito Dante nel Monarchia. Nella cosiddetta “parabola del figlio prodigo” – in realtà il protagonista è il padre prodigo di misericordia, come ha intuito Rembrandt nella stupenda tela dell’Ermitage dedicata a questa pagina evangelica – il termine esprime il commuoversi del padre quando vede profilarsi all’orizzonte il figlio peccatore che era fuggito di casa e che ora ritorna pentito (Luca 15,20). Lo stesso verbo è applicato al buon Samaritano dell’omonima parabola, che si emoziona di fronte al ferito abbandonato dai banditi sul ciglio della strada (Luca 10,33). Il tema della misericordia rimanda, perciò, a un sentimento e a una decisione che è radicale sia in Dio, sia nella creatura umana.
Proprio per questo Dostoevskij nell’Idiota definiva questa virtù come «la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera». Essa è accompagnata da uno sciame di esperienze morali analoghe come il perdono, la clemenza, la tenerezza, la compassione, la solidarietà e così via, e ha come meta ultima l’amore-agape di donazione. Per la sua concreta attuazione la tradizione cristiana ha elaborato un duplice programma noto come “le opere di misericordia corporale e spirituale”, il cui primo elenco, modulato poi su un duplice settenario, appare in un autore cristiano latino africano del III-IV secolo, Lattanzio, precettore del figlio dell’imperatore Costantino. Per la dimensione “corporale” la lista attingeva a un grandioso affresco letterario del Vangelo di Matteo (25,3146), dominato al centro dal Cristo giudice finale dell’umanità. Ebbene, la materia di quel giudizio escatologico verteva appunto sulla misericordia praticata nei confronti degli affamati, degli assetati, degli ignudi, degli stranieri, degli infermi e dei carcerati, a cui la tradizione aggiungerà la cura funebre dei morti. Come dichiarerà il grande scrittore mistico spagnolo Giovanni della Croce nelle sue Parole di luce e di amore: «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (n. 57). Un giudizio nel quale giustizia e misericordia dovranno unirsi, secondo il suggerimento di Shakespeare nella I scena del IV atto del Mercante di Venezia: «La misericordia è sopra il potere dello scettro regale… perché è la misericordia che deve temperare la giustizia».
Mirabile è la rielaborazione pittorica che di queste sette opere di misericordia corporale farà Caravaggio nell’imponente tela di 3,90 metri per 2,60 dipinta per la Chiesa del Pio Monte della Misericordia a Napoli nel 1606. Con una straordinaria capacità di incastro e di pianificazione iconografica egli riuscirà a intrecciare tutto il settenario in un unico racconto posto sotto lo sguardo misericordioso della Madonna col Bambino. Successivamente la tradizione cristiana aprirà la misericordia anche alla dimensione spirituale facendo fiorire l’impegno di «consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste e pregare Dio per i vivi e per i morti». Una lista ovviamente passibile ancor oggi di nuove applicazioni ed estensioni.
Cardinale Gianfranco Ravasi “Il Sole 24 Ore” 6 dicembre 2015
Le difficoltà dei cardinali Pell, Burke e Sarah: assenza di esperienza e difetto di dottrina
Dopo la fine del Sinodo ordinario, nell’ottobre scorso, abbiamo letto una serie di interventi, interviste e dichiarazioni di cardinali nelle quali suonano con particolare forza una serie di “argomenti” che potremmo riassumere in tre punti:
- Il Sinodo ha confermato la dottrina “di sempre” sul matrimonio
- In seguito al Sinodo non ci saranno aperture agli “irregolari” diverse da quelle previste da Familiaris Consortio;
- Le “porte” non potranno essere aperte, perché non possono esistere “porte” in questo campo.
In modi, tempi e toni diversi, questi sono i contenuti che soprattutto tre cardinali (Pell, Burke e Sarah) hanno ripetuto con insistenza e con forza, non senza la “sponda” di altri cardinali (ad es. Ruini, Ouellet, De Paolis). Una valutazione spassionata dei loro interventi mostra, accanto a una certa paura, che sembra trapelare dalle loro parole, una duplice grave difficoltà, che compromette il giudizio che esprimono non soltanto sul Sinodo, ma sul rapporto Chiesa-mondo e sulla eredità del Concilio Vaticano II nella Chiesa di 50 anni dopo.
Io vorrei identificare queste “difficoltà” sia sul piano di una assenza di esperienza, sia sul piano di un difetto di dottrina. Provo a spiegarmi.
a) Una assenza di esperienza. La prima difficoltà consiste, essenzialmente, nel parlare di ciò che si conosce solo “genericamente”. Una delle questioni che il Sinodo ha ripreso in modo più efficace, lungo tutto il suo percorso di svolgimento biennale, è stato il bisogno di maturare una prospettiva adeguata di rapporto con il “mondo delle famiglie”, che non può essere ridotto a stereotipi, tanto più se in gioco vi sono complesse problematiche di vita, di abbandoni, di nuovi legami, di generazioni, di educazione, di speranze. Affrontare questo mondo vuol dire anzitutto “farne esperienza” in modo corretto. Nelle parole di Pell, Burke, e Sarah appare con chiarezza una radicale indisponibilità a mettere in discussione un approccio astratto, generico e pregiudizievole al mondo familiare. E questo è il primo lato della loro difficoltà.
b) Un difetto di dottrina. La seconda difficoltà, che consegue dalla prima, ma che ne è anche una causa, è una comprensione inadeguata della “dottrina” sul matrimonio. Se riduciamo la “dottrina cattolica sul matrimonio” a una serie di “obblighi” o di “divieti”, trasformiamo il pane della dottrina in “pietre”. E’ stato il successore di Pietro a ricordarci il rischio di ridurre tutto a “pietre”. Una comprensione dottrinale adeguata opera una accurata mediazione tra “Parola di Dio” e “esperienza”. Nelle parole di Pell, Burke e Sarah sentiamo invece una ostinata riduzione della dottrina alla difesa di una disciplina che storicamente non è più adeguata alle forme di vita di buona parte della esperienza ecclesiale. Per questi cardinali la Chiesa non ha margine di manovra visto che il “peccato è per sempre”, esattamente come e anche più del vincolo. Dietro le loro parole indignate si vede bene il permanere di una comprensione del “peccato” e del “vincolo” che non discende dalla “parola di Dio”, ma da una comprensione metafisica e giuridica obiettivamente superate. E superate già nel 1981 dalle parole di Giovanni Paolo II in Familiaris Consortio, quando diceva che “i divorziati risposati non si devono considerare separati dalla Chiesa”. Questo è stato un passaggio epocale, che richiede alla Chiesa cattolica di oggi una proposta della dottrina del matrimonio capace di tener conto di questa novità. Per farlo occorre uscire da una lettura del “peccato” e del “vincolo” che perpetuerebbe semplicemente la “scomunica ecclesiale” degli irregolari. Vi è dunque in Pell, Burke e Sarah non solo un difetto di esperienza, ma anche un difetto di dottrina. Con una esperienza limitata delle forme di vita possono accontentarsi di una dottrina vecchia; ma con una formulazione dottrinale vecchia “possono vedere” soltanto una parte della realtà e trascurarne un’altra. Le difficoltà di cui Pell, Burke e Sarah sono vittime chiedono un lavoro coraggioso di riflessione ai teologi. Se Pell, Burke e Sarah avessero letto, solo a titolo di esempio, i lavori di Vesco (che è anche loro confratello vescovo), Angelini, Schockenhoff, Petrà, Huenermann e di tanti altri teologi che hanno scritto cose di valore negli ultimi due anni sul tema, si sarebbero dotati di strumenti di comprensione più adeguati e potrebbero fare oggi una esperienza più ampia e più vera della vita delle famiglie reali, sia di quelle felici, sia di quelle infelici, sia di quelle classiche, sia di quelle allargate. Senza essere costretti a condannare tutto ciò che non entra nelle loro categorie astratte e anguste. Credo che la Chiesa tutta debba aiutare questi cardinali a superare le loro difficoltà di esperienza e di dottrina.
Andrea Grillo in “Come se non” – 6 dicembre 2015
www.cittadellaeditrice.com/munera/le-difficolta-dei-cardinali-pellburke-e-sarah-assenza-di-esperienza-e-difetto-di-dottrina
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CHIESE EVANGELICHE
La piramide capovolta. Il Sinodo cattolico, un kairòs ecumenico.
Come verrà percepito a livello ecumenico, tra le varie Chiese cristiane, il Sinodo dei vescovi cattolici sulla famiglia che si è chiuso domenica scorsa, 25 ottobre? E’ una domanda che mi sono fatto spesso nelle ultime settimane, mentre seguivo il dibattito vivace, a volte addirittura feroce, che si è svolto all’interno delle mura vaticane. Come sempre, tra comunità di confessioni diverse, che hanno anche codici e linguaggi differenti, il rischio è quello dell’incomprensione, dell’equivoco. A maggior ragione, temo, in questo caso. Per due motivi: il primo è che intorno a questa assemblea è stata volutamente innalzata una cortina fumogena mediatica (il caso Charamsa, la lettera dei 13 cardinali, le false notizie intorno a un presunto tumore al cervello) che aveva come obiettivo di indebolire papa Francesco e l’ala episcopale favorevole ad alcune aperture.
Il secondo motivo è che intorno a questo Sinodo si erano create alla vigilia altissime aspettative, superiori – realisticamente parlando – alla capacità di cambiamento di un corpo vasto, complesso e diversificato qual è la Chiesa cattolica mondiale. E infatti, se si guarda alle conclusioni dell’assemblea, cioè ai 94 punti della relazione finale, si vede che non ci sono brusche inversioni di rotta. A parte il nodo dei divorziati risposati – su cui si introduce la parola chiave «discernimento» e si affida maggiore libertà ai vescovi di vagliare caso per caso se riammettere ai sacramenti i fedeli che hanno contratto un nuovo matrimonio – non emergono altre clamorose novità nel catalogo dei temi scottanti di morale sessuale e familiare.
Non di meno, a mio giudizio, questo Sinodo è stato una svolta epocale per la Chiesa cattolica. Più importante del Sinodo in sé e delle sue conclusioni “di merito”, infatti, è stata la «sinodalità» come metodo e come visione ecclesiologica la grande novità. Qui sì che il mutamento è radicale. Basti guardare al dibattito interno tra i vescovi, che è stato vero, sofferto, acceso: contrariamente a taluni momenti del passato, il papa non ha voluto chiamare i vescovi a Roma perché facessero da claque plaudente a decisioni che lui o la Curia romana avevano già preso.
«Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto», ha detto Bergoglio. E ascolto a tutti i livelli: dei pastori nei confronti delle persone che vivono “là fuori”, del papa nei confronti dei vescovi. Con il metodo della sinodalità, inoltre, tutta una serie di competenze e di responsabilità vengono decentrate: il papa restituisce potere alle Chiese locali, alle Conferenze episcopali. Il “romano pontefice” cessa così di essere un monarca assoluto chiuso nella sua torre d’avorio e torna realmente al suo ruolo di «vescovo di Roma», «servo dei servi di Dio», come era nel primo millennio cristiano, prima dei grandi scismi che hanno portato alla nascita delle Chiese ortodosse da una parte e delle Chiese della Riforma dall’altra. Certo, la struttura ecclesiologica della Chiesa cattolica resta quella di una piramide ma, come ha spiegato Bergoglio con grande sapienza spirituale, «una piramide capovolta» in cui «il vertice si trova al di sotto della base», da essa attinge la sua autorità, perché «l’unica autorità è l’autorità del servizio».
Se queste mie considerazioni non sono totalmente errate, allora tutto ciò ha potentissime conseguenze sul piano ecumenico. Il papato – una delle principali pietre d’inciampo nel cammino verso una piena riconciliazione tra le Chiese cristiane – cambia forma. Si aprono spazi di dialogo nuovi, che per decenni erano stati mortificati e ridotti al lumicino. Ho l’impressione, insomma, che il momento presente sia un kairòs [“il tempo designato nello scopo di Dio” esempio Marco 1.15], un momento opportuno di grazia, per tornare ad affrontare ai massimi livelli quel confronto teologico ecumenico sulle grandi questioni, cui si era abdicato nei decenni passati per evitare tensioni e strappi indesiderati. Ma l’Ortodossia, la Comunione anglicana e le Chiese della Riforma avranno il coraggio, la forza e la generosità per imboccare questa strada?
Giovanni Ferrò, vaticanista e caporedattore di Jess 27 ottobre 2015
http://riforma.it/it/articolo/2015/10/27/la-piramide-capovolta
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COMUNITÀ AFFIDATARIE
“La Tutela dei minorenni in comunità”, la prima raccolta dati.
La prima raccolta dati sui ragazzi in case famiglia, realizzata grazie alla collaborazione di tutte le ventinove Procure della Repubblica. “Dopo tante polemiche, numeri detti e scritti in modo impreciso, finalmente facciamo luce e chiarezza su un tema molto caro all’opinione pubblica, spesso dibattuto e strumentalizzato dai media”. Con queste parole l’Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Vincenzo Spadafora, annuncia la pubblicazione de “La Tutela dei minorenni in comunità”, la prima raccolta dati sui veri numeri dei ragazzi ospitati all’interno delle case famiglia, realizzata grazie alla collaborazione di tutte le ventinove Procure della Repubblica, presso i Tribunali per i minorenni. “Questo lavoro nasce anche dalla consapevolezza che le generalizzazioni non fanno il bene dei bambini, già segnati da storie famigliari difficili, e non permettono di affrontare le vere criticità. Misurare il fenomeno è necessario – afferma il Garante Spadafora -, anche per intervenire sulle storture del sistema. Va, inoltre, necessariamente facilitata e sostenuta la collaborazione tra i diversi enti che monitorano e si occupano dei minorenni collocati in comunità”.
Dai dati ricevuti dalle Procure minorili – a cui le comunità sono tenute ad inviare un report semestrale – emerge che, al 31 dicembre 2014, i minorenni presenti a vario titolo nelle comunità erano 19.245, di cui il 43% di origine straniera (di questi circa la metà non accompagnati), collocati in poco più di 3mila strutture con una media di 6,7 minorenni in ciascuna. Il 58,9% si trovava al Centro Nord ed il 41,1% nel Sud e nelle Isole. La fascia d’età più numerosa, quella tra i 14 e i 17 anni, rappresenta il 57,2% del totale: quella degli adolescenti è la parte più cospicua perché, da una parte, è difficile trovare famiglie disposte ad accoglierli in affidamento o ad adottarli e, dall’altra, è l’età della maggior parte dei minorenni stranieri non accompagnati che arrivano in Italia.
“Questo non deve essere un punto d’arrivo ma di partenza – continua Spadafora. Lavorare per prevenire, mettendo in connessione persone, idee ed esperienze, è il vero obiettivo. Non bisogna più valutare a priori se siano pochi o molti i ragazzi in comunità, ma se vengono effettuati tutti, e solamente, gli allontanamenti necessari a garantire i diritti dei minorenni. È necessario assicurarsi che l’allontanamento avvenga all’interno di un progetto specifico che nasca da un’attenta analisi dei bisogni del minorenne e della sua famiglia, che siano prese in debita considerazione, laddove possibile, anche le opinioni dei minorenni, e che ci sia un monitoraggio costante e approfondito delle azioni compiute dai vari soggetti che entrano in scena, prestando attenzione anche ai tempi del collocamento”.
