NewsUcipem n. 538 –22 marzo 2015

NewsUcipem n. 538 –22 marzo 2015

Unione Consultori Italiani Prematrimoniali E Matrimoniali

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“notiziario Ucipem” unica rivista ufficiale – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984

direttore responsabile Maria Chiara Duranti.

Supplemento on line – direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le “news” gratuite si propongono di riprendere dai media e inviare informazioni, di recente acquisizione, che siano d’interesse per gli operatori dei consultori familiari e quanti seguono nella società civile e nelle comunità ecclesiali le problematiche familiari e consultoriali.

            Le news sono così strutturate:

  • notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali ed altri operatori, responsabili dell’A o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.
  • link a siti internet per documentazione.
  • Le notizie, anche con il contenuto non condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica.
  • La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.                                                                                      intelligenti pauca

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            Il contenuto di questo new è liberamente riproducibile citando la fonte.

Per i numeri precedenti richiedere a:

dal n. 1 (10 gennaio 2004) al n. 526                                                            newsucipem@gmail.com

dal n. 527 al n. 537 cliccare

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ADOZIONE                                      Adottabilità di minore.

AFFIDO                                             Per promuovere la cultura dell’affido.

ANONIMATO                                  Anonimato e diritto a sapere anche l’eterologa impone regole.

ASSEGNO DI MANTENIMENTO  No se lei aveva intrapreso una relazione sentimentale stabile.

Anche il detenuto risponde per violazione degli obblighi.

CHIESA CATTOLICA                    La parabola dei due fratelli divorziati.

Quando un vescovo vuole “celebrare” con i divorziati-risposati.

CHIESE RIFORMATE                    Il matrimonio nel protestantesimo, un approccio teologico

CONSULTORI familiari UCIPEM  Parma-consultorio famiglia più- “tutto troppo presto”.

DALLA NAVATA                            5° domenica di Quaresima – anno B –22 marzo 2015

FECONDAZIONE ARTIFICIALE  «Selezionare i figli non garantisce che saranno sani».

FORUM Associazioni Familiari       La fretta è cattiva consigliera nella vita ed in parlamento.

                                                           Quando Il Palazzo non ascolta il Paese.

FRANCESCO VESCOVO di Roma I bambini rendono vivo e limpido il Mondo

GAZZETTA UFFICIALE                Riconoscimento dei figli naturali.

MATRIMONIO                                E’ il tempo di reclamare un «matrimonio a tutele crescenti».

OMOFILIA                                       Persone omosessuali e morale cristiana.

Le coppie dello stesso sesso verso la benedizione?

PARLAMENTO        Senato.            Assemblea. Divorzio breve

C. Giustizia    Disciplina delle unioni civili

POLITICHE SOCIALI                    Sostegno alle donne lavoratrici che desiderano avere figli.

SEPARAZIONE                                Non autorizzato l’accordo di negoziazione assistita.

Conto cointestato fra coniugi: quali regole nella separazione?

SINODO DEI VESCOVI                  Mistero delle nozze cristiane: approfondimento biblico-teologico.

Superiori ordini religiosi tedeschi verso i divorziati risposati.

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ADOZIONE

Adottabilità di minore.

Corte di Cassazione, prima Sezione civile, sentenza n. 2676, 11 febbraio 2015

Il minore ha diritto di crescere in un ambiente sano ed equilibrato, quindi tutte le volte in cui si trovi in uno stato di abbandono deve essere disposta la declaratoria di adottabilità.

Va da se che deve considerarsi in evidente stato di abbandono il minore che abbia entrambi i genitori con problemi psichiatrici; la patologia dei genitori non può essere superata in alcun modo ed è talmente grave da non poter consentire una vita normale al minore, quindi, l’unica strada percorribile e’ quella dell’adozione.

briciole di diritto        newsletter giuridica studio cataldi.it 16 marzo 2015

www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17795.asp

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AFFIDO

Per promuovere la cultura dell’affido.

Intervista alla pedagogista Maria Galeazzi, in vista dell’evento dell’associazione Amici dei Bambini in programma a Milano, dal titolo “Dammi la tua parola… per l’accoglienza”.

            Nel nostro paese la cultura dell’accoglienza vive un momento di torpore e di difficoltà. Sono necessarie tante iniziative per risvegliare la consapevolezza e la necessità all’attenzione amorevole verso il prossimo, soprattutto se si parla di bambini o adolescenti che vivono gravi disagi familiari. (…)

Quali sono le motivazioni che conducono i giudici dei tribunali dei minori a favorire le comunità residenziali piuttosto che le famiglie affidatarie?

            È difficile dire quali siano le motivazioni, perché ci sono orientamenti diversi tra i magistrati. Talvolta motivano il decreto di collocamento in comunità perché il passaggio diretto da famiglia a famiglia viene giudicato rischioso, soprattutto per quelle situazioni molto compromesse.

            Quale è il profilo della famiglia affidataria che è predisposta ad un’accoglienza temporanea?

            Il profilo è vario; ci sono coppie con figli, piccoli o grandi, senza figli e anche alcuni single, per lo più donne.

            Come vengono preparate le famiglie affidatarie? Sono sostenute da esperti del settore e da altre famiglie affidatarie?

            Amici dei Bambini crede fortemente nell’accompagnamento delle famiglie, organizza momenti informativi e formativi sull’accoglienza familiare temporanea, volti a fornire quanti più elementi possibili per creare consapevolezza sulla propria disponibilità. È necessario che la famiglia sia formata e consapevole dell’impegno che le verrà richiesto, sia da un punto di vista organizzativo che emotivo. La nostra formazione è svolta sia da operatori, psicologo, assistente sociale, pedagogista sia da famiglie, che portano la propria esperienza e offrono quella vicinanza che è tanto preziosa a chi vive questo tipo di esperienza.

            Come fare ad invogliare le famiglie ad aprirsi alla nobile accoglienza dell’affido? Come lo stato potrebbe facilitare la scelta dell’affido familiare?

            La famiglia è già di per sé portata all’accoglienza, ma spesso parlare di affido spaventa. Occorrerebbe ricreare una cultura di solidarietà e sostenere maggiormente le reti di famiglie che già lo fanno, perché, come dire, la miglior pubblicità all’affido “è un affido fatto bene”.

Qual è il tempo di permanenza medio di una minore all’interno di una famiglia affidataria? E passato questo tempo, il minore ritorna nella famiglia di origine o viene accolto da un’altra famiglia affidataria o una comunità residenziale?

            L’ultimo quaderno di ricerca sui minori fuori famiglia edito dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali dice che i bambini in affido oltre i due anni sono il 60%. Per quanto concerne la durata dell’accoglienza e ricordando che la legge 149/2001 individua il periodo massimo di affidamento in ventiquattro mesi – prorogabile da parte del Tribunale dei Minorenni laddove se ne riscontri l’esigenza –, i bambini e gli adolescenti in affidamento familiare da oltre due anni costituiscono la maggioranza degli accolti risultando pari a poco meno del 60% del totale – erano il 62,2% nel 1999, il 57,5% nel 2007, il 56% nel 2008 e il 60% nel 2011.

            Qual è la differenza tra casa famiglia e famiglia affidataria?

            La casa famiglia di AiBI è una famiglia affidataria un po’ più strutturata. Sono due coniugi che scelgono di vivere in una struttura che possa accogliere fino ad un massimo di 6 minori. Ricevono supporto da personale tecnico specializzato, educatori e psicologi, ma la coppia accogliente resta sempre la figura di riferimento per i bambini accolti. Rispetto alla famiglia affidataria la casa famiglia, connotandosi come un servizio strutturato, può rispondere ad alcune esigenze con carattere di urgenza quali, ad esempio, la pronta accoglienza.

            Sulla base della vostra esperienza, quali relazioni rimangono tra le famiglie affidatarie ed i ragazzi che ritornano nella famiglia di origine?

            Dipende dalle situazioni, alcune molto belle; i legami costruiti durante l’affido sono molto significativi e perdurano nel tempo. Ad esempio, alcuni chiedono alle famiglie diversi consigli su alcune scelte specifiche lavorative o di studio.

            Osvaldo Rinaldi                     zenit  17 marzo 2015    

http://www.zenit.org/it/articles/per-promuovere-la-cultura-dell-affido

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ANONIMATO

                                   Anonimato e diritto a sapere anche l’eterologa impone regole.

Conoscere le proprie origini è un passaggio fondamentale nella formazione della propria identità. Per questo, da tempo, la legge italiana sull’adozione richiede che i genitori adottivi non le nascondano ai figli adottati. Ma, ovviamente, il diritto a conoscere le proprie origini non può fermarsi qui. Riguarda anche la conoscenza della propria identità biologica, quindi dei dati sulla salute, le caratteristiche genetiche di chi ci ha generato fisicamente. Giustamente, un emendamento della legge in discussione presso la Commissione Giustizia della Camera sull’accesso all’identità della donna che non riconosce il proprio nato si stipula che tali informazioni vadano raccolte e trasmesse al Tribunale dei minori in modo che siano messe a disposizione sia del nato che dei suoi genitori adottivi.

            Ma il diritto a conoscere le proprie origini riguarda anche il conoscere la persona che ci ha messo al mondo. Il diritto a chiedere (al Tribunale dei minori) chi sia la donna che ha partorito è riconosciuto in tutte le legislazioni occidentali e anche in quella italiana, una volta che si siano compiuti i 18 anni (salvo casi particolari in cui il Tribunale consideri l’informazione dannosa per il richiedente), se la donna lo consente.

Finora non è tuttavia permesso nel caso in cui la donna abbia partorito — in ospedale — sotto anonimato, come afferma una civile legge a protezione sia delle donne sia dei nascituri. Raccomandazioni dell’Onu e una sentenza della Corte Europea del 2012 hanno messo sotto accusa questa eccezione, costringendo a valutare ex novo l’equilibrio tra il diritto della donna all’anonimato e alla privacy, lungo tutta la sua vita, e il diritto di chi ha messo al mondo, appunto, a conoscere le proprie origini. Di questo si occupa appunto la legge in discussione alla Commissione Giustizia. Si tratta di una questione chiaramente molto delicata. Alla forza e legittimità della domanda “da dove vengo” e “perché non sono stato accettato come figlio/a” si contrappone la necessità di non provocare sconquassi in vite che sono andate avanti, in famiglie e relazioni che nulla sanno di quell’evento lontano di cui sono state protagoniste donne abbastanza generose da partorire in tutta sicurezza per il bambino, oltre che per sé, ma non in grado di fare da madri. Il diritto a sapere non può essere esercitato contro il diritto a non farsi conoscere. La proposta di legge in discussione prevede che, diventati adulti, coloro che sono nati in questo modo possano rivolgersi al Tribunale dei minori, “anche avvalendosi del personale dei servizi sociali, che contatta la madre senza formalità” per chiederle se è disposta a sciogliere l’anonimato.

            L’assenza di formalità dovrebbe proteggere la donna dal ricevere una convocazione che farebbe fatica a spiegare ai propri famigliari. Sembra tuttavia una protezione molto fragile, esposta ad ogni sorta di falla. In Francia, dove esiste una legge sul diritto al parto anonimo simile a quella italiana, hanno istituito un’agenzia apposita, con professionalità specifiche, che si occupa di raccogliere sia la disponibilità delle donne ad essere eventualmente contattate, sia le richieste degli adulti alla ricerca delle proprie origini. La messa in contatto avviene solo se incontra la pregressa dichiarazione di disponibilità della donna. Questa è una soluzione sicuramente consigliabile per il futuro. Rimane il pregresso, che richiede prudenza maggiore, perché riguarda scelte effettuate in condizioni normative diverse che non possono essere semplicemente ignorate. Una buona campagna di informazione sulla possibilità di sciogliere l’anonimato in modo riservato potrebbe essere utile.

            Un’ultima osservazione: le tecniche di riproduzione assistita con donatore o donatrice aprono ancora un altro scenario per il diritto a conoscere le proprie origini. Sarà bene pensarci da subito. Altrimenti, come già avviene in alcuni Paesi, uomini donatori di sperma e donne donatrici di ovuli si troveranno ricercati, senza averlo messo in conto, da persone nate con il loro contributo.

Chiara Saraceno        la Repubblica 19 marzo 2015

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/03/19/anonimato-e-diritto-a-sapere-anche-leterologa-impone-regole36.html?ref=search

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ASSEGNO DI MANTENIMENTO

No se si scopre che lei aveva intrapreso una relazione sentimentale stabile.

Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: niente assegno di mantenimento se si scopre che lei aveva intrapreso una relazione sentimentale stabile. In questa vicenda giudiziaria a presentare il ricorso per separazione è stata la moglie la quale ritenendo che il fallimento del matrimonio fosse stato determinato dalle continue infedeltà dell’uomo ne chiedeva l’addebito; il marito si costituiva in giudizio e spiegando domanda riconvenzionale chiedeva a sua volta che venisse pronunciato l’addebito della separazione a carico della moglie perché la stessa da tempo aveva una relazione sentimentale con un altro uomo.

In sede di udienza presidenziale veniva disposto il mantenimento in favore della moglie.

Una sentenza penale emessa pochi mesi prima che la causa di separazione fosse presa a sentenza ha determinato le sorti del giudizio. Il marito, infatti, era stato assolto dalle accuse di violazione degli obblighi di assistenza familiare mentre nel corso del giudizio era emerso che la moglie aveva avuto una relazione stabile con un altro uomo con tutte le conseguenze in relazione all’addebito e alla perdita dell’assegno di mantenimento.

fonte:   www.avvocatosalvatorepiccolo.it/Il-coniuge-separato-che-intraprende-una-nuova-relazione-sentimentale-perde-il-diritto-all-assegno.htm

Anche il detenuto risponde per violazione degli obblighi di assistenza familiare.

Corte di Cassazione – sesta Sezione penale, sentenza n. 4960, 3 febbraio 2015

Il padre detenuto non può giustificare la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento facendo leva sul proprio stato detentivo e quindi su l’impossibilità oggettiva di poter adempiere le obbligazioni del mantenimento.

