UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 972 – 23 luglio 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
02 BETTAZZI MONS. LUIGI Il cordoglio di Papa Francesco
02 Un pastore radicato nel Concilio (Arrigo card. Miglio)
03 Il Vescovo Luigi Bettazzi (Enzo p. Bianchi)
04 Padre conciliare. Luigi Bettazzi: «Il Vaticano II che ho vissuto»
07 Bettazzi, vescovo sui passi del Concilio Voleva una Chiesa «serva e povera»
09 “Eucarestie di desiderio”
10 «Né teista, né ateista, né anti teista». Scambio di lettere con Berlinguer
12 La lettera a Berlinguer
13 Luigi Bettazzi, il vescovo del Concilio
12 È morto monsignor Bettazzi, costruttore di pace
13 La Chiesa di Bettazzi
16 Dal concilio a Sarajevo un vescovo in uscita
17 Addio a Luigi Bettazzi, voce di Pace
18 Alla sinistra di Dio con don Tonino
19 Ciao, monsignor Bettazzi
20 Bettazzi, indole ribelle a ogni conformismo che fece d’Ivrea un centro della chiesa
21 Spigolature
25 CISF Studi sulla Famiglia Newsletter CISF – N. 27, 12 luglio 2023
27 DALLA NAVATA XV domenica del tempo ordinario (anno A)
27 Nel mondo per essere fecondi non perfetti
28 SINODO Cammino sinodale, il «discernimento» Ecco le linee guida della fase sapienziale
29 Quali ponti costruire nella Chiesa con intelligenza, perizia, affetto
30 Immaginare e fare sinodo
35 VESCOVI EUROPEI Non esiste un “diritto fondamentale all’aborto”. Il richiamo della Comece
BETTAZZI mons. Luigi
Il cordoglio di Papa Francesco
Telegramma del Papa a firma del Segretario di Stato per ricordare l’ultimo padre conciliare vivente
Per la morte dell’ultimo padre conciliare vivente, il vescovo Luigi Bettazzi, scomparso a 99 anni, il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, invia un telegramma a nome di Papa Francesco, ricordando il presule “così tanto amato e apprezzato da coloro che ha incontrato nel suo lungo e fecondo ministero”.
Il Papa lo ricorda – prosegue Parolin – “quale grande appassionato del Vangelo che si è distinto per la vicinanza ai poveri diventando segno profetico di giustizia e di pace in tempi particolari della storia della Chiesa”.
Il telegramma descrive il vescovo Bettazzi anche come “uomo di dialogo e punto di riferimento per numerosi esponenti della vita pubblica e politica italiana”, e lo definisce “intrepido testimone del concilio”.
Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della CEI, ha fatto sapere di essere spiacente di non essere presente [in missione per la pace negli USA], e ha ricordato che Bettazzi “è stato un Vescovo del Concilio Vaticano II. Non è mai entrato, né prima né dopo, nella folta schiera dei profeti di sventura, coloro che “non senza offesa” al successore di Pietro preferivano e preferiscono continuare ad usare le armi del rigore credendole indispensabili per difendere la verità e evocando improbabili periodi passati senza imparare dalla storia”.
E ancora, “era libero perché amava Dio e la Chiesa. Cercava il dialogo non perché ambiguo, facile, ma proprio perché convinto della propria identità, senza ossessioni difensive che vedono il nemico dove non c’è e non lo riconoscono dove, invece, si annida. Ascoltava per rispondere e non parlare sopra. Comunicava la gioia di essere cristiano e annunciava la chiamata a tutti ad esserlo. Amabile, instancabile, gentile ma per niente affettato, scomodo, ironico, colto senza mai essere supponente, parlava della Chiesa e dei poveri perché la Chiesa è di tutti, ma specialmente dei poveri”. Il cardinale Zuppi ha anche detto che Bettazzi aveva puntato prima di tutto sui laici, fin dagli anni Sessanta.
Redazione ACIstampa 18 luglio 2023
Un pastore radicato nel Concilio
Bettazzi ha attraversato una stagione ecclesiale in qualche modo unica, ha incontrato e si è confrontato con i principali protagonisti del Concilio e del post Concilio, scrivendo, intervenendo e non di rado provocando. Approfondimenti e valutazioni continueranno ancora a lungo, ma resta, per chi lo ha incontrato e conosciuto, la testimonianza di un pastore che ha speso la sua vita per far giungere a tutti la conoscenza dei testi conciliari. Uso appositamente la parola pastore, ben sapendo che non è rimasto certo estraneo al “conflitto delle interpretazioni”, ma, grazie all’esperienza vissuta come suo collaboratore per vari anni e come suo primo successore nella sede eporediese, devo sottolineare proprio il suo impegno pastorale, che ha cercato di tradurre in tutti i modi il magistero conciliare, a cominciare dalle costituzioni, quasi un ritornello in tutti i suoi interventi.
Incontrando una diocesi ricca di tradizione e di attività pastorali, non si stancò di riproporre con insistenza la “Sacrosanctum concilium” e la “Lumen gentium”; la “Dei verbum” fu al centro di uno dei due sinodi diocesani, il secondo, mentre il primo aveva come schema di fondo tutte e quattro le costituzioni. Il contesto sociale segnato dall’esperienza olivettiana e da altre realtà industriali, insieme alla responsabilità di Pax Cristi, provocava naturalmente una sua speciale attenzione alla “Gaudium et spes”, insieme alla “Pacem in terris” e al magistero sociale successivo. In questo particolare contesto sociale sono nate anche le varie “Lettere aperte” a diversi personaggi politici; la più conosciuta fu quella ad Enrico Berlinguer.
I diocesani hanno poi conosciuto una dimensione pastorale del vescovo Bettazzi che ad altri sfuggiva, ed è la dimensione locale, con una presenza puntuale e capillare in tutte le centoquaranta parrocchie della diocesi, nelle chiese e nei santuari della montagna, accanto in modo particolare alla vita di ogni sacerdote e dei suoi famigliari, nei momenti lieti e in quelli della sofferenza. Non si è trattato solo di una eccezionale capacità di movimento, visti i molti viaggi affrontati per i vari impegni (le ferie erano dedicate a visitare i preti Fidei donum della diocesi): il Canavese si è sentito non solo accettato ma scelto e via via sempre più amato, a cominciare dalle sue vallate ricche di sentieri e di mete in alta quota. Erano quelli anche i suoi giorni di silenzio, di deserto, fedele alla sua figura di riferimento, san Charles de Foucauld.
E c’è una terza dimensione pastorale che non va dimenticata: il riferimento a Pietro. San Giovanni XXIII era il Papa del Concilio e della “Pacem in terris”; con san Paolo VI c’era il comune legame con la Fuci; con san Giovanni Paolo II il rapporto divenne via via più intenso. Gli inizi non furono privi di qualche diffidenza, poi però il dialogo continuò con frequenza dalle due parti, fino alla visita pastorale di due giorni che Papa Wojtyła fece alla diocesi di Ivrea dal 18 al 19 marzo del 1990, preceduta, com’era abitudine del Pontefice, da una cena privata, svoltasi un mese prima, cui ebbi la grazia di partecipare: dire commovente è poco, ricordando le molte domande e la capacità di ascolto da parte del Papa e la confidenza fraterna e filiale con cui il vescovo rispondeva. Il rapporto di monsignor Bettazzi con il successore di Pietro ha visto infine in questi anni di Papa Francesco alcuni momenti culminanti. Penso anzitutto alla canonizzazione di monsignor Romero, che compensò una delle ubbidienze più difficili che gli era stata chiesta, quella di non partecipare ai funerali del vescovo ucciso. Un’altra fu quella di desistere, con altri due vescovi, dall’offrirsi in prigionia al posto di Aldo Moro. Grande gioia è stata la canonizzazione di Charles de Foucauld, alla quale prese parte lo scorso anno. E mi sia permesso concludere con un aneddoto. Parlando del magistero di Papa Francesco, spesso sottolineava che le tre visite compiute dal Papa alla tomba di don Mazzolari, di don Milani e di don Tonino Bello erano una vera enciclica per le nostre Chiese italiane, ed aveva riso di gusto quando un suo sacerdote gli disse un giorno che quell’enciclica non era stata scritta dal Papa con le mani «ma con…i piedi, sì, i piedi del pellegrino!».
Arrigo Miglio, suo vicario generale ad Ivrea ed ora cardinale
www.osservatoreromano.va/it/news/2023-07/quo-163/la-morte-di-monsignor-luigi-bettazzi-vescovo-emerito-di-ivrea.html
L’ultimo testimone di una stagione di rinnovamento di Giovanni Zavatta
www.osservatoreromano.va/it/news/2023-07/quo-163/l-ultimo-testimone-di-una-stagione-di-rinnovamento.html
Tonino e Luigi messaggeri di «una pace che va osata» di Daniele D’Elia
www.osservatoreromano.va/it/news/2023-07/quo-163/tonino-e-luigi-messaggeri-di-una-pace-che-va-osata.html
Il Vescovo Luigi Bettazzi
Il Vescovo Luigi Bettazzi è sempre stato un grande amico, mio personale e della comunità di Bose. Negli anni ’60, quando ero solo a Bose, e in seguito, quando la fraternità nascente era vista negativamente per la presenza di cristiani cattolici, protestanti e ortodossi, lui veniva a trovarmi: partecipava alla nostra preghiera e accoglieva l’invito alla nostra tavola, consolandoci e confermandoci nella fede e nella vocazione monastica. Negli anni successivi mi coinvolse in molte iniziative ecclesiali facendomi partecipare come relatore ai tre sinodi diocesani e ad altre assemblee pastorali.
È poi sempre tornato con regolarità a Bose, di solito il 15 agosto, festa di Maria Assunta, e in occasione degli incontri e dei convegni ecumenici. Quando è avvenuto l’allontanamento da Bose di me, di altri due fratelli e di una sorella ha cercato la riconciliazione tra noi e la comunità recandosi anche a Bose e incontrando il priore allora in carica e l’economo, senza trovare una porta aperta dall’altra parte. È venuto anche più volte a Torino a pranzo da me mostrandomi sempre amicizia fedele e fraternità ecclesiale.
Ieri, alla notizia che era giunta la sua ultima ora, mi sono recato da lui, al suo letto di morte. Era lucido, gli occhi ancora aperti e subito mi ha mostrato la sua gioia stringendomi la mano. C’era anche il Vescovo di Biella, mons. Roberto Farinella (oriundo del Canavese, ordinato presbitero da lui). Bettazzi ha preso le sue mani, le ha incrociate con le mie e ha evocato la riconciliazione: voleva che il Vescovo facesse di tutto per la riconciliazione tra la comunità e i fratelli allontanati. Poi si è segnato con il segno della croce. Abbiamo pregato il Padre Nostro, il Magnificat e il Vescovo ha letto le Beatitudini. È anche intervenuto il Vescovo di Ivrea, mons. Edoardo Cerrato.
Poi Giuliana [Bonino-Pax Christi] è tornata per bagnargli le labbra con acqua mentre io gli tenevo la mano nella mia. A un certo punto ho pregato dal rito della morte: “Parti anima cristiana nel nome del Padre che ti ha creata, nel nome del Figlio che ti ha redenta, nel nome dello Spirito santo che ti ha santificata”. Il Vescovo Luigi si è ancora segnato con il segno della croce, poi è entrato in un sonno profondo e nel giorno del Signore, nell’ora della resurrezione di Cristo, ha fatto il suo transito da questo mondo al Padre.
Diciamo solo un grazie al Signore che ci ha dato un tale testimone: per noi è stato colui che ci ha confermato nella fede, consolato nelle prove, amico dei poveri e degli ultimi
p. Enzo Bianchi
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/192895/il-vescovo-luigi-bettazzi
Padre conciliare. Luigi Bettazzi: «Il Vaticano II che ho vissuto»
A 60 anni dall’apertura, parla il vescovo emerito di Ivrea. «Io giovane presule mi trovai immerso nell’episcopato mondiale. Mi resi subito conto della libertà del dibattito»
Quasi sempre a definire la grandezza di un evento sono le statistiche: quanti partecipanti e da quali Paesi, i giornalisti accreditati, i litri d’acqua che verranno bevuti. Nell’immaginario collettivo, nel cuore della gente semplice, invece, l’11 ottobre 1962, il giorno di apertura del Concilio Vaticano II, è segnato soprattutto dalle parole di Giovanni XXII, dal “discorso della luna”.
Quell’invito tenerissimo a portare ai bambini la carezza del Papa, la spinta a dire una parola buona a chi è nella tristezza, sono un’eredità trasmessa dai genitori ai figli e conosciuta anche da tanti ragazzi di oggi. Un messaggio meraviglioso, certo, ma che andrebbe quantomeno collegato all’allocuzione “Gaudet Mater Ecclesiæ”
www.totustuustools.net/magistero/g23gaude.htm
in cui, inaugurando l’assise, il Pontefice sottolineava come la Chiesa, nel combattere gli errori, «preferisse usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». Una svolta, l’annuncio di un cambiamento profondo di cui forse non si resero conto neppure tutti i padri conciliari. Allora, monsignor Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi (1968-1985) aveva 39 anni. Avrebbe partecipato direttamente al Concilio nella seconda sessione.
«L’11 ottobre 1962 – spiega il presule che compirà 99 anni il 26 novembre – risultò soprattutto un giorno di folclore, con gli oltre 2.000 vescovi del mondo che entravano processionalmente in San Pietro, apparati nei modi più vistosi (in particolare quelli di rito orientale) . Si pensava che in poco tempo avrebbero approvato le decine di documenti preparati da apposite Commissioni. Io stesso ne ero convinto: negli ultimi tempi, per la sollecitazione di papa Giovanni al cardinale arcivescovo di Bologna,
Giacomo Lercaro (α1891-ω1976) è di inserire qualche suo prete nelle Commissioni preparatorie, mi trovai nella Commissione dei Seminari, dove gli esperti (tra cui il famoso domenicano francese padre Congar [α1904-ω1995] avevano preparato una decina di documenti. E mi resi conto che si trattava di problemi quasi ovvi, ad esempio la preminenza della teologia di san Tommaso d’Aquino o la più intransigente severità in ambito sessuale».
Lei entrò in Concilio durante la seconda sessione, il 29 settembre 1963, una settimana prima del 4 ottobre quando sarebbe stato consacrato vescovo ausiliare di Bologna. Pastore giovanissimo per i parametri di oggi.
