newsUCIPEM n. 573 –22 novembre 2015

newsUCIPEM n. 573 –22 novembre 2015

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ADOTTABILITÀ                             Adottabilità di un minore. Inadeguatezza cronica dei genitori.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    La Bolivia riapre le adozioni internazionali.

Russia. Calano i minori abbandonati: 17mila quelli < di 10 anni.

BIGAMIA                                         Bigami d’Italia. Sono 20mila, fuorilegge e mai puniti.

CHIESA CATTOLICA                    50 anni dal Patto delle catacombe. Per una Chiesa serva e povera.

La seconda stagione del concilio.

CHIESA EVANGELICA                  La cena del Signore, un viatico per camminare insieme.

CONSULTORI Familiari UCIPEM Parma. Progetto prendiamoci cura delle nuove famiglie.

Trento. Consultorio Ucipem, 50 anni in un libro.

DALLA NAVATA                            34° domenica del tempo ordinario – anno B -22 novembre 2015.

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Gli sta a cuore la famiglia e ne parla, ne parla tanto.

GRAVIDANZA                                 “Per la prima volta al mondo bimbi sani da embrioni malati “

Giornata neonato pretermine. Bellieni: il feto è un bambino

Gravidanza, bimbi sani Ecco le novità sui test.

MEDIAZIONE FAMILIARE                      La mediazione assistita, nuova modalità di intervento.

S’applica anche a controversie familiari se il diritto è disponibile.

PATERNITÀ                                     Che succede se rifiuti il test del DNA.

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                                                                  ADOTTABILITÀ     

Adottabilità di un minore. Inadeguatezza cronica di mamma e papà.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 23624, 18 novembre 2015.

Inidoneità genitoriale per lei, e personalità carente per lui, incapace di avere prospettive esistenziali realistiche. Evidenti i deficit della coppia. Ciò legittima la scelta di prevedere l’adozione per tutelare il benessere del minore.

                        Sentenza                       www.divorzista.org/sentenza.php?id=10938

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

La Bolivia riapre le adozioni internazionali.

            La notizia è di quelle storiche, che tutti aspettavano da molto tempo: la Bolivia ha deciso di riaprire le adozioni internazionali. E Amici dei Bambini è uno degli enti autorizzati italiani accreditati a operare per i prossimi anni nel Paese sudamericano con l’obiettivo di ridare una famiglia a tanti bambini abbandonati. Le coppie italiane che desiderano accogliere un minore boliviano potranno quindi tornare a conferire il mandato ad Amici dei Bambini.

Venerdì 13 novembre 2015, alle 10.30 ora locale, il referente di Ai.Bi. Bolivia Claudio Calisti e i rappresentanti del ministero degli Affari Esteri di La Paz hanno firmato, nella capitale boliviana, l’accordo “marco” che permette ad Ai.Bi. di lavorare in Bolivia per i prossimi 5 anni, fino al novembre 2020. L’intesa prevede anche una valutazione intermedia dell’attività dell’ente da effettuarsi dopo 2 anni. L’importanza dell’operato degli enti autorizzati è stata sottolineata in particolare dal ministro degli Esteri boliviano David Choquehuanca che ha fatto notare come, proprio grazie agli enti, le adozioni internazionali abbiano ora regole più chiare e si possa garantire una maggiore sicurezza ai minori. La firma dell’accordo sarà seguita, nei giorni successivi, dalle informazioni sul protocollo relativo al procedimento da seguire concretamente per le adozioni internazionali, stando a quanto affermato dal viceministro boliviano delle Pari Opportunità, Antonio Perez.

Amici dei Bambini è uno dei 6 enti autorizzati (5 italiani e uno spagnolo) accreditati a operare in Bolivia per le adozioni internazionali.  (…)

La riapertura delle adozioni internazionali nel Paese sudamericano è il punto di arrivo di un lungo percorso, iniziato con l’approvazione, da parte del Parlamento di La Paz, del nuovo Codice della Bambina, del Bambino e dell’Adolescente. Il documento, entrato in vigore il 6 agosto 2014, trattava anche il tema dell’adozione. Pur ribadendo la priorità per quella nazionale, il Codice confermava l’importanza di quella internazionale, tanto da innalzare a 55 anni l’età degli aspiranti genitori adottivi stranieri. L’intenzione del governo di La Paz di trattare il tema dell’adozione internazionale con estremo impegno si coglieva in particolare dall’articolo 100 del Codice, in cui si prevedeva che le procedure adottive potessero essere avviate solo con gli Stati sottoscrittori della Convenzione de L’Aja che firmino un accordo bilaterale con la Bolivia.

Al Codice fece seguito il relativo Regolamento attuativo, emanato a fine maggio 2015, che costituì un ulteriore passo in avanti verso la riapertura delle adozioni internazionali, considerata sempre più come l’unica possibilità di salvezza per gli oltre 10mila bambini abbandonati boliviani. (…)

Con la riapertura delle adozioni internazionali, quindi, la Bolivia dà piena ed effettiva attuazione all’articolo 59 della sua Costituzione: “Ogni bambino, bambina e adolescente ha diritto di vivere e crescere in seno alla sua famiglia d’origine o adottiva”. (…)

Ai. Bi.  17 novembre 2015                 www.aibi.it/ita/category/archivio-news

Russia. Calano ancora i minori abbandonati: 17mila quelli fra 0 e 10 anni

I dati pubblicati recentemente dall’agenzia di informazione russa Vesti.ru hanno rivelato che, al 1° novembre 2015, in Russia, i bambini e gli adolescenti registrati nella Banca dati pubblica dei minori abbandonati sono 73.575. Una situazione sicuramente positiva se confrontata con quella degli anni precedenti. Rispetto al 2014, quando i minori abbandonati erano 87.600, i dati aggiornati al 1° novembre 2015 fanno segnare una flessione del 16%. Calo che raggiunge il 31% rispetto alla fine del 2013, quando i bambini e gli adolescenti registrati nella Banca dati erano 107mila.

            L’andamento positivo non deve però distogliere l’attenzione dall’estremo bisogno di accoglienza di più di 70mila bambini. Per molti di questi minori, le speranze di vedersi restituito il diritto di essere figlio si affievoliscono sempre più. Il 76,8% dei nomi iscritti nella Banca Dati sono infatti quelli di ragazzini di più di 10 anni: in termini assoluti si tratta di 56.916 minori. Tanti anche i gruppi di fratelli abbandonati in attesa di accoglienza: sono ben 38.681 i bambini che fanno parte di una fratria, pari al 52,2% del totale.

            Circa un quarto dei piccoli iscritti alla Banca dati presentano invece patologie particolari: il 28,7%, ovvero 21.283. Oltre all’alto numero di minori un po’ più grandicelli, nella Federazione Russa ci sono quasi 17mila bambini abbandonati di età compresa tra 0 e 10 anni. Circa la metà di loro ha almeno un fratello o una sorella anch’egli iscritto nella Banca dati.

            In questi anni la Federazione Russa sta incoraggiando l’adozione nazionale, ma questa non sarà mai sufficiente a dare una famiglia a tutti i bambini in stato di abbandono. Per questo è sempre più necessaria la disponibilità di tante coppie straniere ad accogliere in adozione un bambino o un gruppo di fratelli russi.

Ai. Bi.  19 novembre 2015                 www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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BIGAMIA

Bigami d’Italia. Sono 20mila, fuorilegge e mai puniti.

            Ecco come è possibile vivere con due mogli aggirando le regole. La sfida degli imam: “Il problema è solo vostro”.

            «La storia d’amore» di Fatima, 32 anni, egiziana, inizia con un matrimonio in una moschea italiana piena di fiori. E finisce a Monza in un garage pieno di immondizia. È qui che suo marito Hammed, 50 anni, egiziano, l’aveva scaricata come un sacco di spazzatura. È qui che i carabinieri l’hanno trovata con i suoi tre figli piccoli, anche loro ammassati nel box. La denuncia contro di lui non è scattata per le condizioni in cui faceva vivere donna e figli, ma perché la sua prima moglie (sposata civilmente ma da cui era separato) l’ha accusato di stalking. Fatima era diventata la seconda famiglia di Hammed, poligamo praticante. Fedele al Corano e alla Sharia che gli consente di avere fino a 4 donne.

            Mogli di riserva, mogli di scorta. Come Fatima. Non riconosciuta dalla legge italiana. Quindi senza nessun diritto. La vicenda riflette un fenomeno – il concubinaggio – che in Italia sta crescendo in maniera esponenziale sull’onda dell’arrivo massiccio della popolazione musulmana. Un impatto cui lo Stato italiano mostra di non essere adeguato sotto il profilo legislativo. La nostra giurisprudenza, in tema di normativa del concubinaggio, ne è una prova clamorosa. Come conferma il giudice Dembele Diarra, un’autorità in materia di poligamia, ex vicepresidente della Corte penale internazionale: «In Italia è possibile essere poligami di fatto senza violare formalmente la legge, anche se essa sanziona il reato di bigamia». L’alto magistrato ha recentemente presieduto un summit fra esperti di diritto di famiglia di sette Paesi (Turchia, Italia, Francia, Mali, Bulgaria, Israele, Senegal). Le parole più sferzanti l’alto magistrato le ha riservate proprio al nostro Paese, dove «le donne sono vittime di questa gravissima forma di violenza che si chiama poligamia». Il motivo? «La vostra legge non è chiara e finisce col legittimare i matrimoni religiosi all’interno delle moschee: riti celebrati da imam privi di scrupoli che non richiedono nessun tipo di certificazione civile”. Una procedura contra legem che Ali Abu Shwaima, ex imam della moschea di Segrate, «poligamo praticante» (con due mogli e sette figli), non ha difficoltà a confermare: «Personalmente ho celebrato decine di matrimoni religiosi. Non mi sento assolutamente in colpa. Il problema è solo di voi italiani. La legge è infatti dalla nostra parte. Non solo la Corte Costituzionale ha abrogato l’articolo 560, quello che puniva il concubinato. Ma non si configura nemmeno il reato previsto dall’articolo (…)(…) 556, quello sulla bigamia, considerato che il secondo matrimonio è un semplice matrimonio religioso, senza alcun effetto civile».

