UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
NewsUcipem n. 549 –7 giugno 2015
Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali
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Per i numeri precedenti
dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526 richiedere a newsucipem@gmail.com
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ADOZIONI Ecco perché crollano le adozioni in Italia.
Cambiare le adozioni, dal basso.
ADOZIONI INTERNAZIONALI Bolivia. Un passo in avanti verso la riapertura delle adozioni.
AFFIDO FAMILIARE Friuli Venezia Giulia. I bambini ritrovano la serenità nell’affido.
CHIESA CATTOLICA Indissolubile, in che senso?
La “natura” e il matrimonio.
CHIESA EVANGELICA L’omosessualità è contraria alla Bibbia?
CONCEPITO Quali diritti può avere chi non è stato ancora concepito?
COPPIE Solide eppure vulnerabili così la legge ignora la metamorfosi.
CORTE COSTITUZIONALE Illegittimità costituzionale parziale della L. 40\2004.
Mirabelli: «adesso intervenga il Parlamento».
Roccella: passo rischioso verso l’eugenetica.
DALLA NAVATA SS. Corpo ed Sangue di Cristo – anno B –7 giugno 2015.
FECONDAZIONE ARTIFICIALE Fecondazione eterologa: illegittimo il diniego a donna di 43 anni.
FORUM Associazioni Familiari Le famiglie ai parlamentari: fissiamo i limiti invalicabili.
Lettera aperta agli onorevoli deputati e senatori
FRANCESCO VESCOVO di Roma Famiglie rendono umano il mondo, siano difese da miseria.
GENDER Il “genere” è una teoria?
MEDIAZIONE FAMILIARE Le basi della mediazione familiare nella nostra Costituzione.
SINODO SULLA FAMIGLIA Il Sinodo in libreria.
Novità: “Ogni amore vero è indissolubile” di J.-P. Vesco
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ADOZIONI
Ecco perché crollano le adozioni in Italia.
Negli ultimi 10 anni le domande di adozione internazionale sono dimezzate e continuano a calare mediamente di 500 ogni anno. Della crisi dell’adozione internazionale e delle sue cause ha parlato il presidente di Amici dei Bambini, Marco Griffini, in questa intervista, che riportiamo integralmente, rilasciata alla giornalista Chiara Rizzo di “Tempi”.
«Dal 2004 ad oggi, le domande di disponibilità da parte di coppie italiane all’adozione internazionale sono passate dalle 8.274 del 2004 alle 4.015 presentate in 25 tribunali italiani su 27 nel 2014»: a rendere pubblici questi dati è stato Marco Griffini, presidente di Ai.Bi., l’Associazione Amici dei Bambini che è Ente accreditato di punta per l’accoglienza internazionale. Incrociando i dati forniti dal ministero della Giustizia e dai singoli Tribunali dei minori, si scopre che lo scorso anno a Milano si è passati da 604 domande del 2013 a566, a Venezia da 362 a291, a Firenze da 331 a 264 del 2014, a Genova da 143 a 136 e a Torino (che raccoglie le domande anche dalla Valle d’Aosta) da 401 a 310. Ci sono stati però anche Tribunali che hanno mantenuto stabili le domande, come Roma, a 527 domande. In controtendenza è solo Palermo, dove si è passati da 120 a 138.
Griffini, perché c’è stato questo calo delle domande?
Più che di calo, per noi si tratta di un crollo, dato che rispetto al 2004 si è piombati alla metà delle domande. Si perdono in un anno in totale 500 disponibilità, ed è un fatto che ci lascia attoniti. Né Regioni, né Tribunali o Governo sembrano preoccuparsi. Siamo di fronte ad un dramma, soprattutto per le adozioni internazionali. Tra le cause c’è un crollo di fiducia. Le coppie non credono più al percorso delle adozioni internazionali, perché è pieno di sofferenze. Abbiamo appena avuto modo di ascoltare alcune testimonianze dirette da coppie in tutt’Italia, nell’ultimo open day di Ai.Bi. presso le nostre sedi locali, che si è tenuto il 23 e 24 maggio 2015.
Ci racconta l’episodio più rappresentativo di queste testimonianze?
Varie coppie ci hanno detto che, pur dopo aver vissuto positivamente il percorso con i servizi sociali previsto dalla legge per ottenere l’adozione, si sono trovati davanti a Tribunali dei minori che rimanevano del tutto indifferenti alle relazioni positive dei servizi. In particolare c’è stato un caso in cui il giudice del Tribunale dei minori, alla coppia che con un’eccellente relazione era stata definita idonea dagli assistenti sociali, ha risposto: «Io nemmeno le guardo le relazioni dei servizi, perché non voglio essere influenzato».
Ma non è la legge a prevedere che il giudice tenga conto invece delle relazioni dei servizi sociali per emettere il decreto di idoneità?
Sì, ma sappiamo che in magistratura ciascuno può fare come vuole. Ci sono tribunali in cui sono previsti 15 incontri con i servizi prima dell’emissione del decreto, e poi le relazioni vengono lasciate sulla scrivania dei giudici per lunghissimi periodi. Il problema vero è questo, cioè che la coppia che vuole adottare non è vista come una grande risorsa della società, ma come fonte di problemi, e anche il minore viene visto come fonte di difficoltà. Venerdì il Garante dell’Infanzia Vincenzo Spadafora, intervenendo alla Camera nel corso di un incontro sul tema #Infanziastaiserena, ha detto che sono aumentati i fallimenti delle adozioni. Noi ci aspettavamo che dicesse qualcosa del genere a fronte di dati, invece il Garante ha aggiunto subito: «Non c’è un monitoraggio chiaro, né sappiamo quanti ragazzi nelle comunità siano reduci da adozioni non andate a buon fine». Quindi perché creare questo clima di sfiducia? Secondo noi è sbagliato dare informazioni allarmanti sulle adozioni, senza avere dei dati reali in mano.
La crisi economica e le spese necessarie alle adozioni internazionali quanto incidono?
La maggior parte delle adozioni internazionali avviene ancora con la Russia, cioè uno dei paesi più cari al mondo dal punto di vista delle adozioni. Un percorso legale costa sui 16 mila euro, escluse poi le spese per i viaggi: è anche vero che in quel paese ci sono poi vari enti che chiedono ulteriori soldi in nero. La crisi economica dunque influisce sino ad un certo punto nella flessione delle domande. Ci sono molte banche che fanno finanziamenti a tasso zero. Inoltre siamo in un momento storico in cui semmai si sta andando verso l’uscita dalla crisi.
E per quanto riguarda invece le adozioni nazionali? Cosa avviene in quel caso, le domande sono cresciute?
No, anche in quel caso le domande sono diminuite. Nel 2013, ultimi dati resi disponibili, le domande sono state 8.708, contro le 16.538 del 2006 e le 11 mila del 2011. Va aggiunto che, sempre secondo i dati del ministero della Giustizia, contro queste nuove 8 mila domande, gli affidamenti pre-adottivi portati a termine in un anno sono stati solo mille, e 916 le sentenze di adozione (più altre 565 le sentenze di adozione in casi straordinari). Ciò indica che solo una minima parte delle domande trova risposta, e la maggioranza delle coppie resta in una sorta di limbo, sinché non viene chiamata dal giudice. Per quanto riguarda i dati delle adozioni internazionali effettuate, nel 2013 sono state 2.269, e 86 gli affidi pre-adottivi di minori stranieri. Anche in questo caso si nota una forte discrepanza tra le migliaia di domande e i percorsi giunti effettivamente a termine.
Il caso dei bambini del Congo ha scoraggiato le nuove domande di adozioni internazionali?
Neanche tanto. In fondo è sempre accaduto che un paese chiudesse le adozioni, ma intanto si aprivano nuovi canali con un altro. Ciò che è cambiato è che a differenza del passato la Commissione per le adozioni internazionali è molto lenta, se non paralizzata nell’aprire nuovi canali. Ci sono moltissimi paesi in cui aprire percorsi adottivi: Ecuador, Salvador, Messico. Invece da tre anni non sono stati accreditati nuovi paesi. Anche questo è un elemento che scoraggia le famiglie, contribuendo alla crisi delle adozioni internazionali. Se il governo sostenesse di più le famiglie sicuramente ciò cambierebbe.
A livello economico il governo sostiene in qualche modo chi vuole fare un’adozione internazionale?
C’era un fondo fino al 2011, per finanziare la metà delle spese che le coppie devono sostenere. Ma da allora il fondo non è stato più rifinanziato, e di conseguenza da quattro anni le famiglie non sono state più aiutate.
Ai. Bi. 03 giugno 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
Cambiare le adozioni, dal basso
Nel primo trimestre del 2015 le adozioni sono dimezzate. Tra i soggetti coinvolti però c’è grande voglia di collaborare per trovare nuove soluzioni: per la prima volta enti autorizzati, servizi territoriali e associazioni familiari hanno lanciato un tavolo di lavoro comune. Riportiamo la versione integrale dell’articolo pubblicato su Vita.it a firma di Sara De Carli.
Dati ufficiali non ce ne sono, perché la Commissione Adozioni Internazionali ancora non ha pubblicato il Rapporto Statistico relativo al 2014. E leggere le adozioni internazionali solo attraverso i numeri è sbagliato, siamo tutti d’accordo. Eppure i dati che circolano destano preoccupazione. A mettere in fila qualche numero è stato Pietro Ardizzi, portavoce del coordinamento Oltre l’adozione, durante il Family Lab organizzato di recente a Roma dal Coordinamento CARE. Ardizzi ha parlato di un meno 25% di adozioni concluse nel 2014 rispetto al 2103 e ha stimato un ulteriore -50% nel primo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014. «C’è un calo a livello internazionale, c’è un contesto mutato, per il 2015 stiamo parlando solo di un trimestre, si tratta di stime e tuttavia qualche domanda è legittimo porsela. Forse il sistema non è più adeguato alla realtà e ai bisogni dei bambini abbandonati».
Non si tratta di dipingere un futuro apocalittico per le adozioni internazionali né di lamentarsi della situazione contingente: «Tutti i soggetti coinvolti registrano una sofferenza, ma la volontà di tutti è quella di fare qualcosa insieme per migliorare la situazione», spiega Ardizzi. Il Family Lab va in questa direzione: su iniziativa del Coordinamento CARE, per la prima volta enti autorizzati, associazioni familiari e servizi territoriali si sono incontrati e hanno discusso faccia a faccia di temi rilevanti e trasversali relativi alle adozioni internazionali. «È stata una libera iniziativa dei soggetti coinvolti, nata dal basso, Enti, Associazioni e Servizi non si sono mai incontrate in questa forma, è un fatto positivo, da valorizzare», conclude Ardizzi.
«È stato un evento a suo modo storico», ammette con soddisfazione Monya Ferriti, presidente del Coordinamento CARE. «L’obiettivo della giornata era il confronto fra interlocutori che partecipano allo stesso progetto ma ancora mai si sono trovati a confrontarsi sul percorso adottivo. Le parole chiave della giornata sono state trasparenza e contaminazione. Abbiamo lavorato su focus group, con una prospettiva molto concreta: non siamo proiettati verso un documento politico ma verso la volontà di portare proposte concrete, condivise fra tutti i soggetti che pure sono portatori di esigenze diverse», spiega. Ci lavorerà il tavolo congiunto “Nelle nostre mani”, che si è dato un nuovo appuntamento per l’autunno.
Un esempio per tutti? «Il costo unico delle relazioni post adottive, ci piacerebbe venisse fatta con un’unica modalità e un costo uguale per tutti».
Ai. Bi. 01giugno 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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ADOZIONI INTERNAZIONALI
Bolivia. Un passo in avanti verso la riapertura delle adozioni internazionali.
Dalla Bolivia una notizia attesa da molti: è stato emanato il regolamento attuativo del Codice della Bambina, del Bambino e dell’Adolescente risalente al 2014. La pubblicazione del Regolamento rappresenta un passo in avanti verso la riapertura delle adozioni internazionali in Bolivia. Sono oltre 10mila i bambini abbandonati che vivono nel Paese sudamericano.
In questi ultimi anni, anche grazie agli incentivi che equiparano in fatto di diritto del lavoro le tutele per le madri e i padri adottivi a quelli dei genitori biologici, l’adozione nazionale è sempre più frequente. Tuttavia troppi bambini in Bolivia diventano adulti senza conoscere l’affetto di una famiglia. Per questo l’adozione internazionale rappresenta ancora per migliaia di bambini l’unica speranza di una vita meno dolorosa.
Riguardo alla permanenza delle coppie adottive nel Paese straniero, il Regolamento purtroppo non disciplina in maniera diversa i tempi massimi previsti dal Codice. Comprendendo il periodo dell’affido preadottivo e la durata delle altre fasi dell’iter adottivo, gli aspiranti genitori adottivi potrebbero dover rimanere nel Paese sudamericano anche per un periodo superiore ai 4 mesi.
Diversamente dal vecchio Codice che fissava in 30 giorni il tempo massimo in cui il giudice doveva emettere la sentenza, con il nuovo Codice il magistrato ha tempo fino a quattro mesi. In ogni modo il giudice ha la facoltà discrezionale di ridurre i tempi, dettando comunque la sentenza in due mesi.
Ai. Bi. 03 giugno 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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AFFIDO FAMILIARE
Friuli Venezia Giulia. I bambini ritrovano la serenità nell’affido familiare.