Sì entrai in Concilio quando stavo per compiere 40 anni (in ambito missionario v’erano alcuni vescovi anche un po’ più giovani, in Europa lo si diveniva in genere dopo i 50 anni). L’assemblea era raccolta in lunghi banchi a gradini nel corridoio centrale della Basilica, con il posto assegnato secondo la data della propria nomina vescovile: presso l’altare i cardinali e i patriarchi, poi giù giù, verso l’ingresso, gli arcivescovi e i vescovi; ovviamente agli inizi ero tra gli ultimi. Mi trovai immerso nell’episcopato mondiale, con vescovi autoctoni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, e capii perché la Chiesa si definiva cattolica, cioè universale, mentre pensavamo quasi che la Chiesa fosse Roma con l’annessione di tutto il mondo. E subito mi resi conto della libertà con cui si discuteva, nei corridoi laterali lungo le soste (v’erano pure due bar di analcolici), ma anche al centro, nel corso dei dibattiti sui documenti che venivano man mano distribuiti. Era stato lo stesso papa Giovanni a incoraggiare questa libertà di discussione, rimandando di qualche giorno la votazione per le Commissioni dei vescovi circa i vari argomenti, contro quelle proposte dalla Segreteria – praticamente dalla Curia Vaticana – e rimandando d’autorità a rifare il Documento sulla Rivelazione, rifiutato da una maggioranza troppo esigua per essere accettata dalle norme imposte alla discussione. Ci rendemmo anche conto che, ad avviare le discussioni erano in genere i vescovi più organizzati, come i tedeschi e gli olandesi, abituati a dialogare con i protestanti, o i francesi e i belgi, abituati a muoversi in ambienti di laicità. Gli americani del Nord insistevano per la libertà religiosa, quelli meridionali per una Chiesa attenta ai poveri.
Cos’è rimasto soprattutto del Concilio? Penso ovviamente in particolare alle Costituzioni.
Sui sedici Documenti che sono stati emessi, più che alle tre Dichiarazioni ed ai nove Decreti, sono appunto le Costituzioni che segnano la novità, ma ancora insufficienti, nella vita della Chiesa. Come noto sono sulla Divina Liturgia, sulla Divina Rivelazione, sulla Chiesa in sé e sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Così La Liturgia non è più vista come l’insieme delle norme per il culto, bensì come l’orientamento per la preghiera comune dei cristiani, con la lingua dei singoli popoli ed una maggiore comprensione e semplificazione dei riti, ma – è da dire – senza una più ampia conversione di mentalità, per cui ancora oggi si vorrebbe qua e là tornare alle antiche formule, come più devote e convincenti. Così la Bibbia, la cui lettura veniva sconsigliata ai singoli cristiani come rischio di eccessiva familiarità con i protestanti, viene invece messa in mano a tutti i battezzati, ma sempre con le esitazioni di chi sa che non è facile comprendere quanto è stato scritto millenni fa con mentalità molto diverse dalla nostra. La Costituzione sulla Chiesa ne rivoluziona il concetto: essa viene affrontata in primo luogo non più come «società perfetta» fondata sulla gerarchia, ma come popolo di Dio, in cui ogni battezzato è parte importante, mentre la gerarchia, pur caratterizzata dal Sacramento dell’Ordine, è al servizio della vita della comunità cristiana, nelle singole esperienze e nella loro collettività.
Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, è come tutti sanno la Costituzione pastorale. Un testo sicuramente legato al tempo storico in cui fu redatto ma che resta anche molto attuale. Per esempio in rapporto allo stile di essere comunità centrata sul Vangelo. O nel richiamo alla necessità di dialogare a tutto tondo con la cultura contemporanea, partendo dall’antropologia.
Fin dagli inizi dichiara che le gioie e le speranze (in latino “Gaudium et spes”) «le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Tutta la Costituzione continua ad esporre la dottrina del Vangelo come una conferma e uno sviluppo di quanto è “genuinamente umano”; dopo aver riflettuto sulla dignità della persona umana, sulla comunità umana e la sua attività, passa da alcuni esempi, dal matrimonio e la famiglia alla cultura, dalla vita economica alla politica, dalla comunità internazionale alla pace. E qui alcuni vescovi (ad esempio il cardinale Feltin arcivescovo di Parigi e il cardinale Alfrink di Utrecht) chiedevano la condanna della guerra, di ogni guerra (che in tempi atomici è una follia, come aveva dichiarato papa Giovanni nella “Pacem in terris”), con la resistenza, ad esempio, dei vescovi degli Usa ( allora impegnata nella guerra anticomunista in Vietnam) che supplicavano: «non pugnalate alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana». Eppure in questa Costituzione vi è l’unica condanna (come invece gli anatemi degli altri Concili contro gli errori del tempo), ed è quella (al n 80 ) contro “la guerra totale” come oggi è di fatto ogni guerra: ogni atto di guerra che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione.
Congar diceva che si sarebbe pienamente capito il Concilio 50 anni dopo. Oggi ci siamo.
È vero che dopo cinquant’anni la pastorale di papa Francesco richiama il Concilio. La sinodalità si rifà alla collegialità della “Lumen gentium”, ampliando la responsabilità dei vescovi con il Papa a quella di ogni battezzato per la vita della chiesa, mentre l’attenzione ai poveri, agli scarti del mondo, realizza quella Chiesa dei poveri avviata nel Concilio ma che papa Paolo frenava, nel timore di interpretazioni politiche per la guerra fredda allora in corso tra Usa e Urss, promettendo che ne avrebbe trattato in un’enciclica, che fu la “Populorum progressio” del 1967, che peraltro tratta della pace, più che della povertà.
w- ww.vatican.va/content/paul-vi/it/encyclicals/documents/hf_p-vi_enc_26031967_populorum.html
Lei aderì al patto delle catacombe. In che modo è stato di ispirazione per la sua vita? E ha cementato legami con gli altri firmatari?
Visto che il Papa esitava a trattare della Chiesa dei poveri, il Movimento interessato, che in Roma aveva sede al Collegio belga, verso la fine del Concilio (il 16 novembre 1965) promosse un libero incontro di Vescovi alle Catacombe di Domitilla. Vi si trovò una quarantina di vescovi venuti occasionalmente a conoscenza dell’iniziativa. Il vescovo belga, monsignor Himmer di Tournai [α1902-ω1994) presiedette l’Eucaristia e presentò alla fine un documento secondo cui ogni singolo vescovo si impegnava esemplarmente ad una vita più povera (nell’abitazione e nei mezzi di trasporto), ad una pastorale più vicina ai lavoratori manuali ed ai settori più emarginati, e a far gestire le finanze sue e diocesane da laici affidabili. Quarantadue firmammo (casualmente ero l’unico italiano) e ci impegnammo a far firmare da vescovi amici, così che al Papa furono portate oltre 500 firme. Non ci ritrovammo più se non con gli amici di prima (ero nel gruppo di una ventina di vescovi, da ogni parte del mondo, ispirati da fratel Charles De Foucauld, oggi santo).
Riccardo Maccioni Avvenire 11 ottobre 2022
W ww.avvenire.it/chiesa/pagine/luigi-bettazzi-il-concilio-vaticano-ii-che-ho-vissuto
Bettazzi, vescovo sui passi del Concilio Voleva una Chiesa «serva e povera»
Il presule, morto domenica a 99 anni, era l’ultimo padre conciliare italiano. Aveva partecipato alle assise dal 1963. Testimone del “Patto delle catacombe”, aveva conquistato l’aula con la sua riflessione sulla collegialità episcopale. Un padre conciliare che ha sempre visto nel Vaticano II «più pastorale che dogmatico», il compimento di molti dei suoi “sogni” giovanili e il migliore strumento di annuncio della fede ai lontani. Ma anche un’assemblea che per i suoi contenuti e intenti programmatici ha ancora molto da dire con il suo «già e non ancora» al futuro della Chiesa. Si può condensare in questa immagine il rapporto con il Concilio del vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, morto alla soglia dei 100 anni (era nato il 23 novembre 1923) la scorsa domenica mattina ad Albiano di Ivrea.
Con Bettazzi, come è stato scritto in questi giorni, scompare l’ultimo padre conciliare italiano (era il vescovo ausiliare del carismatico cardinale di Bologna Giacomo Lercaro): partecipò a 40 anni alla seconda sessione nel 1963 e solo il 4 ottobre di quello stesso anno fu consacrato presule nella Basilica di San Petronio a Bologna.
Gli ultimi superstiti tra i pastori di quella storica assise (composte da circa 2.500 vescovi) voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI sono oramai solo quattro:
- il messicano José de Jesús Sahagún de la Parra, 101 anni (1° gennaio 1922) e ultimo testimone della sessione di apertura nell’11 ottobre 1962;
- Victorinus Youn Kong-hi, della Corea del Sud, 98 anni (8 novembre 1924);
- l’indiano Alphonsus Matthias, 95 anni (22 giugno 1928);
- il cardinale nigeriano Francis Arinze, 90 anni (1° novembre 1932).
Ma Bettazzi è stato, fino a domenica scorsa, soprattutto l’ultimo testimone della firma del “Patto delle Catacombe” il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Vaticano II, l’8 dicembre dello stesso anno. A quello storico incontro avvenuto alle Catacombe di Domitilla a Roma dopo una solenne celebrazione eucaristica erano presenti figure carismatiche come Hélder Pessoa Câmara e.
Hélder Pessoa Câmara e José Maria Pires
Successivamente, al Patto aderirono molti altri padri conciliari dei diversi continenti che condividevano la sfida di una « vita di povertà» e il desiderio di una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito Giovanni XXIII. «L’impegno, denominato “il Patto delle Catacombe”, fu poi firmato da centinaia di vescovi e fu affidato a Lercaro, che lo portò a Paolo VI – ha raccontato lo stesso Bettazzi alcuni anni fa insieme al risultato delle sue consultazioni che, fra l’altro, suggerivano la soppressione dell’esercito pontificio e un distacco dai legami tradizionali con l’aristocrazia romana, mentre indicavano, come primo indice di povertà, nel mondo attuale, la trasparenza dei bilanci».
È significativo ancora oggi tornare con la mente al primo intervento di Bettazzi sulla «collegialità episcopale» nell’Aula di San Pietro durante la seconda sessione del Vaticano II nel 1963. L’intervento di Bettazzi fu salutato con stima e vivo apprezzamento e per questo annotato nei suoi diari (Quaderni del Concilio,
Jaca Book, 2009) da un teologo del rango di Henri de Lubac (α1896-ω1991)
E fu lo stesso giovane ausiliare di Lercaro a rievocare il senso del suo contributo: « Preparato dal centro bolognese di don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, voleva dimostrare che la collegialità era nella prassi della Chiesa romana; il cardinale Giacomo Lercaro, per cui era stato preparato, per vari motivi, non era stato in grado di farlo. Lo rielaborai e lo esposi in assemblea concludendo che la parola “collegio” contestata da alcuni, perché presso i romani indicava un’assemblea di uguali, era invece usata nella liturgia di san Mattia, inserito nel “collegio degli apostoli”».
Bettazzi ha lasciato la sua “impronta” indiretta su testi conciliari come il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo la Gaudium et spes. Quest’ultimo testo rappresentò per il giovane presule un’autentica bussola di orientamento per la sua futura vita di pastore nel post-Concilio soprattutto durante il suo lungo governo (33 anni) nella diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999 e per i suoi 17 anni alla guida di Pax Christi (1968-1985).
È giusto ricordare che Bettazzi fu uno dei motori, a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965, per l’avvio della causa di canonizzazione del “suo” papa Giovanni XXIII [che in uno scritto l’aveva designato vescovo al suo successore]. A testimoniarlo sono le annotazioni del grande teologo domenicano francese
Yves Marie Congar (α1904-ω1995) nel volume da poco ripubblicato dalla San Paolo Diari del Concilio, 1960-1966.
Come certamente singolare è stata la sua amicizia intrattenuta con il venerabile il vescovo don
Tonino Bello (α1935-ω1993) «Lo indicai – raccontò a chi scrive – come mio successore per la sua attenzione ai poveri e agli ultimi alla guida di Pax Christi al cardinale presidente della Cei di allora, Anastasio Alberto Ballestrero. E la proposta fu accettata».
Un rapporto di stima e di confronto soprattutto teologico fu quello che Bettazzi intrattenne con il cardinale Giacomo Biffi, conosciuto a Parigi nel lontano 1951, di cui rammentava spesso l’«esemplare omelia» tenuta ai funerali di don Giuseppe Dossetti a Bologna nel 1996. «Pur nelle diversità di vedute ecclesiali – confidava – ci siamo voluti bene e gradì molto la mia ultima visita prima della sua morte nel 2015. Ci salutammo e benedicemmo da amici».
Un ultimo spezzone. Significativo e originale della lunga vita di Bettazzi, originario di Treviso, ma da sempre figlio della Chiesa di Bologna, era il poter presiedere, ogni anno, finché le forze l’hanno sostenuto, la Messa ogni 4 agosto («Quasi sempre la prima Eucaristia mattutina», raccontano i frati predicatori) nella Basilica patriarcale di San Domenico. Qui infatti venne ordinato prete il 4 agosto 1946 dall’allora cardinale di Bologna, Giovanni Battista Rocca di Corneliano. E qui tornò per i suoi 75 anni di Messa nel 2021 con l’attuale cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. «Il mio essere qui a Bologna ogni anno – amava ripetere – è per ringraziare il Signore di essere sacerdote per sempre».
Filippo Rizzi Avvenire 19 luglio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202307/230719rizzi.pdf
“Eucarestie di desiderio”
Oggi abbiamo pianto in molti, ma subito abbiamo sorriso, alla notizia mattutina della morte di Luigi Bettazzi, vescovo costruttore di pace, quindi beato, come dice Gesù in Matteo 5,9. Abbiamo sorriso come certamente ha fatto lui, valicando il colle dalla vita limitata alla vita piena. Sapeva unire ai problemi più gravi, anche drammatici, il sorriso serio, che alleggerisce la paura e sostiene la speranza attiva.
Forse pochi lo conoscono da più tempo di me: dal 1956 o 57, cioè da circa 65 anni, quando era vice-assistente nazionale della Fuci, e io tra i dirigenti centrali, poco più che ventenne. Via via nei decenni, tanti hanno visto fiorire in lui le qualità che allora cominciavamo a riconoscere. Negli ultimi circa 15 anni ha sempre partecipato agli incontri annuali che una dozzina di noi, allora nella Fuci e rimasti collegati in vari impegni, abbiamo realizzato in varie parti d’Italia, da Messina a Torino, Firenze, Roma, ecc. Lo chiamiamo il gruppo “Fuci 60”. Lui veniva sempre, come uno di noi. Almeno una volta ha detto messa in una casa delle nostre. Portava sempre le sue battute, come questa: «Se arrivo a cento anni, sono un prete… secolare!». E le sue barzellette…
Gli ho fatto visita il 3 luglio scorso, dodici giorni fa, quando la sua condizione, fino ad allora buona, si fece seria e critica. Sono molto grato a chi lo assisteva con cura e amore per avermi invitato a vederlo e ascoltarlo. Era fisicamente prostrato ma lucido, comunicativo e sorridente. Mi ha ripetuto tre volte, nonostante la fatica, perché lo ricordassi bene, un punto che immagino sia nel suo ultimo libro, che dovrebbe uscire presto. Da tempo scriveva un libro all’anno per tenersi attivo. Mi ha detto e ribadito questa osservazione: l’ultima cena di Gesù era la cena ebraica, perciò vi partecipavano non solo i dodici apostoli, ma le loro famiglie, le donne e i bambini. C’erano anche le donne, non solo gli apostoli! Voleva che ricordassi bene questa sua sottolineatura. Gli ho portato il saluto e l’affetto degli amici comuni, specialmente del piccolo gruppo che continuerà a riunirsi nella memoria di lui.