Seconda la Cassazione lo stato detentivo rappresenta una colpevole impossibilità ad adempiere dunque non può essere una causa di giustificazione; di conseguenza anche il detenuto se non versa il mantenimento a moglie e figli risponderà del reato di cui all’art. 570 c.p.(violazione degli obblighi di assistenza familiare”).

briciole di diritto        newsletter giuridica studio cataldi.it 16 marzo 2015

www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17795.asp

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CHIESA CATTOLICA

La parabola dei due fratelli divorziati.

Un uomo aveva due figli. Il maggiore si sposò, e rimase con la moglie presso il padre. Anche il secondo, poi, si sposò e andò a stare lontano con la sua sposa. Dopo qualche tempo il primo figlio fu abbandonato dalla moglie e restò solo. Ma rimase presso il padre, permanendo fedele alla moglie e mantenendo la parola data, ad ogni costo. Anche il secondo figlio, qualche tempo dopo, entrò in crisi e fu abbandonato dalla moglie. Dopo lungo travaglio, conobbe un’altra donna, si legò a lei e infine la sposò. Quando tornò dal padre, temendo di essere da lui giudicato indegno, lo trovò ad accoglierlo a braccia aperte.

Da ciò rimase stupito e si lasciò accompagnare in casa, a far festa per la nuova sposa, con gli auguri di prosperità. Il fratello maggiore, tuttavia, prese il padre da parte, dicendogli: “anche io sono stato abbandonato e sono rimasto solo, ma tu per me, che resto fedele, non fai nessuna festa. Invece ti rallegri e canti per questo mio fratello, che si è risposato, tradendo la sua parola”.

Il padre prese il figlio per il braccio e gli disse: “Figlio mio, io ammiro molto la tua scelta, che è frutto di sapienza e di rispetto. Ma non posso biasimare tuo fratello: non è bene, infatti, che l’uomo stia solo. Per lui vale una scelta diversa dalla tua. Lui non deve protestare per la tua scelta. Ma tu non protestare per la sua. La comunione è anche questo: una diversa via verso il bene”.

Di fronte ad una simile parabola, che cosa può dire una teologia capace di vera fedeltà creativa? Possiamo davvero comprendere una “maggiore misericordia” del Padre, oppure siamo vincolati a ciò che la disciplina ha finora elaborato, senza lasciare scampo al “fratello minore”? Potremmo continuare a vivere una Chiesa così condizionata dalle riserve di troppi “fratelli maggiori”?

Una risposta incoraggiante ci viene da una profonda concezione del ruolo della teologia. Essa non deve prestare il fianco al “ricatto” dei fratelli maggiori. Per il prossimo Sinodo avremmo bisogno di una teologia con caratteristiche diverse, che in alcune parole di papa Francesco troviamo delineate con coraggio e con passione:

a) Superare una visione monolitica della dottrina. Nella famosa intervista per “Civiltà Cattolica”, papa Francesco ha detto: “San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio […] La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata»”.

Maturare il proprio giudizio, alla luce della Parola di Dio e della storia non è un’eventualità accessoria, ma una necessità per una teologia realmente aperta alla vita e alla testimonianza. Il dibattito sinodale ha urgenza di una tale teologia “non monolitica” e “non retrograda”.

b) Restare teologi “di frontiera” e non “al balcone”. Nel suo messaggio di augurio alla Facoltà Teologica dell’Università Cattolica Argentina, papa Francesco ha scritto: “Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, una frontiera nella quale il Vangelo incontra le necessità delle persone alle quali si annuncia, in maniera comprensibile e significativa. Dobbiamo guardarci da una teologia che si limita alla disputa accademica o che contempla l’umanità da un castello di cristallo. Si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inseparabile. Di conseguenza, la teologia che si sviluppa deve esser basata sulla Rivelazione, sulla Tradizione, ma al contempo deve accompagnare i processi culturali e sociali, specialmente le transizioni difficili”.

Così mi piace pensare che si debba servire la tradizione, con pazienza e con audacia. Di questo approccio ha bisogno oggi una teologia del matrimonio che si occupi di comporre il dissidio tra famiglie felici e famiglie infelici, senza finzioni troppo umane e senza idealizzazioni con esiti disumani.

c) Lo sguardo su Cristo e le possibilità impensate. Alla rappresentazione del rapporto con Cristo come “obbedienza ad un comando” Francesco sembra preferire l’immagine dello “sguardo rivolto a Cristo”. Tenere lo sguardo su di lui è una forma di obbedienza che si apre alla novità: “ Al fine di «verificare il nostro passo sul terreno delle sfide contemporanee, la condizione decisiva è mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, sostare nella contemplazione e nell’adorazione del suo volto […]. Infatti, ogni volta che torniamo alla fonte dell’esperienza cristiana si aprono strade nuove e possibilità impensate» (Lineamenta, 12).

Nel percorso che conduce la Chiesa verso il Sinodo del prossimo ottobre, queste tre evidenze dovranno essere onorate in pienezza e non senza un “lavoro” specifico dei teologi: un’autentica capacità di salvaguardare la tradizione nel pieno di una dinamica della storia, con le sue nuove possibilità e le sue vecchie difficoltà, senza indulgere agli irrigidimenti e ai dottrinalismi monolitici; un esercizio del pensiero sciolto e fedele, che sappia considerare con affetto paterno, materno e fraterno le complesse vicende del popolo di Dio, senza bloccarsi in soluzioni apparenti, dove manca il respiro e l’aria è viziata; una disponibilità a “seguire Gesù” che sperimenti, con forza e con sorpresa, l’imprevedibilità della grazia e la limitatezza degli assoluti dell’uomo.

Alla domanda: come giustificare la misericordia del Padre, dovremo rispondere che è la misericordia del Padre a giustificare. Rivelandosi nel Figlio e nel dono dello Spirito tale misericordia non si è “congelata”, non si è “irrigidita”, non si è “bloccata”, ma chiede di essere scoperta non solo “a casa”, ma “per strada”, non solo “al centro”, ma “in periferia”. Per questo non bisogna rassegnarsi ad una versione “tiepida” della teologia. Per concludere con Francesco: “Non vi accontentate di una teologia di ufficio. Il luogo delle vostre riflessioni siano le frontiere. E non cadete nella tentazione di dipingerle, profumarle, accomodarle un po’ e addomesticarle. Pure i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini”.

Andrea Grillo in “Settimana” n. 12, pag. 11           22 marzo 2015                      www.ilregno-blog.blogspot.it

Quando un vescovo vuole “celebrare” con i divorziati-risposati.

In tutte le diocesi di Francia, si sta discutendo in vista del secondo sinodo romano sulla famiglia. E il dibattito infuria tra coloro che chiedono un cambiamento di pratica pastorale per i divorziati risposati che vogliono ricevere i sacramenti e i sostenitori del mantenimento del divieto attuale.

In Germania, i vescovi hanno decisamente annunciato che, indipendentemente dai risultati degli incontri dei vescovi in ottobre e dalle conclusioni che saranno tratte dal papa in seguito, pubblicheranno il loro documento. In Francia, non si trovano ancora vescovi così ribelli. Ma certi prelati fanno passare dei messaggi.

È il caso di Mons. Dominique Lebrun, vescovo di Saint-Étienne, che non ha mai nascosto il suo stile originale. E non solo andando in giro a piedi nudi nei suoi sandali, che piova, nevichi o faccia vento (e può anche nevicare spesso nella sua regione di adozione). Nel passato gli è capitato di organizzare degli incontri diocesani senza concluderli con un’eucaristia. O di cercare nuovi modi di organizzazione pastorale, diversi dalla suddivisione parrocchiale territoriale.

Il 20 marzo 2015 il vescovo invita “le persone divorziate che vivono una nuova unione” ad una serata. L’obiettivo sarà quello di “preparare il cuore per la bella celebrazione attorno al Vangelo di Gesù”, prevista per sabato 4 luglio. Il contenuto della lettera di invito è abbastanza illuminante sullo stato d’animo di Mons. Lebrun. A quelle e a quelli che hanno conosciuto “la gioia del matrimonio poi il dramma della separazione”, la Chiesa di Saint-Étienne –il vescovo cita i preti, i diaconi e i laici a servizio delle parrocchie-, cerca “nella maniera meno maldestra possibile”, di “manifestare la sua amicizia”. Una posizione di modestia e di imperfezione che piacerà a quelle e quelli che fustigano spesso la Chiesa cattolica per la sua mancanza di umanità.

“La Chiesa vi sembra spesso severa, troppo severa. Molti sono nella vostra situazione e sono lontani da ogni pratica religiosa”, scrive il vescovo che descrive poi gli atteggiamenti possibili dei fedeli a cui si rivolge: la richiesta di una celebrazione per una nuova unione, il riconoscimento della realtà vissuta, o la fedeltà ai coniugi, benché separati. La sua sollecitudine pastorale va a “quelli e quelle che vivono una nuova unione”. Dice loro: “Voi non siete rifiutati. Può essere difficile da credere sapendo che non avete accesso ad altri sacramenti, oltre al vostro battesimo e alla vostra cresima”.

Per questo, Mons. Lebrun e i suoi collaboratori hanno immaginato per luglio una “bella celebrazione” di cui traccia i contorni. Si terrà sul Vangelo di Gesù, spesso più tenero del Magistero della Chiesa. “Renderemo grazie a Dio per tutto quello che è bello nella vostra vita attuale, anche all’interno della vostra nuova unione. Accoglieremo la benedizione del Signore. Confidando nella misericordia di Dio, potremo anche chiedere perdono per ciò che oscura il nostro cammino di vita, di fede e d’amore”.

Un rito che si avvicina al percorso penitenziale vissuto da certe Chiese ortodosse come preludio ad un riconoscimento religioso di una seconda unione. Si sa che questa ipotesi di evoluzione sostenuta da un’ala del Collegio dei cardinali, come il tedesco Karl Lehmann, gode della benevolenza del papa. Senza essere l’unica. Pur senza arrivare ad ottenere ciò che sognano, i divorziati-risposati cattolici della Loira si vedono proporre un’occasione di riconoscimento. Oggi possono sentirsi pienamente nella comunità e nel cuore della Chiesa. Speriamo che, grazie alle riflessioni in preparazione al Sinodo romano, altre diocesi osino gesti di questo tipo.

Philippe Clanché        “cathoreve.over-blog.com”, 18 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150318clanche.pdf

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CHIESE RIFORMATE

Il matrimonio nel protestantesimo, un approccio teologico

Nel protestantesimo, il matrimonio non è considerato un sacramento. Perché? Nelle sue opere latine, Lutero scrive: “Le Sacre Scritture conoscono un solo sacramento, è il Cristo, il Signore stesso”. Nel 1520, in “La cattività babilonese della Chiesa” parla ancora di questo “solo sacramento (cioè Cristo) e tre segni sacramentali”. Il segno sacramentale ha bisogno di una parola di promessa legata – per istituzione di Cristo – con un segno. In questo senso, si può ritenere che lo siano solo il battesimo e la cena.

Prevale la comprensione cristocentrica del sacramento. Solo Cristo è lo “strumento della salvezza”. Lutero precisa, per quanto riguarda la comprensione del matrimonio come sacramento: “Poiché il matrimonio esisteva fin dall’inizio del mondo, e continua ad esistere anche tra i non-credenti fino ad oggi, non c’è motivo di pensare che il matrimonio possa essere chiamato sacramento della nuova alleanza e della Chiesa sola. Perché i matrimoni dei nostri padri non erano meno santi dei nostri, e i matrimoni dei non-credenti non sono meno veri di quelli dei credenti – eppure, loro [la Chiesa romana] non li considerano un sacramento. Inoltre, tra i credenti vi sono dei coniugi increduli che sono molto più increduli degli stessi pagani. Perché allora chiamare qui sacramento il matrimonio, ma non per i pagani?”

La posizione di Calvino è vicina a quella di Lutero, pur con accenti diversi. A partire dalla convinzione che solo Cristo (presente con la predicazione) offre la salvezza. Dire che il matrimonio non è un sacramento, non ne riduce però l’importanza che gli viene data nelle Chiese protestanti che preferiscono parlare di “benedizione di matrimonio”.

Rispetto al diritto matrimoniale nel Medio Evo, che man mano è stato sempre più stabilito dalla Chiesa, per Lutero il matrimonio è uno stato voluto da Dio che rientra nell’ordine della creazione. Non ha un ruolo nell’ordine della redenzione. Per questo, è una faccenda che riguarda il governo civile. La concezione protestante di matrimonio si inscrive senza difficoltà nella pratica dell’anteriorità legale del matrimonio civile rispetto al matrimonio religioso. Infatti, il matrimonio è un’istituzione fondamentalmente umana che organizza un quadro di vita per le relazioni privilegiate di un uomo e di una donna. Le caratteristiche essenziali della comprensione cristiana del matrimonio sono state riprese dal diritto civile: riguardano il legame matrimoniale debitamente ufficializzato, duraturo, esclusivo, a cui si aderisce liberamente, aperto all’accoglienza di figli. Questo però non significa che lo Stato si sostituisca alla Chiesa nelle questioni di matrimonio. Ma è competenza dello Stato esercitare la sua protezione nei confronti del matrimonio, che è un’istituzione che lo precede.

Il senso della celebrazione del matrimonio. La celebrazione del matrimonio in chiesa è considerata come “casuale”, cioè come un culto per un’occasione particolare. I cristiani accompagnano generalmente tutte le fasi importanti della loro vita con la preghiera e la parola di Dio. Questo vale sia per l’inizio della vita (culto del battesimo) che per la sua fine (culto di addio), ma anche per l’inizio della vita a due. Il motivo essenziale del matrimonio religioso sta nello scambio degli impegni alla presenza di Dio, cioè nella consapevolezza della propria responsabilità davanti al Creatore e nella fiducia nel suo aiuto e nella sua protezione, che si esprime nella benedizione data alla coppia. Nelle liturgie di matrimonio, l’impegno di Dio verso gli sposi precede quello degli sposi, lo fonda e gli dà senso e futuro. Nel Nuovo Testamento, il matrimonio è un’immagine e una forma di realizzazione dell’amore di Cristo per la Chiesa. La celebrazione religiosa costituisce un aiuto per il matrimonio. Chi riceve amore, può a suo volta donarne. Chi si lascia amare dal “capo del corpo”, cioè da Cristo, può anche cercare di riflettere questo amore nella coppia. Nella benedizione della coppia, Dio fa dono agli sposi della forza di Cristo, che conferisce una solida base al matrimonio cristiano.

Benedizione di matrimonio. Lutero spiega nel suo “Piccolo catechismo per i pastori semplici” (1529) che il matrimonio, benché sia un’istituzione profana “ha a suo favore la Parola di Dio”, ed è per questo che bisogna “onorare questo stato divino”, “benedirlo, pregare per esso e onorarlo”. E poco oltre: [La venuta della coppia alla Chiesa] esprime la “grande serietà” che gli sposi vi accordano. Infatti “non c’è alcun dubbio, vengono a cercarvi la benedizione di Dio e una preghiera per tutti e non fare una commedia o delle farse pagane”. “Infatti, chi desidera preghiera e benedizione del pastore o del vescovo, quanto ha bisogno della benedizione di Dio e della preghiera di tutti per questo stato nel quale inizia a vivere, poiché si vede quotidianamente quanta miseria il diavolo semina nello stato del matrimonio, con adulterio, infedeltà, disaccordo e ogni sorta di male”. La benedizione di Dio è quindi prevista da subito da Lutero come un aiuto indispensabile per vivere la vita a cui la coppia si impegna”.

Jehan-Claude Hutchen    www.baptises.fr, 17 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150318hutchen.pdf

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CONSULTORI FAMILIARI UCIPEM

Parma. Consultorio famiglia più- “tutto troppo presto”.

Il dr Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, presenta il suo libro

            «Tutto troppo presto. L’educazione sessuale dei nostri figli ai tempi di internet»

            Martedì 31 marzo 2015, ore 18, nella Sede Famiglia Più – via Nino Bixio 71 Parma

Preadolescenti e adolescenti spingono a volere tutto e subito, a fare tutto troppo presto. Di tutto questo è complice una tecnologia che rende accessibili in un click contenuti ed esperienze che spesso i giovanissimi non sono in grado di capire e gestire.

In questa conferenza Alberto Pellai parlerà con i genitori e gli educatori di tutti i comportamenti in cui tecnologia e sessualità si incrociano nel percorso evolutivo dei nativi digitali, mostrando modalità e stili di conversazione che permettono di fare un’efficace prevenzione in famiglia e a scuola, senza reticenze e tabù, in un’atmosfera di dialogo aperto e costruttivo in cui gli adulti – Più o meno smarriti nell’era della sessualità “fluida” sappiano riconquistare un ruolo educativo                         www.famigliapiu.it/Pellai.pdf

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DALLA NAVATA

                                   5° domenica di Quaresima – anno B –22 marzo 2015

Geremia         31.31 «Ecco, verranno giorni-oracolo del Signore-, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.»

Salmo             51.12 «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.»

Ebrei               05.09 «… divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.»

Giovanni         12.33 «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.»

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FECONDAZIONE ARTIFICIALE

«Selezionare i figli non garantisce che saranno sani».

Il divieto di «diagnosi genetica preimpianto» (Dgp) è di nuovo di fronte alla Consulta, e con lui la legge 40\2004. Questa volta il ricorso riguarda una coppia fertile, portatrice di una patologia genetica chiamata esostosi, malattia che comporta una crescita ossea abnorme in corrispondenza delle cartilagini e che ha il 50% di possibilità di essere trasmessa ai figli. Dopo tre dolorosi fallimenti in Grecia, la coppia ora chiede di ricorrere alla Dgp in Italia per poter isolare gli embrioni non affetti e procedere a un nuovo tentativo di impianto. Ma la soluzione selettiva in realtà non è la più indicata, come spiega Maurizio Genuardi, direttore dell’Istituto di Genetica medica dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma.

            Come si effettua e cosa comporta la diagnosi genetica preimpianto?

La Dgp ricerca determinate anomalie genetiche e viene effettuata su embrioni ottenuti mediante fecondazione in vitro. Presuppone quindi sempre che la fecondazione avvenga tramite tecniche di procreazione medicalmente assistita. Si producono più embrioni contemporaneamente e ciascuno, una volta giunto allo stadio di 6-8 cellule, è esaminato tramite il prelievo di una cellula su cui viene effettuato il test genetico. Se l’embrione mostra di presentare un’alterazione viene scartato e si procede a testare quello successivo, fino a trovarne uno “sano” che viene impiantato in utero.

            Dopo aver progressivamente escluso tutti gli embrioni ritenuti “non validi”, l’unico prescelto sarà dunque certamente sano?

La Dgp è un pre-test che deve essere riconfermato successivamente. Questo perché l’esame condotto su una singola cellula ha un margine di errore maggiore rispetto ai test genetici ordinari condotti su un individuo già formato. Per questo la Dgp richiede poi un’ulteriore verifica successiva tramite villocentesi o amniocentesi sul feto. Ci sono casi ben descritti in letteratura in cui l’embrione impiantato ha mostrato un’alterazione non precedentemente rilevata. Inoltre, per diverse malattie genetiche si può individuare il difetto genetico, ma non ne conosciamo gli sviluppi. Per alcune gli esiti sono abbastanza prevedibili, per altre invece non c’è una chiara correlazione tra il tipo di alterazione e le conseguenze. Si rischia di eliminare un individuo in cui la malattia può avere sviluppi meno gravi del previsto.

            Il fulcro della discussione è l’estensione della diagnosi preimpianto alle coppie fertili. Se è lecito cercare tracce di una determinata patologia definita grave, chi propone una gerarchia delle malattie?

Già così è difficile fissare confini per malattie specifiche in cui la possibilità di manifestazione è estremamente variabile. Oggi è possibile diagnosticare malattie che possono insorgere solo dopo 40-50 o anche 60 anni e su cui comunque è possibile intervenire. Si può decidere di selezionare un bambino perché, forse, svilupperà una certa malattia dopo decenni di vita sana? Spezzo una lancia a favore dei genetisti: avendo più chiaro il quadro della situazione, e conoscendo la variabilità genetica umana, sono i meno propensi a consigliare l’opzione della diagnosi preimpianto. Noi non sappiamo ancora con esattezza come i geni interagiscano tra di loro e con l’ambiente, senza contare il ruolo del caso. Come si decide qual è il modello “normale”?

            La malattia è vista come uno stigma e il malato come qualcuno da scartare: una mentalità sempre più diffusa che mira a “ripulire” dalle malattie eliminando il malato. Ma, si è visto per la talassemia divenuta malattia curabile, questa non è una vera soluzione…

Fin d’ora la proliferazione dei test genetici a livello di diagnosi prenatale produce miriadi di risultati di difficile decodificazione quando non sono prescritti e interpretati da esperti e che, per lo più, riguardano malattie che potrebbero sopravvenire solo in età adulta. È in preparazione un test genetico che consentirà di realizzare una carta d’identità genetica dell’embrione, uno screening su migliaia di malattie potenziali. In questo modo, anche se i genitori non presentano rischi genetici specifici, si avranno informazioni dettagliate sul genoma dei figli. A questo punto, chi non vorrebbe accedere alla provetta, pur non essendo infertile, per potersi avvalere di questi esami?

            Cosa dire a chi affronta una diagnosi di trasmissibilità di patologie genetiche ai figli?

Anzitutto ci sono diverse malattie per cui c’è una possibilità di cura o comunque di attenuazione delle conseguenze con una mirata terapia prenatale e precoce. E poi vorrei dire che si deve fare attenzione a giudicare la vita di un disabile con i nostri parametri di felicità: vivono la vita in maniera molto più serena di quanto si possa pensare.

Emanuela Vinai                     avvenire                     19 marzo 2015

www.avvenire.it/Vita/Pagine/la-provetta-non-garantisce-il-figlio-sano.aspx

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FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

La fretta è cattiva consigliera nella vita ed in parlamento.

Oggi il Senato tornerà ad esaminare il disegno di legge sulla riduzione dei tempi tra separazione e divorzio. Quello che hanno chiamato ‘divorzio breve’ e che, sotto le pressioni delle frange parlamentari più oltranziste è diventato ‘divorzio lampo’. Differenza non solo lessicale visto che in ballo c’è la possibilità di scioglimento del matrimonio senza passare per la separazione o riducendo la separazione ad una parentesi poco più che simbolica.

Ancora una volta c’è in gioco l’idea di famiglia ed i rapporti tra la famiglia e lo Stato. Se la famiglia è un corpo intermedio privo di significato sociale non c’è remora a tagliare le procedure di scioglimento del matrimonio. Se invece la famiglia ed il matrimonio sono alla base del vivere comune la crisi e lo scioglimento del rapporto riguardano lo Stato.

La pausa di riflessione che intercorre tra separazione e divorzio permette ai coniugi di riflettere ancora una volta, magari più approfonditamente, sulle possibilità di riconciliazione e dunque di mantenimento del vincolo assunto con il matrimonio.

Lo Stato e le Istituzioni non solo devono verificare, attraverso l’intervento di un giudice e non di un semplice impiegato di anagrafe che i coniugi stanno decidendo lo scioglimento in coscienza, senza costrizioni e senza prevaricazioni di una parte sull’altra, ma devono anche saper accompagnare le coppie attraverso servizi consultoriali, percorsi di mediazione, di assistenza e di tutela sia dei coniugi sia degli eventuali figli. {interventi prima e obbligatori –a meno di giustificato motivo- prima di adire alla pratica per la separazione. ndr}

Per questo è importante che venga comunque mantenuto e difeso un periodo di tempo prima dello scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale. Non un inutile tempo burocratico, ma uno spazio utile per un estremo tentativo di ricomposizione o anche soltanto come sostegno per rendere meno traumatica la separazione. La fretta è spesso cattiva consigliera: nella vita ed in Parlamento.

Comunicato stampa 17 marzo 2015                       

www.forumfamiglie.org/comunicati.php?filtro=ultimi_30_giorni&comunicato=750

Quando il Palazzo non ascolta il Paese.

Il nuovo testo “unificato” sulle unioni civili depositato dalla senatrice Cirinnà alla Commissione Giustizia del Senato, dopo una lunga serie di audizioni, è assolutamente peggiorativo, e soprattutto non appare come una proposta di mediazione, non tiene conto delle varie posizioni ascoltate negli ampi dibattiti delle scorse settimane, e si limita a proporre un’unilaterale esasperazione delle caratteristiche più faziose del modello di regolazione delle unioni civili per le persone dello stesso sesso.

Di fatto, ad una rapida lettura, l’impressione è questa: “abbiamo ascoltato tutti, e adesso continuiamo a fare di testa nostra”. Come Forum – insieme a tanti altri esperti e a tanti parlamentari membri della Commissione Giustizia – avevamo fatto una serie di critiche e avanzato numerosi suggerimenti. Tutto regolarmente ignorato.

Non pensavamo di poter cambiare radicalmente la legge. Ma qui siamo davvero alla presa in giro: anziché mediare sui punti più controversi, si esaspera l’obiettivo di partenza, che è quello di costruire un modello il più simile possibile al matrimonio dell’art. 29 della Costituzione, in attesa di una totale omologazione per via di sentenze dei vari tribunali, in Italia e in Europa, negando anche quello che la Corte costituzionale ha ampiamente sottolineato, vale a dire che il matrimonio è indissolubilmente connesso, nel nostro quadro normativo fondativo, all’eterosessualità dei coniugi.

Del resto non ci aspettavamo un migliore tipo di ascolto, se la senatrice Cirinnà, pur essendo relatrice, ha ostentatamente ignorato proprio l’audizione del Forum, uscendo dall’aula della Commissione Giustizia proprio all’inizio del nostro intervento. Ci spiace che ancora una volta, con queste modalità, la politica voglia fare le proprie scelte non ascoltando il Paese, ma sulla testa del Paese, o dando voce solo ad alcuni soggetti minoritari. Siamo davvero sicuri che su un tema tanto delicato, come l’identità della famiglia, una relatrice così schierata sia ancora la scelta giusta?

Comunicato stampa 19 marzo 2015                        www.forumfamiglie.org/comunicati.php

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Francesco: i bambini rendono vivo e limpido il mondo.

I bambini sono “un grande dono per l’umanità”, anche se spesso sono vittime di un mondo che li esclude. Lo ha affermato Papa Francesco durante la catechesi dell’udienza generale, in Piazza San Pietro, che ha concluso un primo gruppo di riflessioni dedicate alle figure che compongono la famiglia. La presenza pura e fiduciosa dei bambini, ha detto Francesco, dà speranza alla realtà degli adulti dove convivono malizie e doppiezze.

Sarebbe perduta una società abitata solo da sorrisi di cartone, finti o a comando. Non lo sarà mai una società rischiarata dal sorriso trasparente e spontaneo di un bambino. Papa Francesco arriva alla fine di un percorso di catechesi – in cui ha parlato di mamme, papà, figli, fratelli e nonni – fermandosi sulle figure più piccole della famiglia ma le più grandi per l’umanità, perché per essa, dice, sono il “grande dono” e troppo spesso anche i “grandi esclusi perché neppure li lasciano nascere”:

“Mi vengono in mente i tanti bambini che ho incontrato durante il mio ultimo viaggio in Asia: pieni di vita, di entusiasmo, e, d’altra parte, vedo che nel mondo molti di loro vivono in condizioni non degne… In effetti, da come sono trattati i bambini si può giudicare la società, ma non solo moralmente, anche sociologicamente, se è una società libera o una società schiava di interessi internazionali”.

Siamo tutti figli, Il racconto di questo mercoledì mette intanto l’accento sulla “ricchezza” che ogni bambino porta con sé. Primo, indica Francesco, proprio perché piccoli e bisognosi di attenzioni “ci richiamano costantemente alla condizione necessaria per entrare nel Regno di Dio: quella di non considerarci autosufficienti, ma bisognosi di aiuto, di amore, di perdono”. Secondo, i bambini “ci ricordano che siamo sempre figli”.

“Tutti siamo figli. E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta. Il grande dono della vita è il primo regalo che abbiamo ricevuto, la vita. A volte rischiamo di vivere dimenticandoci di questo, come se fossimo noi i padroni della nostra esistenza, e invece siamo radicalmente dipendenti”.

“Dicono quello che vedono”. Un altro dono che un bambino porta al mondo dei grandi è quello dello sguardo “fiducioso e puro” e la totale assenza di “malizia” e “doppiezze”, delle “incrostazioni della vita che – sottolinea il Papa – induriscono il cuore”:

            I bambini non sono diplomatici: dicono quello che sentono, dicono quello che vedono, direttamente. E tante volte mettono in difficoltà i genitori: ‘Questo non mi piace perché brutto’, (dicono) davanti alle altre persone. Ma i bambini dicono quello che vedono, non sono persone doppie. Ancora non hanno imparato quella scienza della doppiezza che noi adulti abbiamo imparato”.

Hanno la capacità di sorridere e di piangere. E poi bambino, prosegue Francesco, è sinonimo di “tenerezza”, di uno sguardo di “poesia” sulla vita, perché un cuore tenero sente le cose, non si limita a trattare gli avvenimenti come “meri oggetti”. Bambino vuol dire avere ancora la capacità, dissolta in tanti adulti, “di sorridere e di piangere”: “Alcuni, quando li prendo per abbracciarli, sorridono. Altri mi vedono in bianco: credono che io sia il medico e che vengo a fargli il vaccino e piangono… ma spontaneamente! I bambini sono così! Sorridere e piangere: due cose che in noi grandi spesso ‘si bloccano, non siamo più capaci… Tante volte il nostro sorriso diventa un sorriso di cartone, una cosa senza vita, un sorriso che non è vivace, anche un sorriso artificiale, di pagliaccio… I bambini sorridono spontaneamente e piangono spontaneamente”. 

Meglio bambini e “guai”, che senza e tristi. Ce n’è d’avanzo per capire come mai Gesù abbia detto che il Regno di Dio appartiene ai bambini, è la considerazione finale di Francesco. Bambino è “vita, allegria, speranza”. Talvolta anche “guai”, ma guai benedetti: “Certamente portano anche preoccupazioni e a volte tanti problemi; ma è meglio una società con queste preoccupazioni e questi problemi, che una società triste e grigia perché è rimasta senza bambini! E quando vediamo che il livello di nascita di una società arriva appena all’uno percento, possiamo dire che questa società è triste, è grigia perché è rimasta senza bambini”.

Giuseppe, Santo di tutti, Alla fine dell’udienza, Papa Francesco ha ricordato la solennità di domani, quella di San Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale: “Cari giovani – ha detto – guardate a lui come esempio di vita umile e discreta; cari ammalati, portate la croce con l’atteggiamento del silenzio e dell’orazione del padre putativo di Gesù; e voi, cari sposi novelli, costruite la vostra famiglia sullo stesso amore che legò Giuseppe alla Vergine Maria”.

Alessandro De Carolis       Bollettino radiogiornale radio vaticana 18 marzo 2015

http://it.radiovaticana.va/radiogiornale

testo ufficiale                http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150318_udienza-generale.html

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GAZZETTA UFFICIALE

Riconoscimento dei figli naturali.

D.P.R. 30 gennaio 2015, n. 26. Regolamento recante attuazione dell’articolo 5, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219, in materia di riconoscimento dei figli naturali.

www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2012;219

            GU n.62 del 16-3-2015 Vigente al: 31 marzo 2015

www.gazzettaufficiale.it/atto/vediMenuHTML?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2015-03-16&atto.codiceRedazionale=15G00040&tipoSerie=serie_generale&tipoVigenza=originario

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MATRIMONIO

Forse è venuto il tempo di reclamare un «matrimonio a tutele crescenti».

Caro direttore di “Avvenire” pare che il governo metta mano alla “stagione dei diritti”. Sono poco convinto che l’opposizione sic et simpliciter alle richieste delle varie lobby possa dare qualche risultato efficace. Dopo 32 anni di matrimonio, 2 figli ormai adulti e portati all’università, genitori anziani accuditi, penso perciò che sarebbe il caso di iniziare a rivendicare lobbisticamente una legislazione che codifichi il “matrimonio a tutele crescenti”. Non so se i giuristi cattolici ci abbiano già pensato, ma si potrebbe fare un’iniziativa di legge popolare per chiedere al Parlamento di istituire un percorso premiale fondato, appunto, sulla valorizzazione crescente della durata, della fedeltà, della generazione e crescita dei figli, della cura familiare degli anziani nella famiglia costituzionalmente protetta. Prevedere, per esempio, che ogni 3 anni di matrimonio le tasse del nucleo familiare si riducano dello 0,30, 5%, che una quota ulteriore si aggiunga per ogni figlio, per la loro crescita ed educazione, per il mantenimento in famiglia dei genitori anziani e dei malati cronici, ecc.. Se “stagione dei diritti” deve essere, perché non rivendicare anche una premialità nel matrimonio fra uomo e donna, stabile, fedele e accogliente?

Ivano Argentini San Martino in Rio (Re)

Forse qualcuno giudicherà la sua idea poco più di una boutade, ma io trovo che la sua lettera, caro signor Argentini, contenga ben più di una sensata “provocazione” dal retrogusto amarognolo. In questo Paese, come in mezzo mondo, si tende ormai a fare (quasi) di tutto per rendere più facile lo “scioglimento” delle realtà familiari, per attenuare la forza degli impegni, rendere più comodi i ripensamenti, agevolare le decisioni all’insegna dell’«io» piuttosto che del «noi». È un dato di fatto che per qualcuno è semplicemente il frutto del progresso dei “diritti” individuali e addirittura delle “libertà” fondamentali e per altri lei e io, credo, siamo tra questi è l’esito triste di una progressiva e miope corrosione di quella preziosa “cultura della relazione” basata come ci insegna papa Francesco sui pilastri della gentilezza, della pazienza, del rispetto reciproco, del perdono che si era affinata nei secoli e che ancora per tanti, nonostante tutto, costituisce il “clima” naturale della famiglia e la prosecuzione dell’amore generativo tra un uomo e una donna e del libero e solenne impegno che essi hanno assunto nel matrimonio al cospetto della comunità di appartenenza.

Trovo, insomma, utile e istruttivo il suo parallelo lavoro-matrimonio, due realtà così diverse (che abbiamo un po’ tutti il problema di conciliare…) e che però riguardano profondamente la nostra dignità e dicono qualcosa di molto importante su come stiamo al mondo. La distruzione di lavoro sperimentata in questi anni e alla quale si sta cercando di porre rimedio con lo strumento di nuovi “contratti a tutele crescenti” è grave sul piano sociale tanto quanto l’opera di picconamento dei “sostegni” alla famiglia che trova sempre nuovi e troppo entusiasti operai… E allora perché no? Cominciamo pure a dire che anche la fedeltà all’impegno familiare di mutua solidarietà con il coniuge, con i figli, con i genitori, con ogni altro stretto congiunto… merita di essere riconosciuta e valorizzata con crescente intensità. Perché fa bene alle persone, fa bene alla società in tutte le sue articolazioni e fa bene anche allo Stato. E ai suoi conti.

Marco Tarquinio       Avvenire                    18 marzo 2015

www.forumfamiglie.org/allegati/rassegna_34319.pdf

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OMOFILIA

Persone omosessuali e morale cristiana. Chi sono io per giudicare?

L’omosessualità esiste nella storia di tutte le società e culture. La Chiesa cattolica ha preso in considerazione questa realtà da diversi anni: “Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza” (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2358).

Tuttavia, vivere la propria omosessualità e la propria fede cristiana, è possibile oggi senza doversi nascondere? Se sono percepibili dei progressi, sia sul campo, sia in diversi documenti ufficiali, è ancora molto difficile per numerosi omosessuali e per le loro famiglie trovare il loro spazio nella Chiesa. Sofferenza, disonore, senso di colpa, vergogna sono ancora la sorte di molti. A causa, tra l’altro, del modo in cui sono guardati dai loro fratelli e sorelle nella fede, ma anche della linea scelta dalla Chiesa istituzionale, che, pur insistendo sull’accoglienza incondizionata, continua a condannare gli atti omosessuali definendoli “intrinsecamente disordinati”.

A partire dal 1970, tuttavia, l’espressione dottrinale ha avuto un’evoluzione distinguendo gli atti e le persone: attenzione alle persone, ma condanna dei loro atti contrari alla legge naturale, quella famosa legge naturale che ci arriva da San Tommaso d’Aquino. Per lui sono “contro natura” tutti gli atti che non sono coerenti con il loro fine, cioè non rapportabili al piano di Dio. Quindi, ogni relazione sessuale che non ha come finalità la procreazione è “contro natura”.

La seconda sessione del Sinodo sulla famiglia dell’ottobre 2015 permetterà di andare oltre questo modo immutabile di intendere la legge naturale? Se la relazione intermedia della prima sessione del Sinodo aveva aperto qualche breccia esprimendo ad esempio che “le persone omosessuali hanno dei doni e delle qualità da offrire alla comunità cristiana”, la relazione finale le ha completamente occultate, riaffermando in poche righe ciò che è stato sempre detto: accoglienza delle persone ma “nessun fondamento per assimilare o stabilire delle analogie, anche lontane, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”.

Eppure, la nozione di legge naturale è stata rivisitata da una Commissione teologica internazionale, il cui lavoro è stato pubblicato nel 2009 con questa conclusione: “Il diritto naturale non è mai una misura fissata una volta per tutte. È il risultato di una valutazione delle situazioni mutevoli in cui vivono gli uomini”. Oggi, dei teologi, dei cardinali e molti altri si esprimono affinché la Chiesa si situi come “compagna di strada” e aspettano dal Sinodo qualcosa di diverso dalla riaffermazione della dottrina. Allora, sogniamo…

Nell’ambito dell’unione omosessuale, è ora di aprire la riflessione sulla relazione tra due esseri invece di ridurla all’atto genitale. “È certo che, se si invoca esclusivamente l’obiettività morale o il contra naturam della teologia medioevale, è l’impasse, tanto più che tale teologia è ancora attiva in tutti i testi del Magistero.

Poiché quelle porte sono chiuse, si apre l’ambito esitante di una pastorale di accoglienza che mira a far conoscere un messaggio ben difficile da capire, cioè quello di una persona scissa tra il suo essere e il suo agire. Ma, precisamente, una persona non si riduce ai suoi atti. Si può rispettare la dignità di un uomo che ha commesso un reato e condannare il suo atto; invece, l’orientamento sessuale di una persona, la sua sessualità, non fa forse parte del suo essere incarnato, relazionale? Condannarla non significa condannare l’essere desiderante?”(Laurent Lemoine, Homosexualité et morale chrétienne, “Revue Études”, ottobre 2014, p. 67).

Nella riflessione sulla sessualità eterosessuale, a giusto titolo, quando si vuole dare all’atto sessuale la sua vera dimensione, lo si situa nel contesto più ampio della relazione amorosa, dell’attenzione reciproca, e la relazione amorosa diventa allora il segno della generosità di Dio. Perché non potrebbe essere lo stesso per la sessualità omosessuale? Si dirà ancora che l’unione sessuale di due persone omosessuali non può produrre figli, non può essere feconda. Ma neanche l’unione sessuale di due persone sposate di cui una è sterile non può esserlo! E l’unione delle persone della Trinità non è feconda come l’unione sessuale di una coppia sposata. Dio non è fecondo, è creatore. La coppia eterosessuale feconda quindi è un’immagine sbagliata di Dio!

Chi siamo noi per non riconoscere lo Spirito all’opera quando vediamo e sentiamo delle persone omosessuali portare frutti d’amore, di pace, di pazienza, di bontà, di benevolenza, di fede, di dolcezza, di padronanza di sé? (cf. Galati 5, 22-23).

Come cattolici omosessuali ed eterosessuali, abbiamo una responsabilità: quella di amare il nostro prossimo come noi stessi, nella complementarietà e nella ricchezza delle nostre differenze, per edificare insieme il Corpo di Cristo. Impariamo gli uni dagli altri che amare in verità è un’avventura che si vive giorno dopo giorno. In questa ricerca, non siamo soli. Abbiamo fiducia! Lo Spirito ci precede sempre.

Claude Besson www.baptises.fr. 16 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

versione breve            www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150316besson1.pdf

testo integrale       www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150316besson2.pdf

Le coppie dello stesso sesso verso la benedizione?

Il prossimo sinodo sulla famiglia potrebbe aprire la strada ad una possibile benedizione delle coppie omosessuali da parte della Chiesa cattolica. Per il momento, la sua concezione si presenta nella forma di un’accoglienza incompiuta: accetta le persone omosessuali, ma rifiuta la loro sessualità.

Una situazione che potrebbe cambiare. Le persone che presentano tendenze omosessuali “devono essere accolte con rispetto, compassione e delicatezza”, afferma il Catechismo della Chiesa cattolica (1992), precisando che gli atti omosessuali sono “gravi depravazioni” e “intrinsecamente disordinati” (n. 2357 e 2358). “In definitiva, questo significa dire agli omosessuali ‘vi vogliamo bene, ma quello che fate è un peccato’”, spiega il canonico Nicolas Betticher, teologo e canonista. Per alcuni, questo approccio merita di essere migliorato se si vuole evitare una sorta di schizofrenia identitaria nelle persone coinvolte, divise tra un’accoglienza effettiva della Chiesa a cui aspirano legittimamente e la condanna degli atti che derivano dal loro orientamento sessuale.

Il matrimonio non cambierà. La “soluzione” non deve essere ricercata nel senso di una rivoluzione della concezione cattolica del matrimonio. “Impossibile”, secondo padre Benoît-Dominique de la Soujeole, professore di teologia dogmatica all’Università di Friburgo. “Il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna fondata come immagine dell’unione di Cristo e della Chiesa”. L’alterità sessuale ne resterà la condizione sine qua non, poiché, nell’intenzione di Dio, l’unione degli spiriti e dei corpi mira a “partecipare al suo disegno creatore, chiamando nuovi esseri alla vita”. “Da un punto di vista dogmatico, l’omosessualità resta un comportamento diverso da quello che risulta da questa intenzione divina”, secondo il padre domenicano.

Allora, che cosa proporre alle coppie il cui orientamento sessuale differisce da questo modello? “O si dice loro: ‘quello che vivete non è niente’, il che sarebbe crudele e irrispettoso, o si accetta di riconoscere che queste persone sono anch’esse alla ricerca di una pienezza umana, anche se non partono da dove si vorrebbe”, afferma Thierry Collaud, professore di teologia morale all’università di Friburgo. “Stigmatizzando la loro condizione, si impedisce ogni evoluzione. Per loro tutto sarà bloccato”. Un punto di vista inaccettabile per lo studioso di etica che è a favore di una morale di crescita, in cui l’umano si inserisce in un dinamismo costante. “La comunità cristiana dovrebbe accompagnare il loro cammino, riconoscendo che Dio è presente accanto a loro”.

Un amore autentico. In questo senso, secondo Nicolas Betticher, la Chiesa potrebbe dire alle coppie dello stesso sesso: “Riconosciamo che avete una maniera diversa di vivere l’amore, ma non possiamo dare giudizi sulla qualità di questo amore. È la vostra verità che riconosciamo come qualcosa che si realizza in bene”. La riflessione si allontanerebbe così dalla sessualità per interrogare la relazione: l’amore di due persone dello stesso sesso potrebbe essere paragonabile a quello che cementa una coppia eterosessuale?

Per Joël Pralong, prete della diocesi di Sion, è così senza alcun dubbio. Autore del libro “Mais qui a dit che Dieu n’aimait pas les homos?” (Ma chi ha detto che Dio non ama i gay?) in cui parla della sua esperienza pastorale, sostiene che l’ideale dell’amore – come lo concepisce la Chiesa – esiste anche in certe coppie omosessuali. “Un amore oblativo, capace di costruire un progetto comune nel dono di sé e nella durata, lega persone dello stesso sesso”.

Un riconoscimento impossibile. In quest’ottica, secondo Nicolas Betticher, un riconoscimento potrebbe essere immaginabile, tenendo presenti alcune precisazioni. “La parola ‘benedizione’ non è forse il termine giusto, anche se si vogliono benedire le persone individualmente e non la coppia stessa. Non si tratterebbe di un riconoscimento sacramentale, ma piuttosto dell’accoglienza di una coppia che vuole dire bene a Dio del proprio amore, dell’amore che vive in profondità. La Chiesa accompagnerebbe questo amore e pregherebbe per questa coppia, per la sua fedeltà, per i diritti e i doveri derivanti dalla decisione di vivere insieme sotto lo sguardo di Dio”. Il futuro di quello che per ora è soltanto una prospettiva ipotetica dipenderà in gran parte dal sinodo sulla famiglia, di cui si terrà nell’ottobre prossimo la seconda tappa. “Ci si aspetta una risposta pastorale chiara che non metta in discussione la teologia matrimoniale, ma che dia risposte evangeliche alle coppie dello stesso sesso e soprattutto che aiutino i soggetti della pastorale ad unificare la loro pratica nei confronti di queste persone”, spiega il canonista.

In piedi davanti a Dio. Nella Chiesa cattolica, il processo si annuncia ben più complicato che nelle Chiese riformate dei vari cantoni – la maggioranza delle quali ha accettato di benedire le coppie dello stesso sesso. La problematica, specifica soprattutto del mondo occidentale, rischia di creare un certo turbamento nel miliardo e duecento milioni di cattolici. “Bisognerebbe mettersi d’accordo su dei principi generali, il cui denominatore comune potrebbe essere la libertà di coscienza illuminata della persona davanti a Dio, cioè accompagnata dalla comunità ecclesiale e dai suoi pastori”, spiega Nicolas Betticher. “Cristo ci chiede di cercare una coerenza”, conclude, “una coerenza nella quale si inserisce papa Francesco quando chiede: “Chi sono io per giudicare un omosessuale?” In questo modo, pone semplicemente l’uomo in piedi davanti a Dio”.

Pierre Pistoletti           www.cath.ch, 16 marzo 2015          (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150316pistoletti.pdf

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PARLAMENTO

Senato                        Assemblea. Divorzio breve

1504. Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi (approvato dalla Camera dei deputati).

17 marzo 2015. Il relatore di maggioranza Rosanna Filippin svolge la replica.                   passim

Con il disegno di legge in esame non stiamo decidendo se introdurre o meno il divorzio. Il tema dell’indissolubilità del matrimonio è già stato risolto nel 1970, prevedendo il divorzio. L’obiettivo dell’Atto Senato 1504 è ridurre i tempi minimi necessari ed obbligatori di separazione prima di poter presentare la domanda di divorzio. Nella scelta del tempo si valorizzano la libertà e la responsabilità delle parti, delle persone. Il legislatore del 1970 aveva individuato un sistema molto rigido, perché all’epoca la discussione sull’indissolubilità del matrimonio aveva comportato come conseguenza un controllo ferreo da parte del pubblico dello Stato sulla volontà delle parti, ma nel frattempo la situazione è cambiata, sono cambiati i tempi, i matrimoni e le famiglie. Il legislatore deve prendere atto di questo e porsi oggi questa semplice domanda: i tempi lunghi per arrivare dalla separazione al divorzio servono a favorire la riconciliazione, a ricomporre il conflitto? Aiutano la famiglia? Non voglio addentrarmi nei numeri come qualcun altro ha fatto: Mi limito semplicemente ad osservare il seguente dato: su circa 93.787 separazioni proposte nel 2012, solo 5499 si sono chiuse con una riconciliazione, con una percentuale del 5 per cento. Ma neanche questo è importante, come non è importante quante coppie passano dalla separazione al divorzio. Anche questa è una decisione che deve essere rimessa alla libertà e alla responsabilità delle parti, in questo caso dei cittadini. I dati ci dicono che i tempi lunghi non aiutano la famiglia. . Il tempo vuoto che intercorre tra una separazione e un divorzio (…) è un periodo di tempo pieno di paura, di incertezza, di ricatti, di avvocati che costano. È un tempo che non consente alle persone di scegliere di cambiare vita, di aprire un nuovo progetto di vita anche affettivo. Sono blocchi traumatici e più il tempo è lungo più esso può essere riempito dai fantasmi del fallimento. Ecco perché si è deciso di ridurre i tempi. Ecco perché si è stabilito, in prima lettura alla Camera dei deputati, che l’originario termine di cinque anni, ridotto dal legislatore a tre, con questo disegno di legge venga ulteriormente ridotto a sei mesi in caso di consensuale e a mesi in caso di giudiziale. In questo modo, infatti, si mette al centro la libertà e la responsabilità dei coniugi. In tema di separazione e divorzio il legislatore è intervenuto più volte nel corso del tempo. È intervenuto anche con la recente introduzione della negoziazione assistita e del cosiddetto divorzio facile davanti all’ufficiale giudiziario. Abbiamo allentato il ferreo controllo pubblico sulla vita e sui diritti delle persone che si sono sposate? Sì, lo abbiamo allentato, non possiamo negarlo. Però abbiamo dato maggiore evidenza alla libertà e alla responsabilità delle persone. Credo che questo sia un bene. Mi domando se i cittadini hanno diritto o meno di vivere con pienezza e libertà la loro vita matrimoniale, nonché la fine del loro rapporto matrimoniale. La flessibilità delle misure di controllo e di gestione della crisi matrimoniale equivale a disegnare un vestito su misura alle persone e in questo caso alle coppie. Un modo per dare una risposta su misura alle crisi e ai tanti casi umani e personali che necessariamente sono diversi e che quindi hanno bisogno di strumenti diversi per favorire il loro controllo e la loro gestione.

(…) L’articolo 3 della Legge n 898, 1 dicembre 1970  www.altalex.com/index.php?idnot=41744

già prevede tutta una serie di ipotesi di divorzio diretto. Non stavamo introducendo nulla di nuovo. Poniamo un caso concreto: se un uomo tenta di uccidere una donna, quella donna, sua moglie, deve aspettare tre anni per chiedere la separazione? No, può chiedere immediatamente il divorzio. Il divorzio diretto, però, è previsto in altri tre casi al di fuori delle situazioni personali, che sono la trascrizione della sentenza di divorzio ottenuto all’estero, il matrimonio non consumato o la rettificazione del sesso. Queste, da sole, sono già ipotesi di divorzio diretto. (…)

Intervengono: Sen. Lucio Malan (FI-PdL XVII), Sen. Carlo Giovanardi (AP (NCD-UDC), Sen. Mario Mauro (GAL (GS, LA-nS, MpA, NPSI, PpI), Sen. Maria Mussini (Misto, Movimento X), Sen. Erika Stefani (LN-Aut) (OdG), Sen. Luigi Gaetti (M5S), Sen. Raffaele Volpi (LN-Aut), Sen. Sergio Puglia (M5S), Sen. Giacomo Caliendo (FI-PdL XVII), Sen. Enrico Buemi (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE), Sen. Renato Schifani (AP (NCD-UDC), Sen. Elena Cattaneo (Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE), Sen. Peppe De Cristofaro (Misto, Sinistra Ecologia e Libertà, Sen. Lucio Barani (GAL (GS, LA-nS, MpA, NPSI, PpI), Sen. Enrico Cappelletti (M5S), Sen. Luigi Zanda (PD), Sen. Angela D’Onghia (GAL (GS, LA-nS, MpA, NPSI, PpI).

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=17&id=907300

18 marzo 2015. Intervengono: Sen. Giacomo Caliendo (FI-PdL XVII) favorevole a nome del gruppo, Sen. Claudio Martini (PD) favorevole a nome del gruppo, Sen. Giuseppe Francesco Maria Marinello (AP (NCD-UDC)) contrario in dissenso dal gruppo, Sen. Maurizio Gasparri (FI-PdL XVII) contrario in dissenso dal gruppo, Sen. Luigi Gaetti (M5S)

Approvato con modificazioni; votazione nominale: favorevoli 228, contrari 11, astenuti 11.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=17&id=907518

Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi (Bozza provvisoria)

Art. 1. Al secondo capoverso della lettera b) del numero 2) dell’articolo 3 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive mo-dificazioni, le parole: «tre anni a far tempo dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e di sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale».

Art. 2. All’articolo 191 del codice civile, dopo il primo comma è inserito il seguente: «Nel caso di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel mo-mento in cui il presidente del tribunale auto-rizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi di-nanzi al presidente, purché omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione».

Art. 3. 1. Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presup-posto risulti ancora pendente alla medesima data.

testo approvato                       www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00907985.pdf

                                   Comm. Giustizia Disciplina delle unioni civili

S14      Manconi e Corsini. Disciplina delle unioni civili.

17 marzo 2015           Prosegue l’esame congiunto, sospeso nella seduta del 24 febbraio 2015.

            La relatrice Monica Cirinnà ha depositato un nuovo testo unificato in materia di coppie di fatto ed unioni civili, anche tenendo conto delle risultanze emerse nel corso delle audizioni, che viene pubblicato in allegato.            www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=907232

19 marzo 2015 Il presidente Nitto Francesco Palma comunica ai membri della Commissione che è stato presentato da parte del Gruppo parlamentare Forza Italia uno schema di testo alternativo a quello presentato dalla relatrice, senatrice Cirinnà, in materia di coppie di fatto ed unioni civili, che viene pubblicato in allegato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=907874

Il seguito dell’esame è, infine rinviato.

www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=907874

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POLITICHE SOCIALI

Sostegno alle donne lavoratrici che desiderano avere figli e dedicarsi alla famiglia.

            Promuovere la parità della donna, la sua dignità e i suoi diritti: è quanto ha chiesto mons. Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, nel suo intervento a New York alla conferenza sul tema “La famiglia come agente di parità e di diritti umani della donna”, svoltasi a 20 anni dalla Conferenza mondiale di Pechino sulle donne. 

            “Bisogna parlare della dignità della donna nel contesto del matrimonio, della maternità e della famiglia”, ha ribadito il presule nel suo discorso riportato dalla Radio Vaticana. Il vero rispetto per la donna inizia con “l’accettare tutti gli aspetti della sua umanità”, così da permetterle di “vivere liberamente e pienamente”.

            Citando San Giovanni Paolo II, mons. Auza ha quindi parlato di “genio femminile”, ovvero quella “saggezza tipica della donna di prendersi cura della dignità intrinseca di ciascuno, di promuovere la vita e l’amore”. “Quando alle donne viene data la possibilità di crescere nel pieno apprezzamento del loro talento e delle loro potenzialità l’intera società ne beneficia”, ha detto.

            E ha esortato pertanto a “promuovere un contesto in cui si possa apprezzare meglio la piena grandezza della donna che include non solo gli aspetti che ha in comune con l’uomo, ma anche i doni speciali che le competono in quanto donna, come la maternità intesa non come un mero atto riproduttivo, ma come uno stile di vita spirituale, educativo, affettivo e culturale”.

            Il rilancio di tale contesto, ha soggiunto il presule, è quanto mai urgente perché attualmente “in alcune società, il valore unico e la dignità della maternità non vengono sufficientemente difesi ed apprezzati”. Le donne, infatti, sono a volte costrette a scegliere tra “il loro sviluppo intellettuale e professionale e la loro crescita personale come mogli e madri”.

            Spesso, poi, “non viene riconosciuto adeguatamente il contributo essenziale della donna allo sviluppo della società attraverso la sua dedizione alla famiglia e alla crescita delle prossime generazioni”, tanto che “questo servizio invisibile e spesso eroico viene denigrato e bollato come antiquato”.

            Per questo, mons. Auza ha richiamato la necessità di promuovere un’idea di modello femminile che sia complementare e reciproco all’uomo e non identico, perché ciò “impoverirebbe l’umanità”. Definendo, poi, la famiglia come “unità fondamentale e naturale della società”, il delegato vaticano ha ribadito che quando essa viene “ignorata o attaccata, va difesa chiaramente e coraggiosamente, chiedendo politiche migliori a sostegno delle donne lavoratrici che desiderano avere figli e dedicarsi alla famiglia”.

            “Il nostro futuro – ha aggiunto – si rispecchia nel modo in cui, come individui e come società, supportiamo le madri nel crescere famiglie forti e sane”. Infatti “dietro ai casi di delinquenza giovanile c’é spesso una famiglia debole o disgregata”. Per questo è importante tutelare il fondamentale ruolo della donna nell’insegnamento della fede e nello sviluppo sociale, educativo e culturale dei figli.

            Le donne – ha concluso Auza – non devono essere sottoposte quindi a “pregiudizi e discriminazioni”, ma al contrario bisogna lavorare per “un sempre più pieno riconoscimento e apprezzamento del loro enorme ed insostituibile contributo al passato, al presente ed al futuro della società”.