Nei confronti dei minori in situazione di disagio e delle loro famiglie la Regione Friuli Venezia Giulia interviene con un articolato sistema di servizi che garantiscono la presa in carico delle situazioni difficili dal punto di vista sociale ed economico, nonché di quelle di rischio e di pregiudizio nei confronti dei minori.
Per le situazioni più compromesse, che richiedono l’allontanamento del minore dalla sua famiglia, sono attivi l’affido familiare, nella forma tradizionale e in quella leggera, e l’accoglienza in comunità, con disponibilità di strutture in regione e fuori regione.
Come si legge nelle linee guida per l’affido allegate a una delibera di marzo 2015, nel corso dell’ultimo triennio, l’affido ha riguardato un numero crescente di minori – soprattutto adolescenti di nazionalità italiana, che dai 393 del 2011 sale ai 411 del 2012, ai 436 del 2013.
Si tratta di minori affidati in prevalenza nella modalità tradizionale di affido, ai quali però si deve aggiungere un numero significativo di minori affidati con la modalità dell’affido leggero, una forma di accoglienza che si sta diffondendo gradualmente sul territorio.
I minori stranieri rappresentano una quota contenuta, che però mostra una leggera crescita nell’ultimo triennio, passando da 41 minori nel 2011 a 50 nel 2013. I preadolescenti (11-13 anni) e i bambini di 6-10 anni rappresentano il 22% del totale.
L’affido eterofamiliare coinvolge un numero di minori leggermente superiore a quelli coinvolti dall’affido di tipo parentale.
In entrambe le tipologie, invece, la modalità giudiziale prevale su quella consensuale ed è in progressivo aumento, infatti, nel 2011 gli affidi giudiziali rappresentavano il 71% del totale e nel 2013 sono saliti al 75%.
Contrariamente allo spirito della normativa, infine, la maggior parte degli affidi ha una durata piuttosto lunga: in circa il 30% dei casi, infatti, superano i quattro anni, il doppio di quelli consigliati.
Fonte: ilfriuli.it
Ai. Bi. 01 giugno 2015 www.aibi.it/ita/category/archivio-news
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CHIESA CATTOLICA
Indissolubile, in che senso?
Anche la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale è entrata nel cuore del dibattito intersinodale, organizzando un (affollato) seminario pomeridiano l’11 maggio scorso 2015 dal titolo «Indissolubile: in che senso?». (allegati gli schemi)
www.teologiamilano.it/pls/teologiamilano/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=1166&rifi=guest&rifp=guest
Attorno allo schema classico di una relazione principale (Giuseppe. Angelini, «La misericordia e lo scandalo nella “riconciliazione dei divorziati”» e di relazioni di discussione su aspetti specifici (Matteo Crimella, «Questioni esegetiche intorno a Mt 19»; Maurizio Chiodi, «Un punto di vista della teologia morale»; Sergio Ubbiali, «Un punto di vista della sacramentaria»; introduzione e conclusioni di Pierangelo Sequeri, preside), il dibattito attorno alla questione dell’indissolubilità e alla riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati ha cercato di andare alla radice teologica senza precipitare anzitempo nella ricerca di soluzioni pastorali.
Riprendendo una tesi esposta in un volume curato da Tullo Goffi (Per una pastorale dei divorziati risposati, Gribaudi, Torino 1974), Angelini ha sottolineato il limite – oggi evidente più che mai – di una concezione «fisica» dell’indissolubilità che «propizia la concezione oggettivistica della norma che ignora il concorso del consenso libero, e dunque della fede, alla sua conoscenza (o coscienza)».
Tale concezione «considera il matrimonio cristiano indissolubile perché il vincolo sussisterebbe per volontà di Dio a prescindere dalla qualità dell’agire e dei comportamenti degli sposi». A parere di Angelini è bene riferirsi a una concezione dell’indissolubilità – da lui chiamata «morale» – che ripensi da un lato la coscienza e il suo processo di formazione e dall’altro l’antropologia fondamentale «per comprendere i dati sistemici della crisi della coscienza morale nel nostro tempo».
Le ipotesi sinora messe in campo sia dal card. Walter Kasper sia da Basilio Petrà – ha detto Angelini – sottintendono – pur proponendo una «correzione della severa disciplina fino a oggi prevista» – una concezione «ontica» delle nozze troppo influenzata dal modello giuridico.
Dopo il dibattito tra le relazioni e le numerose domande del pubblico, Sequeri ha raccolto in quattro punti i temi del pomeriggio e le sfide principali che (su questo tema) saranno sul tavolo del Sinodo di ottobre.
- Sulla potenza del vincolo «morale». «Occorre restituire peso morale alla parola data, alla promessa, dargli un rilievo maggiore rispetto al diritto e alle contingenze della vita». Dare spazio al vincolo della coscienza e dei comportamenti non significa alleggerire l’indissolubilità matrimoniale ma renderla più resistente, facendo appello a qualche cosa di più forte della regola, delle «carte bollate». Argomentazione che, paradossalmente, è più facilmente comprensibile e udibile innanzitutto dai giovani. Prendere le distanze dalla norma assoluta – che altrimenti oggi è irricevibile – significa dargli un contenuto più forte e più certo, contenuto che le carte bollate non possono né creare né distruggere ma che deve scriversi nel cuore di ciascuno degli sposi lungo la storia che il sacramento assume.
- Non è mai come se non fosse successo niente. In tutti i sacramenti il fallimento fa parte della storia né si può fingere che un tratto di vita non sia stato percorso. Questo – ha detto Sequeri – vale anche per il diritto: «Se si scopre un difetto che rende riconoscibile la nullità formale del matrimonio ed esso è durato 10-15 anni non siamo autorizzati a dire: “È come se non fosse successo niente”»; fa parte della storia. Una vita in comune «che eventualmente ha messo al mondo anche delle responsabilità (…) è certamente qualcosa di rilevante, non semplicemente uno scarto o un rifiuto». Ogni sacramento ha una sua storia e ci chiede di «prenderla sul serio» anche nei suoi fallimenti che sono da fronteggiare e non da ignorare; così come ci richiama a un principio che sta oltre.
- Il ruolo della teologia. Essa deve essere più «amichevole nel linguaggio», invece che arroccarsi in formule belle, ma non comprensibili neppure dal diritto canonico. La teologia, infatti, è in grado di «esplicitare il fatto che nel matrimonio sacramentale avviene un nesso intrinseco fra l’affidarsi dei due sposi e l’affidarsi a Dio. Senza il primo affidarsi, il legame non avrebbe storia». Tuttavia la coppia può intuire che senza affidarsi a qualcosa fuori da sé questa scommessa è troppo fragile. Così «i due rapporti d’affidamento devono essere fatti lievitare insieme», non «dalla rigidità della norma» ma da un sostegno da parte della Chiesa intera.
- Una Chiesa all’altezza. Per quanto riguarda l’aspetto teologico-pastorale – ha detto infine Sequeri riferendosi implicitamente al dibattito intersinodale – non «possiamo immaginarci un casuismo buono. Abbiamo denunciato il “casuismo cattivo”, cioè la pretesa di regolamentare e seguire caso per caso, atteggiamento che poi porta a non avere più una parola generale da dire perché inevitabilmente vite e storie diverse si agitano e non si riesce a prevedere tutto. Ma dobbiamo denunciare anche un casuismo buono». Quello che immagina di seguire passo passo ogni coppia, ogni giovane, ogni storia per «risolvere tutti i problemi, scongiurare tutti i guai» tramite un’organizzazione di «pastorali sistematiche», atteggiamento definito «impraticabile e ingenuo». «Se la Chiesa o la comunità cristiana è all’altezza del cristianesimo che le è chiesto oggi, essa, per il solo fatto d’esserlo, diventa punto di riferimento, luogo ospitale al quale ricorrere direttamente o indirettamente per chiedere che i propri affidamenti vengano sostenuti dall’Alto». Se non lo è, è difficile che lo diventi grazie ad alchimie pastorali.
Maria Elisabetta Gandolfi 4 giugno 2015
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La “natura” e il matrimonio.
Su L’Osservatore Romano del 10 maggio 2015, a p. 5, in una recensione di Lucetta Scaraffia a un libro-intervista pubblicato di recente, troviamo riportata questa interessante dichiarazione del filosofo Remi Brague: “Per sempre non è una formula enfatica dovuta all’esaltazione di un momento, ma risponde alla struttura stessa dell’amore (…) in un certo senso il cristianesimo non aggiunge nulla all’umano, ma lo prende sul serio, nelle sue dimensioni più profonde. Anche nel campo dei rapporti matrimoniali, quindi, la tentazione è sempre una mancanza di ambizione: essa consiste nel credersi incapaci di ricevere da Dio l’aiuto (la grazia) che ci permetterebbe di realizzare la pienezza della nostra umanità”.
Vorrei soffermarmi su queste affermazioni, mettendo in luce una serie di questioni importanti per questo nostro itinerario intersinodale.
“Per sempre”. Recuperare una lettura adeguata del “per sempre” è, in fondo, uno dei compiti fondamentali che il Sinodo si è ripromesso, sia nei confronti delle famiglie felici, sia in relazione alle famiglie ferite. Nel ragionamento di Brague troviamo anzitutto la traccia di una coscienza antica, che la Chiesa di oggi fa fatica a elaborare: ossia la corrispondenza tra il “per sempre” e la “struttura stessa dell’amore”.
Dire che il cristianesimo “non aggiunge nulla all’umano, ma lo prende sul serio” significa accettare che il tema del “rapporto indissolubile” non è specificamente cristiano, ma in senso lato è “umano” e “naturale”. E’ l’amore umano stesso a pretendere, di per sé, di non essere “a termine”. A ciò si aggiunge, tuttavia, la coscienza che l’amore umano, in quanto tale, pur aspirando alla grandezza e alla forza, sperimenta non di rado la piccolezza e la debolezza, il buio e la solitudine. In questo caso – a giudizio di Brague – è una tentazione il disperare dell’aiuto di Dio per dare pienezza “infinita” al nostro rapporto d’amore.
La categoria di “tentazione” – letta in termini di “mancanza di ambizione” – può avere una sua pertinenza. Ma, se ha il vantaggio di entrare profeticamente in una cultura della “facile dimissione”, entra in difficoltà nell’accompagnare le crisi reali, i silenzi assordanti, le anaffettività distruttrici, i rancori senza futuro. Le “patologie matrimoniali” sono forse soltanto il frutto di una “mancanza di ambizione”?
La fenomenologia del matrimonio ci dice che le famiglie sono felici non solo per ambizione, e che le famiglie diventano infelici non solo per mancanza di ambizione. Semplificare l’umano non è un modo per difenderlo e per promuoverlo. La logica dell’indissolubilità non è riconducibile, semplicemente, alla giusta ambizione di chi sa di ricevere, al momento opportuno, l’aiuto decisivo da Dio. Ci sono crisi che non possono essere lette con questo schema morale semplicistico e – in fondo – inevitabilmente e invariabilmente colpevolizzante.
In un altro passo della medesima intervista, R. Brague chiarisce una cosa interessante anche a proposito della “legge naturale”, che egli considera un’utile espressione metaforica: “L’analogia tra le leggi morali e le leggi naturali ha in ogni caso il vantaggio di suggerire che la morale consiste anche nel rispettare le condizioni che permettono la vita”.
In questa formula, tuttavia, le “condizioni che permettono la vita” appaiono come un riferimento troppo vago e indeterminato, quasi come un “principio di eterodeterminazione” che, nella storia, subisce profonde variazioni, anche se mai viene smentito.
San Tommaso d’Aquino. Può essere utile, allora, confrontare questo ragionamento di Brague con l’esposizione che s. Tommaso offre della “indissolubilità” nella sua Summa contra Gentiles, III, 123. Il testo è di grande interesse perché “ragiona sull’indissolubilità” quasi soltanto sul piano della “convenienza naturale”. Vediamo in qual modo Tommaso risponde alla domanda: “Perché il matrimonio deve essere indissolubile?”
Ecco una sintesi del suo pensiero: Considerato che uomo e donna debbono educare i figli non “per lungo tempo”, ma per tutta la vita, naturale è che il padre si occupi dei figli fino alla fine della vita e che rimanga con la madre fino alla fine, per ordine naturale. Se questa “società” si sciogliesse, ciò sarebbe contrario alla “equità”, poiché il maschio è più perfetto per ragione e più forte nella virtù. E se il maschio lasciasse la moglie quando non può più generare, questo sarebbe contrario all’equità naturale. Sarebbe contrario all’ordine naturale se la moglie potesse lasciare il marito, perché è naturalmente sottoposta all’uomo; né l’uomo potrebbe lasciare la moglie, perché non sarebbe una società giusta, ma una sorta di schiavitù. Inoltre, è contrario all’istinto umano che moglie e marito si separino per naturale sollecitudine alla certezza della prole. Per questo è necessaria una relazione tra uomo e donna non solo “lunga”, ma “indivisibile”. Ancora: L’amicizia, quanto più è grande, tanto più è forte e lunga. Uomo e donna non solo si uniscono “in actu carnalis copulae”, ma anche “ad totius domesticae conversationis consortium”.
Inoltre, tra gli atti naturali, solo la generazione è ordinata al bene comune: infatti, il pasto e l’emissione del superfluo riguardano l’individuo. Allora, la legge, essendo orientata al “bene comune”, soprattutto in ambito di generazione deve provvedere sia la legge umana sia la legge divina. La prima procede dall’istinto naturale, che già prevede che l’unione tra uomo e donna sia “individua”, mentre la seconda, significando l’unione di Cristo e della Chiesa, supplisce al difetto naturale. Poiché poi è necessario che tutto venga ordinato a ciò che per l’uomo è il meglio, l’unione di uomo e donna è non solo per la generazione, ma per i buoni costumi, per la famiglia e per la società civile. E’ stata esclusa la consuetudine di ripudiare le mogli, cosa che nella prima alleanza era concessa: fu permesso un “male minore” per escludere un “male maggiore”.
Il lungo discorso di Tommaso, che qui ho solo riassunto, mostra bene un paradosso. Il riconoscimento della “natura” come orizzonte di un “rapporto individuo” deve fare i conti con la cultura, come riconoscimento dei soggetti implicati nel rapporto. Le argomentazioni di Tommaso appaiono oggi molto fragili, quasi insostenibili, proprio nel momento in cui accettano una “logica” della convenienza naturale che risulta profondamente condizionate dalla forma sociale e dalla cultura ambiente. La questione è affermare la forza di “rapporto individuo” ad individui che hanno elaborato una cultura della libertà che non può essere più barattata con un paternalismo autoritario. In altri termini “individuo” non è più anzitutto il rapporto, ma il singolo. Solo affrontando questa sfida, il “mistero della comunione” potrà essere salvaguardato, senza trasformare la “natura” – come sfondo ragionevole a favore del bene comune – in un nobile pretesto per poter negare misericordia.
Andrea Grillo “Settimana” n. 21/2015
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CHIESA EVANGELICA
L’omosessualità è contraria alla Bibbia?
Lo studioso evangelico Stefan Scholz presenta le sue riflessioni all’interno dell’attuale dibattito sulle unioni omosessuali, anche a partire dai passi biblici in cui vi si fa riferimento. “Una condanna delle pratiche omosessuali come semplice applicazione delle affermazioni bibliche sull’argomento non tiene conto né delle attuali conoscenze delle scienze umane sulle identità sessuali né delle ricerche storico-critiche sugli antichi concetti sessuali” www.spiegel.de” del 1° giugno 2015
Gli uomini amano le donne e le donne amano gli uomini, il matrimonio è la forma corretta che assume questo rapporto. Certo, la coppia umana non è mai stata espressa in maniera così semplice, ma da quando lesbiche, gay, bisessuali, transgender, eccetera, hanno ampliato la gamma delle possibili forme di vita anche nella percezione pubblica, la frattura tra la morale sessuale cristiana classica e la molteplicità dei vissuti sociali è sempre più difficilmente superabile.
Mi limito qui al conflitto tra le affermazioni della Bibbia sull’omosessualità e le attuali relazioni tra persone dello stesso sesso che ovviamente non esistono solo al di fuori della Chiesa. In confronto ai dibattiti che nella chiesa e nella teologia vengono condotti in maniera approfondita, nella Bibbia invece l’omosessualità è chiaramente un tema marginale: all’argomento si fa riferimento in meno di dieci punti. Fondamentalmente, la situazione è chiara. I rapporti tra persone dello stesso sesso sono cose da pagani e vengono ritenuti inconciliabili con la fede in Jahvè o con la vita in Cristo, e vengono quindi severamente respinti.
Ma come questo deve essere compreso e ordinato, è molto meno chiaro.
Nell’Antico Testamento vengono richiamati soprattutto i tre passi seguenti:
- in primo luogo il codice di santità che intende regolamentare in maniera dettagliata le forme di rapporti corporali permessi e proibiti. In due punti viene chiesta in maniera assoluta e inequivocabile la pena di morte per rapporti sessuali tra uomini maschi, Lev 18, 22 e Lev 20, 13.
- Più controverso è in secondo luogo il racconto dell’annientamento di Sodoma e Gomorra in Gen 19. Se la malvagità degli uomini di queste città possa essere effettivamente identificata con la violenza omosessuale, e se è a causa di questo che i luoghi vengono distrutti, non viene più considerata oggi opinione della maggioranza degli studiosi delle scienze bibliche. Dovrebbe trattarsi piuttosto di offesa al diritto di ospitalità e di altre forme di violazione sessuale.
- In terzo luogo sono presentate, eventualmente, solo allusioni erotiche nella descrizione dell’amicizia di Davide e Gionata in 1Sam 18,1-4.
. Anche nel Nuovo Testamento sono tre i passi principali che vengono citati a questo riguardo:
- correlati tra loro sono anzitutto due cataloghi di vizi, 1Cor 6,9 e 1Tm 1,10 . Qui vengono elencati i più diversi mali e orrori. A coloro che li compiono sono precluse le porte del cielo. In entrambi i casi, accanto a bugiardi, assassini e sacrileghi vengono elencati anche uomini che compiono atti sessuali di maschi con maschi.
- particolarmente illuminante è infine Rom 1,26-27. Questo è l’unico punto in cui viene considerata anche la sessualità tra due donne. Qui il desiderio omosessuale non viene visto come qualcosa che comporta una specifica sanzione come la pena di morte o l’esclusione dalla salvezza. Piuttosto qui è proprio il desiderio di rapporto con persone dello stesso sesso che viene inteso come tormentosa tortura per un’aberrazione e per la falsa credenza.
Queste sono le citazioni, poche e chiare, che troviamo nella Bibbia, a cui si pongono una serie di difficili domande complementari. Mi concentro sui due punti centrali:
- Ciò che qui viene molto naturalmente condannato può essere paragonato alle attuali relazioni omosessuali? Il punto di vista e il modo di intendere l’omosessualità sono cambiati più volte nel passato. Se fino all’età moderna i rapporti omosessuali venivano considerati peccati gravi e bestemmie contro la volontà del creatore, a cui ci si poteva opporre solo con la retta fede e se necessario anche con il fuoco, nel percorso trionfale della medicina nel XIX secolo la tendenza omosessuale veniva interpretata principalmente come malattia, perversione e disturbo psichico. La strategia per aiutare chi ne era affetto era la cura. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha cancellato solo nel 1992 l’omosessualità della sua lista di malattie. Oggi la maggior parte dei ricercatori e delle ricercatrici considerano l’omosessualità come una variante nell’evoluzione. Esiste sia tra gli animali che tra gli uomini, le cause restano indefinite, non si è potuto stabilire né che esista un genere gay né che ci sia un sicuro rapporto tra educazione ed omosessualità. Assolutamente assurdo nell’attuale visione di chi ha approfondito l’argomento è collegare l’omosessualità ad un comportamento moralmente scorretto. Se da qui ora ci spostiamo alle epoche della Bibbia, che non devono assolutamente essere considerate un’unità chiusa, diventano evidenti ulteriori cambiamenti nel modo di intendere la sessualità e l’omosessualità. La piena umanità, in conformità alla “somiglianza di Dio”, secondo 1Gen 1,27, la si poteva concepire solo nell’unità di uomo e donna. L’obiettivo della sessualità veniva chiaramente visto nella riproduzione, al punto che un uomo poteva avere anche più donne, v. 1Gen 16. Paolo descrisse il matrimonio tra uomo e donna in 1Cor 7 solo come concessione alla pulsione sessuale, migliore però per lui era una vita continente.
- Un comportamento omosessuale veniva globalmente considerato non ebraico e più tardi anche non cristiano. Gli scrittori biblici, soprattutto nel periodo neotestamentario potevano a questo proposito aver avuto davanti agli occhi quanto segue: nell’antica Grecia e a Roma c’era un comportamento omosessuale, soprattutto un rapporto sessuale tra un uomo adulto e un giovane in età dai 12 ai 18 anni, in casi eccezionali forse anche fino a 28 anni. Il più anziano doveva essere attivo, il più giovane passivo – ogni altro comportamento diverso era considerato disonorevole e forniva spesso materia per scherni, intrighi e ricatti. Una delle più famose trasgressioni alla regola sicuramente fu riferita a carico di Giulio Cesare, in quanto avrebbe imposto allo sconfitto re di Bitinia il ruolo di partner sessuale passivo. Il comportamento asimmetrico non si evidenziava solo nella differenza d’età: in Grecia si trattava spesso di relazioni maestro-discepolo, mentre a Roma invece erano degli schiavi a dover assumere il ruolo passivo. C’era inoltre anche la prostituzione maschile esercitata come professione. Anche l’omosessualità femminile esisteva nell’antichità, ma è molto meno documentata e veniva considerata in maniera estremamente sospetta. Perché le donne potevano, infatti, avere solo un unico tipo di comportamento sessuale: dovevano cioè essere a servizio del maschio ed essere passive.
Da questi pochi tratti possiamo avere un’idea di ciò che era connesso con l’omosessualità nell’ambito culturale della Bibbia e da cosa erano inequivocabilmente delimitati i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento. La differenza di ciò che qui viene inteso come comportamento omosessuale, ma anche sessualità in generale, conduce ad una profonda riflessione in riferimento al significato delle affermazioni bibliche in questo contesto.
Quale valore ha la Bibbia per gli interrogativi etici in ambito sessuale oggi? Una condanna delle pratiche omosessuali come semplice applicazione delle affermazioni bibliche sull’argomento non tiene conto né delle attuali conoscenze delle scienze umane sulle identità.
traduzione: www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201506/150602scholz.pdf
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CONCEPITO
Quali diritti può avere chi non è stato ancora concepito?
La legge riconosce una sorta di capacità giuridica al nascituro non ancora concepito in materia di testamento e donazione.
Si può riconoscere la capacità giuridica al nascituro che non è stato ancora concepito? E in particolare quali diritti può avere?
Con l’espressione “capacità giuridica” si definisce l’idoneità ad essere titolari di diritti e doveri giuridici. Nell’ordinamento italiano, la persona fisica acquista tale capacità al momento della nascita (cfr. art. 1 comma 1 codice civile), ovvero con la separazione del feto dall’alveo materno (cfr. ex multis, Cass. n. 2023/1993) e la conserva fino al momento della morte.
Tuttavia, così come il concepito (ossia colui che è stato procreato ma non ancora venuto al mondo), il quale, pur non essendo considerato soggetto giuridico vede riconosciuta la titolarità di una serie di diritti subordinati all’evento della nascita, anche a chi non è stato ancora concepito viene riconosciuta dall’ordinamento una sorta di “capacità giuridica” in due specifiche circostanze.
Infatti, in base a quanto stabilito dall’art. 462, terzo comma, codice civile il nascituro non ancora concepito, al tempo della morte del de cuius (analogamente ai già nati e concepiti) può ricevere per testamento, mentre ex art. 784 c.c. ha la capacità di ricevere per donazione (la cui accettazione però spetta ai genitori o al curatore speciale ex artt. 320 e 321 c.c.).
Condizione imprescindibile affinché entrambe le circostanze possano verificarsi è che si tratti di figli di una determinata persona vivente al momento dell’effettuazione del testamento o della donazione.
studio Cataldi 6 giugno 2015
www.studiocataldi.it/articoli/17183-chi-non-e-stato-ancora-concepito-che-diritti-ha.asp
La Legge 40\2004 ha il suo punto più importante nell’articolo 1, dove dice che la legge intende garantire i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. Allora, bisogna che nei processi venga ascoltata la sua voce. Ci vuole un curatore speciale, qualcuno che obbligatoriamente nei processi rappresenti i diritti e gli interessi del concepito. La legge chiede quindi che sia nominato in tutti i processi un curatore del concepito. Non modifica la Legge 40, ma modifica le norme del Codice civile* e del Codice di procedura civile. On Carlo Casini.
*Codice civile art. 1 (Capacità giuridica). 1. Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento.
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COPPIE
Coppie solide eppure vulnerabili così la legge ignora la metamorfosi.
Era già avvenuto nei Paesi nordici ed anche in Francia e Germania, dove da diversi decenni ormai il matrimonio aveva perso il ruolo di rito di passaggio, per diventare piuttosto rito di conferma. Non si va a vivere insieme come coppia solo dopo che ci si è sposati. Piuttosto ci si sposa dopo aver sperimentato qualche anno di vita insieme e sempre più spesso anche dopo aver avuto uno o più figli. In alcuni Paesi del Centro-Nord Europa la maggioranza dei primogeniti nasce all’interno di una coppia di fatto, convivente ma non sposata. In Italia il fenomeno è più recente ed ancora minoritario, ma ha conosciuto un’accelerazione fortissima nell’ultimo decennio, contraddicendo le ipotesi degli studiosi che ancora pochi anni fa ritenevano che si sarebbe diffuso molto lentamente. Soprattutto nel Centro-Nord, ha raggiunto proporzioni consistenti, spesso con la benedizione, o comunque l’accettazione della generazione più vecchia.
Lo dimostra anche il fatto che oggi un matrimonio su tre è preceduto da una convivenza di almeno un anno. Siamo quindi di fronte ad un importante cambiamento culturale, oltre che comportamentale, del significato del matrimonio e della sua collocazione nella vicenda della coppia. Rimane da vedere se ciò comporterà anche un indebolimento del matrimonio in quanto tale o solo una sua trasformazione. Nei Paesi in cui il fenomeno è più diffuso e da più tempo, la maggioranza delle coppie prima o poi si sposa, confermando quel ruolo di conferma sociale che ha l’istituto del matrimonio anche in paesi in cui esiste l’alternativa delle unioni civili. Certo, dopo aver perso il ruolo di autorizzazione ai rapporti sessuali (per le donne) e di autorizzazione alla procreazione, non si tratta più dello stesso istituto. Ma ciò non deve sorprendere né scandalizzare e tantomeno spaventare. Il matrimonio e la famiglia sono istituzioni storiche che hanno cambiato contenuto molte volte, anche quando sembravano mantenere la stessa forma. Quello attuale è uno dei periodi in cui il processo di ridefinizione è diventato più visibile, anche in Italia. Considerare, come fa qualcuno, la diffusione delle convivenze senza matrimonio un indicatore di deresponsabilizzazione e incertezza è semplicistico. Al contrario, può essere la conseguenza di una maturata consapevolezza che non basta sposarsi per essere capaci di vivere assieme e lavorare a un progetto di vita comune. Occorre piuttosto costruirne e negoziarne le condizioni giorno per giorno.
