NewsUcipem n. 544 –3 maggio 2015

NewsUcipem n. 544 –3 maggio 2015

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line   direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

            Le news sono così strutturate:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • link a siti internet per documentazione.
  • Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.
  • La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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            Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti

dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526 richiedere a                                        newsucipem@gmail.com

dal n. 527 al n. 543 andare su

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ADDEBITO                                       Separazione ed addebito di colpa.

AFFIDAMENTO CONDIVISO       Se il genitore non affidatario non visita il figlio commette reato.

CHIESA CATTOLICA                    Dal Giubileo un decalogo conciliare per il Sinodo.

Contraccezione e aborto. Qual è il male maggiore.

La partecipazione delle donne alla vita della Chiesa.

CONSULTORI familiari UCIPEM  Cosenza. Tavola rotonda La consulenza alla coppia infertile”.

                                               Roma 1 – via della Pigna. Newsletter di aprile 2015

DALLA NAVATA                            5° Domenica di Pasqua – anno B –3 maggio 2015.

FORUM Associazioni Familiari       Giornata Internazionale della Famiglia 2015.

FRANCESCO VESCOVO di Roma La testimonianza della bellezza del matrimonio.

GIURISPRUDENZA                        Il mosaico della famiglia tra costituzione, giurisprudenza e realtà

PROCREAZIONE ARTIFICIALE Coppie infertili, illusioni in provetta.

SEPARAZIONE E DIVORZI                      Separazioni e divorzi in Comune. I chiarimenti del Ministero

SINODO DEI VESCOVI                  Risposta della Conferenza episcopale tedesca.

Gay e divorziati risposati: 572 preti USA rispondono

Lessico familiare: le vostre risposte alle 46 domande.

La proposta di una “terza via”

La via dell'”ordo paenitentium”

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ADDEBITO

Separazione ed addebito di colpa.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 8713, 29 aprile 2015.

La moglie intrattiene relazioni omosessuali: irrilevante per la Cassazione. Quello che rileva è l’intollerabilità della situazione coniugale.

Il giudice, per pronunciare la separazione, deve verificare l’esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, la convivenza. Verificata la situazione di intollerabilità anche rispetto ad un solo coniuge, questi ha diritto di chiedere la separazione.

Studio Sugamele        30 aprile 2015                sentenza      www.divorzista.org/sentenza.php?id=10015

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AFFIDAMENTO CONDIVISO

Se il genitore non affidatario non visita il figlio commette reato.

Disinteressarsi dei figli e non esercitare il diritto-dovere di visita può configurare reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare.

            La condotta del genitore assente che si disinteressa del rapporto con i figli e non esercita il diritto-dovere di visita nei loro confronti può configurare reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare [Art. 570 cod. pen.].

            Secondo la giurisprudenza [Cass. sent. n. 30151/2007] il rifiuto di intrattenere qualunque rapporto con i figli, anche quando questi hanno raggiunto la maggiore età, determina la violazione dei doveri costituzionali propri di ogni genitore e può integrare reato. Ciò a prescindere dal fatto che il figlio abbia subito o meno danni biologici a causa dell’assenza del genitore (per es. disturbi psico-fisici).

            Quest’ultima circostanza può semmai rilevare in materia civilistica per ottenere il risarcimento, tanto più elevato quanto più è prolungato l’assenteismo del genitore, l’effetto sulla salute psico-fisica del figlio (specie se minorenne) e l’intensità del dolo del genitore.

            La visita del genitore non affidatario è intesa non solo come un diritto ma anche come un dovere direttamente discendente dalla qualità di genitore e dagli obblighi di solidarietà che sorgono all’interno della famiglia e che non vengono meno in caso di separazione o divorzio.

            Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non riguarda, infatti, soltanto l’assistenza materiale ed economica ma anche quella morale e affettiva [Trib. di Venezia, sent. del 30.004] nei confronti dei figli, per i quali è importante condividere il percorso di crescita personale anche con il genitore con cui non convivono.

            Disinteressarsi dei figli allora può integrare reato perché l’assistenza richiesta dalla legge consiste anche nell’adempimento del dovere di visita, frequentazione, cura e partecipazione alla loro crescita.

            Il genitore non affidatario “assenteista” non potrebbe giustificarsi neppure affermando che i suoi incontri col figlio siano stati ostacolati dall’altro genitore in quanto ciò non basta ad esonerarlo dagli obblighi di assistenza morale e affettiva [C. App. di Caltanissetta sent. del 10.10.200].

Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare è punito a titolo di dolo generico consistente nella rappresentazione e volontà di sottrarsi agli obblighi di genitore senza alcun giustificato motivo.

            Maria Monteleone     la legge per tutti         2 maggio 2015

.www.laleggepertutti.it/87017_se-il-genitore-non-affidatario-non-visita-il-figlio-commette-reato

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CHIESA CATTOLICA

Dal Giubileo un decalogo conciliare per il Sinodo.

La bolla con cui Francesco ha indetto il giubileo della misericordia – Misericordiae vultus – offre un punto di appoggio per comprendere più in profondità il significato strategico del Sinodo dei vescovi, mostrandone meglio la fine struttura teologica e l’alta ermeneutica pastorale, nonostante tutti i vani tentativi di coloro che cercano di ridimensionare il senso del sinodo e del papato di Francesco, criticato da settori limitati, anche se ragguardevoli, della curia romana.

Possiamo avanzare un’ipotesi: il testo della bolla, che guiderà il senso del cammino ecclesiale dall’8 dicembre 2015 al 23 novembre 2016 può gettare – retroattivamente – un fascio di luce potente già sulla storia precedente, nella quale la preparazione e lo svolgimento del Sinodo ordinario dei vescovi avrà una rilevanza obiettivamente assai grande. In altri termini, la “logica di misericordia” su cui è strutturato l’anno santo può diventare il coronamento di un passaggio epocale, nel quale l’eredità conciliare si realizza in una Chiesa sempre meno autoreferenziale, disposta a fare della misericordia la sua cifra identificatrice.

            In questo disegno di raffinata comprensione teologica e pastorale – che solo un risentimento autoreferenziale non è disposto a riconoscere – il percorso può essere illuminato da una “memoria del concilio Vaticano II” da intendersi precisamente come inaugurazione di una “prassi di misericordia”, secondo la quale anche il giubileo è un modo della «Chiesa in uscita» e della Chiesa che si riconosce «campo profughi», con l’annuncio di una parola di perdono realmente estesa a tutti gli uomini di buona volontà.

            Il Vaticano II come atto di misericordia. Il testo della bolla introduce, fin dai primi suoi numeri, il contesto conciliare come prospettiva di interpretazione del giubileo. E lo fa in modo chiaro e inequivocabile: sottolineo in corsivo le espressioni più potenti: «Ho scelto la data dell’8 dicembre perché è carica di significato per la storia recente della Chiesa. Aprirò, infatti, la Porta santa nel cinquantesimo anniversario della conclusione del concilio ecumenico Vaticano II. La Chiesa sente il bisogno di mantenere vivo quell’evento. Per lei iniziava un nuovo percorso della sua storia. I Padri radunati nel concilio avevano percepito forte, come un vero soffio dello Spirito, l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che, per troppo tempo, avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre».

            Le parole-chiave, in questo bel testo, sono: il concilio deve restare vivo nel suo intento di tradurre la tradizione e di abbattere le muraglie dell’autoreferenzialità. A chi pensa che il sinodo potrebbe finire con un nulla di fatto, queste parole suonano – quasi a posteriori – come un forte ammonimento e una solenne smentita.

            Giovanni XXIII e Paolo VI. Altrettanto importante è la scelta delle citazioni operate dalla bolla: dai due “discorsi estremi” – il primo, quello di apertura, di Giovanni XXIII, e l’ultimo, quello di chiusura, di Paolo VI – sono stati scelti quei passaggi nei quali il concilio è letto come “atto di misericordia”, in chiara contrapposizione a due possibilità che, tanto 50 anni fa quanto oggi, continuano a restare disponibili alle opzioni ecclesiali.

            Ascoltiamo anche questo passaggio, con le opportune sottolineature: «Tornano alla mente le parole cariche di significato che san Giovanni XXIII pronunciò all’apertura del concilio per indicare il sentiero da seguire: “Ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore… La Chiesa cattolica, mentre con questo concilio ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati”». (Discorso di apertura del concilio ecumenico Vaticano II, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962, 2-3).

            Sullo stesso orizzonte si poneva anche il beato Paolo VI, che si esprimeva così a conclusione del concilio: «Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro concilio sia stata principalmente la carità… L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del concilio… Una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal concilio sul mondo umano moderno. Riprovati gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto e amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette… Un’altra cosa dovremo rilevare: tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità».(Allocuzione nell’ultima sessione pubblica, 7 dicembre 1965).

Dal Concilio al Sinodo. Anche queste citazioni sono del tutto illuminanti della mens con cui Francesco intende celebrare non solo il giubileo, ma anche il sinodo. Da un lato, infatti, egli sottolinea la necessaria “scelta di campo” – squisitamente conciliare – che privilegia la «medicina della misericordia» rispetto alle «armi del rigore». Dall’altro, fa propri – traendoli da un elenco tanto elegante quanto impressionante – i punti qualificanti che dovranno qualificare il lavoro sinodale di qui ad ottobre nei confronti della «famiglia nel mondo contemporaneo»: anziché deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; anziché funesti presagi, messaggi di fiducia.

            Sembra di ascoltare l’eco del duro confronto che in questi mesi ha così fortemente contrapposto a questa linea serenamente conciliare l’insistenza sulla “tradizione minacciata”, sui “valori negati”, sugli “scivoloni anticattolici”.

            Dalla bolla del giubileo viene quasi un “decalogo conciliare per il sinodo”: con sorprendente tempismo e con un unico fine: “servire l’uomo”, perché tutti possano trovare accesso alla riconciliazione con Dio.

Andrea Grillo            Settimana n. 16/2015             il regno blog   26 aprile 2015

www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/04/dal-giubileo-un-decalogo-conciliare-per.html#more

 

Contraccezione e aborto. Qual è il male maggiore.

La prima nega la vita a chi potrebbe nascere. Il secondo la toglie a chi è già vivo. Botta e risposta tra due teologi, su una questione che resta aperta alla libera discussione.

La polemica è scoppiata a fine gennaio, dopo il viaggio di papa Francesco nelle Filippine.

            Ad accenderla era stato il gesuita Joseph Fessio. Che non è uno sconosciuto. Formatosi alla scuola teologica di Joseph Ratzinger – del cui circolo di discepoli, il “Ratzinger Schülerkreis”, è membro di spicco –, ha fondato e dirige negli Stati Uniti, a San Francisco, la casa editrice Ignatius Press (…)

E il bersaglio della sua polemica era un altro rinomato gesuita, il francese Pierre de Charentenay, già presidente del Centre Sèvres, l’istituto di studi superiori della Compagnia di Gesù a Parigi, già direttore dal 2004 al 2012 della rivista dei gesuiti di Francia “Études” e dall’anno scorso entrato a far parte del collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica”, la rivista de gesuiti di Roma stampata con il previo controllo delle autorità vaticane e diretta da un uomo vicinissimo all’attuale papa, padre Antonio Spadaro.

            In un libro sulla Chiesa nelle Filippine pubblicato in concomitanza con la visita del papa, padre de Charentenay aveva criticato pesantemente i vescovi di quel paese, per la loro strenua opposizione alla legge sulla “salute riproduttiva”, cioè su contraccezione e aborto, voluta e fatta approvare dal presidente di fede cattolica Benigno “Noynoy” Aquino.

            Padre de Charentenay imputava ai vescovi filippini di essere “arretrati” e “chiusi” non solo rispetto ai lumi della modernità ma anche rispetto alle sollecitazioni di papa Francesco. (…)

Ebbene, tra gli “errori di ragione e di fatto” contestati da padre Fessio al confratello de Charentenay, ce n’è uno che ha colto di sorpresa non pochi lettori. Mentre per padre de Charentenay l’aborto è sempre e comunque un male più grave della contraccezione e quindi è giusto – diceva – consentire il male minore se serve a ridurre il male maggiore, per padre Fessio le cose non stanno affatto così:

            “Chiedo: è vero che l’aborto è un male peggiore della contraccezione, e anche ‘decisamente più grave’? Non necessariamente”. E questo perché – proseguiva padre Fessio – “è un male maggiore privare qualcuno dell’esistenza rispetto a privare qualcuno della vita temporale”.

            Era prevedibile che questa tesi – né usuale né scontata – suscitasse reazioni. Che, infatti, ci sono state. La più pacata e argomentata è giunta dal Canada, con due lettere a questo sito, a firma di Michel Fauteux, professore di filosofia e teologia, padre di 13 figli.

            A entrambe le lettere, cominciando dalla seconda, padre Fessio ha risposto punto per punto, come in una brillante e avvincente “quaestio quodlibetalis” tra antichi teologi, riconoscendo che “la questione è una di quelle che non sono state decise definitivamente dalla Chiesa e quindi su cui ogni fedele può dissentire”.

(…)

            Se ho compreso bene, secondo Giovanni Paolo II la contraccezione e l’aborto sono frutti dello stesso albero, ma l’aborto è un male più grave della contraccezione. Padre Fessio, al contrario, dice che l’aborto non è necessariamente un male più grave della contraccezione.

Michel Fauteux Québec, Canada

            Giovanni Paolo II, “Evangelium Vitae”, 13: “Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l’una contraddice all’integra verità dell’atto sessuale come espressione propria dell’amore coniugale, l’altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino ‘non uccidere’. Ma pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta”.

 

 

            Distinguo: Quando la contraccezione è vista nel senso che “contraddice all’integra verità dell’atto sessuale come espressione propria dell’amore coniugale”, è un male minore dell’aborto. Ma quando è vista come un ostacolo alla volontà di Dio che un bambino sia concepito, è un male maggiore. È più difficile valutare un peccato di omissione che un peccato di attuazione. Ma se “in alcuni casi è volontà di Dio che [gli sposi] siano aperti a una nuova vita” ed essi impediscono un concepimento che altrimenti avrebbe avuto luogo, questo è certamente un ostacolo alla volontà di Dio in una materia grave. E come possiamo meglio capire la gravità di un rifiuto della volontà di Dio? Pensiamo alla crocifissione e morte di Gesù. Gesù è il Verbo e la volontà sostanziale del Padre. La crocifissione è il supremo “No” alla Volontà di Dio. Quindi non è soltanto la devozione ma la teologia che afferma questa equazione: crocifiggere Cristo vuol dire rifiutare la volontà di Dio; rifiutare la volontà di Dio vuol dire crocifiggere Cristo.

            E quant’è grave questo particolare atto di omissione? È tanto grave quanto l’abisso tra essere e non-essere. Dove Dio ha voluto che ci sia un’anima immortale, c’è un vuoto.

            P. Joseph Fessio, S.J. San Francisco, U.S.A.

Sandro Magister        chiesaespresso on line                                               28 aprile 2015 –

altre lettere                                                     http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351039

 

La partecipazione delle donne alla vita della Chiesa Una sfida non rinviabile

            Il 28 aprile 2015 si è svolto a Roma il convegno «Donne nella Chiesa: prospettive in dialogo», organizzato dalla Pontificia università Antonianum e dall’ambasciata della Repubblica del Cile presso la Santa Sede, con l’adesione delle ambasciate presso la Santa Sede degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, della delegazione dell’Unione europea presso la Santa Sede e della Mary J. Donnelly Foundation. Ai lavori, introdotti dal presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, è intervenuta, tra gli altri, l’ambasciatore della Repubblica del Cile presso la Santa Sede, Mónica Jiménez de la Jara. Pubblichiamo stralci dalla relazione del rettore dell’Antonianum.

Assistiamo tutti, giorno dopo giorno, all’accrescersi dell’attenzione riservata al ruolo che la donna occupa all’interno della Chiesa: tra gli esempi più rilevanti, basterebbe ricordare l’interesse e il dibattito acceso suscitato dal Pontificio Consiglio della Cultura che ha dedicato l’Assemblea plenaria di febbraio alla riflessione sulle culture femminili. Le ricche relazioni, gli interventi di approfondimento, le numerose risonanze che l’evento ha suscitato sulla stampa a livello mondiale sono un segno eloquente dell’importanza e dell’urgenza di questa riflessione.

Ma sappiamo tutti molto bene che a sollecitare l’attenzione verso il binomio donne-Chiesa è soprattutto Papa Francesco, che frequentemente è tornato a ribadire la necessità di assicurare uno spazio diverso alle donne nella Chiesa: potremmo dire, in maniera non molto tecnica, che il Santo Padre ne parla non appena gli è possibile, come attestano i riferimenti alle donne nell’omelia della Veglia pasquale o il discorso tenuto alle udienze generali degli ultimi due mercoledì, solo per fare qualche recentissimo esempio.

Indubbiamente però ciò che è davvero significativo non è solo la frequenza con cui il Papa parla del binomio donne-Chiesa, ma ancor di più la sua insistenza sul bisogno di individuare modalità che rendano concreto l’inserimento delle donne nel vissuto ecclesiale e autorevole la loro voce. Senza porci obiettivi troppo ambiziosi, vorremmo poter dire che è proprio dall’ascolto di questo appello che nasce il programma del Convegno.

Come, infatti, contribuire realmente ad allargare gli spazi della Chiesa per le donne? Come contribuire all’assunzione da parte loro di ruoli decisionali? Come favorire la conoscenza della ricchezza del loro pensiero, della ricchezza della teologia elaborata da loro ormai da decenni e ancora troppo poco presente nei circuiti ufficiali del mondo teologico? Questi interrogativi sono solo un esempio, anzi sono esempi limitati, perché in realtà l’allargamento dello spazio ecclesiale per le donne non si risolve solo in chiave funzionale, non consiste, cioè, solo nel poter fare alcune cose, ma nel riconoscere profondamente il loro essere Chiesa.

Di fronte a questi interrogativi, che il Santo Padre ha suscitato e continua a suscitare, le risposte stanno prendendo corpo in modo molto vario. Se siamo tutti d’accordo che è ormai tempo di affrontare con chiarezza e tempestività l’interrogativo sulla partecipazione delle donne alla vita della Chiesa, siamo allo stesso tempo coscienti che sull’individuazione delle modalità di questa partecipazione c’è ancora tanto cammino da fare: per dirlo con le parole di Papa Francesco: «siamo di fronte ad una sfida non più rinviabile, per la quale però bisogna lavorare di più».

Con uno sguardo attento alla diversità e alla ricchezza dei molteplici vissuti ecclesiali, vogliamo prendere atto delle difficoltà che le donne hanno incontrato e incontrano nel partecipare alla vita della Chiesa nelle loro diverse culture, ma vogliamo contemporaneamente interrogarci e far emergere le possibilità che esse hanno oggi di allargare lo spazio della propria presenza nella Chiesa.

Certamente siamo consapevoli che parlare di partecipazione delle donne alla vita della Chiesa chiama in causa una molteplicità di temi di notevole ampiezza e complessità, come la visione del rapporto uomo-donna, il modo di pensare il femminile e il maschile alla luce dell’atto creativo, oppure la visione comunionale della Chiesa e la collocazione, al suo interno, dei ministeri, della potestas e della diaconia; o ancora la valorizzazione e il riconoscimento della grande mole di lavoro pastorale affidato alle donne, che è poco visibile e autorevole solo perché quotidiano, semplice, inserito nella trama reale delle comunità ecclesiali; come pure, per concludere, un’altra dimensione che, a mio giudizio, è fondamentale, e cioè la convinzione che per ripensare al ruolo delle donne nella Chiesa è necessario ripensare anche a quello degli uomini, è necessario che gli uomini ripensino al loro ruolo nella Chiesa e questo, lo si comprende, non è un gioco di parole.