            Dacia Valent, da ex deputato del Pd al Parlamento italiano, presentò un esposto alla Procura di Milano, accusando Ali Abu Shwaima di bigamia. L’esposto fu archiviato. Ancora più tagliente il giudizio di Mohamed Baha’ el-Din Ghrewati, ex presidente della Casa della cultura islamica di Milano: «La società che non permette la poligamia è incivile e noi musulmani proponiamo la poligamia come rimedio al fallimento della società italiana». Secondo una ricerca condotta dall’Associazione donne marocchine in Italia, presieduta dall’ex parlamentare del Pdl, Suad Sbai, in Italia i bigami sono circa 20mila (non esistono statistiche ufficiali ma solo stime di riferimento), di cui la metà tra Lombardia e Veneto.

            Ma come si è arrivati a questo dato? Le moschee che in Italia celebrano matrimoni religiosi hanno un «albo» dove l’imam annota lo status dello sposo, il quale nel 90% dei casi risulta già coniugato civilmente con una donna musulmana (o italiana di fede cristiana oppure italiana convertita all’Islam). A queste celebrazioni bisogna aggiungere i cosiddetti «orfi», vale a dire i matrimoni a tempo, spesso stipulati in consolati o ambasciate compiacenti. Si tratta di un istituto previsto dalla legge islamica: un’unione suggellata da un patto tra marito e moglie, alla presenza del notaio e di due testimoni. I mariti arabi sposati in Italia tornano al loro Paese di origine per contrarre matrimoni a tempo con donne locali che spesso non sanno che il marito è già sposato. Non drammatizza il problema il professor Stefano Allievi, uno dei massimi esperti dell’islam italiano: «Fare un calcolo è impossibile, ma credo che la poligamia nel nostro Paese rappresenti un fenomeno irrilevante: riguarda poche famiglie, all’interno delle quali spesso la presenza di più mogli non crea alcun problema, perché è normale nella cultura di provenienza o perché è accettata anche da donne italiane convertite». Di tenore ben diverso però la denuncia di Suad Sbai: «In nome di un distorto concetto di integrazione e accoglienza l’Italia finisce col far finta di non vedere la piaga della poligamia che rende schiave migliaia di donne, sottoponendole a ogni tipo di vessazione. Una realtà tanto più paradossale considerato che la poligamia è contrastata da decenni in Tunisia, Turchia, Egitto; annullata dal nuovo codice della famiglia marocchino e severamente regolamentata in molti altri Paesi del mondo arabo».

            Negli ultimi 4 anni sono state un centinaio le sentenze di condanna emesse da tribunali italiani nei confronti di uomini (per lo più originari da Paesi arabi) «rei» (ma solo formalmente) di concubinaggio: le pene inflitte sono state infatti comminate non per il reato di poligamia ma per violenze. In altre parole in Italia, per finire in galera «bisogna» almeno picchiare (o uccidere) una delle mogli dell’harem. Il nostro codice penale, sul tema, è contraddittorio: «Considera la poligamia reato, ma non la persegue come fuorilegge – spiega l’avvocato Michelle Gruosso, esperto di diritto di famiglia -. Motivo? Se solo il primo dei suoi matrimoni è registrato civilmente nel nostro Paese e gli altri sono solo effetto di cerimonie religiose all’interno delle moschee italiane, tutto diventa regolare». Ma anche se entrambi i matrimoni fossero stati registrati civilmente non ci sarebbe troppa differenza: nel 2003 il tribunale di Bologna riconobbe a due figli dello stesso padre il diritto di far arrivare in Italia le rispettive madri, prima e seconda moglie dell’uomo in questione. In questo caso, argomentò il giudice, «il reato non sussiste, essendo entrambe le nozze state contratte in un Paese che le consente». Una sentenza che ha fatto giurisprudenza, finendo col legittimare una pratica che comincia a essere proibita perfino in molti Stati dell’islam moderato. «Indubbiamente ci troviamo di fronte a un problema che finora il diritto europeo non è riuscito a risolvere – sostiene Roberta Aluffi, docente di Diritto islamico all’università di Torino -; la poligamia è contraria al nostro concetto di uguaglianza, ma è vero anche che occorre rispettare una donna che ha contratto matrimonio secondo la religione e la legge del suo Paese e che non può essere spogliata di ogni diritto una volta arrivata qui». Il Corano stabilisce che un uomo possa avere fino a quattro mogli, ma la condizione imprescindibile è che riservi a tutte lo stesso trattamento, in termini di tempo, attenzioni e denaro. «Formalmente – sottolinea l’avvocato Aluffi – già il fatto che lo Stato italiano riconosca solo a una delle spose il titolo di moglie ufficiale non permette di rispettare il principio dell’uguaglianza».

Nino Materi – il giornale.it               16 novembre 2015

www.ilgiornale.it/news/bigami-ditalia-sono-20mila-fuorilegge-e-mai-puniti-1194779.html

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CHIESA CATTOLICA

A 50 anni del “Patto delle Catacombe”. Per una Chiesa “serva e povera”.

“La Chiesa cattolica è Chiesa di tutti ma soprattutto dei poveri”. In molti penseranno che si tratti di una delle riflessioni che stanno segnando il magistero di Papa Francesco, il quale costantemente richiama l’attenzione della Chiesa verso i più poveri e verso tutti coloro che hanno bisogno di soccorso cristiano e di un riferimento saldo e paterno. In verità, queste parole risalgono agli anni ’60 del ‘900 quando Papa Giovanni XXIII ispirandosi al Servo di Dio Dom Hélder Camara, a un mese dall’inizio del Concilio, in un radiomessaggio disse: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Arcivescovo di Olinda e Recife nel Nordest brasiliano – regione tra le più povere del mondo – dom Helder Camara è stata una delle figure più rappresentative del cattolicesimo del XX secolo tanto che Bartolomeo Sorge, gesuita italiano ed esperto di dottrina sociale della Chiesa, lo colloca tra quei testimoni coraggiosi che hanno traghettato la Chiesa nella stagione del Concilio mantenendosi fedeli alla parola del Vangelo che in quegli anni era posta al centro di una storica opera di aggiornamento e di rinnovamento per l’intera famiglia cristiana. Il vescovo brasiliano amico dei poveri, morto nel 1999, ha vissuto tutta la sua vita nei termini di una missione profetica caratterizzata da una vibrante passione per i poveri. Questa passione darà origine a un organico movimento di pensiero che, a partire dal Concilio Vaticano II, ha spinto la riflessione e l’azione della Chiesa cattolica a ritrovare un coerente impegno di solidarietà con i popoli oppressi e a formulare quella che sarà chiamata “opzione preferenziale dei poveri”, formatasi nella prima sessione del Concilio per ispirazione del prete operaio Paul Gauthier e della religiosa carmelitana Marie-Thérèse Lescase e dall’arcivescovo di Olinda e Recife, Hélder Pessoa Câmara, ritenuto “uno dei campioni nella lotta per la giustizia e la pace del ventesimo secolo”.

Tutto questo verrà suggellato nel cosiddetto “Patto delle Catacombe”, firmato segretamente il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II. Proprio in questi giorni a Roma, per iniziativa dell’Istituto di teologia e politica di Monaco (Germania), in collaborazione con il gruppo “Pro Konzil”, si sta svolgendo una lunga “convention” per commemorare l’anniversario dell’evento che vide 42 padri conciliari (ai quali si unirono successivamente altri 500 vescovi) celebrare una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù nel nome di una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII. I firmatari, la maggior parte erano brasiliani e latinoamericani, con questo “patto” stretto in uno degli epicentri della cristianità occidentale, si impegnarono a vivere in povertà, rinunciando a tutti i simboli o ai privilegi del potere per porre i poveri al centro del loro ministero pastorale. Uno dei firmatari e propositori del Patto fu proprio il Bispinho Dom Helder Câmara, la cui opera oggi – a distanza di sei anni dalla morte – continua a interrogare la Chiesa. Profetiche, in tal maniera, sembrano le sue parole, tra l’altro in linea con la magistrale opera di riforma messa in atto da Papa Francesco in questi tre anni di pontificato, più volte e da più parti posta in discussione e minata nell’intento: “Affinché la Chiesa sia serva come Cristo – egli scriveva – affinché non offra al mondo lo scandalo di una Chiesa forte e potente che si fa servire, la Curia va riformata […] Le spese scenderebbero moltissimo”. Certamente, queste riflessioni riportano alla memoria le parole sussurrate all’orecchio del neo papa Bergoglio da un cardinale elettore nel mezzo della Cappella Sistina, “non dimenticarti dei poveri” e si sommano alla lectio magistralis della enciclica sociale, Laudato Si’, pubblicata il 24 maggio2015 scorso, e indirizzata dal Papa ai “potenti” della terra.

La prospettiva sociale della Chiesa, oggi celebrata nella memoria del Patto delle Catacombe, si inserisce nel pensiero di Papa Francesco, il quale sovente è stato accusato di essere un “Papa politicante” che si serve di pauperismi pseudo marxisti e di essere condizionato da una tendenza politica di sinistra, come se il Vangelo fosse un manifesto politico lontano dai validi valori cristiani. Evangelizzazione, liberazione e promozione umana sono i capisaldi del pensiero di Dom Helder Câmara ma anche di Monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, assassinato il 24 marzo 1980 dagli “squadroni della morte”, sicari di una estrema destra spietata. Queste due personalità della Chiesa latinoamericana del ‘900 si pongono in qualche modo alla base del magistero petrino bergogliano, che spesso sembra volgere lo sguardo a Puebla, Messico, alla terza Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano (22 gennaio – 16 febbraio 1979), incentrata sul tema: “L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina”.

Il Patto delle Catacombe “è più importante oggi di 50 anni fa, perché allora eravamo rassegnati, il Concilio non aveva parlato molto della Chiesa dei poveri”, ha dichiarato stamattina monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, durante la conferenza stampa a conclusione della messa commemorativa nelle Catacombe di Domitilla. Il 92enne presule, unico “superstite” italiano tra i padri conciliari, ha poi aggiunto: “Io penso che allora abbiamo messo un seme sotto terra. Dentro la terra nessuno vede il seme ma poi questo seme esce dalla terra, cresce, genera dei fiori e dei frutti, per i quali oggi ringraziamo il Signore”. “Ed oggi credo che, dal Cielo, i 40 vescovi firmatari saranno molto contenti di vedere che il seme che loro hanno piantato con molta semplicità, oggi porta questo grande frutto”, ha poi concluso monsignor Bettazzi.

Alessandro Notarnicola        Città del Vaticano, zenit.org 16 novembre 2015

www.zenit.org/it/articles/a-50-anni-del-patto-delle-catacombe-per-una-chiesa-serva-e-povera

La seconda stagione del concilio.

Quello di Firenze è stato il primo faccia a faccia fra Papa Francesco e la Chiesa italiana. Il Pontefice aveva già incontrato l’assemblea della Cei, la Conferenza Episcopale Italiana, in questi due anni e ne ha nominato ormai vari membri di spicco. Ha visitato molte chiese seguendo la linea invisibile delle sue priorità, che passano dalla condizione reale degli umiliati, come ha confermato l’invettiva di Prato contro lo sfruttamento, e non da quella «ripartenza dagli ultimi» che l’episcopato aveva scritto in piani pastorali forse sinceri, ma di sicuro rimasti allo stato delle intenzioni o delle verbosità. Ma per la prima volta a Firenze ha incontrato una chiesa che non poteva nascondersi dietro la ripetizione di quelli che dicono lui chiami i «pappagalli bergoglisti», e l’ha fatto alla luce di quel principio di realtà che ha citato nella omelia allo stadio: «A Gesù interessa quello che la gente pensa non per accontentarla, ma per poter comunicare con essa» e così riuscire a «mantenere un sano contatto con la realtà». L’ha incontrata, la chiesa italiana, nel Duomo e col discorso che ivi ha pronunziato.

Il tema e il convegno di Firenze — legato come metodo alla stagione della presunta onnipotenza, e come tema all’inseguimento di una antropologia cristiana da usare come moneta di scambio sui tavoli della politica — offrivano la possibilità di saltare tutte le mediazioni che pure avrebbero avuto una plausibilità: e il Papa le ha saltate. Avrebbe potuto concedere qualcosa alla precedente gestione della Cei, non foss’altro per salvare quel che vi aveva apportato di suo un biblista come il cardinal Betori; avrebbe potuto seguire lo stile usuale del discorso ecclesiastico e, come ha fatto il cardinal Bagnasco nel suo deferente saluto al pontefice, percorrere con qualche aggiustamento la linea dei convegni come fosse un’unica parabola quella che va dal conflitto di «Evangelizzazione e promozione umana» di quarant’anni fa a quelli tutti politici d’età ruiniana. Invece no: con una durezza crescente, tagliente, incalzante il Papa ha annunciato una svolta della chiesa italiana alla quale da domattina il convegno dovrà adeguarsi e si adeguerà. Non per opportunismo, come quando per compiacere Benedetto XVI tutti si misero ad infilare un po’ di logos e di ragione nei propri discorsi: ma per la cogenza spirituale che portava.

«Quando lo spirito è pronto, tutto il resto viene da sé»: ha detto il pontefice in Cattedrale ed è quello che appariva dalle sue parole. Quelle di un uomo che ha sepolto una settimana di finti allarmi e veri furti con una battuta sul fatto che le cose che i ladri e i loro tipografi hanno «svelato», le aveva già «svelate» lui un anno fa martellando 15 vizi della curia (e non solo della curia, onestamente) in un discorso di auguri che deve aver amareggiato solo i peggiori. Il discorso del Papa ha preso di petto tutti i problemi, senza scendere ai dettagli, ha proposto le sue soluzioni senza mai dichiararne le fonti, come suo uso.

A un episcopato nel quale non manca qualcuno che rimpiange i «giorni dell’onnipotenza», quando il governo Berlusconi assecondava i desiderata papali, quando per far cadere Prodi bastava rigettare quello che oggi tutti i vescovi vorrebbero, ha ricordato che c’è più nutrimento nel don Camillo di Brescello, senza mai citare l’omonimo che di fronte non aveva Peppone ma il Cav. In una chiesa che ancora sogna una restituzione per legge di parapetti etici derivati dalla dottrina e dalla antropologia cristiana, ha spiegato che la dottrina cristiana è la persona di Gesù e l’antropologia è quella della natura divina esinanita [annientata]della lettera ai Filippesi. In un crescendo polemico reso appena sostenibile dalla dolcezza dell’eloquio ha espresso una sentenza definitiva che segna non «un epoca di cambiamenti, ma un cambio di epoca» secondo uno delle sue formule: «Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».

Introdotto da toccanti testimonianze che correvano sul filo del rasoio che separa la testimonianza dal reality e concluse dal commosso ricordo di don Giancarlo Setti, il Papa ha preso la formula del convegno, l’umanesimo cristiano, e con la sola aggiunta del «popolare» ha sepolto i tentativi che anche a Firenze erano stati fatti per trasformare quella formula in uno strumento di pubbliche relazioni come quelle costruite nei mesi passati da consigliere del cui fiuto per il potere s’è diffidato un po’ tardi, dimenticando come ha scandito in una cattedrale indecisa fra lo stupore e l’applauso che «la nostra fede è rivoluzionaria».

Come in tutti i discorsi di Bergoglio il testo nasconde molto di quel che dice: il ripudio radicale del nominalismo conciliare, che consentiva a tutti di onorare il Vaticano II con due frasette senza conseguenze; la citazione del pietista olandese Van Lodenstein sulla chiesa semper reformanda che è il ritratto della riforma di Lutero; l’uso della polemica dossettiana del 1953 contro il pelagianesimo della chiesa dei tempi di Gedda; il ritrovare lo gnosticismo non nel povero Harry Potter, come usava ai tempi di Ratzinger, ma in un cristianesimo anti comunitario, intellettualistico e intimistico; una chiesa definita «adulta» con un aggettivo paolino evocativo di meschilità antiprodiane.

E per liberare la chiesa dalla sue ossessioni (c’è tornato su tre volte) ha indicato una via sinodale che non consiste nel far dare al Papa la linea e nell’usarla per guadagnare influenza, ma nel porsi in uno stato sinodale per un sogno profetico: nelle comunità, nelle diocesi, nelle regioni ecclesiastiche che serva a mettere in relazione gli esiti di questo dibattito (e il Papa che è stato relatore della conferenza dell’episcopato latino-americano dell’Aparecida sa cosa sia un dibattito e quanto «conflitto» esiga per essere vero) che ricavi da criteri pratici e disposizioni della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium.

La chiesa italiana che Francesco ha aperto è inquieta e inquietante è tutta da fare: il disegno del sognatore è disegnato.

Alberto Melloni          “Corriere Fiorentino”          11 novembre 2015

http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/cards/i-tre-discorsi-francesconelle-nuvole-papa-sognatore/duomo-prato-discorso-citta.shtml

Testo ufficiale

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151110_firenze-convegno-chiesa-italiana.html

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CHIESA EVANGELICA

La cena del Signore, un viatico per camminare insieme.

Nella rubrica radiofonica “Il cammino verso l’unità”, che curo una volta al mese per il programma “Culto evangelico” di Radio 1 Rai (e che viene pubblicata anche su Riforma), per due volte mi sono occupato del tema delle coppie “miste” – o meglio interconfessionali -, quelle dove un coniuge è cattolico e l’altro appartiene ad un’altra confessione cristiana. Ne abbiamo parlato in ottobre per dare voce alle speranze della Rete internazionale delle famiglie interconfessionali, che chiedevano al Sinodo dei vescovi sulla famiglia di smettere di considerarle come un “problema” e di riconoscerne invece la ricchezza e le potenzialità. Le famiglie interconfessionali chiedevano in particolare un passo in avanti nella possibilità, per i coniugi, di accostarsi insieme all’eucarestia o Cena del Signore che dir si voglia (cosa che di norma è possibile nelle chiese evangeliche, ma non in quella cattolica).

La seconda volta, in novembre, siamo tornati sull’argomento per lamentare la frustrazione di queste speranze: la relazione finale del Sinodo da poco concluso, infatti, su questo punto ribadisce quanto previsto dal Direttorio ecumenico del 1993, e cioè che “sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’Eucaristia non può essere che eccezionale”. Anche se nel dibattito sinodale c’erano state delle proposte di apertura, alla fine è prevalsa la posizione più prudente (o più conservatrice). Ma fino a quando sarà possibile fermare le pressioni della base delle chiese, che chiede da tempo di superare lo scandalo della divisione dei cristiani alla mensa eucaristica?

Un vecchio adagio latino dice: Roma locuta, causa finita. Cioè: quando Roma ha parlato, non c’è più niente da fare. Ma si tratta di un detto che forse, con l’attuale pontefice, va rivisto. Pochi giorni fa Francesco, infatti, ci ha riservato una nuova sorpresa, durante la visita alla Chiesa luterana di Roma (15 novembre 2015). Alla domanda di Anke de Bernardinis, una luterana di Roma sposata con un cattolico, che diceva “ci duole assai l’essere divisi nella fede e non poter partecipare insieme alla Cena del Signore” e chiedeva “che cosa possiamo fare per raggiungere, finalmente, la comunione su questo punto?”, papa Francesco ha fatto sua la domanda della signora de Bernardinis chiedendosi: “Condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme?”

Lascio la domanda ai teologi”, ha aggiunto Francesco, ma poco più in là si è dato da solo la risposta: “‘Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue’, ha detto il Signore, ‘fate questo in memoria di me’, e questo è un viatico che ci aiuta a camminare”. E ha consigliato di seguire la coscienza: “Vedete voi… E’ un problema a cui ognuno deve rispondere. Mi diceva un pastore amico: ‘Noi crediamo che il Signore è presente lì. E’ presente. Voi credete che il Signore è presente. E qual è la differenza?’ ‘Eh, sono le spiegazioni, le interpretazioni…’ La vita è più grande delle spiegazioni e interpretazioni. Sempre fate riferimento al battesimo: ‘una fede, un battesimo, un Signore’, così ci dice Paolo, e di là prendete le conseguenze. Io non oserò mai dare permesso di fare questo perché non è mia competenza. Un battesimo, un Signore, una fede. Parlate col Signore e andate avanti. Non oso dire di più”

(il testo completo delle risposte del papa alle domande rivolte durante l’incontro con i luterani di Roma è disponibile sul sito ufficiale del Vaticano)

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/november/documents/papa-francesco_20151115_chiesa-evangelica-luterana.html

Bergoglio, insomma, è molto più avanti dei vescovi. A me pare che il suo pensiero in materia sia chiarissimo: anzitutto, primato della coscienza. L’affermazione che non oserà mai dare un “permesso” di condividere la Cena “perché questo non è mia competenza” non va letta come un pilatesco “lavarsi le mani”. Ci vedo piuttosto (ma forse sono i miei “occhiali protestanti”?) il riconoscimento del fatto che la Cena non è nostra bensì, appunto, del Signore: “Parlate col Signore e andate avanti”. E poi, la Cena non come approdo finale di un cammino di unità, ma come viatico – cioè letteralmente “provvista per il viaggio” – che ci consente di camminare insieme verso l’unità.

Roma locuta, causa finita? Vedremo quale “Roma” prevarrà, se le parole di apertura del papa o la prudenza del Sinodo dei vescovi. Certo, è paradossale per un protestante, per una volta, “tifare” per il sommo pontefice e non per un organismo collegiale come il Sinodo. Grazie, comunque, al fratello Francesco che ci consente ancora una volta di sperare in una nuova primavera ecumenica.

Luca Maria Negro     “www.riforma.it”      17 novembre 2015

http://riforma.it/it/articolo/2015/11/17/la-cena-del-signore-un-viatico-camminare-insieme

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Parma. Progetto prendiamoci cura delle nuove famiglie.

Famiglia Più è un’Associazione onlus dedicata al sostegno del benessere familiare. Nel suo Consultorio Familiare offre consulenza psicologica alle famiglie, alle coppie, ai singoli, ai genitori, agli adolescenti, che stanno attraversando un’esperienza di crisi, di cambiamento, di passaggio, di malessere o fatica. Crea anche occasioni di gruppo, di scambio tra chi sta vivendo le stesse esperienze. Il progetto è finalizzato all’osservazione, all’incontro e al sostegno di chi sta per diventare genitore. Si compone di

1) una ricerca, che è finalizzata alla raccolta di bisogni/aspettative/emozioni/percezioni delle future mamme e dei futuri papà (tramite un questionario, che potrà essere compilato dal 6° mese di gravidanza)

2) percorsi di gruppo che ciclicamente verranno attivati, per ospitare i futuri genitori, tutti coloro che credono possa essere importante ripensare alla propria storia di figli per fare posto al nuovo bambino.

            Il passaggio dall’essere figli all’essere genitore è un processo delicato e complesso. Significa prendere il posto dei propri genitori. Porta a rivisitare la propria esperienza di figlio/a. Può riattivare antiche paure e insicurezze infantili.             Riconoscere i propri bisogni e le proprie emozioni permette di entrare in relazione col nuovo nato, poter rispondere ai suoi bisogni.

            Ogni gruppo sarà composto da un massimo di 8/10 coppie. Il percorso è gratuito e si articola in 4 incontri, a cadenza settimanale, nel periodo pre-nascita e 5 incontri, a cadenza quindicinale, nei primi tempi dopo la nascita (al sabato). Un incontro è dedicato al passaggio del testimone da una generazione all’altra e prevede l’invito dei futuri nonni.

            Saranno condotti da dr.ssa Silvia Levati, psicologa e dr.ssa Micaela Fusi, psicologa psicoterapeuta.

e-mail: consultorio@famigliapiu.it                            www.famigliapiu.it

Trento. Consultorio Ucipem, 50 anni in un libro.

Il 1 dicembre 2015 alle 20,30 a Palazzo Geremia a Trento la presentazione del volume “Quadri di famiglia: cinquant’anni di Consultorio familiare Ucipem a Trento (1965-2015)”

I primi 50 anni del Consultorio familiare Ucipem Trento diventano un libro, testimonianza non solo della storia dell’unico consultorio del privato sociale riconosciuto dalla Provincia di Trento, ma anche delle trasformazioni e delle problematiche che hanno interessato la famiglia trentina in questo mezzo secolo.

            Il volume “Quadri di famiglia: cinquant’anni di Consultorio familiare Ucipem a Trento (1965-2015)”, è curato dalla ricercatrice Monica Ronchini perla Fondazione Museo Storico di Trento.

Nato nel 1965, il primo in Trentino e tra i primi in Italia, da 50 anni è un osservatorio dei mutamenti in atto nella società e nella famiglia trentina: dall’aumento di divorzi e separazioni, dalla crescita delle nuove forme di famiglia monogenitoriale, fino alle difficoltà che incontrano le coppie nella crescita dei figli. In questi cinque decenni, all’Ucipem si sono rivolte migliaia di famiglie, persone singole e coppie.

www.vitatrentina.it/Politica-Societa/Consultorio-Ucipem-50-anni-in-un-libro

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DALLA NAVATA

34° domenica del tempo ordinario – anno B -22 novembre 2015.

Daniele           07, 14 «… il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto».

Salmo              93, 01 «E’ stabile il mondo, non potrà vacillare».

Apocalisse       01, 08 «Dice il Signore Dio: io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente Dio!»

Giovanni         18, 37 «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

A Papa Francesco sta a cuore la famiglia e ne parla, ne parla tanto.

Dal 17 dicembre 2014 al 16 settembre 2015, nelle sue udienze generali del mercoledì, ha scelto di parlare di lei, approfondendone il mistero, la bellezza, la difficoltà, le sfide che si trova ad affrontare, e regalando al tempo stesso saggi ammonimenti e teneri consigli nel modo che solo un padre sa fare.

Per chi ha il desiderio di rileggere le sue parole o di approfondirle, ecco qui di seguito i link delle sue catechesi, per avere la possibilità, in modo facile e veloce, di ripercorrere questo viaggio all’interno della realtà familiare attraverso lo sguardo di Papa Francesco, che inevitabilmente fotografa non solo la famiglia in quanto tale ma il nostro tempo, una società in divenire e cambiamenti culturali premonitori di sfide e di opportunità.

Udienza Generale del 17 dicembre 2014: La Famiglia – 1. Nazaret

Udienza Generale del 7 gennaio 2015: La Famiglia – 2. Madre

Udienza Generale del 28 gennaio 2015: La Famiglia – 3. Padre

Udienza Generale del 4 febbraio 2015: La Famiglia – 3Bis Padre (II)

Udienza Generale dell’11 febbraio 2015: La Famiglia – 4. I Figli

Udienza Generale del 18 febbraio 2015: La Famiglia – 5. I Fratelli

Udienza Generale del 4 marzo 2015: La Famiglia – 6. I Nonni (I)

Udienza Generale dell’11 marzo 2015: La Famiglia – 7. I Nonni (II)

Udienza Generale del 18 marzo 2015: La Famiglia – 8. I Bambini (I)

Udienza Generale dell’8 aprile 2015: La Famiglia – 9. I Bambini (II)

Udienza Generale del 15 aprile 2015: La Famiglia – 10. Maschio e Femmina (I)

Udienza Generale del 22 aprile 2015: La Famiglia – 11. Maschio e Femmina (II)

Udienza Generale del 29 aprile 2015: La Famiglia – 12. Matrimonio (I)

Udienza Generale del 6 maggio 2015: La Famiglia – 13. Matrimonio (II)

Udienza Generale del 13 maggio 2015: La Famiglia – 14. Le tre parole

Udienza Generale del 20 maggio 2015: La Famiglia – 15. Educazione

Udienza Generale del 27 maggio 2015: La Famiglia – 16. Fidanzamento

Udienza Generale del 3 giugno 2015: La Famiglia – 17. Famiglia e povertà

Udienza Generale del 10 giugno 2015: La Famiglia – 18. Famiglia e malattia

Udienza Generale del 17 giugno 2015: La Famiglia – 19. Lutto

Udienza Generale del 24 giugno 2015: La Famiglia – 20. Ferite (I)

Udienza Generale del 5 agosto 2015: La Famiglia – 21. Famiglie ferite (II)

Udienza Generale del 12 agosto 2015: La Famiglia – 22. Festa

Udienza generale del 19 agosto 2015: La Famiglia – 23. Lavoro

Udienza generale del 26 agosto 2015: La Famiglia – 24. Preghiera 

Udienza Generale del 2 settembre 2015: La Famiglia – 25. Evangelizzazione

Udienza Generale del 9 settembre 2015: La Famiglia – 26. Comunità

Udienza Generale del 16 settembre 2015: La Famiglia – 27. Popoli[G1] 

                                                                    Pontificium Consilium pro Familia

http://www.familiam.org/famiglia_ita/chiesa/00011934_La_famiglia_secondo_Papa_Francesco.html

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GRAVIDANZA

“Per la prima volta al mondo bimbi sani da embrioni malati “

            Embrioni parzialmente malati, che in precedenza si ritenevano corresponsabili di mancati impianti o aborti spontanei, possono dare origine a bambini sani, perché esiste in natura un meccanismo di autocorrezione. La notizia, pubblicata sul ‘New England Journal of Medicine’, è frutto della ricerca italiana. «Per la prima volta al mondo sono stati trasferiti all’interno dell’utero materno embrioni parzialmente malati, chiamati embrioni aneuploidi a mosaico, e si è dimostrato che possono dare origine a gravidanze normali e a bambini sani – spiega il professor Ermanno Greco, autore dello studio e direttore del Centro di medicina e biologia della riproduzione dello European Hospital di Roma – Questa scoperta ha un duplice significato clinico. Innanzitutto embrioni parzialmente malati sono in grado di auto-correggersi e una volta impiantati le cellule sane prendono il sopravvento su quelle malate. Di conseguenza, potendo utilizzare anche questi embrioni ‘anormali’, possiamo aumentare di fatto le percentuali cumulative di successo della fecondazione in vitro».

            Tra le varie possibili conseguenze in ambito della fecondazione assistita c’è la diminuzione della stimolazione ovaria della donna, perché si può contare anche sulla possibilità di successo di embrioni ‘a mosaico’. La scoperta ha quindi un profondo significato etico, che sottolinea la potenzialità della vita e la particolare sensibilità dei ricercatori italiani in questo ambito di costante e vivace dibattito. «Embrioni che presentano delle aneuploidie cromosomiche a mosaico verranno considerate utili per il trasferimento in utero e non verranno più lasciati congelati o, come avviene in altri Paesi, eliminati. Noi abbiamo dato la possibilità a questi embrioni di impiantarsi e trovare un loro destino e lo abbiamo proposto alle coppie che si sono trovate in questa situazione», commenta il dottor Francesco Fiorentino, coautore dello studio, Biologo molecolare, Direttore dei laboratori ‘Genoma’ di Roma e Milano. Nessun pericolo, quindi, per la coppia se la gravidanza non va avanti, al contrario potranno finalmente abbracciare il loro bambino. «Le aneuploidie sono le anomalie, alterazioni del numero di cromosomi. La loro presenza in genere dà origine all’aborto o al mancato impianto – spiega Marina Baldi, genetista del laboratorio Genoma di Roma, che si è occupata del counselling genetic ai pazienti – Se la diagnosi pre-impianto evidenzia una situazione di aneuploidia a mosaico, significa che sono state trovate sia cellule malate sia sane».

            Oggi sappiamo che tale coesistenza può suggerire che l’embrione si stia ‘riparando’ e che le cellule malate verranno confinate nella regione dell’embrione che darà origine ai cosiddetti annessi fetali come la placenta. «Questa anomalia può essere collegata con l’età materna avanzata e può essere più frequenti nelle donne che hanno avuto episodi ripetuti di aborto», aggiunge Greco. Nello studio pilota che ha dimostrato questa sensazionale scoperta sono stati analizzate oltre 3.800 blastocisti (l’insieme di cellule che si formano entro le prime 2 settimane dalla fecondazione), delle quali il 5% circa sono risultate a mosaico. Si è quindi spiegato alle coppie che anche queste hanno la possibilità di svilupparsi in quanto, essendo a mosaico, hanno anche delle line cellulari normali. Inoltre, nel caso di una gravidanza, si può controllare la salute del feto attraverso analisi non invasive sul sangue materno. «Da parte delle coppie c’è stata una buona accettazione di questo tipo di procedura, che spesso rappresenta per loro l’unica possibilità di embrioni trasferibili», aggiunge Baldi. Sono stati così effettuati 18 impianti. Da questi sono nati sei bambini sani, cinque femmine e un maschio. Questi risultati sottolineano l’importanza dell’indagine genetica pre-impianto, per verificare la qualità genetica dell’embrione prima di trasferirlo in utero, per non escludere embrioni all’apparenza non idonei, e per una maggiore sicurezza della donna e del nascituro.

            Possono giovarsi di queste nuove metodiche di procreazione assistita integrate con la diagnosi pre-impianto donne infertile che hanno avuto difficoltà a rimanere incinte o a portare Avanti una gravidanza e che hanno già affrontato vari fallimenti nel concepimento sia per via naturale che assistite, e anche donne con età materna considerate ‘avanzata’ (superiore ai 35 anni). «Un tempo la scelta si basava sull’aspetto morfologico e sul numero di cellule, tuttavia oggi sappiamo che sono gli embrioni sani, cioè con il corretto patrimonio genetico, e non quelli ‘belli’, che poi si impiantano – precisa Greco – Con questa tecnica, chiamata Pre-implantation Genetic Screening (PGS), possiamo verificare l’intero assetto genetico, non solo di alcuni cromosomi, come in passato, e senza alcun rischio per il future feto. La vecchia concezione della fecondazione in vitro risulta così oramai superata, perché antiquata: non dà una sicurezza ragionevole della gravidanza, non protegge la donna da eventuali patologie cromosomiche degli embrioni (aborti nel primo trimestre o interruzioni terapeutiche per patologie tipo la trisomia del cromosoma 21), e la espone a gravidanze multiple». La PGS risulta al contrario significativamente più efficace e sicura. «Come emerge dai dati che recentemente abbiamo consegnato all’Istituto Superiore di Sanità, aumenta molto la percentuale di successo – illustra lo specialista – Considerando tutte le donne di tutte le età che afferivano a un centro di fecondazione in vitro con età media di 38 anni, se prima la percentuale di successo si aggirava intorno al 35-38%, grazie a questa tecnica è salita al 55%. È un valore che comprende sia donne che facevano la diagnosi pre-impianto sia quelle che non la facevano. A parità di numero di transfer effettuati, il numero di bambini nati è superiore».

            La nuova tecnica permette la certezza di trasferire in utero un embrione che non ha le caratteristiche anomalie cromosomiche che possono verificarsi a causa dell’età della paziente. Inoltre è più sicura per la donna perché permette di evitare le gravidanze gemellari, visto che si trasferisce un solo embrione. «In sostanza la diagnosi pre-impianto può essere equiparata a una diagnosi prenatale molto precoce senza gli effetti negativi: non presenta nessun rischio per l’embrione e non costringe la coppia a scelte difficili come un eventuale aborto terapeutico, a differenza di indagini invasive a gravidanza iniziata», aggiunge Fiorentino. «Per fare la diagnosi pre-impianto non è necessario rivolgersi all’estero – ricorda Greco – perché anche in Italia esistono centri attrezzati, anche se ancora sono pochi. Nel solo centro dell’European Hospital, ad esempio, dal 2013 al 2014 abbiamo analizzato circa 4.000 embrioni e il 60% delle donne che hanno fatto la fecondazione in vitro da noi ha scelto la diagnosi pre-impianto».

(W. S.) Libero quotidiano                  21 novembre 2015

www.liberoquotidiano.it/news/salute/11851233/Bimbi-sani-da-embrioni-malati-.html

Giornata neonato pretermine. Bellieni: il feto è un bambino

Nel mondo ogni anno circa 13 milioni di bambini nascono prematuri, ma migliora la loro possibilità di sopravvivenza grazie alle terapie intensive neonatali. Al neonato pretermine è dedicata l’odierna Giornata celebrata a livello mondiale. Intervistato Carlo Valerio Bellieni, neonatologo presso l’Ospedale Universitario Le Scotte di Siena:

R. – Si parla di bambino prematuro quando nasce prima di 37 settimane.

D. – Quale incidenza ha il fenomeno dei bambini prematuri all’interno delle nascite a livello generale?

R. – Bassa perché ormai si riesce a contenere la nascita prematura con sistemi medici sempre più avanzati. In tanti Paesi occidentali, negli ultimi anni, il fatto di avere un figlio in un’età avanzata, magari ricorrendo a tecniche farmacologiche di inseminazione, aumenta il rischio di avere un bambino prematuro.

D. – E’ migliorata negli ultimi anni la possibilità di sopravvivenza per i neonati pretermine?

R. – Pensi che nel 1970, prima dei sei mesi di gravidanza era difficile che un bambino che nasceva poteva aver speranza di sopravvivere. Adesso bastano 23, 24 settimane di gravidanza perché si possa sperare ragionevolmente che il bambino possa sopravvivere: sempre con dei rischi, però si sono fatti grandissimi passi.

D. – Dopo quanto tempo si può dire che un bambino nato prematuro sarà in grado di condurre una vita normale?

R. – Questo dipende da bambino a bambino. Purtroppo sappiamo che i bambini prematuri hanno gravi rischi di avere problemi di salute sia a breve termine sia a lungo termine. Diciamo che nei primi giorni di vita, soprattutto al momento della nascita, non si può assolutamente essere sicuri di niente. E’ una cosa che si vede con lo svilupparsi dell’età e con lo svilupparsi dei progressi che farà. I primi danni cerebrali si possono vedere dopo una ventina di giorni dalla nascita, non prima, prima si possono avere soltanto degli indizi.

D. – C’è una sufficiente attenzione dal suo punto di vista, verso il tema del bambino nato pretermine a livello di opinione pubblica?

R. – Purtroppo penso di no, c’è ancora molta disinformazione. Inoltre c’è una banalizzazione del fatto che uno può far figli a qualunque età. Questo purtroppo non è vero perché con l’età avanzata aumentano i rischi e questo è bene che le persone lo sappiano.

D. – Età avanzata delle madri, delle gestanti, e anche aumento delle gravidanze medicalmente assistite tra le cause delle nascite pretermine.

R. – Sì perché noi sappiamo che queste gravidanze spesso hanno un tasso maggiore della norma di bambini che sono gemelli e questo è uno dei fattori di rischio per nascere prematuri.

D. – Parlare di neonati pretermine porta inevitabilmente ad una riflessione sul valore della vita intrauterina, quindi ha delle ricadute anche sul dibattito relativo all’interruzione volontaria di gravidanza.

R. – Certo, prima di tutto perché la legge italiana dice che quando il feto può sopravvivere al di fuori dell’utero della mamma, la gravidanza non può essere interrotta volontariamente. Quando la legge 194 (sull’interruzione volontaria di gravidanza) fu fatta nel ’78 i bambini non sopravvivevano prima di 26 settimane adesso sopravvivono a 22, 23 settimane quindi il limite per fare l’interruzione di gravidanza deve essere necessariamente, in ottemperanza alla legge, anticipato. Detto questo con la nascita di un bambino prematuro che pure è un fatto faticoso per i genitori, ci rendiamo conto della bellezza della vita: questi bambini, che sarebbero rimasti ancora per alcuni mesi dentro la pancia della mamma, hanno una loro capacità di interagire, sentono il dolore – e quindi noi abbiamo l’obbligo grandissimo di non farglielo sentire – sentono i suoni, i rumori. Quello che prima noi potevamo soltanto immaginare che faceva un feto dentro la pancia della mamma, adesso lo vediamo. In realtà, la distinzione tra feto e bambino è una distinzione che ha realmente pochissimo senso: il feto è un bambino che ancora è dentro la pancia della mamma, il bambino è un feto che è uscito dalla pancia della mamma. Pensiamo soltanto al paradosso che ci sono dei feti arrivati alla fine della gravidanza che ancora dentro la pancia della mamma pesano 4 kg e ci sono bambini prematuri che pesano 4 etti. Quindi un bambino può arrivare a pesare 10 volte meno di un feto!

D. – Celebrare la Giornata internazionale del neonato pretermine vuol dire anche interrogarsi su questo?

R. – Certamente, non ci deve essere nessun criterio di differenza di trattamento tra un paziente di 50 anni e un bambino prematuro che pesa 5 etti.

Paolo Ondarza Notiziario Radio vaticana – 17 novembre 2015   http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

Gravidanza, bimbi sani. Ecco le novità sui test.

Garantire la salute e il benessere del feto durante la gravidanza è l’obiettivo di ogni futuro genitore. I recenti progressi delle tecniche prenatali hanno permesso di ampliare le opportunità diagnostiche, specie nei casi in cui esistono fattori di rischio come età materna avanzata, storia familiare di malattie genetiche o precedente figlio nato con malformazioni. In assenza di queste condizioni, le coppie devono essere bene informate su vantaggi e limiti delle varie tecniche per decidere come procedere in una scelta così importante.

Test di screening o esami invasivi? Un bel dilemma. Spesso si decide in base all’età materna. La malattia cromosomica più temuta è la sindrome di Down (trisomia 21) (quando un cromosoma in più si aggiunge alla coppia 21). Il rischio di trovare nel feto questa o altre anomalie cromosomiche è casuale ed aumenta con l’avanzare dell’età materna

“Per la prima volta al mondo bimbi sani da embrioni malati “a. Il servizio sanitario nazionale offre gratis, dopo i 35 anni, sia villocentesi che amniocentesi, esami con diagnosi certa ma con possibilità di aborto stimato tra 0,5 e 1 per cento. Prima si può fare il test combinato, che però dà solo una stima del rischio. Il suo principale limite sono i falsi positivi, che portano a dover fare esami invasivi di conferma.

Il test del Dna fetale estratto dal sangue materno è un test di screening più accurato e con rari falsi positivi. Il limite è l’alto costo, anche se sempre più coppie decidono di effettuarlo.

Test di screening ed esami invasivi non sono però in grado di diagnosticare malattie genetiche recessive, per fortuna rare, ma nemmeno malformazioni acquisite. Per la diagnosi di queste ultime l’ecografia morfologica a 20-22 settimane di gestazione, con tecnica 3D/4D, insieme alla flussimetria placentare e all’ecocardiografia fetale, rimane l’accertamento cardine. I moderni ecografi consentono di anticipare questo esame a 16 settimane.

La cosiddetta «premorfologica di secondo livello» permette di individuare circa il 70% delle malformazioni cardiache maggiori ed il 30-40% di quelle extracardiache. L’anticipo della diagnosi è fondamentale per eseguire ulteriori indagini e stabilire se l’anomalia riscontrata è riconducibile ad una patologia cromosomica.

In questi casi l’amniocentesi, se eseguita con cariotipo molecolare, oltre a fornire una risposta sicura, contribuisce a ridurre l’ansia dei genitori. Questa innovativa tecnica, che può essere abbinata anche alla villocentesi, permette di esaminare i cromosomi in maniera più approfondita e riesce a studiare la mappa cromosomica, oltre a cento patologie causate da alterazioni di piccole dimensioni, che, se pur rare, causano malattie che potrebbero essere diagnosticate in fase prenatale.

Il test del Dna fetale estratto dal sangue materno permette uno screening più accurato. La sensibilità per la sindrome di Down è superiore al 99 % e i falsi positivi sono molto rari. L’esame individua anche le patologie dei cromosomi sessuali, dei cromosomi 9 e 16 e sei delle principali microdelezioni. Determina il sesso, notizia gradita ai genitori ed anche utile nei casi di malattie genetiche legate al sesso, e il gruppo sanguigno del feto, se la mamma è Rh negativa, per decidere se effettuare o meno la profilassi anti-D a 28 settimane. Se negativo, il test va considerato rassicurante, se positivo si esegue l’amniocentesi, poiché il Dna anomalo potrebbe derivare dalla placenta e non dal feto. Dovrebbe essere preceduto da un’ecografia per la ricerca di marcatori come osso nasale o plica nucale. Se positivi, questi risultati inducono a effettuare altri esami più invasivi. La scoperta che il Dna fetale può essere estratto dal sangue materno, comporta anche un forte valore emotivo, perché riafferma il legame profondo della maternità e della procreazione stessa.

Villocentesi a 11-13 settimane o amniocentesi a 16 settimane di gestazione analizzano le cellule fetali dei villi coriali o del liquido amniotico prelevate dall’addome materno con tecnica eco-guidata. Possono essere esami di prima scelta o di secondo livello, se i precedenti test di screening lo consigliano. In entrambi i casi la mappa cromosomica può essere fatta con la tecnica tradizionale (risultato in 15 giorni) o con quella molecolare, che oltre ad evidenziare le anomalie cromosomiche più piccole, cioè microdelezioni e microduplicazioni, e molte malattie genetiche, ha il vantaggio di fornire una risposta sicura in soli tre giorni. Un tempo che permette di valutare con anticipo il piano terapeutico. Con le tecniche invasive è possibile anche eseguire lo screening di alcune malattie genetiche: fibrosi cistica, sindrome dell’X fragile, sordità congenita e distrofia muscolare di Duchenne. E’ possibile anche ricercare eventuali agenti infettivi e dosare, solo con l’amniocentesi, l’alfa-feto proteina per la diagnosi precoce della spina bifida.

Amniocentesi, villocentesi e flussimetria placentare tra gli esami consigliati dopo i 35 anni. Il test combinato è il test di screening più eseguito anche perché è offerto gratuitamente dal servizio sanitario alle donne che vogliono valutare se esiste uno specifico rischio, oltre la propria età, per poi decidere se andare avanti con esami invasivi o solo con le ecografie. Il Test si esegue a 11-13 settimane e calcola il rischio delle probabilità che il feto sia affetto dalle principali patologie cromosomiche sulle coppie 13, 18 e 21. Il calcolo viene elaborato combinando i valori di età della donna, due sostanze prodotte dalla placenta e presenti nel sangue (Free-Beta HCG e PAPP-A) e la misurazione ecografica dello spessore della nuca, più altri parametri ecografici quali il nucleo di ossificazione del naso.

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MEDIAZIONE FAMILIARE

La mediazione (familiare) assistita, nuova modalità di intervento per la soluzione dei conflitti familiari

I conflitti familiari hanno visto negli ultimissimi tempi una considerevole fioritura di strategie di intervento, che non sarebbe fuori luogo considerare anche eccessiva: alla tradizionale e radicata mediazione familiare, difatti, si sono aggiunti il diritto collaborativo, la negoziazione assistita e il rito partecipativo, fino alla più recente sperimentazione della coordinazione genitoriale (procedimenti per la cui descrizione si rimanda a trattazioni specifiche). Proporre una nuova tecnica, pertanto, può sembrare decisamente ultroneo. Tuttavia, gli inconvenienti presentati in pratica almeno finora dai suddetti approcci sono così seri ed evidenti che è sembrato opportuno cercarne una ottimizzazione mediante una tipologia di intervento che ne costituisca una sintesi degli aspetti migliori.

            Difatti, se il diritto collaborativo soffre della complessità dell’intervento, della numerosità degli attori (uguale costosità) e soprattutto della necessità che entrambi i difensori abbiano aderito a tale modello – circostanza che ne limita notevolmente il campo di applicabilità – la negoziazione assistita, che ne rappresenta la versione ufficializzata, oltre a perderne il più apprezzabile requisito, ovvero l’obbligo per i difensori di abbandonare la vertenza in caso di insuccesso, denuncia pesanti inadeguatezze giuridiche, a partire dall’avere ignorato totalmente l’ascolto del minore. Un passaggio che la legislazione vigente considera come un atto dovuto se non sussistono circostanze particolari, rimesse però all’apprezzamento del giudice; il che vuol dire che nella negoziazione assistita si può arrivare fino al termine del percorso, ovvero all’accordo, senza che in alcun momento al minore sia data la parola.

            Vero che la negoziazione assistita invoca anche il ricorso alla mediazione familiare in caso di fallimento, ma non può farsi a meno di notare quanto sia illogico e mal fondato questo riferimento. Vige, infatti, ai sensi della legge istitutiva (art. 6 comma 3, L. 162/2014) un obbligo per gli avvocati di segnalare la possibilità di servirsi della mediazione familiare: “Nell’accordo si dà atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate della possibilità di esperire la mediazione familiare”. Prescrizione quanto mai bizzarra ove si pensi che se le parti non si sono accordate non esiste alcun documento ove si attesti che l’informazione c’è stata e che se, viceversa, l’accordo è stato raggiunto la mediazione non serve più.  Comunque, volendone valutare almeno approssimativamente l’efficacia concreta, voci ufficiose indicano in poco più di un centinaio (e pressoché tutte in materia familiare), le negoziazioni assistite comunicate sino al maggio 2015 all’Ordine di Roma, il più popoloso d’Italia, ex art. 11 l. n. 162/ 2014. Per meglio comprendere il dato occorre rammentare che presso il Tribunale ordinario di Roma si celebrano circa 10.000 separazioni all’anno.

            Quanto al rito partecipativo sono certamente assai brillanti i risultanti conseguiti, che per il 2013 hanno visto l’80% circa di successi completi e in aggiunta un 10% circa di vertenze finite giudizialmente per la parte economica. Resta il fatto che il procedimento non esce dall’ambito del tribunale e si svolge sotto la guida e con i suggerimenti di un terzo che è anche Giudice Onorario Togato di quella corte; il che non garantisce una spontanea effettiva adesione alle modalità concordate.

            Saggiamente, quindi, la modulistica in uso nel Tribunale di Milano non omette di rammentare preliminarmente alle parti la possibilità di utilizzare la mediazione familiare (“Rimette al giudice delegato di suggerire ai genitori una possibile soluzione condivisa del conflitto, verificando anche la disponibilità delle parti a sperimentare un percorso di mediazione familiare”). Altra circostanza sfavorevole, tuttavia, è che al momento i soli tribunali di Milano e di Cremona praticano il rito partecipativo; né può pensarsi ad una sua rapida e illimitata esportazione, se non altro per motivi di natura organizzativa.

            Quanto alla coordinazione genitoriale, si tratta di un nuovo tipo di intervento extragiudiziale in cui un terzo si mette a disposizione delle parti per aiutarle a mettere in pratica un proprio programma di genitorialità, avendone ricevuto incarico dal giudice o essendo stato chiamato dalle parti stesse, di fronte a gravi difficoltà incontrate, a causa di una esasperata conflittualità, nel gestire le regole stabilite. E’ una strategia già affermata negli Stati Uniti, della quale si sta iniziando la sperimentazione anche in Italia. Premesso che si trova ancora ad uno stadio preliminare, è comunque destinata ad essere utilizzata solo in circostanze e fasi particolari della rottura del legame di coppia.

            Prendendo in considerazione, infine, la mediazione familiare, evitando di rammentare i suoi numerosi vantaggi, è tuttavia comune esperienza di chi la pratica l’esistenza di una sproporzione tra lo sforzo fatto dal mediatore e dalle parti – ivi compresa la lunghezza del percorso e lo stress di ciascun incontro, che spesso lascia la sensazione del girare a vuoto – e la percentuale dei successi. Approfondendo l’analisi, si può convenire che quello che è il maggior pregio della mediazione – ovvero che il potere decisionale è rimesso direttamente alle parti, o meglio, a ciascuna delle parti individualmente considerata – non di rado ne costituisce il limite, sul piano operativo. Non di rado, difatti, accordi faticosamente costruiti e anche assolutamente interiorizzati e fatti propri dai mediati saltano al momento della rilettura da parte di uno dei legali, assente dal tavolo della mediazione.

            Ancora più spesso neppure si accede al percorso perché quanto meno una delle parti non si sente sufficientemente “protetta” in una sede in cui manca il difensore. Senza contare quanto spesso il necessario e doveroso lavoro di informazione viene scambiato per pregiudizio. Si pensi, tipicamente, all’antico confronto fra i due fondamentali modelli mono- e bigenitoriale. Si consideri quanto spesso una madre è convinta in perfetta buona fede che una frequentazione sbilanciata, ovvero con la propria netta prevalenza, sia l’assetto che meglio realizza l’interesse del figlio, soprattutto se piccolo (anche se relativamente tale). In tale situazione, se il mediatore, allo scopo di documentare oggettivamente i risultati della ricerca scientifica, le metterà a disposizione una documentazione che attesta conclusioni diverse verrà immediatamente considerato “ostile” e la mediazione si avvierà al fallimento. E più fondata, abbondante e convincente sarà la documentazione più aumenterà la probabilità che il tavolo della mediazione venga abbandonato [occorre infatti tenere ben presente che il mediatore – così come, a maggior ragione, il giudice – benché privo di poteri decisori, viene sempre considerato da entrambe le parti come “terreno di conquista” e la sua terzietà viene sempre sogguardata con il costante sospetto che in realtà sia schierato con l’altro].

            Stando così le cose, ferma restando la validità intrinseca della mediazione familiare e l’interesse sociale a promuoverla (ad esempio mediante un passaggio preliminare informativo obbligatorio presso un centro accreditato, quale condizione di procedibilità per potersi separare), è apparso opportuno elaborare una nuova modalità di intervento che raccolga il meglio delle esperienze mediative già note integrandolo con quegli elementi correttivi che possano assicurargli una maggiore efficacia.

            Nasce così la mediazione (familiare) assistita, o semplicemente mediazione assistita, pensata e sperimentata all’interno dell’associazione Crescere Insieme, la cui attività istituzionale è di offrire sussidio alle famiglie in crisi. Essa si caratterizza per un approccio maggiormente e più direttamente giuridico, considerando il ripristino del dialogo e della comunicazione non come un obiettivo primario o una indispensabile premessa, ma come un punto di arrivo, il cui raggiungimento è sensibilmente facilitato dalla constatazione di essere riusciti, insieme, a costruire un nuovo soddisfacente assetto familiare. In altre parole, si è ritenuto che gioverebbe assai poco avere ottenuto che un padre e una madre tornino a parlarsi se dovesse permanere in uno dei due o in entrambi la convinzione di essersi dovuti piegare a regole ingiuste. In tal caso, in pratica, non si farebbe che aumentare le occasioni di liti e di insulti. Le ragioni del disaccordo – sbollita la rabbia del primo momento – sono quasi sempre di natura sostanziale: ti detesto perché ti sei preso la casa che aveva acquistato la mia famiglia con immensi sacrifici; perché trovi sempre una scusa per non farmi stare con il bambino; perché ti devo dare quasi tutto quello che guadagno senza avere alcuna idea di dove vada a finire il mio denaro… e così via.  Prima, quindi, occorrerà individuare modalità ragionevoli per la nuova organizzazione di vita che entrambe le parti possano considerare sostanzialmente eque e comunque che limitino i danni quanto più è possibile: dopo di che la tregua familiare sopraggiungerà come una acquisizione aggiuntiva, per vie naturali.

            E’ su questo che si deve principalmente lavorare; e a tale scopo la presenza dei legali è essenziale. Legali che passo dopo passo garantiscano la correttezza delle soluzioni e la inesistenza, o non praticabilità, di alternative migliori. Operando in queste condizioni si raggiunge anche il non trascurabile vantaggio di ridurre drasticamente la durata dell’intero procedimento. Anzitutto l’assistito non ha più la necessità di aggiungere al percorso di mediazione incontri separati con il proprio legale per fargli valutare le decisioni, anche parziali, concordate. In secondo luogo non esiste il pericolo di tornare sulle stesse questioni perché il legale suggerisce modifiche. In terzo luogo il giorno in cui finisce il percorso è anche il giorno in cui l’accordo può essere proposto nelle sedi ufficiali per l’omologazione, perché anche sotto il profilo formale è già nella stesura definitiva. Ultimo aspetto che contribuisce ad accorciare i tempi, forse il più importante, è che la mediazione assistita parte direttamente dall’analisi dei bisogni attuali, dagli obiettivi delle parti – per quanto ovviamente conseguenza del vissuto – intervenendo sulla relazione solo per via indiretta: ovvero, siccome sono contento dei risultati che sono stati raggiunti sono anche meglio disposto verso di te e più propenso a mettere una pietra sopra il passato.

            La modalità descritta potrà forse far pensare ad una banale variante del diritto collaborativo, per effetto di alcune esteriori somiglianze, come l’utilizzazione di un gruppo di lavoro più ampio e composito, allargato agli avvocati. Esistono, viceversa, tra i due approcci differenze radicali, delle quali la più rilevante è che nel diritto collaborativo il gioco è condotto dai difensori delle parti mentre il mediatore, che nella mediazione assistita ha un ruolo centrale, può addirittura non essere presente. Così come, a dispetto dell’attributo “assistita” comune ad entrambe le denominazioni, sono altrettanto profonde le differenze rispetto alla negoziazione. Non a caso lo stesso verbo assistere è usato in un senso del tutto diverso, essendo i legali nel primo caso coloro che fiancheggiano sistematicamente le parti e le rappresentano, mentre nella mediazione coloro che semplicemente sono a disposizione in posizione di garanti e offrono un supporto solo potenziale.

            Giova, infine, osservare, quanto sia a volte un peccato che il mediatore non abbia poteri decisionali; ad esempio quando la soluzione è stata trovata, ma è solo un infondato timore a bloccare la ratifica degli accordi. Si perde, in sostanza, ciò che principalmente contribuisce ai successi della mediazione delegata dal giudice, ovvero del rito partecipativo. E’ questo nient’altro che il prezzo giustamente da pagare alla “libertà” delle parti, indipendenti dal sistema legale, che sotto altri aspetti tanto giova alla mediazione familiare tradizionale. Fortunatamente con la mediazione assistita questo rammarico si attenua: la presenza costante dei legali, che lavorano in associazione, coordinati dal mediatore, dando affidabilità e peso alle conclusioni raggiunte di volta in volta – pur restando sempre possibile alle parti, in linea di principio, cambiare idea – finisce per dare ad esse anche una sorta di valenza decisionale.

            Naturalmente dalla diversa struttura dell’intervento discendono anche modalità di approccio e conduzione del processo sostanzialmente diverse, nonché della preparazione, o formazione, degli operatori. E’ evidente che la padronanza degli aspetti giuridici da parte del mediatore è fondamentale. Egli dovrà necessariamente “saperne di più” in materia di diritto di famiglia dei legali presenti; o almeno altrettanto. Quindi in linea di principio l’estrazione giuridica può rappresentare per l’aspirante mediatore un requisito preferenziale, tuttavia meno importante di quanto lo siano qualità individuali come la sensibilità e la creatività nell’escogitare soluzioni. Dunque senza preclusioni a priori. Giova rammentare, a tale proposito, che si tratta di acquisire una tecnica, aggiungendo ulteriori competenze alle proprie, non di cambiare professione. Ciò vuol dire che per formarsi alla mediazione assistita non è necessario frequentare un corso di formazione di centinaia di ore, ma è sufficiente una esperienza seminariale.

            Allo stesso modo per ciascuna delle parti si porrà in modo diverso – se il metodo, come auspicabile, prenderà piede – la scelta del difensore. Sarà preferibile avere accanto in quella sede uno specialista del diritto di famiglia, attento anche ai continui aggiornamenti della materia; uno studioso, in sostanza, svincolato da visioni tradizionali e statiche.

Concludendo, dall’osservazione degli effetti della sopra descritta varietà di interventi, con i loro pregi e i loro limiti, si sono potute dedurre alcune conclusioni operative, che hanno condotto a definire un nuovo modello che, se applicato nelle appropriate circostanze, può dare esiti fruttuosi, come ha mostrato la sperimentazione effettuata in ambito nazionale italiano negli ultimi due anni.

Marino Maglietta      Altalex, 23 novembre 2015.

www.altalex.com/documents/news/2015/11/17/mediazione-familiare-assistita

Mediazione si applica anche alle controversie familiari se il diritto è disponibile.

Tribunale Milano, nona Sezione civile, ordinanza 14 ottobre 2015

L’istituto della mediazione civile, previsto dall’art. 5 D. Lgs. 28 del 2010, è applicabile anche alla controversia instaurata dalla ex moglie per l’accertamento del diritto, ex art. 12-bis L. 898 del 1970, a una quota – pari al 40% – del trattamento di fine rapporto lavorativo liquidato all’ex marito.

Così ha deciso il Tribunale di Milano in una recente ordinanza, conforme ad altre pronunce del medesimo organo in materia (v. Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 ottobre 2013 e Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 15 luglio 2015).

L’istituto della mediazione civile è stato ritenuto, infatti, applicabile anche alle controversie familiari, là dove il diritto non sia indisponibile: nella fattispecie, la domanda della ricorrente aveva ad oggetto un credito e, in particolare, una somma di denaro, ovvero un diritto disponibile. Inoltre, l’opportunità della mediazione emerge proprio “quando le parti in causa sono state legate da una pregressa relazione sentimentale, confluita in matrimonio”, essendo probabile che “la lite possa tradursi nel ri-accendersi di una conflittualità non del tutto sopita”. Il giudice ha poi precisato che in questo caso la mediazione è disposta “ex officio”: la Legge 9 agosto 2013, n. 98, in riforma del D. Lgs. 28/2010, ha infatti previsto la possibilità per il giudice (anche di appello) di disporre l’esperimento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale. “Il fascio applicativo della previsione in esame”, ha infine sottolineato il giudice de quo, “prescinde dalla natura della controversia (e, cioè, dall’elenco delle materie sottoposte alla cd. Mediazione obbligatoria: art. 5 comma I-bis, D. Lgs. 28/2010,) e, per l’effetto, può ricadere anche su una controversia quale quella in esame, avente ad oggetto il recupero di un credito rimasto insoddisfatto”.

Giuseppina Mattiello             Altalex                        19 novembre 2015.

www.altalex.com/documents/news/2015/10/28/mediazione-giudice

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PATERNITÀ

Che succede se rifiuti il test del DNA.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 23296, 13 novembre 2015.

Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi al test del DNA può comportare la dichiarazione della paternità. Nel giudizio di dichiarazione della paternità, il rifiuto da parte dell’uomo, senza un giustificato motivo, di sottoporsi al test del DNA è un comportamento che può essere valutato dal giudice come una “tacita ammissione di responsabilità” e, quindi, un indizio da poter, anche da solo, portare al riconoscimento della paternità. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza.

            Nella vicenda di specie, un uomo, citato in una causa per una dichiarazione giudiziale di paternità, non si presentava per ben due volte alle convocazioni del consulente tecnico d’ufficio (CTU), così sottraendosi all’esame del DNA disposto dal Giudice. Pertanto, i giudici, sia in primo che in secondo grado, dichiaravano la paternità giudiziale del convenuto ponendo alla base della predetta decisione il rifiuto a sottoporsi alle indagini del perito e la mancata contestazione di una relazione sessuale con l’attrice.

            Da diversi anni, ormai, la Cassazione ha chiarito che, nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento liberamente valutabile da parte del giudice [ex art. 116, comma 2, cod. civ.] avente un tale valore “indiziario” da poter, anche da solo, consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda.

            Per evitare la dichiarazione di paternità, l’uomo dovrebbe innanzitutto dare valide ragioni del rifiuto al test del DNA; in secondo luogo dovrebbe fornire una contestazione specifica circa l’esistenza di un rapporto sessuale con la donna attrice in giudizio. Nel caso di specie, invece, la contestazione era stata talmente generica da far apparire il rifiuto del presunto padre di sottoporsi alle indagini come una sorta di autodenuncia. Del resto non vi è dubbio che l’attendibilità del test del DNA può costituire l’elemento decisivo per negare una relazione con la madre.

Redazione       Lpt                  16 novembre 2015

            Sentenza www.laleggepertutti.it/104549_paternita-che-succede-se-rifiuti-il-test-del-dna

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