Se è vero che non occorre più sposarsi per andare a vivere assieme, non occorre neppure la protezione, o la garanzia, del matrimonio per assumere i rischi di un progetto di vita comune. Tanto più che il matrimonio stesso è diventato fragile e reversibile. Il fatto è che in Italia la mancanza di un riconoscimento formale lascia spesso indifese queste coppie proprio nei momenti più difficili. A fronte della malattia grave, o della morte di uno dei due, o della rottura di coppia, scoprono di essere considerati legalmente degli estranei, senza diritti e senza doveri reciproci, anche dopo anni di vita comune. Ciò che hanno costruito insieme e sono, o sono stati, l’uno per l’altra non ha rilevanza in assenza di uno status legale. La vulnerabilità di queste coppie non deriva solo o tanto da un incerto, o precario, investimento di chi ne fa parte, ma anche dall’incertezza del loro status a livello istituzionale, a prescindere dalla loro durata e solidità.
Chiara Saraceno la repubblica 2 giugno 2015
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CORTE COSTITUZIONALE
Illegittimità costituzionale parziale della L. 40\2004.
Sentenza n. 96 Norme impugnate: Artt. 1, c. 1° e 2°, e 4, c. 1°, della legge 19/02/2004, n. 40.
Udienza Pubblica del 14/04/2015\ Decisione del 14/05/2015 Deposito del 05/06/2015
Pubblicazione in G. U. n. 23
La Corte Costituzionale ha pronunciato la seguente sentenza nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) www.camera.it/parlam/leggi/04040l.htm
estratti passim
(…) Secondo il rimettente, la normativa censurata – non consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita anche alle coppie (come quelle innanzi a sé ricorrenti) che, pur non sterili od infertili, rischierebbero, comunque, di procreare figli affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili, di cui uno od entrambi i componenti della stessa risultano portatori – contrasterebbe, infatti, con il diritto inviolabile della coppia ad avere un figlio “sano” e con il diritto ad autodeterminarsi nella scelta procreativa; violerebbe, inoltre, il diritto alla salute (fisica e psichica) della donna (costretta a subire l’interruzione volontaria della gravidanza nel caso di accertata trasmissione al feto di patologie genetiche); contrasterebbe, ancora, con il principio di ragionevolezza, con riferimento al quadro normativo risultante dalla combinazione di detta legge n. 40 del 2004 con la legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza); comporterebbe, infine, un’indebita e non proporzionata ingerenza nella vita privata e familiare delle coppie suddette, in violazione anche dei citati artt. 8 e 14 della CEDU e, quindi, per interposizione, dell’art. 117, primo comma, Cost. (…)
Considerato in diritto. (…)
2.- Il Tribunale ordinario di Roma dubita che le riferite disposizioni – nella parte in cui non consentono che anche le coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili possano fare ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (da ora in avanti, PMA) violino gli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, nonché l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU) (…).
5.- Secondo il rimettente, la normativa denunciata contrasterebbe, infatti:
- con l’art. 2 Cost., per il vulnus ai diritti inviolabili della persona, quali «il diritto della coppia a un figlio “sano” e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative », che irrimediabilmente deriverebbe, dal censurato divieto di accesso alle procedure di PMA, alle coppie non sterili o infertili, ma portatrici di malattie genetiche trasmissibili;
- con l’art. 3 Cost., «inteso come principio di ragionevolezza, quale corollario del principio di uguaglianza, in quanto comporta la conseguenza paradossale, irragionevole e incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto dalla patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta tragica dell’aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194»;
- con lo stesso art. 3 Cost., sul presupposto che il suddetto divieto determinerebbe una discriminazione tra la condizione delle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, e quella delle coppie in cui l’uomo risulti affetto da malattie virali contagiose per via sessuale, alle quali è, invece, riconosciuto, dal decreto del Ministero della salute 11 aprile 2008 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), il diritto di ricorrere alle tecniche di PMA;
- con l’art. 32 Cost., risultando leso il diritto alla salute della donna, sotto il profilo che la stessa, nell’esercitare la scelta di procreare un figlio non affetto da una patologia trasmissibile ereditariamente, sarebbe costretta a dover affrontare una gravidanza naturale per poi dover, eventualmente, ricorrere ad un aborto terapeutico (nel caso di accertata trasmissione della malattia genetica), con la configurazione di un concreto aumento dei rischi per la sua salute fisica e per la sua integrità psichica, «in assenza di un adeguato bilanciamento della tutela della salute della donna con quella dell’embrione»;
- con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 14 (sul divieto di discriminazione) della CEDU: quanto alla prima, perché la “irragionevolezza” del divieto di accesso alla PMA imposto alle coppie sterili portatrici di malattie ereditarie, «che di fatto si risolve nell’incoraggiamento del ricorso all’aborto del feto», comporterebbe, appunto, un’indebita ingerenza nella vita familiare di dette coppie; e, quanto alla seconda, in ragione della discriminazione già evidenziata per il profilo di violazione dell’art. 3 Cost.
(…)
9.- Nel merito, la questione è fondata, in relazione al profilo – assorbente di ogni altra censura – che attiene al vulnus effettivamente arrecato, dalla normativa denunciata, agli artt. 3 e 32 Cost. Sussiste, in primo luogo, un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni. E ciò in quanto, con palese antinomia normativa (sottolineata anche dalla Corte di Strasburgo nella richiamata sentenza Costa e Pavan contro Italia), il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità dell’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) – quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto «accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».
Vale a dire che il sistema normativo, cui danno luogo le disposizioni censurate, non consente (pur essendo scientificamente possibile) di far acquisire “prima” alla donna un’informazione che le permetterebbe di evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute. Dal che, quindi, la violazione anche dell’art. 32 Cost., in cui incorre la normativa in esame, per il mancato rispetto del diritto alla salute della donna. Senza peraltro che il vulnus, così arrecato a tale diritto, possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in un’esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto.
La normativa denunciata costituisce, pertanto, il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone di razionalità dell’ordinamento – ed è lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l’altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria – nella parte in cui non consente, e dunque esclude, che, nel quadro di disciplina della legge in esame, possano ricorrere alla PMA le coppie affette da patologie siffatte, adeguatamente accertate, per esigenza di cautela, da apposita struttura pubblica specializzata. Ciò al fine esclusivo della previa individuazione di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro, alla stregua del medesimo “criterio normativo di gravità” già stabilito dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978.
www.salute.gov.it/imgs/c_17_normativa_845_allegato.pdf
10.- Una volta accertato che, in ragione dell’assolutezza della riferita esclusione, le disposizioni in questione si pongono in contrasto con parametri costituzionali «questa Corte non può, dunque, sottrarsi al proprio potere-dovere di porvi rimedio e deve dichiararne l’illegittimità» (sentenza n. 162 del 2014), essendo poi compito del legislatore introdurre apposite disposizioni al fine dell’auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base dell’evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possano giustificare l’accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di un’opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle (anche valorizzando, eventualmente, le discipline già appositamente individuate dalla maggioranza degli ordinamenti giuridici europei in cui tale forma di pratica medica è ammessa). Ciò non essendo, evidentemente, in potere di questa Corte, per essere riservato alla discrezionalità delle scelte, appunto, del legislatore.
Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche.
www.cortecostituzionale.it/schedaUltimoDeposito.do;jsessionid=92829AFB28F8D70BF4481240C9D8130F
Mirabelli: «adesso intervenga il Parlamento»
«Con questa sentenza non c’è stata un’apertura di campo come auspicato da chi ha promosso il ricorso, nel senso del diritto inviolabile ad avere un figlio sano o della completa autodeterminazione riproduttiva. Si è aperta una porta, ma la si è lasciata socchiusa con l’inserimento di alcuni paletti, che possono essere rigorosi per condizioni e procedura». Così Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, commenta la decisione con cui la Consulta è intervenuta sul divieto di accesso alla procreazione medicalmente assistita per le coppie fertili portatrici di patologie genetiche, previsto dalla legge 40.
Presidente, quali sono le motivazioni di questa sentenza?
La Corte ha impostato la questione sotto il profilo della ragionevolezza e della tutela della salute della donna facendo riferimento alle disposizioni della legge 194\1978, ragionando sul fatto che è meno traumatico il ricorso alla diagnosi preimpianto che un’eventuale interruzione volontaria di gravidanza successiva alla scoperta di una patologia. C’è una valutazione prognostica delle conseguenze della patologia dell’embrione rispetto alla salute della madre, una prospettiva di quello che potrebbe accadere.
Il rimando è alla legge 194 che però non definisce criteri di gravità di patologie per accedere all’interruzione volontaria di gravidanza.
La patologia, nelle indicazioni della Consulta, deve rispondere a criteri di gravità preventivamente individuati, con l’accertamento in una struttura pubblica. La sentenza rimanda al legislatore per l’individuazione di una disciplina e delle strutture pubbliche che possano far accedere alle procedure. Sta quindi al legislatore individuare le patologie che giustifichino l’accesso alle tecniche di Pma per una coppia fertile e, in maniera correlata, determinare i centri pubblici autorizzati e idonei. In questo modo, escludendo i privati, si allontana anche ogni possibile scopo di lucro.
Quale può essere la strada per l’individuazione delle malattie geneticamente trasmissibili che diano l’accesso alle tecniche di fecondazione artificiale?
Il legislatore può rinviare ad organi tecnici come l’Istituto Superiore di Sanità che possano effettuare una valutazione su cui sia possibile dare indicazioni stringenti. Allo stesso modo, il Ministero della Salute può, e a mio parere deve, accertare quali siano le strutture pubbliche che devono verificare queste procedure, altrimenti si rischia che si aprano le piste più strane.
Cosa succederà all’indomani della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale?
Non dovrebbe esserci alcun automatismo, ma va evidenziato che la Corte non ha adottato una sentenza additiva di principio. C’è una decisione di illegittimità costituzionale che supera il divieto per le coppie non sterili e si introduce un auspicio per un intervento del legislatore che però non si sa quanto sarà solerte. La disciplina dovrà essere integrata e questo porterà delle resistenze all’attività legislativa.
Si può dire che c’è un vuoto normativo per l’applicazione della sentenza?
Non basterà presentarsi con un certificato del proprio medico, ma servirà l’accertamento rigoroso di un centro pubblico da individuare. Per rendere effettivi e concreti e vincolanti le verifiche dei presupposti, occorre un intervento normativo ulteriore.
La Corte nella sentenza fa riferimento all’esigenza di tutela del nascituro.
Già nell’ordinanza di rinvio non si faceva alcun riferimento ai diritti del figlio, ma veniva richiesto di affermare il diritto al figlio sano, cioè di decidere “per lo altrui”. Il Papa direbbe che è una delle espressioni della cultura dello scarto.
Emanuela Vinai Avvenire 6 giugno 2015
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Mirabelli-intervenga-il-Parlamento.aspx
Roccella: passo rischioso verso l’eugenetica.
«Le motivazioni della Consulta che riguardano la sentenza sulla diagnosi preimpianto introducono una gravissima discriminazione nei confronti di persone disabili o malate, considerate davvero “figli di un dio minore”. Un bambino che non sia sano avrà, d’ora in poi, un diritto affievolito a nascere, e potrà essere scartato. Si tratta di un rischioso passo verso l’eugenetica, un passo che nemmeno la legge sull’aborto aveva compiuto».
Eugenia Roccella, parlamentare di Area Popolare (Ncd- Udc) e Vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera, critica aspramente le motivazioni della Consulta sul tema della diagnosi pre-impianto. «L’analogia con l’aborto, infatti, utilizzata dalla Corte, non funziona: con la legge 194\1978 si può interrompere la gravidanza oltre i tre mesi solo se esiste un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, considerando che l’embrione è nel grembo della madre e cresce dentro di lei – spiega Roccella -. Nel caso della diagnosi preimpianto tutto si svolge in laboratorio: si produce un alto numero di embrioni e poi se ne seleziona uno o più d’uno, scartando tutti gli altri. Le modalità sono profondamente diverse, e la verità è che, per la prima volta, si inserisce nell’ordinamento italiano un principio eugenista. Per tutto il resto, la Corte rimanda la palla al legislatore, che dovrà introdurre “apposite disposizioni al fine di individuare le patologie” che consentono di accedere alla diagnosi preimpianto, e dovrà prevedere opportune “forme di autorizzazione e controllo delle strutture abilitate”. La sentenza dunque non è immediatamente applicabile, ma richiede un ulteriore passaggio legislativo».
Avvenire 5 giugno 2015
www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Roccella-su-caso-Vincent.aspx
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DALLA NAVATA
SS. Corpo ed Sangue di Cristo – anno B –7 giugno 2015.
Esodo 24.04 «Mosé scrisse tutte le parole del Signore.»
Salmo 116.18 «Adempirò i miei voti al Signore davanti a tutto il suo popolo.»
Ebrei 08.15 «Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova…»
Marco 14.24 «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti.»
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FECONDAZIONE ARTIFICIALE
Fecondazione eterologa: illegittimo il diniego a donna di 43 anni.
TAR, Veneto, terza Sezione, sentenza n. 501, 8 maggio 2015.
E’ illegittima e contraddittoria la delibera della Giunta regionale veneta che dispone il limite di età di 43 anni per la donna che vuole sottoporsi alla PMA eterologa, mentre nel caso di fecondazione omologa tale limite è stabilito fino al 50° anno di età. Il provvedimento della Regione, che ha diversamente disciplinato il requisito relativo all’età della donna per essere ammessa ai cicli di eterologa, si pone in evidente contrasto sia con la normativa statale che parla solo di età fertile della donna, sia con i principi generali di eguaglianza richiamati dalla Corte Costituzionale che ha abolito il divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.
Il TAR Veneto accoglie il ricorso di una coppia che aveva chiesto di sottoporsi al procedimento di fecondazione assistita di tipo eterologo, ma era stata opposta loro la circostanza che la delibera della Giunta regionale veneta, prevede il limite massimo di età della donna di 43 anni. Il provvedimento amministrativo, secondo i ricorrenti, avrebbe discriminato tra le coppie che si sottopongono alla fecondazione omologa, per il quale è previsto il limite di età di 50 anni, e la coppia che vuole accedere alla fecondazione eterologa, per il quale la delibera prevede il limite del 43° anno di età. (…)
Per quanto riguarda l’età della donna, la norma nazionale (art. 5, legge 40/2004) non da un’indicazione precisa, ma fa riferimento all’età potenzialmente fertile, e ciò deve ritenersi applicabile ad entrambe le tecniche di fecondazione. L’art. 5 della legge, infatti, individua i requisiti soggettivi per poter ricorrere alla PMA, stabilendo che possono accedervi le coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile ed entrambi viventi. Inoltre, a livello scientifico, secondo gli studi effettuati con riferimento all’età fertile, tenendo conto delle complicazioni che possono insorgere in una gravidanza in età eccessivamente avanzata, si suggerisce di praticare la fecondazione assistita su donne di età superiore a 50 anni.
Secondo il TAR, il provvedimento della Regione, che ha diversamente disciplinato il requisito relativo all’età della donna per essere ammessa ai cicli di eterologa, si pone in evidente contrasto sia con la normativa statale (che non fa distinzioni), sia con il principio di eguaglianza ex art. 3 della Costituzione.
Solo un mese prima il TAR Lombardia aveva giudicato legittimo il provvedimento della Regione che prevedeva il ricorso alla PMI eterologa soltanto a pagamento (da 1500 a 4000 euro). Il Consiglio di Stato, tuttavia, con l’ordinanza n. 1486 del 9 aprile 2015, aveva dato ragione ai ricorrenti, ritenendo condivisibile la censura di disparità di trattamento, sotto il profilo economico, tra la PMA omologa e quella eterologa. Nel provvedimento si fa rilevare che oltre al pregiudizio patrimoniale, c’è il rischio che si verifichi un pregiudizio grave e irreparabile, nell’attesa delle decisioni sui provvedimenti impugnati, per il superamento dell’età fertile della donna, con conseguente violazione di diritti.
Giuseppina Vassallo Altalex 5 giugno 2015. con sentenza
www.altalex.com/documents/news/2015/05/12/si-alla-fecondazione-assistita-eterologa-anche-per-donne-sopra-i-43-anni?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=144450
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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Le famiglie ai parlamentari: fissiamo i limiti invalicabili.
È stata consegnata oggi, a tutti i parlamentari, una lettera aperta dal titolo “Libertà delle persone. Identità della famiglia” sul tema della regolazione delle unioni civili e dell’identità della famiglia.
«Il tema è particolarmente sentito dalla società» spiega il presidente del Forum, Francesco Belletti. «Ma si tratta di una questione delicata e socialmente sensibile nella quale tutti i membri del Parlamento hanno una grande responsabilità. Decidere sulla famiglia e sulle ricadute che si possono innescare, esige un grande equilibrio.
«È per questo che abbiamo inteso offrire a ciascun parlamentare il nostro punto di vista, come Forum delle associazioni familiari, in rappresentanza delle famiglie e delle loro associazioni. Un’indicazione su cosa è possibile intervenire e su cosa rappresenta un limite invalicabile a meno di creare un vulnus nella nostra società che farà sentire i suoi effetti negli anni e nelle generazioni a venire.
«Su questo documento intendiamo aprire un dialogo con i parlamentari» conclude Belletti «partendo dalla concretezza del dibattito parlamentare in corso e dei nodi che andranno o non andranno sciolti»
Comunicato stampa 5 giugno 2015
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Lettera aperta agli onorevoli deputati e senatori Libertà delle persone Identità della famiglia
Dopo anni di discussioni sembra ormai che il dibattito sulla regolazione delle unioni civili, in particolare delle relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, sia giunto ad uno snodo cruciale in Parlamento. La Commissione Giustizia del Senato ha esaminato per mesi varie ipotesi e si trova a dover discutere quello che viene impropriamente definito un “testo unificato” (testo frutto di convinzioni minoritarie che non tiene sufficientemente conto di altre proposte più condivise), che presenta un impianto teorico e un dettaglio normativo che mettono a serio rischio l’identità stessa della famiglia, oltre a dare un’interpretazione della Costituzione affatto diversa da quella ribadita anche solo pochi mesi fa dalla Corte costituzionale.
Con questa lettera aperta ci rivolgiamo a tutti voi Parlamentari per richiamarvi alla primaria responsabilità di custodire il bene comune e l’ancor attualissimo impianto della Carta costituzionale, che vede nella famiglia società naturale il tassello centrale e irrinunciabile del nostro tessuto sociale, soggetto attivo di solidarietà e coesione sociale, a promozione e tutela della libertà e della pari dignità di ogni persona, nonché palestra di cittadinanza attiva e valori sociali delle nuove generazioni (seminarium rei publicae – Cicerone), in cui si riconosce la nostra comunità nazionale.
La famiglia è infatti luogo naturale di protezione della persona e di costruzione della società: non fu per caso, ma proprio in diretta reazione alle tragiche esperienze dei totalitarismi della prima parte del Novecento, sulle macerie della seconda guerra mondiale, che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 dedicò particolare attenzione alla famiglia, soprattutto con l’art. 16, definendone alcune qualità e prerogative tuttora di grande rilevanza:
- 1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento.
- Il matrimonio può essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi.
- 3. La famiglia è il nucleo naturale fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
È lo stesso valore naturale della famiglia fondata sulla differenza sessuale che viene riconosciuto e promosso dalla nostra Costituzione -dopo un’alta e approfondita mediazione (non un compromesso al ribasso) tra le tre grandi culture che ricostruirono il Paese – che all’art. 29 afferma: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.
Non ci sono dubbi: anche le più recenti sentenze della Corte costituzionale (138/2010 e 170/2014) confermano che “l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna… La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale” (sent. 138/2010). Inoltre la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che «stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso » (sent. 170/2014).
È anche necessario ricordare che la Consulta in materia di famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna fa riferimento all’art.29, mentre per altre tipologie di formazioni sociali come le unioni affettive fa riferimento all’art.2.
Diritti individuali e tutela della famiglia, I diritti soggettivi di ciascun individuo, indipendentemente dal proprio status familiare, devono avere un pacifico riconoscimento.
La libertà di vita affettiva è per tutti e la protezione di ogni persona in tali relazioni è doverosa, ma questo non significa attribuire o estendere un presunto “diritto al matrimonio per tutti”. O meglio: tutti hanno il diritto di sposarsi, purché si tratti di matrimonio tra uomo e donna.
Esistono infatti diritti peculiari della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna che non possono essere estesi alle convivenze, soprattutto a quelle tra persone dello stesso sesso.
Questo è il punto fondamentale della questione: a tali tipologie di convivenze non devono (e non possono) essere negati né i diritti ‘sociali’ derivanti dall’appartenere ad un’unione affettiva né tantomeno i diritti individuali, ma non devono (e non possono) essere riconosciuti i diritti specifici e tipici della famiglia fondata sul matrimonio.
Accanto alla regolamentazione dei diritti delle persone che vivono nelle unioni di fatto vanno pertanto rispettate e custodite le prerogative, le qualità e i diritti della “famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna”, istituzione di rilievo pubblico. A tal fine, vanno garantiti alcuni principi fondamentali: effettiva distinzione e diversità di disciplina tra famiglia fondata sul matrimonio e unioni di fatto, quali ad esempio il diritto alla pensione di reversibilità, l’accesso alla successione legittima, l’assegno di mantenimento all’ex coniuge. Per questi diritti andrà trovata una soluzione ad hoc per le unioni civili, distinta da quella prevista per i coniugi.
Per questo il giudizio sul testo in discussione, della relatrice sen. Cirinnà, è fortemente negativo. La proposta di testo in discussione presenta infatti profili di illegittimità costituzionale perché di fatto introduce il matrimonio tra persone dello stesso sesso equiparando in più disposizioni le unioni tra persone dello stesso sesso alla famiglia fondata sul matrimonio (v. ad es. art. 2, comma 1; art. 3; art. 4, comma 2; art. 5, art. 7, comma 1, art. 12 etc.). Già solo tale piena equiparazione avrebbe dovuto comportare una radicale riscrittura del testo base in esame.
È evidente che ragioni di natura diversa (o meglio meri calcoli di convenienza politica) hanno portato la Commissione Giustizia ad adottare questo testo sbagliato, ma ciò non solleva ciascuno di voi dalla responsabilità di rispettare sia la naturalità sociale della famiglia sia la Costituzione.
La famiglia è infatti un’istituzione insostituibile anzitutto per la sua potenziale finalità generativa: solo la famiglia aperta alla vita può essere considerata vera cellula della società, perché garantisce la continuità e la cura delle generazioni. È quindi interesse della società e dello Stato che la famiglia sia solida e cresca nel modo più equilibrato possibile. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. Per superare questo dato inconfutabile non possono servire neanche le più avanzate tecniche di intervento generativo in laboratorio.
Poter avere la sicurezza dell’affetto dei genitori, essere introdotti da loro nella complessa realtà della società, è un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita. E questo patrimonio è garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, proprio per l’impegno che essa porta con sé: impegno di fedeltà stabile tra i coniugi e impegno di amore ed educazione dei figli.
Questa è la famiglia che interessa alla società. Questa è la famiglia che merita sostegno pubblico, ad oggi inesistente. Nucleo essenziale della società, la famiglia, spesso, deve curare, da sola, le ferite inferte dalla ‘cultura dello scarto’. Ed è questo che ha ricordato con determinazione il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento: “garantire la Costituzione … significa sostenere la famiglia, risorsa della società”.
Ulteriori criticità del testo Cirinnà. L’attuale testo base tratta intenzionalmente in modo uguale cose profondamente diverse come la famiglia fondata sul matrimonio e l’unione affettiva tra persone dello stesso sesso, emergendo in esso chiaramente la prospettiva del diritto al “matrimonio per tutti”, così eliminando l’elemento della differenza sessuale connaturato da sempre al matrimonio.
Contiene inoltre un chiaro rimando alla cosiddetta “stepchild adoption”, istituto di importazione anglosassone che apre chiaramente la strada a procedure, inevitabili nel caso di coppie di persone dello stesso sesso, come la donazione di gameti maschili o anche la maternità surrogata, altrimenti detta utero in affitto (entrambe vietate in Italia) che rappresenta una nuova, gravissima forma di mercificazione del corpo femminile e di schiavizzazione delle donne, espressione di una malintesa idea di libertà che mette al centro della politica i desideri dell’individuo più forte. Non si ha diritto ad un figlio, è il figlio ad avere diritto ad un padre e una madre!
Cosa c’è di più ingiusto di un atto legislativo che permetta che un neonato venga strappato dalle braccia di sua madre – ovviamente in condizioni economiche precarie – immediatamente dopo il parto, impedendo al bambino, una volta cresciuto, di conoscere le sue origini? È peraltro paradossale e contraddittorio constatare che la Commissione Giustizia della Camera sta per approvare un testo che riconosce al figlio non riconosciuto il diritto di conoscere le proprie origini biologiche e identità. Identità che non possono che ricondurre al tessuto familiare, alla storia dell’individuo. Insomma, non si sappia al Senato ciò che si fa alla Camera.
Per questo una regolazione parafamiliare delle relazioni affettive tra persone dello stesso sesso, come fa il testo Cirinnà è un grande inganno, la naturale premessa per un dichiarato ed esplicito progetto politico-ideologico di trasformazione e di snaturamento delle qualità essenziali del matrimonio e della famiglia, costruito generazione dopo generazione, come “unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli (…) un fenomeno universale, reperibile in ogni e qualunque tipo di società” (C. Levi Strauss, 1952).
Approvare il testo Cirinnà significa dunque sostenere una posizione ideologica oltranzista, estremista, radicale e soprattutto minoritaria nel Paese.
Il contesto e le prospettive. Il testo Cirinnà non è un atto isolato ma fa parte di una serie di provvedimenti già deliberati che di fatto privatizzano le relazioni interne familiari, con l’obiettivo di avere una famiglia solo ‘privata’, non più bene comune e interesse primario di tutti. È come se governo e Parlamento, le Istituzioni, lo Stato!, non siano più espressione dei cittadini, ma un corpo a parte – quasi estraneo alla realtà quotidiana degli italiani.
Si pensi infatti al ‘divorzio fai da te’ (quello in cui non serve più l’intervento del giudice a garanzia e tutela delle parti, soprattutto quelle più deboli), approvato con decreto-legge e relativa fiducia parlamentare (come dire: risolviamo i problemi della giustizia togliendo le famiglie dai tribunali), procedura inaccettabile quando non sussiste alcuna ragione di urgenza, elemento imprescindibile di qualsiasi decreto-legge.
O si pensi alla recente approvazione del ‘divorzio breve’, per fare in fretta, per assecondare i desideri degli adulti a scapito dei loro doveri, dei bisogni dei figli e dell’interesse pubblico alla tenuta della famiglia.
Di fatto lo Stato di fronte alle criticità nella famiglia non solo non interviene con un sostegno concreto per superare le difficoltà del momento, ma facilita enormemente il percorso di disgregazione, senza farsi carico di sostenere i coniugi e soprattutto i minori coinvolti nella fine di un progetto di vita così fondamentale. Nonostante ciò sia previsto dalla legge.
Di pari passo si constata la mancata applicazione delle misure individuate da quel Piano nazionale per le politiche familiari approvato dal governo nel giugno del 2012. Provvedimenti quali gli 80 euro in busta paga e la nuova imposta comunale TASI sono stati inoltre realizzati senza la necessaria modulazione in base ai carichi familiari, o tenendone conto in modo gravemente insufficiente come nel caso della nuova ISEE.
Nonostante le ripetute richieste del Forum e di numerosi economisti, che individuano nella bassissima natalità italiana una delle cause strutturali della mancanza di una solida ripresa economica italiana.
Nel nostro Paese mancano politiche familiari, la nascita di un bambino in più può trascinare il nucleo familiare al di sotto della soglia di povertà, latitano interventi seri sulla conciliazione tra famiglia e lavoro, le famiglie sono lasciate sole nella scelta formativa scolastica e nell’educazione dei figli, così come sono sole rispetto ad un welfare in progressiva ritirata, o con aiuti marginali in presenza di persone fragili.
Chi ha votato a favore del divorzio breve si chieda: quali provvedimenti ha approvato, insieme al divorzio breve, per aiutare la famiglia, anziché per favorirne l’implosione?
E quando sarà il momento di discutere il testo Cirinnà si chieda: quanti provvedimenti abbiamo votato a sostegno della famiglia, prima di garantire questo falso diritto al “matrimonio per tutti”?
Quando la politica sarà capace di restituire alla famiglia ciò che la famiglia quotidianamente dà alla società?
Ne va del futuro del Paese, ne va della tenuta sociale del nostro popolo.
IL FORUM delle ASSOCIAZIONI FAMILIARI maggio 2015
Il Forum delle associazioni familiari è costituito da 48 associazioni a carattere nazionale, da 400 associazioni locali riunite in 20 Forum regionali e numerosi Forum locali. Ha lo scopo di sostenere la famiglia in ogni suo aspetto, riconoscendone il valore insostituibile quale elemento fondante e costitutivo di ogni società civile.
Il Forum nasce nel 1993 in rappresentanza di tre milioni di famiglie con le seguenti finalità:
a. La promozione e la salvaguardia dei valori e dei diritti della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (Costituzione italiana, articoli 29, 30,31) e dei suoi singoli membri.
b. Il sostegno della partecipazione attiva e responsabile delle famiglie alla vita culturale, sociale e politica, alle iniziative di promozione umana e dei servizi alla persona, attraverso le loro forme associative.
c. La promozione di adeguate politiche familiari che tutelino e sostengano le funzioni della famiglia ed i suoi diritti, secondo quanto indicato dalla Carta dei diritti della famiglia della Santa Sede (1983).
www.forumfamiglie.org/allegati/documento_766.pdf
Testo unificato adottato il 26 marzo 2015
Relatore Sen. Monica Cirinnà www.monicacirinna.it/cms/chi-sono/blog.html
Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze
www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=909941
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FRANCESCO VESCOVO di Roma
Famiglie rendono umano il mondo, siano difese da miseria.
La guerra è la “madre” di tutte le povertà. Così il Papa all’udienza generale in Piazza San Pietro, durante la quale ha riflettuto sulla vulnerabilità della famiglia “nelle condizioni della vita che la mettono alla prova”. L’auspicio di Francesco è stato dunque ad “aiutare le famiglie a andare avanti”, nonostante povertà e miseria che colpiscono affetti e legami.
Sono “tanti” oggi i problemi che “mettono alla prova la famiglia”, primo tra tutti la povertà per chi vive nelle “periferie delle megalopoli” come nelle “zone rurali”. Il pensiero di Francesco è subito andato alla miseria, al degrado di tali realtà, spesso aggravate dalla guerra:
“La guerra è sempre una cosa terribile. Essa inoltre colpisce specialmente le popolazioni civili, le famiglie. Davvero la guerra è la “madre di tutte le povertà”, la guerra impoverisce la famiglia, una grande predatrice di vite, di anime, e degli affetti più sacri e più cari”.
Pianificatori benessere non capiscono che la famiglia è scuola di umanità. Eppure, ha osservato il Papa, “ci sono tante famiglie povere che con dignità cercano di condurre la loro vita quotidiana”, confidando nella benedizione di Dio. Ciò, però, “non deve giustificare la nostra indifferenza”, semmai il fatto che “ci sia tanta povertà” – ha proseguito – deve aumentare la nostra vergogna. La famiglia comunque, anche in tali condizioni, continua “a formarsi e persino a conservare – come può – la speciale umanità dei suoi legami”: “Il fatto irrita quei pianificatori del benessere che considerano gli affetti, la generazione, i legami famigliari, come una variabile secondaria della qualità della vita. Non capiscono niente! Invece, noi dovremmo inginocchiarci davanti a queste famiglie, che sono una vera scuola di umanità che salva le società dalla barbarie”.
Non cedere a violenza e denaro. L’invito del Pontefice è infatti a non cedere “al ricatto” della violenza e del denaro, rinunciando agli affetti familiari: “Una nuova etica civile arriverà soltanto quando i responsabili della vita pubblica riorganizzeranno il legame sociale a partire dalla lotta alla spirale perversa tra famiglia e povertà, che ci porta nel baratro”.
Famiglia come pilastro, D’altra parte l’economia odierna, ha constatato Francesco, “si è spesso specializzata nel godimento del benessere individuale”, praticando “largamente” lo sfruttamento dei legami familiari e cadendo in “una contraddizione”: “L’immenso lavoro della famiglia non è quotato nei bilanci, naturalmente! Infatti l’economia e la politica sono avare di riconoscimenti a tale riguardo. Eppure, la formazione interiore della persona e la circolazione sociale degli affetti hanno proprio lì il loro pilastro. Se lo togli, viene giù tutto”.
I bambini vogliono l’affetto familiare. La questione, ha sottolineato, non è solo di pane, bensì anche di istruzione, di sanità. Lo sanno bene, ha fatto notare il Papa, i bambini, quelli “denutriti e malati” in tante parti del mondo o quelli, “privi di tutto”, a cui brillano gli occhi pur stando “in scuole fatte di niente”, che “mostrano con orgoglio la loro matita e il loro quaderno” o guardano “con amore il loro maestro o la loro maestra”: “Davvero i bambini lo sanno che l’uomo non vive di solo pane! Anche l’affetto famigliare; quando c’è la miseria i bambini soffrono, perché loro vogliono l’amore, i legami famigliari”.
Miseria sociale distrugge famiglia. L’esortazione del Papa è stata allora a “noi cristiani” ad essere “sempre più vicini alle famiglie che la povertà mette alla prova”, invitando a pensare ai tanti papà o alle tante mamme senza lavoro, la cui “famiglia soffre, i legami si indeboliscono”:
“La miseria sociale colpisce la famiglia e a volte la distrugge. La mancanza o la perdita del lavoro, o la sua forte precarietà, incidono pesantemente sulla vita familiare, mettendo a dura prova le relazioni. Le condizioni di vita nei quartieri più disagiati, con i problemi abitativi e dei trasporti, come pure la riduzione dei servizi sociali, sanitari e scolastici, causano ulteriori difficoltà”.
La Chiesa sia povera. Per non parlare – ha aggiunto – del “danno causato alla famiglia da pseudo-modelli”, diffusi dai mass-media e “basati sul consumismo e il culto dell’apparire, che influenzano i ceti sociali più poveri e incrementano la disgregazione dei legami familiari”. La Chiesa – ha poi ricordato il Pontefice – “è madre” e per questo “non deve dimenticare questo dramma dei suoi figli”: “Anch’essa dev’essere povera, per diventare feconda e rispondere a tanta miseria. Una Chiesa povera è una Chiesa che pratica una volontaria semplicità nella propria vita – nelle sue stesse istituzioni, nello stile di vita dei suoi membri – per abbattere ogni muro di separazione, soprattutto dai poveri”.
L’esortazione è stata alla preghiera e all’azione, “per rendere le nostre famiglie cristiane protagoniste di questa rivoluzione della prossimità famigliare”, che ora è così “necessaria”, non dimenticando che “il giudizio dei bisognosi, dei piccoli e dei poveri anticipa il giudizio di Dio”
Giada Aquilino
Bollettino radiogiornale radio vaticana 3 giugno 2015 http://it.radiovaticana.va/radiogiornale
testo ufficiale http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150603_udienza-generale.html
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GENDER
Il “genere” è una teoria?
Il passaggio che sta vivendo la Chiesa, finalmente una chiesa che non si limita a difendere se stessa e la sua storia ma cerca di trasmettere il suo messaggio di liberazione al mondo, va vissuto, può essere vissuto, dai credenti con pazienza, fiducia, rispetto di tutte le posizioni, proprio per essere fedele a se stessa. Ma non senza vigilanza: le troppe superficialità, disattenzioni, leggerezze, cui si è ricorsi come risposte alla sfida della modernità, rischiano di riproporsi nel contesto di tentazioni di semplificazione polemica non più giustificata.
E’ una reazione sorta naturalmente in me di fronte ai passaggi di discorsi di Papa Francesco e del cardinal Bagnasco, che la stampa on line è stata rapidissima a riportare, ma temo senza nemmeno capire di che si parlava, a proposito di una cosiddetta “teoria del genere”, che insidierebbe pericolosamente l’identità femminile, e non solo quella femminile, in una direzione antropologicamente disastrosa. Il rischio c’è, proprio perché si confondono due temi, certamente non senza connessioni fra loro, ma che mi appaiono radicalmente distinti nell’oggetto, oltre che entrambi delicatissimi.
Il fatto è che solo da poco ci si è posti di fronte a quella che si chiama “teoria del genere”, e non senza pericolose confusioni fra due diversi significati che tendono a confondersi entro lo stesso termine.
Da una parte c’è il senso della generalissima e fondante distinzione fra due soggetti, espressa nel patrimonio genetico e nei lasciti dello svilupparsi culturale dell’umano, nelle pratiche del rapporto uguaglianza-differenza fra i due, con un’attenzione nuova nella ricerca, anche se ancora non consolidata, al rapporto donne-storia, donne-sociologia, alla stessa fondazione filosofica di questo essere duplice dell’umanità.
Dall’altro c’è l’emergere esplicito di pulsioni sessuali individuali «altre», non segnate dalla riproduzione, sia quando legate a difformità corporee che quando a scelte personali, da comprendere e affrontare con rispetto, ma che proprio per il loro carattere soggettivo, e soggettivamente multiplo, variabile, non possono dar luogo a una fondazione di “generi” intesi come categorie universali.
E la confusione è aggravata dal fatto che, di fronte al dato ovvio dell’essere «due» dell’umanità, quella che finora è mancata è proprio una teoria di livello filosofico razionale alto. La storia della filosofia sull’umano è stata di fatto, senza rendersene conto, una filosofia del maschile identificato con l’intera umanità; ha fatto ben poco i conti col fatto che la vita umana è caratterizzata dall’esistenza di due generi, qualcosa che segna la stessa creazione, sanzionando in positivo la parità di destino e natura, il valore della relazione, e in negativo il segno dell’inadeguatezza, della sofferenza. Questo dato finora è stato vissuto come un fatto, ovvio e naturale, che ha influenzato costumi e leggende, leggi e pratiche sociali, interrogativi e prepotenze. Ha stimolato verifiche e correzioni adeguate. È stato risolto nella varietà dei rapporti di forza, delle convenienze prevedibili, degli aggiustamenti ragionevoli e dei sussulti di coscienza. Ma certo non ha mai dato luogo a una “teoria”. Lo stesso messaggio cristiano, che pure ha portato un nuovo soffio di vita, non ha mai prodotto una teoria sui due.
Ricordo il caso di San Tommaso, per cui l’anima nel feto si produce più tardi nella femmina che nell’uomo, per cui l’adiutorium è finalizzato solo alla riproduzione (perché per altro è necessario un altro uomo). Ma la stessa nascita dell’Università come luogo dei saperi è segnata, e in un luogo e in un momento storico di grande forza femminile, da una violenza antifemminile testimoniata fin dagli inizi dallo scontro durissimo fra quella di Parigi e la vetero femminista Christine de Pisan, che aveva tutti i titoli per accedervi come docente. Alle donne è rimasto rifiutato il latino (simbolo del sacro?) e questo per fortuna ha spinto Dante a scrivere in italiano, per poter essere letto da donne, senza di che non credo ci sarebbe nemmeno l’italianità.
Anche alla Chiesa non solo sono mancate le fondamentali basi teoriche per affrontare i problemi del cambiamento radicale della condizione femminile in epoca moderna; è mancata la coerenza di un messaggio di autocorrezione. Ha via via finito con l’accettare nei fatti cambiamenti radicali, ma non ha ancora registrato davvero come cosa sua la riflessione di tante teologhe e le amarezze di tante credenti. Ha in qualche modo rimosso il problema, ancora aperto, del rapporto delle donne con il sacro, risolto in parte abolendo sì l’assurdo della purificazione dopo il parto della pratica ebraica (nessuna purificazione per l’uomo), ma restando ferma sull’esclusione delle donne dall’esercizio sacerdotale.
Non c’è quindi un’unica teoria del genere. C’è una teoria di approfondimento del dato incontrovertibile dell’esser duplice dell’umanità, affrontando le questioni chiave dell’essere due: uguaglianza differenza, relazione, nel dinamismo delle sue radici e delle sue variabili vicende storiche. C’è una questione di ascolto e comprensione delle differenze dei singoli, ereditate nel corpo o indotte dalla vita, in conflitto o in relazione con la fedeltà a se stessi. Ma si tratta di due temi diversi, da tenere ancora separati e da affrontare entrambi senza tabù, e senza confusioni.
Paola Gaiotti de Biase c3DEM (costituzione, concilio, cittadini)
invio del 7 giugno 2015 www.c3dem.it/16409
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MEDIAZIONE FAMILIARE
Le basi della mediazione familiare nella nostra Costituzione.
Numerosi sono gli indici normativi che avvalorano la veste costituzionale della mediazione principalmente di quella sic et simpliciter “senza aggettivi”, ossia considerata in una visione unitaria.
www.governo.it/Governo/Costituzione/principi.html
In primo luogo è da tenere presente il carattere compromissorio, a cominciare dall’art. 1, della nostra Carta Costituzionale, ossia il fatto che essa fu il frutto di una convergenza tra forze sociali e politiche diverse e talora contrapposte (una sorta di mediazione interculturale ante litteram), ciò a conferma che nella nostra cultura, giuridica e non, c’è sempre stata una tendenza mediativa. Secondo l’autorevolissima impostazione del costituente e costituzionalista Costantino Mortati i principi fondamentali nella Costituzione possono identificarsi nei seguenti: principio democratico, principio personalista, principio pluralista, principio lavorista.
Questi principi, desumibili non solo dai primi dodici articoli della Costituzione intitolati «Principi fondamentali» ma da tutto il sistema costituzionale, presentano più specificazioni, alcune delle quali si possono applicare alla mediazione in senso lato ed anche a quella familiare. I principi democratico, personalista e pluralista sono già di per sé esplicativi e quindi ben si adattano alla mediazione familiare, perché essa mira a ripristinare la democraticità in seno alla famiglia, a tutelare ogni persona della famiglia, in particolare quelli deboli, e a dare ascolto alle più voci del e nel conflitto familiare.
Ricondurre la mediazione familiare nell’alveo del principio lavorista può apparire un’interpretazione forzata ma non è così. Innanzitutto perché essa è una forma di social work, è indiscutibilmente un’attività o una funzione che concorre al progresso materiale o spirituale della società (art. 4 comma 2 Cost.). Anche perché è un servizio a sostegno della famiglia, che è la prima culla del progresso materiale e spirituale della società.
Come diceva lo scrittore irlandese George Bernard Shaw, “forse il più grande servizio sociale che possa essere reso da chiunque al Paese e all’umanità è formarsi una famiglia”.
Inoltre, la mediazione familiare incarna i principi dell’art. 2 della nostra Costituzione soprattutto nella parte relativa alla solidarietà. Solidale, fra i vari significati, ne ha anche uno in meccanica quale elemento di un meccanismo rigidamente collegato ad un altro. Quest’accezione ben si addice al ruolo genitoriale, quanto a quello familiare in generale, perché i genitori, anche se separati o divorziati, non smettono d’essere tali nei confronti dei figli ed anche tra gli ex-coniugi possono permanere delle conseguenze di natura patrimoniale che danno luogo alla cosiddetta solidarietà post-coniugale.
Questi principi generali ed altre regole costituzionali riferibili alla mediazione familiare fungono per quest’ultima come principi ispiratori, criteri direttivi e limiti.
Dalla dizione dell’art. 29 comma 1 Costituzione, in concordanza con tutta la disciplina costituzionale della famiglia e con i principi fondamentali (in modo particolare il principio di sussidiarietà), emerge l’autonomia della famiglia, che è il punto di partenza e di arrivo della mediazione familiare. Il ricorso a questo intervento deve essere frutto di una scelta consapevole di una famiglia in crisi. L’operatore di mediazione familiare deve accompagnarla a scelte autonome in modo tale che la famiglia non divenga oggetto ma soggetto dell’eventuale eteronomia del giudice. Leggendo a ritroso l’art. 29 comma 1 Costituzione si possono rintracciare anche delle indicazioni per il percorso di mediazione familiare; in altre parole, partendo dalla consapevolezza che è incrinato il matrimonio (o la convivenza more uxorio) i confliggenti rivedono su cosa sia stato fondato fino ad allora il loro sodalizio e su cosa debbano fondarlo per salvaguardare la “società naturale” che è la famiglia con i suoi diritti.
Un altro valore costituzionalmente protetto, nell’art. 29 comma 2 Costituzione, è l’unità familiare, che può essere definita principio eziologico e teleologico della mediazione familiare. Quando l’unità familiare è minata l’intervento mira ad interpretare la conflittualità e a garantire un minimum di unità familiare ai figli. Nella fase successiva alla rottura, è chiamata, invece, ad aiutare le famiglie ricostituite o ricomposte. In altre parole, la mediazione aiuta la famiglia a recuperare la propria progettualità (ciò che in gergo si chiama self empowerment) nella metamorfosi della crisi. L’espressione costituzionale “unità familiare” è stata lungimirante perché, laddove non si possa avere un’unica famiglia sotto lo stesso tetto, bisogna garantire l’univocità dell’ambiente familiare “riconosciuto che il fanciullo per il pieno ed armonioso sviluppo della sua personalità deve crescere in un ambiente familiare, in un’atmosfera di felicità, amore e comprensione” (dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). Dall’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 comma 2 Cost.) deriva anche la corresponsabilità nella crisi familiare e del suo esito; assunzione della corresponsabilità che la mediazione familiare vuole ridestare.
Passando poi all’art. 30 Costituzione, è chiaro che la mediazione è a sostegno della genitorialità ed in particolare della funzione educativa. Anzi è un servizio di educazione dei genitori, esigenza oggi sempre più pressante. La mediazione, pertanto, adempie essa stessa una funzione educante e educativa (esiste proprio la dizione “mediazione educativa familiare”). Parafrasando la terminologia dell’art. 30, si può affermare che interviene nei casi di incapacità dei genitori e cerca di rendere compatibili gli interessi confliggenti e le posizioni conflittuali della crisi familiare. Non solo, la mediazione familiare si preoccupa di rendere compatibili le situazioni giuridiche dei figli nella prospettiva di una famiglia allargata o di altra “costellazione familiare”. Inoltre, l’aggettivo “compatibile” (da “compatire”, partecipare all’altrui patimento) si addice alla funzione della mediazione perché vuol far comprendere che la sofferenza è comune e l’uno è concausa della sofferenza dell’altro e per questo avviare ad una conciliazione (“compatibile” significa comunemente “conciliabile”) per la serenità propria e altrui.
Dell’art. 31 si possono adattare alla mediazione familiare le locuzioni “formazione della famiglia” e “adempimento dei compiti relativi”, nel senso che la mediazione agevola la coppia nella formazione di un nuovo assetto familiare e nell’adempimento dei compiti relativi. La locuzione “compiti” (negli artt. 30 e 31) richiama l’altra “competenze”, sempre più usata in riferimento ai genitori, e la mediazione familiare è un accompagnamento verso particolari e nuove competenze genitoriali in una situazione che può essere considerata di genitorialità difficile.
Facendo un’interpretazione adeguatrice ed evolutiva degli articoli 31 e 37 comma 1, si potrebbe dire che la mediazione familiare aiuta la donna, tanto vittima quanto fomentatrice della conflittualità familiare (per esempio quelle donne che ostacolano le relazioni tra i padri e i figli), per consentirle l’adempimento della sua essenziale funzione familiare (soprattutto se diverrà, nel caso di affidamento dei figli, il cosiddetto genitore collocatario) e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La protezione (etimologicamente “coprire avanti”) si addice alla mediazione sia per lo svolgimento nella stanza della mediazione sia per la progettualità.
Dal combinato disposto degli articoli 2, 3, 13 c.1, 21 c.1, 30 e 31 della Costituzione risulta chiara la valorizzazione dell’identità e dell’autonomia del figlio minorenne che, in una prospettiva dinamica, tende a renderlo responsabile protagonista della propria vita, attraverso scelte che egli deve essere posto in grado di operare consapevolmente. La promozione dell’autonomia del minore d’età, come soggetto che deve percorrere un itinerario di formazione e di responsabilizzazione, per essere pronto ad assumere un ruolo attivo nella società, ha trovato uno dei significativi momenti di realizzazione nella mediazione familiare che cerca di salvaguardarla in vari modi, per esempio facendo partecipare i figli ad alcuni incontri (anche se questa modalità è dibattuta). Quest’aspetto è convalidato dal titolo e dal contenuto del documento “Per una mediazione a misura di bambini” promosso dall’Unicef Italia nel 2005, ma purtroppo dimenticato. Sicché prendendo spunto dal dettato dell’art. 31, la mediazione può essere definita uno degli istituti di protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù.
Continuando la lettura della Costituzione si giunge all’art. 32 e la mediazione può essere certamente considerata un mezzo di tutela della salute (intesa come integrità psicofisica e pertanto in stretta connessione con la libertà personale di cui all’art. 13 Cost.), soprattutto di quella dei bambini, perché aiuta a prevenire o ad attenuare o a segnalare, in una sola parola a decodificare varie patologie quali la depressione infantile, i disturbi dell’alimentazione e la sindrome di alienazione genitoriale o parentale (Parental Alienation Syndrome – PAS – SAP se letta in italiano). Quest’ultima, simile e confusa con altre sindromi variamente definite, dalla sindrome del bambino maltrattato alla sindrome del genitore malevolo (o di Turkat), è molto controversa in giurisprudenza (in particolare dalla Corte di Cassazione) e in dottrina soprattutto perché non è annoverata nel DSM V, il manuale diagnostico dei disturbi mentali. Accogliendo il messaggio “non c’è salute senza salute mentale” (dalla Conferenza Ministeriale Europea dell’OMS ad Helsinki nel 2005) e “in una società che presenta una maggiore domanda di salute mentale” (dalle Linee di indirizzo nazionali per la salute mentale del 21 marzo 2008), la mediazione promuove la salute mentale nella comunità familiare ed extrafamiliare, visto che i malesseri familiari possono causare gravi disagi psichici e sociali.
Fondamentalmente la mediazione familiare prepara alla tanto agognata “bigenitorialità” (anche se sarebbe sufficiente parlare di genitorialità), perché consente di raccordare “la ricerca della paternità” (art. 30 comma 4 Cost.) e l’“essenziale funzione familiare” materna (art. 37 comma 1 Cost.). La mediazione riconduce al significato profondo della genitorialità che è la generatività dell’amore e nell’amore: “Un primo presupposto educativo è che i figli, più che di due genitori che “li” amano, hanno bisogno di due genitori che “si” amano” (Aurelio Molè, giornalista). Due persone adulte, separate o divorziate, anche se non si amano più come coniugi (o come conviventi) devono e possono amarsi come persone, di quell’amore espressione di massima adultità.
dr Margherita Marzario studio Cataldi 1 giugno 2015
www.studiocataldi.it/articoli/18507-le-basi-della-mediazione-familiare-nella-nostra-costituzione.asp
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SINODO SULLA FAMIGLIA
Il Sinodo in libreria.
L’ultima proposta arriva dal vescovo di Orano, il domenicano francese Jean-Paul Vesco *, che ha scritto un piccolo testo per spiegare l’esigenza di non mettere in relazione, in modo esclusivo, indissolubilità e matrimonio sacramentale. Visto che ogni amore di coppia, quando è autentico e profondo, porta in sé una traccia definitiva e incancellabile «non bisogna fondere in una sola e medesima idea unicità del matrimonio e indissolubilità di ogni amore coniugale». Un’idea dirompente – ma anche affascinante – per motivare le buone ragioni dei divorziati risposati a chiedere perdono. E la decisione della Chiesa di concederlo. Ogni vero amore è indissolubile (Queriniana, pagg. 108, euro 11) è solo l’ultima riflessione dell’ampio dibattito avviato in vista del Sinodo di ottobre sul tema dei divorziati risposati.
Una discussione sollecitata dallo stesso questionario diffuso dalla Segreteria generale del Sinodo insieme ai cosiddetti Lineamenta.
La domanda numero 38, in considerazione della necessità di «un ulteriore approfondimento» della pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati, chiedeva esplicitamente in «quali prospettive muoversi? Quali i passi possibili? Quali suggerimenti per ovviare a forme di impedimenti non dovute o non necessarie?». E citava in modo esplicito sia la prassi ortodossa – che com’è noto offre la possibilità di un secondo matrimonio non sacramentale al termine di un percorso penitenziale – sia la distinzione tra forme oggettive di peccato e circostanze attenuanti.