Ho un altro ricordo importante, poco noto, che non compare tra gli interventi affettuosi e caldi oggi in rete. Nel pieno della pandemia, aprile 2020, le chiese erano chiuse. Qualcuno pensò di fare “eucaristie domestiche”. Erano vere eucaristie? Io scrissi una lettera ai giornali per dire: una soluzione c’è, nell’emergenza eccezionale. Ricordando che, prima dell’invenzione del clero, «tutti i credenti … nelle case spezzavano il pane» ecc. (v. Atti degli apostoli), chiedevo che si riconoscesse ad una comunità familiare la possibilità, volendo, di compiere il «fate questo in memoria di me», come Gesù ha chiesto che facciamo, nella viva memoria di lui. Che sia definito come sacramento o no, non è decisivo: è certamente memoria reale di Gesù risorto, presente con il suo Spirito, come ci ha promesso. Non sarebbe stato un rifiuto dei ministeri riconosciuti, ma una prassi di emergenza, tutt’altro che priva di significato buono e santo. Chiedevo: si avrà il coraggio di andare alla sostanza della fede e della presenza, più che alle forme rituali e alle dottrine?
Mandai la lettera anche a Bettazzi. Fu pubblicata solo da “Repubblica”, edizione di Torino, il 29 aprile. Nello stesso giorno, don Luigi mi scrisse questa mail: «Carissimo, bene per la lettera. Dovremmo dirlo anche in Amazzonia. Dico sempre che queste eucaristie, impossibilitate ad avere il ministro normale, sono eucaristie di desiderio, equivalenti come il battesimo di desiderio per chi non può avere il battesimo d’acqua. Grazie e auguri, +Luigi Bettazzi».
Enrico Peyretti 16 luglio
Terzo testo in www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/dal-concilio-a-sarajevo-un-vescovo-in-uscita
«Né teista, né ateista, né anti teista»
Il carteggio tra Berlinguer e monsignor Bettazzi fu l’inizio del dialogo tra cattolici e comunisti.
Il vescovo di Ivrea, morto il 16 luglio a 99 anni, occupa un posto nella storia delle idee e della politica del nostro paese. Nel 1976 scrisse una lettera allo storico segretario del Pci per trovare dei punti di contatto e superare i rispettivi pregiudizi. Lo scambio di lettere tra monsignor Luigi Bettazzi, il vescovo di Ivrea spentosi l’altra notte alla fatidica soglia dei cento anni, e il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer (1976-1977) è uno dei fatti politico-culturali più importanti dell’ultimo mezzo secolo. Stiamo parlando di un’altra Italia rispetto a quella di oggi. Gli steccati tra cattolici e comunisti – le due grandi “chiese” italiane – erano stati sempre alti soprattutto a livello religioso e dottrinario (sul piano strettamente politico le cose furono, diciamo così, più dinamiche) ma da entrambe le “chiese” veniva avanti ormai da almeno un decennio un avvicinamento lento, un parlarsi guardingo, uno sfrondare antiche inconciliabilità.
Il Concilio Vaticano II aveva aperto nuovi orizzonti e dall’altra parte l’ultimo Palmiro Togliatti, soprattutto col discorso di Bergamo del 1963, si era interrogato sul «destino comune» dinanzi al pericolo atomico. Berlinguer era andato oltre, spinto dal suo consigliere ideologico Franco Rodano, grande intellettuale diremmo oggi catto-comunista se il termine non suonasse dispregiativo, e dal suo segretario particolare, il cattolico Antonio Tatò.
Ma fu monsignor Bettazzi a prendere l’iniziativa: «Onorevole – scrive il vescovo di Ivrea il 6 luglio 1976 (due settimane prima il Partito comunista italiano aveva preso il 34% dei voti alle elezioni, ndr) Le sembrerà̀ forse singolare, tanto più dopo le ripetute dichiarazioni dei vescovi italiani, che uno di loro scriva una lettera, sia pure aperta, al Segretario di un partito, come il Suo, che professa esplicitamente l’ideologia marxista, evidentemente inconciliabile con la fede cristiana. Eppure mi sembra che anche questa lettera non si discosti dalla comune preoccupazione per un avvenire dell’Italia più cristiano e più umano».
Bettazzi fa un discorso molto giovanneo: «Tanti, soprattutto operai, immigrati, diseredati, guardano a voi come a una speranza di rinnovamento, in una società̀ in cui essi non trovano sicurezze per il loro lavoro, per i loro figli, per una loro sia pur minima influenza nelle decisioni che coinvolgono tutti. Penso a quelli che hanno votato per voi e sono cristiani, e non intendono rinunciare alla loro fede religiosa, che anzi – forse nella sofferenza per la “disobbedienza” alla gerarchia – pensano così di promuovere una società̀ più giusta, più solidale, più partecipata, quindi più cristiana». Dunque Bettazzi cerca di capire le ragioni del successo del Pci anche tra i cattolici e ritiene di intravederle nella aspirazione dei deboli a una società migliore, in oggettiva convergenza con il pensiero conciliare, aspirazione talmente forte da porre in secondo piano gli aspetti più stringenti dell’ortodossia (di qui la “disobbedienza” – si notino le virgolette – alla gerarchia).
Insomma una mente illuminata come quella del vescovo di Ivrea comprende forse anche con un tocco di meraviglia che nella realtà storica certi steccati religiosi sono di fatto già saltati forse anche perché il Pci «sembrerebbe tendere a realizzare un’esperienza originaria di comunismo, diversa dai comunismi di altre nazioni», scrive riferendosi alle recenti affermazioni di Berlinguer, prima di inviargli la richiesta di «una particolare coerenza» a proseguire sulla strada del rinnovamento ideologico avendo cura di superare atteggiamenti e condotte antireligiose che vivevano soprattutto nella base comunista. Bettazzi sceglie un atteggiamento che rifiuta di lasciarsi dominare da timori legati a esperienze passate, si mostra sensibile ai fermenti operanti nel presente, è aperto a una ragionevole speranza per il futuro, e, più in radice, è fiducioso nell’uomo e nella sua naturale capacità di aprirsi al bene.
Il segretario del Pci risponde dopo un anno (e se ne scusa) forse aspettando il maturare degli eventi politici nel senso di un ulteriore intensificazione del dialogo con la Dc e con Aldo Moro in particolare, un percorso, come ormai sappiamo, piuttosto difficile. E certamente Berlinguer avrà istruito il lavoro per la risposta al vescovo con un lungo lavoro che coinvolse altre personalità del mondo cattolico, tra le quali probabilmente i cattolici eletti nelle liste del Pci come indipendenti, una questione che aveva allarmato settori della Chiesa. E alla fine coglie ben volentieri la sollecitazione del vescovo di Ivrea.
La risposta è molto articolata. È evidente che la scrittura è la sua, così come sono chiaramente suggeriti certi riferimenti “alti”: ed è eminentemente una risposta politica tutta tesa ad affermare la laicità del partito e a confermare non solo l’interesse verso le pulsioni più aperte del cattolicesimo così come scaturivano dal Concilio, dalla Pacem in terris e poi alla montiniana [???] Gaudium et spes ma anche la necessità, ideale e storica, di un incontro tra cattolici e comunisti, che d’altronde era il succo del compromesso storico elaborato nel 1973.
È il Berlinguer che sulla scorta di Rodano legge le ultime elaborazioni di Giovanni XXIII e – meno – Paolo VI secondo una lente anticapitalista, quella che accomuna per lui cattolici e comunisti. Non mancano gli aspetti rassicuranti esposti con tono diciamo così definitivo: «Per quanto riguarda il Pci – scrive Berlinguer – Lei non troverà̀ mai in noi, signor Vescovo, le astrattezze settarie o il freddo statalismo di certi ministri francesi della fine del secolo scorso, quali un Ferry o un Combes. Per quanto riguarda i cattolici e le loro organizzazioni, il nostro auspicio è che essi, invece di farsi soltanto i custodi gelosi delle loro istituzioni, soprattutto si impegnino e partecipino al buon funzionamento democratico e al rigore economico dei fondamentali servizi di una società̀ democratica. Noi comunisti vogliamo una società̀ organizzata in maniera tale da essere sempre più aperta e accogliente anche verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società̀ “cristiana” o uno Stato “cristiano”: e non già perché́ siamo anticristiani, ma solo perché́ sarebbero anch’essi una società̀ e uno Stato “ideologici”, integralisti».
È questo il Pci «né teista, né ateista, né anti teista». Laico e non laicista. Dalla lettera di Bettazzi insomma Berlinguer trae ulteriori motivi per insistere sulla strategia del compromesso storico preparando ulteriori strappi sulla strada del revisionismo ideologico: nel 1979 il XV Congresso del Pci abolirà (con qualche anno di ritardo) il riferimento al marxismo-leninismo, premessa per la rottura definitiva con il comunismo sovietico (1981).
Ecco dunque perché la figura di monsignor Luigi Bettazzi occupa un posto di assoluta importanza nella storia delle idee, se possiamo dir così, oltre che nella stretta vicenda politica: la sua lettera a Enrico Berlinguer resta uno snodo di altro valore culturale e morale nella vicenda italiana.
Mario Lavia Linkiesta
www.linkiesta.it/2023/07/berlinguer-bettazzi-cattolici-comunisti-lettere
La lettera a Berlinguer
Questo è il ricordo di don Giovanni Gennari su “Avvenire”:
È morto mons. Bettazzi quasi centenario, e tutti ricordano la sua lettera a Berlinguer, sorprendente sia per l’autore che per il destinatario sui due fronti. Quella lettera procurò la risposta di Enrico Berlinguer all’allora vescovo di Ivrea, sui rapporti di quelli che allora venivano, ma in modo superficiale e distorto, ritenuti solo due fronti opposti, Chiesa e partito. Le due lettere ebbero diverse conseguenze anche personali. Il vescovo di Ivrea aveva scritto tendendo la mano accogliente ad una realtà troppo ignorata, e cioè che la maggioranza di coloro che in Italia votavano PCI non per questo cessavano di essere cattolici. Questa credo sia stata l’esperienza vissuta da tanta gente: da una parte gli uomini di Chiesa impegnati pastoralmente nella vita quotidiana delle parrocchie, e dall’altra dirigenti e militanti di quel partito in evoluzione. Per ragioni personali ho sempre avuto, e non solo nella celebrazione eucaristica, la presenza amichevole di uomini e donne che avevano vissuto e vivevano l’esperienza della Resistenza e della appartenenza a quel PCI che dal 1972 aveva come segretario Enrico Berlinguer. Alcuni di loro guidati da Franco Rodano avevano passato gli anni della minacciata scomunica continuando a partecipare alla celebrazione eucaristica, ma in obbedienza alla Chiesa, sempre la loro Chiesa, senza accostarsi alla Comunione. Per la storia ci pensò Papa Giovanni eletto da poco a incaricare p. René Arnou, gesuita, di far comunicare a Rodano e ai suoi, nella sagrestia della parrocchia della Natività, che potevano riprendere a fare la Comunione.
Torno alla Lettera. Quel 1977 aveva segnato qualche grossa novità anche in Urss, ove con l’accordo del governo il patriarcato di Mosca aveva indetto a giugno il primo grande Convegno degli uomini delle religioni di tutto il mondo. Di qui, anche di qui, la decisione di Berlinguer di rispondere al vescovo di Ivrea. Fu così che per parecchi giorni nello studio del segretario di Berlinguer Antonio Tatò [dopo un anno] si preparò il testo di risposta, che fu pubblicata e suscitò grande clamore e molti contrasti. Erano tempi difficili per la DC a Roma, sconfitta nelle elezioni comunali del ‘76, e prima ancora peggio uscita dal referendum del 1974 per l’abrogazione della legge Fortuna sul divorzio. Arriva la lettera di Berlinguer a Bettazzi. Domanda, forse indiscreta: rose e fiori e accoglienza del dialogo da parte degli uomini di Chiesa? Tutt’altro! L’Osservatore Romano pubblicò un testo durissimo respingendo ogni aspetto dell’evento, ed evidentemente la cosa avvenne anche come rimprovero solenne per quel vescovo che aveva osato scavalcare Segreteria di Stato vaticana e interessi della DC allora in crisi. Bettazzi ne soffrì molto, non solo nella cosiddetta “carriera” ecclesiastica: è rimasto vescovo, e poi emerito per quasi 50 anni! Forse anche per questo, sapendo che avevo avuto parte nella risposta di Berlinguer, la prima volta che ci incontrammo si raccomandò che non parlassi più di lui con nessuno!
Torno alla Lettera: quella formula doppia e poi tripla per la definizione di Partito e Stato “non teista, non ateista, non anti teista” e quindi per questo rispettosi della realtà di coscienza di ciascuno fu il risultato di una lunga discussione in ricerca con lo stesso Segretario, silenzioso più di sempre, e con Tatò e Rodano. Seguì nei fatti che al 1º congresso del partito successivo nel settembre 1977 dagli Statuti del PCI – mi pare al numero 8 – fu eliminato l’obbligo dell’accoglienza della filosofia immanentista di Karl Marx: “Promissio boni viri est obligatio!”
Quanti incontri fruttuosi anche per la fede in quegli anni! L’autista della sezione di partito che ti viene a prendere per portarti a un incontro, che ti ascolta e improvvisamente ti chiede confessione e assoluzione… E tante cose diverse: a Riese Pio X per esempio con la gente in piazza suona a lungo la campana per disturbare l’incontro dei “comunisti” sempre nemici! O anche all’opposto qualche anno dopo a San Polo d’Enza lo stesso Antonio Tatò che davanti a una piazza di migliaia di “comunisti doc” ti chiede: “Don Gianni, parlaci di Gesù!”
Qualche nostalgia di tempi diversi? No. Solo memoria del passato e coscienza del presente: “Fratelli tutti!” E non solo in paradiso. Deve diventare presenza: ora e sempre.
Giovanni Gennari
www.corriere.it/cronache/20_marzo_30/gianni-gennari-prete-che-consigliava-berlinguer-infine-prese-moglie-49b953f6-725e-11ea-bc49-338bb9c7b205.shtml
Luigi Bettazzi, il vescovo del Concilio
Questa mattina alle 4.20 è morto Luigi Bettazzi (Treviso, 26 novembre 1923-Albiano d’Ivrea, 16 luglio 2023), l’ultimo vescovo italiano ed europeo ad aver partecipato al concilio Vaticano II (1962-65).
Testimone fino alla fine dei suoi giorni dell’importanza che il Concilio ha rappresentato per la Chiesa cattolica (ma non solo), il vescovo Luigi era noto per le sue posizioni coraggiose e controcorrente, sempre pronto ad impegnarsi in prima persona per tutto ciò che riguarda la pace e i diritti dell’uomo.
Famoso per le sue «lettere aperte» «Ai politici» e a chi aveva delle responsabilità (una delle ultime quella “Agli evasori fiscali” – Avvenire, 8 luglio 2020), è stato un testimone del vangelo, spesso scomodo a tanti, anche nella sua Chiesa, che però ha sempre servito con obbedienza e trasparenza.
Citava sovente il brano evangelico di Matteo in cui si parla del giudizio: «Avevo fame e mi hai dato da mangiare» (25,35-44). E a chi gli rimproverava di essere un vescovo di sinistra, rispondeva spiritosamente di essere solo «mancino».[1] Nel 2015, con l’elezione di papa Francesco, Bettazzi ha visto in parte la realizzazione del suo sogno ecclesiale.
Ho conosciuto il vescovo Bettazzi ad Ivrea, nel lontano 1982, in un momento importante, ma tutt’altro che facile della mia vita. Di lui avevo sentito parlare molto: conoscevo i suoi interventi fatti al concilio Vaticano II (1962-65) da giovane vescovo ausiliare del card. Lercaro a Bologna. Sapevo delle sue prese di posizione profetiche a favore della pace e dei poveri, delle sue innovative attività pastorali nella diocesi di Ivrea e anche delle sue «lettere», aperte e controcorrente, in particolare quella del luglio 1976 “A Enrico Berlinguer”, segretario generale del PCI (Partito comunista italiano), ma non l’avevo mai incontrato di persona.
Mi sono trovato davanti un vescovo ancora più alla mano e simpatico di quel che immaginavo: non solo non utilizzava mai quel “noi” maiestatico che all’epoca − salve rare eccezioni ‒ usavano la maggior parte dei suoi “colleghi” vescovi, mentre ti facevano calare dall’alto le loro parole cariche di verità. Ho incontrato invece un vero «uomo», che ti parlava guardandoti negli occhi, attento a non ferirti, ma – soprattutto – a non giudicarti.
Queste non erano – e purtroppo non lo sono ancora – delle qualità molto frequenti in certi ambienti ecclesiali, anche dopo quella sana ventata rinnovatrice che è stato il concilio Vaticano II per la Chiesa cattolica. Infatti, tra le file più tradizionaliste del cattolicesimo, erano in molti quelli che si erano affrettati a minimizzare l’evento conciliare, contando molto sull’applicazione della massima gattopardesca: “Cambiare tutto per non cambiare niente”.
Ma per Bettazzi il concilio Vaticano II aveva cambiato profondamente la Chiesa cattolica, segnandola per sempre. Quella che chiamava la «rivoluzione copernicana del Concilio», aveva riportato la comunità dei credenti allo spirito evangelico delle origini, da cui non era più possibile tornare indietro, nonostante i vari tentativi, più o meno palesi, di boicottaggio e di insabbiamento continui.
Il vescovo Luigi, il concilio ha continuato a viverlo sulla sua pelle, a testimoniarlo girando l’Italia e il mondo cattolico, in lungo e in largo fino a pochi mesi della sua morte, non rifiutando mai un invito a parlare del concilio Vaticano II. «Vivo in treno», mi diceva scherzando, facendosi accompagnare alla stazione ferroviaria per andare in Puglia a parlare del Concilio. «Sono l’ultimo testimone vivente di tutti i vescovi italiani ed europei che hanno partecipato al Concilio («però dalla seconda sezione, soltanto», precisava). Non mi rifiuto mai di parlare del Concilio, pur trascinandomi con un po’ di fatica quest’anca che non obbedisce più».
E, con il suo proverbiale umorismo che non l’ha mai abbandonato, mi raccontava di quando entrò in un’orologeria di Bologna per farsela aggiustare: «Buon giorno ho visto sull’insegna del suo negozio che lei aggiusta “anche”…Può aggiustare la mia…? ». E sorridendo ironico, mi chiarisce che si era fermato a chiedere perché sull’insegna del negozio c’era scritto: “Si aggiustano orologi di ogni tipo, anche vecchi”.
Per le barzellette era famoso, e le raccontava veramente bene. Tra le più belle ascoltate da lui quella di san Pietro che accompagna in visita un gruppo di persone di varie religioni e confessioni cristiane. Il paradiso – racconta Bettazzi – è composto da un numero enorme di case, di palazzi molto alti e di grandi giardini. Vi si trovano persone di tutte le età, culture e tradizioni religiose. Per tutti è la gioia perfetta. Ma ad un certo punto san Pietro e i suoi ospiti arrivano davanti a una cupa fortezza, con fossati, fortificazioni e ponti levatoi. San Pietro si rivolge al gruppo sottovoce: «Mi raccomando non fate rumore e siate discreti. Qui ci sono i cattolici: credono di essere i soli in paradiso».
Bettazzi era anche questo. Faceva passare messaggi teologici molto importanti, ma in modo lieve, con il suo sorriso, sempre fine e un po’ ironico sulle labbra. Mi ricordo con quanta precisione e dovizia di particolari mi ha raccontato dei suoi interventi al Concilio, quando era giovane vescovo ausiliare del card. Lercaro di Bologna.
I suoi detrattori, ogni volta che prendeva la parola nell’aula conciliare, ironicamente dicevano che era «la voce del padrone» [casa discografica] (cioè di Lercaro). Furono ben tre i suoi interventi pronunciati nell’aula conciliare e cinque presentati per iscritto; tutti su temi particolarmente importanti. Famoso quello sulla collegialità dei vescovi in cui auspicava un potere meno centralizzato sul papa e più condiviso con i vescovi, in modo collegiale, appunto.
In occasione del libro-intervista citato in nota, ho avuto modo di passare lunghi periodi con lui e di conoscerlo ancora meglio. Il libro, infatti, è frutto di parecchi colloqui, tutti avvenuti ad Albiano, nei d’intorni di Ivrea, nella casa messa a sua disposizione dalla diocesi di Ivrea, e che condivideva con il Cisv (Comunità impegno servizio volontariato) e una comunità di accoglienza di migranti.
Per la verità, non è stato facile strappargli il consenso al libro-intervista, perché lo viveva un po’ come un “coccodrillo”, che in gergo giornalistico è il pezzo già preparato in previsione della morte di un personaggio già avanti in età; ma soprattutto perché Bettazzi amava scrivere lui stesso i suoi libri, senza intermediari. Diceva che il segreto della sua longevità era “scrivere un libro all’anno”, [me l’ha consigliato un medico-si scusava] e questo spiega perché la lista dei suoi libri è particolarmente lunga. Comunque, dopo un po’ di tiramolla, in cui gli avevo detto di sentirsi libero e di fare “quel che gli dettava il cuore”, ho ricevuto dopo qualche settimana una sua telefonata in cui si diceva d’accordo nel fare un libro-intervista, ma senza il suo nome come autore in copertina «perché quella non sarebbe stata la sua autobiografia ufficiale».
E così è stato, anche se conservo non solo tutte le registrazioni, ma anche le risposte scritte di suo pugno su un bel quadernetto nero per le domande che considerava più “impertinenti”. Anche questo era un aspetto interessante del vescovo Bettazzi. Lui non era solo un autore “molto prolifico”, ma anche molto preciso e puntiglioso, attento ai minimi particolari. Per la parti che considerava più importanti o delicate del libro (il contesto dei suoi interventi al concilio, le sue posizioni sulla povertà nella chiesa (il “Patto delle catacombe”), i suoi giudizi su alcuni aspetti etici della Chiesa cattolica e altro ancora) non solo ha scritto di suo pugno le risposte, ma ha voluto rivedere anche le bozze finali. Non ha cambiato niente di quello che avevo scritto, solo corretto qualche virgola e refuso; ma ci teneva a rileggere tutto quanto, dimostrando in questo molta professionalità.
Grazie di tutto vescovo Luigi, del tuo grande cuore umano, molto poco clericale e aperto a tutto e a tutti; del tuo coraggio per aver creduto nella pace fino alla fine e anche per tutte le verità scomode che non hai taciuto, in nome di quella “parresia” o trasparenza evangelica tipica dei veri testimoni di Cristo. E grazie anche per quei deliziosi tortellini di Bologna, cucinati per me nella tua cucina di Albiano con amicizia e semplicità.
Riposa in pace, caro vescovo Luigi, e salutami tutti gli amici di Ivrea che ti hanno preceduto in questi anni e che spero avrai modo di incontrare.
[1] Un vescovo mancino, Conversazione di Luigi Bettazzi di Sergio Bocchini, EDB, Bologna 2016, p.19.
prof. Sergio Bocchini, scrittore Settimana news 16 luglio 2023
www.settimananews.it/profili/luigi-bettazzi-vescovo-del-concilio
È morto monsignor Bettazzi, costruttore di pace
Si è spento stamattina, aveva 99 anni il vescovo emerito di Ivrea, era l’ultimo padre conciliare ancora vivente. Presidente di Pax Christi partecipò alla marcia della pace nel 1992 a Sarajevo. Tra le note caratteriali che sottolinea chi l’ha conosciuto bene, c’erano la gentilezza e un certo gusto dell’ironia, caratteristica conservata fino alla fine.
Monsignor Luigi Bettazzi è scomparso questa mattina prima dell’alba a 99 anni (ne avrebbe compiti 100 anni il 26 novembre) è stato un uomo disponibile e aperto al dialogo. Garbato anche quando, per esempio sull’obiezione fiscale alle spese militari, assumeva posizioni scomode, di rottura. Era nato a Treviso ma si era trasferito da giovane a Bologna dove aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale il 4 agosto 1946. Il 10 agosto 1963 la nomina a vescovo ausiliare di Bologna cui seguì il 4 ottobre la consacrazione episcopale.
Una settimana prima però ci fu l’emozione del Concilio Vaticano II di cui prese parte, accanto al cardinale Giacomo Lercaro a tre sessioni, iniziando dalla seconda, il 29 settembre 1963. Concluse le assise conciliari, fu nominato vescovo di Ivrea, prendendo possesso della diocesi il 15 gennaio 1967. Parallelamente al servizio nella Chiesa locale cresceva l’impegno per la causa della non violenza, fino ad essere nominato nel 1968 presidente di Pax Christi, vivendo in maniera così profonda quell’incarico da ricevere il premio internazionale dell’Unesco per l’educazione alla pace.
Ma al di là delle tappe ufficiali di una biografia molto ricca, restano i gesti rimasti nell’immaginario collettivo: la scuola di laicità, come amava definirla, accanto agli studenti della Fuci, la vicinanza ai lavoratori dell’Olivetti, della Lancia e del cotonificio Vallesusa, lo scambio epistolare con il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.
Un dialogo sul rapporto tra la fede cattolica e l’ideologia marxista ma soprattutto sul valore della laicità. Bettazzi scrisse a Berlinguer il 6 luglio 1976, avendone risposta un anno dopo: il 14 ottobre 1977. «Mi scusi – scrisse Bettazzi – questa lettera, che molti giudicheranno ingenua, e non pochi contraddittoria con la mia qualifica di vescovo. Eppure mi sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il “Vangelo”, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla ‘liberazione’ dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima». «Lei – rispose Berlinguer – ha sollevato problemi la cui soluzione positiva è molto importante per l’avvenire della società e dell’Italia, per una serena convivenza fra tutti i nostri concittadini, non credenti e credenti, oltre che, in particolare, per lo sviluppo di quel dialogo, per amore del quale ha pensato di rivolgersi a me, come lei dice, in quanto segretario del Partito comunista italiano».
Nel Partito comunista italiano – proseguiva Berlinguer – «esiste ed opera la volontà non solo di costruire e di far vivere qui in Italia un partito laico e democratico, come tale non teista, non ateista e non anti teista; ma di volere anche, per diretta conseguenza, uno Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non anti teista».
Nel 1978, un’altra scelta “scomoda”. Assieme agli altri vescovi Clemente Riva e Alberto Ablondi, chiese di potersi offrire prigioniero in cambio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. La richiesta, tuttavia, venne respinta dalla Curia Romana e Bettazzi raccontò che, quando fece presente che si trattava di una vita umana e non di un fatto politico, ricevette in risposta la frase “È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”.
Celebre anche per le battaglie per l’obiezione fiscale alle spese militari, sostenne l’obiezione di coscienza quando ancora si rischiava il carcere e nel 1992 partecipò alla marcia pacifista organizzata a Sarajevo da “Beati costruttori di pace e Pax Christi” insieme a monsignor Antonio Bello nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.
Sette anni dopo, la rinuncia alla guida della diocesi di Ivrea per raggiunti limiti di età, un passo che però non ne segnò la pensione come comunemente la si potrebbe intendere. Anzi nel 2007 si dichiarò favorevole ai “Dico”, disegno di legge presentato dal governo Prodi sui “diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”, comprese le coppie omosessuali.
Gli ultimi anni sono stati ancora all’insegna dell’educazione alla nonviolenza (ha partecipato a tutte le Marce della pace organizzate il 31 dicembre) e della riflessione sul Concilio Vaticano II. Fino alla morte sopravvenuta ad Albano d’Ivrea dove viveva da molti anni. A precedere il lutto l’invito dell’attuale vescovo della diocesi eporediese monsignor Edoardo Cerato. Poche righe, semplici ma di grande partecipazione: «Accompagniamo monsignor Bettazzi che si sta avviando lucidamente al tramonto terreno. La nostra preghiera lo sostenga».
Riccardo Maccioni “www.avvenire.it” 16 luglio 2023
www.avvenire.it/av/pagine/monsignor-luigi-bettazzi
La chiesa di Bettazzi
Cari amici, Il bello di una lunga vita è che molti, in tempi e in luoghi diversi, ne godono i frutti, quando quella vita è ricca di valori civili, di ispirazioni religiose e traboccante di amore. Così è stato della vita di Luigi Bettazzi, che è stato davvero un vescovo della Chiesa di tutti, e della Chiesa dei poveri, e soprattutto dei pacifici e degli assetati di giustizia. E così egli ha seminato e lasciato ricordi straordinari in tanti e in molte occasioni per quasi 100 anni.
C’è chi lo ricorda, giovane e anche bello, fraterno e accogliente, maestro ed amico, come Assistente ecclesiastico della FUCI, la Federazione degli universitari cattolici italiani, famosa per aver formato personalità straordinarie e preziosi protagonisti della prima Italia repubblicana, a cominciare da Aldo Moro.
C’è chi lo ricorda come vescovo ausiliare di Bologna in quel tempo magico che visse la Chiesa bolognese, la Chiesa del cardinale Lercaro, di don Dossetti, dell’ “Avvenire d’Italia”, del Centro di studi religiosi di Pino Alberigo e Paolo Prodi. A quel titolo fu tra i più giovani vescovi del Vaticano II: e lì parlò per la pace, ed ebbe il coraggio di levarsi in san Pietro per chiedere ai Padri conciliari, contro ogni prudenza ecclesiastica, di procedere alla canonizzazione conciliare di papa Giovanni XXIII, e farlo santo per acclamazione, senza miracoli e senza processi canonici, perché un papa così ancora non si era mai visto, e proprio quel Concilio ne era il lascito più prezioso per la Chiesa e per il mondo.
Finito il Concilio mons. Bettazzi fu ancora accanto a Lercaro, prima che l’arcivescovo bolognese fosse deposto per aver rivendicato la profezia della Chiesa, piuttosto che la neutralità, contro la guerra del Vietnam. E poi fu vescovo di Ivrea, dove fu mandato per i suoi meriti, ma anche per lasciare il posto a Bologna al cardinale Poma incaricato di normalizzare la Chiesa italiana dopo gli ardimenti del Concilio.
E chi, tra i compagni che furono con lui e con don Albino Bizzotto in quella sorta di staffetta per la pace che fu fatta nel 1992 per rompere l’assedio di Sarajevo durante la guerra jugoslava, non lo ricorda a proclamare che era possibile la pace tra serbi e bosniaci, , musulmani e cristiani, cattolici e ortodossi?
È stato un vescovo dei poveri e dei pacifici, degli intellettuali e dei piccoli, presidente di Pax Christi e militante di base quando c’era da lottare e testimoniare per la pace: e l’ultima volta lo ricordiamo a dire, rispondendo all’appello di Michele Santoro, che non è contro l’aggressione chi alla violenza oppone un’altra violenza, e che dalla guerra di Ucraina si doveva uscire con la diplomazia e mettendosi in mezzo ai contendenti per farli riconciliare nella pace.
In questo ricordo che ci consola all’ora della sua morte, vi inviamo i più cordiali saluti.
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Dal concilio a Sarajevo un vescovo in uscita
Prima Vescovo ausiliare di Bologna, poi Vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi, Luigi Bettazzi ha dato la sua vita per una Chiesa protesa al servizio della pace e dei poveri. Si offrì in ostaggio per salvare Aldo Moro. Così è stato ricordato da molti che da vicino o da lontano si sono incontrati con lui
In ricordo di mons. Luigi Bettazzi pubblichiamo una testimonianza di “Noi siamo Chiesa”:
È con affetto, commozione e gratitudine che “Noi siamo Chiesa” saluta Luigi Bettazzi nel suo passaggio alla vita piena in Dio. Negli ultimi 60 anni il vescovo Bettazzi è stato protagonista di primissimo piano della vicenda sociale ed ecclesiale del nostro Paese e punto di riferimento episcopale del cattolicesimo progressista italiano. Costante interprete dello spirito del Concilio Vaticano II espresso nel “Patto delle Catacombe” di fronte alle sfide del nostro tempo, egli è stato instancabile promotore della trasformazione della società in termini di giustizia e nonviolenza e del rinnovamento della Chiesa nel segno del riconoscimento della dignità degli esclusi di ogni tipo.
A fianco degli operai del territorio eporediese che difendevano il posto di lavoro [occupò anche con il vicario Miglio (per breve tempo l’autostrada A5 prossima allo stabilimento Olivetti di Scarmagno], in mezzo ai pacifisti che lottavano contro l’installazione dei missili in Sicilia o per rompere l’assedio di Sarajevo, mescolato ai poveri del Sud del mondo che si impegnavano per la propria liberazione, don Luigi si è sempre schierato dalla parte degli ultimi, intavolando su questa base anche un memorabile carteggio con l’allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, su marxismo, ateismo, materialismo e laicità dello Stato, e poco tempo dopo offrendosi, insieme ai confratelli Alberto Ablondi e Clemente Riva, come ostaggio alle Brigate Rosse in cambio del rilascio di Aldo Moro, gesto da cui fu “dissuaso” da ambienti vaticani all’insegna del “è meglio che uno muoia per salvare tutti”. E nella Chiesa italiana è stato sempre testimone di libertà e apertura, manifestando spesso simpatia per le istanze del cosiddetto “dissenso” e prendendo più volte posizioni pubbliche in controtendenza rispetto alla linea conservatrice prevalente nell’episcopato, per esempio esprimendosi a favore del clero uxorato, dell’ospitalità eucaristica di persone di altre confessioni e del riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Tutto ciò gli è valsa una sostanziale emarginazione nella Conferenza episcopale italiana, cui è però corrisposta una grande proiezione internazionale, per esempio con la guida della missione di Pax Christi per i diritti umani in America centrale nel 1981.
Bettazzi è stato, infine, uno dei pochissimi vescovi (insieme al coetaneo Giuseppe Casale, arcivescovo di Foggia (anch’egli tornato alla casa del Padre pochi mesi fa) a mantenere sempre aperto il dialogo con “Noi siamo Chiesa”, anche quando l’ostracismo delle autorità ecclesiastiche nei nostri confronti era quasi totale Così accettò di scrivere la prefazione al nostro volumetto edito nel 2000 “Il posto dell’altro. Le persone omosessuali nelle Chiese cristiane”, cui fece seguito la sua postfazione a “Né Eva nemmeno Maria. L’ordinazione sacerdotale delle donne nella Chiesa cattolica”. Con la sua testimonianza ecclesiale di libertà, speranza e coraggio il vescovo Bettazzi ha contribuito a non far perdere a molti la fiducia nella Chiesa, in una Chiesa nella quale ricerca, creatività, responsabilità e sguardo positivo verso il futuro non siano visti con diffidenza e l’appartenenza ecclesiale sia fonte di gioiosa energia.
Coordinamento Nazionale di Noi Siamo Chiesa 17 luglio 2023
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Addio a Luigi Bettazzi, voce di Pace
A lungo alla guida “Pax Christi” e instancabile promotore di dialogo interreligioso
È morto ieri all’età di 99 anni don Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea. Era nato a Treviso nel novembre del 1923; ordinato presbitero nel 1946, aveva poi studiato alla Pontificia Università Gregoriana laureandosi in Teologia, e poi in Filosofia a Bologna. Nel 1963 ricevette l’ordinazione episcopale dal cardinale Giacomo Lercaro. In questa veste partecipò ad alcune sessioni del Concilio Vaticano II, ultimo testimone, fra i vescovi italiani, di quell’evento.
Molte sono state le occasioni di incontro ecumenico con Luigi Bettazzi negli anni in cui fu vescovo di Ivrea: iniziative comuni per la pace, impegno che svolse anche in quanto presidente di “Pax Christi”, e a mobilitazioni contro il razzismo. Nel 1994 partecipò a una tavola rotonda nell’ambito del Convegno della Società di Studi valdesi «La spada e la croce», dedicato alla cappellania nelle chiese evangeliche italiane. Era l’epoca in cui, con la Guerra del Golfo, il panorama internazionale e normativo aveva cominciato a doversi ridefinire (e non è ancora avvenuto), e monsignor Bettazzi denunciò la tendenza di molti Paesi, fra cui il nostro, a considerare motivo di possibile intervento bellico la minaccia per gli interessi nazionali, anche ben fuori dai nostri confini.
Un anno prima, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, invitato a predicare nel tempio valdese di Ivrea, aveva scritto un articolo per “Riforma” (n. 5/1993) nel quale sosteneva come l’ecumenismo debba partire «dall’accoglienza della grazia redentrice di Cristo e dall’amore fraterno. Sarà poi lo Spirito a guidarci sulle vie di una più piena comunione, in un cammino di comune conversione».
Se penso a monsignor Luigi Bettazzi, scomparso a 99 anni ad Albiano di Ivrea, ho un ricordo speciale che risale al gennaio del 1999: quell’anno sarebbe andato in emeritazione da vescovo di Ivrea e decise di accompagnarmi in tutte le celebrazioni ecumeniche della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: sicuramente due a Ivrea (alla chiesa valdese e in una chiesa cattolica), a Chivasso e probabilmente anche in un’altra parrocchia del Canavese, forse Caluso, forse Rivarolo. La cosa mi colpì: a un pastore valdese capita di partecipare a celebrazioni ecumeniche con i vescovi locali durante la Settimana di preghiera, ma di solito ciò avviene a “casa loro” o a “casa nostra” (se li si invita con insistenza): mai per quasi una settimana consecutiva, mai in luoghi che non siano cattedrali o chiese prestigiose.
Credo che questo aneddoto dica molto della personalità di Bettazzi e del suo spirito di dialogo. Chi è coinvolto nel dialogo ecumenico si trova sovente in situazione un po’ strane, soprattutto quando la controparte ha un ruolo apicale, come un vescovo: una gran quantità di impegni concentrati in una settimana o poco più, in un mese infelice come quello di gennaio, di solito usando testi già preparati da altre persone che fanno parte di chiese di Paesi esotici, decontestualizzati. Serate in cui ci si scambiano grandi sorrisi e qualche abbraccio formale, magari si esprimono con diplomazia i propri “mal di pancia” ecumenici, e poi arrivederci all’anno prossimo.
Al contrario, incontrarsi quattro o cinque sere di seguito permise una relazione reale, tra colleghi. Senza negare le differenze, le peculiarità, le reciproche passioni (la sua per la pace nel mondo e la giustizia sociale, in quel contesto la mia per l’ecclesiologia e la collaborazione nella formazione dei membri di chiesa e il catechismo). Ripensando a quella settimana di tanti anni fa, mi dispiace dover constatare che non mi è mai più capitato di avere una relazione così franca e paritaria con un vescovo cattolico.
Gregorio Plescan, pastore della chiesa metodista ad Alessandria 17 luglio 2023
Alla sinistra di Dio con don Tonino
Era sulla soglia dei cento anni. «Il 26 novembre – diceva a tutti scherzando – diventerò un prete secolare». I festeggiamenti erano già pronti. Nella notte fra il 15 e il 16 luglio ha deciso di abbandonarsi a quel Dio a cui ha creduto sempre con tutto sé stesso. Un Dio non rinchiuso nelle nebulose della metafisica, ma “ pezzo di mondo prolungato” per dirla con le parole di un teologo che don Luigi amava tantissimo, ossia
Dietrich Bonhoeffer (α 1906-ω1945, impiccato), teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al nazismo) Un Dio che si rivela nella sua impotenza, un Dio disarmato, che salva il mondo attraverso l’unica salvezza possibile: la nonviolenza attiva e dinamica. Bettazzi ha camminato sulle strade impolverate della pace, della giustizia, dei diritti. Era il punto di riferimento della Chiesa orizzontale, ossia di una Chiesa che non punta a posizioni di vertice (lui era vescovo, ma vescovo popolare) ma una Chiesa che cammina con il popolo per dare speranza al mondo. Ecco perché monsignor Bettazzi amava la vita di un altro monsignore, il vescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, (α1917-ω1980), ucciso il 24 marzo mentre celebrava la messa nella chiesa dell’Hospidalito dentro quella fucina di violenza che è stato il Salvador ostaggio della dittatura militare. Pochi sanno che fu proprio grazie a Bettazzi che noi siamo riusciti, in Italia, a conoscere i diari di monsignor Romero, che lui ci portò dopo un viaggio che fece nel Paese sudamericano. Quei diari che raccontano gli ultimi anni di vista di Romero vennero pubblicati dalla casa editrice di riferimento di Pax Christi, “la meridiana”. Fu proprio in questo movimento cattolico per la pace, che Bettazzi ha speso gli anni più floridi della sua vita. Fu grazie a lui che Pax Christi si fece conoscere in Italia. Erano gli anni del dopoguerra e si sentiva fortemente l’urgenza di radicare il vangelo nell’orizzonte di una speranza possibile di salvezza del mondo, dopo le distruzioni della guerra e l’accadimento funesto di Hiroshima e Nagasaky.
Bettazzi era stata ordinato vescovo da Paolo VI nel 1963, dunque negli anni ancora caldi del Concilio (era l’ultimo vescovo ancora vivo ad aver partecipato al Concilio Vaticano II) e aveva respirato la grande rivoluzione di rinnovamento operata da Papa Giovanni con l’enciclica “Pacem in Terris”, dove si liquidava finalmente la vecchia cultura della guerra possibile, e si diceva con forza che la guerra non solo non è più possibile ma addirittura non è più pensabile (“bellum alienum a ratione”). Ecco, allora che un movimento ecclesiale incentrato sulla pace di Cristo, poteva servire per annunciare finalmente la natura nonviolenta del messaggio cristiano. Bettazzi diventa presidente di Pax Christi Italia nel 1968 e nel 1978 presidente internazionale.[anche se non era cardinale] E quando si affaccia sullo scenario ecclesiale don Tonino Bello, egli capisce immediatamente che qualcosa di straordinario sta avvenendo dentro la Chiesa italiana. E inizia una condivisione profetica di valori e di progetti fra i due che non solo irradiano di elementi nuovi e profondi la cultura della pace in ambito ecclesiale, ma in generale pongono l’Italia fra i Paesi più avanzati sul piano della promozione dei valori di pace e giustizia a livello globale. Il passaggio di consegne (e di vita) fra don Tonino in punto di morte (una morte troppo precoce!) con Bettazzi a cui affida i simboli della “Chiesa del grembiule” (ossia del servizio), rimane come uno dei passaggi più commoventi della storia ecclesiale dal basso.
Bettazzi ha svolto anche un ruolo importante nel dialogo fra credenti e non credenti e in particolar modo con un ricco scambio epistolare con il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer alla fine degli anni Settanta. Nel 1978 don Luigi intervenne anche nei giorni terribili del sequestro Moro offrendosi come prigioniero al posto del segretario democristiano. Ma la curia romana rifiutò la proposta.
Bettazzi aveva un attivismo insonne. Scriveva libri, partecipava ad incontri pubblici, dibattiti televisivi, riunioni su tutto il territorio nazionale e anche in vari Paesi dell’Europa (negli ultimi anni soprattutto in Germania e Austria). Non aveva mai mancato alle marce per la pace di fine anno organizzate da Pax Christi e questo era un suo piccolo vanto. Molti ricordano la sua ironia e il suo humor. Definiva il sistema neoliberista con questa immagine: “Libera volpe in un libero pollaio. Tutti liberi!”. Era un barzellettiere fantastico. Forse era il suo modo per creare empatia e per superare i momenti più tristi e faticosi della vita. Lo ricordo una notte a Bolzano, in via Gutenberg. Stavamo aspettando un amico che lo avrebbe ospitato a casa sua. Era mezzanotte. L’amico non arrivava ed eravamo un po’ preoccupati. Bettazzi iniziò a raccontare barzellette, una dietro l’altra, per almeno un’ora. Avevamo le lacrime agli occhi dalle risate. Alla fine l’amico arrivò. Si era dimenticato dell’ospite. Ridemmo e chiudemmo così la nottata.
Ora Bettazzi sarà salito alla sinistra di Dio e ci aiuterà da lì a risolvere quello che qui noi umani (troppo umani!) non riusciamo a risolvere. Ossia la guerra, su cui si era battuto fino all’ultimo don Luigi. Fino all’ultimo aveva invocato la pace in Ucraina, aveva criticato l’invio di armi e aveva chiesto a gran voce una Conferenza di pace internazionale seguendo con grande interesse l’azione di mediazione che Francesco ha affidato al cardinale Zuppi. Perché questa è la strada della pace se vogliamo guardala con occhi di un vescovo mancino che si è seduto alla sinistra di Dio.
Francesco Comina “Alto Adige” 17 luglio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202307/230718comina.pdf
Partecipò a tre sessioni del Concilio Vaticano II, e amava ricordare di essere rimasto l’unico vescovo italiano vivente presente al Concilio. Il 26 novembre 1966 fu nominato vescovo di Ivrea e l’anno successivo prese possesso della diocesi. Da allora Bettazzi e l’Ivrea progressista formarono un binomio unico.
Diventò celebre per lo scambio di lettere col segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer, per il quale fu aspramente criticato, sulla conciliabilità o no della fede cattolica con l’ideologia marxista, o comunque con l’adesione al Partito comunista. Fu questo uno scambio d’idee importante per la cultura politica italiana, dato che all’interno di esso Berlinguer formulò la famosa definizione del PCI come partito «né teista, né anti teista, né ateista».
Il 10 ottobre 1979 fece avere a Carlo De Benedetti il testo di una lettera aperta dal titolo: “Perché più profitto e più tecnologia riducono di 4.500 lavoratori l’Olivetti?» nella quale Bettazzi considerava inaccettabile la decisione di ridurre il personale per aumentare la produttività dell’impresa. Era la fine dell’Olivetti, come l’avevamo conosciuta ed amata.
Famoso anche per le sue battaglie per l’obiezione fiscale alle spese militari, monsignor Bettazzi sostenne l’obiezione di coscienza quando ancora si rischiava il carcere e nel 1992 partecipò alla marcia pacifista nel mezzo della guerra civile in Bosnia ed Erzegovina.
Nel 2007 dichiarò pubblicamente che la sua coscienza gli imponeva di disobbedire e che era favorevole al riconoscimento delle unioni civili, i “DICO”, sostenendo le iniziative del governo Prodi e riconoscendo alle coppie omosessuali un fondamento d’amore equiparato a quelle eterosessuali.
Nell’aprile 2015 affermò in un’intervista che, circa «l’omosessualità: la questione del sesso va studiata, emancipandosi dai neoplatonici che facevano coincidere sesso e decadenza dello spirito. Perché non espressione dello spirito umano? È noto che mi pronunciai in favore dei Dico, il riconoscimento delle unioni civili». A luglio del 2020 scrisse che gli evasori fiscali “tradiscono Dio e la nazione”.
Fra i ricordi che ho di Lui uno risale ad un episodio minore della vita eporediese avvenuto negli anni Sessanta, quando in previsione di uno sciopero, il vice Questore di allora, Battegazzorre, ex partigiano, fece radunare i suoi uomini alla presenza del Vescovo Bettazzi e di noi sindacalisti, ordinando loro di mettersi a nostra disposizione, sicuro che tutto sarebbe andato per il meglio, e così fu.
Quando, nel 1980, si verificò il devastante terremoto in Irpinia, Ivrea si organizzò subito inviando una squadra di volontari nel paese di Ricigliano. Fu presente anche il vescovo Bettazzi. Quando, mesi dopo, tornammo sul luogo, il parroco locale gridò: “salutiamo il nuovo Papa!”. Previsione facilmente smentibile, perché Bettazzi era troppo avanti per il Vaticano di allora (e di oggi, malgrado Papa Francesco).
Il 28 luglio 2014 ero stato invitato sul palco dell’Oratorio San Giuseppe per ricordare il giovane partigiano cattolico Gino Pistoni “Ginas” ed esordii avvisando, in quel consesso, che non avevo avuto la grazia della fede. Accanto a me Monsignor Bettazzi disse con bonomia: “C’è ancora tempo, noi sappiamo aspettare”.
Il senso dell’umorismo si accompagnava in lui ad una grande sapienza teologica e ad una profonda fede che sapeva coniugare con l’evolversi della società. Famose le sue barzellette, che raccontava con arguzia, presentandosi negli ultimi anni come “diversamente giovane”.
In uno dei suoi numerosi libri, “La sinistra di Dio”, scrisse: “Se “destra” è consolidamento del potere e “sinistra” è contestazione del potere in nome e a favore della solidarietà verso i più piccoli e i più poveri, viene da concludere che Gesù era molto più vicino a questa che a quella, e che questa è la scelta obbligata per chi vuol essere suo discepolo.”
In queste parole c’è tutto Monsignor Bettazzi, ed è così che anche l’Anpi vuole ricordarlo. Grazie per esserci stato, grazie per i tuoi insegnamenti, per il tuo impegno. Grazie anche per il tuo senso dell’umorismo, che ci allietò negli incontri che sempre ricorderemo.
Durante gli addii ai Partigiani che “sono andati avanti” dico sempre che essi sono andati nel cielo degli Eroi. Ecco… Monsignor Bettazzi è certamente in un Cielo speciale, ma mi piace pensare che sia lo stesso, così che vecchi e nuovi combattenti per la libertà e la pace possano riposare insieme.
Mario Beiletti, presidente ANPI
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Luigi Bettazzi, quell’indole ribelle a ogni conformismo che fece di Ivrea un centro della chiesa
Un legame con il territorio cominciato nel gennaio 1967 e mai interrotto. Il suo primo messaggio: «Siate tutti fratelli». Monsignor Luigi Bettazzi approdò a Ivrea nel gennaio del 1967, quando aveva da poco compiuto 43 anni. Era stato nominato vescovo tre anni e mezzo prima, mentre l’ordinazione sacerdotale era avvenuta nell’agosto del ’46. Certo, all’epoca nessuno avrebbe potuto immaginare che il giovane prelato trevigiano di nascita ma bolognese di formazione, reduce dal Concilio a cui aveva preso parte al fianco del cardinale Giacomo Lercaro, avrebbe compiuto un così lungo e fecondo cammino con la comunità canavesana.
Il legame di Bettazzi con Ivrea e la sua diocesi è stato così saldo, che non si interruppe neppure quando, nel 1999, lasciò il palazzo vescovile per trasferirsi nell’accogliente residenza di Albiano. D’altra parte, il seme gettato sul territorio in 33 anni (è stato nominato vescovo di Ivrea nel 1966) di intensissimo episcopato era di quelli che fruttificano con radici profonde e immarcescibili. Ne è efficace riprova l’ultimo quarto di secolo, durante il quale la figura di Bettazzi, pur nell’avvicendarsi dei suoi successori, ha costantemente rappresentato un punto di riferimento per la Chiesa e i fedeli di tutta la diocesi.
La sua dedizione alla comunità diocesana è stata totale, sul piano religioso come su quello sociale. Un impegno a 360° che se da un lato ha contribuito a rendere monsignor Bettazzi famoso e apprezzato anche a livello nazionale e oltre i nostri confini, dall’altro ha fatto sì che gli precludesse una logica quanto meritata “promozione” alla porpora cardinalizia. Tant’è che non sono pochi coloro che hanno interpretato l’eccezionale “tre giorni” di Papa Giovanni Paolo II in terra canavesana nel marzo del 1990 come una sorta di implicito “risarcimento”.
L’indole ribelle a ogni conformismo di comodo, accompagnata al suo pensiero di pacifista incrollabile, è stata alla base di innumerevoli prese di posizione scomode e controcorrente. Una per tutte: lo stare al fianco dei lavoratori Montefibre, Olivetti e altre aziende minori, a costo di farsi appioppare l’etichetta di vescovo rosso, cui replicava con fermezza puntualizzando che «difendere l’essere umano non è far politica, ma annunciare il Vangelo». È certo non poco disagio deve aver procurato ai vertici olivettiani quando nel ’97 sentenziò: «Il capitalismo odierno è brutale, così vengono traditi i valori umani dei fondatori».
L’attenzione a quanto accadeva nel mondo (basti pensare al suo instancabile impegno a favore della pace, specie nel lungo periodo di presidenza di Pax Christi) non impedì certo a Bettazzi di dedicarsi con l’affetto dovuto al gregge diocesano. Sinodi, visite pastorali, missioni, ecumenismo, apertura ai laici, coinvolgimento delle donne [alcune insegnarono in Seminario], (cui dedicò uno dei tanti libri immancabilmente diventati dei best-seller) sono solo alcuni dei momenti e degli aspetti che hanno consentito alla diocesi eporediese di diventare un “faro” per i cattolici italiani, che guardavano a Ivrea come a una delle chiese locali dove maggiormente erano stati messi in pratica i dettami conciliari. Anche se alla resa dei conti, come ci diceva nel 2002 non senza una punta di amarezza «il Concilio resta in gran parte ancora da attuare».
La proverbiale disponibilità di monsignor Bettazzi con i giornalisti è stata per decenni una vera e propria manna per la categoria, che non perdeva occasione di interpellarlo, sovente su argomenti d’attualità ben sapendo che quanto scritto sarebbe stato ripreso dai media nazionali. Tuttavia, non poche volte dalla sua scrivania partivano richieste, se non di smentite, quantomeno di rettifiche sostanziali di quanto riportato nell’articolo rispetto a quanto da lui dichiarato. E, rivisitando col pensiero, gli anni in cui siamo stati privilegiati interlocutori del vescovo d’Ivrea a nome e per conto della Sentinella del Canavese, periodico cittadino laico, non possiamo fare a meno di ricordare quella volta (poco tempo prima che scadesse il suo mandato) che mi telefonò in redazione di buon mattino con un diavolo per capello (sia detto senza alcuna irriverenza…). La Sentinella era appena uscita pubblicando l’indiscrezione relativa alla nomina di un parroco cittadino, ovviamente non ancora ufficiale. Al telefono Bettazzi era un fiume in piena: «Sono qui che devo firmare il foglio della nomina del parroco di cui ho appena visto il nome sul suo giornale. Mi dica lei cosa devo fare…dopo che ha anticipato le mie intenzioni…le confesso che sono proprio tentato di soprassedere…». Mi ci volle del bello e del buono per convincere il mio interlocutore – sempre al telefono – che quanto avevo scritto faceva riferimento a voci che circolavano in città e che quindi non dovevano certo influire sulla sua decisione. Morale della favola: la nomina fu firmata e il parroco regolarmente nominato, io scrissi una bella lettera di scuse al vescovo ribadendo comunque il mio “diritto di cronaca” e… per qualche tempo feci un po’ più fatica ad avere le notizie dalla Curia eporediese.
Sul fronte pubblico non si possono dimenticare i riconoscimenti ricevuti da monsignor Bettazzi, a cominciare dalla laurea honoris causa in Scienze politiche, conferitagli dall’Università di Torino, nel giugno 2000, dalle onorificenze legate al Carnevale, «di cui – ci confessò – imparai a conoscere l’importanza sin da pochi giorni dopo il mio insediamento, grazie alle “soffiate” dell’ex vescovo di Fossano don Dionisio Borra, in passato parroco della Cattedrale». E poi, soprattutto, la cittadinanza onoraria eporediese, conferitagli dal sindaco Giovanni Maggia, nel dicembre 1998. Rivolgendosi al pubblico che gremiva la sala Dorata, Bettazzi promise solennemente “Non dimenticherò mai Ivrea”. Per parte nostra siamo sicuri che Ivrea (e il Canavese) non si scorderà facilmente del vescovo che l’ha avuta nel cuore per più di 56 anni. Da quando, nel primo messaggio agli eporediesi e ai canavesani, datato 10 gennaio 1967, li esortava ad essere “tutti fratelli”
Tiziano Passera La Sentinella Ivrea 18 Luglio 2023
Spigolature
- Ivrea: la Olivetti e Bettazzi. Quante volte abbiamo usato (e usiamo e useremo) questi due nomi quando siamo in giro per il mondo per indicare la nostra città di provenienza? Forse, in un futuro prossimo o lontano, Ivrea potrà essere connotata per qualche altro motivo, ma da molti decenni è la città dell’Olivetti e del vescovo Bettazzi.
- Ci ha lasciato un uomo giusto, libero. Un cristiano che ha vissuto appieno la sua vita da cristiano, nello spirito e nelle azioni. Un laico nel senso ampio del termine. Vicino ai lavoratori, invitò negli anni 60 in Vescovado il consiglio di fabbrica Olivetti, fatto unico, presente nei cortei degli operai in sciopero per i loro diritti, si prese una denuncia per blocco stradale perché rimase con gli operai, poi andarono tutti assolti, ma lui era lì.
- Ciao, monsignor Bettazzi! Partecipò a tre sessioni del Concilio Vaticano II, e amava ricordare di essere rimasto l’unico vescovo italiano vivente presente al Concilio. Il 26 novembre 1966 fu nominato vescovo di Ivrea e l’anno successivo prese possesso della diocesi. Da allora Bettazzi e l’Ivrea progressista formarono un binomio unico.
- Nel 1968 è stato nominato presidente nazionale di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace e nel 1978 ne è diventato presidente internazionale, fino al 1985 vincendo per i suoi meriti il Premio Internazionale dell’Unesco per l’Educazione alla Pace. Autore di numerosi libri (rintracciati per ora 49)era l’ultimo vescovo italiano ancora vivente presente al Concilio Vaticano II.
- “Ci ha lasciato Monsignor Bettazzi. La fede come strumento di dialogo, di confronto, di ascolto. Un profeta che sapeva comprendere le inquietudini e le sofferenze del mondo, accompagnando ciascuno con fraternità e amicizia. Un onore averlo conosciuto e frequentato. Grazie!”. Scrive su Twitter Piero Fassino [già PCI], deputato del Partito Democratico e già sindaco di Torino.
- “Con la scomparsa di monsignor Bettazzi, la chiesa piemontese perde una grande figura di riferimento, una persona che da sempre si è spesa per il bene della comunità, promuovendo valori di apertura, pace e scambio costruttivo. Ci lascia in eredità un grande esempio da seguire per costruire una comunità più giusta e coesa”.
- Così , sui social, il sindaco di Torino e della Città metropolitana, Stefano Lo Russo, esprime il suo cordoglio per la morte del vescovo emerito di Ivrea. “Tante le battaglie che hanno visto monsignor Bettazzi impegnato in prima persona – dice Lo Russo -: lotte in supporto alle lavoratrici e ai lavoratori, o in sostegno dei diritti per tutte e tutti”. E ricordando le sue parole rivolte a Enrico Berlinguer, “sembra legittimo e doveroso, per un vescovo, aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perchè si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini“, il sindaco di Torino osserva che “sottolineano ancora oggi la sua visione e il suo percorso di vita“.
- “Don Luigi Bettazzi era un uomo di pace. Una vita eccezionale condotta con intelligenza e sempre esposta ad ogni problema dell’attualità. I punti alti della sua biografia – Bologna, Lercaro ed il Concilio, Aldo Moro, Berlinguer, Don Bello e Sarajevo, i Dico ed altri – dimostrano un incessante impegno spesso con un impatto diretto sulla politica. Partecipò di persona a tutte le Marce per la Pace. La nostra città e il nostro paese gli devono molto”, dice il sindaco di Bologna Matteo Lepore.
- “Mi addolora la notizia della scomparsa di Monsignor Luigi Bettazzi che ho frequentato e stimato fin dai suoi anni bolognesi e dal quale abbiamo in tantissimi, credenti e non credenti, ricevuto tanto. Con la sua scomparsa viene meno una voce profetica che ha accompagnato la vita religiosa e civile in anni straordinari per la ricchezza e la vivacità del confronto e del dialogo in Italia, in Europa e in tanta parte del mondo. La sua tenace ricerca della pace, il suo rispetto per culture religiose e fedi differenti dal cristianesimo di cui è stato testimone coerente e tenace, la sua testarda passione per il dialogo e il confronto, hanno fatto di lui un punto di riferimento non solo per i cattolici, ma anche per grande parte del mondo laico”. Così l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi.
- “In occasione dell’Assemblea generale della Cei, lo scorso maggio, abbiamo menzionato mons. Bettazzi con quel senso di gratitudine che si deve ai padri, proprio come voleva essere chiamato. Nel dialogo con papa Francesco, presentando i nuovi vescovi e quelli emeriti, il pensiero è andato a lui in modo spontaneo, consci della sua saggezza e della sua paternità: ultimo padre italiano del Concilio”. Così il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ricorda mons. Luigi Bettazzi.
- Il Presidente nazionale ANPI, Gianfranco Pagliarulo: “Intendo esprimere il profondo cordoglio di tutta l’ANPI per la scomparsa di Monsignor Luigi Bettazzi. Fino all’ultimo, è stato protagonista di un impegno religioso e civile per la pace e per il dialogo. È del 3 ottobre 2022 il suo straordinario discorso alla Veglia per la pace a Bologna quando, a proposito della tragedia che si sta consumando in Ucraina, ha affermato che “se la logica è quella del “dobbiamo vincere”, andiamo verso la guerra mondiale”. Nella stessa circostanza ha proposto una analisi e una riflessione sulla guerra in corso in palese contrasto col mainstream dei media e della grandissima parte della politica italiana ed europea ed in aperto sostegno delle posizioni pacifiste che accomunano oggi tanta parte dei laici e dei cattolici del nostro Paese. Bettazzi è stato anche l’uomo che diede vita nel luglio 1976 ad un carteggio con Enrico Berlinguer, avviando un dialogo virtuoso fra due grandi culture, quella religiosa di matrice cattolica e quella laica di matrice comunista. Fu un atto di coraggio civile che rinnovava, a mio avviso, quell’unità nella diversità che si era concretizzata nella Costituzione e che si era avviata nella Resistenza. La sua scomparsa priva il mondo e il nostro Paese di un protagonista del dialogo e di un costruttore di pace”.
- Dopo una sequela di interventi laici, interviene mons. Giovanni Ricchiuti (α1948), arcivescovo ad personam di Altamura, Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi.
“E’ sempre stato per la nonviolenza. La guerra è follia – come dice Papa Francesco – anche quella di difesa. L’unica difesa vera è sulla base della nonviolenza, con una resistenza civile nonviolenta. Bisognava essere di parola e abolire la Nato come era stato promesso due volte a Gorbaciov alla fine degli anni ’80, quando finì l’altro blocco militare (il Patto di Varsavia) e si sciolse l’URSS. Invece la Nato si è allargata agli stati che gravitavano sotto il dominio sovietico e allora la Russia si sente assediata.
Oggi né la Russia né gli Stati Uniti coi paesi della Nato intendono fermarsi e rinunciare alla vittoria militare sul terreno dell’Ucraina. Il rischio di guerra nucleare è elevato.
Bisogna fare tre cose:
- Creare una mentalità nonviolenta (che superi l’unico mezzo che ancora i governi vedono per risolvere i conflitti, cioè quello militare);
- impegnarsi senza posa con il dialogo e la diplomazia; attivare azioni di interposizione, di volontari che vadano in zona di guerra, come fecero i 500 pacifisti europei che, con lui e Mons. Tonino Bello, andarono a Sarajevo nel 1992 per portare un messaggio di pace e ottennero la sospensione delle sparatorie per 5 giorni.
- Occorrerebbe l’interposizione dell’ONU ma non funziona, perché andrebbe riformato.
In un’intervista recente Mons. Bettazzi ha detto: “Anche nella Chiesa ci sono tante mentalità, anche lì ci può essere chi dice che la libertà va difesa a ogni costo. Ma Gesù la sua libertà non l’ha difesa, è andato in croce. Poi però è risorto. E noi risorgeremo”.
Sindaco d’Ivrea e funerale di Bettazzi. prende la parola il neo-sindaco eporediese (maggio2023) avv. Matteo Chiantore (α1977).
- “Parlare del Vescovo Emerito Monsignor Bettazzi non è facile, tutto ciò che diciamo è sempre troppo poco rispetto a ciò che è stato, a ciò che ci lascia e al suo pensiero. Ha attraversato il mondo con le sue domande critiche, a volte scomode, con la sua capacità di dialogare, di seminare e costruire ponti di pace; uomo della nonviolenza ha saputo, come Olivetti, navigare in mari aperti, in percorsi non indicati: un uomo libero!
- E con questo suo agire si è messo sempre a disposizione per trattare: trattare per la pace, trattare per un riscatto fino ad offrire la Sua stessa vita in cambio di quella di un’altra, (anche in una rapina d un’oreficeria in Ivrea il 26 gennaio 1976), con la morte del titolare, e per circa 20 ore la tenuta di due ostaggi, suo figlio di 10 anni e di una commessa di 16 anni.
- Un uomo generoso la cui attenzione era sempre rivolta ai più fragili, ai più bisognosi, agli altri.
- Ci lascia il suo pensiero attraverso i libri, libri importanti e profondissimi nei quali non c’è mai la presunzione di un sapere definitivo ma sempre, anche qui, l’apertura al dialogo.
- Grazie Monsignor Bettazzi per essere entrato “dentro” il cammino della nostra Città. Sei stato la nostra Guida intervenendo e leggendo con il tuo sguardo tutto ciò che è accaduto negli anni, sei rimasto sempre al nostro fianco in dialogo, senza farci mai mancare il tuo sostegno.
- Il tuo esempio di straordinaria coerenza, umiltà e coraggio ci accompagnerà.
- La tua voce tonante continuerà a vibrare in noi. Grazie per aver voluto essere sepolto qui, in mezzo al popolo che rappresenta la tua storia vissuta.
- Non potrei esprimere meglio ciò che l’On. Mauro Berruto ha detto nel ricordo che ha voluto condividere in chiusura dei lavori alla Camera dei Deputati ieri, 17 luglio: “Mai come in questo caso le tante persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e che sono state ispirate da Mons. Luigi Bettazzi non possono essere tristi per averlo perso, ma felici per averlo conosciuto, ascoltato, amato per così tanto tempo”.
- Il tuo, Mons. Bettazzi, è stato lo sguardo di un Profeta, uno sguardo lungo che continuerà a incrociarsi con il nostro, con quello della tua gente.
- GRAZIE
con
Video: notare la bara posata sul pavimento prima dei gradini , con il vangelo e il drappo di Pax Christi
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – n. 28, 19 luglio 2023
§ Il video “ridiculous excuses” di coordown premiato al festival di Cannes. A fine giugno il Festival Internazionale della Creatività di Cannes ha premiato con il Leone d’Argento la campagna di CoorDown, lanciata in occasione della Giornata Mondiale della sindrome di Down 2023 (che ha coinvolto un numero impressionante di persone: un impatto di 70 milioni di visualizzazioni per l’hashtag #RidiculousExcuses su TikTok). A questo link [su YouTube – 2 min 11 sec] il video “Ridiculous Excuses not to be inclusive”, che ha messo in luce tante situazioni quotidiane (tutte accadute) in cui i ragazzi con sindrome di Down sono stati esclusi da attività in cui avrebbero potuto invece essere accolti. www.youtube.com/watch?v=6NBJ3GIUTps
§ Case Famiglia: storie di accoglienza da raccontare. 50 anni fa a Rimini è stata aperta la prima casa famiglia della comunità Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi. Un’esperienza speciale, di “senso” che arricchisce e completa la propria esistenza. Da proporre nei corsi di preparazione al matrimonio (di Francesco Belletti, direttore Cisf Centro Internazionale Studi Famiglia) [leggi sul sito di Famiglia Cristiana]
www.famigliacristiana.it/articolo/case-famiglia-storie-di-accoglienza-da-raccontare.aspx
§ Demografia e cambiamento climatico. Il Joint Research Centre (Jrc) dell’Unione Europea ha recentemente pubblicato un interessante report su demografia e crisi climatica [scaricabile a questo link – 96 pp] [https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=4%3d3WBZ7W%26s%3dT%26p%3dUCV%26q%3dU9TBW%262%3d9vMwJ_ttZq_5d_yrUs_9g_ttZq_4iwLdEp4cMpFpL.qIe.8j.6wKvGc.82_ISvW_SHKlGqLpKqK6_ISvW_SHAhEfEl_ISvW_SHmYd3V0V0c%26k%3dDwL344.GlK%26kL%3dCT6a%261J%3d4c9TBZ9U3X9R4U%26o%3d4h48X08FWcX87eV8ad8FWh4G24UhYdaGT9Vh2h9GU2c4h9W9T9UD66bkY3ahW78j7748:
presentato e introdotto dalla vicepresidente della Commissione UE Dubravka Šuica, questo testo mette in evidenza le diverse interconnessioni tra cambiamento climatico e quadro demografico. Da un lato, lo sviluppo della popolazione influisce sul cambiamento climatico attraverso le emissioni, ma anche il cambiamento climatico influisce sulla popolazione inducendo vulnerabilità e shock ambientali (ad esempio, nei prossimi anni in Europa ci sarà uno spostamento nella responsabilità per le emissioni nei confronti delle generazioni più anziane). D’altra parte, vi è un profondo mismatch tra le nazioni rispetto a popolazione e livello di emissioni: i maggiori produttori di emissioni – Usa, Cina e Ue – sono regioni dove si registra una decrescita demografica, mentre la crescita di popolazione si sta verificando nelle aree che attualmente hanno emissioni inferiori: la sostenibilità del modello di sviluppo economico sarà dunque la chiave, nel futuro, per non compromettere del tutto il delicato equilibrio climatico.
§ La salute mentale delle madri sia una priorità. Lo sottolinea l’organizzazione internazionale Make Mothers Matter, che ha accolto con estremo favore la nuova proposta d’indirizzo della Commissione Ue sulla salute mentale dei cittadini (i problemi correlati, infatti, pesano sulla bilancia dell’unione per quasi 600 miliardi l’anno). Quasi 1 donna su 5 in tutto il mondo sviluppa problemi di salute mentale durante la gravidanza o entro il primo anno dopo il parto, ricorda Make Mothers Matter. “Nonostante questi numeri, la fornitura e l’integrazione di servizi di salute mentale di qualità per le donne rimangono inadeguate e poco realizzate in tutta l’UE. Trascurare i problemi di salute mentale ha effetti dannosi di lunga durata sulla madre (ad esempio, aumento del rischio di ulteriori episodi clinici), sulla relazione madre-bambino e sul bambino (ad esempio, nello sviluppo socio-emotivo e cognitivo). https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_23_3050
§ ISTAT: la situazione del paese. È disponibile il report dell’ISTAT con materiali informativi [www.istat.it/it/archivio/285017] sulla situazione dell’Italia nel 2023: un ritratto del nostro paese che evidenzia le contraddizioni del presente e la complessità dovuta al post-Covid e alla crisi economica. Tra gli elementi innovativi di questa edizione si segnalano i focus di approfondimento trasversali ai quattro grandi temi affrontati dal Rapporto (demografia, lavoro, ambiente e imprese) per evidenziare aspetti di rilievo legati alla riduzione dei divari territoriali e agli equilibri inter-generazionali e di genere.
§ 10 miti da sfatare sulle cure palliative pediatriche. Si è da poco concluso il “Giro d’Italia delle cure palliative pediatriche”, una campagna organizzata da Vidas e Fondazione Maruzza per aiutare a promuovere la conoscenza su cosa sono e a cosa servono davvero le cure palliative pediatriche. Un tema delicato e ancora poco conosciuto, ma di fondamentale importanza per tantissime famiglie. In Italia, infatti, dei 35.000 giovanissimi che avrebbero bisogno di queste terapie, solo il 18% le riceve [qui l’approfondimento]
www.vidas.it/10-miti-sulle-cure-palliative-pediatriche/?utm_campaign=[23_EMA_DF_NEWSLETTERGIUGN_M0]+Newsletter+giugno+PROSPECT+(2023-06-12)&utm_medium=email&utm_source=MagNews
§ Aperti per ferie: le iniziative di comuni e volontariato. L’associazione Auser, nell’area del sito “Aperti per ferie”, ha messo a disposizione una guida per gli anziani per vivere l’estate sereni, sicuri, sostenuti e informati. Tra gli altri strumenti c’è “Dalla A alla Z – Le iniziative degli enti locali e del volontariato contro l’emergenza caldo”, che è un elenco, costantemente aggiornato e in ordine alfabetico, utile per aiutare gli anziani ad affrontare i rischi legati alla solitudine e agli effetti del caldo: call center, numeri verdi, monitoraggio degli anziani fragili, servizi a domicilio, attività ricreative in centri climatizzati e tanto altro ancora. Si può inoltre consultare la sezione “le sedi” per contattare la struttura Auser più vicina alla propria abitazione. Il numero verde del Filo d’Argento 800-995988 infine è attivo sette giorni su sette dalle 8 alle 20 per richiedere sostegno, scambiare due chiacchiere o semplicemente avere informazioni.
www.auser.it/comunicati-stampa/aperti-per-ferie-auser-in-campo-anche-questanno-per-aiutare-gli-anziani-ad-affrontare-i-disagi-del-caldo/#:~:text=E%E2%80%99%20infatti%20scattato%20il%20programma%20nazionale%20%E2%80%9CAperti%20per,soprattutto%20per%20le%20persone%20pi%C3%B9%20fragili%20e%20sole.
§ Dalle case editrici
- Quaderni di Scienza e Vita, “Homo cyborg. Il futuro dell’uomo tra tecnoscienza, intelligenza artificiale e nuovo umanesimo”, Cantagalli, Siena, pp. 122.
- G. Semprebon, “La nascita e l’infanzia”, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2022, pp. 192
- Stefania Garassini, Lo schermo dei desideri. Come le serie tv cambiano la nostra vita, Ares, Milano 2023, pp. 184.
Essere genitori non è facile, esserlo nell’epoca delle serie tv è forse ancora più sfidante, se solo pensiamo ai tanti temi che, custoditi attraverso la porta d’ingresso del nostro sforzo educativo, “entrano dalla finestra” dello schermo del tablet dei nostri figli. [Leggi qui tutta la recensione] . B.Verrini
newscisf2823_allegatolibri.pdf
§ Save the date
- Webinar (USA) – 28 luglio 2023 (15-16 EDT). “Should AI Care For Us?”, webinar dedicato agli interrogativi che solleva l’integrazione dell’Intelligenza Artificiale nelle relazioni di assistenza. A cura dell’Hastings Center, New York [qui per info e iscrizioni]
www.thehastingscenter.org/hastings-center-event/should-ai-care-for-us
- Formazione (Roma) – 14/16 settembre 2023. “La sfida umana nell’epoca della trasformazione digitale”, summer school organizzata da UPRA [qui per info e programma]
www.upra.org/evento/summer-school-scuola-estiva-di-alta-formazione-culturale
- Formazione (Parigi) – 29/30 settembre e 13/14 ottobre 2023. “Grandir et Aimer”, formazione rivolta a genitori, educatori, insegnanti, organizzata da AFC-Association Familles Catholique [qui per info]
- Convegno (Roma) – 4 ottobre 2023 (13.30-18.30). “Dialoghi HR. Costruire legami tra generazioni”, organizzato da SDA Bocconi, Roma (Via Antonio Nibby, 20) [qui per programma e iscrizioni]
www.sdabocconi.it/it/eventi-scuola/sda-bocconi-roma–dialoghi-hr-costruire-legami-tra-generazioni-20231004
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.asp
DALLA NAVATA
XVI domenica del tempo ordinario anno A
Sapienza 12, 19. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Salmo responsoriale 85, 15. Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, volgiti a me e abbi pietà.
Paolo ai Romani 08,26. lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili
Matteo 13, 35. Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Nel mondo per essere fecondi non perfetti
Il bene e il male, buon seme ed erbe cattive si sono radicati nella mia zolla di terra: il mite padrone della vita e il nemico dell’uomo si disputano, in una contesa infinita, il mio cuore. E allora il Signore Gesù inventa una delle sue parabole più belle per guidarmi nel cammino interiore, con lo stile di Dio.
La mia prima reazione di fronte alle male erbe è sempre: vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania? L’istinto mi suggerisce di agire così: strappa via, sradica subito ciò che in te è puerile, sbagliato, immaturo. Strappa e starai bene e produrrai frutto. Ma in me c’è anche uno sguardo consapevole e adulto, più sereno, seminato dal Dio dalla pazienza contadina: non strappare le erbacce, rischi di sradicare anche il buon grano. La tua maturità non dipende da grandi reazioni immediate, ma da grandi pensieri positivi, da grandi valori buoni.
Che cosa cerca in me il Signore? La presenza di quella profezia di pane che sono le spighe, e non l’assenza, irraggiungibile, di difetti o di problemi. Ancora una volta il mite Signore delle coltivazioni abbraccia l’imperfezione del suo campo. Nel suo sguardo traspare la prospettiva serena di un Dio seminatore, che guarda non alla fragilità presente ma al buon grano futuro, anche solo possibile. Lo sguardo liberante di un Dio che ci fa coincidere non con i peccati, ma con bontà e grazia, pur se in frammenti, con generosità e bellezza, almeno in germogli. Io non sono i miei difetti, ma le mie maturazioni; non sono creato ad immagine del Nemico e della sua notte, ma a somiglianza del Padre e del suo pane buono.
Tutto il Vangelo propone, come nostra atmosfera vitale, il respiro della fecondità, della fruttificazione generosa e paziente, di grappoli che maturano lentamente nel sole, di spighe che dolcemente si gonfiano di vita, e non un illusorio sistema di vita perfetta. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma incamminati; non per essere perfetti, ma fecondi. Il bene è più importante del male, la luce conta più del buio, una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo.
Questa la positività del Vangelo. Che ci invita a liberarci dai falsi esami di coscienza negativi, dal quantificare ombre e fragilità. La nostra coscienza chiara, illuminata, sincera deve scoprire prima di tutto ciò che di vitale, bello, buono, promettente, la mano viva di Dio continua a seminare in noi, e poi curarlo e custodirlo come nostro Eden. Veneriamo le forze di bontà, di generosità, di tenerezza di accoglienza che Dio ci consegna. Facciamo che queste erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro potenza e bellezza, e vedremo la zizzania scomparire, perché non troverà più terreno.
P. Ermes Ronchi, OMS
SINODO
Cammino sinodale, il «discernimento» Ecco le linee guida della fase sapienziale
Sono online le Linee guida per la fase sapienziale del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, arrivato al terzo anno. Si tratta di uno strumento per accompagnare e orientare questo Cammino cercando «di capire come far sì che il rinnovamento ecclesiale, coltivato nella fase narrativa, non rimanga solo un sogno».
Il testo si intitola “Si avvicinò e camminava con loro”. Diviso in tre parti, offre alcune riflessioni suscitate dal racconto di Emmaus – icona scelta per questo anno – e presenta elementi metodologici per valorizzare la grande ricchezza del lavoro finora svolto. Con l’obiettivo di proseguire nel percorso avviato, rafforzando l’esercizio del discernimento a partire dai temi e dalle domande proposte nelle Linee guida e indicando decisioni possibili, impegni, aspetti ancora da sviluppare.
Il documento evidenzia cinque macro-temi, che raggruppano le istanze raccolte nel biennio dedicato all’ascolto:
1) la missione secondo lo stile di prossimità;
2) il linguaggio e la comunicazione;
3) la formazione alla fede e alla vita;
4) la sinodalità permanente e la corresponsabilità;
5) il cambiamento delle strutture.
Ogni macro-tema si articola in alcuni sotto-temi che esplicitano le questioni emerse. Così, ad esempio, il testo avverte «l’esigenza di aprire strade da percorrere perché tutti abbiano posto nella Chiesa, a prescindere dalla loro condizione socio-economica, dalla loro origine, dallo status legale, dall’orientamento sessuale». Lo fa registrando che in particolare, su quest’ultimo aspetto, «le giovani generazioni, anche all’interno della Chiesa, sono molto sensibili agli atteggiamenti che sanno comprendere rispetto a quelli che respingono». Così «tali riflessioni chiedono, da un lato, di condividere le “buone pratiche” già attive nei territori ed emerse con i Cantieri di Betania e, dall’altro, di avviare processi di approfondimento sul piano antropologico e teologico, per integrare meglio le istanze del rispetto totale per le persone e della loro crescita nella verità».
Il documento poi registra che è emersa «l’istanza di ripensare la formazione iniziale dei sacerdoti, superando il modello della separazione dalla comunità e favorendo modalità di formazione comune tra laici,
religiosi, presbiteri». Il documento inoltre avverte che «è urgente un riconoscimento reale del senso e del ruolo delle donne all’interno della Chiesa, già preponderante di fatto, ma spesso immerso in quella ufficiosità che non consente un vero apprezzamento della sua dignità ministeriale». Il problema non è quello di «estendere prerogative», ma di «ripensare in radice il contributo femminile in rapporto al senso stesso della ministerialità e al profilo dell’autorità nella Chiesa». Infatti «la questione delle donne rappresenta un banco di prova fondamentale per la Chiesa chiamata a fare i conti con acquisizioni culturali che ancora la disallineano dalla comune vita sociale». In quest’ottica «diventa importante individuare forme operative che esprimano chiaramente la piena valorizzazione femminile nella corresponsabilità ecclesiale».
Al termine di ciascuno dei capitoli dedicati ai cinque macro-temi il documento propone una sola domanda come aiuto a sollecitare la riflessione e chiamare le comunità al discernimento.
Ecco le cinque domande:
1)«L’esistenza è intessuta di incontri con gli altri e la comunità si forma mediante la partecipazione di ciascun individuo: quali vie percorrere per la costruzione di una Chiesa davvero inclusiva, propositiva, responsabile, testimone di verità?».
2) «Quali chiavi interpretative e comunicative deve trovare la Chiesa per non lasciare nessuno “orfano di Vangelo”?».
3) «Come sintonizzare formazione ed educazione accompagnando la crescita per manente di tutti i membri della comunità, in ogni fase della vita e in qualsiasi ruolo si operi?».
4) « La Chiesa è una casa aperta e accogliente: come far sentire maggiormente coinvolti nella cura e nella gestione coloro che già la abitano, e in che modo renderla accogliente per coloro che sono o si sentono sulla soglia?».
5) « Le strutture della Chiesa, nei loro diversi ambiti, hanno bisogno di solide competenze, professionalità formate e divisione responsabile dei compiti: quali percorsi possono essere individuati per una gestione virtuosa ed efficace di beni e persone unita a una pastorale di nuovo attenta alla vita quotidiana?».
Per aiutare il lavoro a livello locale nelle prossime settimane verranno fornite anche alcune schede operative. «Queste Linee guida, facendo tesoro del biennio narrativo – spiega il Consiglio episcopale permanente nell’introduzione al documento – gettano un ponte verso la fase profetica, incamminando le Chiese in Italia verso un discernimento operativo che prepari il terreno alle decisioni, necessariamente orientate a un rinnovamento ecclesiale e mai introverse; anche quando l’attenzione è puntata sulla vita interna delle nostre comunità, il pensiero è sempre quello estroverso della missione: rendere più agili alcune dinamiche ecclesiali (dottrinali, pastorali, giuridiche, amministrative) per rendere più efficace l’incontro tra il Vangelo, energia vivificante e perenne, e l’umanità di oggi».
E questo soprattutto in un tempo in cui «i lavori sinodali si intrecciano con i problemi e i drammi di ciascuno, che sono i problemi e i drammi del mondo: gli strascichi sanitari, economici e sociali della pandemia, il clima di guerra tragicamente ravvivatosi, le crisi ambientali, occupazionali, esistenziali». Un tempo in cui «un senso di precarietà e di smarrimento avvolge molte persone e famiglie nel nostro Paese».
Il testo delle Linee Guida è arricchito da alcune infografiche e contiene infine il cronoprogramma con l’agenda delle prossime tappe e appuntamenti che condurranno all’apertura della fase profetica nel maggio 2024. Così dal 25 al 27 settembre prossimi, in occasione del Consiglio episcopale permanente, verrà trattata la definizione dei temi di competenza del livello nazionale, ovvero della Cei (Commissioni episcopali, Uffici e Servizi e organismi nazionali della Cei) e del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Mentre il 30 settembre e il 1° ottobre ci sarà l’Assemblea dei referenti diocesani. Nell’aprile del prossimo anno è invece prevista la consegna di tutte le proposte (i documenti delle Commissioni) alla presidenza del Cammino sinodale e la verifica con la plenaria del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Quindi la presidenza del Cammino sinodale inoltrerà i documenti alla presidenza della Cei in vista dell’Assemblea generale che si terrà dal 20 al 23 maggio 2024 e che aprirà la fase profetica.
Gianni Cardinale “Avvenire” 19 luglio 2023
www.avvenire.it/chiesa/pagine/ecco-le-linee-guida-per-il-cammino-sinodale-delle-chiese-in-italia
Quali ponti costruire nella Chiesa con intelligenza, perizia, affetto
Dal racconto alla riflessione per arrivare alla profezia. Che poi significa narrazione e ascolto, discernimento e, infine, decisione, per dare forma concreta, il più possibile contemporanea, all’annuncio. Il Cammino sinodale della Chiesa in Italia scandisce i suoi tempi avendo chiari gli obiettivi ma senza porre freni alla creatività, senza imbavagliare lo stupore. Sapendo bene che lungo la strada gli ostacoli possono diventare opportunità mentre la rosa cresciuta nel giardino di casa, insieme al regalo dei colori e del profumo, può ferire con le sue spine. Si tratta di essere preparati, di incamminarsi ben coperti per viaggiare sicuri ma pronti anche alle sorprese.
Ecco allora il senso delle Linee guide diffuse ieri dalla Cei per la seconda fase del Cammino sinodale, quella “sapienziale”. Non un documento blindato, di decisioni già prese, ma al contrario l’indicazione di un itinerario che tiene conto sia della strada percorsa che di quella da fare. Come nelle staffette quando il terzo centometrista, uscito dalla curva, passa il testimone all’ultimo compagno per un finale a tutta velocità.
Il periodo preso in considerazione è il biennio 2023-2024, che si concluderà nel prossimo mese di maggio con l’Assemblea generale della Cei punto di partenza della terza fase, quella “profetica”. Fino ad allora sarà un lavoro di cesello e valorizzazione delle storie e delle esperienze raccolte nel primo “tempo”, caratterizzato dall’ascolto. Oggi la parola chiave è dunque “discernimento”, cioè, banalizzando un po’, capacità di scelta. Non però in modo casuale ma al culmine di un esercizio di riflessione e studio che chiede intelligenza, perizia, volontà e affetto. Alla luce della sapienza biblica, più che mai lampada sul cammino dell’uomo e sintetizzata, nel documento Cei, dall’icona dei discepoli di Emmaus, riferimento anche per il titolo: «Si avvicinò e camminava con loro».
Con la fase sapienziale, sottolinea il testo, si apre «la questione decisiva», cioè «come collegare la partenza e la meta», ovvero «quali ponti costruire perché il rinnovamento ecclesiale coltivato nella fase narrativa non rimanga solo un sogno». C‘è infatti più che mai bisogno di realtà, di lettura dei segni dei tempi, di studiare spazi e modi della propria presenza. La domanda di fondo non è «cosa il mondo deve cambiare per avvicinarsi alla Chiesa» ma «cosa la Chiesa deve cambiare per favorire l’incontro del Vangelo con il mondo». Di qui il dovere del cristiano di aprirsi gli altri, di non restare chiuso in una comfort zone tra persone che la pensano tutte come lui ma di scendere nei crocevia della vita ferita, di confrontarsi con i distanti spezzando con loro «il pane della comune umanità».
Una sfida difficile, che per essere efficace ha bisogno di avere alle spalle una comunità solida, dove si ha la forza e l’umiltà di ascoltarsi reciprocamente. Altrimenti l’immagine sinodale del “Camminare insieme” resterà una bella cornice intorno a un brutto quadro e la stessa spinta al rinnovamento non sarà altro che un esercizio intellettuale. Perché solo confrontandosi si può operare un cambiamento efficace senza annacquare il messaggio evangelico. Cinque i “macro-temi” individuati come “luoghi” in cui esercitare il discernimento: la missione secondo lo stile della prossimità, il linguaggio e la comunicazione, la formazione alla fede e alla vita, la sinodalità permanente e la corresponsabilità, il cambiamento delle strutture. “Dentro” ci sono le domande che si pongono tutti: sul ruolo delle donne e il protagonismo dei laici, sulle parrocchie senza preti residenti, sull’accoglienza, sulla liturgia da rimodulare. E l’elenco potrebbe essere molto più lungo.
Le Linee guida non danno una risposta ma indicano uno stile, quello del discernimento. E un criterio per realizzarlo. Alla base un concetto speciale, anzi un avverbio. Si ragiona e quindi si decide, non uno per tutti o da soli, ma “insieme”.
Riccardo Maccioni Avvenire 19 luglio 2023
www.avvenire.it/opinioni/pagine/quali-ponti-costruire-nella-chiesa-con-intelligenza-perizia-e-affetto
Immaginare e fare sinodo
Ascolto sinodale, immaginazione teologica, deliberazione magisteriale
“Come deve essere esercitata l’autorità? …qui il Concilio diventa più esplicito, introducendo una terminologia e una forma letteraria nuova…Questo cambiamento portò a ridefinire che cosa fosse un concilio e che cosa avrebbe dovuto realizzare. Il Vaticano II modificò in modo così radicale il modello legislativo-giudiziario prevalso fin dal primo concilio, quello del 325 a Nicea, che in pratica lo abbandonò, sostituendolo con uno basato sulla persuasione e l’invito. Fu un cambiamento di enorme importanza”
J. W. O’Malley, SI (α1927-ω2022) “Che cosa è successo nel Vaticano II”,
“Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”.
S. Tommaso d’Aquino (α1225–ω1274)
Il discorso ecclesiale può facilmente cadere in ricostruzioni caricaturali della tradizione. Anche il sinodo non si sottrae a questo pericolo. