NewsUcipem n. 541 –12 aprile 2015

NewsUcipem n. 541 –12 aprile 2015

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“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

Supplemento on line   direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

            Le news sono così strutturate:

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  • link a siti internet per documentazione.
  • Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.
  • La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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Per i numeri precedenti

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ADDEBITO                                       Nasconde alla moglie di essere infertile e alcolizzato.

L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale.

ADOZIONE                                      Sardegna. Al via il Quaf per le coppie di Ai.Bi.

ADOZIONI INTERNAZIONALI    Colombia. Nuove iniziative dell’ICBF per rilanciare le adozioni.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  La revisione dell’assegno di mantenimento.

ASSEGNO DIVORZILE                  e convivenza more uxorio dell’ex coniuge

CHIESA CATTOLICA                    Un questionario “alternativo” per dare voce al popolo di Dio

                                               Donne nella Chiesa. Prospettive di dialogo.

CONCEPITO                                    Quale capacità la legge riconosce al concepito?

CONSULTORI familiari UCIPEM  Belluno. Partecipazione ad iniziative sul territorio.

                                                           Messina. L’adozione: facile, difficile, impossibile.

                                   Trento. Famiglie fragili e figli a rischio evolutivo.

DALLA NAVATA                            2° domenica dei Pasqua – anno B –12 aprile 2015

FECONDAZIONE ARTIFICIALE  Eterologa, 100 figli da donatore danese malato.

FRANCESCO VESCOVO di Roma I bambini non sono mai “un errore”!

MEDIAZIONE FAMILIARE                      La funzione della mediazione familiare con i bambini.

NEGOZAZIONE ASSISTITA          Poteri di verifica dell’organo giurisdizionale

PARLAMENTO Camera C.Giustizia          Divorzio breve

                                                           Adozioni dei minori

PATERNITÀ                                     Accertamento: rifiuto di sottoporsi al test

SINODO DEI VESCOVI                  «Senza paura incontro alle famiglie più fragili» Baldisseri

Misericordia non sentimentalismo.

Risposte al questionario delle 46 domande di gruppi e di singoli.

VIOLENZA                                       La violenza assistita sui minori

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ADDEBITO

Nasconde alla moglie di essere infertile e alcolizzato.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 7132, 9 aprile 2015.

Se il marito decide unilateralmente di interrompere i cicli di procreazione assistita potrebbe incorrere nell’addebito della separazione. E’ quanto stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha annullato la sentenza emessa in appello. Afferma la Cassazione che i giudici di secondo grado non hanno tenuto conto dell’effetto impattante che tale decisione presa dal marito e riguardante l’abbandono del progetto procreativo, ha avuto sulla vita dei coniugi e sulla loro reciproca fiducia.

            A differenza di quanto affermato dai giudici dell’appello che non avevano rilevato il nesso di causalità tra la decisione presa dal marito, avvenuta qualche anno prima, e la richiesta di separazione, la Cassazione ha chiarito che il lasso di tempo intercorso tra i due momenti, anche se ampio, non ha rilievo in quanto quell’episodio ha rappresentato il motivo scatenante della rottura dell’affectio coniugalis.

            avv. Claudio Sansò Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani  13 aprile 2015

www.ami-avvocati.it/separazione-addebito-al-marito-se-interrompe-la-fecondazione-assistita/?utm_source=feedburner&utm_medium=email&utm_campaign=Feed%3A+ami-avvocati+%28AMI-avvocati.it+RSS%29

Questi comportamenti dell’uomo hanno minato alle fondamenta il rapporto coniugale. Consequenziale l’addebito al marito per la separazione tra i coniugi.

«pronuncia di addebito non può fondarsi soltanto sulla violazione dei doveri coniugali ma nella specie la violazione del dovere di lealtà (d’interruzione del progetto procreativo all’insaputa della moglie) ha caratterizzato la condotta continuativa e le scelte unilaterali e non condivise del coniuge, così da minare il nucleo imprescindibile di fiducia reciproca che deve caratterizzare il vincolo coniugale» (…) «la domanda di addebito era fondata su due aspetti, il primo, relativo all’infertilità del G. ed in particolare all’unilaterale decisione, non comunicata alla moglie, di non procedere oltre nel ciclo di procreazione assistita in precedenza deciso in comune, nonostante che lei si fosse sottoposta a terapie invasive; la seconda la dipendenza da alcool della quale il coniuge non aveva messo al corrente la moglie e dalla quale non si era liberato nonostante la solidarietà e l’assistenza della moglie una volta scopertolo;»

avv. Sugamele            10 aprile 201  sentenza                      www.divorzista.org/sentenza.php?id=9923

L’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale.

Corte di Cassazione, sesta Sezione civile, ordinanza n. 7057, 8 aprile 2015.

In tema di addebito della separazione personale, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile.

avv. Sugamele            11 aprile 201  sentenza                      www.divorzista.org/sentenza.php?id=9927

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ADOZIONE

Sardegna. Al via il Quaf per le coppie di Ai.Bi. Primo passo verso la gratuità.

            L’alba della nuova adozione nasce da Occidente. È in Sardegna, infatti, che è stato compiuto da Amici dei Bambini il primo passo verso la gratuità dei processi adottivi. Un risultato raggiunto grazie alla preziosa collaborazione della Regione Sardegna che nel 2014 ha stanziato un contributo di circa 20mila euro a favore di ogni ente autorizzato per l’adozione internazionale presente e attivo sull’isola. Tra questi, naturalmente, c’è anche Ai.Bi., con la sua sede di Cagliari. Lo scopo di tale finanziamento era quello di aiutare gli enti stessi a rinforzare la propria attività sul territorio e di sostenere le famiglie desiderose di accogliere un bambino abbandonato proveniente da lontano. Le aspiranti coppie adottive che hanno dato mandato agli enti beneficiari del contributo hanno, infatti, tratto un vantaggio economico non indifferente dai fondi stanziati dalla Regione.

Oltre a una parte del finanziamento destinata a supportare i costi strutturali dell’ente, la parte restante è stata invece dedicata da Ai.Bi. Sardegna a sostenere, in modo sia diretto che indiretto, gli aspiranti genitori. Le 8 coppie che hanno conferito mandato ad Ai.Bi. hanno potuto quindi beneficiare di un contributo economico: ad alcune di loro è andato il sostegno-base, mentre le altre hanno ricevuto un sostegno maggiore e proporzionale alla loro situazione reddituale.

Per calibrare al meglio l’intervento, si è ricorso al cosiddetto Quaf (Quoziente Adottivo Familiare), ideato per Amici dei Bambini dal Centro Clesius di Trento, lo stesso soggetto che ha ideato l’Isee (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) per il suo territorio. A partire da questa esperienza si è deciso quindi di elaborare un indicatore patrimoniale in base a parametri specifici in grado di rappresentare il reddito realmente disponibile per le famiglie. Il Quaf, per esempio, valuta la condizione economica netta del nucleo familiare, migliora l’effetto selettivo del patrimonio e tutela significativamente il risparmio delle famiglie, escludendo la valutazione della prima casa.

Ma il sostegno che Ai.Bi. e Regione Sardegna hanno offerto alle aspiranti coppie adottive non si è fermato lì: altra forma di supporto all’adozione è stata la possibilità offerta ai futuri genitori di partecipare ai corsi di formazione in modo del tutto gratuito.

Il Quaf è stato applicato nel 2014 in via sperimentale con l’auspicio che possa diventare al più presto parte integrante dei protocolli operativi regionali. La riduzione dei costi dell’adozione, effettuata sulla base della reale situazione patrimoniale della famiglia, resa possibile grazie alla collaborazione tra Regione ed ente autorizzato, risponde alla necessità di promuovere e incoraggiare all’adozione, offrendo un aiuto concreto a chi sogna di accogliere un bambino abbandonato, ma non ha le risorse economiche sufficienti per farlo. Un primo passo importante, quindi, verso la gratuità dell’adozione.

Aibi     7 aprile 2015                          www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ADOZIONI INTERNAZIONALI

Colombia. Nuove iniziative dell’ICBF per rilanciare le adozioni nazionali e internazionali.

            La leggera ripresa delle adozioni internazionali in Colombia non è un caso, ma il frutto di un costante lavoro di sensibilizzazione e di promozione. Lo dimostrano le numerose iniziative messe in atto dall’Instituto Colombiano de Bienestar Familiar per favorire un rilancio delle adozioni di bambini colombiani. L’ultima in ordine di tempo è stata la riunione organizzata a fine marzo 2015 dalla direttrice dell’Autorità Centrale di Bogotà, Cristina Plazas Michelsen, con 65 “Defensores de familia”, avvocati specializzati in diritto di famiglia. L’obiettivo del confronto era quello di ascoltare tutte le richieste di questi funzionari in relazione al loro lavoro e, al contempo, di individuare le giuste modalità per migliorare le loro condizioni operative.

In particolare – in merito ai problemi sorti sulla ricerca della famiglia allargata dei minori inseriti nel sistema nazionale di protezione – si è iniziato a studiare una strategia legale per evitare di continuare a cercare fino al sesto grado di consanguineità prima che i bambini siano dichiarati adottabili. Inoltre, Plazas Michelsen ha ribadito che per quest’anno sono state assegnate maggiori risorse allo scopo di rafforzare l’organico dei defensores di famiglia, come richiesto da ognuna delle sedi dell’Icbf sparse sul territorio nazionale. Su istanze delle stesse sedi, inoltre, è stato preparato un piano di formazione da parte della Direzione Generale dell’Autorità Centrale di Bogotà.

Nel corso dell’incontro si sono esaminati anche i limiti “tecnici” attualmente esistenti nel sistema dell’Icbf. A questo proposito, Plazas Michelsen ha dato il via libera allo studio di possibili modifiche per facilitare la registrazione dei dati e ottimizzare la qualità delle informazioni presenti nel sistema informatico dell’Icbf. Per verificare la coerenza tra esigenze dei defensores e misure adottate per venire incontro a tali necessità, dal mese di aprile, è attivo un apposito tavolo di lavoro che vede la partecipazione degli stessi avvocati di famiglia. L’importanza del lavoro svolto da questi ultimi è testimoniata dalla stessa Plazas Michelsen: “Ho già incontrato diversi gruppi di defensores – ha detto la direttrice dell’Icbf – provenienti da Bogotà, La Guajira e Antioquia. Sono convinta che sono le persone più importanti per il nostro Paese, perché hanno nelle loro mani la protezione dei bambini e degli adolescenti”.

Continua quindi l’impegno dell’Autorità Centrale colombiana per un vero rilancio delle adozioni internazionali. In un altro recente seminario, per esempio, si era lavorato per unificare i criteri relativi all’accoglienza adottiva e alla situazione dei minori dichiarati adottabili. Nella stessa occasione era anche stata presentata la strategia “Restaurando vidas construimos futuro”, il cui obiettivo è fare in modo che i bambini, gli adolescenti e anche i giovani maggiori di 18 anni – le cui caratteristiche particolari non hanno permesso di trovare una famiglia adottiva – siano comunque dotati degli strumenti necessari per affrontare le sfide della società e della vita, sia professionale che familiare.

            Fonte: Icbf      Aibi     8 aprile 2015                          www.aibi.it/ita/category/archivio-news

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

                        La revisione dell’assegno di mantenimento.

Quando, successivamente alla quantificazione dell’assegno di mantenimento, si verificano variazioni nella situazione economica dei coniugi, entrambi sono legittimati a richiedere una revisione dell’importo, al fine di ottenere un adeguamento alla mutata condizione. L’assegno di mantenimento, infatti, una volta quantificato non rimane statico nel tempo, sia per via della rivalutazione, secondo gli indici Istat, che per circostanze e fatti sopravvenuti che coinvolgono la situazione patrimoniale dei coniugi, potendo comportare la modifica, in aumento o in riduzione, dell’assegno. Tra le circostanze più comuni che possono indurre i coniugi a richiedere una modifica delle condizioni di separazione, si registrano: l’incremento o il deterioramento delle capacità economiche; la costituzione di un nuovo nucleo familiare; le accresciute esigenze dei figli.

            Cambiamento della situazione economica. Uno dei fattori principali che può determinare la modifica, in termini di riduzione o aumento, dell’assegno di mantenimento, è un notevole incremento o peggioramento della situazione economica dei coniugi. In proposito, la giurisprudenza, ha considerato legittima la richiesta di riduzione proporzionale dell’importo dell’assegno di mantenimento da parte del coniuge obbligato che abbia provato che il coniuge beneficiario abbia iniziato a svolgere una propria attività lavorativa percependo un proprio reddito, ovvero dimostrando che il coniuge avente diritto ha trovato impiego, anche se “in nero” (Cass. n. 19042/2003). Di converso, è stata riconosciuta valida la richiesta di aumento dell’assegno di mantenimento a favore dell’avente diritto che ha perduto la propria occupazione lavorativa (Cass. n. 4312/2012). Non vale, invece, a legittimare la riduzione dell’assegno, l’eventuale prepensionamento (anticipato) dell’avente diritto, in ragione della significativa differenza economica comunque esistente tra le rispettive condizioni patrimoniali (Cass. n. 4178/2013).

È possibile, altresì, la riduzione dell’assegno di mantenimento quando il coniuge obbligato subisca un peggioramento della propria capacità economica (ad esempio perdita del lavoro) o versi in condizioni di salute tali da comportare crescenti spese a suo carico per le cure destinate a contrastare l’avanzare delle patologie (Cass. n. 927/2014).

            Nuovo nucleo familiare. Oltre alle modifiche in termini di reddito, un altro fatto idoneo a comportare una riduzione o un aumento dell’entità dell’assegno di mantenimento, rispetto alla sentenza di separazione e divorzio o agli accordi di separazione omologati, è costituito dalla costituzione di una nuova famiglia da parte del coniuge obbligato al pagamento in favore dell’altro coniuge e dei figli, ovvero dal fatto della nascita di un ulteriore figlio, generato con un nuovo partner in seguito ad una successiva unione, anche more uxorio. È pacifico che la costituzione del nuovo nucleo familiare, anche, di fatto, non implica la sospensione o l’estinzione dei doveri di solidarietà e assistenza materiale stabiliti in sede di separazione. Tuttavia, tale circostanza, quando dalla nuova relazione derivi in concreto (ad esempio in presenza di figli) un peggioramento o un miglioramento delle condizioni patrimoniali del coniuge debitore, può determinare una revisione, in riduzione o in aumento, dell’importo dell’assegno di mantenimento.

Secondo l’orientamento recente della giurisprudenza, per ragioni di tutela dei “rapporti all’interno della nuova famiglia” (Cass. n. 16789/2009), occorre tenere conto in tema di revisione dell’assegno di mantenimento dell’incidenza della costituzione del nuovo nucleo familiare, per cui laddove a sostegno della richiesta di riduzione dell’assegno, “siano allegati sopravvenuti oneri familiari dell’obbligato (derivanti, nella specie, dalla nascita di due figli, generati dalla successiva unione), il giudice deve verificare se detta sopravvenienza determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze, facendo carico all’istante – in vista di una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti – di offrire un esauriente quadro in ordine alle proprie condizioni economico- patrimoniali” (Cass. n. 18367/2006). Analogo principio è stato affermato dalla giurisprudenza con riferimento ai figli, considerato che i nuovi oneri familiari dell’obbligato, derivanti anche dall’eventuale nascita di altri figli generati dalla successiva unione, possono incidere significativamente sulle sostanze o sulla capacità patrimoniale dell’obbligato stesso. A tal fine, pertanto, occorre una rinnovata valutazione comparativa della situazione delle parti che tenga conto altresì delle potenzialità economiche della nuova famiglia formata dall’obbligato. In particolare, secondo la giurisprudenza, il nuovo onere familiare non può determinare un allentamento dei doveri genitoriali nei confronti dei diritti economici dei figli generati in costanza del precedente nucleo familiare, per cui se il contributo di mantenimento originariamente fissato nei loro confronti corrisponda ad un importo adeguato alle necessità degli stessi, ma inferiore all’esborso che le capacità patrimoniali dell’obbligato avrebbero consentito, non può essere disposta alcuna riduzione, semmai, il contributo potrebbe essere aumentato, trovando maggiore capienza in ragione del fatto sopravvenuto della diversa capacità economica dell’obbligato, valutata anche alla luce dell’apporto del nuovo partner (Cass. n. 1595/2008).

In sede di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, nella valutazione comparativa delle rispettive condizioni economiche dei coniugi, il giudice dovrà tenere conto anche della circostanza della convivenza more uxorio dell’avente diritto con altro partner, poiché tale convivenza può incidere sulla sua reale situazione patrimoniale. Il formarsi di una relazione familiare affidabile e stabile del coniuge creditore potrà quindi legittimare la richiesta di riduzione dell’assegno di mantenimento, se ciò incide positivamente sulla concreta situazione economica dello stesso, purché si tratti di un’unione stabile, continua e regolare (Cass. n. 17195/2011).

            Le aumentate esigenze dei figli. Tra i criteri fondamentali per la quantificazione del contributo di mantenimento a favore della prole, la legge attribuisce preminenza alle “attuali esigenze del figlio” (ex art. 337-ter c.c., novellato dal d. lgs. n. 154/2013), rapportate al concreto contesto sociale e patrimoniale dei genitori e collegate ad un autonomo e compiuto sviluppo psicofisico che in ragione del trascorrere dell’età, può determinare oltre ai bisogni alimentari e abitativi anche accresciute esigenze personali, di relazione, scolastiche, sportive, sociali, ludiche (ecc.) (Cass. n. 23630/2009).

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’aumento delle esigenze del figlio: “è notoriamente legato alla crescita e allo sviluppo della sua personalità” (Cass. n. 2191/2009), non ha bisogno di specifica dimostrazione (Cass. n. 17055/2007), legittimando di per sé la revisione dell’assegno di mantenimento, anche in mancanza di miglioramenti reddituali e patrimoniali del coniuge tenuto alla contribuzione, a condizione, tuttavia, che l’incremento del contributo di mantenimento, trovi capienza nelle “disponibilità patrimoniali dell’onerato” (Cass. n. 400/2010).

            Procedimento ex art. 710 c.p.c. La revisione dell’assegno non è automatica, ma richiede un provvedimento del giudice. Ex art. 710 c.p.c., le parti possono ricorrere al tribunale per chiedere la modificazione dei provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione. Il giudice, sentite le parti, provvede all’eventuale ammissione di mezzi istruttori e dispone con sentenza l’aumento o la diminuzione del quantum dell’assegno dovuto. È opportuno sottolineare come la concessione della riduzione (o della maggiorazione) dell’assegno, non comporta il diritto alla restituzione di quanto versato in precedenza (Cass. n. 23441/2013).

Newsletter giuridica studio Cataldi, 07 aprile 2015

con indice guida         www.studiocataldi.it/guide_legali/assegno-di-mantenimento/revisione-assegno-di-mantenimento.asp

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ASSEGNO DIVORZILE

e convivenza more uxorio dell’ex coniuge

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 6855, 3 aprile 2015.

Assegno divorzile e convivenza more uxorio dell’ex coniuge: una relazione stabile dopo il divorzio che da vita d una famiglia di fatto vera e propria fa perdere l’assegno di mantenimento.

Una relazione more uxorio rileva ai fini della determinazione dell’assegno a carico dell’ex coniuge nei limiti in cui tale relazione “incida sulla reale e concreta situazione economica della donna, risolvendosi in una condizione e fonte effettiva e non aleatoria di reddito.”

La Corte ha ribadito che il concetto di famiglia di fatto non consiste soltanto nel convivere come coniugi, ma indica prima di tutto una famiglia, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e di sviluppo della personalità di ogni componente e di educazione ed istruzione dei figli. Ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e di continuità ed i conviventi elaborino un progetto ed un modello di vita in comune, si ha una vera e propria famiglia di fatto. A quel punto, il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, non può che venire meno di fronte all’esistenza di una vera e propria famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e con ciò ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile.

Per i giudici della Suprema Corte, infatti, «il parametro dell’adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale non può che venir meno di fronte all’esistenza di una famiglia, ancorché di fatto». E ciò perché, nel caso di una convivenza stabile e continuativa, i partner danno vita pur sempre a un “progetto” e a un “modello” di vita in comune «analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio», e cioè a un “progetto” di «arricchimento e potenziamento reciproco della personalità dei conviventi» e di «trasmissione di valori educativi ai figli», un “progetto” di vita in comune in forza del quale «la mera convivenza si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto».

La sentenza afferma che «nell’ambito della giurisprudenza… ormai nettamente maggioritaria, talora si è affermato… che il fenomeno andrebbe spiegato con una sorta di “quiescenza” del diritto all’assegno, che potrebbe riproporsi, in caso di rottura della convivenza tra i familiari di fatto, com’è noto effettuabile ad nutum, ed in assenza di una normativa specifica, ancora estranea al nostro ordinamento, che non prevede garanzia alcuna per l’ex familiare, di fatto, salvo eventuali accordi economici stipulati tra i conviventi stessi».

La Suprema Corte specifica però, che «riesaminandosi la questione, sembra… assai più coerente, rispetto alle premesse sopra indicate, affermare che una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli (ciò che dovrebbe escludere ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge) dovrebbe essere necessariamente caratterizzata dall’assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli)».

Camera minorile di Perugia             11 aprile 2015

https://it-it.facebook.com/pages/Camera-Minorile-di-Perugia/218740814996038

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CHIESA CATTOLICA

Un questionario “alternativo” per dare voce al popolo di Dio.

Un sondaggio “alternativo” a quello inviato dal Vaticano in vista del prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia, in programma per il prossimo ottobre, è stato lanciato dal gruppo di riforma ecclesiale internazionale Catholic Church Reform International (Ccri), una rete che rappresenta più di 100 gruppi cattolici progressisti, in 65 Paesi, che condividono la visione di papa Francesco «di una Chiesa che comprende tutto il popolo di Dio e offre una cura più compassionevole e pastorale delle famiglie nelle sfide che ogni giorno affrontano». Si tratta di 20 domande «dirette, non guidate, che invitano le persone a condividere le proprie esperienze sull’efficacia della cura pastorale delle famiglie, nelle loro diverse forme».

Il questionario, aperto a tutti, cattolici e non («papa Francesco vuole ascoltare tutti», si legge), è su

                        www.surveymonkey.com/s/SynodSurveyResponses

Aperto il 23 febbraio scorso, è accessibile fino al 9 marzo, a meno che un alto numero di risposte non consigli di rimandarne la chiusura. In ogni caso, le risposte verranno raccolte e esaminate da un team di sei persone, che le organizzeranno per aree geografiche, prima di mandarle in Vaticano, entro la scadenza ufficiale del 15 aprile.

            Un questionario «inservibile». L’iniziativa parte dalla considerazione che il questionario del Vaticano, che contiene 46 domande (di fatto 94) a risposta aperta, è «troppo schiacciante anche solo per tentare di rispondere», si legge nel comunicato stampa di presentazione. Il 7 febbraio, dunque, il Ccri ha inviato a papa Francesco una lettera aperta, nella quale lamenta il fatto che il questionario è «inservibile ed ancora non promosso sulla maggior parte dei siti web delle diocesi». Inservibile, spiega Peter Wilkinson, coordinatore del Ccri Australia, «perché nei primi due mesi di disponibilità pochissime diocesi ne hanno fatto uso. Lo fanno ora, all’ultimo. In ogni caso il complicato sondaggio non solo è condannato al fallimento, ma sembra essere stato pensato per fallire». «È controproducente e talmente orientato alle attuali pratiche della Chiesa – gli fa eco la cofondatrice del movimento, Rene Reid – che minaccia di bloccare le intenzioni del papa. Può anche mettere in pericolo l’efficacia del Sinodo stesso». Si tratta di uno strumento inadeguato che non riesce a far sentire la voce dei cattolici, i quali hanno anche il dovere di parlare: «Per troppo tempo noi cattolici siamo stati complici nel silenzio per un erroneo senso di rispetto», spiega uno dei fondatori di Ccri, Robert Blair Kaiser. «Dobbiamo parlare, ricordare ai vescovi il bisogno di rispondere alle famiglie nel contesto di un ambiente complesso e in cambiamento. Se la Chiesa dev’essere uno strumento credibile del Vangelo, deve cambiare il modo in cui agisce, decentralizzando. Un elemento chiave è fare in modo che tutti i battezzati abbiano voce nel governo della Chiesa». Inoltre, aggiunge ancora Reid, le voci da ascoltare devono anche essere quelle dei cattolici non osservanti, che si sono allontanati, spesso, proprio a causa del Magistero o delle prassi pastorali che sono all’ordine del giorno del Sinodo: il questionario vaticano, osserva, «lascia completamente fuori la più grande confessione del mondo, ossia i cattolici che si sono allontanati». Se il Sinodo vuole davvero guardare alla realtà della famiglia di oggi, deve farlo con uno strumento più agevole. Di qui il sondaggio “alternativo”, strutturato in modo molto semplice: chi risponde deve classificare secondo un punteggio da uno a cinque l’efficacia della Chiesa su diversi temi, tra i quali la cura pastorale delle coppie conviventi, delle famiglie in cui si praticano religioni diverse, delle persone lgbt, delle famiglie monoparentali, delle coppie che ricorrono alla contraccezione, lasciando anche spazio, però, ad un eventuale commento. Il gruppo ha poi offerto altri quattro sondaggi, che resteranno aperti fino a metà anno, che riguardano le relazioni personali, l’apertura alla vita, il genere, la sessualità e il modo in cui la Chiesa insegna e ascolta.

            Una Chiesa lontana. «L’Assemblea straordinaria di ottobre 2014 ha riunito, per la maggior parte, vescovi che non hanno mai vissuto le esigenze (e le gioie) del crescere una famiglia nel mondo moderno», scrive il gruppo nella lettera aperta al papa. «È una debolezza evidente che deve essere corretta invitando una rappresentanza più ampia di famiglie diverse all’Assemblea ordinaria». Quanto ai Lineamenta e alle domande, così come sono formulate e con il tipo di risposta aperta che richiedono, «siamo convinti che scoraggeranno il comune credente dall’esprimere le proprie opinioni». È «troppo complesso e con il ricorso ad un linguaggio astratto e all’aspetto giuridico del matrimonio, risulta per lo più incomprensibile persino ai cattolici più istruiti». Si tratta, si legge nella lettera, di uno «pseudo sondaggio che pretende di avere già le risposte» e, pertanto, è «inutile». «Molti, come noi – proseguono – sono scoraggiati dalla mancanza di comprensione della reale situazione delle famiglie, scandalizzati dal fallimento del Sinodo nel considerare l’effetto degli abusi sessuali dei preti sulle famiglie, e frustrati dal rifiuto della Chiesa di confrontarsi con il tema scottante dell’uguaglianza di genere. Un Sinodo che non affronta questi temi con coraggio e onestà è destinato a non essere credibile».

            Il papa, poi, dovrà affrontare le forti resistenze interne: «Purtroppo vi sono vescovi e membri del clero che non condividono il suo entusiasmo riguardo al coinvolgimento di tutto il popolo di Dio. Molti sono radicati nel clericalismo e temono la voce del proprio popolo», tanto che i Lineamenta, «che dovevano invitare quelle voci, in realtà le hanno silenziate». Di qui l’appello affinché Francesco «assuma un forte ruolo di leadership nello stabilire le priorità della Chiesa» al Sinodo: «Non la lasceremo solo in questo compito», è la conclusione della lettera del Ccri. «Sappia che siamo dalla sua parte, che stiamo investendo centinaia di ore in questo progetto per appoggiare Lei e tutti coloro che condividono la sua visione».

Ludovica Eugenio      adista notizie n. 10     13 aprile 2015

www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54797

Donne nella Chiesa. Prospettive di dialogo.

Martedì 28 aprile 2015, dalle ore 9:00, si svolgerà il convegno Donne nella Chiesa: prospettive in dialogo, organizzato dalla Pontificia Università Antonianum e l’Ambasciata della Repubblica del Cile presso la Santa Sede.

La Pontificia Università Antonianum è una istituzione didattica e scientifica promossa dall’Ordine dei Frati Minori: la sede principale sorge a Roma, in via Merulana 124.

            Nel corso della Giornata, introdotta dal Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, card. Gianfranco Ravasi, e dal Rettore Magnifico della Pontificia Università Antonianum, prof.ssa Mary Melone, interverranno la prof.ssa Cettina Militello e l’Ambasciatore della Repubblica del Cile presso la Santa Sede, sig.ra Mónica Jiménez de la Jara.

La prof.ssa Cettina Militello, Direttrice della Cattedra “Donna e Cristianesimo” della Pontificia Facoltà Teologica Marianum, interverrà sul tema “Le donne nella Chiesa: modelli del passato – sfide di oggi”.

Segue una tavola rotonda: Le donne e la Chiesa nel mondo Testimonianze, sfide e prospettive:

Africa – America Latina – Asia Stati Uniti – Nord America Unione Europea.

www.antonianum.eu/it/news/3799/Donne-nella-Chiesa

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CONCEPITO

Quale capacità la legge riconosce al concepito?

Per l’ordinamento italiano, il concepito (ovvero colui che è stato procreato ma si trova ancora nel ventre materno), non è considerato soggetto giuridico. L’art. 1, comma 1, del codice civile è chiaro sul punto, quando afferma che “la capacità giuridica” (ossia l’idoneità ad essere titolari di diritti e doveri giuridici) “si acquista al momento della nascita”. È solo in tale momento, con la separazione del feto dall’alveo materno (Cass. n. 2023/1993) che la persona fisica acquisisce l’idoneità ad essere titolare di diritti e di doveri giuridici e la conserva fino alla morte.

            Tuttavia, è la stessa disposizione, al secondo comma, che riconosce al nascituro concepito la titolarità di una serie di diritti specificamente individuati, subordinandoli all’evento della nascita, tra cui rilevano in particolare l’art. 462, comma 1, c.c., che annovera il “concepito” tra i soggetti capaciti di succedere, specificando al successivo comma che “deve presumersi concepito al tempo dell’apertura della successione colui la cui nascita avvenga entro 300 giorni dalla morte del de cuius”, nonché l’art. 784 c.c. che riconosce al concepito la capacità di ricevere per donazione.

            Si tratta, dunque, di diritti in “standby” condizionati all’evento nascita (la nascita non è un termine ma una condicio sine qua non, che non è detto che si verifichi) che conferiscono, secondo parte della dottrina, una sorta di capacità giuridica “provvisoria” o ad “acquisto progressivo” al concepito, inteso quale portatore di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Anche per la recente giurisprudenza, il concepito, pur non avendo capacità giuridica ex lege, è comunque un soggetto di diritto, in quanto titolare di molteplici interessi personali che vengono riconosciuti sia dall’ordinamento nazionale che sovranazionale, quali: il diritto alla vita e alla salute, all’onore e all’identità personale, ad una nascita sana; diritti, rispetto ai quali, l’evento nascita è condizione imprescindibile allo scopo della loro azionabilità in giudizio a fini risarcitori (cfr., ex multis, Cass. n. 9700/2011).

            In ogni caso, la condizione giuridica del concepito rimane una questione aperta e molto dibattuta nell’ordinamento italiano, anche in relazione alle leggi in materia di aborto e fecondazione medicalmente assistita.

Marina Crisafi                       Newsletter giuridica studio Cataldi, 07 aprile 2015

www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17195.asp

            Modificare l’articolo 1 del Codice civile e stabilire che il soggetto di diritto, la persona secondo il diritto, è ogni essere umano dal momento del concepimento. Questo è il presupposto culturale, principio fondamentale per risolvere bene tutti i problemi bioetici.  Carlo Casini

            La soggettività giuridica del concepito. Avv. Franco Vitale Milano 1 febbraio 2015

www.mpv.org/mpv/s2magazine/AllegatiTools/8719/La%20soggettivitagiuridica%20delconcepito.pdf

www.mpv.org/mpv/s2magazine/AllegatiTools/131/La%20tutela%20giuridica%20del%20concepito.pdf

www.mpv.org/mpv/s2magazine/AllegatiTools/131/Il%20concepito%20e%20art.%201%20cod.%20civ.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

                        Belluno. Partecipazione ad iniziative sul territorio.

.           La serate rientrano nell’ambito del progetto “Qui ci siamo: mi a ti – ti ami”, realizzato dalle associazioni Famiglie Aperte di Belluno, Giovanni Conz di Sedico, Pro loco Pieve Castionese, Consultorio Familiare Ucipem e Caritas di Belluno in collaborazione con L’Ulss 1 ed i Comuni di Belluno, Ponte nelle Alpi e Limana e con il finanziamento del Csv di Belluno

  • Limana – Incontro “Per crescere un bimbo ci vuole un intero villaggio” con la psicologa di comunità Fabiana Guardi, venerdì 22 maggio alle 20.30 presso la Sala Comunale di Limana
  • Ponte nelle Alpi – Incontro “Legami affettivi ed educativi nella famiglia che cambia” con la psicoterapeuta Paola Scalari, autrice con Francesco Berto di “Mal d’amore”, La Meridiana, venerdì 5 giugno alle 20.30 presso la biblioteca Tina Merlin

http://www.csvbelluno.it/servizi/informazione-e-comunicazione/prossimi-eventi

Messina. L’adozione: facile, difficile, impossibile.     estratto                      passim

L’aumento dell’età del matrimonio e quella nella quale si ricercano i figli, lo stile di vita sessuale eccessivamente libero, l’inquinamento ormonale, nonché molti altri fattori organici che colpiscono le capacità fecondanti sia dell’uomo, sia della donna, hanno comportato un notevole incremento di coppie sterili. Ciò, insieme al desiderio di aiutare dei bambini orfani o abbandonati negli istituti, contribuisce a promuovere le adozioni sia nazionali che internazionali.

            Le motivazioni all’adozione. I bisogni che spingono una coppia ad adottare un bambino sono vari.

Vi può essere un desiderio di fecondità, cioè il desiderio che una parte di noi si trasferisca e continui in un altro piccolo essere umano. ‹‹Vorrei che qualcosa di me si trasmettesse a questo bambino il quale, anche se non è portatore dei miei geni, avrà in sé alcuni dei miei modelli educativi, dei miei ricordi, dei miei valori, delle mie esperienze, della mia cultura››.

            Vi può essere il piacere di godere della maternità e della paternità. È sicuramente bello, infatti, pensare di accudire un bambino, sostenendolo nelle difficoltà, educando tutte le sue potenzialità umane, per vivere con lui, accanto a situazioni di difficoltà, anche tanti momenti di tenerezza e gioia reciproca. Un bambino tra le braccia, quindi, per godere dell’affetto, della gioia e dell’intesa con un piccolo essere umano, che potrebbe arricchire la propria vita personale e di coppia. Un bambino per rinsaldare l’unione familiare.

            Accanto a questo vi può essere il bisogno e il desiderio del dono. ‹‹Io sono ricco. Ricco di gioia, di affetto e d’amore. Sono ricco di beni materiali, di beni spirituali, di cultura, ebbene, voglio condividere queste mie ricchezze con chi è povero, con chi è solo, con chi è triste, con chi è abbandonato, con chi non ha un affetto, una famiglia, una casa, un amore. Vorrei dare il mio sostegno a chi non ha nessuno che lo possa proteggere››.

            E ancora è possibile desiderare e lottare per un figlio adottivo nonostante si abbia già uno o più figli biologici per dare più ricchezza e consistenza alla propria famiglia. ‹‹Ho già un bambino ma, se ne adotto altri due, la mia famiglia sarà più ricca e piena››. ‹‹Ho un bambino disabile, vi è il rischio che anche gli altri bambini naturali possano essere portatori di disabilità e allora preferisco adottarne uno sano››.

            Altre volte le motivazioni sono molto più banali e criticabili, come il desiderare di adottare un bambino maschio in quanto già si hanno quattro femmine o l’adottare un bambino per essere aiutati nella conduzione dell’azienda o ancora l’adottare un bambino piccolo, quando gli altri figli sono già grandi, per riprovare il piacere del rapporto educativo.

            Spesso nel campo dell’adozione si tendono a distinguere le motivazioni positive, che sono poi quelle ritenute utili e corrette, da quelle negative considerate pericolose ed errate, e quindi dannose alla futura relazione adottiva. È nostra opinione che nelle scelte che facciamo ogni giorno il valore della motivazione iniziale sia modesto, tanto modesto da essere superato dagli eventi che intervengono lungo il percorso della vita: soprattutto se è una vita da trascorre insieme ad un bambino. Non vi è dubbio, infatti, che alcune futili o criticabili motivazioni iniziali siano presenti anche nella genitorialità biologica, senza che venga spesso alterato o compromesso il futuro rapporto genitori-figli, in quanto, molti degli stimoli iniziali hanno la possibilità di essere modificati nel tempo dalla relazione che si instaura, per cui alcune motivazioni sono abbandonate, mentre altre nuove se ne aggiungono.

            Le eccessive illusioni. Ci sembrano più influenti, invece, nelle cause che provocano il fallimento del rapporto adottivo, le eccessive illusioni. Una di queste, la più frequente, consiste nell’immaginare che il bambino adottato, poiché ha trascorso mesi o anni in situazioni particolarmente difficili, fatti di privazione affettiva e/o di violenze, sia fisiche sia psichiche, nel momento in cui viene a lui offerta la possibilità di vivere in una bella, ricca casa ed in una vera famiglia, disposta ad amarlo, rispettarlo, accudirlo, ed educarlo, brami affidarsi felice e grato nelle braccia dei genitori adottivi. In questi casi si sottovaluta il fatto che le privazioni e le ferite che a questi bambini sono state inferte, sono difficili da rimarginare, per cui continuano a manifestarsi per un tempo più o meno lungo, mediante sintomi come l’aggressività, la tristezza, l’irritabilità, l’instabilità, che lasciano nello sconforto e che mettono in crisi anche il genitore più solido e maturo.

            Se potessimo leggere fino in fondo nel cuore di questi bambini, scopriremmo che ciò che si agita nel loro animo, ciò che stimola i loro pensieri ed i loro sogni è notevolmente diverso da quanto a livello conscio e inconscio è presente nell’animo dei genitori adottivi. La loro realtà interiore dipende molto dalla storia personale e quindi dalla loro età, dalle esperienze avute, dai ricordi e dalle frustrazioni provate. In definitiva, la loro realtà interiore è fatta di speranze, ma anche di sospetti. È fatta di amore per gli altri ma anche di odio verso gli altri. È fatta di gioie ma anche di sofferenze. È fatta di certezze ma anche di tante paure. D’altra parte, così come può essere problematica la realtà interiore che si agita nel cuore dei bambini, altrettanto difficili e dolorose sono le aspirazioni dei genitori che vogliono adottare. Pertanto un’altra delle illusioni che vivono i genitori adottivi è il sognare un clima familiare nel quale questi fanciulli con la loro presenza, con i loro sorrisi, il loro affetto, le loro carezze, i loro abbracci, saranno in grado di cancellare rapidamente e completamente ogni frustrazione causata da anni di tentativi di fecondazione falliti, di speranze tradite e di inutili, dolorosi interventi attuati dalla coppia.

            La relazione del bambino con i genitori adottivi. Nel momento dell’incontro la qualità della relazione può essere la più varia. La più felice situazione, ma anche la meno probabile, si ha quando un bambino molto piccolo passa, quasi senza accorgersene, dalle braccia di una madre che lo amava, lo curava e che riusciva ad aver con lui un rapporto caldo ed empatico, ad una famiglia matura, serena, pronta e felice di accoglierlo. La più difficile è invece la circostanza nella quale un bambino, per motivi diversi, al momento dell’adozione porta ancora nel proprio animo le numerose e dolorose cicatrici causate da una lunga frequenza in uno o più istituti o in un ambiente familiare improntato a tristezza, solitudine, degrado e violenza. Tra questi due estremi vi sono infinite possibili  relazioni.

            In alcuni casi il bambino porta nel suo animo un vuoto profondo in quanto non conosce la storia delle proprie origini. In altri casi il bambino adottivo porta ancora nel suo animo la momentanea sofferenza causata dal rifiuto e dall’abbandono. A volte i genitori adottivi sono costretti ad affrontare il dolore e la rabbia di un bambino che ha ancora bisogno di gridare la sua collera per le umiliazioni e per i traumi fisici e psichici subiti. Spesso questi genitori sono costretti ad affrontare il bisogno del bambino di ritrovare i suoi genitori biologici. Non è raro, poi, che i genitori adottivi siano chiamati al difficile compito di lenire la delusione e la sofferenza di minori che non hanno avuto accanto a sé la madre amorevole di cui avrebbero diritto insieme ad un padre serio, maturo, responsabile e protettivo nei loro confronti. Peggio ancora la famiglia adottiva si può trovare costretta ad arginare sentimenti come la collera e la sfiducia verso tutto il genere umano. Sentimenti questi presenti in bambini che hanno convissuto con madri irresponsabili ed incapaci d’amare, con padri egoisti, assenti o peggio violenti e/o con adulti indegni della loro fiducia, incapaci di dialogo, comprensione e amore.

            È però altrettanto varia la situazione dei genitori adottivi. Questi, nonostante abbiano ottenuto il decreto di adozione, non sempre presentano quelle qualità un po’ al di sopra della norma che possono permettere loro di affrontare situazioni nuove e spesso complesse. Non sempre hanno la flessibilità, l’equilibrio, la serenità, la capacità di ascolto, dialogo e dono indispensabili. Non sempre hanno risolto le loro problematiche interiori. Non sempre sono supportati da una rete familiare e sociale che li possa aiutare e sostenere.

            Vi sono allora: un’adozione facile e un’adozione difficile o impossibile. È più facile l’adozione:

  • quando i genitori adottanti hanno altri figli propri. Questi genitori, avendo già alle spalle buone esperienza di cure, hanno più capacità e minori illusioni. Inoltre, non provenendo alla genitorialità da realtà stressanti e traumatiche come chi per anni ha provato, sperato e lottato per avere un bambino senza riuscirci, sono più disponibili, sereni e accettanti;
  • quando il bambino è molto piccolo. In questo caso l’attaccamento tra i genitori e il figlio adottivo è più rapido e facile, in quanto l’adattamento reciproco, indispensabile presupposto per una buona intesa, avviene quasi spontaneamente;
  • quando il bambino ha avuto nei primi anni della sua vita una madre sufficientemente capace di entrare in relazione con lui. Avere avuto da parte della madre o di qualche familiare delle cure materne attuate in modo fisiologico e sano, costituisce per il bambino una solida base di partenza per affrontare con più forza e sicurezza anche future difficoltà e traumi;
  • quando i sentimenti di ognuno dei familiari adottanti, sono sinceri e schietti;
  • se i genitori adottivi non si creano troppe illusioni e sono stati affrontati e interiormente chiariti i loro sentimenti e le loro aspettative;
  • se non vi sono desideri ambivalenti;
  • quando il bambino da adottare non proviene da percorsi istituzionali tristi e frustranti;
  • se nei genitori adottanti sono presenti una buona maturità e serenità interiore. Serenità che potrà permettere loro di vivere con gioia i momenti lieti della vita e con tranquillità, calma, e realistico ottimismo le difficili situazioni che sicuramente non mancheranno;
  • se i genitori adottivi sono capaci di accettare il bambino per quello che è e non per quello che loro vorrebbero che fosse. Quindi, se i genitori adottivi, piuttosto che vedersi come manipolatori del destino dei loro bambini, si vedono come viandanti che accettano, lungo la strada della vita, la compagnia di una persona sconosciuta ma che vogliono scoprire, accettandone le potenzialità ma anche i limiti, consapevoli che ogni bambino, adottato o no, è particolare e originale;
  • se i genitori adottivi sono aiutati e sostenuti da una rete familiare calda, accogliente e disponibile e da servizi socio–sanitari adeguati nell’accompagnare queste particolari relazioni e, contemporaneamente, pronti ad affrontare e rapidamente risolvere le possibili difficoltà che lungo il cammino si dovessero presentare.

L’adozione risulta difficile o impossibile:

  • se il bambino proviene da percorsi affettivi particolarmente dolorosi e frustranti, e pertanto è portatore di notevoli disturbi psicologici o di handicap fisici che risultano difficilmente gestibili dalla coppia adottante;
  • se l’adozione è considerata dalla coppia adottante l’ultima spiaggia per soddisfare il piacere della maternità e della paternità;
  • se persistono nella coppia adottante motivazioni profonde e persistenti legate ad un bisogno inconscio di compensare un vissuto di menomazione della propria femminilità o della propria mascolinità;
  • se il bambino si ritrova con genitori particolarmente ansiosi o emotivamente fragili; o al contrario è costretto a relazionarsi con persone troppo dure, rigide e fredde;
  • quando l’ambiente familiare e ambientale è sospettoso e poco o nulla accettante nei confronti di un bambino diverso, per colore della pelle, per nazione, ceto sociale, credo religioso; o quando questo ambiente familiare e ambientale presenta timori profondi, legati al concetto di ereditarietà morale negativa;
  • se i genitori adottivi non sono pienamente e profondamente convinti di poter diventare genitori a pieno titolo di un bambino non procreato direttamente da loro. Se quindi non hanno fiducia nelle loro possibilità e in quelle del bambino;
  • quando i genitori adottivi non hanno a disposizione dei servizi socio–sanitari capaci di sostenere e aiutare l’instaurarsi di una relazione efficace.

I vissuti dei genitori adottivi. Alcuni genitori adottivi consciamente o inconsciamente si rimproverano ingiustamente di non avere i requisiti necessari per essere una buona madre o un buon padre, in quanto incapaci di potere risolvere abbastanza rapidamente i problemi psicologici presentati dal bambino, soprattutto se questi manifesta le sue sofferenze mediante accuse e continue lagnanze. Da ciò l’autosvalutazione ma anche i sentimenti depressivi.

            In altri casi, al contrario, i genitori adottivi sembrano consapevoli solo del bene che hanno fatto al bambino prendendolo in casa e negano decisamente e non accettano che, con il loro modo di porsi nei suoi confronti, possano fargli o avergli fatto del male e quindi essere in parte responsabili del suo cattivo comportamento. Da ciò l’accusa al bambino di non essere a posto, di non essere come gli altri, di non avere quelle qualità e capacità che avrebbe dovuto avere. Questi genitori, pertanto, scaricano su di lui la loro frustrazione mediante continui rimproveri, punizioni e minacce come quelle di riportarlo in istituto. Contemporaneamente accusano l’ente che li ha aiutati nell’adozione di averli “truffati e imbrogliati” dando loro un bambino non perfettamente sano, com’era descritto nella relazione che era stata loro consegnata. In queste occasioni, spesso, si rimproverano di aver fatto delle scelte sbagliate riguardanti l’ente al quale si sono affidati, il paese d’adozione, l’età del bambino, il suo sesso, il periodo nel quale si sono decisi ad iniziare le pratiche per averlo e così via.

            Altri genitori adottivi invece temono di aver sopravvalutato la gioia di avere un figlio rispetto ai problemi che questi comporta. Si convincono, inoltre, che il bambino non potrà mai ricambiare tutto l’amore e l’impegno a lui donato e tutte le spese sostenute: sia per le pratiche burocratiche, sia per la sua cura ed educazione.

            Vi sono poi dei genitori che amano collegare i comportamenti disturbanti del figlio, i suoi atteggiamenti o le sue frasi “cattive”, la sua irrequietezza, la scarsa disponibilità nei loro confronti, ai geni dei suoi genitori: “immorali, caratteropatici, malati mentali, delinquenti”. ‹‹Come potrebbe essere diverso il figlio di una prostituta?›› ‹‹Cosa aspettarsi dal figlio di un padre ubriacone e da una madre così incosciente da mettere al mondo un bambino per poi abbandonarlo per strada?››

            Altri genitori, infine, imputano le difficoltà educative e la difficile intesa con il figlio all’incontestabile realtà che tra di loro non vi è un legame di sangue. Questa mancanza di affinità biologica li rende incerti nei loro comportamenti ed atteggiamenti. Di fronte alle richieste del bambino non sanno come regolarsi. Temono di causare delle frustrazioni ad un essere già provato ma, nel contempo, hanno anche paura che egli possa approfittare delle loro concessioni. Pertanto temono che il comportamento del figlio possa, nel tempo, peggiorare.

            Questi ed altri vissuti possono essere anche causa di conflitti tra i coniugi: ‹‹Tu hai voluto per forza questo bambino e mi hai costretto all’adozione. È colpa tua se ci troviamo in queste grosse difficoltà››. Oppure: ‹‹Sei stato superficiale perché ti sei lasciato convincere ad adottare un bambino ucraino quando mio padre ti aveva detto più volte che era meglio un bambino messicano››.

            Infine, non sono poche le difficoltà nel fare accettare il bambino adottato quando si hanno già altri figli. Molte volte non basta parlarne prima con loro. Non basta l’informazione, come non basta il loro assenso. Nel momento in cui pensiamo di avviare la procedura di adozione è fondamentale porre attenzione e valutare in maniera sincera, approfondita, seria e senza pregiudizi di sorta, il possibile impatto psicologico che avrà l’inserimento di un nuovo fratello o di una nuova sorella nell’animo e nella vita degli altri figli. Se valutiamo che questo impatto sarà positivo, il loro contributo ed il loro appoggio alla riuscita dell’adozione sarà vero, reale e sostanziale.

            I vissuti dei bambini adottati. Poiché l’attività educativa comporta la necessità di dare dei limiti, delle norme ma anche, quando sono indispensabili, delle punizioni, quando i bambini adottati provano rabbia o manifestano reazioni aggressive, è spesso presente in loro il timore di essere ingrati verso chi sta facendo loro del bene. Questo timore può comportare dei sensi di colpa difficilmente gestibili in quanto, pur sforzandosi di essere dei buoni figli, difficilmente possono evitare contrasti, rimproveri, ma anche sentimenti e situazioni di scontro. Da questi contrasti possono nascere delle paure: di non essere pienamente accettati dai nuovi genitori, dai parenti e familiari, dai compagni di scuola, a causa delle loro origini; di essere rimandati e respinti così come hanno fatto i loro genitori naturali o altre famiglie adottanti prima di questa; di non riuscire ad inserirsi in un mondo molto, troppo diverso dal loro per lingua, religione, colore della pelle, abitudini, cultura ecc.

            Altri bambini, invece, rimangono come invischiati nei legami affettivi del passato, sia quando questi legami sono stati veri e reali sia se sono stati solo immaginati e sognati. Spesso, nel loro animo rimane stabile e immutato il volto di un padre o una madre buona che non possono e non vogliono tradire inserendo al loro posto un altro padre e un’altra madre, per cui negano nel loro animo di essere stati da questi genitori abbandonati. Altre volte si tratta di una sorellina o fratellino più piccolo del quale si sentono in qualche modo responsabili. In altri casi il saldo e forte legame che rimane nel loro cuore non è quello con i genitori biologici ma quello ancora presente con una o più persone della loro famiglia o dell’istituto dove essi hanno trascorso qualche tempo della loro vita, per cui, ad esempio, temono di tradire la puericultrice che si è occupata di loro nell’istituto dov’erano ricoverati. È come se rimanessero nel loro cuore, acquistando con il tempo una valenza sempre maggiore, gli occhi dolci e affettuosi di quell’educatrice che aveva cura di loro da piccoli o le braccia del compagnetto più grande che, in un momento di tristezza, li aveva consolati o le promesse della zia, del fratello o della sorella maggiore i quali si erano solennemente impegnati ad aver cura di loro.

            Queste realtà affettive del passato li fanno sentire come ospiti momentanei nella nuova casa che li accoglie. Anche se a volte queste realtà sono obiettivamente vaghe come fantasmi, rendono difficile l’instaurarsi di un vero e solido legame con i nuovi genitori e con la nuova famiglia, tanto da non riuscire a superare e a scacciare gli altri elementi negativi dovuti all’istituzione. Per tale motivo questi bambini rifiutano consciamente o inconsciamente l’allontanamento e l’adozione per cui, non riuscendo a legarsi ai nuovi genitori, rimangono come in attesa di un evento fortuito che li riporti alla condizione precedente o peggio, con il loro comportamento disturbante ed irrequieto, a volte inconsciamente ricercano e fanno di tutto per essere riportati ai legami e alla realtà del passato.

            Queste ed altre dinamiche interiori presenti sia nei genitori adottivi sia nei bambini adottati impongono l’aiuto di esperti psicologi o neuropsichiatri infantili, i quali hanno il compito di individuare e poi risolvere le varie problematiche personali e familiari presenti e attive, non solo al momento dell’adozione ma anche, a volte per anni, lungo tutto il corso della vita del minore.

            Adozione felice e adozione problematica. Adozione felice

Un’adozione che si instaura in modo positivo e soddisfacente dà abbastanza rapidamente i suoi frutti. Il bambino impara gradualmente ma anche velocemente la lingua del luogo. Dopo qualche tempo, a volte pochi giorni altre volte qualche mese, già si lega a uno o ad entrambi i genitori: li cerca nel gioco, li interpella quando ha dei dubbi, esprime loro, chiaramente, i propri desideri, i propri sogni, i propri crucci e le proprie aspirazioni. Se femminuccia imita la madre in alcuni suoi comportamenti e occupazioni. Lo stesso avviene per i maschietti nei confronti del padre. Se grandetto fa già dei progetti per il futuro. Comunica affetto ed ha interesse anche nei confronti degli altri familiari e parenti. Quando al momento dell’adozione sono presenti dei sintomi di sofferenza, questi diminuiscono gradualmente, sebbene possano ripresentarsi in alcuni momenti di crisi.

            Allo stesso modo, anche da parte della famiglia adottiva si notano immediatamente dei segnali positivi. Si avverte in uno o in entrambi i genitori il piacere di intrattenersi con il loro figlio nei giochi, nelle uscite, nel dialogo o semplicemente stando abbracciati davanti alla tv. Nei colloqui con gli altri parenti e amici questi genitori, soddisfatti della relazione, tendono a sottolineare le conquiste effettuate dal figlio e gli aspetti positivi del suo carattere e dei suoi atteggiamenti, piuttosto che i problemi che provoca o ha provocato nella coppia e nella famiglia. Questi genitori, inoltre, quando si presenta qualche difficoltà, si attivano rapidamente a risolverla senza lamentarsene con amici e parenti. Pensano di essere stati fortunati nella loro scelta. A volte temono che, per qualche motivo burocratico, il figlio adottivo possa essere loro sottratto e sono pronti a ribellarsi a questa eventualità.  (…)

            Adozione problematica

            Un’adozione si preannuncia problematica quando comporta frequentemente delle sofferenze notevoli sia per i genitori sia per i minori. In questi ultimi, i sintomi presentati al momento dell’adozione, piuttosto che diminuire si accentuano. Cresce l’instabilità, l’irritabilità, la chiusura, la sfiducia negli altri, la dolorosa sensazione di sentirsi abbandonati. Questi bambini hanno difficoltà ad addormentarsi; la quantità ma anche l’intensità delle paure, o peggio delle fobie, non tende a diminuire nel tempo ma anzi si accentua; non avendo fiducia nell’ambiente che li circonda ma anche in se stessi, rifiutano di imparare la lingua del paese in cui si trovano; non vogliono andare a scuola; hanno un comportamento oppositivo, irritante, irriguardoso e, a volte, aggressivo e violento con gli oggetti ma anche con gli animali, le persone e gli stessi genitori. Se sono stati adottati due fratelli questi tendono a chiudersi in coppia piuttosto che a cercare, anche con manifestazioni di gelosia, l’amore o l’attenzione esclusiva di uno o di entrambi i genitori. Questi ultimi, d’altra parte, non mancano di manifestare in molte occasioni il loro disappunto per i tanti comportamenti giudicati impropri, anormali o semplicemente disturbanti e se ne lamentano tra di loro, con i parenti e gli amici. I genitori adottivi nel momento in cui consultano un neuropsichiatra, un pediatra o uno psicologo, durante il colloquio non riescono a trovare che disabilità, limiti e problemi nelle caratteristiche del figlio adottato. Poiché questi limiti e questi problemi sono giudicati difficilmente superabili o gestibili, si sentono non protagonisti di una relazione anche se difficile, ma ignare e inconsapevoli vittime di questa. Pertanto agli specialisti più che consigli sulle modalità migliori per rapportarsi con il figlio, chiedono decisive terapie psicologiche o farmacologiche atte a risolvere in breve tempo i tanti problemi lamentati.

            Lo scarso legame esistente tra loro ed il figlio si manifesta anche con dei comportamenti con i quali cercano di diminuire al massimo il rapporto con quest’ultimo: lo iscrivono immediatamente a scuola, cercano per lui una ‹‹buona sistemazione›› per le ore pomeridiane  mediante l’aiuto di un’insegnante di doposcuola, di un logopedista o di un psicologo. Oppure più semplicemente lo iscrivono in un club sportivo o in una scuola di musica o danza. In alcuni casi il rifiuto diventa netto, per cui si sentono costretti a chiedere all’ente che li ha assistiti nell’adozione un bambino migliore e più sano.

            prof. Emidio Tribolato          22 marzo 2015

www.ucipem.com/it/index.php?option=com_content&view=article&id=268:l-adozione-facile-difficile-impossibile&catid=89&Itemid=270

Trento. Famiglie fragili e figli a rischio evolutivo.

Famiglie fragili a rischio evolutivo, come sostenere il diritto del bambino alla sua famiglia d’origine? è possibile creare le condizioni per prevenire l’allontanamento o ridurne i tempi? La giornata di studio promossa dal Consultorio Familiare Ucipem onlus lo scorso 26 marzo 20215 a Trento ha voluto rispondere a questi interrogativi.

            L’esigenza di interventi verso le famiglie con carenze nell’accudimento dei figli impegna molto i servizi, arrivando anche a contrapporre gli interessi dei figli a quello dei genitori. Studi recenti sollecitano la sperimentazione di soluzioni innovative ‘per tutta la famiglia’ a garanzia di maggior tutela di bambini e ragazzi che sono in situazioni di rischio evolutivo.

            Il seminario ha approfondito la tematica dei legami di attaccamento, focalizzandola in particolare sulle situazioni familiari compromesse, di bambini e famiglie messi ‘sotto tutela’. È stata un’occasione di confronto clinico e di approfondimento interdisciplinare su un modello d’intervento centrato sui bisogni del figlio, ma rivolto a tutto il nucleo famigliare, con una presa in carico del sistema ‘bambino con i suoi legami’.

            Ha avviato una riflessione nell’ambito della valutazione di efficacia, degli esiti degli interventi che si fanno nell’area della tutela. (…)

https://www.fondazionezancan.it/news/view/751

.           Famiglie fragili e figli a rischio evolutivo”, questo il tema della giornata di studio svoltasi ieri a Villa Sant’Ignazio, con oltre 110 partecipanti, tra psicologici, avvocati ed assistenti sociali. E per circa 120 professionisti che non hanno trovato posto è già stato organizzato un altro appuntamento. Il seminario del Consultorio familiare Ucipem Trento Onlus, col patrocinio di Provincia e Comuni di Trento e Rovereto, ha proposto i dati riferiti al Progetto Pinocchio che ha compiuto 10 anni di vita. Lo sviluppo nel tempo, dell’attività del Consultorio di via Ferruccio 1, per quanto riguarda le persone a carico, dice che sono passate dalle 16 del 2004, alle 31 del 2006, alle 55 dello scorso anno; i nuclei, sempre negli stessi periodi, da 7 a 32 mentre i casi in preparazione sono 5. La direttrice del corso, Vanda Scopel, ha detto che la giornata è un’occasione di confronto clinico ed approfondimento interdisciplinare su un modello di intervento centrato sui bisogni del figlio ma rivolti a tutto il nucleo familiare.

Il dottor Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan ha commentato un dato diffuso dal Centro nazionale osservatorio minori che, pubblicato nel 2013, fa riferimento al 2010: “In provincia di Trento ci sono stati 335 casi di affido tra 0 e i 17 anni, che pesano per il 3,5 per mille mentre in Italia il carico è del 2,9. Ciò non significa che la vostra provincia ha più problemi rispetto al resto del Paese ma che c’è più attenzione e forse più severità nelle valutazioni della magistratura e dei servizi. Il 50% di questi casi sono giudiziali con obbligo, la restante metà suddivisa equamente tra giudiziale intrafamiliare e consensuale”. Le linee guida del Progetto Pinocchio – che interviene su situazioni familiari inviate dai Servizi sociali, con prescrizione della Magistratura che le obbligano al percorso psicologico perché ritenute carenti nella gestione dei figli – sono la consapevolezza che ci si trova dinanzi a situazioni molto delicate; la curiosità, che deve muovere nel cercare le soluzioni migliori; la fiducia di essere adeguati ai bisogni delle persone. Un dato: le famiglie fragili, per definire le situazioni complicate, quelle con problemi multipli sono 25, le separazioni molto conflittuali 13, i minori allontanati 10, quelli a rischio allontanamento 9. I problemi derivano dalla gestione della casa, dalla mancanza di lavoro, dalla salute e dipendenze. Da febbraio 2003 a fine 2014, le persone segnalate sono state 173, per 83 nuclei , 15 di queste persone non hanno accettato la proposta, 158 hanno accettato di farsi seguire dai servizi ed i casi singoli risolti sono stati 116.

Per quanto concerne gli esiti, analizzati all’ingresso, 21 non hanno riconosciuto l’esistenza di problemi familiari; 36 ne hanno riconosciuto almeno uno ed 8 oltre a ciò hanno iniziato ad attivarsi e partecipare. 21 riconoscono già all’inizio l’esistenza di un problema, 28 riconoscono e si rendono attivi, 2 adolescenti sono entrati consapevoli e lavorano sui problemi in forma attiva e partecipe. Totale 116. Per i minori i dati sono molto diversi, in quanto il non riconoscere si attesta a 3, il conoscerne almeno uno 8, diventa attivo e partecipa solo 1, accettano l’esistenza del problema sin dall’inizio 7, diventano attivi e poi partecipano 10, per un totale di 29. “Il termine che viene utilizzato perché meno traumatico – conclude Vecchiato – è affidamento ma non bisogna illudersi, si parla quasi sempre di trapianto

http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2015/03/27/news/famiglie-fragili-in-trentino-cresce-il-disagio-1.11131544

http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2015/04/05/news/minori-in-affido-in-trentino-sono-sempre-di-meno-1.11185991

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DALLA NAVATA

                                   2° domenica dei Pasqua – anno B –12 aprile 2015

 

 

Atti                               04.33 «Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.»

Salmo             118.04 «Dicano quelli che temono il Signore: “Il suo amore è per sempre”.»

1 Giovanni        05.02 «In questo conosciamo di  amare i figli di Dio; quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.»

Giovanni           20.22 «Detto questo, soffiò e disse loro; “Ricevete lo Spirito Santo”.»

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

Eterologa, 100 figli da donatore danese malato.

Potrebbero essere il doppio di quel che si pensava i bambini figli di fecondazione eterologa nati dal seme di un uomo che ha venduto le sue cellule riproduttive e del quale si è scoperto in un secondo momento che è portatore sano di una malattia genetica rara quanto devastante. L’episodio risale al 2007, quando in un ospedale belga – l’Az Saint-Lucas – nasce un bambino malato di neurofibromatosi. Il piccolo è stato concepito con fecondazione eterologa grazie al liquido seminale acquistato dalla multinazionale danese leader del settore, la Nordic Cryo Bank.

            Ma l’allarme sulla presenza nel seme del “donatore 7042” – com’è catalogato – del gene NF-1 responsabile della malattia scatta con sei mesi di ritardo. Inizia solo allora la caccia ai figli di 7042, una ricerca che si estende nei 70 Paesi in cui la Nordic esporta i suoi campioni per cicli di fecondazione eterologa (Italia inclusa): nel 2012 si contano già 46 nati dal donatore col gene della malattia, di cui 5 con malattia conclamata. Ma negli anni successivi la ricerca va ancora oltre, e se le donne italiane che si sono fatte impiantare (all’estero, prima della caduta del divieto di eterologa) un embrione figlio genetico di 7042 nessuna – per quanto se ne sa – è arrivata al parto, emergono in 6 Paesi (Belgio, Danimarca, Svezia, Norvegia, Islanda e Stati Uniti) altri casi, come documenta in modo dettagliato Eugenia Roccella nel suo recentissimo libro «Fine della maternità» (Cantagalli).

            Finché anche la stampa inglese non mette le mani sulla storia e rivela il giorno di Pasqua che sarebbero 100 i nati dal seme raccolto e spedito – con la garanzia nominale di accurati controlli – dall’azienda danese, da poche settimane fornitrice ufficiale dell’Ospedale Careggi di Firenze. Sarebbe raddoppiato (da 5 a 10) anche il numero di bambini nati con la malattia del donatore, ma c’è chi parla di 19 piccoli malati, mentre è difficile fare una stima sui bambini concepiti grazie a 7042 e portatori sani del gene difettoso.

            Il caso aveva portato in Danimarca a una stretta – almeno sulla carta – al numero di figli possibili da uno stesso donatore ma anche ai controlli su “donatori” (in realtà regolarmente retribuiti per i loro gameti).

Francesco Ognibene              avvenire         6 aprile 2015

www.avvenire.it/Vita/Pagine/Cento-figli-delleterologa-da-donatore-danese-malato.aspx

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

I bambini non sono mai “un errore”!

Nell’Udienza generale, il Papa parla delle infanzie rubate dalle “colpe” e dagli “errori” di noi adulti. E ricorda che ogni bambino abbandonato è un “grido che sale a Dio”

“Che grande dono sono i bambini per l’umanità” esclamava lo scorso 18 marzo 2015 Papa Francesco nella prima parte della catechesi dell’Udienza generale dedicata all’infanzia, che completava il ciclo sulla famiglia. Quello stesso sguardo pieno di luce e di speranza, si rabbuia però nella riflessione di oggi pensando a quelle “ferite che purtroppo fanno male all’infanzia”. Vere e proprie “storie di passione” che vivono molti bambini nel mondo, osserva il Santo Padre. Sono “tanti” infatti, forse troppi, i piccoli che “fin dall’inizio sono rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro”. “Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo”. Ma questo “è vergognoso!”, afferma il Pontefice, “non scarichiamo sui bambini le nostre colpe per favore! I bambini non sono mai ‘un errore’”.

“La loro fame – prosegue – non è un errore, come non lo è la loro povertà, la loro fragilità, il loro abbandono (tanti bambini abbandonati per le strade…) e non lo è neppure la loro ignoranza o la loro incapacità”. Semmai questi “sono motivi per amarli di più, con maggiore generosità”. Altrimenti “che ne facciamo delle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del bambino, se poi puniamo i bambini per gli errori degli adulti?”, s’interroga Bergoglio.

In particolare la domanda si rivolge a “coloro che hanno il compito di governare, di educare”, ma anche a “tutti gli adulti”, che sono “responsabili dei bambini” e quindi chiamati a fare “ciascuno ciò che può per cambiare questa situazione”. Perché “ogni bambino emarginato, abbandonato, che vive per strada mendicando e con ogni genere di espedienti, senza scuola, senza cure mediche, è un grido che sale a Dio e che accusa il sistema che noi, adulti, abbiamo costruito”, denuncia il Santo Padre.

Proprio questi bambini diventano, infatti, facile preda dei delinquenti, “che li sfruttano per indegni traffici e commerci, o addestrandoli alla guerra e alla violenza”. E il problema non è solo la povertà: “Anche nei cosiddetti Paesi ricchi – osserva Papa Francesco – tanti bambini vivono drammi che li segnano in modo pesante, a causa della crisi della famiglia, dei vuoti educativi e di condizioni di vita a volte disumane”. Povere o ricche, tutte questo sono “infanzie violate nel corpo e nell’anima”. Nessuna di esse tuttavia è “dimenticata dal Padre che è nei cieli!”: “Nessuna delle loro lacrime va perduta! – assicura il Pontefice – Come neppure va perduta la nostra responsabilità, la responsabilità sociale delle persone, di ognuno di noi, e dei Paesi”.

È sempre viva, quindi, la “commovente” risposta di Gesù ai discepoli che allontanavano i bambini che i genitori gli portavano per farli benedire: “Non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli”. “Come vorrei che questa pagina diventasse la storia normale di tutti i bambini!”, sospira il Santo Padre, ed esclama: “Che bella questa fiducia dei genitori, e questa risposta di Gesù!”. “È vero – soggiunge – che grazie a Dio i bambini con gravi difficoltà trovano molto spesso genitori straordinari, pronti ad ogni sacrificio e ad ogni generosità”. Ma anche gli stessi genitori “non dovrebbero essere lasciati soli!”: anch’essi hanno bisogno di un’assistenza, di qualcuno che accompagni “la loro fatica”, e che offra loro “momenti di gioia condivisa e di allegria spensierata, perché non siano presi solo dalla routine terapeutica”.

È vero pure che sulle famiglie spesso, e in particolare sui bambini, ripiombano “gli effetti di vite logorate da un lavoro precario e malpagato, da orari insostenibili, da trasporti inefficienti…”. E sono sempre i più piccoli a pagare il prezzo “di unioni immature e di separazioni irresponsabili”.

“Sono le prime vittime”, afferma Francesco, “subiscono gli esiti della cultura dei diritti soggettivi esasperati, e ne diventano poi i figli più precoci. Spesso assorbono violenza che non sono in grado di ‘smaltire’, e sotto gli occhi dei grandi sono costretti ad assuefarsi al degrado”. Per questo la Chiesa, nella nostra epoca come in passato, “mette la sua maternità al servizio dei bambini e delle loro famiglie”, portando “la benedizione di Dio, la tenerezza materna”, ma anche “il rimprovero fermo e la condanna decisa”. Perché “con i bambini non si scherza!”, ribadisce Bergoglio.

E allora bisogna pensarci bene prima di fare qualsiasi passo. Sarebbe una svolta, anzi, se una società decidesse una volta per tutte di stabilire il principio che “quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini”.“Io dico che a questa società, molto sarebbe perdonato, dei suoi innumerevoli errori. Molto, davvero”, assicura il Papa. Il Signore, infatti, “giudica la nostra vita ascoltando quello che gli riferiscono gli angeli dei bambini”, evidenzia il Santo Padre. E conclude esortando a porsi sempre questo assillante ma fondamentale quesito: “Che cosa racconteranno a Dio, di noi, questi angeli dei bambini?”.

Salvatore Cernuzio    zenit    08 Aprile 2015

www.zenit.org/it/articles/i-bambini-non-sono-mai-un-errore

il testo ufficiale           http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150408_udienza-generale.html

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MEDIAZIONE FAMILIARE

La funzione della mediazione familiare con i bambini.

L’Autrice mette a fuoco e analizza l’importanza e il ruolo dell’intervento del mediatore familiare nelle situazioni familiari conflittuali, vissute dalla prospettiva dei bambini.

“Questo mondo è pieno di ex mogli ed ex mariti. Ma non esistono ex figli” (Bruno Ferrero, scrittore e pedagogista salesiano).

            “Le strutture e le relazioni familiari contemporanee si formano e si trasformano assumendo configurazioni sempre più composite, mutevoli e diversificate. Lo segnalano la diminuzione dei matrimoni e l’incremento delle coppie di fatto, la crescita delle rotture tra coniugi e tra conviventi in presenza di figli minori, il fenomeno delle ri-coabitazioni con le famiglie di origine e del «pendolarismo familiare». Come è stato osservato, la famiglia nell’epoca ipermoderna si presenta priva di un centro di gravità, stratificata, disordinata, irriducibile a una formazione nucleare, incline ad assumere organizzazioni tendenzialmente plurali. L’altra faccia è la precarietà degli affetti, che sta assumendo una dimensione sociale non più trascurabile ed è fonte di notevole stress per tutti i soggetti coinvolti, soprattutto per i bambini che, sempre più precocemente, si trovano ad affrontare riorganizzazioni e stratificazioni dei loro legami familiari. La transizione separativa richiede, infatti, notevoli capacità di adattamento, energie e risorse per fronteggiare passaggi ad alto tasso di vulnerabilità. Dalle ricerche emerge anche che padri e madri in conflitto sono maggiormente in difficoltà nel rispondere adeguatamente alle responsabilità generative e ad assumere una funzione normativa, sono più irritabili e meno coinvolti con i figli, hanno minor tempo da dedicare loro, faticano nell’ascoltarli e nel fornirgli appoggio emotivo. Considerate queste variazioni delle forme familiari diventa centrale il sostegno della famiglia nel suo periodo decisamente più critico, quando i genitori si separano, sostegno che può assumere molte forme e che comprende sicuramente anche l’ascolto dei figli” (la mediatrice familiare Laura Gaiotti).

La mediazione familiare, in presenza di figli specialmente minori d’età, vuole riportare l’attenzione su di loro e accompagnare i separandi a vivere la genitorialità con nuove modalità. La mediazione familiare ha una “dimensione minorile” per varie ragioni, innanzitutto perché persegue i principi ispiratori del Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e realizza quell’interesse superiore del fanciullo che deve costituire oggetto di primaria considerazione (art. 3 par. 1 Convenzione). “Interesse” significa “ciò che sta in mezzo” (come nell’etimo della mediazione), in questo caso ciò che sta tra la coppia coniugale o convivente che sta naufragando e la famiglia in divenire. Già nell’art. 143 cod. civ., letto durante il rito del matrimonio, si parla di “interesse della famiglia” e di “bisogni della famiglia” proprio per distinguere le sorti della coppia da quelle dell’intera famiglia.

            Lo stesso vale per i “doveri verso i figli” (art. 147 cod. civ.) che sono disciplinati distintamente dai “diritti e doveri reciproci dei coniugi” di cui all’art. 143 per distinguere la coppia coniugale da quella genitoriale. E la mediazione mira a ridare la lucidità mentale su questa distinzione.

            La mediazione familiare è connaturalmente “pro figli” per la sua aggettivazione “familiare” e la famiglia è pienamente compiuta quando vi sono dei figli. Svolge un’educazione familiare perché richiama i genitori sulla continuità e sulla comunanza degli obblighi verso i figli enucleati nell’art. 147 cod. civ. e soprattutto “nel rispetto” (locuzione inserita nel novellato testo dell’art. 147 cod. civ. dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”) di quanto espresso e manifestato dai figli anche circa il loro affidamento. Già nell’art. 5 lettera b della “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna” del 1979 si prevedeva “ogni misura adeguata” “al fine di far sì che l’educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l’interesse dei figli è in ogni caso la considerazione principale”. La mediazione contribuisce anche a responsabilizzare i genitori a non far mancare ai figli quell’assistenza morale introdotta dall’art. 315-bis “Diritti e doveri del figlio” cod. civ. aggiunto dalla legge 10 dicembre 2012 n. 219 e, poi, nell’art. 147 come novellato dal decreto legislativo 28 dicembre 2013 n. 154.

            “Il diverso approccio nei confronti delle problematiche familiari contraddistingue la bipartizione mediazione globale-mediazione parziale. Il primo modello estende il proprio ambito di azione a tutte le questioni inerenti al rapporto di coppia affrontando sia i problemi che prettamente riguardano la prole, sia quelli di tipo economico-patrimoniale, volgendo l’attenzione agli aspetti più pratici di una riorganizzazione del nucleo familiare. […] Il modello di mediazione parziale all’inverso, focalizza il suo lavoro sugli aspetti più emotivi del conflitto familiare concentrandosi, specificatamente, sulla dimensione genitoriale. Il mediatore che opera in un’ottica parziale separa idealmente il rapporto di coppia dal legame genitore-figlio tendendo alla massima valorizzazione del rapporto genitoriale anche quando quello di coppia si addentra nei meandri dolorosi di una crisi, talvolta irreversibile, in virtù del fatto che le responsabilità genitoriali non vengono mai meno e che occorre impegnarsi, soprattutto quando è in atto un fenomeno di dissociazione coniugale, nella ricerca di soluzioni condivise volte alla cura della prole”.

            La mediazione familiare giova ai figli sotto diversi aspetti. “Descrivere le situazioni difficili della propria vita, cercando di chiarire ciò che si pensa e si prova al riguardo, serve non solo a fare chiarezza in se stessi e a “sfogarsi”, ma può anche migliorare lo stato generale di salute, favorire l’efficienza personale e modificare in senso positivo le relazioni interpersonali. Ne consegue che quando un adulto sta meglio, ne beneficerà anche la relazione con i suoi figli” (dall’esperienza psicologica). Oltre ad essere più sereni, i genitori in mediazione acquisiscono maggiore capacità nel comunicare ai figli quanto sta avvenendo senza scaricarsi a vicenda, anche in questo caso, la responsabilità: “Una prima considerazione concerne il compito di effettuare una comunicazione difficile al bambino: comunicare gli eventi dolorosi della vita di una famiglia è un processo e, in quanto tale, dura nel tempo e non si esaurisce dando una spiegazione che vale per sempre. I bambini crescono, acquisiscono competenze mentali, cognitive, comunicative e avranno ripetutamente l’esigenza di porre nuove domande in relazione alla loro maggior capacità di comprensione. […] Il primo passo è, quindi, quello di ricercare l’alleanza dei genitori rispetto alla necessità di parlare con i bambini e aiutarli ad attribuire significati corretti a esperienze, fatti e ricordi. Per quanto un operatore possa pensare che potrebbe essere più facile e veloce parlare direttamente lui stesso al bambino e spiegargli “come stanno le cose” – soprattutto in presenza di genitori con scarse capacità di mentalizzazione o evidenti limiti cognitivi ed emotivi – è al contrario indispensabile accompagnare il genitore in questa comunicazione, rispettare i suoi tempi di elaborazione e sostenerlo in tutto il processo” (dall’esperienza psicologica).

            La mediazione familiare serve per attuare e rispettare i diritti all’ascolto e di ascolto dei figli minori d’età, dall’ascolto dei genitori all’ascolto sociale. “Sin dal primo giorno, dal momento in cui viene iniziato il procedimento, il figlio, i figli dovrebbero essere avvertiti. E, alla fine del procedimento, dovrebbero essere informati dal giudice delle decisioni del divorzio, dopo essere stati ricevuti da soli dal giudice, ovviamente nel caso che questi sappia parlare ai bambini, altrimenti da una persona da lui incaricata della cosa, capace di entrare facilmente in contatto con i bambini. Attualmente sono troppo pochi i giudici capaci di parlare ai bambini alle prese con le difficoltà della separazione dei genitori. Le cose cambieranno: oggi i giovani giudici sono diversi e anche la legge cambia. L’importante è che il bambino possa sentire le parole giuste di uno che non cerchi di mettersi alla sua portata edulcorando le difficoltà. Basta dirgli: “Sai perché sei venuto? I tuoi genitori pensano di separarsi. Tu lo sapevi?” Che lui risponda o no, comunque bisogna parlargli… Non ci sono limiti di età per spiegare la sua situazione a un bambino” (la psicoanalista francese Francoise Dolto).

            Chiudersi nella stanza di mediazione per spezzare la catena della conflittualità e prendersi un nuovo tempo e un nuovo spazio, per riprendersi in mano la vita è didascalico per i genitori e indirettamente per i bambini. “Gli uomini si agitano disperatamente nel loro quotidiano per evitare di confrontarsi con se stessi. Cercano una presenza, un palliativo per la loro disperata solitudine interiore, e ciò in una folle ricerca dell’altro, perché la solitudine è per loro insopportabile. L’uomo moderno sembra preso in una corsa vertiginosa contro l’orologio. Accumula compiti, azioni e poiché ciò non basta, riempie di rumori ogni spazio libero per immaginare che la sua vita sia piena. Molto presto noi condizioniamo i nostri bambini a questo ritmo così poco naturale. Così il bambino perde molto presto la sua capacità di essere e diventa lo specchio dell’angoscia dei genitori che sono sempre più condizionati dai modelli di vita imposti e falsi, spesso veicolati dai mezzi audiovisivi” (Jacqueline Morineau, francese esperta di mediazione umanistica). La mediazione familiare nel codice civile è associata all’ascolto perché menzionata nell’art. 337-octies rubricato “Poteri del giudice e ascolto del minore”. “Ascolto” ha la stessa origine etimologica di “cultura”; nell’art. 3 lettera o della legge 22 luglio 2011 n. 112 “Istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza” si legge: “[…] favorisce lo sviluppo della cultura della mediazione e di ogni istituto atto a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età, stimolando la formazione degli operatori del settore”. Il legislatore del 2011 ha accolto, pertanto, l’appello e l’auspicio formulato nel Documento “Per una mediazione a misura di bambini” del 2005 in cui, tra l’altro, al punto n. 5 sta scritto: “L’intervento legislativo dovrà promuovere la diffusione sia della cultura che dei servizi di mediazione”. L’accostamento dell’ascolto alla cultura della mediazione fa ben sperare in una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza; quell’infanzia e quell’adolescenza cui in famiglia, tanto in un clima sereno quanto in un periodo conflittuale, sono da “ascoltare” (dal latino “auris”, orecchio, e “colere”, coltivare, curare, trattare riguardosamente, quindi “coltivare nell’orecchio, porgere attentamente l’orecchio”), una via di mezzo tra l’“udire” (propendere verso qualcuno), il “sentire” (dirigere verso qualcuno i sensi) e l’“intendere” (volgere la mente verso qualcuno).

            Imparando ad ascoltare si ha (o ci si avvia verso) il “superamento delle difficoltà relazionali” cui è chiamata la mediazione familiare nell’art. 4 lettera i della legge 285/1997, quelle difficoltà relazionali di cui bambini e adolescenti sono vittime o possono esserne indirettamente causa per scelte non condivise tra i genitori o per richieste insostenibili dalla famiglia. Con l’ascolto si dà voce alle “esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia” (dall’art. 144 cod. civ.) secondo cui concordare l’indirizzo della vita familiare (ratio dell’art. 144 cod. civ.) che rappresenta la funzione di “mediazione attiva” della famiglia. La mediazione familiare aiuta a dare un nuovo indirizzo alla vita familiare, dopo la crisi e oltre la crisi distinguendo le esigenze individuali da quelle di entrambi e da quelle dei figli e dell’intera famiglia. In questi termini, l’art. 144 cod. civ. ben si adatta alla mediazione familiare e può essere riletto in “chiave mediativa”, perché i coniugi (ma anche i conviventi more uxorio) “accomunati dallo stesso giogo” (dall’etimo di coniugi) della sofferenza causata dalla conflittualità concordano tra loro il nuovo indirizzo della vita familiare e fissano la nuova residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia.

            “Entrambi” (etimologicamente “fra tutti e due”) e “preminenti”: aspetti su cui la mediazione familiare vuole focalizzare l’attenzione e la consapevolezza dei confliggenti. “La coppia viene così aiutata a passare da un piano di conflitto coniugale ad uno in cui prendere gli accordi genitoriali. Questi accordi devono tener conto dei sentimenti e delle necessità dei bambini, oltre che dei coniugi. Inoltre, devono facilitare la ripresa della comunicazione tra genitori e figli. Per questo motivo, i mediatori sollecitano la coppia di genitori a calarsi nella vita quotidiana e a trovare le soluzioni migliori, per riorganizzare la gestione familiare, in vista della separazione coniugale” (le mediatrici familiari Daniela Galli e Chiara Kluzer).

            Un aspetto che continua ad essere discusso da teorici e operatori della mediazione familiare è la diretta partecipazione dei figli, soprattutto minori d’età, alla mediazione.

            Lisa Parkinson, esperta riconosciuta nel campo della mediazione familiare, identifica tutta una serie di motivazioni valide per non coinvolgere i figli negli incontri di mediazione, ma anche i potenziali benefici di tale coinvolgimento. Sotto il primo versante, la Parkinson enumera specifiche cause, tra cui si possono ricordare: la mancanza di responsabilità dei ragazzi in relazione al conflitto avvenuto tra i loro genitori; lo sconvolgimento che tali ragazzi potrebbero ricevere prendendo maggiore coscienza di tale conflitto; la possibile confusione tra attività del mediatore e quella di consulente e avvocato del minore; la nascita di aspettative di miglioramento per i figli derivante dal loro coinvolgimento nella mediazione; la pressione a cui questi potrebbero sentirsi sottoposti dovendo esprimere propri sentimenti e stati emozionali; la difficoltà e il peso per il mediatore di mantenere eventuali segreti confidati dal minore soltanto a lui; le manifestazioni di sofferenza che i genitori potrebbero non essere in grado di dominare e contenere dinanzi ai propri figli; il condizionamento che i figli potrebbero ricevere dai propri genitori, anche in ordine alle cose da riferire al mediatore. Per quanto concerne i benefici di tale intervento, invece, la Parkinson, richiamando alcuni orientamenti dottrinari, fa riferimento all’esperienza positiva manifestata da non pochi ragazzi che hanno partecipato alla mediazione. La stessa, poi, individua: una maggiore facilità di adattamento alla nuova soluzione familiare, ove questi capiscano le decisioni dei propri genitori in modo più chiaro; un coinvolgimento dei ragazzi che rende gli stessi consapevoli del fatto che la loro persona è importante nel contesto familiare; la possibilità che il percorso di mediazione consenta ai genitori di ascoltare i propri figli; l’apporto di idee, sentimenti, commenti, domande fatte dai figli (e che contribuisce allo sviluppo della mediazione); la diminuzione della tensione e il miglioramento della comunicazione tra genitori e figli; la possibilità per i figli di essere ascoltati e sfogarsi con il mediatore, senza avere l’ansia di essere sentiti dai genitori; l’elaborazione, da parte dei figli, di tutta una serie di messaggi da trasmettere ai propri genitori.

            “Analogamente alla mediazione familiare, che si pone l’obiettivo di incoraggiare il dialogo e la cooperazione tra genitori in separazione, i Gruppi di parola intendono favorire e sostenere la comunicazione tra pari e tra figli e genitori. Genitori la cui comunicazione con i figli risulta troppo spesso compromessa dalle dinamiche conflittuali e dalla difficoltà ad ascoltare i loro problemi e trovare le parole adatte per non lasciarli in balia della loro immaginazione o trascinarli nella propria visione dei fatti. […] Il percorso di mediazione familiare con i genitori può precedere la loro decisione di iscrivere il figlio al Gruppo di parola o, viceversa, il Gruppo di parola può costituire un traino positivo ad un possibile confronto costruttivo tra i genitori al termine della partecipazione del figlio al Gruppo stesso. In analogia alla mediazione familiare anche il Gruppo di parola costituisce un intervento limitato nel tempo, extragiudiziale, riservato e confidenziale che ha l’obiettivo di mantenere e preservare i legami familiari. Quanto emerge nel gruppo è protetto dalla segretezza e non viene riferito né al giudice né all’eventuale inviante” (la mediatrice familiare Laura Gaiotti).

            Mutuando la terminologia della Carta dei diritti del fanciullo al gioco e al lavoro (Roma 1967), la mediazione familiare aiuta i genitori e tutta la società altamente conflittuale e poco solidale, soprattutto nei confronti dei più piccoli e deboli, a ricordare che “la personalità del fanciullo è sacra, per garantirne il libero, totale ed armonico sviluppo la società è tenuta ad offrire ad ogni fanciullo un ambiente familiare, scolastico e comunitario dotato di necessari mezzi e di personale appositamente preparato” (art. 1) e “che la famiglia si renda conto dell’autonomia del fanciullo e carattere decisivo che ha per il suo sviluppo e fin dai primi mesi di vita, il fatto di non essere subordinato alle esigenze di vita dei genitori” (art. 3).

            Con o senza i Gruppi di parola, la mediazione familiare serve a far uscire i genitori dal circolo vizioso di una conflittualità adultocentrata e a proiettarli verso una prospettiva puerocentrata, serve ad interrompere una conflittualità asfittica e egocentrata sul “con-tendersi” i figli e orientare a “pro-tendersi” per i figli in modo che non si verifichi alcuna triangolazione dei figli (che rischia di degenerare in PAS – sindrome da alienazione parentale -, o altro), ma che anche nella conflittualità la famiglia sia tale: l’uno al servizio dell’altro.

dr Margherita Marzario                  1 aprile 2015

testo con note              www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17999.asp

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NEGOZAZIONE ASSISTITA

Poteri di verifica dell’organo giurisdizionale

            Tribunale di Termini Imerese          24 marzo 2015-

In ordine ai poteri di verifica dell’organo giurisdizionale della corrispondenza delle condizioni pattuite tra i coniugi all’interesse dei figli, posto che il parere del pubblico ministero è obbligatorio ma non vincolante, deve ritenersi che il presidente del tribunale, rivalutate le condizioni, le ragioni a sostegno dell’accordo e la documentazione allegata, possa, in difformità al parere del pubblico ministero, ravvisare invece l’adeguatezza delle condizioni e sufficientemente salvaguardati gli interessi della prole.

            In ordine al provvedimento conclusivo, nel silenzio della norma, che non prevede un ulteriore provvedimento di omologazione del tribunale, come ha luogo nel procedimento di separazione consensuale, un’interpretazione sistematica del complesso della normativa induce a ritenere che il procedimento si debba concludere o con un provvedimento autorizzatorio o con il diniego dell’autorizzazione, senza che vi sia la possibilità di trasformazione di tale rito in quello proprio della separazione consensuale.

            Il provvedimento del Presidente del Tribunale Termini Imerese affronta, tra i primi, la dibattuta questione dei poteri del presidente del tribunale nel caso il cui, in sede di negoziazione assistita in materia di separazione tra i coniugi ex art. 6 D.L. 132/2014, il Procuratore della Repubblica neghi l’autorizzazione.

            Sulla questione si era già pronunciato il Presidente del Tribunale di Torino con ordinanza del 15 gennaio 2015, ritenendo – tra l’altro – che “laddove le parti meramente non intendano adeguarsi ai citati rilievi [del PM, ndr], il Presidente debba limitarsi ad un “non autorizza”.

 

Il Tribunale di Termini Imerese, invece, ha ritenuto che lo scarno dettato normativo, secondo cui “quando ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli, il procuratore della Repubblica lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo”, debba essere interpretato nel senso che laddove le parti meramente non intendano adeguarsi ai citati rilievi, il Presidente non possa limitarsi ad un “non autorizza”, ma – sentite le parti e quindi le ragioni dalle stesse addotte a sostegno dell’accordo – abbia il potere di autorizzare anche in difformità del parere, obbligatorio ma non vincolante, reso dal P.M.

            Ritenendo diversamente, il ruolo del presidente del tribunale (che secondo la dizione dell’art. 6 deve “provvedere senza ritardo”) rimarrebbe emarginato ad una mera presa d’atto della mancata autorizzazione da parte del pubblico ministero, svuotando di significato (e di utilità pratica) la trasmissione degli atti.

            Appare preferibile, quindi, l’interpretazione secondo cui, nell’ipotesi in cui il pubblico ministero neghi l’autorizzazione, questa possa comunque essere concessa dal presidente del tribunale, anche nel caso in cui i coniugi non modifichino l’accordo raggiunto.

avv. Fabio Valguarnera                    Il Caso.it n. 12364 – 02 aprile 2015

www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/fam.php?id_cont=12364.php

il testo integrale                      www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12364.pdf

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PARLAMENTO

Camera          Comm. Giustizia                   Divorzio breve

Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi. C. 831-892-1053-1288-1938-2200-B approvato dalla Camera e modificato dal Senato. – Relatori: D’Alessandro, FI-PdL e Morani, PD.

9 aprile 2015 Donatella Ferranti, presidente, avverte che sono stati presentati emendamenti al testo approvato dalla Camera e modificato dal Senato. Trattandosi di un esame in seconda lettura da parte della Camera, gli emendamenti possono riferirsi unicamente alle parti del testo modificate dal Senato rispetto al testo approvato dalla Camera ovvero a parti non modificate che comunque siano in stretta connessione con quelle modificate dal Senato. Inoltre avverte che il testo sarà trasmesso alla Commissione Affari Costituzionali per il parere.

                                                                                  Adozioni dei minori

Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare. C. 2957, approvata dal Senato. Relatore Verini, PD

            9 aprile 2015 Walter Verini (PD), relatore, osserva che la proposta di legge in esame, approvata in prima lettura dal Senato il 12 marzo 2015, intervenendo sulla legge 184 del 1983 ridefinisce il rapporto tra procedimento di adozione e istituto dell’affidamento familiare allo scopo di garantire il diritto alla continuità affettiva dei minori.

Il provvedimento, che si compone di quattro articoli, intende in particolare introdurre un favor per la considerazione positiva dei legami costruiti in ragione dell’affidamento, avendo cura di specificare che questi hanno rilievo solo ove il rapporto instauratosi abbia, di fatto, determinato una relazione profonda, proprio sul piano affettivo, tra minore e famiglia affidataria. (…). In relazione all’esigenza di valorizzare il rapporto di affidamento, garantendo una corsia preferenziale nell’adozione alle famiglie già affidatarie del minore, si segnala la sentenza 27 aprile 2010 della Seconda Sezione della Corte europea per i diritti dell’uomo (Affare Moretti e Benedetti c. Italia – causa n. 16318/07), che ha condannato l’Italia a risarcire una coppia di coniugi che, dopo essersi presi cura per 19 mesi di un minore attraverso l’istituto dell’affidamento, si era vista scavalcata da un’altra famiglia in sede di adozione.

Intervengono Michela Marzano (Pd),Rocco Buttiglione (Ap), Walter Verini (Pd), relatore, Alessia Morani (Pd) Alfonso Bonafede (M5s).

www.camera.it/leg17/824?tipo=C&anno=2015&mese=04&giorno=09&view=&commissione=02&pagina=data.20150409.com02.bollettino.sede00020.tit00020#data.20150409.com02.bollettino.sede00020.tit00020

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PATERNITÀ

Accertamento paternità, rifiuto di sottoporsi al test prova solo fondatezza domanda?

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 6025, 25 marzo 2015.

         Ai fini della libera valutazione del giudice, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche ha un valore indiziario tale da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda di accertamento della paternità? La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile un ricorso valutando principalmente il comportamento processuale tenuto dalle parti.

         La vicenda trae origine dalla proposizione della domanda di accertamento di paternità da parte di un soggetto nei confronti degli eredi legittimi del presunto padre, ormai deceduto. Il Giudice di primo grado con sentenza respingeva la domanda. Il provvedimento veniva quindi impugnato dalla parte soccombente e seguito dall’accoglimento del gravame dalla Corte di appello di Salerno con sentenza n. 77872012. Veniva dunque proposto ricorso, avverso il quale l’altra parte si difendeva con controricorso eccependo l’inammissibilità dello stesso in quanto infondato.

         Secondo la Suprema Corte per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, la prova della fondatezza della domanda può trarsi anche unicamente dal comportamento processuale delle parti, da valutarsi globalmente con tutti gli altri elementi probatori e/o indiziari del giudizio. La ricorrente contestava, inoltre, la rilevanza della deposizione della madre della controparte, sebbene ai sensi dell’art. 269 c.c., la prova della paternità può essere data con ogni mezzo e le dichiarazioni della madre assumono un rilievo probatorio integrativo ai fini della decisione, soprattutto se messo in relazione con la circostanza del suo matrimonio con il defunto, contemporaneo alla nascita della figlia. Ad ogni modo, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda di accertamento della paternità.

         Se per un verso, ex art. 269 cod. civ., infatti, non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, dall’altro il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra la madre e la persona di cui si assume la paternità. Con tali argomentazione la Suprema Corte dichiarava il ricorso inammissibile.

                                          studio Sergio Scicchitano                       4 aprile 2015

www.studioscicchitano.it/2015/04/accertamento-paternita-rifiuto-di-sottoporsi-al-test-prova-solo-fondatezza-domanda

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SINODO DEI VESCOVI

«Senza paura incontro alle famiglie più fragili»

«Questo è un tempo importante per l’approfondimento delle tematiche che sono emerse nel precedente Sinodo e sta avvenendo attraverso una partecipazione ampia, a tutti i livelli, nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle istituzioni, nelle accademie di tutto il mondo ».

A sei mesi dall’inizio del Sinodo ordinario sulla famiglia il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Consiglio della Segreteria del Sinodo dei vescovi, fa il punto sul percorso fin qui compiuto e quanto resta ancora da svolgere.

«Nessuno -afferma Baldisseri- ha messo, né metterà in discussione le verità fondamentali del sacramento del matrimonio » e incoraggiando tutti i fedeli a prendere parte alle riflessioni sulle tematiche che toccano la famiglia invita a guardare con serenità e fiducia i passi futuri.

Eminenza, mancano sei mesi al Sinodo ordinario sulla famiglia. A che punto sono i lavori di preparazione?

Siamo nella fase dello studio delle tematiche che emergono nel confronto con le indicazioni e le domande contenute nei Lineamenta, il testo della Relatio Synodi con l’aggiunta di alcune domande. Un lavoro che ora è nelle mani delle Conferenze episcopali, delle istituzioni accademiche, delle aggregazioni laicali e di altre istituzioni ecclesiali. Sono inoltre stati nominati anche 12 consultori teologi, canonisti e filosofi chiamati a collaborare con la Segreteria del Sinodo.

I contributi da parte delle Conferenze episcopali sono già arrivati?

Cominceranno ad arrivare dal 15 aprile. Nel frattempo le Conferenze episcopali stanno inviando i nominativi dei delegati eletti per la partecipazione al Sinodo ordinario di ottobre. Fino ad oggi abbiamo i delegati di 58 Conferenze episcopali.

Lei ha detto che questo momento è molto importante. Perché?

Perché questo periodo intersinodale è il tempo propizio per l’approfondimento delle tematiche che sono emerse nel precedente Sinodo. Approfondimento che avviene attraverso una partecipazione ampia, a tutti i livelli, nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle istituzioni, nelle accademie di tutto il mondo. È quindi un tempo molto importante per aiutare a maturare la riflessione nel prossimo Sinodo. Inviando il testo alle Conferenze episcopali e agli altri organismi, questa Segreteria generale si è raccomandata che i temi raccolti nei Lineamenta venissero trattati a 360 gradi e si è invitato anche a segnalare e ad aggiungere eventuali temi che non erano stati inclusi. Tutti i fedeli possono rispondere e inviare il proprio contributo di riflessione. Ne sono arrivati già parecchi, sia individuali che di gruppo.

Come si può inviare il proprio contributo e cosa consiglierebbe a un parroco per coinvolgere la sua comunità?

Ai parroci direi di confrontarsi insieme ai fedeli con il testo dei Lineamenta e rispondere insieme alle domande pertinenti alla condizione e alle urgenze sulla famiglia vissute in seno alla comunità parrocchiale. Chiunque poi, se vuole, può anche inviare le sue considerazioni direttamente all’indirizzo di posta o via e-mail della Segreteria del Sinodo.                                                           synodus@synod.va

Qual è per lei l’aspetto più significato in quello che si sta svolgendo?

Il lavoro fatto e quello che stiamo ancora facendo costituisce uno sprone per una più chiara consapevolezza della sinodalità come dimensione connaturale della Chiesa. È questa una modalità di lavoro e di prospettiva che fa riferimento al Concilio Vaticano II, specialmente alla Gaudium et spes. Una prospettiva alla quale anche papa Francesco ha invitato a leggere il cammino sinodale.

Il Papa segue da vicino i lavori di questa fase intersinodale?

Li segue direttamente. Forse è bene ricordare che il Sinodo dei vescovi è stato istituito da Paolo VI per mantenere viva l’esperienza collegiale del Concilio, e che il Consiglio della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, a differenza dei dicasteri romani, non è guidata da un Prefetto, ma ha solo un Segretario generale, perché a capo di quest’organismo c’ è il Papa stesso ed è lui in persona a presiedere le riunioni.

L’apertura di un Anno giubilare sulla misericordia quali riflessi può avere sul Sinodo?

Certamente è un gesto importante del Papa anche nell’orizzonte del Sinodo. Siamo tutti chiamati a interrogarci su questo. Dal Sinodo straordinario era già venuta l’indicazione a non separare dottrina e pastorale, ideale e modalità concrete di attuazione, verità e misericordia.

A giudicare da certi interventi sui media, nel confronto su alcuni punti delicati, si registra più confusione che chiarezza e c’ è chi teme anche un cambiamento della dottrina sul matrimonio.

Nessuno ha messo né metterà in discussione le verità fondamentali del sacramento del matrimonio: l’indissolubilità, l’unità, la fedeltà e l’apertura alla vita, come il Santo Padre ha ricordato varie volte. Riguardo a determinate istanze, come quella particolare dei divorziati risposati, i Padri sinodali hanno considerato l’eventualità di possibili approfondimenti o sviluppi di carattere dottrinale e disciplinare. Quando, infatti, si dice ‘sviluppo’, termine consolidato e ben noto in campo teologico e dottrinale, non si intende affatto cambiamento o evoluzione.

Il termine ‘sviluppo della dottrina’, nella tradizione teologica, significa approfondimento, migliore conoscenza. Risale ai primi secoli, in particolare a Vincenzo di Lérins (V secolo). Quindi, come ha detto anche il Papa, non ci devono essere reticenze, arrière pensée o paure nel continuare il lavoro di approfondimento.

Secondo lei, come è possibile portare avanti il lavoro di approfondimento senza mettere in discussione quello che la Chiesa ha sempre insegnato sulla famiglia?

Anzitutto lo spirito e la dinamica del Sinodo è quello di prendere parte a una riflessione collegiale, cum Petro et sub Petro, sulle diverse realtà che riguardano il vissuto degli uomini e delle donne nella famiglia, per poi analizzarle così come si presentano, verificare i passi da compiere attraverso l’umiltà dell’ascolto reciproco e alla luce del Vangelo e maturare poi, con vero discernimento, proposte e soluzioni. Pertanto si lavora in comunione sulle svariate tematiche prese in esame e le proposte. Il compito ultimo è sostenere e aiutare le persone a vivere il bene, a camminare sulla via del Vangelo. E proprio perché nella Chiesa ci sono le famiglie che vivono e testimoniano la bellezza cristiana del matrimonio, la Chiesa può senza paura guardare anche alle condizioni di fragilità e interessarsi di quelle in crisi. L’andare verso la comprensione delle diverse situazioni non significa mettere in discussione il Vangelo della famiglia, al contrario è fede nel Vangelo della famiglia.

Il vostro compito però alla fine è anche quello di prendere decisioni. Lei pensa che si arriverà a deliberare soluzioni condivise?

Il Sinodo non è deliberativo; solo il Papa o il Concilio in comunione con il Papa possono deliberare. Il compito del prossimo Sinodo è valutare con autentico discernimento le proposte che emergeranno per poi esprimere collegialmente delle indicazioni pastorali, delle proposte di soluzioni adeguate, nel rispetto della verità e nella carità, da consegnare al Papa. La varietà di accenti e di posizioni nell’Assemblea precedente si è fatta dibattito interno avendo davanti agli occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e soprattutto la suprema lex, la salus animarum. E questo ha già trovato una convergenza significativa su alcune istanze di fondo. Credo che dobbiamo guardare con serenità e fiducia i passi futuri.

Lei parla di fiducia, ma per alcuni il Sinodo sulla famiglia mette in pericolo l’unità della Chiesa. C’ è questo rischio?

La Chiesa è guidata dallo Spirito Santo. Ignorare che non siamo noi ma è lo Spirito Santo che conduce la Sua Chiesa è negare la storia stessa della Chiesa applicando criteri mondani di prospettiva. Papa Francesco è stato chiaro nel suo discorso conclusivo all’Assemblea dello scorso ottobre, quando ha detto che senza la libertà, l’ascolto e la parresia non ci sarebbe stato un Sinodo, ma solo il conformismo di una falsa pace quietista. Ha poi assicurato che tutto questo si svolge cum Petro et sub Petro. Il Papa è il garante. Il Sinodo non è un parlamento, non è un luogo di confronto per il potere o per raggiungere degli obiettivi mondani. È il luogo dell’ascolto, del discernimento e delle decisioni prese cum et sub Petro, con l’assistenza dello Spirito Santo.

Stefania Falasca         Avvenire         8 aprile 2015, pagina 14

www.forumfamiglie.org/allegati/rassegna_34410.pdf

Misericordia non sentimentalismo.

È vocazione dei teologi, in comunione con il magistero, acquisire «un’intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla tradizione viva della Chiesa» (Congregazione per la dottrina della fede, Donum veritatis, n. 6). Questa conferenza è un passo nella giusta direzione per fornire ai nostri fratelli la luce di quella verità che ci rende liberi e illumina la Chiesa perché predichi il Vangelo della gioia e della compassione.

Le vostre ricerche teologiche sono fondamentali per affrontare le sfide poste alla vita matrimoniale e alla famiglia, poiché ciò di cui la Chiesa avrà bisogno nel prossimo sinodo sarà fornire nuove risposte radicate nella Parola di Dio, fedeli alla tradizione della Chiesa e “creative”.

Serve a poco riunirsi per ripetere ciò che già si sa. Occorre una riflessione teologica profonda nella Chiesa, poiché questa, come afferma il concilio Vaticano II, favorisce la crescita della «comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse» (Dei Verbum, n. 8).

Tuttavia, al fine di poter dare “risposte concrete” dobbiamo essere in contatto con l’esperienza concreta delle nostre famiglie. Considero dunque lodevole il punto di partenza della conferenza: l’“esperienza concreta” delle sfide poste al matrimonio e alla famiglia nel nostro continente. Dobbiamo guardare in maniera attenta e compassionevole alle situazioni nelle quali si trovano oggi le famiglie. Permettetemi di citare quanto ho già detto nell’ultimo Sinodo: «La “creatività”, sia nel linguaggio sia nell’atteggiamento pastorale verso le persone che si trovano in situazioni pastorali difficili, richiede più di una mera modifica esterna. Anzi, esige la ricerca costante di nuove risposte, insieme a nuovi approcci pastorali che possono essere tratti dagli insegnamenti dei Padri della Chiesa. È auspicabile che tali situazioni vengano analizzate attentamente, con “erudizione teologica” e “mentalità pastorale”, per ottenere soluzioni pastorali adeguate, costruite su riflessioni dottrinali approfondite».

Alcuni temono che questa esperienza sinodale possa scuotere le solide fondamenta dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia.

Da parte mia, ritengo che ciò di cui dovremmo aver paura è la nostra resistenza allo Spirito Santo che guida la Chiesa: una paura che dovrebbe essere sentita da tutti coloro che amano Cristo e la sua Chiesa, quel timor Domini che costituisce l’initium sapientiae.

Tutti noi dovremmo, dinanzi a Dio, fare un esame di coscienza, per restare sempre radicati nel Signore e far sì che le nostre riflessioni e proposte siano guidate da un amore sincero e autentico per lui e la sua Chiesa.

Riflettendo sul momento attuale nella storia della Chiesa, ho l’impressione che questa esperienza sinodale non riguardi solo il matrimonio e la famiglia, ma anche la Chiesa stessa e il modo in cui dobbiamo vivere la nostra chiamata a essere fratelli e sorelle in Cristo.

Questa carità fraterna ci aiuterà a vivere secondo l’assioma paolino maior est charitas: l’amore prevalga su ogni cosa (cf. 1Cor 13,13). Non temo una Chiesa che, come famiglia, s’interroga su come predicare il Vangelo nel mondo attuale. Temo invece una Chiesa che non riesce a proseguire il suo cammino sotto la guida dello Spirito Santo per giungere a una comprensione della verità sempre più piena. Dobbiamo andare avanti con coraggio e creatività.

Così, dovremmo tutti invocare sulla nostra Chiesa lo Spirito di verità, che è anche lo Spirito di amore e di comunione.

Mi rattrista incontrare sacerdoti e laici che hanno un amore e una dedizione profondi per il Signore e per la sua Chiesa e che mi dicono di sentirsi confusi e disorientati dalla riflessione e dal dibattito teologico che si stanno svolgendo sulle sfide pastorali riguardanti la famiglia.

Ammetto che talvolta tale disorientamento è dovuto alla visione di una Chiesa divisa in due poli opposti: i conservatori e i progressisti, che si accusano reciprocamente di sbagliare e di essere ingannevoli nelle loro asserzioni. Ricordando le tentazioni indicate da papa Francesco nel suo discorso al termine del sinodo dello scorso ottobre, che preoccupano sia i cosiddetti conservatori, sia i cosiddetti progressisti, dovremmo evitare di “classificarci” gli uni gli altri con etichette che dividono.

Dobbiamo invece cercare tutti di essere veramente fedeli a Cristo nostro Signore e alla sua Chiesa mentre procediamo sul nostro cammino nel mondo. In altre parole, ciò che vorrei sottolineare è che scendere a compromesso con le tendenze attuali e populiste è una cosa e andrebbe evitato, mentre essere fedeli allo Spirito Santo è tutt’altra cosa; è una cosa non solo lodevole, ma anche necessaria per compiere la nostra missione di proclamare il Vangelo all’intera umanità.

Come afferma il Papa: «La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (Evangelii gaudium, n. 114). È una Chiesa misericordiosa quella che rende possibile a tutti di sperimentare l’amore redentore di nostro Signore Gesù Cristo.

Alcuni potrebbero considerare questa enfasi sulla misericordia come un segno che la Chiesa sta diventando “sentimentale”, rendendo sfocata la sua visione di ciò che è vero e buono. Tuttavia, una Chiesa misericordiosa è quella che trasmette la verità il cui cuore è ferito dall’amore per gli uomini.

La misericordia non rende la Chiesa vulnerabile, bensì credibile, poiché è questa Chiesa “ferita per amore” che dà una testimonianza autentica del “Cuore ferito del suo Maestro Gesù Cristo”.

Papa Francesco, di nuovo, dice chiaramente: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (Evangelii gaudium, n. 49).

La vera misericordia, ben lungi dall’essere “lassista”, è ciò di cui l’umanità, e in particolare le nostre famiglie, hanno sete per incontrare il loro unico Signore e Salvatore.

mons. Mario Grech, vescovo di Gozo e presidente della Conferenza episcopale maltese

                        Osservatore romano 10 aprile 2015

in occasione di un recente convegno dedicato alle prospettive culturali e alle sfide pastorali riguardanti il matrimonio e la famiglia nei paesi europei.

http://maltarightnow.com/news/2015/04/10/fl-osservatore-romano-l-isqof-tghawdex-mario-grech-jikteb-dwar-il-familja/

Risposte al questionario delle 46 domande di gruppi e di singoli.

            La parola torna al Popolo di Dio. Anche per la seconda Assemblea sinodale (4-25 ottobre 2015) il documento di lavoro (Instrumentum laboris) per i Padri sarà preparato sulla base di un Questionario che coinvolgerà le Chiese locali. Le Conferenze Episcopali, potranno “scegliere le modalità adeguate” per coinvolgere “le diverse componenti delle Chiese particolari e istituzioni accademiche, organizzazioni, aggregazioni laicali e altre istanze ecclesiali, allo scopo di promuovere un’ampia consultazione sulla famiglia secondo l’orientamento e lo spirito del processo sinodale”.

Il compito che ci attende è quello di “maturare con vero discernimento spirituale, le idee proposte e trovare soluzioni concrete a tante difficoltà e innumerevoli sfide che le famiglie devono affrontare” (Papa Francesco, Discorso conclusivo, 18 ottobre 2014); il Questionario ha il compito di “facilitare la recezione” della Relazione finale (Relatio Synodi) e “l’approfondimento dei temi in essa trattati”.

http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2014/12/09/0935/02013.html

www.viandanti.org/?page_id=9996

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VIOLENZA

La violenza assistita sui minori

La violenza assistita sui minori è una forma di violenza domestica che si realizza nel caso in cui il minore è obbligato, suo malgrado, ad assistere a ripetute scene di violenza sia fisica che verbale tra i genitori o, comunque, tra soggetti a lui legati affettivamente, che siano adulti o minori.

La violenza assistita, è una vera e propria forma di maltrattamento psicologico, che il più delle volte è sottovalutato o addirittura ignorato, che riverbera i suoi effetti sul minore a livello emotivo, cognitivo, fisico e relazionale.

Il minore potrà subire un’esperienza diretta della detta violenza, quando viene obbligato a vedere tali soprusi, o semplicemente quando non viene tutelato adeguatamente e ne rimane irresponsabilmente spettatore. La violenza assistita, può essere anche indiretta, ovvero, quando il minore ne è messo inconsciamente (o, in alcuni casi, volontariamente) al corrente facendogli, in tal modo, subire gli effetti negativi delle violenze quotidiane che si perpetrano in famiglia. I minori essendo incapaci di intervenire per arginare il disagio a cui sono costretti ad assistere e di cui sono vittime, seppur già confusi ed impauriti, vengono portati a sentirsi anche in colpa, dato anche il loro senso di impotenza, per la situazione di cui sono spettatori o che percepiscono. E’ facile intuire che se tale esposizione è continua, lo sviluppo del minore è seriamente compromesso e può minare la crescita dell’individuo fino a fargli assumere, anche nell’età adulta, la violenza e la prevaricazione come abito mentale e strumento relazionale.

Quando la violenza assistita è vissuta dai minori in un contesto familiare dove vi è un adulto violento (di solito il padre), questi cercano di evitare qualsiasi contatto con il soggetto agente, rapportandosi con lui solo in casi estremi e con molta circospezione e paura. Si cerca in tal modo di evitare qualsiasi situazione che possa sfociare in una lite, appunto perché si percepisce la propria impotenza e fragilità.

Può succedere, anche, che nel minore scatti il c.d. “meccanismo di identificazione” con il soggetto violento, in modo tale che si riesce a dare dignità al genitore violento, “dipingendolo” come buono. Con tale meccanismo il minore trasferisce le colpe dell’adulto violento su se stesso, in modo tale da poter vivere il proprio padre o la propria madre come “bravi genitori”. Tutto ciò nell’estremo tentativo di difendersi dalla situazione drammatica che sta vivendo e a cui non riesce a dare né una spiegazione, né a trovare una soluzione, scindendo, in estrema sintesi, il mondo reale da quello da lui introiettato, al fine di “sopravvivere” al trauma subito.

Si può anche assistere alla messa in atto di strane “alleanze” tra i soggetti coinvolti. Per le madri, di solito, è la relazione di coppia che vivono che le porta a cercare amore e valorizzazione fuori dalla stessa, ovvero nei figli, che utilizzano quali strumenti e perni per trovare il coraggio di allontanarsi dal compagno violento. Il padre violento, invece, potrebbe ricercare tale alleanza, al fine di “redimersi”, di “scusarsi”, ad esempio, usando violenza contro la mamma stessa e giustificando tali soprusi denigrando e diffamandone la figura: “Tua madre non è una brava donna…pensa solo a lei…mi tradisce…non ti vuole bene….ci vuole abbandonare… si comporta male…etc. etc.”. Spesse volte, tale circolo di violenze e l’ assuefazione a tali “giustificazioni” portano la madre a trascurare i figli, poiché troppo forte il suo senso di colpa e la paura, che non le permette di affrontare la situazione in modo diverso, pertanto attua dei meccanismi di raggiro nei confronti dei figli che arrivano fino alla completa chiusura nei loro riguardi. In tal modo, venendo a rafforzare la posizione del padre-violento ed abusante e, quindi, una situazione di stallo e di dipendenza emotiva e psicologica molto pericolosa.

Altre volte, i minori, capovolgendo lo schema naturale del rapporto genitori-figli, tendono ad assumere un ruolo protettivo nei confronti della madre, con tutte le inevitabili conseguenze, non solo di ordine psicologico ed emotivo, ma spesso anche di tipo fisico, poiché si espongono direttamente agli episodi di violenza intrafamiliare.

Può anche accadere che i genitori, per schermarsi dalle loro “debolezze”, inducano i figli a sentirsi responsabili dei loro litigi, esponendoli a sensi di colpa progressivi, oppure li riempiano di regali che, ovviamente, sono solamente l’ennesimo palliativo al forte disagio che vive tutta la famiglia: dei minori che hanno solo dei temporanei, insufficienti e devianti sostitutivi alle attenzioni e all’amore realmente dovuti e desiderati, e, per i genitori rappresentano solamente un gesto meramente compensatorio attuato con la precisa finalità di nascondere l’evidenza della loro incapacità genitoriale e i loro problemi familiari.

I vari meccanismi di cui il minore è soggetto agente o passivo, però, non annullano la realtà e l’esperienza di violenza che ha subito (direttamente o indirettamente). E’ bene ribadire che né l’età né il grado di sviluppo del bambino impediscono la percezione della violenza e le sue consequenziali ferite psicologiche. Siamo di fronte ad un vero e proprio abuso primario.

Pur tuttavia, tali situazioni, non trovano corrispondenza in alcuna fattispecie specifica di reato, nella quale il minore sia persona offesa per i reati che si compiono in sua presenza verso altri componenti del nucleo familiare, pertanto, saranno i comportamenti nei quali si concretizza la violenza assistita ad essere ricondotti alle varie fattispecie di reato esistenti. Ad esempio, le condotte incriminate potranno essere ben ricomprese nel reato di maltrattamenti in famiglia ex art.572 c.p. Conseguentemente, dal punto di vista sanzionatorio, ex art. 282 bis c.p.p., il giudice potrebbe prescrivere a colui che si sia reso artefice di tali comportamenti, di lasciare immediatamente la casa familiare ovvero di non farvi rientro e di non accedervi senza previa l’autorizzazione; così come prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti. In ambito civile, invece, si può far riferimento agli articoli 342 bis e 342 ter c.c., i quali dispongono che, quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, possa ordinare al coniuge o al convivente la cessazione della condotta pregiudizievole disponendone, financo, l’allontanamento dalla casa familiare, e ove ritenuto necessario, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati da coloro che hanno subito tali vessazioni. In alcuni casi, il giudice può disporre, anche l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, così come l’intervento delle associazioni che sostengono e accolgono donne e minori o altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti.

Ad ogni buon conto, in sintesi, bisogna evidenziare che sempre più spesso, nelle aule di Tribunale, tali forme di violenza, seppur non normate nella loro specificità, assumono rilevanza pregnante e vengono trattate al pari di veri e propri abusi sui minori. Giova a tal proposito evidenziare, come esempio di tale propensione, la sentenza della Corte di Cassazione del 29 gennaio 2015 n. 4332 che richiama l’orientamento per il quale integrano il delitto di cui all’art. 572 c.p. non solo fatti commissivi lesivi della personalità della persona offesa, ma anche di tutte quelle condotte omissive connotate da una deliberata e volontaria indifferenza e trascuratezza verso i primari e basilari bisogni affettivi ed esistenziali della prole da tutelare. Da ciò discende che, nel delitto di maltrattamenti può ben essere compresa e considerata la posizione passiva dei figli minori che siano “sistematici spettatori obbligati” delle manifestazioni di violenza, anche psicologica, di un coniuge nei confronti dell’altro coniuge. Le ripercussioni sui minori devono essere il frutto “di una deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza verso gli elementari ed insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi, nonché realizzati in violazione dell’art. 147 c.c., in punto di educazione e istruzione al rispetto delle regole minimali del vivere civile, cui non si sottrae la comunità familiare regolata dall’art. 30 della Carta costituzionale” (cfr. C.C. 29 gennaio 2015 n. 4332).

            Sebastiani Simona      diritto.it          3 aprile 2015

www.diritto.it/docs/36974-la-violenza-assistita-sui-minori?

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