Ora, a pochi giorni dalla pubblicazione dell’Instrumentum laboris, che farà sintesi di tutte le risposte arrivate dai cinque continenti e servirà come base per la discussione, non appare inutile ricordare alcuni dei molti saggi che – all’indomani della proposta di rinnovamento formulata dal cardinale Walter Kasper al concistoro del febbraio 2014 – hanno affrontato il rapporto, complesso e spesso faticoso, tra indissolubilità e matrimonio.
Ad avviare il dibattito, per limitarci agli ultimi mesi, Andrea Grillo, docente di teologia sacramentaria e padre di famiglia, che nel suo Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati (Cittadella, pagg. 90, euro 9,80), ha proposto di riammettere i divorziati risposati alla comunione in circostanze determinate e non come prassi generale, introducendo il concetto della “morte del vincolo”. Una formula che permetterebbe il riconoscimento delle seconde nozze senza fondarsi sulla “inesistenza originaria” del primo matrimonio.
Anche padre Oliviero Svanera, francescano, docente di teologia morale, ha ripreso lo stesso tema in un testo – Amori feriti. La Chiesa in cammino con i divorziati risposati (Edizioni Messaggero Padova, pagg. 154, euro 14) – in cui accanto a numerose testimonianze di separati, apre alla possibilità di nuove aperture, spiegando che «l’eucaristia è nutrimento dei deboli, non dei forti, rimedio e sostegno delle fragilità, non cibo per chi si sente giusto e arrivato».
Di grande spessore teologico il contributo offerto dal cardinale Dionigi Tettamanzi nel suo Il Vangelo della misericordia per le “famiglie ferite”(San Paolo, pagg. 173, euro 9,90), che motiva non solo come “pensabile” ma anche “plausibile” la ricezione dei sacramenti della penitenza e dell’eucarestia da parte dei divorziati risposati, guardando al sacramento come segno della misericordia di Dio, a patto però che «si eviti assolutamente qualsiasi confusione sull’indissolubilità del matrimonio».
La stessa posizione sintetizzata qualche mese dopo dai coniugi tedeschi Heidi e Thomas Ruster – lui teologo lei consulente familiare – che in Finché morte non vi separi? L’indissolubilità del matrimonio e i divorziati risposati. Una proposta (Elledici, pagg. 195. euro 15), con la prefazione del cardinale Karl Lehmann, suggeriscono di risolvere la questione riconoscendo le seconde nozze come «non sacramentali».
Luciano Moia Avvenire 2 giugno .2015.
www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/06/il-sinodo-in-libreria.html#more
Novità: “Ogni amore vero è indissolubile” di J.-P. Vesco *
Un nuovo volume viene ad arricchire il panorama editoriale in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi. Pubblico qui di seguito le prime pagine dell’Editoriale con cui ho presentato l’Edizione italiana di Jean-Paul Vesco, Ogni amore vero è indissolubile. Considerazioni in difesa dei divorziati risposati, Brescia, Queriniana, 2015.
Una comunione riconosciuta. L’amore indissolubile come condizione del perdono dei divorziati risposati. “Un giorno, in nome della verità, bisognerà che noi, pastori della chiesa, domandiamo perdono per la sofferenza sopportata da persone alle quali il perdono sacramentale e l’accesso all’eucaristia saranno stati rifiutati forse ingiustamente. E io prego Dio che abbia misericordia di noi”.
Scritto espressamente per il lavoro di ripensamento della disciplina ecclesiale in vista del duplice appuntamento sinodale (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e pensato esplicitamente “in comunione con tutte le persone per le quali l’amore della Chiesa ha aggiunto pena a pena”, il piccolo libro di Mons. Jean-Paul Vesco costituisce un gioiello di finezza teologica, di sensibilità pastorale e di lucidità giuridica.
Il testo si presenta subito con caratteristiche esemplari: ha il piglio diretto e immediato di una riflessione senza apparato critico, mantiene sempre un contatto assai forte con il magistero ecclesiale recente, sa però far emergere subito i limiti della disciplina scaturita da Familiaris Consortio (=FC) 83-84, mostrandone tutte le contraddizioni umane, ecclesiali, teologiche e giuridiche. In questo approccio pacato e lineare, Mons. Vesco manifesta tuttavia una grande abilità dialettica e un modo originale di articolare l’argomentazione, utilizzando i “luoghi comuni” della disciplina attuale in modo assai creativo e capovolgendone spesso il significato e il valore.
Come vedremo, ad un esame attento la sua tesi centrale applica il carattere “indissolubile” non solo alle prime nozze, ma anche alle seconde. A ciò unisce, sul piano giuridico, una teoria che supera la nozione di “persistenza ostinata nella condizione di peccato grave” – motivo della scomunica sacramentale – applicata al “divorziato risposato” e così apre la via ad una sostanziale modifica della disciplina stabilita da FC, aprendo l’accesso all’ammissibilità della riconciliazione e della comunione per i soggetti che attraversano la crisi difficile del proprio matrimonio e si legano in una seconda unione.
Ciò che sorprende il lettore è il fatto che l’esigenza di una modifica della disciplina attuale sia fatta scaturire dal riconoscimento della “indissolubilità” come caratteristica di “ogni vero amore”.Il tono prevalente del discorso è quello tipico del pastore, preoccupato di poter esercitare il proprio “ministero episcopale” attraverso una disciplina che non costringa l’azione pastorale all’afasia, all’impotenza o alla finzione. Siccome il testo, pur in questo fondamentale tono spirituale e pastorale, è costruito mediante una “matematica argomentativa” assai raffinata, merita di essere presentato nella sua articolazione dettagliata, in modo da fornire al lettore gli strumenti per intenderlo appieno.
1. La struttura del testo. Il volumetto, di poco più che 100 pagine, si presenta con una raffinata struttura, costruita come una sequenza di 8 domande, o quaestiones. Vorrei qui ricordare che Mons. Vesco appartiene all’ordine domenicano e onora la grande tradizione scolastica di appartenenza. In sequenza ecco le 8 questioni, con i relativi contenuti di risposta:
- Che cosa dice la Chiesa sul divorzio? E si risponde con una precisa esposizione del contenuto del testo più recente al riguardo, ossia Familiaris Consortio 83 e 84, chiarendo le disposizioni e mostrandone con molta franchezza tutti i limiti.
- Che cosa intendiamo quando parliamo di “divorziati risposati”? Dove si esprime l’esigenza di una chiarificazione dell’espressione “divorziati-risposati”, mostrando come il pregiudizio si insinui nella parola, orientando negativamente un giudizio lucido e una pastorale sapiente.
- Che cosa dice il NT sul divorzio? Un’analisi dei testi fondamentali dei vangeli e delle lettere paoline permettono un utile discernimento sulla Parola di Dio e sul suo vero significato per la condizione ecclesiale contemporanea.
- Che cosa si intende quando si parla di indissolubilità del matrimonio? Con una lucida riflessione, si sposta il “luogo” dell’indissolubilità dalla dimensione teologica a quella naturale. Indissolubile è, per la tradizione cristiana, ogni vero amore. Questo crea una nuova lettura del rapporto tra prima unione e seconda unione.
- Che cosa si intende quando si dice: “Tu non hai il diritto?” Dove si introduce una preziosa distinzione tra “reato istantaneo” e “reato permanente”, per cercare un fondamento convincente alla negazione della comunione ai divorziati risposati e riaprire la possibilità della loro assoluzione e comunione.
- Quali conseguenze pratiche derivano dalla distinzione tra reato permanente e reato istantaneo Da tale distinzione derivano una serie di importanti conseguenze sia per la possibilità di pronunciarsi su un’azione passata dalla quale dipendono conseguenze nel presente e nel futuro, sia per considerare più adeguatamente le ragioni dello scacco nel matrimonio sacramentale, sia, indirettamente, per considerare la condizione dei divorziati non risposati.
- Quali sono oggi le alternative? Dove si chiarisce come le 4 alternative oggi offerte ai “divorziati risposati” (ossia la separazione dal secondo coniuge, il digiuno eucaristico, l’astinenza dagli atti propri dei coniugi o il riconoscimento dell’originaria nullità del vincolo) siano inadeguate ad offrire una vera risposta pastorale, che operi un’autentica sintesi tra verità e misericordia.
- Quali proposte avanzare? Riassumendo il percorso, si offre una via di soluzione che, recuperando sia il valore indissolubile di ogni vero amore, sia l’irreversibilità della condizione acquisita nella seconda unione, predisponga un percorso di itinerario penitenziale e di superamento del digiuno eucaristico come prospettiva di cura pastorale per coloro che si trovano a vivere una seconda relazione di vero amore.
2. Lo sviluppo della tesi teologica centrale. Si dovrebbe considerare come il nocciolo della tesi di Jean-Paul Vesco stia in una delicata riequilibratura tra teologia e diritto. Egli ripete, più volte, che “il diritto può rimediare alla scollatura tra dottrina e realtà”. Quando egli ritorna su questa affermazione non intende certo aumentare il livello di “finzione” cui proprio lo strumento canonico si è prestato negli ultimi decenni. Invece, per uscire da questa “impasse”, occorre una duplice chiarificazione sistematica, alla quale contribuiscono, precisamente, la teologia e il diritto. Da un lato, si deve chiarire meglio il concetto di “indissolubilità”; dall’altro si deve chiarire in quale senso la possibilità di assoluzione è subordinata alla “cessazione della condizione di peccato”.
Su questi due fronti il “lavoro teologico” proposto da Vesco è raffinato ed efficace. E procede, anzitutto, da un profondo ampliamento della nozione di “indissolubilità”: la sua riflessione procede rigorosamente in modo sistematico, cercando di non scivolare in una pericolosa identificazione della “indissolubilità” con la specificità teologica del sacramento. In altri termini, salvaguardando ciò che S. Tommaso ha espresso, icasticamente, nella sua Summa Contra Gentiles, quando ha affermato che “generatio ad multa dicitur…”: le ragioni del sacramento sono molto più ampie e complesse del suo senso teologico immediato. Per questo anche la sua logica “indissolubile” deve onorare, al tempo stesso, tanto la relazione originaria quanto la nuova relazione. La condizione della “indissolubilità” non è estrinseca, ma intrinseca ad ogni vero amore. E permette, pertanto, di valutare sia i “divorziati risposati”, sia i “divorziati non risposati” secondo una logica più complessa di quella meramente formale.
3. La finezza giuridica. L’ermeneutica giuridica, in cui Vesco eccelle, si concentra invece su una rilettura del concetto di “persistenza ostinata nello stato di peccato grave” (cfr. can. 915: “aliique in manifesto gravi peccato obstinate perseverantes”), che viene esaminata mediante una distinzione – spiccatamente giuridica –tra “reato permanente” e “reato istantaneo”. Se, come abbiamo chiarito sopra, si acquisisce una nozione più estesa di indissolubilità, si deve, di conseguenza, spostare la condizione dei “divorziati-risposati” dalla condizione di “reato permanente” alla condizione di “reato istantaneo”. Ciò, evidentemente, è reso possibile da una diversa condizione sociale, culturale ed ecclesiale di tali soggetti.
Poiché la distinzione, che la tradizione del “diritto penale” conosce assai bene, introduce un criterio di considerazione diverso del rapporto tra un’alleanza matrimoniale, e una seconda, che, se da un lato costituirebbe una forma del “permanere ostinatamente” in condizione di peccato grave, dall’altro dovrebbe anche essere riconosciuta (anche teologicamente) come definitiva e indissolubile. Questo paradosso viene ulteriormente illuminato da un esempio molto utile. Nel diritto penale francese (e italiano) il reato di “bigamia” viene giustamente considerato un “reato permanente” e solo il venir meno di uno dei due matrimoni può interrompere l’azione delittuosa. La Chiesa sembra aver interpretato la condizione dei “divorziati-risposati” sull’esempio di questa fattispecie giuridica penale. Viceversa, se vi è stato un atto che ha dato inizio ad una seconda relazione matrimoniale, tutti gli atti successivi – di disposizione di sé, dell’altro, dei figli, dei beni – fanno parte non del “reato”, ma delle conseguenze più o meno definitive di quell’atto. Vi è tra loro un’evidente e necessaria relazione, che però non è adeguato considerare come un’identità. E non è possibile che si chieda, a chi vive questa seconda unione, semplicemente di “interrompere l’azione illecita”, confondendo un piano con l’altro.
Di qui scaturisce l’esigenza di “inquadrare il fatto di contrarre una seconda alleanza nella categoria dei reati istantanei i cui effetti perdurano nel tempo” (71). L’Autore chiarisce ulteriormente questo passaggio decisivo: “C’è da una parte un atto della volontà, probabilmente colpevole, quello di impegnarsi in una nuova alleanza. E ci sono, d’altra parte, tutti gli atti della volontà, che saranno posti giorno dopo giorno e nel corso degli anni, e che sono della stessa natura di quelli posti in essere da tutte le coppie che costruiscono un destino comune e ne assumono insieme le difficoltà” (71-72). Si può continuare a leggere questi atti come “persistenza ostinata nello stato di peccato grave” solo da parte di una Chiesa che abbia perso il senso della complessità della vita e delle forme che essa assume nel mondo, qui ed ora. L’idea che “solo questa” sarebbe la fedeltà alla parola del Vangelo, ripugna non solo al buon senso, ma alla rivelazione stessa.
Andrea Grillo in “Come se non” – www.cittadellaeditrice.com/munera – 5 giugno 2015
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201506/150607grillo.pdf
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