L’Autorità garante ha sostenuto e promosso il dialogo fra i diversi sistemi di raccolta dati per individuare, insieme agli altri organi preposti, procedure chiare ed efficaci al fine di arrivare ad una lettura comune e a una definizione condivisa del fenomeno, e che favorisca i progetti di vita a cui ogni minorenne in comunità ha diritto.
In pdf il testo 30 novembre 2015
www.garanteinfanzia.org/news/la-tutela-dei-minorenni-comunit%C3%A0-la-prima-raccolta-dati
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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM
Faenza. Collaborazione con il Centro diocesano per la Pastorale familiare.
La collaborazione da e verso il Centro diocesano per la Pastorale familiare nell’attuazione di diverse attività è estremamente importante e arricchente. Ecco perché riconosciamo e valorizziamo il grande impegno profuso da Enti, Associazioni e movimenti diocesani.
Prima di tutto il Consultorio UCIPEM e Incontro Matrimoniale attraverso la formazione per i fidanzati e sposi; l’Azione Cattolica, che instancabilmente propone alla Diocesi un percorso di formazione per coppie di innamorati (cd. preparazione remota al matrimonio) e con la quale abbiamo realizzato diversi Convegni diocesani e altre attività annuali; il Monastero di Santa Umiltà che si offre come luogo amorevole e accogliente e la cui comunità è sempre fonte di ricchezza.
https://famigliefaenza.wordpress.com/progettando-con
Senigallia. Incontri sul ciclo della fertilità femminile.
L’associazione Iner – Marche (Istituto per l’Educazione alla Sessualità ed alla Fertilità), in collaborazione con il Consultorio Familiare Ucipem Villa Marzocchi, sta organizzando un nuovo corso base per la conoscenza del ciclo della fertilità femminile (metodo sintotermico Roetzer) e della sessualità umana, che si terrà nei giorni 27 febbraio, 6, 13 e 20 marzo alle ore 21,15 presso la sala parrocchiale di Serra De’ Conti.
Scopo del corso, rivolto a donne e a coppie, è insegnare a saper riconoscere i propri tempi di fertilità e sterilità durante il corso del ciclo femminile, attraverso l’osservazione dei segni che il corpo della donna naturalmente mostra e la corretta applicazione di specifiche regole. Verranno approfondite le basi biologiche della fertilità, il metodo sintotermico del dott. Röetzer, dagli aspetti applicativi alle ricadute sulla vita di coppia, tematiche come la relazione tra sessualità e procreazione responsabile. Il corso sarà tenuto dagli insegnanti diplomati del metodo naturale Sintotermico Röetzer dell’Iner Marche e da un’ostetrica del Consultorio Asur Vasta 2.
La partecipazione è gratuita (è richiesto un piccolo rimborso spese per il materiale didattico). (…)
Il corso è promosso con il patrocinio dell’Asur Marche Av 2 e la collaborazione del Centro servizi per il volontariato.
www.senigallianotizie.it/1327369303/fertilita-femminile-incontri-informativi-a-serra-de-conti
Treviso. Pubblicata la carta del servizio.
Pubblicata on line il 27 novembre 2015 la carta del servizio del consultorio familiare.
www.consultoriofamiliareucipem.it/siteon
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DALLA NAVATA
2° domenica d’avvento – anno C – 6 dicembre 2015.
Geremia 33, 15 «In quei giorni e in quel tempo farò germogliare per Davide un germoglio giusto, eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra».
Salmo 25, 04 «Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri».
1Tessalonicesi 03, 02 «Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù».
Luca 21, 28 «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
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DENATALITÀ
Il punto più basso dal 1861. Se i governi avessero creduto nella adozione internazionale
Italia a crescita zero: l’Istat fotografa un Paese sempre più vecchio e intanto Renzi “rottama” anche l’adozione internazionale. Il nostro Bel Paese è un Paese dove sempre meno sono i neonati. A metterlo nero su bianco è il rapporto dell’Istat che segnala come nel 2014 sono stati iscritti in anagrafe per nascita 502.596 bambini, quasi 12mila in meno rispetto al 2013: il dato più basso registrato dal 1861, anno dell’Unità d’Italia. Un tasso di natalità, denuncia l’Istituto di ricerca, largamente “insufficiente a garantire il necessario ricambio generazionale”.
Questo perché le donne italiane in età riproduttiva sono sempre di meno e hanno una propensione ad avere figli sempre più bassa. Il risultato conferma la fase di forte riduzione della natalità in atto da alcuni anni (-74mila nati sul 2008): la diminuzione delle nascite è dovuta soprattutto alle coppie di genitori entrambi italiani. I nati da questa tipologia di coppia scendono per la prima volta sotto quota 400mila: sono 398.540, quasi 82mila in meno negli ultimi sei anni.
Il vero dramma è anche un altro: quelle migliaia di culle vuote avrebbero potuto essere attutite da eventuali adozioni di bambini stranieri da parte di famiglie italiane. E qui la responsabilità di Renzi c’è tutta. Alle dichiarazioni d’intenti della prima ora, ha fatto seguito il disinteresse da parte del governo. Un disinteresse testimoniato dal silenzio calato sulla riforma della legge sulle adozioni internazionali, dalla sua abdicazione al ruolo di presidente della Commissione Adozioni Internazionali a favore di un magistrato, dalla paralisi delle attività della commissione stessa. In 18 mesi il premier Renzi ha di fatto ‘rottamato’ 15 anni di lavoro, che avevano portato il settore delle adozioni internazionali ad essere il fiore all’occhiello del nostro Paese.
Infine il rapporto Istat sottolinea anche come otto bambini su cento, in Italia, nascano da mamma over 40. Circa l’8% dei nati ha una madre di almeno 40 anni, mentre la proporzione dei nati da madri di età inferiore a 25 anni è pari al 10,7% nel 2014. Ci sono praticamente due “Italie” per quanto riguarda la propensione alla maternità nel nostro Paese con conseguenze sulle nascite: al Centro Nord, prevale la tendenza al figlio unico, al Sud, si mettono invece al mondo due o più figli. Secondo il rapporto Istat sulla natalità, esiste, da un lato, un Centro-Nord da lungo tempo al di sotto del livello di sostituzione (circa 2 figli per donna). Con buona pace dei governanti.
Fonte: Avvenire e Repubblica. 30 novembre 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Gigi De Palo: “Un Forum della famiglia all’attacco e senza paura di confrontarsi”
“Sarà un Forum all’attacco. Cercheremo di dare risposta a tutte quelle persone che in Italia vivono in famiglia. Vogliamo essere concreti perché, per troppo tempo, ci siamo nascosti dietro a tematiche identitarie e ideologiche che ci hanno fatto perdere terreno. La famiglia, però, è in grado di aggregare tutte le persone di buona volontà. Fare famiglia non è qualcosa di utile per i cattolici ma per il Paese intero”. Lo afferma Gianluigi De Palo, nuovo presidente del Forum delle associazioni familiari. “Romperemo le scatole a tutti. In Italia nascono sempre meno bambini, le famiglie non arrivano alla fine del mese, le donne desiderano due figli ma si devono fermare di media a 1,39, i giovani non riescono a fare famiglia e sono costretti ad andare all’estero. Noi abbiamo a cuore l’Italia”. Per De Palo, “il desiderio è quello di rappresentare tutte le famiglie di buona volontà che hanno in comune i medesimi problemi”: “Dobbiamo dare voce alle persone che chiedono quello che chiediamo noi. Papa Francesco è stato estremamente chiaro a Firenze: il dialogo non si fa parlando di massimi sistemi, ma lavorando gomito a gomito su singoli temi”. Quanto alle urgenze per la famiglia, De Palo identifica le priorità: “Un fisco più equo, perché non è normale che oggi chi fa un figlio rischia di cadere nella povertà in un Paese a nascita zero. E poi dobbiamo raccontare la realtà delle nostre famiglie senza edulcorare, perché da essa trasparirà una bellezza contagiosa”.
Riccardo Benotti Agenzia SIR 1 dicembre 2015
http://agensir.it/italia/2015/12/01/gigi-de-palo-un-forum-della-famiglia-allattacco-e-senza-paura-di-confrontarsi
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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA
Conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla repubblica centrafricana estratto
Santità, l’AIDS sta devastando l’Africa. La cura aiuta oggi molte persone a vivere più a lungo. Ma l’epidemia continua. Solo in Uganda, l’anno scorso ci sono stati 135 mila nuovi contagi da AIDS. In Kenya la situazione è addirittura peggiore. L’AIDS è la prima causa di morte tra i giovani africani. Santità, Lei ha incontrato bambini sieropositivi e ha ascoltato una testimonianza commovente in Uganda. Eppure, Lei ha detto molto poco su questo argomento. Noi sappiamo che la prevenzione è fondamentale. Sappiamo anche che il profilattico non è l’unico mezzo per fermare l’epidemia. Sappiamo che però è una parte importante della risposta. Non è forse tempo di cambiare la posizione della Chiesa a questo proposito? Di consentire l’uso del profilattico al fine di prevenire ulteriori contagi?
Papa Francesco. La domanda mi sembra troppo piccola e mi sembra anche una domanda parziale. Sì, è uno dei metodi; la morale della Chiesa si trova – penso – su questo punto davanti a una perplessità: è il quinto o è il sesto comandamento? Difendere la vita, o che il rapporto sessuale sia aperto alla vita? Ma questo non è il problema. Il problema è più grande. Questa domanda mi fa pensare a quella che hanno fatto a Gesù, una volta: “Dimmi, Maestro, è lecito guarire di sabato?”. E’ obbligatorio guarire! Questa domanda, se è lecito guarire… Ma la malnutrizione, lo sfruttamento delle persone, il lavoro schiavo, la mancanza di acqua potabile: questi sono i problemi. Non chiediamoci se si può usare tale cerotto o tale altro per una piccola ferita. La grande ferita è l’ingiustizia sociale, l’ingiustizia dell’ambiente, l’ingiustizia che ho detto dello sfruttamento, e la malnutrizione. Questo è. A me non piace scendere a riflessioni così casistiche, quando la gente muore per mancanza di acqua e per fame, per l’habitat… Quando tutti saranno guariti o quando non ci saranno queste malattie tragiche che provoca l’uomo, sia per ingiustizia sociale, sia per guadagnare più soldi – pensa al traffico delle armi! – quando non ci saranno questi problemi, credo che si potrà fare una domanda: “E’ lecito guarire di sabato?”. Perché si continuano a fabbricare armi e trafficare le armi? Le guerre sono la causa di mortalità più grande… Io direi di non pensare se è lecito o non è lecito guarire di sabato. Io dirò all’umanità: fate giustizia, e quando tutti saranno guariti, quando non ci sarà ingiustizia in questo mondo, possiamo parlare del sabato.
lunedì, 30 novembre 2015
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151130_repubblica-centrafricana-conferenza-stampa.html
Il Papa: riaffermare ruolo donna nella famiglia e nel lavoro.
E’ necessario “affermare il ruolo insostituibile della donna nella famiglia e nell’educazione dei figli, come pure l’essenziale contributo delle donne lavoratrici alla edificazione di strutture economiche e politiche ricche di umanità”: è quanto afferma Papa Francesco in un messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, in occasione del Seminario internazionale di studio promosso a Roma dal Pontificio Consiglio per i Laici sul tema “Donne e lavoro”. Il Pontefice invita a individuare “concreti suggerimenti e modelli positivi per armonizzare impegni lavorativi ed esigenze familiari”, nel contesto dell’odierna dicotomia tra la vita della famiglia e l’organizzazione del lavoro. Ad introdurre i lavori è il cardinale Stanislaw Rylko, presidente del dicastero vaticano per i laici. “Oggi – afferma un comunicato del dicastero – è necessario affermare un duplice riconoscimento sul ruolo che la donna ricopre nella vita pubblica, per l’edificazione di strutture più ricche di umanità, e nella vita familiare, per il benessere della famiglia stessa e per l’educazione dei figli”. Intento del simposio è anche “quello di analizzare e considerare vie d’uscita a quell’aut-aut in cui moltissime donne di oggi incappano, e di proporre soluzioni innovative verso un et-et, che permettano di coniugare impegni lavorativi e familiari. Si considereranno proposte per una più reale valorizzazione del lavoro femminile, che superino le discriminazioni di cui le lavoratrici sono ancora oggetto – come la penalizzazione della maternità e la disuguaglianza di stipendio. Si valuterà, inoltre, come porre in luce l’insostituibile servizio che solo il genio femminile sa rendere al genere umano, per la crescita di ogni individuo e per la costruzione della società”. Con questo Seminario, “il Pontificio Consiglio per i Laici desidera celebrare il ventesimo anniversario della pubblicazione della Lettera alle donne di Papa Giovanni Paolo II, nella quale il Santo Pontefice ebbe a manifestare sentimenti di viva gratitudine e di apprezzamento da parte della Chiesa nei confronti delle donne impegnate in attività professionali. A loro, infatti, si rivolse esplicitamente affermando: “Grazie a te, donna-lavoratrice! (…) per l’indispensabile contributo che dai (…) alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità””. Il Seminario affronta anche la questione della teoria gender e i suoi paradossi. L’incontro raduna autorevoli relatori di nove Paesi, e saranno previsti ampi spazi di dibattito per permettere la compartecipazione ai lavori di tutti i presenti. Parità salariale sul posto di lavoro e tutela della maternità sono due degli aspetti più evidenti della discriminazione che le donne subiscono in ambito lavorativo, tanto che lo stesso Papa Francesco li ha denunciati più volte. “Sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! Hanno gli stessi diritti. La disparità è un puro scandalo!”.
Nel corso dell’Udienza Generale del 29 aprile 2015 scorso, Papa Francesco fa giungere ancora una volta la sua voce alle donne come potente sostegno alla costruzione di una nuova stagione dell’uguaglianza in ambiente lavorativo. A parlare della condizione della donna in ambito lavorativo e di ciò che si può fare per cambiare questa situazione, è il Pontificio Consiglio per i Laici che ha riunito degli esperti internazionali in un seminario in corso a Roma. Tra questi, la professoressa Giorgia Salatiello, docente di filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma: “Il problema di donne e lavoro possiamo definirlo un problema di portata antropologica; ed è proprio per questo, per questa portata antropologica, che noi comprendiamo il coinvolgimento diretto della Chiesa. Non è una questione settoriale, ma è una questione che mette in discussione la vita concreta delle donne e degli uomini”.