Le direttrici indicate dal Papa sono quella dell’ascolto libero da ogni pregiudizio, rivendicazione e sospetto, e la disponibilità a costruire qualcosa insieme. Noi donne nella Chiesa non siamo ospiti, noi siamo Chiesa e vogliamo esserlo sempre più intensamente.

Mary Melone             L’Osservatore Romano        30 aprile 2015

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201504/150430melone.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Cosenza. Tavola rotonda La consulenza alla coppia infertile”.

Il Consultorio “La Famiglia” di Cosenza e il Centro Italiano Femminile organizzano il 13 maggio 2015, alle 17,30 nell’Auditorium “Giovanni Paolo II” nella Parrocchia Santa Famiglia di Andreotta (Castrolibero) una Tavola rotonda. La consulente familiare Concetta Sabato del Consultorio  tratta “La consulenza alla coppia infertile: l’attenzione alla persona e alla coppia nella sua totalità e relazionalità”.

Partecipano

  • avv. Elvira Dodaro, vicepresidente CIF di Cosenza
  • dr Maria Grazia Pagliuso, ginecologa
  • prof. don Raffaele De Angelis, docente di teologia morale

http://volontarioineuropa.eu/associazione.php?id_associazione=93

Roma 1 – via della Pigna. Newsletter di aprile 2015

La newsletter riferisce sul recente Seminario annuale di formazione permanente svoltosi a Roma presso Casa La Salle dal 14 al 15 marzo con il tema “Donne in trasformazione: Maschile e femminile in cambiamento”.

Annuncia che il 2016 sarà un anno speciale per il Centro La Famiglia perché ricorrono rispettivamente il Cinquantennale dell’inizio delle attività del Centro ed il Quarantennale della fondazione della Scuola per Consulenti familiari che intendiamo celebrare con le modalità più opportune e di cui vi daremo preventiva notizia.

Nel numero si riporta la sintesi degli interventi effettuati dai diversi relatori nel corso del Seminario e per ciascuno di essi, in via sperimentale, i collegamenti che consentono la video-riproduzione degli interventi utilizzando un apposito canale di YouTube.

www.youtube.com/watch?v=paKEK_gc2Mc&feature=youtu.be

Un ricordo di p. Luciano Cupia in

www.youtube.com/watch?v=rkZE3pwEWes&feature=youtu.be

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DALLA NAVATA

                                   5° Domenica di Pasqua – anno B –3 maggio 2015.

Atti                 09.31 «La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva in numero»

Salmo             22.31 «Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia»

1 Giovanni      03.23 «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo, e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato»

Giovanni         15.03 «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato»

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Coppie infertili, illusioni in provetta.

            Gli esperti lo stanno ripetendo da anni:una delleprincipali cause del mancato concepimento o della difficoltà a portare a termine una gravidanza è rappresentata dal “fattore età”. La raccomandazione a non rimandare troppo avanti negli anni la scelta di avere figli stavolta però è arrivata dal «Fertility Forum-Living Innovation on Drugs and Beyond», promosso di recente a Roma dall’azienda farmaceutica Merck Serono sui temi della riproduzione umana. L’età incide, infatti, anche sul buon esito della fecondazione assistita. «Sappiamo già da tempo che la gravidanza in età matura è un trend in crescita» sottolinea Riccardo Marana, direttore dell’Isi, l’Istituto scientifico internazionale Paolo VI di Ricerca sulla fertilità e infertilità umana per una procreazione responsabile del Policlinico Gemelli.

Secondo i dati Istat l’età media della prima gravidanza è, infatti, di 32 anni. Questo ritardo si associa a un aumento delle gravidanze a rischio e a un maggior numero di donne con problemi di sterilità. Ne consegue una riduzione della capacità riproduttiva della donna, con graduale calo della possibilità di gravidanza per ogni ovulazione. Il problema non è limitato alla ricerca naturale della gravidanza – prosegue Marana – ma si evidenzia anche nei casi di ricorso alla fecondazione artificiale. Ciò è dovuto da una parte alla riduzione progressiva del numero di ovociti dopo i 35 anni, dall’altra ad anomalie della segregazione cromosomica durante la divisione meiotica».

I dati pubblicati nella Relazione del ministro della Salute del 2014 sull’attività dei Centri di fecondazione artificiale sono esemplificativi: «La percentuale di gravidanza cumulativa per Fivet e Icsi – ricorda Marana – è pari al 22,1%, e quella di gravidanza a termine è pari al 16,5 per prelievo ovocitario. Inoltre, a fronte di 114.276 embrioni formati ne sono stati trasferiti 91.720 e sono nati 9.814 bambini. Dunque il 91% degli embrioni formati viene “perso”». Eppure, nonostante i risultati per nulla incoraggianti, le coppie che ricorrono alla tecnologia pur di avere un figlio sono in costante aumento. «Purtroppo il momento in cui si decide di volere una gravidanza si sposta sempre più avanti – spiega Eleonora Porcu, responsabile del Centro di infertilità e procreazione medicalmente assistita dell’ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna – . L’età femminile è una variante cruciale per la fertilità ma è sempre più elevata e le coppie si rivolgono così alla medicina. Ma per l’età avanzata non c’è un rimedio. In questi casi il ricorso alla fecondazione assistita è un’illusione, non sempre riesce a risolvere il desiderio delle coppie di avere un bambino».

Per conservare la fertilità occorre semmai partire dalla prevenzione. «È importante seguire corretti stili di vita – prosegue Porcu –, e insegnare ai ragazzi a essere consapevoli del significato di fertilità. Dovrebbero sapere che occorre evitare le malattie sessualmente trasmissibili, le alterazioni metaboliche, il fumo, l’alcool e le sostanze tossiche che danneggiano spermatozoi e ovuli. Si parla sempre di educazione sessuale per i ragazzi, come se consumare o prepararsi al sesso fosse l’aspetto più importante. Ricordiamo piuttosto che il sesso è la “trappola” che usa la natura per portarci alla riproduzione. Di solito cerchiamo di evitare per periodi lunghissimi di procreare, poi però quando desideriamo coscientemente di avere un bambino è troppo tardi».

            Graziella Melina        avvenire 30 aprile 2015

www.scienzaevita.org/rassegne/26066d6ced21c82d176da5d7aaa44e0d.PDF     

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Giornata Internazionale della Famiglia 2015.

Il Forum ha organizzato in occasione della Giornata Internazionale della Famiglia, un convegno dal tema “Il futuro del Paese è nell’alleanza tra le generazioni”.

Il Convegno, in collaborazione con il Dipartimento per le politiche della Famiglia, si terrà presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma, via di Santa Maria in 37, venerdì 15 maggio 2015, ore 10

            Introduce Francesco Belletti, presidente Forum

Porgono saluti istituzionali

Giuliano Poletti ministro Lavoro e Politiche sociali

Beatrice Lorenzin ministro alla Salute

Franca Biondelli sottosegretario con delega alla famiglia

Ermenegilda Siniscalchi capo Dipartimento per le Politiche della famiglia

  • Luigino Bruni docente Economia politica (Lumsa): Equità tra generazioni: si vince insieme o si perde tutti
  • Tavola rotonda: “Donare memoria”: un progetto per promuovere i legami e la solidarietà tra le generazioni
    • Luciana Saccone, cons. Dipartimento per le Politiche della famiglia
    • Marco Livia, direttore Iref
    • Roberto Messina, presidente Federanziani
    • Carla Alati Tillicommissione nazionale Azione Cattolica/Adultissimi
    • Federico Gelli presidente Cesvot (Centro serv. volontariato Toscana)
  • Conclusioni Francesco Belletti

 “Garantire la Costituzione significa sostenere la famiglia, risorsa della società”

(dal messaggio al Parlamento nel giorno del giuramento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, 3 febbraio 2015)

“Come è importante l’incontro e il dialogo tra le generazioni, soprattutto all’interno della famiglia. I bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli”

(Papa Francesco Rio de Janeiro, 26 luglio 2013)

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

La testimonianza della bellezza del matrimonio può sconfiggere l’attuale crisi della famiglia.

 “Il capolavoro della società è la famiglia: l’uomo e la donna che si amano!”. Papa Francesco lo afferma con forza ricordando che il primo miracolo di Gesù, quello del vino alle nozze di Cana, salvò la festa di un matrimonio. Ma purtroppo oggi “i giovani non vogliono sposarsi”, in molti Paesi diminuisce il numero dei figli e aumentano le separazioni: “Pensiamo che le prime vittime, le vittime più importanti, le vittime che soffrono di più in una separazione sono i figli. Se sperimenti fin da piccolo che il matrimonio è un legame ‘a tempo determinato’, inconsciamente per te sarà così”.

Cultura del provvisorio e paura di fallire. E’ la “cultura del provvisorio” – osserva il Papa – in cui nulla è definitivo. Ma perché – si chiede – i giovani “spesso preferiscono una convivenza, e tante volte ‘a responsabilità limitata’? perché molti – anche fra i battezzati – hanno poca fiducia nel matrimonio e nella famiglia?”. “Le difficoltà – ha sottolineato – non sono solo di carattere economico, sebbene queste siano davvero serie”. Per molti una delle cause sta nell’emancipazione della donna. Ma questa – dice il Papa – è una tesi maschilista, anzi “un’ingiuria”. In realtà “quasi tutti gli uomini e le donne vorrebbero una sicurezza affettiva stabile, un matrimonio solido e una famiglia felice. La famiglia è in cima a tutti gli indici di gradimento fra i giovani; ma, per paura di sbagliare, molti non vogliono neppure pensarci”: “Forse proprio questa paura di fallire è il più grande ostacolo ad accogliere la parola di Cristo, che promette la sua grazia all’unione coniugale e alla famiglia”.

Testimoniare la bellezza del matrimonio cristiano. Allora il migliore antidoto a questa crisi è una testimonianza che attrae: “La testimonianza più persuasiva della benedizione del matrimonio cristiano è la vita buona degli sposi cristiani e della famiglia. Non c’è modo migliore per dire la bellezza del sacramento! Il matrimonio consacrato da Dio custodisce quel legame tra l’uomo e la donna che Dio ha benedetto fin dalla creazione del mondo; ed è fonte di pace e di bene per l’intera vita coniugale e familiare”.

Uguale dignità uomo-donna, anche sul lavoro.

Il cristianesimo – ha ricordato Papa Francesco – ha introdotto nel matrimonio l’uguale dignità tra uomo e donna. Si tratta di una “radicale uguaglianza tra i coniugi” che “deve oggi portare nuovi frutti”: “Per esempio: sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! Lo stesso diritto. La disparità è un puro scandalo! Nello stesso tempo, riconoscere come ricchezza sempre valida la maternità delle donne e la paternità degli uomini, a beneficio soprattutto dei bambini”.

Il grazie del Papa per la testimonianza di tanti sposi. Il Papa invita le famiglie a pregare insieme con il Rosario e infine rivolge un grazie speciale: “Carissimi, oggi ringraziamo Dio per la testimonianza di tanti sposi, che in tutto il mondo, fidandosi della grazia del Signore e della forza del proprio amore, rimangono nella sacramentale unione matrimoniale. Sosteniamo i fidanzati con la preghiera, con il consiglio e con l’aiuto, affinché abbiano il coraggio di mettersi a rischio e creare un’unione indissolubile e, con la benedizione di Dio, costruire felici famiglie”.

Sergio Centofanti       Bollettino radiogiornale radio vaticana 29 aprile 2015

            http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

testo ufficiale              http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150429_udienza-generale.html

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GIURISPRUDENZA

Il “mosaico della famiglia” tra dettato costituzionale, giurisprudenza e realtà sociale.

1. Il “mosaico della famiglia”. Il tema della “famiglia”, nei suoi diversi significati, nell’evoluzione delle forme e nella ricerca di modalità di tutela rispettose della sua natura e dei diritti delle persone che la compongono, si trova da tempo al centro di un intenso dibattito, in diversi campi dell’indagine scientifica, oltre che in ambito politico. Molteplici fattori contribuiscono ad alimentarlo: la valorizzazione del principio personalista, nell’accezione di legittima aspirazione di ogni persona a veder realizzati i propri progetti di vita; la giurisprudenza delle Corti europee in materia; la generalizzata assunzione di consapevolezza del carattere polimorfico che caratterizza oggi questa formazione sociale, suscettibile di assumere la forma della famiglia di fatto eterosessuale, con o senza figli, della “famiglia ricostruita”, nella quale uno o entrambi i partner hanno avuto in passato una relazione stabile, di tipo matrimoniale o dalla quale sono nati figli, della “famiglia fondata sul matrimonio” (anche nella variante composta dal coniuge superstite e dai figli), delle coppie same sex. Ad esse si affiancano le unioni poligamiche, la cui presenza in Italia (come negli altri Paesi europei) appare in crescita per la presenza sul territorio di immigrati provenienti da Paesi nei quali tale forma di matrimonio è consentita ma che presentano indubbie criticità in termine di uguaglianza e tutela dei diritti dei componenti.

Questa pluralità di unioni presenta come elemento unificante la “stabile comunione di vita e di affetti, che consente di ricondurle tutte nel novero costituzionalmente tutelato delle “formazioni sociali”. Esse presentano punti di intersezione, che tuttavia non ne consentono la sovrapponibilità e che, anche per questo, sono oggetto sul piano giuridico di regole o orientamenti giurisprudenziali differenziati

[La Corte costituzionale ha sostanzialmente espresso la valutazione di non equiparabilità con il matrimonio sia per le coppie di fatto sia per quelle same sex, riconducendo il primo alla tutela prevista dall’art. 29 Cost e le seconde a quella, più generale, contenuta nell’art. 2 Cost. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte, ciascuna di queste formazioni sociali presenta elementi di peculiarità tali da renderle singole specie di un genere più ampio, qual è quello di unione familiare. Per questo motivo, in assenza di un intervento organico del legislatore, la tutela delle coppie di fatto, sia etero sia omo sessuali, può avvenire solo con riferimento a singoli interessi e situazioni, con indubbia problematicità in relazione all’uniformità della tutela su tutto il territorio nazionale.].

Un “mosaico della famiglia”, come è stato definito, dove alla fine, o forse a monte, risulta difficile anche solo individuare il nucleo essenziale, imprescindibile, di questa primaria forma di aggregazione umana, alla cui definizione concorrono (o possono essere chiamati a concorrere) elementi diversi, quali il dettato costituzionale e la legislazione che ad esso si ispira; le Carte europee dei diritti e la giurisprudenza che su esse si fonda; la rappresentanza politica, chiamata a definire la volontà popolare, seppure nei limiti del dettato costituzionale.

Il carattere “naturale” di questo nucleo affettivo ha determinato nel tempo, come è noto, una crescente etero-regolamentazione sociale, religiosa e giuridica: la disciplina del rito, i rapporti interni, la filiazione, in una contaminazione tra le diverse regole che trova primaria esplicazione nella caratterizzazione dell’istituto del matrimonio ma che riguarda in realtà tutte le forme di famiglia che si sono sviluppate nel tempo. Non meraviglia quindi che la Costituzione italiana abbia da un lato affermato il principio personalista e la tutela delle formazioni sociali, famiglia compresa, nell’art. 2, ma dall’altro abbia collocato la disciplina di quella “fondata sul matrimonio” nel Titolo dedicato ai rapporti etico-sociali, operando una differenziazione che continua ad avere, come si avrà modo di sottolineare infra, un’influenza determinante sulla giurisprudenza, anche costituzionale. Peraltro, la presenza di tale distinzione (seppure riferibile oggi solo al concetto di coppia essendo ormai unico anche in Italia lo status di “figlio”) rende più complesso, ma nel contempo cruciale, il ruolo del legislatore chiamato a decidere se unificare il dettato degli artt. 2 e 29 Cost., ritenendo, come si è scelto di fare in altri ordinamenti giuridici, che un solo istituto (il matrimonio) possa essere utilizzato per la formalizzazione del rapporto di qualsiasi coppia legata da affettività (anche se l’attuale giurisprudenza costituzionale e di legittimità sembra esprimere un orientamento non favorevole a tale soluzione), o se definire plurali statuti specifici, idonei a garantire il diritto di ogni persona di poter vivere liberamente la propria condizione ma nel quadro di una socialità che ancora aspira ad essere elemento che influenza la produzione delle norme. In altri termini, il diritto è chiamato non solo a “riconoscere” ma anche a “garantire” le nuove forme di famiglia, fornendo risposte a istanze sempre nuove, che sollecitano il cambiamento delle regole esistenti o l’introduzione di nuove, mediando tra il riconoscimento di diritti e il rispetto del “nucleo essenziale” degli istituti coinvolti, in un serrato dialogo tra il legislatore, spesso restio al cambiamento, e i giudici, nazionali ed europei. Le recenti sentenze in materia della Corte costituzionale e della Suprema Corte, sulle quali ci si soffermerà infra, rappresentano una efficace esemplificazione di questo confronto, anche con la giurisprudenza delle Corti europee, a loro volte chiamate ad un delicato bilanciamento tra principi nazionali e processo di formazione di una tradizione comune europea.

2. La nozione costituzionale di famiglia e di matrimonio. Un’indagine, seppur breve, sulla disciplina della famiglia nell’ordinamento italiano non può che prendere le mosse dal dettato costituzionale e dalle scelte che in esso sono contenute, alle quali viene fatto costante riferimento per comprendere se le stesse abbiano assunto la veste di “principi” o se, anche per la collocazione che ad esse è stata data, si configurino come cristallizzazione di un’idea storicamente determinata e, anche per questo, non immodificabile. In particolare, nel caso della famiglia, se da un lato assume incontroversa natura di principio la sua tutela, qualunque forma essa assuma, in quanto formazione sociale riconosciuta dall’art. 2 Cost., dall’altro ci si interroga se la disciplina contenuta nell’art. 29 Cost. debba ritenersi ancora oggi riferita e riferibile solo al modello di “famiglia fondata sul matrimonio” quale disciplinato dal codice civile.

La Costituzione italiana, come è noto, contiene un richiamo espresso, all’interno del Titolo dedicato ai rapporti etico-sociali, alla famiglia e all’unione matrimoniale (Parte I, Titolo II). Nei tre articoli dedicati a tale peculiare formazione sociale, il Costituente, dopo aver fornito una definizione di “famiglia matrimoniale” (art. 29, I comma), introduce il principio, innovativo in quel momento storico, dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, quale elemento caratterizzante il concetto di famiglia che si andava a delineare (art. 29, II comma); nell’articolo successivo fissa, invece, i principi fondamentali in materia di filiazione; infine, nell’art. 31, sancisce l’aspetto sociale del diritto con l’attribuzione alla Repubblica del compito di agevolare con “provvidenze e altre misure economiche” la formazione e l’evoluzione della famiglia e di tutelare la maternità e l’infanzia.

Questo dettato costituzionale rappresenta, come emerge dagli Atti, il precipitato di un intenso dibattito svoltosi in sede di Assemblea Costituente, teso a conciliare visioni molto diverse circa il modo di intendere la relazione tra le formazioni sociali (la famiglia, la scuola, le istituzioni di ricerca e alta formazione), ritenute fondamentali per il progresso dell’intera comunità, e la “Repubblica”, alla quale, in virtù della natura “sociale” di tali diritti si voleva, e si vuole, attribuire non solo il compito della loro regolamentazione ma anche l’onere dell’erogazione di prestazioni volte a rendere effettivi i principi contenuti negli artt. 2 e 3 della Costituzione. L’Assemblea si divise, infatti, tra quanti non volevano inserire nella Carta alcun riferimento o disciplina della formazione sociale “famiglia” e quanti, invece, ritennero di dover dare valore costituzionale all’autonomia della stessa, onde impedire qualsiasi sua futura funzionalizzazione da parte del legislatore ordinario. Il prevalere di questo secondo orientamento, e la volontà di individuare un giusto equilibrio tra tutte le posizioni, portò alla definizione di famiglia quale “società naturale” [Come è stato sottolineato, la maggioranza dell’Assemblea accettò la formula “società naturale” solo quando fu chiaro che tale disposto aveva come unico significato quello di assegnare all’istituto familiare una sua autonomia originaria, destinata a circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua regolamentazione], come nucleo al quale “la persona dà liberamente vita” e al quale occorre riconoscere una sfera di intangibilità nei confronti del legislatore [Come sottolineato dall’on. Aldo Moro durante il dibattito in Assemblea Costituente, l’espressione “società naturale” veniva intesa in quella sede non come una “definizione” bensì come una “determinazione di limiti” in quanto si trattava di “definire la competenza esterna dello Stato nei confronti di una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita”].

Come è stato sottolineato, la locuzione scelta venne in quella sede intesa “non come cifra della preesistenza al riconoscimento giuridico ma come il riflesso della ‘naturalità’ del rapporto stesso”, in questo modo allontanando il rischio di una precostituita idea di “diritto di famiglia”, meramente da riconoscere in quanto insita nel “diritto naturale”. Al contrario, il richiamo alla società naturale venne – e viene – interpretato come teso a sottolineare che ogni famiglia gode di una sfera di auto-determinazione (Aldo Moro), anche nei confronti dello Stato, chiamato quindi, nell’ottica del rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, ad una funzione di vigilanza, affinché le regole che ciascuna famiglia determina non ledano i diritti individuali dei componenti della stessa e, seppure in modi soggetti al severo scrutinio della ragionevolezza, di limite qualora lo richieda uno specifico, e costituzionalmente giustificabile, interesse generale da perseguire.

Come prima ricordato, accanto al riferimento alla “famiglia”, contenuto negli artt. 30 e 31 e nella prima parte del primo comma dell’art. 29, i Costituenti hanno dato poi particolare riconoscimento a quella “fondata sul matrimonio”, che rappresentava allora, ed in realtà ancora oggi, il modello di riferimento espresso dalla realtà sociale e disciplinato dal codice civile sulla scia della tradizione occidentale sviluppatasi a partire dal mondo romano. Questo preciso richiamo ad un istituto giuridicamente definito ha da un lato rafforzato l’obiettivo costituzionale di determinare un limite invalicabile alla possibilità per lo Stato di porre in essere azioni volte a funzionalizzare questa formazione sociale; dall’altro ha consentito di sottolineare ulteriormente, come prima sottolineato, che la famiglia è “società naturale” e non espressione del “diritto naturale”. Alla base del matrimonio, infatti, vi è una scelta degli interessati, libera in tutti i suoi aspetti, che tuttavia produce effetti che sono in parte predeterminati dall’ordinamento giuridico, al pari dei diritti e doveri che ne derivano, con una sostanziale riduzione della sfera di autonomia dei suoi componenti.

È più che ragionevole immaginare che i Costituenti fossero pienamente consapevoli che il matrimonio non era in quel momento l’unica forma di convivenza presente nella società italiana. Tuttavia tale aspetto non entrò nel dibattito ed anche per questo in dottrina è sostanzialmente incontroversa l’idea che il matrimonio al quale essi fecero riferimento trovi concretizzazione nella forma dell’unione tra un uomo e una donna che con dichiarazione pubblica e solenne esternano la propria volontà di intraprendere una stabile convivenza. In altri termini, il matrimonio al quale i Costituenti intesero riferirsi allora, operando un rinvio, è quello derivante dalla tradizione e ancora oggi disciplinato dal codice civile agli artt. 106 ss. E 143 ss.

La formulazione dell’art. 29 Cost. riflette quindi tutta la problematicità e al tempo stesso la peculiarità di questa formazione sociale18; da un lato, infatti, fornisce una qualificazione della famiglia quale “società naturale” e ne eleva a rango costituzionale la versione “fondata sul matrimonio”, dall’altra introduce un modo nuovo – rispetto alla tradizione giuridica esistente, cristallizzata dal codice civile solo qualche anno prima – di intendere il rapporto tra i coniugi (“Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”): scelta quest’ultima che ha consentito, seppure in modo graduale, il superamento dell’impostazione e della disciplina ereditata dal periodo liberale e da quello fascista. Può quindi dirsi che l’attenzione sia stata focalizzata non sulla definizione di un modello generico di famiglia bensì sulla “modernizzazione” del modello tradizionale, ereditato dalla tradizione e che in fondo ancora oggi rappresenta sostanzialmente la principale forma di unione. In altri termini, il Costituente non si è limitato ad essere notaio del modello esistente di famiglia quale fondata sul matrimonio ma da un lato ne ha cristallizzato un nuovo equilibrio interno, basato sull’uguaglianza tra i coniugi, dall’altro ne ha affermato la natura originaria, individuando un carattere, quello della “naturalità”, risultato poi idoneo (grazie alla riconduzione all’art. 2 Cost.) a dare tutela anche a tutte le unioni familiari non fondate sullo stesso vincolo giuridico.

3. La famiglia di fatto quale società naturale. Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza è stata essenzialmente rivolta, come è noto, a verificare quali parti della normativa allora vigente fossero in contrasto con il dettato costituzionale, sia in materia di filiazione, sia, per la parte che qui maggiormente rileva, in applicazione del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Non è possibile in questa sede ripercorrere il noto e difficile processo di adeguamento della legislazione primaria alla nuova concezione di “famiglia fondata sul matrimonio”, che emergeva dall’art. 29 Cost., che ha trovato la propria prima sistematizzazione nella legge maggio 1975, n. 151 [riforma del diritto di famiglia], preceduta qualche anno prima dall’approvazione della legge introduttiva del divorzio (L. 1 dicembre 1970, n. 898). È peraltro altrettanto noto che l’approvazione di queste due leggi abbia segnato un momento importante nella disciplina della famiglia matrimoniale ma abbia nel contempo facilitato lo spostamento dell’attenzione del diritto verso una nuova forma di convivenza, more uxorio, che aveva acquisito negli anni una crescente rilevanza sociale, facendo sorgere l’esigenza di prevedere forme di tutela dei suoi componenti, assimilabile nella misura del possibile, a quelle riconosciute ai coniugi e ai figli legittimi.

Gli elementi che la “famiglia di fatto”, intesa come unione di due persone di sesso diverso, con o senza figli, che, per scelta o necessità, decidono di non contrarre matrimonio, condivide con la famiglia ex art. 29, I comma Cost. sono molteplici, a partire dalla scelta originaria di voler intraprendere un percorso di vita comune, basato sull’affectio, sulla stabilità, sulla convivenza e sulla potenziale attitudine ad avere figli. A differire è la formalizzazione del rapporto, ma questo elemento, lungi dall’assumere una veste solo convenzionale, rappresenta altresì l’esteriorizzazione del differente animus che caratterizza le due convivenze, la prima, quella matrimoniale, basata su una dichiarata volontà di assumere reciproci obblighi di “fedeltà, di assistenza morale e materiale e di collaborazione”, la seconda strutturata sulla “reciproca scelta quotidiana”, in ogni momento liberamente revocabile.

Tale differenza assume quindi notevole rilievo perché – esclusi i casi di impossibilità a contrarre matrimonio – rappresenta la consapevole e diretta manifestazione della libera scelta dei diretti interessati circa il livello di etero-regolamentazione che essi vogliono introdurre nel loro rapporto. Nel caso del matrimonio, infatti, la formalizzazione determina de iure l’assunzione di diritti e doveri definiti dalla legge, ai quali i coniugi possono aggiungerne altri o che possono non osservare, almeno nei loro rapporti reciproci, ma che in ogni caso tornano ad essere precettivi in presenza di una crisi coniugale; nel caso della convivenza, invece, i protagonisti conservano un ampio margine di discrezionalità nel fissare le regole del loro rapporto e nel confermarle o modificarle nel tempo [interessi patrimoniali].

Questa situazione appare ben sintetizzata nelle motivazioni di numerose sentenze della Corte costituzionale in materia, laddove si legge che la differenza sostanziale tra la convivenza di fatto e il rapporto coniugale, si sostanzia nell’essere la prima “fondata sull’affectio quotidiana – liberamente e in ogni istante revocabile – di ciascuna delle parti”, la seconda sulla “stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri … che nascono soltanto dal matrimonio”. Tale fondamentale e originaria differenza impedisce, nel pensiero del giudice costituzionale, che le due situazioni possano (o debbano) trovare uguale fondamento nell’art. 29 Cost., con la conseguenza che, pur riconoscendo “la rilevanza costituzionale del ‘consolidato rapporto’ di convivenza”, occorre tenerlo distinto dal rapporto coniugale, riconducendo il primo nell’ambito della protezione, offerta dall’art. 2, dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali e il secondo in quello dell’art. 29 della Costituzione.

Infatti, sebbene gli elementi alla base della formazione di questo tipo di famiglia siano analoghi a quelli ritenuti propri dell’unione fondata sul matrimonio, diverso è, come prima ricordato, l’animus dei conviventi more uxorio, che si rinviene nella volontà di dar vita ad un rapporto che non sia vincolato da condizionamenti giuridici o religiosi ma si rinnovi e si rafforzi per costante desiderio degli interessati e non per gli obblighi assunti con l’obbligazione matrimoniale.

Inoltre, sempre con le parole della Corte, “tenendo distinta l’una dall’altra forma di vita comune tra uomo e donna, si rende possibile riconoscere a entrambe la loro propria specifica dignità; si evita di configurare la convivenza “come forma minore del rapporto coniugale, riprovata o appena tollerata e non si innesca alcuna impropria ‘rincorsa’ verso la disciplina del matrimonio da parte di coloro che abbiano scelto di liberamente convivere”; soprattutto si pongono le premesse per una considerazione giuridica dei rapporti personali e patrimoniali di coppia nelle due diverse situazioni, considerazione la quale – fermi in ogni caso i doveri e i diritti che ne derivano verso i figli e i terzi – tenga presente e quindi rispetti il maggiore spazio da riconoscersi, nella convivenza, alla soggettività individuale dei conviventi; e viceversa dia, nel rapporto di coniugio, maggior rilievo alle esigenze obiettive della famiglia come tale, cioè come stabile istituzione sovraindividuale”.

            Dalla giurisprudenza, non solo costituzionale, emerge quindi il differente ruolo del diritto nei confronti di questi due diversi tipi di famiglia, orientato, in presenza di quella fondata sul matrimonio, a garantire che l’autonomia della formazione sociale non vada ad incidere sull’esercizio di diritti individuali, mentre, nel caso delle famiglie di fatto, ad evitare che la scelta di libertà, sulla quale esse si fondano, possa produrre limitazioni alla sfera di diritti individuali, costituzionalmente garantiti. [Ciò pone al legislatore la delicata questione di verificare volta per volta “la congruità di una normativa che volendo disciplinare un fenomeno fondato per sua natura sulla libera volontà, e sulla disponibilità dei diritti e dei doveri delle parti, finisce poi per limitare o denegare proprio quella libera autodeterminazione, senza la quale quel diritto scompare, o viene deformato rispetto all’archetipo originario”]

La famiglia di fatto, come esplicitato dal Giudice delle leggi, non vive quindi una situazione irrilevante o indifferente per il diritto ma richiede il giusto equilibrio tra tutela della sua autonomia e azioni positive poste in essere dal legislatore [Sul piano normativo si registrano alcuni interventi del legislatore nazionale e di quelli regionali. Il primo ha previsto, ad esempio, la possibilità per le coppie non sposate ma stabilmente conviventi di poter accedere alle tecniche di fecondazione assistita in Italia (mentre permane l’impossibilità di accedere all’adozione); le seconde hanno previsto essenzialmente interventi riguardanti il diritto all’abitazione.]. Tuttavia, poiché quest’ultimo ha deciso di non affrontare in modo organico questa realtà sociale l’istituto si è quindi evoluto secondo un percorso cd. di “common law”, nel quale è stato, ed è tutt’ora, soprattutto il giudice comune ad essere chiamato a svolgere un’azione di mediazione tra il principio di libertà e quello di responsabilità dei conviventi. Da qui le numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione in materia, volte a ricercare e porre in essere il medesimo bilanciamento e gli interventi della Corte costituzionale tesi a parificare situazioni (riguardanti coppie coniugate e coppie di fatto) che presentavano caratteristiche talmente comuni da renderle omogenee

4. Le nuove istanze: le coppie same sex. Come prima sottolineato, l’animus alla base delle convivenze more uxorio ha negli scorsi decenni spostato l’interesse costituzionalistico dall’art. 29 all’art. 2 Cost.. Il dibattito odierno torna a investire invece nuovamente l’art. 29 Cost., in conseguenza della crescente rilevanza sociale di forme di famiglia (same sex, poligamiche), i cui componenti chiedono di poter formalizzare l’unione con il vincolo matrimoniale, ma sono al momento impediti dalla legge o, secondo una parte degli interpreti, dalla lettura che di essa viene data.

Volendo in questa sede concentrare l’attenzione solo sulle coppie same sex, per le quali appare ormai superato il limite della violazione dell’ordine pubblico – elemento invece che, secondo l’opinione prevalente, ancora persiste nelle convivenze poligamiche – il dato sociale fa registrare un aumento delle richieste di pubblicazioni di matrimonio o di riconoscimenti di matrimoni che sono stati celebrati all’estero, in Paesi nei quali questo tipo di unione civile è disciplinata. Dalla cronaca narrata emerge, in un quadro basato più sul riparto di competenze che sulla valutazione della normativa vigente, che nella maggior parte dei casi i Comuni rifiutano sia l’uno che l’altro adempimento; in altri casi danno seguito alla richiesta di trascrizione di matrimoni celebrati all’estero28, salvo poi l’intervento del Prefetto (o rectius del giudice ordinario) di annullamento della stessa.

Fino a tempi relativamente recenti la giurisprudenza, in particolare quella di legittimità, aveva espresso un orientamento costante nel valutare come non ricevibili le richieste di pubblicazioni di matrimonio, quando provenienti da coppie omoaffettive, e a motivare con la violazione del limite dell’ordine pubblico l’inesistenza del matrimonio same sex celebrato all’estero, ritenendo che la diversità di genere rappresenti in Italia un requisito necessario per contrarre matrimonio. Tale indirizzo giurisprudenziale appare ora significativamente mutato a partire dall’importante e commentata sentenza della Corte Costituzionale n. 138/2010, avente ad oggetto alcune disposizioni del codice civile in materia di matrimonio “nella parte in cui, sistematicamente interpretate, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso”.

Un primo elemento di interesse della sentenza della Corte costituzionale è rappresentato, come è noto, proprio dall’oggetto del ricorso, che si incentra non direttamente sulle disposizioni del codice civile, che vengono richiamate, bensì sulla “sistematica interpretazione” che conduce alla loro applicazione nel senso della natura eterosessuale del matrimonio. Come è stato sottolineato, la Corte avrebbe potuto cogliere lo spunto proveniente da questa scelta dei rimettenti per chiudere la questione con una pronuncia di inammissibilità, invitando i giudici a ricercare essi stessi, per primi, quale sia l’interpretazione costituzionalmente orientata da dover adottare in questo caso; il giudice delle leggi ha invece scelto di pronunciarsi con sentenza, anche al fine di chiarire che, in base alla propria visione, “la censurata normativa del codice civile contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna”. Giunge, così, ad una pronuncia di rigetto e la struttura su due distinti dispositivi, con una tecnica considerata inusuale trattandosi di un’unica questione: con il primo la questione viene dichiarata inammissibile, in relazione agli artt. 2 e 117 Cost.; con l’altro la medesima questione viene ritenuta non fondata, con riferimento agli artt. 3 e 29 Cost.. Una scelta peculiare che evidenzia come il giudice costituzionale, creando fittiziamente due diverse questioni, abbia voluto evidenziare l’importanza della questione del riconoscimento di uno statuto giuridico delle coppie omosessuali senza dover però modificare la propria posizione circa la natura eterosessuale della formazione sociale tutelata dall’art. 29 Cost..

Nel merito la Corte, nell’analizzare la questione in base al parametro dell’art. 2 Cost., afferma che l’unione omosessuale, intesa come “stabile convivenza”, rientra nella nozione di formazione costituzionalmente tutelata, riconoscendo anche alle persone dello stesso sesso “il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”; tuttavia, non ritiene opportuno elaborare essa stessa tale disciplina mediante una pronuncia additiva e individua nel Parlamento, “nella sua piena discrezionalità, il soggetto al quale spetta individuare le forme e le garanzie” da riconoscere alle unioni omoaffettive. La Corte, quindi, non ritiene di poter individuare in modo autonomo il contenuto di tale diritto, indicando diritti, doveri e rapporti con i terzi, in assenza di una normativa statale che possa svolgere il ruolo di parametro della comparazione. Da qui il ricorso ad una pronuncia di “inammissibilità di principio”, che sottolinea la necessità di un intervento del legislatore e attribuisce a sé stessa solo un compito di controllo successivo della ragionevolezza di questa eventuale e futura disciplina.

Più netta si presenta, invece, la posizione del giudice delle leggi con riferimento all’art. 29 e all’art. 3 Cost., che la Corte decide peraltro di analizzare in modo inverso rispetto alla richiesta dei ricorrenti. Infatti, pur premettendo che “i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere ‘cristallizzati’ con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”, la Corte chiarisce che qualsiasi interpretazione evolutiva non può però “spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”. Infatti, si legge ancora nella sentenza con riferimento al dibattito in sede di Assemblea Costituente, “come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso”.

Tale nucleo, secondo il giudice delle legge, deve essere rispettato dal giudice e, secondo parte della dottrina, anche dal legislatore, in quanto elemento essenziale dell’istituto, senza il quale quest’ultimo diviene solo un contenitore vuoto, in grado di accogliere qualsiasi forma di umana convivenza.

Un passo della sentenza appare di particolare rilevanza e problematicità ed è quello nel quale la Corte giustifica l’impossibilità di ricorrere ad una sentenza additiva, non ritenendo che vi siano le condizioni per una soluzione costituzionalmente obbligata e sottolineando l’impossibilità di incidere in via giurisprudenziale sul nucleo del diritto contemplato dall’art. 29 Cost., che la Corte individua nel significato che i Costituenti diedero a quale diritto, ossia come libertà di sposarsi con una persona di genere diverso dal proprio; come si legge, infatti, nella sentenza, il superamento di questo significato del disposto costituzionale per via ermeneutica comporterebbe non “una semplice rilettura del sistema” o “l’abbandono di una mera prassi interpretativa”, bensì un “approdo ad una “interpretazione creativa”, volta ad introdurre in Costituzione un istituto che in essa non emerge.