Redazione                  zenit  17 marzo 2015

www.zenit.org/it/articles/sostegno-alle-donne-lavoratrici-che-desiderano-avere-figli-e-dedicarsi-alla-famiglia

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SEPARAZIONE

Non autorizzato l’accordo di negoziazione assistita.

Tribunale Ordinario di Torino, settima Sezione civile, sentenza del 15 gennaio 2015

Nel caso di specie, era stata formulata una convenzione di negoziazione assistita a norma dell’art. 6, comma II, L. n. 162/2014, che era stata trasmessa entro il termine di dieci giorni al PM il quale aveva ritenuto che l’accordo non fosse rispondente all’interesse del figlio, maggiorenne ma non economicamente autonomo, per il quale non era stato previsto alcun tipo di contributo al mantenimento.

L’accordo è stato, dunque, inviato al Presidente del Tribunale affinché fissasse l’udienza di comparizione delle parti e provvedesse senza ritardo.

Il Presidente si è, dunque, trovato a dover dirimere i non pochi dubbi interpretativi che sorgono tanto in relazione all’organo davanti al quale l’udienza deve essere fissata (ovvero Presidente come nel caso di separazione consensuale o Tribunale in composizione collegiale, come nel caso di divorzio a domanda congiunta o modifica delle condizioni di separazione o divorzio), quanto in riferimento alla locuzione”provvede”.

Qualora, infatti, si volesse affermare che il procedimento, a seguito della mancata autorizzazione del PM, venga per così dire “giurisdizionalizzato”, di per sé tramutandosi in un normale procedimento di separazione consensuale o ricorso congiunto per cessazione degli effetti civili del matrimonio o modifica delle condizioni di separazione o divorzio, non si vede come potrebbe ottenersi una pronuncia, laddove nessuna domanda sia stata formulata dalle parti, così violando il generale principio della domanda di cui all’art. 99 cpc, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. oltre che delle norme sulle specifiche fattispecie che prevedono un atto introduttivo e l’impulso di parte.

La via che il Presidente del Tribunale di Torino, nel rispetto del principio di economia processuale, ha ritenuto percorribile è quella “secondo cui, trasmesso l’accordo (non autorizzato) dal Procuratore della Repubblica, il Presidente fissi l’udienza, consentendo peraltro alle parti – qualora ritengano di non aderire pienamente ai rilievi effettuati dal PM unitamente al rigetto dell’autorizzazione o, in conseguenza di essi, intendano apportare significative modifiche alle clausole dell’accordo – di depositare in tempo utile ricorso per separazione consensuale ovvero ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili o lo scioglimento del matrimonio, o ancora per la modifica delle condizioni di separazione o divorzio. Così procedendo, qualora le parti non depositino alcun ricorso e, comparendo avanti al Presidente, dichiarino di aderire pienamente ai rilievi effettuati dal Pubblico Ministero, l’accordo potrà essere autorizzato dal Presidente”.

Ciò premesso, il Presidente ha fissato l’udienza di comparizione delle parti, invitandole a depositare dieci giorni prima ricorso ex art. 711 c.p.c. sottoscritto da entrambe le parti, qualora decidessero di non aderire in toto ai rilievi effettuati dal PM in riferimento all’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita.

AIAF – Newsletter  17 marzo 2015                         www.aiaf-avvocati.it/l-aiaf

Conto cointestato fra coniugi: quali regole in caso di separazione?

La Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi proprio lo scorso anno con una sentenza [Cass. sent. n. 809/2014 del 16.01.14 e in senso conforme anche Cass sent. n. 4496/2010 e sent. n. 28839/2008] relativa ad un caso nel quale le parti in lite, cointestatarie di alcuni rapporti bancari, erano due coniugi in regime di separazione dei beni e le somme che confluivano in detti rapporti erano frutto unicamente del lavoro del marito. In detta pronuncia la Corte ha chiarito che, se da un lato è vero che quando un conto è cointestato vige una presunzione di contitolarità fra i suoi cointestatari, dall’altro lato però, tale presunzione non è assoluta: nel senso che l’interessato (colui, cioè, che rivendica la titolarità delle somme) può sempre dimostrare il contrario (cosiddetta “inversione dell’onere della prova”).

            La cointestazione, infatti, attribuendo agli intestatari la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto [art. 1854 cod. civ.] sia nei confronti dei terzi, che nei rapporti interni, fa presumere la contitolarità dell’oggetto del contratto [art. 1298, c. 2, cod. civ.], ma tale presunzione non è assoluta, ben potendo essere superata attraverso presunzioni semplici da parte del soggetto che sostenga di essere l’unico titolare delle somme presenti sul conto.

            Tali presunzioni sono considerate sufficienti a fornire la necessaria prova della “non contitolarità” purché gravi, precise e concordanti [Cass. sent. n. 19115/12.]. Si pensi, alle circostanze (facilmente dimostrabili) che le somme depositate sul conto provengono da un conto intestato solo ad uno dei due cointestatari o che sono il prezzo della vendita di beni personali. Anche ordini di accreditamento (come quelli della pensione o dello stipendio) o anche gli assegni emessi a favore di uno solo dei cointestatari e successivamente versati sul conto cointestato costituiscono elementi in grado di provare la titolarità esclusiva.

            La suddetta pronuncia ha, inoltre, chiarito che il fatto che uno dei coniugi cointesti all’altro il conto non implica anche la volontà di donargli le somme depositate. In altre parole, l’intenzione di effettuare una donazione indiretta [art. 769 cod. civ] al coniuge, cointestandogli il conto (cosiddetto animus donandi) non può essere presunta dalla semplice contestazione del conto. Quando, infatti, la provvista è costituita solo da redditi di lavoro di uno dei due coniugi, la doppia firma viene concessa solo per consentire all’altro di partecipare alla gestione del risparmio e di effettuare le operazioni allo sportello della banca, ma non anche con l’intenzione di donargli la metà dei risparmi. Tra l’altro, il giudice dovrebbe individuare tale spirito di liberalità in ragione di ogni singolo versamento, in quanto la legge non ammette la donazione di beni futuri [Art. 711 cod. civ.].

            Pertanto, non essendoci una presunzione a riguardo, occorre che colui ne ha interesse fornisca in giudizio la prova dello spirito di liberalità del coniuge che da solo ha alimentato la provvista. Prova, di certo, assai più difficoltosa della prima.

Maria Elena Casarano                                 la legge per tutti                    16 marzo 2015

www.laleggepertutti.it/82138_conto-cointestato-fra-coniugi-quali-regole-in-caso-di-separazione

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SINODO DEI VESCOVI

            “Il mistero delle nozze cristiane: tentativo di approfondimento biblico-teologico”

P. Guido Innocenzo Gargano: una rilettura biblica e sapienziale delle nozze cristiane

Nell’orizzonte dell’attuale dibattito intersinodale, questo scritto di P. Innocenzo Gargano, monaco camaldolese, si segnala per una ricchezza e un’originalità veramente rare. Tiene insieme, in modo ammirevole, una grande fedeltà al testo biblico con una libertà di ermeneutica e una profondità di sguardo, teologico e sapienziale, davvero fuori dal comune. Dovrebbero leggere queste pagine tutte le “parti” in campo: sia coloro che pretendono di assumere la tradizione biblica sul matrimonio in modo sostanzialmente fondamentalistico, sia coloro che vorrebbero liberarsene troppo facilmente. Il recupero di una lettura equilibrata della tradizione è possibile solo recuperando la freschezza e l’originalità delle fonti, grazie alla cui riscoperta possono veramente aprirsi “nuove strade” e “possibilità impensate”.-   Andrea Grillo

 

Sommario

L’ipotesi da cui parte l’A. e che, anche a proposito del sacramento del matrimonio, possa essere importante riferirsi: da una parte all’immagine (eikona nel senso di “già” e “non ancora”), permanente nella Chiesa, dei due Misteri principali della fede, e quindi alla Triadologia e alla Cristologia; dall’altra all’ipotesi di un’appartenenza di Gesù di Nazareth alla corrente degli Enochichi (Esseni Moderati) che si riferivano sia alla Legge incisa nelle stelle, sia alla Legge scritta/orale promulgata da Mosé. Questa ipotesi imporrebbe una maggiore attenzione al dibattito sull’autorità e autorevolezza delle due Leggi, tenendo conto soprattutto della misericordia.

Un altro suggerimento dell’A. e quello di leggere il testo di Mt 19, 3-12 alla luce dell’insieme del Discorso della montagna e soprattutto del versetto di Mt 5, 17, da cui risulterebbe una concordia tra l’accondiscendenza di Mose e la misericordia evidenziata dall’insegnamento di Gesù, venuto non per abolire la Legge, ma per darle pieno compimento.

A tutto questo l’A. aggiunge la constatazione che Matteo distingue l’essere nel regno dei cieli dal non entrarci affatto. Da cui la necessita di interpretare il “ma io vi dico” di Mt 19, 9 in linea con gli altri “ma io vi dico” presenti nel Discorso della montagna, evidenziando la natura dinamica del passaggio dalla “littera” allo “spiritus” intrinseco alle parole di Gesù, che non contrappone le due Leggi, ma orienta a superarle entrambe per passare dallo “skopos” al “telos”, inteso fin dal principio da Dio Creatore, che e anche Dio Redentore, tenendo realisticamente conto dell’uomo, criterio ermeneutico per eccellenza dell’insegnamento di Gesù di Nazareth.

fonte: ”Urbaniana University Journal” 3 / 2014, pp. 51-73.

            testo integrale in         www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150320gargano.pdf

vedi pure                    newsUCIPEM n. 529 – 18 gennaio 2015, pag. 18

Una premessa                                                           passim             estratti

L’ipotesi, ma anche la sfida, da cui parto in questo mio intervento, e che, essendo Dio, nella Tradizione ebraico-cristiana, simultaneamente giusto e misericordioso, non sia mai possibile, in questa Tradizione, vivere la propria fede senza che il comportamento del credente sia in armonia con la volontà di Dio coniugando a sua volta simultaneamente giustizia e misericordia. E suppongo anche che campo per eccellenza per affrontare questa problematica altamente teologica, e quindi non semplicemente giuridica, sia quella che oggi attiene al rapporto di coppia tra coniugi legati sacramentalmente nel matrimonio. Tutti, in teologia, sono concordi che, trattandosi di un sacramento, c’e in questo legame coniugale una parte che appartiene a Dio e una parte che appartiene all’uomo. E tutti sono analogamente concordi nel comprendere questo legame alla luce del mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, cosi come concordano che, all’origine di questo particolarissimo legame, stanno i due misteri principali della fede cristiana ortodossa e cioè: Unità e Trinità di Dio; Incarnazione, passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo Figlio di Dio e nostro Signore.

Tutto questo dovrebbe significare che, quale che possa essere un problema teologico dibattuto all’interno della fede cristiana, esso non possa essere risolto se non tenendo conto di questi due Misteri principali, appunto, della nostra fede. Ma questo comporterebbe anche che in ogni manifestazione della fede cristiana si debba verificare, sempre e in che misura, vi sia o meno armonia appunto con i Misteri principali della fede. In particolare, si dovrebbe aggiungere che, a proposito del sacramento del matrimonio, non si potrà mai risolvere alcun problema prescindendo dal fatto che la coppia cristiana debba essere sempre, in ogni sua manifestazione, una sorta di immagine (“eikona” nel senso di “già” e “non ancora”) dei due Misteri principali della nostra fede.

La problematica relativa al rapporto tra due coniugi legati dal sacramento del matrimonio, discussa con i due presupposti appena accennati, sarebbe enorme. E dunque in questo intervento non posso che indicarne appena qualche aspetto. Cosa che faro leggendo il tutto alla luce del riferimento alla visione di un Dio, simultaneamente giusto e misericordioso, che sta all’origine dell’intera problematica teologica ebraico-cristiana (Cfr Es 34, 6-7).

Prendo come punto di partenza di questo intervento il testo di Mt 19, 3-12 che riporto dividendolo in due parti (una prima, composta da Mt 19, 3-9, e una seconda, più breve, composta da Mt 19, 10-12).

(…)      Gli Esseni Moderati e Gesù

A proposito di questa pericope, abbastanza complessa, richiamo appena due contesti che potrebbero aiutare non poco a partire da una prospettiva più adeguata nell’osservare l’insieme della problematica. Il primo e dato dall’ipotesi di un’appartenenza di Gesù di Nazareth alla corrente degli Enochichi con particolare riferimento ai cosiddetti Esseni Moderati, (…)Questa ipotesi imporrebbe una maggiore attenzione al contesto culturale e religioso in cui agiva Gesù di Nazareth e, soprattutto, al dibattito sull’autorità e autorevolezza delle due Leggi ritenute allora fondamentali in Israele: quella inscritta nelle stelle e quella inscritta nelle tavole mosaiche.

A quale delle due bisognava dare il primato? E inoltre: la legge mosaica aboliva, confermava o interpretava quella inscritta nelle stelle? Le risposte eventualmente date non erano prive di conseguenze, soprattutto nel comportamento pratico. Infatti, la Legge inscritta nelle stelle aveva la qualità di essere considerata eterna e solida per sempre, perche ritenuta stabile ed eterna come le stelle, e stava alle origini della divisione del tempo, delle prescrizioni della vita pratica scandita dalle stagioni, nell’alternanza del giorno e della notte, nel succedersi delle settimane, nella diposizione delle feste, nelle prescrizioni rituali di ogni tipo etc. La Legge inscritta nelle tavole di pietra di Mosé era considerata invece, nonostante il suo pieno inserimento nella prima, come caratterizzata dal legame con la storia sia del popolo che del singolo membro del popolo, comprese le situazioni di limite e di peccato delle quali doveva necessariamente tener conto e verso le quali si piegava con quella accondiscendenza che Mosé aveva imparato dal modo di agire di Dio che era insieme giusto e misericordioso, ma con un primato (vogliamo chiamarlo morale?) della misericordia rispetto alla giustizia. In realtà la Legge promulgata e applicata da Mosé non fu mai quella delle prime tavole, quelle celesti, ridotte in pezzi dallo stesso Mose, ma fu quella delle seconde tavole incise sulle due pietre che tenevano realisticamente conto della storia dell’uomo. Non solo, ma quelle stesse seconde tavole avevano avuto bisogno, e ne hanno ancora bisogno oggi nella tradizione ebraica, della cosiddetta Legge orale ricevuta nella trasmissione interpretativa che passava da maestro a maestro, a partire appunto dall’interpretazione data dallo stesso Mosé.(…).

Punto che non può fare a meno di tener conto di parole molto nette di Gesù che dichiara in Mt 5, 17-19: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento” (…) Simili parole di Gesù potrebbero tradire la presenza di un’eco della polemica contemporanea che distingueva la posizione degli Esseni Moderati dalla posizione di altri movimenti di pensiero interni ad Israele. Inserendosi in questi dibattiti, come sembra ovvio, Gesù non prende una posizione alternativa netta, ma anzi cerca di collegarsi con pari rispetto a tutte e tre le tradizioni: la Legge inscritta nelle stelle, quella incisa da Mose sulle pietre, e quella cosiddetta orale. (…)

Dunque Gesù non abolisce nulla, ma conferma. E tuttavia si deve aggiungere inevitabilmente qualche precisazione in più Infatti ci si può subito chiedere: a quale perennità o stabilita della Legge si riferisce Gesù? Si può essere sicuri che si riferisca alla Legge mosaica? Oppure si riferisce anche alla Legge inscritta nelle stelle? E, terzo, quale era la sua posizione a proposito della Legge orale? Dovremmo forse concludere che il maestro di Nazareth si riferisce a tutte e tre? E se Gesù privilegiasse soprattutto il confronto con la Legge orale, perche caratterizzata dalle interpretazioni e attualizzazioni costanti che sono presenti da sempre in Israele), cosa dedurne per una comprensione adeguata non soltanto della dichiarazione presente in Mt 5,17, ma anche del colore di fondo con cui leggere tutto il suo discorso della montagna? In tutte queste ipotesi restiamo comunque posti di fronte ad una serie di interrogativi che non si può fare a meno di tenere presenti se si vuole abbozzare una qualche risposta, comprensibile anche per noi oggi, nella nostra contemporaneità.

Intanto dobbiamo cercare di capire subito cosa significhi “dare compimento” (plerosai). Si tratta di ciò che noi identifichiamo appunto con il vocabolo “compimento” (secondo la traduzione della CEI)? Si tratta di “completamento”, vocabolo che potrebbe orientare anche verso una sorta di “complementarietà” delle due/tre Leggi, senza porle necessariamente in contrapposizione tra di loro? Oppure si tratta di un invito a considerare con realismo la situazione umana verso la quale si orienterebbe Gesù stesso nel legare sistematicamente la perennità della Legge inscritta nelle stelle con l’accondiscendenza della Legge scritta/orale di Mose alla debolezza dell’uomo? La motivazione con cui Gesù richiama l’accondiscendenza di Mosé e molto significativa, a questo proposito. Infatti, Gesù stesso spiega che Mosé ha piegato le esigenze della Legge inscritta nella natura delle cose fin dal principio “per la durezza del vostro cuore” (Mt 19,8), cioè per tener conto della capacita di comprensione dell’uomo. Infatti sembra che Gesù non abbia fatto altro che porre i suoi interlocutori di fronte alla constatazione che Mosé stesso, scolpendo le seconde tavole sulle pietre (cfr Es 32, 15-19 + Es 34, 1. 4-7) avrebbe, sia pure obtorto collo, preso atto della “durezza del cuore”, accondiscendendo ad essa, senza tuttavia rinunziare a regolare il tutto con realismo, attraverso la richiesta della sottoscrizione di un atto di ripudio.

Le due Tavole di Mosé. La differenza tra le prime e le seconde tavole ricevute da Mosè sul Sinai diviene a questo punto molto importante. (…) . Apparentemente sembra che si tratti delle stesse tavole, ma in realtà altro erano le tavole “opera di Dio” e altro erano le “due tavole di pietra” che Mosé si era dovuto costruire da se, sia pure su comando di Dio. E ancora più importante tenere presente che e con queste seconde tavole che Mosé sale sul monte Sinai per stipulare l’alleanza. Dice il testo dell’Esodo: “Mose tagliò due tavole di pietra come le prime; si alzo di buon mattino e sali sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano” (Es 34, 4). E non si tratta soltanto di questo, perche occorre aggiungere che e proprio attraverso queste seconde tavole che si stabilisce l’alleanza sinaitica. (…)

Le conseguenze di una scelta. Vorrei suggerire che prendere posizione per l’una o l’altra di queste alternative non e senza conseguenze. Infatti, e dalla risposta che si da all’una o all’altra di queste alternative che si avrà la possibilità di chiarire:

a) quale interpretazione dare all’espressione di Gesù in Mt 5, 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento”;

b) come valutare il riferimento alla durezza del cuore in Mt 19, 8a: “Per la durezza del vostro cuore Mose vi ha permesso”;

c) quale forza dovrà avere l’osservazione di Gesù in Mt 19, 8c: “All’inizio non era cosi”.

Per tentare di compiere un passo avanti nella riflessione su questa serie di interrogativi, richiamo anzitutto la possibilità o meno di stabilire una connessione tra ciò che si leggera in Mt 19, 11 e ciò che Gesù stesso aveva dichiarato in Mt 5, 19: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.

La prima osservazione che si impone, a questo proposito, e che in Mt 5, 19 Gesù non parla di “esclusione” dal regno dei cieli, ma soltanto di situazione di “minimo” o di “grande” nel regno dei cieli. L’osservazione ha una sua importanza perche Gesù, immediatamente dopo, e cioè in Mt 5, 20, dichiarerà con una certa solennità: “Io vi dico, infatti: se la vostra giustizia non superera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, escludendo in modo esplicito (“non entrerete”: ou me eiselthete), in questo secondo caso, dal regno dei cieli coloro che si fermano semplicemente alla giustizia perseguita dai farisei e non riescono ad andare oltre fino a scoprire la misericordia, agendo di conseguenza.

Il fatto che Matteo distingua l’essere nel regno dei cieli dal non entrarci affatto, non può essere senza importanza. In realtà l’evangelista ci fa sapere, con questa sua distinzione, che ci sono dei precetti minimi la cui osservanza o meno non toglie del tutto la possibilità di entrare nel regno e ci sono invece degli atteggiamenti di fondo che possono escludere totalmente dall’entrare nel regno e che, tra questi atteggiamenti, ci sono proprio quelli dei farisei i quali, come ben sappiamo da tutto il dibattito tra loro e i discepoli di Gesù, intendevano difendere soprattutto, o forse unicamente, gli aspetti legati alla giustizia relativizzando, e perfino escludendo, quelli legati alla misericordia. Da qui la deduzione ovvia dell’esistenza di una sorta di gerarchia dei valori. Ci sono cioè, per Matteo, alcuni valori che permettono di entrare nel regno di Dio, pur venendo considerati piccoli o grandi, e ci sono altri valori che, se disattesi, escludono totalmente dal regno e, tra questi ultimi, ci sono proprio quei valori che pretendono di tenere conto della giustizia, intesa in modo farisaico, senza considerare con altrettanto impegno la misericordia. (…)

All’inizio non era così.  (…)

Va da se che ne resterebbero inevitabilmente fuori anche tutti coloro che non intendessero dare alcuno spazio, con la loro rigida applicazione della giustizia, a quella particolare accondiscendenza che Gesù, richiede come scelta necessaria per entrare nel regno. Cosa che succede soprattutto quando si agisce senza tener conto delle conseguenze ovvie che ricadono, per esempio in un rapporto di coppia, sulle spalle della persona più debole, esponendola all’adulterio o, ancora peggio, imponendole un’unione adultera (Cfr Mt 5, 32) che escluda del tutto la tenerezza che accompagna necessariamente la misericordia.

Ritornando alla nostra intuizione iniziale potremmo cosi ritenere che l’insegnamento di Gesù, metta in stretta connessione l’intenzione del Creatore, richiamata dalle parole: “all’inizio non era cosi” (Mt 19, 8c), con la corretta interpretazione dell’accondiscendenza voluta e decisa da Mosé: “Per la durezza del vostro cuore Mose vi ha permesso” (Mt 19, 8a). E questo non soltanto per non togliere nulla alla forza della dichiarazione di Gesù in Mt 5, 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento”, ma anche per aggiungere il richiamo ad un insegnamento, costante nella tradizione cristiana, che riguarda l’unita tra Dio Creatore e Dio Redentore, uniti nel contemporaneo rispetto della giustizia e della misericordia, accompagnato dal primato, appunto, della misericordia.

Il primato della misericordia.

La riflessione che abbiamo portato avanti finora non può fare a meno di svilupparsi aggiungendo che, in questi casi, si è costretti sempre a non restare soltanto all’esterno di una considerazione giuridica, ma a considerare con la massima delicatezza possibile il coinvolgimento della coscienza personale. Infatti, siamo sempre e comunque di fronte ad una realtà che cade sotto il principio morale sintetizzato dalla massima comune: “De internis non iudicat Ecclesia”. Da qui la necessita di entrare in queste cose in punta di piedi, con timore e tremore, come se si fosse di fronte a qualcosa di profondamente sacro e inviolabile, tenendo conto di un principio al quale la tradizione cattolica ha sempre richiamato gli operatori pastorali: “Paenitenti credendum est”.

La risposta di Gesù sembra in realtà autorizzare proprio simili conclusioni. Infatti, a prima vista Gesù sembra escludere che, nel caso del divorzio, si possa parlare di ingresso nel regno, con il richiamo esplicito al testo di Gen 2, 24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle: “Non divida l’uomo quello che Dio ha congiunto” (Mt 19, 6). Quando pero, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: “Perche allora Mosé ha ordinato l’atto di ripudio e di ripudiarla” (Mt 19, 7), Gesù, cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava un’accondiscendenza che è propria di Dio. Da qui: da una parte la constatazione che “per la durezza del vostro cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli” (Mt 19, 8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica, coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel discorso della montagna: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5, 17). Due atteggiamenti che escludono la possibilità di leggere la nostra pericope da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa, come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e in quella cattolica in particolare. In questo caso saremmo, infatti, di fronte ad un’interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale della vita e dell’insegnamento di Gesù, cosi come appare dal NT, e dal contesto culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazareth, come risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della montagna – compresa la frase stereotipata: “Ma io vi dico” (Mt 19, 9). Non si può negare inoltre che proprio l’accondiscendenza, e dunque il primato della misericordia, caratterizzassero l’insegnamento di Gesù distinguendolo da quello di tutti, o quasi, i maestri suoi contemporanei. (…)

Premesso questo e chiedendoci se, secondo l’insegnamento e le scelte di vita di Gesù, si possano dare situazioni nelle quali sia possibile agire in modo difforme da ciò che prescrive la Legge inscritta nelle stelle, regolandosi invece secondo la Legge inscritta nelle pietre da Mosé e interpretata (Legge orale) dai Profeti, la risposta potrebbe essere: “Si”. A una condizione: che venga privilegiata la dinamicità della misericordia sulla staticità della Legge. (…)

Il passaggio dalla “littera” allo “spiritus”. Sappiamo che il Discorso della montagna è stato abitualmente letto come una sorta di inasprimento delle prescrizioni della Legge, ma io sono convinto che esso sia, in realtà, un generosissimo programma di liberazione dalle strettoie della “littera” della Legge scritta/orale trasmessa da alcuni in Israele. Esso permette, infatti, un allargamento straordinario degli orizzonti, sia interni che esterni, ai quali e invitato a volgere il suo sguardo l’uomo pio e osservante di tutti i tempi. Non si tratta assolutamente allora di inasprimento, ma piuttosto di richiesta a superare gli stretti confini del dovere per aprirli agli spazi amplissimi della gratuita dell’amore, confrontata con la disponibilità del Padre che si lascia dirigere dalla generosità a tal punto da non fare alcuna differenza tra coloro che noi chiameremmo buoni o cattivi, giusti o peccatori. L’affinamento del cuore e della mente richiesto da Gesù nel suo discorso della montagna non farebbe altro dunque che rifarsi, estendendola, a quella logica intrinseca alla fede che aveva permesso a Mosè di tener conto della “durezza del cuore” dei membri del suo popolo, piegando con condiscendenza la Legge alla loro situazione concreta, e cosi permettendo a tutti di restare uniti con l’insieme del popolo di Dio nonostante le cadute e il ritmo diverso del proprio cammino personale. (…)

Dovrebbe far testo, infatti, in questo caso, lo stesso criterio utilizzato nell’interpretazione del Discorso della montagna, criterio che non cancella, anzi sottolinea, il dettato della Legge scritta/orale, considerandolo valido e determinante, e tuttavia proponendone un superamento, che certamente non è da tutti ma che tuttavia resta l’obiettivo inteso dal Legislatore e registrato nella Legge inscritta nelle stelle, cioè nella natura. Con una differenza però piuttosto significativa, dal momento che il richiamo alla Legge naturale, fondata sull’autorità di un’espressione gesuana come il “ma io vi dico”, viene proposto come un “oltre” rispetto a ciò che Mosè ha dovuto accettare per venire incontro alla durezza di cuore dei suoi destinatari. Differenza che e un’ulteriore conferma del dibattito in corso ai tempi di Gesù tra coloro che si ritenevano anzitutto discepoli di Henoc e coloro che insistevano nel riferirsi a Mosé.

Tra “skopòs” e “telos”. Le due Leggi, quella incisa nelle stelle e quella di Mosè, potevano essere proposte in modo complementare, cosi che potessero, in qualche modo, chiarirsi reciprocamente. E questo spiegherebbe forse meglio anche la presenza, al termine del Discorso della montagna, della cosiddetta Regola d’oro (Mt 7, 12) a sua volta accolta e superata con l’aggiunta del senso positivo impressole da Gesù. Gesù non nega dunque la gravità di chi e imprigionato nella “durezza di cuore”, e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione e un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che l’obiettivo fissato (skopos) e una cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) e un’altra. (…)

Dallo “skopòs” al “telos”. Ciò che ho appena detto potrebbe comportare anche la presenza di un colore di fondo più adeguato per leggere l’intero testo di Mt 19, 3-12, dato dal contesto del Discorso della montagna, con l’implicito invito a tenere conto simultaneamente:

a) sia di ciò che dichiara la “littera” della Legge mosaica, con tutto quello che si dovrebbe sistematicamente cercare in essa come “spiritus”;

b) sia di ciò che va riferito all’intenzione del Creatore, con tutto ciò che attiene alla cosiddetta legge naturale o “lex naturae” incisa nelle stelle;

c) sia di ciò che attiene alla realistica situazione dell’uomo storico, con tutti i suoi limiti e le sue manchevolezze, compresa la “durezza del cuore”;

d) sia infine del completamento della giustizia con la misericordia.

            Ma cosa leggiamo in realtà concretamente nel Discorso della montagna a proposito del tema trattato in Mt 19, 3-12? (…)

Lasciando tra parentesi ciò che l’evangelista scrive tra una dichiarazione e l’altra, suggeriamo di considerare come colore di fondo di questi versetti la conclusione di Mt 5, 48: “Voi, dunque, siate perfetti (teleioi) come è perfetto (teleios) il Padre vostro celeste”.

La vita dei discepoli non potrà pretendere di muoversi in modo diverso da quello del Padre seguito fedelmente dal Figlio che essi ritengono loro unico maestro. Per cui anche il raggiungimento dell’obiettivo (telos) cui devono tendere (skopos), secondo il progetto inteso dal Padre/Creatore all’inizio (ap’arches), comporterà un itinerario più o meno lungo e faticoso come quello percorso dal Figlio/Redentore Gesù. Non c’e dunque, neppure per loro, la possibilità di sovrapporre “skopos” e “telos” senza considerare la distanza che dovrà essere superata durante il tempo della propria vita sulla terra. (…)

Si potrebbe allora concludere che la “durezza del cuore” (Mt 19, 8a) rivelatasi lungo il tragitto di questo passaggio dallo “skopos” al “telos”, che aveva costretto Mosé a reinterpretare il desiderio di Dio Creatore in modo tale da non imporre a nessuno un’incresciosa esclusione dal popolo di Dio, potrebbe interferire non poco nella realizzazione o meno dell’obiettivo fissato. Da qui la sua decisione di ammettere, nel caso specifico di una crisi di coppia, il ripudio, condizionandolo alla sottoscrizione di un atto formale. E si potrebbe mai pensare allora che Gesù, venuto “non per abolire la Legge o i Profeti… ma a dare pieno compimento (plerosai)” ad essi (Mt 5, 17), abbia potuto abolire la concessione di Mosé, proprio in un punto che qualificava chiaramente, e in modo determinante, la sua predicazione e cioè la misericordia? Il contesto dei gesti e delle parole di Gesù nei confronti di chi apparterrebbe a tutti gli effetti alla categoria dei peccatori pubblici, dovrebbe allora essere inteso in modo tale da confermare parole solenni e altamente provocatorie come le seguenti: “siate figli del Padre vostro che e nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45), accompagnandole con la giustificazione che Gesù stesso avrebbe dato al suo modo di comportarsi: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati “(Mt 9, 12).

Alcune possibili conseguenze. Le indicazioni pastorali, che potrebbero a prima vista apparire nuove e perfino rivoluzionarie, in realtà non sarebbero altro che la conferma esattissima dell’insegnamento del NT, ricevuto certamente con sensibilità diversa in Oriente e in Occidente, ma che conferma l’unita del respiro dei due polmoni della Chiesa, l’uno e l’altro preoccupati di agire in tutto e per tutto secondo lo spirito appunto dell’unico Vangelo. Infatti, non cambia, in tutto questo, il giudizio di Gesù sulla negatività di una decisione che contrapporrebbe la volontà del Dio Creatore, che ha inciso la sua Legge nelle stelle, alla volontà del Dio Redentore, che accetta l’accondiscendenza di Mosé verso un popolo di “dura cervice”. I Padri delle Chiese Orientali lo avevano capito molto bene, dal momento che avevano sempre contrastato i perfezionisti e gli spiritualisti di tutti i tipi che facevano di tutto per separare il Dio Creatore dal Dio Redentore. La soluzione in realtà non sta nello sposare l’irrigidimento degli spiritualisti e dei fondamentalisti di tutti i tipi, ma nel fare la giusta e necessaria distinzione tra peccato e peccatore, che è una delle eredità più preziose del NT.

Un secondo aspetto del problema. Per affrontare brevemente un altro aspetto della nostra problematica leggiamo anzitutto ciò che dice lo stesso evangelista Matteo, presentando l’obiezione dei discepoli all’insegnamento di Gesù e la risposta del Maestro. “Gli dissero i suoi discepoli: ‘Se questa e la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi’. Egli rispose loro: ‘Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali e stato concesso. Infatti, vi sono eunuchi che sono nati cosi dal grembo della madre e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca’” (Mt 19, 10-12).

La domanda cruciale che nasce da questo testo e: quale importanza dare alla dichiarazione di Gesù che “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali e stato concesso”(Mt 19, 11)? Il seguito della risposta, costituito dal riferimento agli “eunuchi”, ha portato spesso gli esegeti a interpretare la dichiarazione di Gesù appiattendola unicamente alla condizione degli “eunuchi” (vergini e celibi) per evidenziare la liberta concessa da Gesù, con la sua vita e con il suo insegnamento, ad andare oltre il precetto stabilito nel libro della Genesi in due testi ben precisi e conosciutissimi: Gen 1, 28: “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi”” e Gen 2, 24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”. (…)

L’esemplificazione prodotta da Gesú, che distingue ben tre categorie di “eunuchi”, autorizza in realtà a dare un’interpretazione molto più ampia di quella cosiddetta tradizionale. Infatti, Gesù spiega che si può dare una vocazione all’”eunuchia” inscritta nella natura; una vocazione imposta purtroppo dagli uomini; una vocazione scelta per il regno dei cieli. Una simile triplice situazione, constata da Gesù, porta in modo chiarissimo ad una vera e propria de colpevolizzazione totale nei confronti di qualsiasi tentativo di “legiferare” in materia, se questo fosse fatto senza tener conto della persona umana interessata, in quanto tale.

Il superamento inteso da Gesù. Gesù va chiaramente verso un superamento della riduzione delle tre situazioni esemplificate alla sottomissione supina e fatalistica legata o alla natura fisica o alla violenza degli uomini o, infine, alla cosiddetta inclinazione individuale. Infatti, tutte e tre le situazioni possono essere valutate in modo tale che si trasformino in ciò che oggi chiameremmo “vocazione/elezione”. Cosa che però può risultare chiara solo a “coloro ai quali e stato concesso”. (…)

Ma cosa comporta questa particolare concessione? (…)

Dovrebbe valere, infatti, anche in questo, il principio paolino della Lettera ai Romani: il Signore ha posto tutti sotto la constatazione della propria inadempienza, nei confronti della propria pretesa di giustificazione, per far prendere atto a tutti della necessità della Sua grazia e del Suo perdono (Rm 2, 1-6,14). In realtà può scegliere liberamente soltanto chi accetta e fa sua serenamente la propria “kenosis”, cioè la propria umiliazione e il proprio sentirsi “minimo”. Ma in tutto questo non c’è forse anche l’accettazione di sentirsi appunto peccatore? E si potrebbe trovare una situazione migliore di questa per essere completamente disponibile a lasciarsi salvare dall’unico che può essere riconosciuto, definito e accettato come proprio, necessario, Redentore? Ma il Redentore e il Creatore non perseguono forse, l’uno e l’altro, lo stesso obiettivo: quello di portare l’uomo alla pienezza della sua vocazione originaria?

La distinzione tra “de externis” e “de internis”. Finora e stata proposta, come verifica necessaria per provare l’autenticità e la sincerità del proprio sentirsi peccatore, la decisione-imposizione a se stesso e agli altri di non continuare a peccare e dunque di non vivere assolutamente più more uxorio con un’altra donna/uomo. Ma si è trattato sempre, ne poteva essere altrimenti, di un giudizio legato alle realtà esterne (de externis). E dunque ci si è riferiti sempre al rigore della Legge (dura lex sed lex), senza alcuna possibilità di accondiscendenza alla durezza del cuore regolata dall’atto di ripudio. Si è trattato davvero soltanto di un’interpretazione voluta da Gesù? L’approfondimento che ho appena proposto permette, mi sembra, di poter interpretare altrimenti il testo evangelico. Ma forse si deve prendere atto che, nell’interpretazione ritenuta tradizionale, si è trattato anche di un’applicazione del testo evangelico condizionata da altre fonti ritenute più giuridicamente esatte. E se ci fosse qualche dubbio a questo riguardo, non sarebbe forse legittimo applicare un adagio riconosciuto pastoralmente nella massima “in dubiis libertas”? Del resto non si dovrebbe trascurare troppo superficialmente il fatto che la Tradizione interpretativa delle nostre Chiese Sorelle Orientali e sicuramente altra! (…)

L’unica strada possibile è quella di accettarsi nella propria debolezza, aiutandoci tutti, fraternamente, ad imboccare l’unica strada, quella della fede ovviamente, che ci permetta di essere ricevuti tutti, sia pure come “minimi”, nel regno dei cieli. Protestava San Paolo: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9, 22), dimostrando cosi di essere autentico discepolo di chi aveva dichiarato solennemente: “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12, 47).

Necessità di un approfondimento.

In tutto ciò, che abbiamo appena cercato di dire, resta la constatazione di Gesù: “Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali e stato concesso”. Si noti pero che Gesù sembra mettere sullo stesso livello sia coloro che accettano questa umiliazione data dalla natura, sia coloro che la subiscono per la violenza degli uomini, sia infine coloro che la scelgono per il regno dei cieli.

La contestualizzazione che risulterebbe da una simile interpretazione di questi versetti, sarebbe davvero sconvolgente, perche l’unico valore che verrebbe in questo modo rivendicato da Gesù sarebbe quello di scegliere sempre, in qualunque situazione, con piena dignità e liberta, e con decisione personale, la strada solo apparentemente imposta dalla natura, dalla violenza degli uomini o dalle proprie inclinazioni, per entrare nel regno dei cieli. A questo punto pero dovrebbe subentrare tutto ciò che risulterebbe da un maggiore approfondimento dell’immagine di Dio perseguita dagli uomini e dal tentativo, fatto da questi ultimi, di collegare quella immagine al riflesso di essa nella struttura e nella vita quotidiana dell’essere umano (eikona).

A questo punto potremmo perfino evocare umilmente quella particolare esigenza profetica che auspicava e prevedeva, per il popolo di Dio, una Nuova Alleanza fondata non più su una Legge, scolpita nelle stelle o nelle pietre mosaiche, ma direttamente nel cuore. Si tratterebbe, infatti, di un’Alleanza strettamente connessa al cuore umano e dunque alla coscienza, con corrispondente responsabilità, la cui perfetta conoscenza appartiene unicamente a Dio. La Chiesa, infatti, pur consapevole della legittimità della propria autorità nelle cose esterne (de externis), non ha mai preteso, né poteva farlo, di sostituirsi nel giudizio sulle cose interne (de internis) che appartengono unicamente a Dio. La sua missione, ed essa ne è da sempre consapevole, e quella di informare e formare le coscienze, appunto, ma non di sostituirsi ad esse. (…)

fonte: ”Urbaniana University Journal” 3 / 2014, pp. 51-73.

Testo e note                            www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150320gargano.pdf

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350966

Superiori generali degli ordini religiosi tedeschi a favore d’un diverso atteggiamento verso i divorziati

Più misericordia nell’atteggiamento verso i divorziati risposati e atteggiamento diverso di fronte ai fallimenti di progetti di vita: è quanto desiderano dalla Chiesa gli ordini religiosi tedeschi. In una presa di posizione pubblicata lunedì a Bonn in riferimento al prossimo Sinodo sulla famiglia in Vaticano, la Conferenza dei superiori degli ordini religiosi tedeschi (DOK, Deutsche Ordensoberenkonferenz) ha dichiarato che dovrebbe essere reso possibile l’accesso ai sacramenti, a certe condizioni, anche ai cattolici che hanno contratto un secondo matrimonio civile.

In generale, i rappresentanti degli ordini maschili e femminili affermano la necessità di tenere maggiormente in conto la coscienza dei cattolici, in questioni di sessualità, convivenza e matrimonio e di concedere loro maggiore fiducia. “Credenti che costituiscono il nucleo essenziale delle comunità chiedono espressamente ai responsabili della nostra Chiesa di concedere loro maggiore fiducia”, si afferma. “Desiderano fondamentalmente un sostegno alla formazione della coscienza e un aiuto nel processo decisionale. Criticano però anche il fatto che alcuni pastori cerchino di influenzare molto fortemente le loro decisioni di coscienza”.

Inoltre, i superiori generali si esprimono per un modo diverso di considerare la sessualità. “L’idea che ogni singolo atto sessuale debba essere aperto al desiderio di avere un figlio, la maggior parte dei fedeli non la condivide più”, si afferma. I giovani devono essere aiutati a trovare una sessualità personale nella loro formazione, a imparare i modi di espressione dell’amore e a trovare le varie forme e gradualità della tenerezza”.

Maggiore apertura si augurano i rappresentanti degli ordini religiosi anche verso gli omosessuali e le loro convivenze. “I cristiani che si dichiarano omosessuali si orientano per un progetto di vita di coppia basato sull’impegno duraturo e sulla fedeltà. La maggior parte di loro non può accettare di vivere in coppia mantenendo una costante continenza sessuale”.

Secondo la DOK, alcuni di questi problemi sono da troppo tempo all’ordine del giorno della Chiesa senza che siano state trovate risposte. Ritengono ci sia una diffusa discrepanza tra la dottrina della Chiesa e la vita dei fedeli. Questo influisce negativamente su un annuncio aperto del Vangelo. Gli ordini religiosi rinviano al contempo alla necessità di un’ampia offerta di centri di consulenza della pastorale per la famiglia e per i giovani in Germania. Ritengono che tale offerta possa essere ampliata grazie al sostegno dei conventi e degli ordini religiosi.

La Conferenza dei superiori degli ordini religiosi tedeschi è l’organismo che unisce i superiori generali degli ordini religiosi e delle congregazioni in Germania. Ne fanno parte circa 430 superiori, che rappresentano circa 22.800 religiose e religiosi in Germania.

Katholische Presseagentur Österreich                    www.kathweb.at, 16 marzo 2015

traduzione:                  www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt201503/150317kathweb.pdf

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