Il tasso di occupazione delle donne è aumentato in maniera significativa nel corso dell’ultimo decennio, ma occorre migliorare la qualità dei posti di lavoro e delle politiche di conciliazione della vita privata e di quella professionale. Le donne sono sottorappresentate nei processi decisionali, sia nei parlamenti e nei governi nazionali sia nei consigli di direzione di grandi imprese. Ma se un cambiamento culturale stenta a modificare questo stato di cose, è possibile fare di più a livello istituzionale? Ancora la professoressa Salatiello: “C’è un movimento circolare: un cambiamento culturale produce prima o poi di necessità un cambiamento istituzionale. E viceversa: un cambiamento istituzionale pian piano modifica anche la cultura. Quindi bisogna lavorare sui due fronti simultaneamente”.
L’incontro si svolge a 20 anni dalla Lettera alle donne di Giovanni Paolo II. Ascoltiamo in proposito la dottoressa Isabelle Cassarà, officiale presso il Pontificio Consiglio per i Laici: Penso che il grande pregio di questa lettera venga proprio dal fatto che mentre da una parte il Papa conferma l’imprescindibile ruolo che la donna ha nella famiglia come madre, come moglie, nell’educazione dei figli, dall’altra dice anche la necessità di vedere la donna coinvolta nel mondo del lavoro e nella sfera pubblica in generale. Ma la grande attualità di questa Lettera, che è stata scritta vent’anni fa, è il fatto che già parlava dei grandi condizionamenti culturali che deve vivere la donna, che si trova ad essere lacerata. Da una parte, infatti, non vede riconosciuto socialmente il suo ruolo di madre e dall’altra ha delle discriminazioni innegabili nel mondo del lavoro per il fatto stesso di essere donna, peggio ancora se si è madri. C’è un paradosso in questo: Giovanni Paolo II diceva che il contributo che la donna può dare alla soluzione delle grandi questioni sociali viene da quel genio femminile che lui identificava nel “dono di sé”: la capacità della donna di dare la vita. Vorrei però richiamare, perché penso che sia importante, un documento che è stato scritto quasi dieci dopo questa Lettera da parte della Congregazione della Dottrina della Fede, a firma dell’allora cardinale Ratzinger, in cui si confermavano le parole di San Giovanni Paolo II, ma c’è un ulteriore passo esplicito. È vero che ciò che struttura profondamente l’identità femminile è questa sua capacità fisica di dare la vita. Ma questo non ci autorizza affatto a rinchiudere la donna solamente nel suo destino biologico. Non si può considerare la donna soltanto sotto il profilo della procreazione biologica. E credo che questo sia molto importante, perché, con una sorta di pregiudizio, si pensa che la Chiesa voglia le donne confinate in casa. E invece non è così.
Stefano Leszczynski Notiziario Radio vaticana – 4 dicembre 2015
http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
La famiglia negli insegnamenti di Papa Francesco.
Riportiamo di seguito il discorso pronunciato il 18 novembre 2015 da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, in occasione della conferenza “La famiglia nel magistero di Papa Francesco”, tenutosi nella Chiesa Metropolitana di San Lorenzo, a Genova.
Papa Francesco parla con grande frequenza della famiglia. Tutti noi ricordiamo i grandi insegnamenti di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Egli era stato chiamato “Il Papa della famiglia”. Memorabili, in particolare, le catechesi delle udienze generali dedicate all’amore umano. Non di meno l’insegnamento di Papa Francesco, che interviene sulla famiglia con un magistero organico e profondo. Ne ha parlato al presidente Obama, durante la visita negli Stati Uniti. Ne ha parlato a Cuba: “dove viene meno la famiglia le persone si trasformano in individui isolati, e dunque facili da manipolare e governare”. Ne ha parlato al presidente Mattarella il 18 aprile 2015 e nel viaggio nelle Filippine nel gennaio 2014. Ne ha parlato, proprio come Giovanni Paolo II, soprattutto nelle Udienze del mercoledì, dedicate per un lungo periodo – precisamente dal dicembre 2014 al settembre 2015 – alla famiglia. Un grande patrimonio di insegnamenti.
Ho citato i due Pontefici non per fare superficiali confronti, ma per sottolineare la continuità di un unico insegnamento, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme comunicative adoperate. Giovanni Paolo II usava un linguaggio più circolare, Papa Francesco uno più diretto. Anche San Giovanni Paolo II formulò espressioni di grande efficacia comunicativa – ricordiamo, per esempio, il fortunato riferimento al “genio femminile” contenuto nella Lettera alle Donne o la felice espressione “ecologia umana” lanciata nella Centesimus annus per dire poi che la sua prima e principale struttura è la famiglia. Nel complesso, tuttavia, il suo dire era corposo, circolare, sostenuto, ad ampie volute. Il linguaggio di Papa Francesco è diverso, più agile e ricco di immagini. Prendiamo per esempio le espressioni “la famiglia è la Carta costituzionale della Chiesa” (17 ottobre 2015) oppure “per i malati la famiglia è il primo ospedale” (10 giugno 2015), oppure la famiglia “è una palestra che allena al perdono”.
Una carta costituzionale, un ospedale, una palestra: sono immagini semplici ed efficaci. Non si tratta di definizioni di tipo strettamente teologico e dottrinale, ma espressioni di predicazione capaci di trasmettere in forma viva un contenuto umano e cristiano. Non possiamo poi dimenticare come Papa Francesco, quando parla della famiglia, raccolga molte immagini dalla vita, anche dalla sua vita personale, come quando, parlando della Mamma, parlò della sua mamma: “eravamo cinque figli e mentre uno ne faceva una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto” (7 gennaio 2015).
Infine, ricordo alcune espressioni molto azzeccate di Papa Francesco su alcuni temi di spinosa attualità, rispetto ai quali egli era stato ingiustamente accusato di un certo silenzio. L’ideologia del gender egli l’ha chiamata “un errore della mente umana” (22 marzo 2015, a Napoli) e ha detto che essa è “una forma di colonizzazione ideologica della famiglia”. Ancora una volta un modo di esprimersi plastico ed efficace. Le questioni di linguaggio non sono mai solo tali. Esse rispondono ad un posizionamento ed esprimono una visione teorica ed una strategia. Vorrei azzardare, su questo punto, qualche ipotesi interpretativa.
La situazione attuale della famiglia è forse tra le più problematiche che si siano dovute registrare. I dati relativi al calo dei matrimonio, all’aumento delle convivenze, alle nascite fuori del matrimonio, alla denatalità, alle separazioni e ai divorzi, all’uso di contraccettivi con possibile effetto abortivo e così via documentano – anche nell’ultimo Rapporto del Censis – una forte crisi della famiglia. Nel frattempo le legislazioni di tutto il mondo la indeboliscono considerandola una struttura non naturale ma convenzionale e poliforme, in ossequio ad una antropologia liquida che rifiuta qualsiasi identità data. Negli interventi di Papa Francesco sulla famiglia si nota una forte consapevolezza di questa grave crisi culturale e sociale della famiglia a cui il Papa sembra far corrispondere un nuovo atteggiamento di risposta.
Il primo è di ricostruire dall’abc il lessico familiare. In un’epoca in cui si rischia di perdere il significato della parole “mamma” o “nonno”, emerge l’urgenza di risemantizzare queste parole. In un’epoca in cui le relazioni familiari si sbriciolano, i genitori non si incontrano mai con i figli se non a sera, i rapporti generazionali implodono e gli strumenti tecnologici fanno da supplenti dei ruoli familiari, è necessario tornare a spiegare cosa voglia dire parlarsi tra componenti di una famiglia. Ecco allora che Papa Francesco spiega l’importanza delle parole “grazie”, “scusa”, “permesso” nella micro vita familiare di tutti i giorni. Eccolo, come ha fatto di recente (11 novembre 2015) spiegare a genitori e figli che in famiglia bisogna anche lasciar stare smartphone e televisione e parlarsi dal vivo attorno alla tavola della cena. Nei primi mesi del 2015, il Papa ha dedicato le udienze del mercoledì a spiegare cosa significhino i termini mamma, papà, nonni, fratelli e sorelle.
Qualcuno può essere sorpreso che un Papa parli di queste piccole cose. Che, anziché discorsi di profonda teologia, spieghi che con uno switch off bisogna spegnere il cellulare quando si è a tavola. Io credo, però, che il Papa svolga così un compito indispensabile di rieducazione all’essenziale, nel tentativo di segnalare il pericolo di una degenerazione familiare che parte sì dagli attacchi ideologici e legislativi – che il Papa non manca di denunciare – ma che si concretizza anche nei piccoli baratri delle relazioni umane di tutti i giorni. Del resto – mi chiedo – si tratta veramente solo di indicazioni povere ed elementari, oppure con questa forma colloquiale e domestica – come seduto su un divano di una delle nostre abitazioni – il Papa sceglie di far capire contenuti molto più profondi? Per rispondere a questa domanda vorrei proporre alcune osservazioni sulla base della Dottrina sociale della Chiesa.
Papa Francesco non usa molto l’espressione Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero che nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium egli cita molte volte il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero anche che in molte circostanze, soprattutto nei discorsi ai Dicasteri e alle Accademie pontificie, egli ha adoperato l’espressione. Riconosciuto questo, mi sento di dire che egli usa la Dottrina sociale della Chiesa più in modo implicito che esplicito, indiretto più che diretto. Ciò è particolarmente evidente quando si riferisce alla famiglia. Leggendo i suoi interventi sulla famiglia si riscontra la presenza di tutti i grandi temi della Dottrina sociale della Chiesa inerenti alla famiglia senza che ciò sia messo in evidenza e con un linguaggio, come già si diceva sopra, non dottorale ma piano e quotidiano. Potrei anche dire che la Dottrina sociale della Chiesa è presupposta e passa dall’interno dei suoi interventi, senza essere formalmente ripresa e ridefinita.
E’ abbastanza facile portare qualche esempio. All’udienza generale del 2 settembre scorso, il Papa ha parlato della famiglia come antidoto all’attuale desertificazione della società. Con questa espressione immaginifica – il deserto – il Papa ha ribadito la tradizionale dottrina della famiglia come fonte di socialità, di accoglienza e come luogo dell’esperienza del dono che troviamo nella Caritas in veritate di Benedetto XVI o nella Familiaris consortio di Giovanni Paolo II. Già nell’udienza del 18 febbraio 2015 egli aveva insistito sul fatto che l’esperienza di essere fratelli e sorelle si fa in famiglia e solo perché si fa in famiglia la si può poi fare nella Chiesa e nella società. Così è per l’aiuto ai più deboli: è in famiglia che ci si abitua a farlo non per motivi ideologici, ma per amore.
Alla catechesi del 19 agosto scorso, Papa Francesco ha parlato della famiglia come scuola di lavoro, ammonendo che se si vuole salvare il lavoro bisogna salvare la famiglia, con ciò richiamando gli insegnamenti della Rerum novarum di Leone XIII e della Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Alle udienze del 22 e del 29 aprile di quest’anno ha parlato della reciprocità complementare tra uomo e donna, valutando negativamente le ideologie che oggi pretendono di negarla e ha poi chiesto la parità di trattamento sul lavoro tra uomo e donna. Nel primo caso ha ripreso e attualizzato gli insegnamenti di Benedetto XVI sull’ideologia del gender, contenuti soprattutto nel discorso alla Curia romana del dicembre 2012. Nel secondo ha ripreso le considerazioni di Giovanni Paolo II sulla conciliazione tra lavoro e vita familiare e l’adeguata valorizzazione del “genio femminile” nella società contenute nella Familiaris consortio e nella Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.
Nell’udienza dell’11 febbraio 2015, Papa Francesco ha parlato a lungo dei figli come un dono: “I figli sono un dono, sono un regalo: capito? I figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alle sue radici. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo”. In questo modo e con questo linguaggio diretto egli ha veicolato i contenuti della bioetica e della biopolitica cattolica, dalla Humanae vitae di Paolo VI alla Evangelium vitae di Giovanni Paolo II fino ai successivi documenti della Santa Sede.
Ho citato qui molti documenti magisteriali i cui contenuti si riverberano negli interventi di Papa Francesco, ma senza essere esplicitati. Potremmo forse definirli dei contenuti “leggeri”, non appesantiti dalla forma accademica della citazione ma inseriti nel flusso della vita. Ho fatto questi quattro esempi, per mostrare come gli interventi di Papa Francesco sulla famiglia sono sì effettuati con un linguaggio domestico che si concentra su immagini e frasi particolarmente evocative – “chi non vive per servire non serve per vivere” – ma con ciò non si esime dal veicolare contenuti molto alti. Mi sono occupato qui di temi legati alla Dottrina sociale della Chiesa, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per altri ambiti dell’insegnamento della Chiesa.
Vorrei ora tornare, avviandomi alla conclusione, al metodo che, come abbiamo visto, non è mai solo un problema di metodo. A me sembra che Papa Francesco ci voglia indicare una via caratterizzata da due elementi: il primo è ripartire dall’abc dell’umanizzazione e dell’evangelizzazione, anche a proposito della famiglia. Faccio notare che non ho parlato solo di evangelizzazione ma anche di umanizzazione. Nei discorsi del Papa sulla famiglia i due elementi si intrecciano sempre e, del resto, tutti constatiamo la necessità di recuperare, insieme al cristianesimo e tramite di esso, elementari condizioni umane di vita. Il secondo è che bisogna lavorare soprattutto sulle relazioni, perché non solo la famiglia è soprattutto relazione ma la società intera oggi gioca proprio lì la sua esistenza. Ciò non significa per nulla non collocarsi correttamente anche nei confronti delle istituzioni, delle leggi, delle politiche, ma bisogna ricordare che queste tre realtà non sono statiche, ma rispondono alle sollecitazioni che giungono dal basso, nella trama delle relazioni familiari e sociali. Qui i modelli veramente vincenti sono quelli che danno vita a comportamenti, ad atteggiamenti, a pratiche di vita, a relazioni. Da qui, probabilmente, una certa ritrosia o parsimonia del Papa a dare definizioni e la sua propensione a indicare comportamenti da assumere, prassi da promuovere, dimensioni di vita da valorizzare o, come egli ama dire, processi da avviare.
In questa dimensione relazionale e vitale, va collocata naturalmente prima di tutto la vita di fede. Il 25 marzo 2015, il Papa ha proposto una preghiera per la Famiglia in vista dell’allora prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia. Vi invito a non dimenticarla, ora che il Sinodo si è concluso. Questo per dire che mi sembra che Papa Francesco ci voglia insegnare che il cristianesimo è vita vissuta, carne incarnata. In fondo la famiglia si salverà se nelle nostre famiglie penetrerà la vita della Famiglia di Nazareth.
Zenit org 06 dicembre 2015
www.zenit.org/it/articles/la-famiglia-negli-insegnamenti-di-papa-francesco
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GENETICA
Il test prenatale servirà anche contro i tumori.
Oggi viene utilizzato da molte donne incinte: è uno screening non invasivo con cui rilevare l’eventuale presenza di anomalie cromosomiche nel feto, responsabili di malattie genetiche come la sindrome di Down o di Williams. Molto presto, però, potrebbe servire per leggere tutto il genoma del feto e sapere, ad esempio, quali malattie il bambino potrebbe sviluppare da adulto. O potrebbe essere sfruttato per individuare tracce nel Dna del feto di altre malattie, oggi impossibili da diagnosticare prima che il piccolo nasca. Le potenzialità del G-Test -il test di screening prenatale made in Italy – sono quasi infinite. E i creatori, i ricercatori dello spin-off Bioscience Genomics dell’Università di Roma Tor Vergata, hanno tutte le intenzioni di esplorarle.
«Il G-Test consiste nell’analisi di frammenti di Dna fetale che circolano nel sangue materno a partire dalla quinta settimana di gestazione», spiega il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’Università di Roma Tor Vergata. «Il G-test – continua – è l’unico ad essere stato validato su 600 mila casi e presenta la più alta percentuale di sensibilità per lo screening della Trisomia 21 (99,17%) e della Trisosmia 13 (100%) e il minor numero di falsi positivi (0,05% e 0,04%)». Il G-Test, a differenza degli altri sul mercato, è l’unico che garantisce sicurezza e affidabilità, risparmiando alle donne pericolosi aghi nel pancione, come quelli di amniocentesi e villocentesi. «Inoltre include l’analisi delle aneuploidie dei cromosomi sessuali, ovvero le anomalie nel numero dei cromosomi, e delle Trisomie 13, 18 e 21. E stiamo estendendo il test ad alcune sindromi da microdelezione, anomalie caratterizzate dall’assenza di un tratto di cromosoma».
L’analisi dei campioni e l’elaborazione dei dati vengono effettuati in un laboratorio dell’ateneo romano: quattro box letteralmente sigillati. Ed è qui che si lavora agli sviluppi del G-Test. «Il vantaggio di uno spin-off – dice Novelli – sta nella capacità di innovare continuamente i suoi prodotti. Il G-Test ha grandi potenzialità: potrà essere usato per analizzare anche il Dna dei tumori che circola nel sangue». Una «biopsia liquida» che potrebbe rivoluzionare sia le diagnosi sia i trattamenti.
Valentina Arcovio TuttoScienze La Stampa 2 dicembre 2015
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MATRIMONIO
Prima mamme e poi spose. Che cosa ci dice il dato su nascite e matrimoni in Italia.
Se consideriamo da un lato tutte le donne che si sono sposate nel 2013, e dall’altro tutte le donne che hanno partorito in questo stesso anno troviamo che le prime avevano un’età media di 32,8 anni e le seconde un’età media di 31,5 anni.
C’è un dato che riassume tutto quello che è successo negli ultimi decenni riguardo alla popolazione italiana, ai suoi comportamenti demografici, che poi sono intrinsecamente, costitutivamente, comportamenti culturali, ovvero stili di vita, costumi, tendenze, modelli culturali e ideali. Spiega il crollo del matrimonio come la crisi delle nascite, la fecondità ridotta ai minimi termini come le stesse pessime prospettive che ci aspettano su questo terreno – anche se appare difficile fare ancora peggio di quel che stiamo già facendo. Questo dato consiste in un sorpasso, quello dell’età media della donna al matrimonio rispetto all’età media della donna al parto. Insomma, se consideriamo da un lato tutte le donne che si sono sposate nel 2013, e dall’altro tutte le donne che hanno partorito in questo stesso anno (ultimo anno di disponibilità dei dati delle donne al matrimonio e alla nascita dei figli secondo l’età delle medesime) troviamo che le prime avevano un’età media di 32,8 anni e le seconde un’età media di 31,5 anni. Detto diversamente: in Italia la donna che si sposa ha mediamente un anno e quattro mesi più della donna che partorisce. Metto di proposito i tempi al presente perché non c’è alcuna possibilità che le cose cambino nel corso di questo 2015. Se un ritocco pur minimo dovesse esserci andrebbe semmai ad allargare la forbice, non a strettirla.
Risultato a suo modo stupefacente. Ma certamente tutt’altro che inspiegabile. Il crescente divario tra una più alta età media al matrimonio e una più bassa età media della donna alla nascita dei figli certifica, innanzi tutto, l’ormai avvenuta separazione tra la nascita dei figli e il matrimonio: i figli non si fanno più in costanza di matrimonio, come si suol dire tecnicamente, e com’era fenomenologicamente fino a quattro decenni fa. Fosse ancora così le età medie delle donne sarebbero esattamente rovesciate: più giovani al matrimonio, e meno giovani alla nascita dei figli. I figli si fanno sempre di più, come sappiamo, fuori dal matrimonio. E a questo proposito si assiste al curioso fenomeno di molte coppie di fatto che provvedono a sposarsi una volta arrivato il figlio, contribuendo così allo sfalsamento temporale delle date, con quella del figlio che precede quella del matrimonio. Sfalsamento dovuto poi al carattere quasi residuale che ha assunto il matrimonio in Italia, molto più di quanto non sia successo alle nascite. Vale a dire: tra la rinuncia al figlio e la rinuncia al matrimonio, per quanto anche la prima sia molto accentuata, ha vinto e continua a vincere la seconda. E’ più facile sentir dire, da una donna, che non si sposerà piuttosto che non avrà figli. Ed è così, infatti: per molti motivi la donna fa resistenza più al matrimonio che non al figlio, cosicché cade prima la resistenza al figlio di quanto non succeda col matrimonio. E infatti i matrimoni hanno lasciato per strada dal dopoguerra ad oggi, in proporzione, più di quanto non abbiano lasciato per strada le nascite. L’introduzione del divorzio ha poi dato il via al fenomeno delle seconde (e terze) nozze, prima ristretto agli sporadici matrimoni dei vedovi. Ma ai secondi matrimoni si arriva ben più tardi che non ai primi, mentre invece l’età media alla nascita dei figli risente meno di questo fenomeno in quanto le nascite si concentrano essenzialmente nei primi matrimoni. C’è poi che le nascite d’oggi sono a grande maggioranza, diversamente da ieri, nascite del primo figlio e non tanto del secondo e meno ancora del terzo e del quarto figlio, cosicché per quanto cresca l’età della donna alla nascita del figlio, questo rappresenta pur sempre un fattore che trattiene, per dir così, quell’età entro un certo limite, cosa che non ha invece riscontro nel matrimonio.
E c’è infine un ultimo, ma non così ultimo negli effetti, fattore che gioca nel contribuire alla più forte crescita dell’età al matrimonio: il costo sempre più notevole del matrimonio, e segnatamente di quello religioso – che anche per questo è quello che ha fatto segnare una vera débâcle. Si dirà, e il costo del figlio, allora? Vero. Ma il costo del figlio è scandito nel tempo, quello del matrimonio è istantaneo, tutto d’un botto. E in anni di crisi per un verso e di scarsa propensione famigliare per l’altro anche questo vuol dire. E dire molto. La chiesa dovrebbe cominciare a pensarci sopra, se proprio vuole un consiglio (di) laico.
Roberto Volpi il foglio quotidiano 5 dicembre 2015
www.ilfoglio.it/dati-e-statistiche/2015/12/05/prima-mamme-e-poi-spose-che-cosa-ci-dice-il-dato-su-nascite-e-matrimoni-in-italia___1-v-135712-rubriche_c265.htm
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OMOFILIA
L’omosessualità spiegata senza Freud.
In una canzone del 2011 Lady Gaga cantava “Baby, sono nata così”, convinta che le sue inclinazioni sessuali fossero legate ai suoi cromosomi. Queste convinzioni non sono state confermate, perlomeno fino ad ora, dalle ricerche genetiche e neurobiologiche sull’origine dell’omosessualità, per cui ancora oggi è difficile trovare una spiegazione soddisfacente. Anche in un recente articolo comparso sulla rivista scientifica 4DJFODF ci si interroga se “L’epigenetica possa spiegare il puzzle dell’omosessualità?”, aprendo un nuovo capitolo di studio. Sarebbe l’ambiente materno durante la gravidanza a intervenire sul corredo genetico del feto in particolare su quelle zone che presiedono all’orientamento sessuale, favorendo in questo modo l’omosessualità. Anche il titolo italiano del libro di Simon LeVay solleva un interrogativo analogo: (BZ TJ OBTDF (Cortina). Secondo LeVay, neuroscienziato che ha lavorato presso l’Harvard University e il Salk Institute, l’omosessualità sarebbe associata a una riduzione di volume dell’ipotalamo nel cervello degli omosessuali, più simile a quello delle donne. Si tratta di ricerche che hanno bisogno di essere replicate prima di giungere a una conclusione definitiva, escludendo provocata da altre cause, dal momento che i gay studiati in questa ricerca erano tutti morti per Aids.
Il libro è estremamente documentato e passa in rassegna criticamente gli studi in ambiti diversi da quello psicoanalitico a quello neurobiologico che si sono susseguiti, proponendo di volta in volta spiegazioni diverse, addirittura giungendo a sostenere che si possa trattare di una scelta consapevole di vita quasi fosse possibile imporre una direzione alla sessualità, che come Freud ha mostrato è sostenuta dall’istintualità. Ma lo stesso Freud quando ha cercato di spiegare l’omosessualità non ha trovato una chiave di lettura convincente, questa è l’opinione di LeVay, soprattutto per il fatto che i gay rimarrebbero legati alla figura materna e non semplicistica, dimenticando che i più recenti sviluppi della psicoanalisi hanno messo in luce che il bambino deve staccarsi emotivamente dalla madre intorno ai due anni e, se questo non avviene con il sostegno del padre, il bambino rimarrebbe eccessivamente legato alla madre. Al termine del libro non può non emergere un altro interrogativo: si può parlare di omosessualità come se si trattasse di una condizione omogenea?
La stessa eterosessualità, che si potrebbe considerare più definita, ha in realtà declinazioni molto diverse, legate sì alla biologia ma anche alla storia personale e alla cultura in cui si vive che sicuramente indirizzano e modulano gli orientamenti sessuali.
Massimo Ammaniti La repubblica 30 novembre 2015
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/11/29/lomosessualita-spiegata-senza-freud48.html?ref=search
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PARLAMENTO
Camera. Assemblea question time. Utilizzo del fondo per i consultori familiari.
26 novembre 2015 Svolgimento di interrogazioni a risposta immediata.
n. 3-01870: Chiarimenti in merito all’utilizzo del fondo finalizzato a garantire il funzionamento dei consultori familiari ai fini della prevenzione dell’aborto per cause socio- economiche
Presidente. Il deputato Gigli ha facoltà di illustrare la sua interrogazione n. 3-01870 concernente chiarimenti in merito all’utilizzo del fondo finalizzato a garantire il funzionamento dei consultori familiari ai fini della prevenzione dell’aborto per cause socio-economiche.
GIGLI. (3-01870) — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che: la legge 22 maggio 1978, n. 194, recante «Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza (IVG)», riconosce all’articolo 1 il valore sociale della maternità ed afferma la tutela della vita umana dal suo inizio, oltre a stabilire che l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite; la stessa legge, all’articolo 2, per evitare il ricorso all’aborto, prevede, oltre ad idonei strumenti d’informazione, anche l’attuazione diretta da parte dei consultori familiari {pubblici e privati. ndr} di speciali interventi quando la gravidanza o la maternità creino problemi per i risolvere i quali non basti l’informazione sui diritti e sui servizi offerti dalle strutture operanti nel territorio; nello stesso articolo 2 si prevede anche che possa essere attivata, sulla base di regolamenti o convenzioni apposite, la collaborazione con idonee formazioni sociali di base e associazioni del volontariato per aiutare la maternità difficile anche dopo la nascita; la sopracitata legge n. 194 del 1978 prevedeva di aumentare il fondo per il funzionamento dei consultori familiari, previsto dall’articolo 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405, attraverso l’assegnazione di 50 miliardi di lire annue, da ripartirsi tra le regioni per l’adempimento degli ulteriori compiti assegnati dalla legge stessa ai consultori familiari; il Ministro interrogato è tenuto a presentare annualmente al Parlamento una dettagliata relazione sull’attuazione della legge stessa, secondo quanto previsto all’articolo 16, «anche in riferimento al problema della prevenzione»–per quanto di sua competenza, quale sia stata l’effettiva utilizzazione del fondo previsto di 50 miliardi di lire annue, ai fini della prevenzione dell’aborto per cause socio-economiche.
Gian Luigi Gigli. Grazie, Presidente, signora Ministro, la legge n. 194 del 1978, forse con un po’ di ipocrisia, riconosce il valore sociale della maternità e la tutela della vita umana, fin dal suo inizio. Per la legge n. 194 l’aborto non è un diritto e non è uno strumento per il controllo delle nascite, tant’è che incoraggia la prevenzione e auspica che vengano messi in atto interventi sia dal punto di vista dell’informazione che dal punto di vista anche di interventi diretti volti a risolvere situazioni altrimenti non solubili; situazioni certamente, quindi, di bisogno che sappiamo essere alla base di una grossa fetta dell’abortività del nostro Paese. Come sono stati spesi i 50 miliardi di lire di allora, annui, che la legge n. 194 ha messo a disposizione appunto per quest’opera di prevenzione? Quanti e quali interventi sono stati fatti appunto per dare alternative all’aborto, a chi lo chiedeva per condizioni socio-economiche difficili?
Presidente. La Ministra della salute, Lorenzin, ha facoltà di rispondere, per tre minuti.
Beatrice Lorenzin, Ministra della salute. Presidente, ringrazio l’onorevole interrogante per avere ancora una volta richiamato l’attenzione sull’importanza delle attività volte alla prevenzione dell’interruzione volontaria di gravidanza. L’attività di prevenzione dell’interruzione volontaria di gravidanza si sostanzia in tre diverse forme: l’attuazione di programmi di promozione della procreazione responsabile, nell’ambito del percorso nascita e di programmi di informazione ed educazione sessuale tra gli adolescenti nelle scuole e nei conseguenti spazi giovani presso i consultori; secondo, l’effettuazione di uno o più colloqui con membri di un’équipe professionalmente qualificata, come quella che opera nei consultori, per valutare le cause che inducono la donna alla richiesta dell’interruzione volontaria di gravidanza e la possibilità di adottare tutte le misure necessarie per il loro superamento, sostenendo le maternità difficili nonché la promozione dell’informazione sul diritto a partorire in anonimato; terzo, lo svolgimento di un approfondimento-colloquio con le donne che hanno deciso di effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza, mediante il quale si analizzano le condizioni del fallimento del metodo impiegato per evitare la gravidanza e si promuove una migliore competenza nell’utilizzo dei metodi contraccettivi. Tale colloquio, volto a ridurre il rischio di aborti ripetuti, è bene che si svolga nel consultorio, a cui la donna ed eventualmente la coppia dovrebbe essere sempre indirizzata, in un contesto di continuità di presa in carico, anche per la verifica di eventuali complicanze post-aborto. L’efficacia di tale attività di prevenzione è testimoniata dal fatto che il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza è stato sempre in costante diminuzione in Italia, fin dal 1982. Secondo tutti i parametri l’attuale tasso di abortività del nostro Paese, infatti, è fra i più bassi tra quelli dei Paesi occidentali. Concordo con l’onorevole Gigli sul fatto che i consultori familiari costituiscono i servizi di gran lunga più competenti nell’attivazione di reti di sostegno per la maternità, in collaborazione con i servizi sociali dei comuni e con tutti i soggetti che operano nel sociale. Nella relazione al Parlamento sull’attuazione della legge n. 194, trasmessa lo scorso 26 ottobre, sono riportati i dati riguardanti le attività dei consultori per ciascuna regione. Pur nella difformità riscontrata, si può rilevare come in tutte le regioni il numero dei colloqui per richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza sia superiore al numero di certificati rilasciati, una circostanza, quest’ultima, che sembra pertanto confermare l’efficacia dell’azione svolta dai consultori per aiutare la donna a rimuovere le cause che porterebbero all’interruzione di gravidanza. Da ultimo, per quanto riguarda l’effettiva utilizzazione del fondo al quale l’onorevole interrogante fa riferimento, preciso che le somme stanziate dal legislatore, sia con legge istitutiva dei consultori che con la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, sono ormai confluite in modo indistinto nel vigente finanziamento del Servizio sanitario nazionale.
Presidente. Il collega Gigli ha facoltà di replicare, per due minuti.
Gian Luigi Gigli. Presidente, ringrazio la signora Ministro. Io ho letto con attenzione la sua relazione annuale, quella di quest’anno, e le do atto che sono riportati – questo è merito suo – per la prima volta, anzi è la seconda volta che accade – i dati sul rapporto tra numero di colloqui e numero poi di interventi effettivamente fatti, ma non sappiamo nulla, però, di quali siano stati questi interventi, in particolare non sappiamo nulla del sostegno economico che è stato dato appunto alle gestanti, sostegno sul quale le regioni abilmente glissano nel fornire appunto i dati di interesse. Allora credo che qualcosa di più – questo voleva essere il senso del mio invito – dovremmo farlo, perché non è possibile che ancora oggi, per ragioni economiche, una donna debba rinunciare ad avere un bambino. È un dramma comunque l’aborto, per il bambino che muore e per la donna, spesso, che si porta appresso questa cicatrice, questo dramma, soprattutto se a motivarla sono state ragioni di ordine economico, con situazioni di tipo depressivo e con altre lacerazioni interiori che spesso durano tutta la vita. Allora, sapere che cos’è che possiamo fare e che abbiamo fatto, credo sia un dovere. E dovremmo – in questo la vorrei incoraggiare –, per l’anno prossimo, fare di più perché le regioni questi dati ce li diano, cioè ci dicano, pur all’interno di un fondo indistinto, quanto hanno speso per prevenire l’aborto per ragioni socio-economiche. Saperlo penso sia un diritto di questa società, e la incoraggio davvero a mettere in atto gli strumenti adeguati per saperlo.
pag. 59 www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0530&tipo=stenografico#sed0530.stenografico.tit00070
Senato 1° Commissione affari costituzionali. Disposizioni in materia di cittadinanza
2092 Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza, approvato dalla Camera dei deputati in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’iniziativa popolare e dei disegni di legge d’iniziativa dei diversi deputati.
testo www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/940816/index.html
1 e 2 dicembre 2015. La questione pregiudiziale Calderoli viene respinta.
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=951217
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=952042
Il 13 ottobre 2015 la Camera ha approvato il disegno di legge che modifica la L. n. 91/1992 che prevede, quale modalità di acquisto della cittadinanza, esclusivamente lo ius sanguinis.
Se il Ddl diventerà legge potranno ottenere la cittadinanza italiana i bambini stranieri nati in Italia se almeno un genitore è titolare di diritto di soggiorno permanente -nel caso di cittadini dell’Unione europea- oppure di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo -per i cittadini appartenenti a Stati non UE. Inoltre potrà ottenere la cittadinanza il minore straniero nato in Italia (o entrato nel nostro Paese entro il compimento del 12° anno di età), purché abbia frequentato regolarmente uno o più cicli scolastici per almeno cinque anni presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione ovvero percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale.
Alla fine dello scorso mese la Commissione permanente Affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame del Ddl. Diverse sono state le richieste di modifica del testo approvato a larga maggioranza dalla Camera. Due richieste di modifica riguardano profili di illegittimità costituzionale: i nuovi strumenti, infatti, non terrebbero conto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, evitando di considerare gli eventuali svantaggi derivanti dalle condizioni di disabilità dell’interessato; sarebbe poi necessario attribuire ad entrambi i genitori titolari della responsabilità genitoriale (anziché ad uno solo) il potere di presentare la dichiarazione di volontà per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte del figlio minorenne.
newsletter AIAF 2 novembre 2015 www.aiaf-avvocati.it/?mc_cid=b5b397ff2a
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SCIENZA&VITA
Fronte laico contro l’utero in affitto? Era ora!
“Da primi firmatari dell’appello internazionale, dopo i tanti richiami in questi anni a contrastare questo fenomeno – con la coraggiosa e determinata discesa in campo del quotidiano Avvenire – guardiamo con attenzione e soddisfazione all’iniziativa italiana che da ambienti ‘laici’ muove finalmente contro l’utero in affitto”, commenta Paola Ricci Sindoni, Presidente nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.
“Combattere la mercificazione della donna e dei bambini non è una battaglia ‘cattolica’ o ‘laica’, ma un’opposizione doverosa a una pratica barbara che riduce in schiavitù la madre surrogata e rende oggetto di commercio il suo bambino. Per questo è inequivocabile che non si tratta di omofobia (la maggioranza delle coppie che fa ricorso all’utero in affitto è etero), ma di giustizia e di rispetto autentico della dignità delle persone. Il fatto poi che siano proprio le femministe di tutto il mondo a mobilitarsi, è un segnale positivo di grande significato: il riappropriarsi della preziosità e dell’unicità della capacità femminile di generare la vita”.
Comunicato stampa n. 200, 4 dicembre 2015
www.scienzaevita.org/scienza-vita-il-fronte-laico-contro-lutero-in-affitto-era-ora
Femministe contro l’utero in affitto “Non è un diritto”.
“Maternità surrogata da bandire: non accettiamo che le donne tornino ad essere oggetti”.
Un appello contro la pratica dell’utero in affitto. La richiesta all’Europa di metterla al bando. Il desiderio di rompere quello che viene definito «un silenzio conformista su qualcosa che ci riguarda da vicino». A promuoverlo sono le donne di Senonoraquando libere.
A firmare, un mondo vasto che va dal cinema alla letteratura, dal campo universitario a quello delle associazioni per i diritti. Così ci sono Stefania Sandrelli, Giovanni Soldati, Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Claudio Amendola, Francesca Neri, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Micaela Ramazzotti. E poi intellettuali come Giuseppe Vacca, Peppino Caldarola, la scrittrice Dacia Maraini. E ancora le suore orsoline di Casa Rut a Caserta, l’associazione Slaves no more di Anna Pozzi, Aurelio Mancuso, già presidente di Arcigay e ora di Equality Italia. Un elenco in fieri che da oggi sarà pubblicato sul sito Che libertà www.cheliberta.it. Sotto un testo che recita: «Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore. In Italia è vietata, ma nel mondo in cui viviamo l’altrove è qui: “committenti” italiani possono trovare in altri Paesi una donna che “porti” un figlio per loro. Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione». Il nodo è quello della differenza tra desiderio e diritto. I temi sono quelli del limite, della libertà e della modernità. Per questo, racconta chi ha raccolto le firme come la docente universitaria Francesca Izzo, «mi ha colpita una certa resistenza. Molti, forse più uomini ma anche donne, hanno mostrato una singolare ignoranza della questione, si sono dichiarati troppo inesperti per esprimersi. C’è quasi la disponibilità a considerarla una cosa accettabile senza volersene troppo occupare». Dice la regista Cristina Comencini: «Una madre non è un forno. Abbiamo sempre detto che il rapporto tra il bambino e la mamma è una relazione che si crea. Concepire che il diritto di avere un figlio possa portarti all’uso del corpo di donne che spesso non hanno i mezzi, che per questo vendono i loro bambini, riconduce la donna e la maternità a un rapporto non culturale, non profondo». Già alcune femministe italiane – dopo quelle francesi, che hanno stilato un manifesto simile qualche mese fa – hanno sostenuto queste tesi e sono state, come scriveva ieri
Avvenire, accusate di omofobia. «Ma la questione riguarda per l’80% coppie omosessuali – dice Izzo – non c’entra con i diritti dei gay che abbiamo sempre difeso. Ad esempio sostenendo la possibilità, per tutti, di adottare». Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio e deputata del Pd, spiega: «Mi sono battuta per la legge contro l’omofobia, mi sto battendo per le unioni civili, penso che la politica debba lavorare seriamente sulla riforma delle adozioni. Tutte cose che non sono in contraddizione con il nostro appello. In quel testo noi diciamo una cosa fondamentale: “Nessun essere umano deve essere ridotto a mezzo”. Questo vale per tutti. Su questo, sul concetto profondo di libertà, dobbiamo tutti essere in grado di mettere in campo un pensiero nuovo. Il tempo di gestazione non è un tempo meccanico, quel bambino non è un oggetto, quella donna non è solo un corpo, perché il nostro corpo siamo noi».
Annalisa Cuzzocrea la repubblica 4 dicembre 2015
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/12/04/femministe-contro-lutero-in-affitto-non-e-un-diritto29.html?ref=search
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SEPARAZIONI
Emergenza separazioni: sempre più i figli plagiati.
Separazioni sempre più conflittuali. Bambini sempre più vittime dell’egoismo e della rabbia di genitori incapaci di valutare le conseguenze dei loro gesti. Accuse e contro- accuse segnate spesso da un concetto tanto aspro quanto dibattuto, quello di alienazione genitoriale. Madri e padri cioè che manipolano i propri figli per usarli come strumenti offensivi contro il coniuge separato. Succede molto più spesso di quanto ci si immagini. Ma è un problema reale? Qualcuno vorrebbe liquidare la questione quasi come una scelta ideologica da parte dei soliti maschi prevaricatori, un’esagerazione che rischia di danneggiare le stesse donne. Coloro che, vittime di un compagno violento o presunto tale, finiscono poi per essere ingiustamente accusate con questa
‘inesistente’ arma giuridico-scientifica. Ma è davvero ‘inesistente’?
Per tantissimi esperti è vero il contrario. Siamo di fronte – si spiega – a un autentico disturbo mentale. A una vessazione patologica che, nei casi di separazione, sfocia nell’abuso psicologico della volontà dei figli minori. Al di là delle diverse opinioni e del lessico che divide, l’alienazione genitoriale nei confronti dei bambini è una prassi deviante in costante aumento tra i genitori separati che si lasciano in modo conflittuale. Per questo c’è chi, come l’avvocato Giulia Bongiorno, con la sua associazione ‘Doppia difesa’, ha sentito il bisogno di presentare una proposta di legge in tema «di abuso delle relazioni familiari o di affido» che va a punire proprio quei genitori – in 8 casi su 10 si tratta di madri – che usano i figli minori come strumenti di attacco nei confronti del coniuge separato. Difficile valutare numericamente questi casi. Se è vero che le separazioni giudiziali sono meno del 20 per cento del totale – per i divorzi si arriva al 23 per cento – gli avvocati matrimonialisti fanno notare come le situazioni ad alto rischio siano sempre più numerose.
Probabilmente il 10 per cento delle circa 17mila separazione giudiziali che si registrano ogni anno nel nostro Paese. Numeri che in ogni caso sono imponenti. In Italia ci sarebbero cioè quasi duemila famiglie in cui, ogni anno, un genitore separato tenta di manipolare la volontà di un figlio per accusare il coniuge. A farne le spese, evidentemente, sono sempre i bambini, non solo contesi, ma troppo spesso usati, manipolati, sottoposti a veri e propri lavaggi del cervello con un unico obiettivo: trasformare una storia fallita in un’occasione di vendetta che lascia spazio ai sentimenti e alle azioni peggiori. Vittorio Vezzetti, pediatra, presidente dell’Associazione ‘Figli per sempre’ che da anni si occupa del tema, invita a distinguere tra il nome scientifico del problema e i suoi effetti: «L’Apa, American psychiatric association, su pressione di importanti lobby vetero-femministe negli Usa, ha deciso di non elencare testualmente il concetto controverso di alienazione genitoriale nell’ultima edizione del catalogo dei disturbi mentali.
Evidentemente questo non significa che l’alienazione, il condizionamento parossistico del minore da parte di genitori patologici, non esista: non esisterebbero neppure il mobbing o lo stalking su cui tanti Stati hanno elaborato dettagliate leggi». Difficile comprendere quale differenza esista concretamente tra il definire un problema – comunque preoccupante – sindrome o ‘solo’ disturbo relazionale. «Si tratta di un distinguo più politico che scientifico – prosegue Vezzetti – basti pensare che per evitare la parola alienazione, si ricorre a perifrasi come ‘ostilità o biasimo dell’altro’, oppure ‘sentimenti ingiustificati di estraniamento’».
Eppure le ricerche parlano chiaro. E non solo nei Paesi anglosassoni, dove il problema è da tempo dibattuto. In un recente studio pubblicato sulla Rivista della società italiana di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, è stato messo in evidenza come il 92% delle denunce di violenza (nella stragrande maggioranza dei casi mosse dalle madri contro i padri separati) è risultata infondata, mentre analoga ricerca svolta in Olanda ha raggiunto il valore del 95%. «Peraltro occorre rilevare – prosegue l’esperto – che nei Paesi anglosassoni, dove notoriamente una denuncia falsa può avere, a differenza che in Italia, grosse ripercussioni sia in sede di affidamento della prole che in ambito risarcitorio, la percentuale di false denunce risulta mediamente molto più bassa che da noi, a dimostrazione che leggi e costumi giudiziari possono influenzare notevolmente i comportamenti delle persone».
Luciano Moia Avvenire 2 dicembre 2015
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Separazioni-emergenza-Sempre-pi-i-figli-plagiati-.aspx
«Conseguenze laceranti. Una legge diventerebbe però un’arma a doppio taglio»
«Una legge sull’alienazione parentale? Non saprei, bisogna approfondire bene. Non bastano ricerche prese a prestito da un altro Paese per modificare il nostro sistema giudiziario che fa riferimento a una realtà socio-culturale molto specifica». Accanto alle perplessità giuridiche, quelle scientifiche. Simona Abate, psicologa clinica a Roma, è una delle studiose più attente dell’alienazione genitoriale, ma ritiene che la pretesa di inquadrare il problema in una sindrome specifica, presenti più svantaggi che opportunità.
Perché questi dubbi?
Trasformare questo disagio relazionale in una sindrome con riferimenti scientifici rigorosi vuol dire farne un’arma a doppio taglio. C’è il rischio di lasciare poco spazio a situazioni psicosociali molto varie e che quindi non possono essere etichettate in modo uniforme.
E questo che conseguenze può avere?
Il rischio è quello di strumentalizzare casi che non devono invece essere inquadrati come alienazione parentale. Ricordiamo che il manipolatore è anche quello che manipola gli avvocati. E in Italia la formazione di magistrati e di legali su questo specifico problema è ancora tutta da inventare.
Vuol dire il problema si risolve solo valutando caso per caso?
Sì, per definire una sindrome sono necessari una serie di criteri precisi. E questo elenco di caratteristiche rischia di essere restrittivo per un problema così vasto e sul quale inoltre mancano ancora, almeno nel nostro Paese, ricerche esaustive.
Qual è il rischio più grave?
Una sindrome preconfezionata può essere usata dal genitore in malafede. Non tutti i bambini che non desiderano più vedere un padre che se n’è andato di casa, sono stati abusati. Forse sono arrabbiati per il suo allontanamento. Se definiamo una sindrome specifica, con una legge che scatta automaticamente, potrebbero nascere conseguenze spiacevoli.
Ma al di là della definizione scientifica, come limitare i danni derivanti dall’alienazione genitoriale?
Osservando bene i minori coinvolti nelle separazioni giudiziali a elevata conflittualità. E questo lo devono fare gli adulti che hanno rapporti con questi bambini: insegnanti, educatori, allenatori. I segnali purtroppo non sono diretti. Ma quando si vedono bambini agitati, ansiosi, disturbati, vittime o protagonisti di bullismo, con problemi alimentari, allora occorre fare attenzione.
Oggi queste verifiche psicologiche sui minori nei casi di separazione giudiziale non sono una prassi abituale?
No, sono disposte dal magistrato, a sua discrezione.
Perché un genitore si trasforma in manipolatore patologico dei suoi figli?
Perché è incapace di elaborare la separazione e percepisce il figlio come proiezione del coniuge con cui è in conflitto. È un meccanismo patologico che nasce spesso da una profonda immaturità affettiva. Il genitore manipolatore mette al primo posto se stesso e il suo desiderio di vendetta.
Quali conseguenze per un minore che ha vissuto situazioni simili?
Sicuramente problemi psicopatologici a carico del sistema relazionale. E sono danni che si manifestano per lungo tempo. Quel figlio avrà poi un rapporto labile sia con il genitore manipolatore sia con il genitore vittima. Rischia di diventare un adulto disturbato, che dovrà lavorare su di sé per elaborare il concetto di genitore equilibrato, senza riattivare nei confronti dei propri figlio quelle emozioni negative da lui vissute nell’infanzia. Il bambino che non sperimenta amore sarà un adulto che ama con grande difficoltà.
Luciano Moia Avvenire 2 dicembre 2015
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Conseguenze-laceranti-Una-legge-diventerebbe-per-unarma-a-doppio-taglio-.aspx
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SESSUOLOGIA
Nessuna differenza tra uomini e donne: il cervello è unisex
Parità dei sessi anche dal punto di vista scientifico: non esistono differenze tra i cervelli di uomini e donne. Lo afferma uno studio pubblicato sulla rivista Pnas condotto presso l’Università di Tel Aviv. I ricercatori hanno analizzato tantissime immagini di cervelli “scattate” con la risonanza magnetica per un totale di oltre 1400 individui di entrambi i sessi. Dal confronto delle forme di diverse aree neurali nei cervelli di maschi e femmine è emerso che solo per un limitato sottogruppo di regioni neurali si possono riscontrate effettivamente alcune piccole differenze legate al sesso, ma che, ciononostante, non esiste un vero e proprio dimorfismo sessuale del cervello.
Uomini e donne, dieci miti da sfatare. O quasi. Se da una parte la ricerca ha sfatato il mito delle differenze intellettive tra i generi, dall’altro ha evidenziato il fatto che il cervello di ciascun individuo è sempre un mosaico unico di caratteristiche, alcune più comuni nei maschi che nelle femmine, altre più comuni nelle femmine che nei maschi, altre ancora ugualmente comuni in maschi e femmine. Questo significa che nel cervello di un uomo è altamente probabile che ci siano anche tante regioni neurali di tipo femminile (la cui forma è statisticamente più diffusa nel cervello di donne), oltre che regioni neurali di tipo maschile (la cui forma è invece statisticamente più diffusa nel cervello di maschi).
L’analisi è stata ripetuta su quattro distinti set di dati di imaging ed è emerso che è una condizione rarissima (presente in appena l’8% dei cervelli esaminati) che il cervello di un individuo appaia o del tutto maschile (tutte le regioni sessualmente dimorfiche si presentavano “in versione maschile”) o del tutto femminile (tutte le regioni sessualmente dimorfiche si presentavano “in versione femminile”). L’eccezione che conferma la regola, dunque, una condizione che non può essere assunta come dato discriminante tra i sessi e che nega una distinzione di genere tra il cervello femminile e quello
La Repubblica 30 novembre 2015
http://www.repubblica.it/scienze/2015/11/30/news/il_cervello_e_unisex-128505378
Le teorie gender, la coppia umana e il dono della differenza
Come pensare oggi la differenza sessuale lontano da vuoti stereotipi e sterili generalizzazioni? Qual è il suo valore specifico? Dove e come si radica nel corpo femminile e in quello maschile? Nel numero di dicembre 2015 di Aggiornamenti Sociali entra nel dibattito sulla questione gender con un articolo di Susy Zanardo, professore associato di Filosofia morale all’Università Europea di Roma.
Di seguito pubblichiamo il paragrafo conclusivo dell’articolo.
La coppia umana, per la complessità e pervasività di tutti i livelli di differenza (corporea, affettiva, psichica, cognitiva, di memoria e tradizione), appare come la forma dell’intersoggettività originaria. Ogni uomo e ogni donna, del resto, la portano in sé, poiché la coppia genitoriale è all’origine di ciò che essi sono.
Eppure essa appare in sofferenza: un tempo data per scontata, statica e granitica anche nelle forme di assoggettamento e prevaricazione, oggi è fortemente indebolita e accerchiata da forme alternative di legame. Ci si dibatte fra il sentimento di indifferenziazione e intercambiabilità di identità e ruoli maschili e femminili – per cui la differenza rischia di ricadere nell’insignificanza – e il disincanto o la rassegnazione, per cui la differenza viene vissuta come un luogo inospitale, di aperte e insistenti conflittualità. L’aspetto più inquietante è che, nella coppia, appare un vuoto di ideazione e creatività, come se fra i due non scorresse più la linfa del desiderio o come se il desiderio dell’altro fosse contratto nell’istantaneità del presente oppure proiettato in un futuro come minaccia e pericolo.
In questa inconsistenza della coppia, i figli hanno spesso più madri e padri, entrando in diverse costellazioni familiari. Ciò che manca loro è, in molti casi, l’esperienza del legame genitoriale o della relazione creativa della coppia. Diventano “orfani della coppia”. Sono perciò privati del nutrimento affettivo che proviene dalla circolazione del dono (di sé) e culmina nella trasmissione del desiderio (di senso, di fede, di amore). Se non c’è un legame fra i genitori come coppia, il bambino sperimenta un’esperienza incompleta.
Nei lenti millenni della cultura patriarcale la differenza sessuale è stata per lo più considerata come luogo di divisione; i vigorosi tentativi dei più recenti movimenti delle donne hanno rischiato di riprodurre una simile unilateralità, anche se per evitare che fossero sempre le donne a dover pagare il prezzo della differenza. La spinta all’indifferenziazione non è che l’ultima manifestazione sintomatica della diffidenza tra i differenti.
Tuttavia, la differenza sessuale può diventare anche la scommessa per nuovi cammini di umanità. Essa infatti è il luogo dove ci si educa al desiderio dell’altro. Ciò che caratterizza il desiderio è di non essere quello che origina il movimento, ma quello che è originato. Il desiderio non occupa mai il primo posto, ma si tiene al secondo, perché altri lo trae a sé. Desiderare è infatti l’attivo sperare di ricevere un bene. In questo senso la differenza è la cosa più preziosa che ho, perché essa è il “posto vuoto” custodito per l’altro. Se mi bastassi o se nell’altro amassi ancora la mia immagine riflessa, in una rassicurante specularità, allora resterei dentro il recinto della mia solitudine. La mancanza che la differenza apre non è una privazione da riempire con ogni sorta di interventi tecnici, politici o legislativi; è piuttosto l’esperienza dello svuotamento interiore per ricevere ancora e altro amore. In reciprocità. Solo così la differenza può nutrire l’infinito, generando oltre se stessa: mondo, figli, pensiero, civiltà, futuro.
Susy Zanardo aggiornamenti sociali dicembre 2015
www.aggiornamentisociali.it/EasyNe2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=13645
Ma sesso e gender non sono nemici
Originata dalla preoccupazione (legittima) di spiegare la pluralità di identità delle persone, non riducibile al semplice dato biologico, la questione del gender è andata soggetta a interpretazioni fuorvianti. Soprattutto all’interno di alcune correnti del femminismo americano. In alcuni casi ha infatti assunto i connotati di un’ideologia assoluta, che arriva a negare la rilevanza del sesso biologico, riducendo di fatto l’identità a un costrutto socioculturale e a realtà del tutto intercambiabile.
L’allarme che queste posizioni estreme suscitano non deve tuttavia condurre a eludere le istanze vere che da essa scaturiscono, e che rinviano a una visione complessa della formazione della personalità umana, nella quale il sesso biologico, che ne costituisce la base imprescindibile, si intreccia con la presenza di altri fattori, che vanno dalle dinamiche psicologiche ed educative alle diverse forme di socializzazione, fino al contesto culturale entro il quale ha luogo il suo sviluppo.
Considerata in questa ottica la questione non è nuova. Si tratta, in realtà, del rapporto tra «natura» e «cultura», che ha alle spalle una lunga tradizione filosofica, la quale ha le sue radici nel pensiero greco e che è stata ripresa, successivamente, da quello medioevale e moderno. Ma si deve riconoscere che l’attuale proposta del gender si sviluppa entro un contesto culturale diverso da quello del passato. A determinarne la nascita sono stati infatti, da un lato, lo sviluppo di una visione individualistica della vita, che insiste con forza sull’autocostruzione individuale del soggetto umano; e, dall’altro, il pensiero femminile (almeno in alcune aree della propria elaborazione), che è passato, nella fase più recente, dal teorizzare il valore delle differenze nel segno della reciprocità tra i sessi, alla loro negazione, aprendo la strada a un intreccio indefinito di possibilità espressive. Ha perciò luogo un vero e proprio salto qualitativo, che coincide con l’assegnazione del primato ai fattori ambientali – sociali e culturali – e che mette radicalmente in discussione i modelli relazionali del passato, aprendo la strada a nuove (e molteplici) forme di incontro e di reciproco riconoscimento.
I risvolti antropologici e sociali di questa svolta sono senza dubbio pesanti. Ha ragione Mauro Magatti a rilevare, in un articolo apparso ieri sul Corriere della sera, le gravi implicazioni che la traduzione sul terreno legislativo di questa visione possono avere sul futuro della vita associata, accentuando le spinte individualiste e autoreferenziali e distorcendo significati originari dell’umano con il rischio di nuove forme di alienazione.
Questa lettura, per quanto largamente diffusa, non è tuttavia l’unica possibile. Se infatti si abbandona una prospettiva rigidamente ideologica, che soggiace tanto alle posizioni estreme dell’ipotesi del gender quanto ad alcune posizioni allarmistiche di segno opposto – gli opposti estremismi come recita il titolo dell’intervento di Magatti – e si fa spazio a una visione più attenta alla globalità dell’umano, lo scontro risulta tutt’altro che inevitabile. Sesso e gender, lungi dal dover essere concepiti come realtà del tutto alternative, sono fattori che possono (e devono) reciprocamente integrarsi.
Non si tratta di optare per l’uno o per l’altro, ma di rimetterli correttamente in circolazione tra loro. Si tratta di riconoscere l’importanza fondamentale che riveste la differenza uomo-donna, che ha anzitutto la propria radice nel sesso biologico e che costituisce l’archetipo irrinunciabile da cui ha origine l’umano, e di non esitare, nello stesso tempo, ad ammettere l’importante ruolo delle strutture sociali e della cultura nella definizione dell’identità soggettiva.
I riflessi di questa concezione in campo etico sono immediatamente evidenti. La lettura del mondo umano che viene dall’acquisizione corretta degli stimoli provenienti dalla riflessione proposta dal gender obbliga a una revisione degli orientamenti tradizionali della scienza morale, prestando maggiore attenzione alla complessità delle dinamiche che presiedono alla costruzione dei comportamenti e delle scelte soggettive. La ricerca di soluzioni, che rispettino tutte le dimensioni dell’umano, è allora la via da percorrere per contribuire alla crescita di una società libera e solidale.
Giannino Piana “Il Mattino” 8 ottobre 2015
http://www.c3dem.it/tag/giannino-piana
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SINODO DELLA FAMIGLIA
Commento alla Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi.
Ancora una volta ripeto qui ciò che ho più volte scritto, ovvero che le questioni interne alla Chiesa dovrebbero essere lasciate all’interno della stessa e che la soluzione di molti problemi dovrebbe essere affidata a una chiara separazione del dominio dello stato da quello della religione; a quel punto, come ha scritto con chiarezza Sebastiano Maffettone sul suppl. Domenica del Sole24Ore del 25 ottobre, «tutto seguirà di conseguenza». Nel caso dei matrimoni gay, scrive ancora Maffettone, «si offra a tutte le coppie, omosessuali o eterosessuali che siano, un’unione civile piena di diritti, e si lasci dipendere il matrimonio dalla religione in armonia con le norme che la regolano».
Inappuntabile. Ma tale chiara separazione, che non è data di certo nelle teocrazie, non è presente nemmeno talvolta nelle democrazie, e anche questo è un fattore che ci spinge a esprimerci. Come pure lo fa il titolo della relazione medesima, che aggiunge a La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa, «e nel mondo contemporaneo», nel quale ci siamo anche noi.
«Senza famiglia». Il paradosso del sinodo. Facendo di mestiere la metaforologa, non posso non rimanere colpita dal fatto che i vescovi del Sinodo – tutti maturi maschi celibi che hanno scelto di non conoscere donna e di vivere senza famiglia – chiamino loro stessi «padri» e «papa» o «santo padre» il loro superiore. È una metafora, mi si dirà, e in quanto metafora mente. Giulietta non è il sole anche se Shakespeare lo afferma («Juliet is the sun»): è una ragazza che irradia la luminosità e il calore dell’amore; i vescovi non sono padri; si definiscono tali perché dichiarano di offrire protezione, cura e autorità, come ci si immagina facciano i padri. E sia. Suona un po’ strano però che in tutta questa faccenda riguardante la famiglia, in cui il documento afferma di schierarsi a «difesa e promozione della donna» [27], di donne, a deliberare, non ce ne sia neanche una. Quel che si offre loro nel testo sono promozioni modeste, quali una non meglio specificata partecipazione a processi decisionali (quali?) e al governo di alcune istituzioni (quali?) e il loro coinvolgimento nella formazione dei sacerdoti [27] (sempre e inesorabilmente maschi, tra i quali saranno nominati, non eletti, i vescovi). E uno spostamento di posto nella giaculatoria in cui Maria sopravanza Giuseppe, ponendo ingenti problemi di rima.
Detto ciò a mo’ di premessa, passo a individuare e discutere in maniera succinta quattro punti problematici per il mondo contemporaneo, che è ciò che qui interessa:
1. Esaltazione dello spirito missionario
2. Auspicio di crescita demografica
3. Invasione di territori di competenza statale
4. Adozione di una ontologia della differenza sessuale in due categorie naturali come base del «vero matrimonio naturale»
1. Sul «missionarismo». Due delle tre grandi religioni monoteiste, cristianesimo e islam, sono anche religioni missionarie. Il primo si propone di evangelizzare e investe qui la famiglia di «identità missionaria»[2], [3], [89]. Ogni membro battezzato della chiesa ne è «discepolo missionario»[56]. La famiglia dei battezzati è per sua natura missionaria (di questa natura diremo più avanti al punto 4), per sua natura deve «donare» la fede agli altri [93]. La famiglia fattuale si dedicherà a insegnare la fede ai figli, la famiglia metaforica, la chiesa, la porterà agli «altri». Ora, anche se l’evangelizzazione cristiana avviene oggi prevalentemente con la parola e non con la violenza fisica dei secoli passati, il missionarismo non è un valore da esaltare. Abbiamo assistito ad altre forme di mission in cui ciò che si voleva donare era la democrazia, e ci siamo accorti che trasmettere o imporre o bombardare tali valori funziona poco e male, anche se li consideriamo ottimi.
2. Sulla crescita demografica. L’auspicio alla crescita demografica è ripetuto in vari passi del documento, nel quale si depreca il calo della natalità attribuito a vari fattori [7]; [62]. L’aborto, si aggiunge, non è lecito in quanto è dramma sociale [64] e assassinio di innocente [33] (si immagina quindi che l’assassinio di colpevole sia lecito, e infatti il Vaticano ha abolito la pena di morte, che dichiara ora di rigettare fermamente, solo nel 2002. Meglio tardi che mai). Deprecare l’uso di contraccettivi ed esortare a formare famiglie numerose (ma non bisognava smettere di riprodursi «come conigli»?) rivela un pensiero ecologicamente irresponsabile, a meno che il messaggio implicito non sia: «sì alle famiglie numerose nella chiesa, no a quelle fuori»).
3. Invasione dei territori di competenza statale Chiamiamo in questo modo le esortazioni alla religione di uscire dalla sfera privata e a entrare nella sfera pubblica [6]. Nei passi dove per es. si dichiara che «la responsabilità di offrire accoglienza, solidarietà e assistenza ai rifugiati è innanzitutto della Chiesa locale»[24]. Tale affermazione così enunciata è scorretta e viola le prerogative dello stato sovrano, cui spetta l’assistenza ai rifugiati. Se poi associazioni, enti, privati, chiese vorranno offrire aiuto, le loro proposte verranno vagliate ed eventualmente accolte, ma non di più. L’invasione del territorio pubblico, che sembra non favorire la separazione tra stato e chiesa che si auspicava qui agli inizi come soluzione di molti problemi, si rivela anche in diversi altri punti del documento; per esempio a proposito della critica all’insegnamento che promuove rispetto per tutte le forme di sessualità; della esortazione all’obiezione di coscienza in caso di diritto all’aborto; fino alla pretesa che nelle coppie in cui un membro sia ateo e l’altro non-ateo, l’educazione dei figli debba farsi nella «fede cristiana»[74] e a quella di portare nella politica l’impostazione della chiesa [92].
4. La differenza sessuale «naturale». L’ultimo aspetto, tra quelli che ho scelto di commentare, riguarda la visione filosofica della naturalità della presenza di due sessi, maschio e femmina e la conseguente naturalità del vero matrimonio naturale, quello tra uomo e donna. Personalmente ritengo che una lucida separazione dell’ambito statale da quello religioso sarebbe la soluzione. Ma ci sono persone che cercano anche nella chiesa rispetto e parità di diritti per tutte le forme di preferenze sessuali. Il termine naturale ricorre varie volte nel documento; in particolare in [47] si insiste sulle proprietà naturali del matrimonio proponendo l’analogia tra il rapporto tra marito e moglie e il rapporto tra Cristo e Chiesa. Ora, se si va a leggere il passo di Paolo nel quale si illustra la relazione marito moglie nel vero matrimonio naturale, si legge qualcosa di diverso dalla citata frase paolina iniziale che esorta i cristiani a essere «sottomessi gli uni agli altri» (Ef 5,21). Quel che si legge è infatti: Le donne siano soggette ai loro mariti come al Signore, poiché l’uomo è capo della donna come anche il Cristo è capo della chiesa… Ora come la chiesa è soggetta al Cristo, così anche le donne ai loro mariti, in tutto (Ef 5, 22-24). Il passo prosegue esortando più volte i mariti ad amare le mogli ma non viceversa. Le donne i loro mariti li rispettino (Ef 5, 28 e 33). Credo che sul fatto di chi sia superiore e debba amare e chi inferiore e debba rispettare non ci sia bisogno di commento. Del resto, compito naturale dell’uomo nella famiglia è quello di «protezione e sostegno» di figli e moglie [28], la quale, eterna minore, direbbe Kant, non è in grado di proteggersi e sostenersi da sé.
Sulla naturalità delle nozze gay invito comunque a leggere il pamphlet di Nicla Vassallo e le sue parole in questo contesto, e concludo con due considerazioni. La prima si chiede se i rapporti tra i membri di una coppia gay non abbiano il grande vantaggio di essere ben più equi di quelli proposti da Paolo e vigenti tutt’oggi come vangelo, parola del Signore; la seconda mette in guardia tutti, atei e non atei, dall’affermare la naturalità di molte cose (nel nostro caso, i rapporti amorosi e di coppia eterosessuali e la tanto proclamata differenza ontologica tra il maschio e la femmina invece che le differenze di ogni essere umano da ogni altro essere umano, perché non dovremmo mai dimenticare che siamo ciascuno diverso da tutti gli altri). Lo hanno fatto tanti filosofi illustri, persino Immanuel Kant, quando dichiarava, nella Metafisica dei costumi (Laterza, Roma-Bari 2009, p. 98) che i padri, o capi di famiglia, sono nella famiglia la parte che comanda, mentre la donna è la parte che obbedisce. Cosa che conseguiva logicamente dalla «superiorità naturale delle facoltà dell’uomo rispetto a quelle della donna nell’opera di procurare l’interesse comune della famiglia e nel diritto al comando che ne deriva».
Francesca Rigotti Doppiozero 16 novembre 2015 www.doppiozero.com
Metafore e realtà del Sinodo Matrimonio e società aperta
E’ uscito, sul Blog doppiozero questo mio articolo, che replica a Francesca Rigotti e alle sue valutazioni del Sinodo dei Vescovi. Nel suo articolo Commento alla relazione finale, Francesca Rigotti muove una serie di osservazioni al documento conclusivo del Sinodo dei Vescovi. E lo fa “dall’esterno”, come è giusto per chi osserva una realtà cui non appartiene e che dimostra, per questo, di conoscere molto approssimativamente, quasi per sentito dire. Ma, appunto, proprio per questo motivo, che non dovrebbe sfuggire a un metaforologa, le metafore delle quali parla vengono lette, pressoché sempre, come se non fossero tali. Prendendo le metafore non come “mezzi di trasporto”, ma come “cose”, l’autrice finisce per infilarsi in piccoli e grandi vicoli ciechi. Da parte mia esprimo anche il mio consenso ad alcune delle critiche che l’autrice muove al documento. Ma mi sembra di dover consentire “dall’interno” e “secondo metafora”. Cerco di spiegare che cosa intendo con questo.
a) La questione che Rigotti solleva inizialmente – e che conserva come “basso continuo” per tutto il suo testo – è una rigida separazione tra logiche del Sinodo cattolico e logiche “comuni” o “laiche”. Il mondo contemporaneo non è la Chiesa, certo, e la Chiesa non ha alcun potere di determinare, da sola, il mondo contemporaneo. Su questo Rigotti ha ragione. Ma questo non significa affatto che la Chiesa cattolica, tenendo fermo questo principio di distinzione, non possa dire, con tutta la sua autorevolezza, una parola sulla famiglia, sul matrimonio e sulla cultura di oggi. Qui io capisco bene come il “pregiudizio” anticattolico – per così dire – si alimenti per esperienza storica. La Chiesa cattolica, per quasi due secoli, non ha accettato la società “aperta”. E questo pesa anche sui giudizi di Rigotti, inevitabilmente. Ma altrettanto chiaramente dobbiamo riconoscere che vi è un percorso, non facile e non lineare, con cui, da almeno 50 anni, ci si è avviati su una via di mediazione con il mondo moderno e di valorizzazione della libertà, della coscienza, del desiderio, del corpo. Leggere il documento sinodale del 2015 appiattendolo sui canoni di condanna tridentini o sul Syllabus di Pio IX è una operazione troppo diretta, troppo poco metaforica, troppo semplicistica. Conferma tutti nei loro pregiudizi, ma rischia di non offrire alcun vero chiarimento.
b) Non vi è dubbio che la tensione tra l’oggetto famiglia e la “forma istituzionale” del Sinodo crei qualche non piccola tensione: una comprensione delle dinamiche familiari da parte di “maschi celibi” è effettivamente una questione seria, alla quale, tuttavia, possiamo dare solo una risposta istituzionale, modificando gli assetti e le procedure, in vista di una migliore percezione della realtà. Ma anche qui, la metaforologa usa la metafora in modo minore, quasi solo per giocare in difesa! Come Giulietta non è il sole, così i “padri” non sarebbero padri? Tutto qui? Solo una fredda riduzione del linguaggio alla mera “fattualità” sarebbe la nostra salvezza? Non mi stupisce il vigoroso richiamo alla realtà. In questo l’autrice si muove secondo una linea di “sano realismo”, che invita a non usare le parole come “nascondigli”. Benissimo. Ma per “fare cose con parole”, dobbiamo confidare in un regime metaforico che illustri la bellezza delle persone e dei cuori, delle scelte e delle vite, con “finzioni” che sono più vere della stessa realtà! È inevitabile che una grande tradizione religiosa parli “mataforice”. Questa è, in larga parte, la sua salvezza. Benedette metafore, che impediscono di oggettivare del tutto Dio, autorità, salvezza. Preferisco una chiesa che sappia parlare “metaforicamente” della famiglia, piuttosto che una Chiesa che la definisce come “valore non negoziabile”. Ma forse, proprio per questo, non sono così lontano da quanto intende qui Rigotti.
c) Missione, crescita demografica, invasione di territori di competenza statale: su questi tre temi l’autrice mostra una forte resistenza a entrare nella logica del testo che giudica. In questo caso è forse un “eccesso metaforico” a condizionarla. Non si può leggere “missione” come se fosse sinonimo di “conquista”, “incremento demografico” come se fosse “automatismo riproduttivo”, invasione di territorio pubblico come se l’ambiente ideale della religione fosse solo l’orticello privato. Su tutti questi punti, in verità, occorre una considerazione “tecnica” delle questioni. Usare le metafore come se fosse “cose” e i linguaggi tecnici come se fossero metafore è molto rischioso, permette anche qualche gioco di parole, ma resta troppo lontano dalla realtà.
d) Infine, la natura. Certo, la tradizione ecclesiale cattolica è molto segnata da questo concetto, che nei secoli ha subìto una profonda trasformazione e non può essere utilizzato con troppa disinvoltura. Soprattutto, credo si debba riconoscere un dato fondamentale: con “natura” per molti secoli si è indicato un livello “comune” di esperienza degli uomini. Se oggi lo si usa per dividere, per contrapporre, per preservare, per imporre, quel concetto risulta modificato, spesso svuotato e non raramente del tutto pregiudicato. Ma, detto questo, non comprendo bene quale sia la istanza fondamentale del discorso che sulla natura propone Francesca Rigotti. Soprattutto quando contrappone le evidenze “naturali” di una coppia omosessuale alle considerazioni con cui Paolo, nella lettera agli Efesini, delinea i rapporti tra marito e moglie in analogia con Cristo e la Chiesa. Qui, mi sembra, deve essere fatta una certa chiarezza. Una esperta di metaforologia non può leggere un testo di Paolo come se fosse una ricetta di cucina. Quel testo è stato letto, purtroppo, con scarso senso delle metafore, non solo da Rigotti, ma anche da una lunga tradizione ecclesiale. Che con molta fatica, e solo con Giovanni XXIII, ha saputo elaborare una ermeneutica del testo all’altezza della storia. Il condizionamento con cui nella storia Paolo ha parlato alle generazioni fa parte della grande tradizione ecclesiale e non può essere semplicemente legato a un significato “senza commenti”. Il caro prezzo che Rigotti paga, per potersi ritenere estranea alla tradizione cristiana, è di essere costretta a sposare la peggiore interpretazione fondamentalistica del testo sacro, nella quale si allea, inconsapevolmente, al peggior tradizionalismo reazionario. Essa propone una interpretazione di Paolo che assomiglia a quella proposta dai più chiusi e dai più gretti tra i Padri sinodali, e sembra totalmente ignorare la complicata storia della interpretazione di un brano fondamentale per la tradizione sul matrimonio. La Scrittura, infatti, proprio in quanto è “ispirata”, trova la sua verità non dietro, ma davanti ad essa, non all’inizio, ma alla fine! Non è questa, in fondo, una delle forme più belle e più commoventi di “tradizione metaforica”? Ancora oggi, sì, anche oggi quella parola è vigente, come testo autorevole, il cui significato, però, non è imbalsamato in un museo – non importa se tradizionalista o progressista – ma è affidato alla lettura ispirata delle generazioni a venire. La Scrittura, che certo scaturisce da una società chiusa e centrata, è destinata a (e prefigura) una società aperta e plurale. A volerla chiudere in una società chiusa sono coloro che non ne colgono più il senso metaforico. Non credo che Francesca Rigotti potrebbe sentirsi del tutto estranea a questo modo dinamico e “in uscita” di comprendere il testo paolino. O forse mi sbaglio e preferisce ignorarlo?
Andrea Grillo “Come se non” -1 dicembre 2015
http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non
www.cittadellaeditrice.com/munera/metafore-e-realta-del-sinodo-matrimonio-e-societa-aperta
http://www.doppiozero.com/materiali/commenti/metafore-e-realta-del-sinodo
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SPIGOLATURE
Il vero amore non è né fisico né romantico. Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è, è stato, sarà e non sarà. Kahlil Gibran
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UNIONI CIVILI
«Unioni civili, legge da bocciare»
L’urgenza non rinviabile di legiferare sulle unioni omosessuali è un dato di base che nessuno di loro contesta. Ma è sulle modalità proposte dal disegno di legge Cirinnà che cominciano i problemi. E quando magistrati, giuristi e avvocati di primissimo piano mettono in fila incongruenze giuridiche, contraddizioni, confusioni e addirittura profili di incostituzionalità vuol dire proprio che si tratta di un testo normativo tutto da rivedere. La ‘sentenza’, senza appello, è stata pronunciata l’altra sera nell’Aula magna del Palazzo di Giustizia di Milano. L’occasione un convegno, ‘Le unioni civili – la stepchild adoption’, organizzato dal Centro per la riforma del diritto di famiglia. Due le grandi questioni poste dagli esperti. Innanzi tutto il mancato rispetto del ‘preminente interesse’ del minore da parte del disegno di legge sulle unioni civili. E poi la confusione tra il provvedimento presentato in Senato lo scorso 6 ottobre e gli articoli del Codice civile che riguardano il matrimonio. Una sorta di ‘copia incolla’ che contraddice non solo la ragionevolezza della legge, ma le indicazioni contenute nella sentenza 170/2014 della Corte costituzionale che, sollecitando il Parlamento a legiferare sul problema, aveva però spiegato che le unioni omosessuali ‘non sono omogenee’ al matrimonio. Un caldo invito a girare al largo dagli articoli 29 e 30 della Costituzione – quelli appunto che parlano di famiglia fondata sul matrimonio – per concentrarsi sull’articolo 2 che garantisce «i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali». Invece il disegno Cirinnà fa esattamente l’opposto e rischia così, ancora prima di essere approvato, di contraddire il dettato della Carta.
L’altra sera – dopo gli interventi del presidente della Sezione Famiglia e Minori della Corte d’Appello di Milano, Bianca La Monica, del presidente del Tribunale, Roberto Bichi e del presidente dell’ordine degli avvocati, Remo Danovi – l’ha spiegato con chiarezza Ferruccio Tommaseo, ordinario di Diritto processuale civile all’Università di Verona.
Le incongruenze del simil-matrimonio Il docente ha spiegato, articolo dopo articolo, come la nuova stesura del disegno di legge abbia cancellato quasi tutti i riferimenti espliciti al matrimonio, ma come siano invece rimasti tutti i rimandi agli stessi articoli del codice civile che regola il matrimonio stesso. Manovra subdola e allo stesso tempo ingenua, che può ingannare i non addetti ai lavori, ma non magistrati e giuristi.
A rincarare la dose è arrivata la riflessione di Gloria Servetti, presidente della IX sezione civile del Tribunale di Milano, specializzata nel diritto di famiglia. Nello sforzo di equiparare in modo quasi sovrapponibile matrimonio e unioni civili – ha fatto notare l’esperta – il legislatore è stato addirittura troppo zelante. Al punto 1 dell’articolo 3 si parla per esempio di ‘obbligo alla coabitazione’, ignorando che già la Riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva lasciato piena libertà ai coniugi di fissare la loro residenza in luoghi diversi. «Sorprendente» poi, secondo lo stesso magistrato, il fatto che per sciogliere il rapporto normato dalle unioni civile si faccia riferimento, in modo confuso, alla stessa disciplina della separazione e del divorzio. «Leggi pensate per sciogliere un vincolo matrimoniale, non certo una dichiarazione davanti all’ufficiale di stato civile». Anche in questo caso la preoccupazione tutta ideologica di inventare un simil-matrimonio ha finito per giocare ai proponenti del disegno di un brutto scherzo. Pure gli aspetti patrimoniali, ricalcati anche in questo caso da quelli che regolano i rapporti coniugali, rischiano di risultare così rigorosi da aprire la strada ad una serie infinita di contenziosi.
Vietato sperimentare sui minori Ancora più confusa e rischiosa, soprattutto per il benessere dei minori coinvolti, la parte riguardante la cosiddetta stepchild adoption. «Rimane un’adozione ‘non legittimante’ – ha spiegato Tommaseo – e questo significa che il genitore biologico rimane il partner o la partner di colui o di colei che è stata lasciato/a da chi è andato a formare la nuova coppia. Questo di fatto assegna al minore tre ‘genitori’ con complicazioni facilmente prevedibili sul piano educativo soprattutto per quanto riguarda le decisioni da prendere. Il ‘terzo’ genitore, che rimane quello legittimo, ricorrendo al giudice, potrebbe facilmente vedersi riconosciute tutte le richieste. Ma con quali conseguenze per quel povero bambino conteso? «Se la legge non fa menzione della possibilità per i ‘coniugi gay’ di arrivare all’adozione legittimante – ha fatto notare il docente – sembrerebbe voler dire che il legislatore ha escluso questa ipotesi per soddisfare il superiore interesse del minore. Ma poi questa possibilità rientra come ‘non legittimante’ con la modifica dell’articolo 44 della legge adozione. Una scelta che, non solo sembra contraddire il principio di ragionevolezza, ma introduce una sorta di sperimentazione giuridica sulla testa dei minori coinvolti».
Una sola considerazione possibile: inaccettabile.
Luciano Moia Avvenire 4 dicembre 2015
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/No-a-esperimenti-sulla-vita-dei-piccoli-Cirinn-bocciata-.aspx
Il senatore Chiti “vede” una legge che non imiti il matrimonio.
Unioni gay, dialogo vero con tutti e un insuperabile limite di civiltà
Marco Tarquinio
4 dicembre 2015
Unioni gay, dialogo vero con tutti e un insuperabile limite di civiltà
Caro direttore,
inizio da una considerazione: è urgente realizzare una legge sulle unioni civili. Hanno richiamato questa esigenza Corte Costituzionale, Corte di Cassazione, Corte europea dei diritti umani. A mio parere fu un errore non aver approvato otto anni fa una legge equilibrata come i Dico, elaborata, durante il Governo Prodi, da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini. Ormai il tempo è diverso e dobbiamo prenderne atto. Lo è anche per la Chiesa di papa Francesco. Già molti anni fa, di fronte al divorzio, Aldo Moro aveva intuito che era venuto un tempo che chiedeva, ai cristiani e alla Chiesa, di dare priorità alla formazione nella società di comportamenti coerenti con i propri valori, piuttosto che affidarsi agli Stati, tenuti a garantire il pluralismo di fedi e culture. Lo è per le forze politiche, che devono evitare pregiudiziali che non consentono di ascoltarsi, ostruzionismi incapaci di proposte, strappi velleitari. Non servono toni assoluti, se si vogliono trovare soluzioni giuste.
Le unioni civili non rientrano in accordi di governo: ciò non può attenuare lo sforzo per soluzioni condivise nella maggioranza. Ampliare le convergenze è utile: giocare con le sostituzioni sarebbe leggerezza. Ci sono aspetti della legge che uniscono un vasto arco di forze: penso che sia giusto garantire i diritti delle coppie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali; le norme giuridiche per assicurare il rispetto di quei diritti devono essere diverse dal matrimonio, così come previsto nell’articolo 29 della Costituzione. La Costituzione non può essere chiamata in causa a seconda che piaccia o meno. Considerare l’insieme delle famiglie, come oggi sono presenti nella società, non significa non sottolineare l’importanza primaria del nucleo familiare tradizionale, in cui vive la maggior parte dei cittadini e non dotarlo dei sostegni indispensabili.
Il tema più difficile riguarda l’adozione del figlio, già esistente, di un convivente delle coppie gay. Qui si scontrano tradizioni e sentimenti, aspirazioni e preoccupazioni di abusi, assicurati magari da disponibilità di denaro. Occorre riconoscere che non sono state ancora individuate norme che mettano un desiderio al riparo da questo rischio.
Sarebbe stato meglio, come in Germania nel 2001, approvare prima una legge sulle unioni civili e successivamente, dopo una fase di confronto nella società, valutare come affrontare la questione dell’adozione dei figli. Oppure inserire questa problematica nella revisione complessiva delle adozioni, all’attenzione anch’essa del Parlamento. Temo sia tardi per scelte più sagge ma ormai travolte dal corso della politica.
Di fronte a noi, stanno realisticamente due vie: trovare una convergenza, a partire dalla maggioranza di governo, sullo strumento giuridico dell’affido – come in Germania – rendendolo continuativo e prevedendo, a 18 anni, il diritto del ragazzo o della ragazza a decidere per l’adozione. In caso contrario, se prevarrà la scelta dello scontro ideologico, la strada sarà quella dei voti segreti e della libertà di coscienza. Preferirei un confronto trasparente e chiare assunzioni di responsabilità. Per riuscirci bisogna ampliare la prospettiva dei nostri punti di vista: non mettere in contrapposizione adulti che compongono una coppia di fatto e bambini, ma riuscire a farsi carico dei bisogni, diritti, doveri e aspirazioni, degli uni e degli altri, dando priorità ai più deboli. Non limitarci a tenere presente il solo Parlamento, le tattiche e i numeri per varare una legge. Quella sulle unioni civili sarà quasi certamente sottoposta a referendum: è legittimo, anche se in questo caso si rivela l’importanza che avrebbe disporre non solo di quello abrogativo, ma di quello di indirizzo.
La politica tuttavia dovrebbe operare perché la consultazione dei cittadini si fondi su un confronto di merito, capace di far crescere l’intera società, non su scontri laceranti che lasciano dietro di sé divisioni e spesso macerie.
Vannino Chiti, Presidente della Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato
Il presidente Chiti sa che apprezzo la schiettezza e la ragionevolezza con cui si misura con le questioni aperte e con cui sempre interpreta l’arte del dialogo che entrambi abbiamo cara, pur a volte nella legittima diversità di giudizio su singole situazioni e soluzioni e su passaggi storici. Dal disteso ragionamento che sviluppa sul nodo (che altri continuano ad aggrovigliare con fraintendimenti e più di una malizia) delle unioni gay ho nuova conferma di questa sua attitudine e di questa sua preoccupazione. E dico subito che, sul laico piano del metodo democratico, penso anch’io che possa essere utile oltre che opportuno realizzare una legge di larga convergenza che regoli chiaramente le unioni tra persone dello stesso sesso come realtà di carattere solidale, ma non matrimoniale. C’è, infatti, ormai bisogno di una normativa che, prima di tutto per la saggezza e la saldezza delle soluzioni trovate, abbia un volto umano e non ideologico e sia perciò in grado di “reggere” tanto alla futura (e più che probabile) prova referendaria evocata da Chiti, quanto a scontati tentativi di “spanciamento” (o addirittura di rivolgimento) per via giudiziaria. Proprio per questo è importante, secondo l’impostazione della sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale, un limpido “aggancio” di tali unioni all’art. 2 della Costituzione – che richiama le «formazioni sociali» nelle quali «si svolge» la «personalità» dell’uomo – e nessuna confusione con il matrimonio secondo l’art. 29. Purtroppo però, da questo punto di vista, il testo attuale annuncia seri e gravi pasticci, che giuristi delle più diverse scuole ma della stessa consapevolezza già cominciano a mettere con stupore e allarme sotto la lente. Un discorso speciale riguarda la scelta della via da imboccare riguardo ai figli. Che non sono e non devono essere ridotti – anche se la spinta è forte, anzi proprio per questo – a oggetto di “diritto” altrui (o a bandierina da conquistare in “battaglie” politiche e/o esistenziali), perché essi stessi sono sempre soggetti titolari, come ogni altro essere umano, di diritti propri e inviolabili. Lo dico da tempo e lo ripeto con tutta la forza e la convinzione possibili: i figli, assieme alle donne madri, non possono essere precipitati nell’abisso disumano e mercantile scavato dalla pratica dell’«utero in affitto» (e in misura meno lancinante, ma civilmente non meno grave, del commercio del seme maschile). Abisso che il senatore Chiti non nomina, ma fa balenare quando parla di possibili «abusi, assicurati magari da disponibilità di denaro» in riferimento all’adozione all’interno di coppie omosessuali (e non solo) del figlio del partner, la cosiddetta stepchild adoption. E c’è dell’altro. Ancora troppo pochi legislatori, infatti, si rendono conto quanto grave sia la minaccia di realizzare attraverso questa forma di adozione un sistema conflittuale e disorientante nel quale attorno al figlio possono affollarsi sino a tre o quattro genitori o al contrario la madre o il padre biologici (o anche entrambi) possono essere programmaticamente rimossi. Il realismo spinge a considerare il bivio secco «o adozione del figlio del partner o affido», dice tuttavia Chiti. Io so che non parla a vanvera, e però continuo a sperare in un sussulto di buon senso che spinga a valutare bene tale passaggio. E non ora, nella legge sulle cosiddette unioni civili, bensì in sede propria (cioè la riforma dell’adozione), calcolando a fondo tutte le conseguenze dei “processi relazionali” che possono venire innescati. Ma, più di tutto, almeno una cosa vorrei che fosse finalmente decisa e garantita: il ferreo divieto di ricorso all’«utero in affitto» e a ogni altro commercio d’umanità nella generazione dei figli. Ma un divieto ferreo davvero, insuperabile. Chi acquista il corpo di una donna per “farsi fare” un figlio non deve poter “avere” quel figlio, e tanto meno condividere anche solo un pezzo di genitorialità attraverso adozione o affido. Altri Paesi lo consentono? Giudici italiani lo stanno permettendo? Lo so. E proprio per questo come tante e tanti, semplicemente per umanità e per rispetto vero di ogni persona, vorrei che il mio Paese fosse il primo a rispondere, decidendo che una tale vergogna schiavista non può e non deve essere accettata. Qualcuno deve pur cominciare a resistere, a ribadire uno dei fondamentali cardini dell’umana civiltà. Spero davvero che sia l’Italia, che il nostro Parlamento si scuota, veda e provveda in dialogo vero. Ma con tutti.
Marco Tarquinio, direttore di Avvenire 4 dicembre 2015
www.avvenire.it/Lettere/Pagine/unioni-gay-dialogo-vero-con-tutti-ma-limite-di-civilta.aspx
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VIOLENZA
Moglie maltrattata e mortificata: sì al reato anche dopo tanto tempo.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 27 ottobre – 27 novembre 2015, n. 47209
Corte di Cassazione, sesta Sezione penale, sentenza n. 47209, 27 novembre 2015.
La tolleranza dalla donna nei confronti del comportamento prevaricatore del marito, durante il lungo matrimonio, non consente di assolvere il colpevole. Nessuna assoluzione per l’uomo che, in tanti anni di matrimonio, maltratta la propria moglie, neanche se questa, inizialmente, tace e sopporta per amore dell’unione familiare. Difatti, anche dopo tanti anni di convivenza, ben può scattare la condanna per maltrattamenti. Irrilevante è anche la sporadicità delle condotte del marito: a rilevare è la valutazione del complessivo atteggiamento dell’uomo. È quanto riferito dalla Cassazione in una recente sentenza.
Per la condanna ai fini del reato di maltrattamenti, sottolinea la Corte, rileva l’atteggiamento di complessiva svalutazione della moglie, tenuto dall’uomo durante tutto il corso della vita coniugale. In questa ottica vanno riconsiderati anche gli episodi verificatisi dopo la comunicazione, da parte della donna, di procedere alla separazione. Di conseguenza è logico qualificare la condotta del marito “in termini di abitualità”, essendo evidente nei confronti della donna “la volontà di sopraffazione, tipica dei maltrattamenti”, volontà concretizzatasi nel corso degli anni e successivamente acuitasi, con maggiore aggressività, proprio nel momento della decisione della donna di separarsi.
La sentenza
www.laleggepertutti.it/106014_moglie-maltrattata-e-mortificata-si-al-reato-anche-dopo-tanto-tempo
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