La Corte costituzionale è poi tornata, seppure da un’angolazione diversa, a decidere in materia di matrimonio tra persone dello stesso sesso con la sentenza n. 170/2014 avente ad oggetto la disciplina dello scioglimento automatico del matrimonio contratto precedentemente alla rettificazione di sesso da parte di uno dei coniugi (cd. “divorzio imposto”). La tecnica decisoria utilizzata in questo caso dal giudice delle leggi è stata quella della pronuncia di accoglimento additiva, con conseguente dichiarazione di incostituzionalità della normativa censurata nella parte in cui non prevede “che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore”. La Corte censura, quindi, la lacuna che l’ordinamento presenta e che priva di garanzie le persone che vivono questa peculiare situazione ma decide di non colmarla con la strada dell’equiparazione tra il precedente (coppia unita in matrimonio) e il nuovo status (coppia same sex) che si determinata, pur consapevole della menomazione, in termini di tutela, che tale decisione produce. Il motivo può rinvenirsi nella scelta compiuta dal giudice costituzionale nella sentenza 138/2010, che viene qui ripresa e rafforzata e porta a collocare la coppia, che scaturisce dall’applicazione del c.d. “divorzio imposto”, tra le formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost., pur essendo (la Corte) consapevole che con tale scelta, in assenza di un intervento del legislatore, vi sia il rischio che vada perso un patrimonio di diritti e doveri e di pregresso vissuto dalla coppia prima coniugata, con un’evidente prevalenza della coerenza dell’istituto sul diritto di sposarsi delle persone coinvolte. Inoltre, il Giudice delle leggi conferma la propria lettura dell’art. 29 Cost. quale disposizione dedicata all’unione eterosessuale disciplinata (allora come oggi) dal codice civile del 1942, rendendo più complesso, per lo stesso legislatore, il perseguimento dell’introduzione del matrimonio omosessuale mediante una modifica dell’istituto civilistico, confermando la propensione, in questo caso, verso una lettura statica del dettato costituzionale, che – secondo alcuni interpreti – impedirebbe al legislatore ordinario di modificare l’attuale disciplina codicistica in senso meramente estensivo con la conseguente riconduzione della possibile modifica al solo revisore costituzionale.

Queste due recenti sentenze della Corte costituzionale trovano corrispondenza in alcune sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione negli ultimi anni. Nella prima di queste (sent. n. 4184/2012) la Suprema Corte ha confermato la non trascrivibilità del matrimonio same sex celebrato all’estero, adducendo a motivo della propria decisione non più l’”inesistenza” e neppure la “invalidità” dell’atto “bensì la sua “inidoneità a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano”. In sintonia con la pronuncia del Giudice delle leggi del 2010, nella sentenza si legge che “i componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se – secondo la legislazione italiana – non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all’estero, tuttavia – a prescindere dall’intervento del legislatore in materia – quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un “trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”. Anche la Suprema Corte opta quindi per l’equiparazione di principio delle coppie omosessuali coniugate all’estero alle coppie di fatto, in una soluzione, certamente compromissoria, che individua nel ricorso al giudice l’unico strumento, nel silenzio del legislatore, che possa porre in essere un bilanciamento degli interessi coinvolti, pur nella consapevolezza che l’equiparazione per sentenza non sia possibile, alla luce della natura sistemica dell’istituto.

Analoga posizione è stata poi espressa dalla Suprema Corte in una recente pronuncia (9 febbraio 2015, n. 2400), avente ad oggetto il diniego della Corte di Appello di Roma che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda presentata da una coppia omoaffettiva, finalizzata a poter procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste e negate dall’ufficiale di stato civile. La Cassazione ha rigettato il ricorso, in buona parte riprendendo elementi di valutazione già espressi nelle sentenze qui analizzate e soffermandosi in particolare su quella parte dell’istanza nella quale i ricorrenti avevano lamentato la mancata valorizzazione del parametro dell’art. 2 Cost. con riferimento agli artt. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 12 della CEDU ed avevano quindi ritenuto che la sentenza 138/2010 potesse essere considerata superata dalle più recenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Suprema Corte, invece, mostrandosi di diverso avviso e legando la propria argomentazione proprio alle sentenze della Corte costituzionale, con le quali mostra di voler determinare un unicum interpretativo, ha confermato l’attualità delle motivazioni della sentenza 138/2010, nella quale vi è da un lato l’espresso riconoscimento del rilievo costituzionale, ex art. 2 Cost., delle unioni tra persone dello stesso sesso e dall’altro l’esigenza di rimettere al legislatore “nell’esercizio della sua piena discrezionalità, d’individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali”, unitamente alla possibilità della Corte stessa d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (com’è avvenuto per le convivenze more uxorio).

Ne deriva, secondo la Cassazione, che “il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, sulla violazione del canone antidiscriminatorio dettata dall’inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana. Da tale riconoscimento sorge l’esigenza di un trattamento omogeneo di tutte le situazioni che presentano un deficit od un’assenza di tutela dei diritti dei componenti l’unione, derivante dalla mancanza di uno statuto protettivo delle relazioni diverse da quelle matrimoniali nel nostro ordinamento”.

Questo approdo, asserisce la Suprema Corte, “non risulta modificato dai principi elaborati nelle successive pronunce della Cedu (…)“, in quanto la linea tracciata dalla Corte di Strasburgo in ordine al margine di apprezzamento degli Stati membri è rimasta coerente dal momento che l’art. 12, ancorché formalmente riferito all’unione matrimoniale eterosessuale, “non esclude che gli Stati membri estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, ma nello stesso tempo non contiene alcun obbligo al riguardo”. Del pari nell’art. 8, che sancisce il diritto alla vita privata e familiare, è senz’altro contenuto il “diritto a vivere una relazione affettiva tra persone dello stesso sesso” protetta dall’ordinamento, ma non necessariamente mediante l’opzione del matrimonio per tali unioni.

Peraltro, continua la Cassazione, i principi sopra delineati hanno costituito il fondamento anche della propria più recente giurisprudenza, con la pronuncia di rigetto della trascrizione di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso (sent. n. 4184 del 2012).

Da qui l’affermazione della necessità dell’intervento del legislatore che superi la situazione attuale nella quale, in base al sistema giuridico di diritto positivo, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è inidoneo a produrre effetti perché non previsto tra le ipotesi legislative di unione coniugale. Tale inidoneità è stata confermata dalla Suprema Corte in un’ulteriore recente sentenza, in materia di “divorzio imposto”, questione sulla quale, come ricordato prima, la Corte costituzionale si è espressa nel 201447. Con quest’ultima pronuncia (sez. I civ., 8097/2015) la Cassazione ha, infatti, confermato, sulla scia della citata giurisprudenza costituzionale, l’impossibilità di estendere, per via ermeneutica, lo status proprio del matrimonio alle coppie omoaffettive, anche qualora tale condizione sia il risultato di una rettificazione di sesso intervenuta durante il matrimonio; ha però nel contempo espresso la convinzione, in questo discostandosi dal contenuto della sentenza 170/2014, che la tutela dei soggetti coinvolti in una situazione così delicata non possa essere devoluta integralmente alla volontà del legislatore, almeno per quanto attiene ai tempi di intervento; ha così riconosciuto carattere auto-applicativo alla sentenza 170/2014, stabilendo che i soggetti che si trovano nella peculiare condizione sorta in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità del cd. “divorzio imposto” conservano lo statuto dei diritti e dei doveri propri del modello matrimoniale sino all’approvazione di una legge che specificamente disciplini la fattispecie.

5. La problematica valorizzazione della “policromaticità” del “mosaico”. Come emerge da queste brevi considerazioni, la scelta del Costituente, di inserire la famiglia nel novero delle formazioni sociali nei confronti delle quali le fonti primarie sono chiamate ad un bilanciamento costituzionalmente orientato degli interessi, ha rivelato nel tempo tutta la propria problematicità, in presenza di un legislatore restio a disciplinare in modo unitario le nuove forme di famiglia che la realtà sociale ha espresso (coppie di fatto) ed esprime (coppie same sex).

Lo spostamento, che ne è scaturito, del confronto dal piano politico-normativo a quello giurisprudenziale ha prodotto una sostanziale dicotomia tra la giurisprudenza di merito, confortata ed ispirata da alcune pronunce delle Corti sovranazionali, e quella costituzionale, più restia ad interventi “additivi” in ambiti nei quali il riconoscimento di determinati diritti richiede il contemperamento con la percezione che una determinata realtà sociale ha di sé stessa. Costante è, infatti, nella giurisprudenza del Giudice delle leggi e della Corte di Cassazione che si è andata formando, la considerazione che nessuno dei due interessi in gioco possa considerarsi assolutamente prevalente rispetto all’altro: né quello di coloro che rivendicano di poter formalizzare la loro unione, in ragione del diritto individuale a veder realizzate le proprie aspirazioni di vita e di affetto e che ritengono una discriminazione il vedersi privati di un diritto, riconosciuto ad altri solo in ragione della loro eterosessualità; né quello del legislatore, che ritiene necessario disciplinare taluni istituti sulla base degli orientamenti espressi, attraverso i propri rappresentanti, dalla comunità politica, seppure in una cornice di ragionevolezza costituzionale affidata al Giudice delle leggi.

Ne deriva che se per molti versi appare di difficile comprensione la scelta del legislatore italiano, tra i pochi in Europa, che sembra rimanere indifferente alle sollecitazioni che provengono dalla giurisprudenza, dagli studiosi, dalle associazioni, dall’altro la strada dell’equiparazione per sentenza al matrimonio non appare essere la più rispettosa del dettato costituzionale, se si ritiene che l’istituto del matrimonio non rappresenti un insieme disorganico di regole bensì si configuri come un sistema coerente, certamente perfettibile ed elastico per potersi adattare all’evoluzione sociale ma indubbiamente riferito ad una “formazione” ben definita, che la società ha plasmato nel tempo, strutturandola su una situazione specifica che oggi appare riduttivo definire biologica, ma che in questo ambito trova comunque le proprie radici. È, infatti, incontroverso che l’istituto sia sorto immaginando di dare un ambiente stabile di crescita e formazione ai futuri nati, ai figli, e anche se questa oggi non è più la finalità del matrimonio, alcune regole dell’ordinamento italiano ancora vi traggono ispirazione: si pensi all’età minima/massima richiesta dalla legge agli adottandi e a coloro che desiderano accedere alla fecondazione assistita, che mira a riprodurre l’età biologica della maternità (e in parte della paternità); si riguardi ancora al principio che individua come madre del nato “colei che lo ha partorito” (e che di conseguenza considera come padre “il di lei marito”); le norme in materia di successione che escludono dalla quota di legittima gli ascendenti solo in presenza di almeno un figlio del dante causa. Se ne ricava, e vi sono altri esempi, come ancora oggi la famiglia fondata sul matrimonio segue una ratio ben precisa, che non rappresenta – né potrebbe essere – un obbligo bensì una cornice definita all’interno della quale i coniugi sviluppano il proprio percorso comune di vita. Riprodurre questo modello per coppie, quindi non per singoli individui, che con certezza non possono accedere biologicamente alla procreazione è certamente possibile ma richiede una serie di scelte conseguenti.

Infatti, partire dal presupposto che matrimonio e procreazione non abbiano in nuce alcun legame tra loro ha come corollario la riscrittura di molte delle regole prima indicate, alle quali occorre aggiungere la rimozione del divieto ai single e alle coppie same sex di accesso all’adozione e alla fecondazione assistita, divenendo la filiazione, non più solo quella biologica, un diritto della persona e non della coppia. E occorre ragionevolmente chiedersi, seguendo un coerente filo logico, cosa osti anche al riconoscimento dello strumento dell’utero in affitto, salvo fare, come accade in altri ordinamenti europei, una discriminazione – tutta da giustificare – tra coppie omosessuali composte da due donne (che possono accedere alla fecondazione eterologa) e coppie formate da due uomini che non possono farlo (proprio in conseguenza del citato divieto).

Il quesito che sorge a questo punto è cosa sia suscettibile di rimanere, qualora si ponessero in essere tutti questi interventi, dell’originaria nozione di matrimonio e delle sue regole e cosa, al contrario, gli interessati potrebbero invece effettivamente ottenere con un riconoscimento “per sentenza” del loro essere “uniti in matrimonio”, qualora rimanessero vigenti tutti i limiti appena richiamati.

Appare allora opportuno, anche alla luce della recente riforma in tema di filiazione e sulla scia di quanto emerge dalla citata recente giurisprudenza costituzionale, riflettere sulla ormai avvenuta scissione tra il concetto di “coppia” e quello di “famiglia” e ragionare su quale disciplina sia più idonea a dare tutela alle tante diverse “coppie” che la realtà sociale esprime. Una di queste, quella coniugale, già disciplinata dall’istituto del matrimonio; un’altra (di fatto) che non desidera essere significativamente etero-regolamentata, avendo compiuto una scelta di libertà; un’altra ancora, quella same sex, che chiede invece di esserlo.

Dinanzi a tale richiesta appare evidente che il legislatore non possa più rimanere indifferente e debba affrontare la questione dello status di tali unioni, sia per quanto concerne i diritti e i doveri sia per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, in particolare in materia assistenziale, previdenziale e successoria. Con riferimento al primo ambito si tratta in realtà di attenuare le rigidità che ancora oggi, facendo perno ad esempio sull’illiceità della causa, limitano l’autonomia privata nella regolamentazione giuridica di rapporti reciproci di vario genere, anche familiari. In ambito esterno, occorre invece che la comunità accetti di farsi carico, come accade già a favore delle coppie eterosessuali unite in matrimonio, di alcuni specifici oneri economici (ad esempio la pensione di reversibilità) che scaturirebbero dal riconoscimento giuridico di queste unioni.

Come è già accaduto in passato per le coppie di fatto, la condivisibile strada indicata dal Giudice delle leggi appare quella della ricerca di una scelta “ad hoc”, né sembra che essa – in luogo della equiparazione – possa limitare i diritti delle persone interessate. Inoltre l’intervento legislativo, a differenza dei singoli interventi giurisprudenziali, per loro natura legati a casi specifici e non sempre ripetibili, si presenta maggiormente idonea a definire il collegamento tra “coppia” e “filiazione indiretta” (adozione, fecondazione, riconoscimento del figlio del partner), consentendone così, una volta individuatolo, un’uniforme applicazione su tutto il territorio nazionale, in ossequio al principio, non controverso, del superiore interesse del minore che rappresenta un principio cardine della legislazione vigente in materia di rapporto genitori/figli.

Appare pertanto opportuno che il legislatore affronti il tema e decida quale debba essere lo status giuridico delle coppie same sex, al fine di dare loro tutela senza soffocare, come potrebbe accadere qualora l’orizzonte fosse caratterizzato dalla sola applicazione del principio personalista, quel pluralismo delle formazioni sociali e quel mosaico delle famiglie, che la società naturalmente esprime.

            Anna Papa      Rivista Associazione Italiana Costituzionalisti n. 2/2015, 01 maggio 2015

testo e note     www.rivistaaic.it/il-mosaico-della-famiglia-tra-dettato-costituzionale-giurisprudenza-e-realt-sociale.html

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SEPARAZIONE E DIVORZI

                        Separazioni e divorzi in comune. I chiarimenti del Ministero

Ministero degli interni – circolare n. 0001307 del 24 aprile 2015

Con l’avvento delle disposizioni della Circolare del Ministero dell’Interno si chiarisce finalmente che i coniugi che vogliano separarsi, divorziare o modificare le disposizioni di questi accordi – potranno raggiungere l’accordo davanti al Sindaco, anche se vi è la presenza di “altri figli” avuti da precedente relazione, ovvero se prevedono accordi che si limitino a regolare importi mensili, come l’assegno di separazione o quello di divorzio.

Sono dunque queste le due più rilevanti novità interpretative rispetto all’art. 12 della legge n. 162/2014.

In merito agli aspetti patrimoniali, pertanto, si considerano patti di trasferimento patrimoniale solo quei patti che siano “produttivi di effetti traslativi di diritti reali”, non rientrando nel divieto della norma, la previsione, nell’accordo concluso davanti all’Ufficiale di Stato Civile, di un “obbligo di pagamento” di una somma mensile a titolo di “assegno periodico.” Sarà quindi possibile trattare con la procedura di cui all’art. 12 anche quei coniugi senza figli che vogliano comunque riconoscersi un importo mensile a titolo separativo o divorzile o che vogliano diversamente modificare tale importo.

La circolare risolve poi altri due dubbi operativi nel caso in cui la separazione o il divorzio seguano l’iter di negoziazione assistita da due avvocati (ex articolo 6, in presenza di figli della coppia). Cade l’interpretazione che richiedeva la contemporanea presenza di entrambi gli avvocati delle parti al momento della presentazione degli accordi all’ufficiale di Stato civile, pena sanzione al professionista “assente”. Ora il ministero ritiene sufficiente la presentazione (e quindi la presenza) da parte di uno solo dei due legali dei coniugi che abbia assistito e autenticato la sottoscrizione all’accordo.

La circolare, infine, stabilisce che il dies a quo per il conteggio dei dieci giorni dopo i quali scatta la sanzione a carico dell’avvocato che deposita in ritardo gli accordi decorre dalla data della «comunicazione» del via libera da parte del pm, che così vi è obbligato.

redazione AMI                      2 maggio 2015

circolare         www.ami-avvocati.it/wp-content/uploads/2015/05/Circolare-n.-6-2015.pdf

www.ami-avvocati.it/separazioni-e-divorzi-in-comune-i-chiarimenti-del-ministero-circolare-615/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+ami-avvocati+%28AMI-avvocati.it+RSS%29

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SINODO DEI VESCOVI

                        Risposta della Conferenza episcopale tedesca.

La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo

www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_synod_doc_20141209_lineamenta-xiv-assembly_it.html

www.diocesilucca.it/pagine/Domande_per_la_recezione_relatio_synodi.pdf

estratti                         passim

(…)      Sia la Relatio che le domande sono state pubblicate sulle pagine internet delle diocesi, per dare ai fedeli e alle parrocchie la possibilità di esprimersi dentro la propria diocesi. Anche il Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZdK), la Conferenza dei Superiori degli Ordini Tedeschi (DOK) e il Convegno delle Facoltà di Teologia Cattolica sono stati pregati di esprimere la propria opinione.

            Il fatto che il popolo di Dio sia stato consultato anche per la preparazione del Sinodo Episcopale Ordinario del 2015 è stato recepito molto positivamente nelle diocesi e nelle associazioni. I fedeli sono riconoscenti di essere stati interpellati e vedono in questo fatto un’intensificazione del dialogo all’interno della Chiesa. Tuttavia, in molte risposte vengono criticate le formulazioni delle domande, contrassegnate dall’uso di termini teologici, da ridondanze e da espressioni lontane dalla vita reale: molti fedeli non riescono a riconoscervi le esperienze che hanno fatto nel matrimonio e nella famiglia. Per questo motivo spesso non è stato possibile rispondere a tutte le domande e nel complesso la partecipazione dei fedeli è stata minore di quella relativa al questionario per la preparazione del Sinodo Episcopale Straordinario dell’anno scorso.

            Tuttavia occorre tener conto, oltre che della scarsità del tempo a disposizione, anche del fatto che le nuove domande non vogliono descrivere l’attuale situazione del matrimonio e della famiglia ci si occupa, bensì maturare nuove risposte pastorali. La ripetizione del questionario ha risvegliato in molti fedeli grandi attese dal Sinodo dei Vescovi, da cui sperano un ulteriore sviluppo della dottrina della Chiesa e della sua pastorale del matrimonio e della famiglia.

Nella loro consultazione i vescovi hanno tenuto conto anche delle opinioni dei responsabili diocesani della pastorale del matrimonio e della famiglia, dei centri di educazione familiare e in diverse diocesi anche dei voti delle commissioni di consulenza diocesana (consiglio dei sacerdoti, consiglio pastorale diocesano, consiglio religioso). Inoltre, da quando è stato dato l’annuncio del Sinodo Episcopale, nella stampa cattolica e nelle riviste di teologia vengono intensamente discussi i problemi della pastorale matrimoniale e familiare.

            Terminata la consultazione del popolo di Dio la Conferenza Episcopale Tedesca formula nelle pagine seguenti le sue risposte, che trattano alcuni temi fondamentali in modo particolare. In questo si lascia guidare dalla “svolta pastorale che il Sinodo Straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di Papa Francesco” (Lineamenta, pag. 26), e sostiene espressamente una “pastorale capace di riconoscere l’opera libera del Signore anche fuori dai nostri schemi consueti e di assumere senza impaccio, quella condizione di ‘ospedale da campo’ che tanto giova all’annuncio della misericordia di Dio” (Lineamenta, pag. 21).

            La domanda introduttiva concernente tutte le parti della Relatio Synodi Contrariamente alla richiesta formulata all’inizio del questionario, partendo dal concetto delle “periferie esistenziali” per sviluppare la dottrina del matrimonio e della famiglia, nella Relatio Synodi e nelle formulazioni del questionario si considera ancora troppo un’immagine ideale della famiglia, che non tiene conto delle realtà esistenti nella società tedesca. Si deplora ad esempio il fatto che a molte persone questa idealizzazione del matrimonio e della famiglia non sia di giovamento, ma che al contrario contribuisca a far sì che molti rinuncino a contrarre un matrimonio sacramentale.

(…) Da diversi anni aumenta il numero dei matrimoni contratti tra un partner cattolico e uno senza confessione, che spesso ha una posizione distante dalla fede. Qui si pone la difficile domanda di come la Chiesa possa supportare il coniuge cattolico nel suo sforzo di vivere la fede e di trasmetterla ai figli senza indebolire la convivenza e il rapporto d’amore. Viene inoltre constatato e deprecato il fatto che non venga tematizzata la vita di persone di orientamento omosessuale, quando l’omosessualità viene vissuta in una convivenza e – rispetto al questionario spedito prima del Sinodo Straordinario – che venga evitato anche il problema dei metodi anticoncezionali, che a sua volta viene indicato come una delle cause principali della discrepanza con l’insegnamento della Chiesa. (…)

                        La parte L’ascolto: il contesto e le sfide sulla famiglia

Il contesto socio-culturale. Sulle domande da 1 a 6. In Germania, per quanto riguarda i singoli servizi, la pastorale ha a disposizione numerosi strumenti analitici e diagnostici basati su scienze sociali e umane: essi spaziano da analisi demografiche a indagini demoscopiche, studi ambientali e psicologici, oltre a studi di valutazione sociologica su singoli servizi pastorali. Come hanno dimostrato le risposte del questionario di preparazione alla III Assemblea Generale Straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 2014, la situazione socioculturale in cui si trova attualmente la pastorale familiare della Chiesa è contrassegnata da un conflitto chiaramente percepibile. In molti settori della società si riscontra da una parte un desiderio di rapporti riusciti e concetti come convivenza, genitorialità e famiglia sono tenuti in grande considerazione mentre dall’altra parte si può osservare che negli anni scorsi il numero dei matrimoni civili e religiosi è fortemente diminuito, che il numero dei divorzi civili rimane fermo a un livello elevato e che molti aspetti della dottrina della Chiesa relativi a sessualità, convivenza e matrimonio vengono compresi a mala pena anche da cattolici praticanti e che non vengono neppure praticati.

            Anche nella società civile si nota una simile situazione conflittuale dentro il matrimonio e la famiglia. Se da una parte concetti come convivenza, matrimonio e famiglia godono di un apprezzamento che talvolta sembra eccessivo, dall’altra parte il mondo economico e lavorativo esercita una forte tendenza alla marginalizzazione della vita familiare, cui vengono lasciati solo ritagli di tempo e le cui difficoltà devono essere affrontate solo privatamente. In questo conflitto tra grandi attese riposte nella vita di famiglia da una parte e sfavorevoli condizioni quando dall’altra si può constatare che i giovani incontrano forti ostacoli ad affrontare il matrimonio e la famiglia. Ciò si rispecchia anche nella situazione demografica. La Germania registra uno dei tassi di natalità più bassi del mondo. Questa divergenza ci sprona a ritornare ad annunciare di nuovo il Vangelo della famiglia e a tener conto in questo contesto delle esperienze e delle convinzioni etiche delle famiglie e delle guide spirituali. È anche importante che le guide spirituali controllino con occhio critico la propria predicazione e pratica pastorale, lasciando da parte ogni atteggiamento di superiorità e trovando un linguaggio sensibile e semplice che aiuti le persone, soprattutto quelle che si trovano in situazioni difficili.

            II parte: Lo sguardo su Cristo: il Vangelo della famiglia

Lo sguardo su Cristo e la pedagogia divina nella storia della salvezza. Sulle domande da 7 a 10

Una predicazione del Vangelo della famiglia “con rinnovata freschezza ed entusiasmo” (Relatio Synodi, n. 4) parte da un’attenta conoscenza della persona nella sua situazione individuale. La realtà della sua vita, le sue gioie e difficoltà, ma anche i suoi valori e i suoi desideri devono essere accolti con un atteggiamento benevolo. Nella nostra società la famiglia è considerata di per sé uno dei valori più alti.

E c’è anche un denominatore comune, un consenso che lega tra di loro i valori vissuti nel matrimonio e nella famiglia: amore, fedeltà, fiducia, l’aiuto reciproco e il sostegno, anche nei periodi di lunga malattia e di bisogno – sicurezza e affidabilità, la stima e l’atteggiamento benevolo sono sempre elencati come valori centrali del matrimonio e della famiglia.

Quasi tutti i giovani desiderano in futuro avere figli e vivere in una famiglia stabile. Esprimono, infatti, il desiderio di essere fedeli per tutta la vita, di vivere un amore senza condizioni, un’amicizia vera e un legame personale. I desideri e i valori delle persone sono ostacolati da svariate esperienze di pericolo e debolezza, come pure dai timori e dalle paure ad esse legate, che una predicazione del Vangelo deve prendere sul serio.

Una pastorale religiosa e una catechesi matrimoniale saranno bene accolte se, partendo dalla situazione esistenziale delle coppie e delle famiglie, dai loro desideri e dalle rispettive quotidiane difficoltà, riusciranno ad offrire loro aiuto e sostegno. (…)

La pastorale del matrimonio e della famiglia può iniziare già molto prima del matrimonio come pastorale della coppia, per accompagnare il processo di maturazione e anche contribuire a chiarire se un’amicizia e una convivenza possono sfociare nel matrimonio. Si dovrebbe vedere come una guida che accompagna le persone nel loro percorso attraverso le diverse fasi della vita, offrendo un’interpretazione religiosa, ma dando anche forza e sostegno se desiderano confrontare la loro vita con il messaggio di Gesù.

            (…) Per sviluppare ulteriormente la pastorale del matrimonio religioso e della famiglia esiste la proposta di qualificare sempre più coppie di coniugi come protagonisti e moltiplicatori nella pastorale familiare, cosicché a lungo termine non solo singoli individui ma anche coniugi potranno assumere la responsabilità della guida pastorale e della catechesi di coniugi e famiglie. Per il reciproco accompagnamento, aiuto, ispirazione e sostegno di coniugi e famiglie si raccomanda di creare e potenziare reti. Un utile strumento si sono dimostrati idonei gruppi di famiglie o di persone del vicinato, ad esempio a livello parrocchiale, che però difficilmente raggiungono le giovani coppie.

            Sulla domanda n. 11

Dovranno essere riscoperti e approfonditi il significato del Sacramento del matrimonio e la sua importanza per la vita quotidiana nella pastorale matrimoniale e familiare. (…)

Il rapporto matrimoniale viene vissuto come un dono che non ci si può “fare” da soli. Contemporaneamente i coniugi vedono che la riuscita del loro matrimonio non è certa, bensì a potenziale rischio. (…) Il significato del Sacramento del matrimonio si rivela solo nella fede. La catechesi del matrimonio deve essere sempre inglobata in una generale catechesi cristiana che rende più intenso il rapporto con Gesù Cristo e con Dio, Padre amoroso e misericordioso. (…)

            Sulle domande n. 13-14

Il Sacramento del matrimonio è strettamente legato alla sacramentalità della Chiesa, della cui comunità fa parte. Nella comunità religiosa la famiglia dovrà essere in futuro sempre più percepita come una Chiesa in piccolo e soggetto di evangelizzazione. Essendo la più piccola forma della Communio religiosa, la famiglia può diventare il luogo dell’annuncio della parola di Dio, del servizio al prossimo e della celebrazione della fede. (…)

Quando si riesce a percepire la testimonianza di vita delle famiglie cristiane si parlerà automaticamente di fede. In Germania il concetto di famiglia vista come “Chiesa domestica” non è molto forte. Il Sinodo dovrebbe perciò proseguire nella riflessione teologica del concetto di “Chiesa domestica” nel senso di Lumen gentium 11. (…)

Non per ultimo anche la percezione della Chiesa come istituzione ha influenza sulle famiglie e sulla società. Proprio nel settore socio-economico, ad esempio, il comportamento della Chiesa come datore di lavoro, il suo atteggiamento missionario e a misura di famiglia sono il banco di prova della credibilità del suo messaggio.

{Anche l’organizzazione interna del Vaticano inficia talora la credibilità del messaggio. Ad esempio i cardinali dovrebbero essere in servizio ad tempus, poi decadono: i Presidenti delle Conferenze episcopali nazionali solo durante la loro presidenza, i cardinali che presiedono i dicasteri della Curia per tot anni, poi decadono, i cardinali residenziali per tot anni, poi decadono. I Cardinali diaconi posso essere anche donne- ndr}

            La famiglia nei documenti della Chiesa. Sulle domande 15-16.

(…)      Poiché la vita matrimoniale è una forma particolare dell’imitazione di Cristo essa ha bisogno anche del sostegno, dello stimolo e dell’approfondimento di una spiritualità matrimoniale e familiare specifica, che aiuti i coniugi ad adempiere la loro missione nella Chiesa e nel mondo attingendo alla fonte della grazia del Sacramento del matrimonio. Occorre innanzitutto percepire con attenzione quanta spiritualità venga già vissuta nel matrimonio e nella famiglia. Deve essere destata e approfondita la consapevolezza che anche il servizio diaconico nella famiglia (aiuto e sostegno reciproco, educazione dei figli, presenza e premura l’uno per l’altro, assistenza di famigliari anziani, ammalati o disabili, ecc.….) nasconde una profonda dimensione spirituale: Gesù Cristo ha, infatti, dichiarato che il servizio a favore del prossimo è il principale luogo d’incontro cono lui (cfr. Mt 25). (…)

            L’indissolubilità del matrimonio e la gioia della convivenza. Sulle domande 17-22.

(…) In linea di massima nella pastorale si dovrebbe agire con un atteggiamento rispettoso anche nei confronti di coloro il cui modo di vivere non corrisponde o non corrisponde ancora agli insegnamenti del Vangelo. Occorre sviluppare una pastorale che sottolinei soprattutto il carattere di una situazione di cammino nel matrimonio e nella famiglia. Bisogna valutare se si può applicare la legge della gradualità o la dottrina della Chiesa antica del “logoi spermatikoi” [fattori originali].sul rapporto tra il matrimonio sacramentale e gli altri modi di vivere.

            III parte: Il confronto: prospettive pastorali Annunciare il Vangelo della famiglia oggi nei vari contesti.- Sulle domande 23-27.

In ogni momento, e viste le condizioni esterne, la pastorale della Chiesa rivendica il diritto di tener conto del proprium del messaggio cristiano: la buona novella di Gesù Cristo del nascente regno di Dio che è già tra gli uomini, testimoniato in modo definitivo e ineguagliabile con la Sua morte e Resurrezione dai morti. La Chiesa deve annunciare questo Vangelo come un messaggio di salvezza. La pastorale ha il compito di incoraggiare gli uomini a vedersi come collaboratori alla costruzione del regno di Dio, a lavorare attivamente e con sempre rinnovato coraggio per attingere alle fonti della comunità dei fedeli, a conoscere concretamente nella loro quotidianità il dono della salvezza e della libertà e a trasmettere questa esperienza. In questo generale contesto si trova anche la pastorale del matrimonio e della famiglia.

Nella moderna società tedesca la sfera privata delle convivenze, del matrimonio e della famiglia è molto importante, per alcuni aspetti la sua importanza è perfino aumentata. Anche e soprattutto in queste situazioni esistenziali i fedeli sono invitati e incoraggiati a collaborare alla costruzione del regno di Dio. In primo luogo ciò significa cercare sempre il bene degli altri attingendo alle fonti della fede, prendersi cura delle persone che ci sono state affidate e realizzare insieme a loro una parte della “famiglia di Dio” dentro l’emancipata complessità dei rapporti postmoderni.

(…)      Nel complesso la pastorale matrimoniale e familiare ha bisogno di un orientamento fondamentale basato sulla stima, che partendo dai desideri delle persone esamina dapprima quali passi esse abbiano già intrapreso sul cammino verso una vita consapevole e responsabile nell’amore e nella fedeltà, e dia quindi possibilità di orientamento e sostegno radicate nel Vangelo. (…) Ciò vale anche per famiglie monoparentali, coppie di fatto, famiglie allargate e matrimoni in crisi: in particolare la pastorale deve tenere in considerazione che una comunicazione aperta, senza pregiudizi e non moraleggiante è necessaria anche nei confronti di coloro che si considerano cristiani e cattolici, ma in materia di matrimonio e famiglia non vivono, o non possono vivere, in pieno accordo con l’insegnamento della Chiesa.

Si tratta di permettere, con affetto e sensibilità, che ogni individuo percorra il suo cammino individuale (anche nella ricerca di Dio) e che venga seguito con consigli, ma senza atteggiamenti paternalistici. Come testimoniano all’unanimità le risposte pervenute i cattolici delle diocesi tedesche chiedono, in parte con insistenza, alla pastorale della loro Chiesa questo modo di avvicinarsi alle persone, ispirato dl messaggio positivo del Vangelo. Si spera in particolare che i rappresentanti della Chiesa adottino una comunicazione che punti più sull’atteggiamento invitante e meno sulla definizione di chiari confini.

(…) Tanto più importanti sono corsi che aiutino a orientarsi e a trovare un nuovo indirizzo. In questi sviluppi la Chiesa si trova di fronte alla sfida di chiarire il rapporto tra norme oggettive sostenute dalla comunità dei fedeli e dal magistero della Chiesa da una parte e le convinzioni soggettive della coscienza dei fedeli dall’altra. Ma non si deve relativizzare l’importanza e il potere di orientamento della dottrina della Chiesa, né deve essere oscurato o addirittura eluso il significato della coscienza individuale quale ultima soggettiva istanza di decisione del singolo. In questo conflitto è decisamente necessario richiamare, ma anche rendere comprensibile, la dottrina della Chiesa nel senso di una responsabile educazione della coscienza. Il magistero si trova qui di fronte al compito di riesaminare sempre con sincerità e autocritica se la dottrina sia davvero comunicabile agli uomini in tutti i suoi aspetti e sotto ogni prospettiva. Su questo punto, come già nel questionario spedito prima del Sinodo Straordinario del 2014, le risposte pervenute dalle diocesi ribadiscono nuovamente il fatto che su molti temi di etica sessuale l’insegnamento della Chiesa non viene (più) né compreso né accettato. Dall’altra parte viene contemporaneamente sottolineato che alcuni aspetti centrali della dottrina della Chiesa riguardanti il matrimonio e la famiglia sono tuttora molto importanti. A questo proposito viene esplicitamente segnalato il fatto che gran parte della popolazione accetta la monogamia, ha un’alta stima del matrimonio come comunità d’amore, riconosce la fedeltà come valore nel rapporto e il legame esistente tra matrimonio e desiderio di avere figli. (…)

            Accompagnare i promessi sposi nel cammino di preparazione al matrimonio e i primi anni della vita matrimoniale Sulle domande 28-31

In Germania la Chiesa è impegnata a diversi livelli e in molteplici modi nella pastorale della preparazione al matrimonio, dell’accompagnamento al matrimonio, dell’incoraggiamento alla trasmissione della vita, del sostegno alle famiglie e del miglioramento di competenze genitoriali, spesso però più in modo puntuale che distribuito su tutto il territorio. E si può affermare con chiarezza che laddove le istituzioni religiose offrono servizi a persone che hanno una relazione sentimentale, o vivono nel matrimonio o hanno problemi familiari esse sono apprezzate quando questi sono servizi palesemente seri e professionalmente qualificati, che hanno lo scopo di aiutare le persone nella loro situazione sentimentale, matrimoniale e familiare e offrono loro orientamento per raggiungere gli obiettivi di cui sopra. (…). Ma è altrettanto evidente che le diocesi devono avvertire la propria responsabilità e che non ci può essere un solo modello per i corsi di preparazione al matrimonio e l’accompagnamento di coppie e famiglie. In una società caratterizzata dall’enorme pluralità dei modi di vivere i metodi, l’approccio e le offerte della pastorale del matrimonio e della famiglia devono offrire una certa molteplicità per la soluzione di un problema centrale comune. Una pastorale che per sviluppare e promuovere le risorse umane parte dalla luce della fede, nonostante la sua presenza, nei periodi di crisi esistenziale terrà sempre in considerazione anche l’aspetto del sostegno preventivo delle competenze individuali. (…)Questa è una cosa naturale nella pastorale del matrimonio e della famiglia. Corsi di promozione della comunicazione della coppia, la disponibilità ad impegnarsi nel rapporto (“Commitment”), così come la consulenza individuale di coniugi e famiglie sono più produttivi se vengono impiegati in funzione preventiva e di sostegno del rapporto piuttosto che quando agiscono come forza d’intervento in caso di crisi. Proprio nella consulenza matrimoniale, familiare ed esistenziale cattolica viene spesso sottolineato che consulenze, se richieste per tempo, possono spesso avere molta efficacia nel sostenere il matrimonio e il rapporto. (…)

La pastorale per coloro che convivono in un matrimonio civile o senza certificato di matrimonio. Sulle domande 32-34

Prima del matrimonio civile o religioso la maggior parte delle coppie convive già da molti anni e vede la celebrazione del matrimonio come una nuova, indubbiamente importante, tappa della vita comune. Spesso ci si sposa perché si vogliono avere dei bambini. Ci sono però anche molte coppie cattoliche che si sposano solo con matrimonio civile, mentre molte non possono sposarsi in Chiesa, ad esempio perché un partner è divorziato civilmente. Perciò il problema di un’adeguata pastorale nei confronti di questi modelli di vita si riflette nelle risposte. Una pastorale che in questi legami vede solo un peccato e che di conseguenza esorta a cambiare vita è controproducente e si trova già in contraddizione con le esperienze positive che queste coppie fanno in questo tipo di convivenze.

Anche in rapporti senza certificato di matrimonio e in matrimoni civili vengono vissuti valori come amore, fedeltà, responsabilità reciproca e verso i figli, affidabilità e disponibilità alla riconciliazione, tutti valori che dal punto di vista cristiano meritano riconoscimento. Proprio i giovani hanno bisogno di una pastorale che sostenga e accompagni con apprezzamento i loro svariati tentativi di stringere rapporti e di viverli. (…)

Di fronte ad una situazione sociale in cui l’aspetto istituzionale del rapporto di coppia viene spesso trascurato, bisogna riflettere sul giudizio della Chiesa sul matrimonio civile, in cui i partner assumono responsabilità in modo giuridicamente vincolante l’uno per l’altro e per i loro figli. Bisogna quindi studiare con maggiore attenzione il fenomeno del “matrimonio civile” nella teologia, nel diritto ecclesiastico e anche nella pastorale.

            Curare le famiglie ferite (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati, famiglie monoparentali) Sulla domanda n. 35

Anziani, ammalati e disabili dipendono in modo particolare dal sostegno della famiglia. Nella convivenza di disabili con persone sane, di ammalati e sani, giovani e anziani tutti i membri della famiglia possono provare amore, riconoscimento, coraggio e gioia di vivere. Un compito sempre più importante della pastorale familiare sarà quello di aiutare le famiglie in modo che riescano ad assumersi le proprie responsabilità. Infatti, spesso le famiglie si sentono impegnate oltre le proprie forze nell’assistenza pluriennale di persone ammalate o disabili. Hanno perciò bisogno sia di un sostegno economico che di un aiuto psicosociale e spirituale da parte di altre famiglie e della comunità. (…)

Sulle domande 36-38

La domanda relativa alla pastorale per cattolici divorziati e risposati è stata risposta da tutti e per lo più anche molto dettagliatamente. Essa preoccupa molti fedeli anche oltre la cerchia di coloro che hanno alle spalle un matrimonio naufragato. Indubbiamente questa rimane una posizione chiave per la credibilità della Chiesa. L’attesa che il Sinodo dei Vescovi apra nuove strade in questo punto è molto elevata tra i fedeli. A questo proposito salta agli occhi che il popolo di Dio non esprime un invito indifferenziato ad avere misericordia, ma che argomenta con distinzioni teologiche. Il fallimento di un matrimonio è un processo doloroso, accompagnato da sensi di colpa. I fedeli si aspettano che la Chiesa accompagni con sostegno e comprensione persone il cui matrimonio è fallito e non che le spinga ai margini della comunità.

Dovrebbero piuttosto essere incoraggiate a collaborare attivamente nella comunità (cfr. a. Familiaris consortio, n. 84). Da questa prospettiva viene anche dibattuta la questione della possibilità dell’ammissione al sacramento della riconciliazione e alla comunione sacramentale di cattolici divorziati e risposati.

I sacramenti vengono considerati innanzitutto un mezzo di salvezza: in essi Cristo viene in aiuto alle persone deboli e colpevoli. Per la gran parte dei cattolici l’esclusione dai sacramenti, soprattutto se è permanente, come nel caso dei divorziati risposati, è in contraddizione con la loro convinzione che Dio perdoni ogni peccato, dia la possibilità di cambiare direzione e consenta un nuovo inizio. Quanto all’ammissione ai sacramenti la maggior parte dei fedeli si aspetta soluzioni strutturali invece che eccezioni pastorali compiute di nascosto.

Questa non sarebbe un’ammissione indifferenziata ai sacramenti, sarebbe bensì vincolata a dei criteri. Solo pochi fedeli rifiutano per principio l’ammissione alla Comunione di divorziati risposati perché temono che così potrebbe venir indebolita la testimonianza della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La grande maggioranza dei fedeli non condivide questo timore. (…)

 Per questo motivo incontra molta approvazione la delibera del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Tedesca del 24 giugno 2014 sulle “Vie teologicamente sostenibili e pastoralmente adeguate per l’accompagnamento dei divorziati risposati”. Nella loro delibera i vescovi tedeschi propongono di ammettere al Sacramento della riconciliazione e alla Comunione i fedeli divorziati e risposati se è definitivamente fallita la vita comune nel matrimonio canonicamente valido, se i doveri risultanti dal primo matrimonio sono chiaramente definiti, se si pentono del fallimento del primo matrimonio e con tutte le loro forze si impegnano a vivere il secondo matrimonio nella fede e a educare i figli nella fede. È stata avanzata anche la proposta di riconsiderare il fallimento del matrimonio sotto il profilo del diritto canonico, della dogmatica e della pastorale creando delle forme liturgiche in cui trovano espressione davanti a Dio il dolore sulla separazione e le recriminazioni su ferite o umiliazioni, ma anche la speranza di un nuovo inizio.

Dal punto di vista della teologia sacramentale bisogna chiarire il rapporto tra fede e Sacramento del matrimonio. Diverse diocesi e associazioni ritengono che sia saggio riflettere sulla prassi delle chiese ortodosse, non per adottarla, bensì per aprire vie analoghe nella Chiesa cattolica. A questo proposito bisognerebbe fornire un’interpretazione teologica.

In questo contesto si consiglia di riflettere sulla benedizione di un secondo matrimonio (civile), che però si dovrebbe chiaramente distinguere dal matrimonio religioso. Sono sicuramente benvenute delle facilitazioni nei processi di annullamento del matrimonio e una riduzione dei costi (innanzitutto per le perizie). Alcuni esperti propongono di rinunciare al generale trattamento di una seconda istanza, dato che di regola questa conferma il giudizio della prima istanza, e di far emettere il verdetto della prima istanza da un collegio invece che da un singolo giudice. Si potrebbe anche riflettere se non richiedano un controllo le presunzioni legali nel diritto matrimoniale. Tuttavia un’agevolazione del processo non costituisce una generale soluzione del problema. Se paragonato con l’elevato numero di persone interessate quello di coloro che battono la strada di tale procedimento è molto modesto e probabilmente aumenterebbe di poco anche se questo processo venisse semplificato. Non si dovrebbe perciò dare troppa importanza a queste misure.

            Sulla domanda 39

Nell’oltre 40 % dei matrimoni in cui uno dei partner è cattolico l’altro appartiene ad un’altra confessione cristiana, in genere a quella evangelica. Cresce inoltre il numero dei matrimoni tra un partner cattolico ed uno senza confessione. Per questo motivo la domanda sull’accompagnamento pastorale è molto trattata nelle risposte. I fedeli si aspettano che anche la vita matrimoniale e familiare di partner di diversa confessione sia aiutata dalla Chiesa (secondo il can. 1128 CIC) e che il coniuge non cattolico venga invitato a partecipare alla vita della comunità, anche se l’organizzazione della vita religiosa nella famiglia deve essere lasciata ai due partner. Un ampio spazio nelle risposte occupa la domanda su una possibile ammissione del coniuge non cattolico, specialmente se evangelico, alla comunione sacramentale. L’esclusione dalla comunione del partner di un’altra confessione viene considerata un ostacolo, in particolare per l’educazione cristiana dei figli. Dal punto di vista teologico si sottolinea che l’esortazione apostolica Familiaris consortio (1981) esprime chiaramente l’apprezzamento dei matrimoni misti, mettendo in rilievo il significato dell’Eucarestia come “fonte del matrimonio cristiano” (n. 57). (…)

L’attenzione pastorale verso le persone con orientamento omosessuale Sulla domanda n. 40

In Germania le convivenze omosessuali hanno uno status diverso da quello del matrimonio (“unioni civili”). Il loro riconoscimento si basa su un largo consenso sociale che viene sostenuto anche dalla maggioranza dei cattolici, come hanno dimostrato tra l’altro anche le risposte al primo questionario per la preparazione del Sinodo Straordinario.

I fedeli si aspettano che ogni persona, indipendentemente dal suo orientamento sessuale, venga accettata dalla Chiesa come dalla società e che nelle parrocchie venga creato un clima di stima nei confronti di ogni persona. Quasi tutte le risposte concordano con il giudizio provato dalle scienze umane (medicina, psicologia) che l’orientamento sessuale è una disposizione immutabile e non scelta dal singolo.

Per questo motivo irrita il discorso delle “tendenze omosessuali” citate nel questionario e viene percepito come discriminante. Solo singoli interpellati rifiutano in linea di principio rapporti omosessuali perché gravemente peccaminosi.

La maggioranza si aspetta dalla Chiesa una valutazione più differenziata basata sulla teologia morale, che tenga conto delle esperienze pastorali e delle conoscenze scientifiche. Quasi tutti i cattolici accettano rapporti omosessuali se i partner vivono valori come amore, fedeltà, responsabilità reciproca e affidabilità, senza per questo mettere le convivenze omosessuali sullo stesso piano del matrimonio. Si tratta di accettarle pur affermandone contemporaneamente la diversità.

Alcune posizioni si pronunciano anche a favore di una benedizione di queste convivenze, differente rispetto al matrimonio. Una pastorale che accetta persone omosessuali esige una maturazione della morale sessuale religiosa, che tenga conto delle più avanzate conoscenze scientifiche, antropologiche, esegetiche e teologiche.

            La trasmissione della vita e la sfida della denatalità. Sulle domande 41-44

Da molti anni in Germania il calo delle nascite è un tema che è spesso all’ordine del giorno. Il centro del problema è il fatto che i giovani desiderano formare una famiglia e avere dei figli molto più di quanto negli anni successivi riescano a realizzare questo desiderio. I motivi di questa discrepanza sono numerosi e vanno dal problema del trovare il coniuge giusto, ai lunghi tempi necessari prima di raggiungere l’indipendenza economica fino alla rassegnazione di fronte ad un esagerato desiderio di ideale genitorialità.

In questa situazione non serve fare appello tramite un’esortazione morale alla responsabilità di trasmettere la vita. Il desiderio di avere un figlio è una questione personalissima tra due persone che si vogliono bene. Questa decisione non può essere presa né dallo Stato e neppure dalla Chiesa. Anche accenni alle gravi conseguenze del cambiamento demografico non influenzano la reale vita dei singoli individui.

È invece necessario riprendere e potenziare il desiderio dei giovani di avere una famiglia propria e dei figli propri e impegnarsi innanzitutto a ridurre le difficoltà della politica sociale che ostacolano un tale progetto di vita. (…)

            La sfida dell’educazione e il ruolo della famiglia nell’evangelizzazione. Sulle domande 45-46

Nel suo ruolo di istituzione che aiuta le famiglie nel loro compito educativo, la Chiesa cattolica in Germania gode di molta stima. Gruppi di bambini nella prima infanzia, asili infantili, scuole, istituti professionali e istituti universitari di pedagogia, centri di educazione familiare, corsi di educazione, lettere ai genitori, aiuti vari e molto altro sono da ritenere elementi di un’importante campo di attività della Chiesa.

L’insegnamento della religione, la catechesi familiare nella preparazione alla Prima Comunione e numerose possibilità di insegnamento della religione aiutano le famiglie a trasmettere la fede. Però questo sostegno deve avvenire in forme adeguate ai tempi e all’età. Progetti che si sono rivelati utili in passato non sono illimitatamente validi in futuro.

È chiaramente percepibile il desiderio delle famiglie di dare orientamento ai figli quando affrontano la vita, spesso però è accompagnato da un’insicurezza su come questo desiderio possa essere realizzato.

           

Gay e divorziati risposati: 572 preti USA rispondono al questionario e chiedono aperture.

(…)      Se lo scorso mese ben 500 preti inglesi sono scesi in campo – con una lettera pubblicata sul settimanale Catholic Herald per esprimere l’auspicio che il Sinodo produca «una proclamazione chiara e ferma» a sostegno della dottrina della Chiesa sul matrimonio, il 10 aprile scorso altrettanti, ma a partire dall’altra sponda dell’oceano, hanno fatto lo stesso, dando corpo però a una serie di suggerimenti che vanno nella direzione opposta a quella auspicata oltre Manica. Il documento diffuso dall’Association of U.S. Catholic priests (Auscp) raccoglie le risposte pervenute da 572 sacerdoti statunitensi (428 membri dell’associazione – che conta nel suo complesso più di mille aderenti – e 144 esterni) cui è stato chiesto, oltre che di rispondere alle 46 domande del questionario, di ordinarle per importanza.

Il primo posto se l’è conquistato la domanda n. 20 – «Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?» – nel rispondere alla quale i preti Usa preannunciano il tenore di tutto il documento: «Non presumendo che chi è nella Chiesa sia nella ragione e chi ne è al di fuori sia nel torto»; «accogliendo anziché rifiutando e discriminando i cattolici divorziati risposati e omosessuali»; «rispettando il primato della coscienza in caso di dilemmi morali», vi si legge tra le altre cose.

Al secondo posto i 572 piazzano la domanda sulla questione ritenuta più delicata, quella relativa alla pastorale rivolta alle famiglie che hanno al loro interno persone con «tendenza omosessuale». Per i preti Usa la comunità cristiana può assolvere a questo compito «offendo una teologia della sessualità nuova e sana»; «apprezzando il valore delle unioni civili gay»; riconsiderando l’idea che il sesso sia legato per forza alla procreazione; trattando gli omosessuali come sorelle e fratelli «con lo stesso desiderio di amore, impegno e cura dei bambini»; «usando una terminologia moderna», per esempio, suggeriscono, utilizzando “orientamento omosessuale” al posto di “tendenze omosessuali”. I sacerdoti sono ancora più netti nel rispondere alla domanda relativa a come «prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo»: «Istituendo un rito specifico per le unioni dello stesso sesso», è uno dei suggerimenti forniti, corredato dall’invito a «mettere in discussione l’assunto per cui Dio desidera solo l’unione uomo-donna» in risposta alla domanda seguente («Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?»).

Altrettanto nette le risposte relative alla pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati, come lasciava prevedere il primo blocco di risposte: i 572 suggeriscono, infatti, tra le altre cose, di riammetterli all’eucarestia, «nutrimento per vivere vite fedeli e di amore da parte di coppie in un nuovo matrimonio».

I preti Usa suggeriscono poi di «prendere coscienza del fatto che il dogma della Chiesa in materia di matrimonio e famiglia è troppo rigido», consigliando addirittura di «imparare dai protestanti che fanno un lavoro migliore nell’applicare i valori scritturistici alla famiglia»; di «favorire un grande coinvolgimento dei laici nella catechesi e nel ministero»; di «assicurarsi che coloro che vengono ordinati capiscano che non per questo sono automaticamente qualificati per l’attività pastorale relativa al matrimonio»; di far comprendere ai ministri che coppie e famiglie in serie difficoltà devono essere affidate a specialisti; di «ordinare uomini sposati al sacerdozio e donne sposate al diaconato: potrebbero meglio esercitare il ministero con le famiglie»; di «non cercare di incasellare relazioni amorose e feconde nel modello dottrinale della Chiesa».

«Dio dalle nostre vite non si aspetta la perfezione», è uno dei commenti raccolti dall’Auscp e proposto in calce al documento insieme ad altri. «Noi viviamo con i nostri punti di forza e di debolezza. Facciamo degli errori. La grazia è la misericordia di Dio che ci circonda, con il perdono e la forza di muoverci in una direzione che ci avvicina a Dio. Dobbiamo incoraggiare questo movimento, piuttosto che punire le persone che non raggiungono la perfezione!».

Ingrid Colanicchia     Adista” – documenti – n. 16, 2 maggio 2015

www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54945

 

Lessico familiare: le vostre risposte alle 46 domande.

La consultazione dell’«intero popolo di Dio» avviata con i Lineamenta in preparazione del Sinodo straordinario dello scorso anno è stata riproposta anche nel 2015 con le «46 domande» pubblicate a dicembre 2014. Esse hanno trovato sicuramente un terreno più dissodato rispetto al 2014, anche se è sempre difficile misurare l’effettiva capillarità del lavoro effettuato dalle diocesi, mentre dal punto di vista mediatico alcuni temi sinodali sono stati sin troppo coperti.

            Tramite il nostro blog – L’Indice del Sinodo – abbiamo nuovamente offerto la disponibilità di diventare anche noi un punto di collegamento rispetto alla Segreteria del Sinodo, e così ora possiamo fare una sintesi dei 52 questionari giunti in redazione (prevalentemente dal nord Italia) e poi da noi inviati a Roma, che sono l’espressione della riflessione di più di 600 persone: rispetto ai 76 dello scorso anno (in rappresentanza della metà – 320 – dei lettori; possiamo cogliere un lavoro più intenso, frutto di riflessioni scaturite da incontri di gruppo (spesso più d’uno), e mirato, così come lo erano le 46 domande.

            In effetti, la formulazione più organica dei Lineamenta che preparano il Sinodo ordinario del 2015 è stata colta dai gruppi anche se il giudizio sul linguaggio si divide per una metà valutato molto clericale e facente riferimento a una famiglia astratta, fuori dalla realtà; mentre per l’altra metà viene valutato positivamente lo sforzo fatto non solo in assoluto di dibattere su questi temi ma anche di assumere un linguaggio nuovo.

            Per sintetizzare i ricchi materiali giunti in redazione – che quindi sono rappresentativi solamente di se stessi – mi servirò di alcuni nuclei concettuali a mo’ d’indice dei temi.

            Undicesimo: non escludere Eucaristia. La convinzione che il sacramento dell’eucaristia sia da interpretare come «medicina» per i «malati» e non come «premio» per i giusti è unanime. Non si parla neppure implicitamente di diritto ma di viatico, sostegno nel cammino di fede delle singole persone: sono queste ultime i soggetti del percorso di fede, a prescindere dallo stato dei loro legami famigliari o dalle tendenze sessuali. Accoglienza e misericordia sono termini ricorrenti. Qualcuno afferma che proporre la cosiddetta «comunione spirituale» sarebbe una forma di «contraddizione» (Torino). Altri sottolineano la necessità che i genitori che chiedono convintamente i sacramenti – l’eucaristia – per i figli possano anch’essi accedervi.

            Confessione. Sulla confessione non vi sono molti cenni se non su due aspetti. Il primo: subordinare l’assoluzione a una vita di coppia (nel caso di una nuova unione o nel caso di un’unione omosessuale) in regime di «fratellanza» è ritenuta in stragrande maggioranza un atteggiamento che non tiene conto della concreta vita in comune; il secondo che rivela un pregiudizio sull’esercizio della sessualità che non è sempre ritenuto da tutti equo: una lettrice afferma che non vi è da parte della Chiesa altrettanta forza nel condannare, ad esempio, una sessualità agita in via occasionale o quegli uomini sposati che frequentano prostitute. O anche reati quali l’evasione fiscale.

            Nuove nozze. Sgomberare il campo dalla questione dei sacramenti non significa però minimizzare o sottovalutare la questione dei fallimenti dei matrimoni religiosi. Vi sono almeno due grandi lenti d’analisi.

La prima è quella dell’«umano» coinvolto dai legami che spesso è fragile e bisognoso di sostegno. Riconoscere il fallimento di un’unione può essere necessario in casi estremi di violenza; in altri andrebbe valutato alla luce anche del bene dei figli laddove si pensa che mettere fine alla vita comune porti a una sorta di nuovo benessere automatico anche per questi ultimi, ma – dice il gruppo di Bologna 4 – oggi è molto scarso il senso del sacrificio, della necessità del perdono reciproco, della fatica – necessaria – per ricominciare. In altri casi iniziare una nuova unione senza un’efficace elaborazione dei perché potrebbe ridare corpo alle medesime fragilità che hanno causato il primo fallimento. Insomma, non si può improvvisare una soluzione né stabilirla a priori e occorre fare ricorso a figure professionalmente competenti.

            La seconda è più quella della fede: da molti gruppi è evidenziato che il matrimonio cristiano rappresenta uno «scarto», un «paradosso», introducendo «la dimensione dell’irrevocabile» (Chicco di Senape, Torino) che è «altra» rispetto alla fragile umanità degli sposi che vivono immersi in una cultura individualistica che punta alla mera autorealizzazione del singolo; essa si rende possibile tramite il sacramento e la promessa di bene che lì è contenuta. L’indissolubilità in quanto tale non è messa in discussione da nessuno dei questionari; molti chiedono che tuttavia non sia considerata una sorta di condanna senza appello per chi fallisce. Sia attraverso – in maggioranza – lo studio della prassi ortodossa considerata «più fedele alla tradizione e al realismo cristiani» (Rimini); sia – in minoranza – riconoscendo una sorta di «morte del legame»; sia – in netta minoranza – ricorrendo al riconoscimento della nullità purché sia gratuita. Una persona afferma che la nullità sia solo canonica e non abbia anche ricadute sul piano civile, soprattutto laddove vi sono dei figli, per i quali una tale pronuncia potrebbe essere vissuta come uno scandalo.

            Su questo specifico punto dobbiamo però registrare uno slittamento di alcune risposte che tendono a sottolineare una sorta di primato assoluto dell’amore di coppia arrivando a dire «se c’è amore lì c’è Dio» (leggi coppie omosessuali) quasi a rivendicare uno spazio invalicabile del giudizio di «qualità» in capo solo alla coppia stessa.

            Non è bene che la coppia sia sola.- I peccati della famiglia oggi. Nel recupero della dimensione sacramentale del matrimonio che non sia esclusione ma invito lieto a una vita «buona» per tutti, un gruppo, che scrive da Vittorio Veneto, ha individuato alcuni ostacoli, definiti «nuovi peccati» nella vita delle coppie: l’individualismo, l’egoismo, l’indifferenza, una poca cura degli anziani, il desiderio di «autocompiacimento» di alcune «belle» famiglie che porta all’esclusione delle altre, quelle diverse. È comune il giudizio che, pur essendo la libertà della persona un valore irrinunciabile, una forma strisciante d’individualismo stia avvelenando i rapporti interpersonali o faccia intendere la famiglia in senso meramente privatistico – i sociologi parlerebbero di «familismo» –; una mancanza di solidarietà vissuta nel quotidiano che poi chiude gli occhi di fronte alla povertà o alle esigenze di chi vive nel pianerottolo accanto. Una persona che risponde singolarmente insiste nella necessità di educare alla fedeltà e a percepire la gravità delle conseguenze dell’adulterio non solo nel coniuge tradito ma anche nei figli.

            In positivo molte risposte insistono sulla valorizzazione – come veri e propri sacramentali – dei gesti quotidiani della vita in comune: le preghiere ai pasti, il bacio della buonanotte, il chiedersi scusa: questi sono gli strumenti semplici che evangelizzano più in profondità.

            Catecumenato. Per molti e noti motivi oggi sposarsi si è fatto difficile; tanto più «in chiesa». Tutte le risposte concordano che i corsi di preparazione al matrimonio sono necessari ma ampiamente insufficienti, in quanto nella maggior parte dei casi devono far fronte a un vero e proprio percorso catecumenale. Molte diocesi si sono già organizzate in tal senso ma naturalmente il dato che viene evidenziato è: che cosa ne è del dopo? Le coppie appena sposate, che spesso hanno già figli piccoli, tendono a chiudersi e la comunità ecclesiale fatica a intercettarle. Almeno sin tanto che non si arriva alla preparazione dei figli ai sacramenti. A stragrande maggioranza si caldeggia un accompagnamento specifico lungo i primi anni della vita matrimoniale da parte di coppie sposate da più tempo e specificamente formate.

            Qualcuno rileva che vi sono molte coppie che si rivolgono alla Chiesa per avere una «bella cerimonia» ma sono decisamente poco convinte del sacramento. A volte sarebbe meglio dire dei no, magari proponendo la celebrazione del matrimonio civile come prima tappa di un cammino di riscoperta della fede che non conceda il sacramento con leggerezza. «Come dare un sacramento a chi da anni vive etsi Christus non daretur?» – sottolinea un gruppo da Torino.

            Chiesa sì, ma quale? La comunità rimane e deve rimanere il luogo «caldo» e accogliente dove tutti possono «sentirsi a casa». Anche perché – dice il gruppo legato alla rivista Matrimonio –, senza una comunità che condivide il medesimo cammino e nella quale ci si aiuta a portare i pesi gli uni degli altri, il messaggio evangelico sul matrimonio rimane una «prescrizione» rigida e inflessibile.

            Allo stesso modo vengono da molti valorizzati i gruppi, movimenti o associazioni che sono presenti nel quotidiano della famiglia come percorso di approfondimento della fede e occasione di condivisione (vengono citati i gruppi famiglia in generale, le Equipes Notre Dame e anche il Movimento neocatecumenale). La comunità ha tuttavia necessità di una decisa sterzata verso un effettivo protagonismo dei laici valorizzandone appieno la ministerialità battesimale e, solo dopo questa priorità, di una conseguente ripresa della valorizzazione della coppia – anche con forme di ministerialità «a due» (Bologna 2) – e del significato della famiglia come Chiesa domestica, ben consapevoli delle fragilità e dei «peccati» di cui si è detto.

            Terreni da dissodare. Bibbia (poca). Per questo a gran voce viene ribadita da tutti la necessità d’alimentare meglio e di più la spiritualità all’interno della coppia tramite un maggiore ricorso alla Parola che da molti viene ritenuta ancora «poco conosciuta» perché inflazionata da letture troppo «catechistiche» o di «seconda mano». Non si può – lo dicono molte risposte – fare del catechismo una sorta di «parcheggio» non solo dei figli ma anche dell’approfondimento della fede: il campo richiede un’ulteriore dissodatura. Si rileva inoltre un fatto: spesso è proprio chi viene da una precedente unione che manifesta un’esigenza forte di riandare alle radici della propria spiritualità e questo richiama tutte le altre coppie a non trascurare o minimizzare questo obiettivo che deve rimanere prioritario per tutti. La Bibbia a cinquant’anni dal Vaticano II non è ancora compagna della vita quotidiana nelle famiglie.

            Il Concilio è richiamato a gran voce in causa anche nel giudizio verso una Chiesa (gerarchica) percepita ancora molto «clericale» e – in molti casi anche se con notevoli eccezioni – poco preparata a condividere «le gioie e… le tristezze» delle famiglie d’oggi. Specie nei sacerdoti giovani le risposte arrivate rilevano una formazione astratta e poco abituata alla vita comunitaria; una formazione che tuttavia improvvisamente deve fare i conti con il lato meno nobile della vita di relazione venendo a contatto con il suo lato peggiore attraverso il confessionale (Ivrea); vi è un grande consenso rispetto al fatto di ripensare la formazione dei seminaristi in un maggiore intreccio con il quotidiano dei laici; in molti non vedono ostacoli alla proposta di togliere l’obbligatorietà del celibato – pur riconoscendone il valore e il significato – per il sacerdozio. La solitudine, pur essendo un dato esistenziale irriducibile, non è un bene se non è accompagnata da una sana vita «comunitaria» in senso specifico o in senso generale. I sacerdoti spesso sono «chiusi negli uffici» – dice una coppia di Modena.

            Il clericalismo si fa giudizio molto severo nei confronti di parroci, vescovi – e qualcuno azzarda anche nei confronti della Chiesa italiana – per come è stata considerata, in alcuni casi ignorata, la consultazione sinodale: non avendo strumenti per verificare questo rilievo, mi limito a registrare una considerazione che, tuttavia, non pare del tutto infondata.

            Omosessualità. Tutti i questionari segnalano la necessità di una «nuova» accoglienza delle persone omosessuali e, come dice una risposta giunta da Modena: «C’è ancora molto da capire sul tema; certo è che Gesù non discriminava nessuno». La domanda se la sessualità «agita» all’interno di queste coppie sia da «sanzionare» moralmente o meno è stralciata come irrilevante, a partire da una diffusa valorizzazione dell’aspetto unitivo della sessualità, che deve mitigare il giudizio anche sui rapporti pre-matrimoniali o nelle convivenze.

            Tutti dichiarano la possibilità di un riconoscimento civile delle unioni omosessuali anche se il matrimonio come istituto (e sacramento) è proprio della coppia eterosessuale. Qualcuno ipotizza una formula di benedizione ad hoc. Uno dei gruppi di omosessuali credenti italiani, il Gruppo Gionata, ha poi steso le risposte a 4 domande (8, 20, 38 e 40) invitando i singoli ad assumerle come proprie e a spedirle sia a noi sia al Sinodo per fare «massa critica». Sulla domanda 40, in particolare, afferma che «l’invito ad accogliere le persone omosessuali si scontra però con i documenti emanati dal magistero» e vi è il paradosso per cui «alla rigidezza dei principi si oppone una grande flessibilità pastorale», in modo tale che «una vera pastorale per le persone omosessuale non esiste». Non si vuole creare «una pastorale speciale», quanto partire dalla costatazione che le persone omosessuali (che sono «anche tra i chierici») meritano «alcune attenzioni» specifiche.

            Un altro gruppo di omosessuali credenti di Milano che ci ha inviato le proprie riflessioni, Il Guado, afferma che l’«omosessualità nelle nostre comunità è quasi sempre un tabù», che i genitori di ragazzi omosessuali «vengono lasciati soli e spesso vengono accusati (contro ogni evidenza scientifica) di essere causa dell’omosessualità dei figli. Vero è che – afferma il gruppo – le persone omosessuali incontrano «difficoltà maggiori (…) nel realizzare la volontà di Dio nella loro vita». La Chiesa dovrebbe «seguire con particolare attenzione le persone omosessuali, approfondendo le conoscenze a cui sono approdate le scienze umane e cercando, appoggiandosi a quelle conoscenze, gli strumenti più adatti per aiutare le persone omosessuali a vivere il Vangelo».

            S. Tommaso e la legge naturale. Sessualità e genitorialità responsabile. Nessuno inneggia a un esercizio della sessualità avulso dal matrimonio, anche se per molti, anche qui, occorre applicare il criterio della gradualità e del riconoscimento dei germi di bene presenti in realtà in divenire come possono essere rapporti di convivenza oggi molto diffusi per vari motivi anche di tipo economico-sociale. Molti concordano sull’idea che per troppo tempo la sessualità sia stata svilita da una lettura (reale o percepita tale) prevalentemente moralistico-funzionale che, di fatto, l’ha circoscritta al suo mero esercizio genitale. Qualcuno cita le catechesi di Giovanni Paolo II sulla corporeità come esempio positivo di un insegnamento «liberante» tuttavia poco conosciuto.

            Sullo specifico della paternità responsabile, ovvero del ricorso all’uso di contraccettivi anche all’interno delle coppie «cattoliche», tutte le risposte unanimemente ribadiscono il ruolo di discernimento che deve essere affidato alla coscienza degli sposi, fatta salva la distinzione – anche questa condivisa – tra dispositivi che impediscono il concepimento e dispositivi abortivi.

            Vi è un’evoluzione delle riflessioni meno banale del previsto sulla dicotomia naturale/artificiale, tanto è vero che il gruppo dei Viandanti riprende la frase di papa Francesco sull’«ecologia del generare». Un’espressione che potrebbe comportare numerose conseguenze. Una sul tema della «responsabilità» rispetto al numero di figli da generare rispetto alle concrete possibilità famigliari, al ben-essere di tutti – ma anche, visto dal lato dei figli, del fatto di poter avere dei fratelli –; al ricorso con discernimento alle tecnologie per facilitare il concepimento in coppie che si formano avanti negli anni; al fatto che esistono tanti bambini orfani o abbandonati che chiedono di essere accolti.

            Una menzione particolare merita la risposta su questo punto inviata da un missionario italiano in Africa che, riandando alle radici della propria formazione morale afferma: «Secondo s. Tommaso d’Aquino la “legge naturale umana”, quindi quella propria della “persona umana” non consiste nei ritmi biologici né negli istinti animali ovvero i “pensanti naturali” quanto piuttosto la legge della sua libertà responsabile e della propria coscienza solidale. In effetti, s. Tommaso già nel XIII secolo scriveva che la legge “naturale per l’essere umano” è una “participatio legis aeternae” (partecipazione alla legge eterna) in base alla quale l’uomo è “particeps, sibi ipsi et aliis providens” (“parte attiva provvedendo a se stesso e agli altri”) nel disegno provvidente di Dio; S.Th. II-II, Q 91, A. 2.

Così la legge naturale “umana” non significa sottomettersi passivamente alle leggi biologiche o cosmiche ma “designa la legge della libertà inscritta da Dio nel cuore dell’uomo, per aiutarlo a discernere il buon cammino verso la sua piena umanizzazione (H. Thévenot, in La Croix, 13.1.1995, 8)».

            In generale una Chiesa rigida sui principi ma in via di fatto tollerante è ritenuta incoerente. Un gruppo trentino riprende l’idea attribuita all’intellettuale Pietro Scoppola, che l’esistenza di un «“regime di doppia verità”, in cui “la norma intransigente” convive nella Chiesa con una “prassi tollerante”» è un’“educare all’ipocrisia”. Tale è il ricorso alla coppia di opposti dottrinale / pastorale che non avrebbe ragion d’essere se viene invocato a giustificazione di un tale doppio regime.

            I doppi paletti – delineati già nel discorso conclusivo di papa Francesco al Sinodo straordinario sulle «tentazioni» – dell’intransigenza da un lato e del relativismo dall’altro possono diventare guide efficaci ancorché in divenire solo se si accetta d’immaginare il Vangelo della famiglia – scrive felicemente il gruppo da Acqui non come «un fortino che resiste ma una buona novella che contagia».

            Il testo verrà pubblicato sul prossimo numero de Il Regno n. 4/2015 attualmente in corso di stampa.

Maria Elisabetta Gandolfi                28 aprile 2015

www.ilregno-blog.blogspot.it/2015/04/lessico-famigliare-le-vostre-risposte.html#more

Sinodo. La proposta di una “terza via”

Inflessibile contro il divorzio, misericordiosa con i peccatori. La suggerisce un teologo francese. È una nuova forma del sacramento della penitenza, sull’esempio della Chiesa antica. Sono affluite a Roma da tutto il mondo le risposte al questionario preparatorio alla seconda e ultima sessione del sinodo sulla famiglia, in programma dal 4 al 25 ottobre. Un’impressione diffusa – talora ad arte – è che la discussione presinodale si polarizzi tra due posizioni estreme: da un lato chi vorrebbe introdurre cambiamenti radicali nella dottrina e nella prassi cattolica del matrimonio, acconsentendo allo scioglimento del vincolo e alle seconde nozze; dall’altro chi si irrigidisce nel punire con una scomunica di fatto coloro che violano il dogma dell’indissolubilità.

            Papa Francesco, nel chiudere la precedente sessione del sinodo, aveva detto parole dure contro entrambi questi estremismi. Il desiderio ormai palese del papa, infatti, è che la Chiesa trovi e percorra una “terza via”: fedelissima al comandamento di Gesù sul matrimonio e nello stesso tempo più amorevole nei confronti di chi lo abbia violato.

            Quello che segue è l’estratto di un saggio teologico che si propone precisamente di illustrare una “terza via” di questo tipo.

Ne è autore il teologo domenicano francese Thomas Michelet, dottorando alla facoltà teologica di Friburgo, in Svizzera. (…). La proposta di padre Michelet è di istituire un “ordo paenitentium” per coloro che si trovano in una condizione persistente di difformità dalla legge di Dio e intraprendono un cammino di conversione che può durare molti anni o anche tutta la vita, ma sempre in un contesto ecclesiale, liturgico e sacramentale che accompagni il loro “pellegrinaggio”.

            Il modello di questo ordine dei penitenti è il sacramento della penitenza nella Chiesa antica, in una forma rinnovata. Pur impossibilitati a fare la comunione eucaristica, i penitenti non si troverebbero esclusi dalla vita sacramentale perché, anzi, questo loro cammino di conversione sarebbe esso stesso sacramento e fonte di grazia.

Qui di seguito è riprodotta la parte centrale del saggio di padre Michelet, che però è molto più ampio e dedica pagine di grande interesse a due questioni anch’esse dibattute nella precedente sessione del sinodo: la legge della gradualità e la comunione spirituale.

            Sandro Magister        Chiesa.espresso online                      1 maggio 2015

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351041

            C’è dunque da auspicare – come richiesto dallo stesso papa Francesco che proposte e riflessioni come questa diventino pane quotidiano del dibattito prima e durante il sinodo, all’opposto di chi già procede e agisce come se tutto sia già risolto di fatto, e la comunione ai divorziati risposati sia già un diritto acquisito.

            Perché ad esempio in Germania è questo che accade. E le recenti dichiarazioni del cardinale Reinhard Marx hanno avvalorato tale comportamento: “Non possiamo aspettare fino a quando un sinodo ci dirà come dobbiamo comportarci qui, sul matrimonio e la pastorale familiare”.

            Ma si può anche citare la sbrigativa conclusione “erga omnes” che il teologo Basilio Petrà ha ricavato dal semplice fatto che nel concistoro del febbraio del 2014 il cardinale Walter Kasper si espresse – con l’avallo del papa – contro l’esclusione dei divorziati risposati dalla comunione.

            Già a partire da quel febbraio 2014, sostiene, infatti, Petrà, “le cose sono cambiate”. E sono cambiate – dice – perché con la relazione Kasper“il magistero ha, di fatto, collocato nell’area del dubbio” ciò che fino allora era un divieto indiscutibile. Con la conseguenza che ora “un confessore può serenamente ritenere dubbia la norma esclusiva e quindi può assolvere e ammettere alla comunione i divorziati risposati alle ordinarie condizioni”, senza nemmeno aspettare il permesso del suo vescovo, che “non è necessario”.

            La tesi di Petrà – che è specialista di teologia orientale e ammiratore della prassi bizantina che ammette le seconde nozze, oltre che autore di riferimento de “La Civiltà Cattolica” – è stata pubblicata con grande risalto sull’ultimo numero dell’importante rivista “Il Regno” edita dai religiosi dehoniani di Bologna:

vedi     newsUCIPEM n. 534 – 22 gennaio 2015, pag. 7

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=264:newsucipem-n-534-22-febbraio-2015&catid=84&Itemid=231

La via dell'”ordo paenitentium”                              estratto                        passim

[…]      Ordine dei penitenti. La vera difficoltà per i divorziati risposati non è la comunione eucaristica bensì l’assoluzione. […] Se non è possibile dare loro il sacramento della penitenza, ciò è dovuto tanto all’impedimento che si trova in essi quanto alle condizioni attuali del sacramento, il quale suppone, per accedervi, che la persona sia pronta a ricevere l’assoluzione e a compiere i tre atti del penitente: il pentimento (contrizione), l’ammissione del proprio peccato (confessione) e la riparazione di esso (soddisfazione), con la ferma volontà di distaccarsene, se non lo si è già fatto, di non ripeterlo e di fare penitenza.

            Questi elementi sono di per sé intangibili, essendo oggetto di definizioni conciliari. L’ordine secondo cui si succedono, invece, non lo è, in quanto solo dall’anno 1000 circa la penitenza è diventata il consueto seguito dell’assoluzione, come un effetto del sacramento ai fini della riparazione, mentre nella penitenza antica ne era la premessa, certo in quanto pena riparatrice ma anche in quanto predisposizione alla contrizione.

            Inoltre la forma ordinaria del sacramento è diventata, per così dire, “istantanea”, raggruppando tutti questi elementi in un atto rituale unico e breve, mentre la penitenza antica si estendeva su molti anni e comportava varie fasi liturgiche, dall’entrata nell’ordine dei penitenti fino alla riconciliazione finale.

            Ebbene, è precisamente il caso dei divorziati risposati e, in modo più generale, di tutti quanti hanno difficoltà a distaccarsi completamente dal proprio peccato, che ha bisogno per questo di un cammino che prenda tanto tempo.

            Nella sua forma attuale, il sacramento della penitenza non può più integrare questa dimensione temporale e progressiva, che invece era specifica della penitenza antica, che peraltro era ancora in uso nel Medioevo e non è mai stata soppressa. Su questi due punti, il regime della penitenza avrebbe quindi la possibilità di arricchirsi nuovamente – e sarebbe bene che lo faccia perché è veramente un elemento che manca – integrando, oltre alle forme sacramentali già previste nel rituale vigente, un’altra forma “straordinaria”, nello stesso tempo nuova e profondamente tradizionale.

La storia anche recente mostra che, per iniziare una tale riforma, un semplice motu proprio sembrerebbe bastare; ma sarebbe senza dubbio opportuno dedicarle innanzitutto un’assise del sinodo dei vescovi, così come il sinodo del 1980 sulla famiglia era stato seguito da quello del 1983 sulla penitenza.

            Oltre al vantaggio della durata, che era anche la sua debolezza in assenza di altre forme, la penitenza antica conferiva uno statuto canonico ed ecclesiale secondo un regime stabilito dai canoni dei concili, e per questo era allora chiamata “penitenza canonica”. […]

            Si tratta anzitutto di un segno di protezione e di riconoscimento di un legame che rimane valido nonostante tutto. Infatti, il peccatore resta membro della Chiesa; anzi essa è fatta per lui, perché la Chiesa è santa, pur essendo fatta di peccatori, affinché questi ricevano la santità che essa riceve dal suo sposo, Cristo. Bisogna quindi ribadire senza tregua che il divorziato risposato non è scomunicato in quanto tale, anche se è escluso dalla comunione eucaristica. Ma capirà meglio di essere davvero parte della Chiesa se si gli può annunciare in modo ufficiale che ha il suo posto tradizionale in un “ordo“, accanto all’ordine delle vergini e all’ordine delle vedove, all’ordine dei catecumeni e all’ordine dei monaci. E questo non è poco: l’esperienza conferma che questo semplice riconoscimento della sua esistenza ecclesiale può già pacificarlo e rimuovere un primo ostacolo alla riconciliazione.

            Ma c’è di più. L’”ordo” […] indica anche una finalità e una dinamica. […] Così, quelli che sono chiamati “stati di perfezione” sono piuttosto, in realtà, “vie di perfezionamento”. […] Ciò è ancora più chiaro per l’ordine dei catecumeni, che prepara in modo transitorio a ricevere i sacramenti dell’iniziazione, così come l’ordine dei penitenti prepara alla riconciliazione.

            Si capisce che i due percorsi siano stati messi in parallelo – la penitenza come un “secondo battesimo” o “battesimo delle lacrime” – e che siano presenti tutti e due nelle istituzioni liturgiche della Quaresima alle quali hanno dato origine: l’imposizione delle ceneri, il digiuno quaresimale e la riconciliazione pubblica dei penitenti la sera del Giovedì santo, con la lavanda dei piedi; l’accoglienza ufficiale, le grandi catechesi battesimali, gli scrutini e l’illuminazione dei catecumeni durante la veglia pasquale.

            In ambedue casi, un’identica rinuncia a Satana e alle sue pompe, un’identica lotta contro il peccato fin nelle sue conseguenze, un’identica salvezza ottenuta grazie alla vittoria finale di Cristo sulla croce, raccolta nel sangue dell’Agnello.

            Da qui la proposta, formulata nel sinodo del 1983, d’ispirarsi al nuovo rituale dell’iniziazione cristiana degli adulti per creare una liturgia dell’accoglienza e della riconciliazione per quelli che ritornano alla Chiesa dopo un tempo di allontanamento, […] facendo una sorta di restauro di un’istituzione che risale ai secoli III e IV, la cui utilità si era man mano persa in regime di cristianità ma che ritorna ad essere necessaria in questo nostro tempo.

            Tuttavia, non si tratterebbe di una ripresa senza alcun cambiamento. […] Ad esempio, non è per niente necessario ripristinare il regime delle pene della penitenza antica, la cui severità aveva provocato il suo abbandono. D’altra parte, l’unica pena che si sia imposta in tutti tempi e tutti luoghi per qualsiasi peccato pubblico, e che sussiste ancora oggi, consiste nella privazione dell’eucarestia, che in realtà non è una pena – anche se può essere vissuta come tale – ma un’impossibilità inerente alla coerenza dei sacramenti.

            Penitenza sacramentale. Ammettiamo che ci sia un mutamento importante nella successione degli atti richiesti da parte del penitente: successione che non è, in se stessa, intangibile.

            Nella penitenza antica, prima di entrare nell’”ordo pænitentium”, bisognava aver già soddisfatto la condizione di rinunciare al proprio peccato e di aver posto termine al disordine pubblico generato da esso. In seguito, per un certo tempo si faceva penitenza, misurata dalla gravità dell’offesa e dalla disposizione interiore del penitente. […] Anche il regime attuale, come si è visto, esige una tale preliminare rinuncia al peccato, ma la penitenza è rimandata a dopo il perdono.

            Nell’”ordo paenitentium” rinnovato, si tratterebbe di tornare al regime precedente per quanto riguarda la penitenza, che tornerebbe ad essere una premessa alla riconciliazione; ciò che corrisponde già alla pratica e quindi non dovrebbe creare, di per sé, grandi difficoltà.

            La conversione totale, invece, non sarebbe più richiesta all’inizio della penitenza; ne sarebbe piuttosto il frutto, la misura della sua durata e la condizione del perdono. In altre parole, non si aspetterebbe più di essere pienamente convertiti per fare penitenza, ma si farebbe penitenza fino al momento della piena conversione, allo scopo di ottenere questa conversione come una grazia del sacramento e quindi di essere resi pronti a ricevere la riconciliazione sacramentale.

            Il regime di questa penitenza preliminare alla riconciliazione è già stato stabilito dal magistero: i divorziati risposati (e tutti i peccatori a cui si riferisce il canone 915) saranno esortati “ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio” (“Familiaris consortio”, n. 84). […]

            L’unica cosa che qui ancora manca è il riconoscimento che tutto ciò corrisponde a un “ordo”, a un regime canonico della penitenza; e che tale penitenza è già sacramentale, a cominciare dagli atti del penitente che ne forniscono la materia fino alla parola di assoluzione che ne dà la forma per costituire infine il sacramento vero e proprio della penitenza e della riconciliazione.

            Si vedrebbe meglio che la penitenza così definita non è distaccata dal sacramento in quanto semplice condizione preliminare, ma che ne è parte costitutiva, anche a distanza di molti anni dalla riconciliazione, poiché ne costituisce non solo la materia ma anche un frutto anticipato; con la grazia del sacramento che viene a prendere e sostenere questa penitenza sia esterna che interna per trasformarla ultimamente in contrizione perfetta.

            Legge di gradualità. L’ultima riunione del Sinodo dei Vescovi ha, anche messo in dubbio la “legge della gradualità”, che è stata proposta nel 1980 al Sinodo sulla famiglia e ripresa da Papa Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio n. 9, con l’osservazione al n 34 di non confondere la”legge della gradualità e la gradualità della legge”.Dal momento che questo termine non viene spesso ripetuto dal Magistero, richiederebbe un chiarimento teologico. Il fatto è che, se la legge della gradualità resta nell’ambito di una morale della legge può relativizzare, alla luce di ciò che la gente può attualmente vivere in una situazione che è sua, la “gradualità della legge” che denunciava Giovanni Paolo II; occorre invece presentare lo scopo di non proporzionare con le nostre forze, ma con quelle della Parola di Dio e della sua grazia. La legge della gradualità richiede quindi di ripensare tutta la teologia morale, in termini di virtù umane e teologali, reintegrare tutta la dimensione del progresso spirituale; che si trasforma in una “crescita educativa” e di un “processo dinamico” orientato e costantemente teso verso il vero bene, un cammino di conversione e di crescita “step by step” alla santità.

Noi crediamo che l’ordo paenitentium non è solamente un’applicazione invece di applicare la legge della gradualità, ma è già una delle sue fonti antiche. E’anche una pietra di paragone, in quanto permette di verificare obiettivamente che non si è in procinto di stabilire anche involontariamente un regime di “gradualità della legge”, che confonderebbe il cammino di conversione e di rinuncia il male con un itinerario di progresso spirituale nel bene e in stato di grazia; facendo la distinzione tra il bene e il male solo una differenza di grado e non di genere. Tra lo stato di grazia e peccato, non c’è continuità o intermediario, anche se ci deve lati la possibilità di progresso o regresso. Quindi non possiamo prendere lo schema ecclesiologico di gradi di comunione da applicare per analogia allo stesso percorso del peccatore, proprio perché la pratica del dialogo ecumenico comporta che oltre un secolo il fratello separato non ha alcuna intenzione personale di partecipare al peccato di scisma. Questo non è il caso delle prime generazioni che sono ancora soggette alla disciplina della Chiesa. (…)

L’antica penitenza mostrava una certa gradualità, che guidava il peccatore di tappa in tappa fino la riconciliazione pubblica. Già Tertulliano cita due gradi: quelli che devono rimanere fuori dalla chiesa (paenitentia pro foribus ecclesiae) e quelli che sono ammessi all’interno (paenitentia in Ecclesiam inducta). Possiamo distinguere tra questi ultimi coloro che hanno fatto il passo per arrivare in penitenza (petente paenitentiam), che devono uscire dalla chiesa subito dopo la liturgia della Parola e la predicazione (audientes) e quelli ammessi ufficialmente (proprie paenitentes) a partecipare alla celebrazione dei misteri, ma in ginocchio per ricevere la benedizione di penitenti che è dato in Occidente alla fine del servizio divino.

In Oriente questa benedizione è più precoce, dopo l’uscita dei catecumeni (Substrati ), e quelli che restano fino alla fine dell’officio e possono partecipare in piedi (costanti o Consistentes), tuttavia, senza prendere parte alle oblazioni e all’Eucaristia per il tempo che li separa dalla loro riconciliazione. Il tempo di ammissione alla penitenza può di per sé essere piuttosto lungo: Dionigi di Alessandria richiede che gli apostati rimangano tre anni audientes prima di passare dieci anni Substrati .In totale, quindi si finisce con quattro classi di penitenti o quattro “stazioni penitenziali” attestate nel loro insieme nelle chiese dell’Asia Minore, come scrive Gregorio il Taumaturgo “Coloro che sono nel pianto fuori dalle porte della chiesa (flentes); quelli ammessi nel nartece ad ascoltare le letture liturgiche e vengono rimandati subito dopo (audientes); quelli ammessi in chiesa, che rimangono prostrati con i catecumeni (substrati ); infine, coloro che stanno in piedi mentre si compie l’Azione Eucaristica, ma che non possono partecipare ai doni consacrati (stantes).

Forse è possibile prendere queste “stazioni” liturgiche e canoniche per descrivere un processo spirituale a tappe, anche ispirate dal catecumenato e il viaggio pastorale sopra descritto. Il criterio non può essere “materiale”, l’ammissione in chiesa o a quella parte della celebrazione, poiché non si fa più per i catecumeni. Ma possiamo mantenere come doni ricevuti, come scoperte e conoscenze acquisite, il grado di distacco dal peccato e il radicamento nella conversione. In breve, un’efficace transizione verso un altro stadio o stato interiore, che deve essere verificato dall’accompagnamento e dal discernimento spirituale

Ciò potrebbe dar luogo alle seguenti quattro fasi:

  1. “Dolenti” (Flentes) – Sin tratta in primo luogo di accogliere o meglio di andare a cercare tutti gli afflitti fuori della Chiesa, perché si credono respinti, scomunicati. Per stabilire con loro un clima di fiducia e di buona volontà, di stima e di ascolto; far loro esprimere quello che hanno nel cuore: le loro difficoltà, la loro rivolta, la loro analisi della situazione; poi di mostrare loro una riformulazione delle loro aspettative. Questo sarà il luogo di un primo annuncio e l’invito a prendere il tempo di ascoltare anche la risposta di Cristo alle loro domande. Se vogliono poi farsi strada nella Chiesa, siamo in grado di fare il passo successivo nella ricerca di una preghiera liturgica di benedizione che farà sentire loro la voce del Padre che pone la sua mano su di loro e riconosce in loro i suoi figli perduti, la voce del Figlio che ha già dato la sua vita per loro, la voce dello Spirito che parla al loro spirito per condurli attraverso strade che essi ignorano sino alla vera vita.
  2. Uditori” (Audientes) – Nella seconda fase, li si inviterà ad essere assidui all’ascolto della Parola di Dio, nel silenzio della meditazione e personale e nella grande assemblea; a utilizzare la soglia della casa di Dio, frequentando la celebrazione dei misteri; a recuperare in un adulto tutti i punti della catechesi che fanno difficoltà mettendoli in un tutto attraverso la connessione dei misteri tra di loro e la gerarchia delle verità della fede; riprendere coscienza del dono ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, e nel matrimonio sacramentale; a stabilire ciò che già vivono del Vangelo. Infine, leggere l’azione di Dio per tutta la vita. Questo passaggio può essere segnato da Scritture, cerimonie liturgiche con la supervisione di uno o due membri della comunità, o anche insieme al momento opportuno.
  3. “Chiamati” (Substrati) – Quando la persona è pronta, si può chiedere di entrare ufficialmente nell’ordine dei penitenti, preferibilmente con un intervento significativo del vescovo mediante l’imposizione liturgica delle ceneri, all’inizio della Quaresima (in capite jejunii) e la registrazione del nome sul registro dei penitenti. Questo segna un importante tappa spirituale, quella del cuore che è fatto per aprirsi alla grazia. Durante il tempo che inizia, al penitente viene chiesto di condurre una vita di fedeltà al dovere della sua situazione e delle sue responsabilità ai sensi del sopra definito programma, eseguendo soprattutto opere tradizionali di misericordia care a confraternite penitenti che potrebbero trovare la loro origine qui. Questa la penitenza è semplicemente quello di Quaresima secondo i suoi tre direttrice (il digiuno, la preghiera, la condivisione), che ogni cristiano deve sempre essere in tempi normali. La penitenza esterna deve essere segno e strumento di penitenza interiore, che dovrebbe portare alla contrizione, al riconoscimento del suo peccato davanti a Dio, e alla domanda persistente del suo perdono; sarà necessario implorare il Signore per avere la sua luce sul dare e sul ricevere, che possono essere sepolti nel profondo del cuore. Per accompagnare questo passaggio nel livello liturgico, possono essere una buona pratica “celebrazioni penitenziali non sacramentali” già indicate, che estendono la liturgia penitenziale di ogni Messa, la confessione senza l’assoluzione sacramentale, se ben intesa, per non parlare del gesto della lavanda dei piedi, che non è riservato al Giovedì Santo. In parallelo con l’iniziazione dei catecumeni, il tempo della purificazione e dell’illuminazione con il discernimento, esorcismi, la tradizione e la consegna di Credo, l’unzione con l’olio santo. (…)
  4. Impegnati” (Stantes ) – Per alcuni, l’opera della grazia finalmente dà loro la forza di impegnarsi per rompere finalmente il loro rapporto disordinato in un modo o nell’altro, in modo da poter recuperare in piedi (stantes). Nel caso di divorziati risposati, questo può avvenire solo con la morte del coniuge, che non si può ovviamente desiderare. In caso contrario, a parte casi meno rari di quanto si crede, una ripresa della convivenza, l’unica soluzione sarà un impegno a vivere “come fratello e sorella.” Non è semplicemente una questione di continenza, ma la trasformazione dello sguardo e l’acquisizione di purezza interiore che può diventare veramente fedeli alla sua alleanza, anche se la separazione potrebbe essere legittima. Se tale impegno è possibile e auspicabile, maturato ampiamente e liberamente scelto, con la conferma della guida spirituale. Un primo impegno privato può essere seguito da un periodo di prova, almeno fino alla Quaresima, per consentire la riconciliazione solenne dal Vescovo, la sera del Giovedì Santo, secondo un parallelo rituale per i neofiti della veglia pasquale negli abiti bianchi puri lavati dal sangue dell’Agnello. Poi inizia il tempo di grazia della mistagogia e testimonianza.

Così, questi penitenti non sarebbero più considerati come esclusi dal regime sacramentale: anzi, entrerebbero, sapendolo e volendolo, in questo grande sacramento della resurrezione che, a poco a poco, trasformerà questi “morti” in “viventi”, perché abbiano la vita in pienezza. […]

            Pellegrini dell’Alleanza. Non dobbiamo illuderci: la penitenza non ha mai goduto di buona fama e non è fatta per attirare le folle. Ma non dovrebbe mai diventare quella pillola amara che scoraggia il malato al punto da farlo disperare della guarigione.

            Il fatto è che la penitenza antica si è autocondannata con un regime esasperato che non era legato alla sua essenza, a beneficio di forme penitenziali più accessibili che, alla fine, l’hanno sostituita. È bene far tesoro della doppia lezione. Tra queste forme sostitutive, il pellegrinaggio penitenziale ha avuto i suoi giorni di gloria sin dal secolo VI, come forma di penitenza. […]

            Il pellegrinaggio ha trovato da qualche decennio un certo ritorno di attualità. […] Bisogna fare attenzione al fatto che esso è, in tanti casi, il luogo di espressione di una religiosità non solo popolare ma anche “di margine”, per un certo numero di quelli che non trovano più il proprio posto nella Chiesa e nelle chiese parrocchiali, a motivo della loro situazione fuori norma per quanto riguarda la fede o i costumi. Esso rimane per loro un luogo di legame alternativo e di comunione informale non solo con Dio ma anche con i loro antenati nella fede, sulle cui orme portano i propri passi. Con le ceneri e le palme, esso fa anche parte di quei gesti religiosi che possono continuare a essere compiuti anche dai più grandi peccatori e da quelli che sono lontani dalla Chiesa, per cui la loro popolarità non diminuisce.

            Per tutte queste ragioni, può essere opportuno presentare il cammino penitenziale di cui si è parlato in queste pagine anzitutto come un cammino di pellegrinaggio; il punto essenziale non essendo di arrivare ma di partire e di perseverare nella direzione giusta, come insegna il salmo primo che dichiara beato l’uomo che cammina su una strada di giustizia.

            Questa è la condizione del cristiano, “homo viator”; perché è la condizione scelta da Cristo, ma anche quella della Chiesa. […] Non era inconsueto una volta rimanere per tutta la vita nell’ordine dei penitenti; così anche oggi ci sono peccatori che rimangono prigionieri di vincoli da cui non riescono a liberarsi, senza che si trovi una vera soluzione. Possano almeno fare quello che possono e siano trovati dal Signore nella condizione di chi cammina verso la Gerusalemme celeste.

Thomas Michelet O.P.                       Nova & Vetera n. 90, 1\2015                        testo originale con note

http://novaetvetera.ch/index.php/fr/la-revue/a-la-une/40-synode-sur-la-famille-la-voie-de-l-ordo-paenitentium

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351041

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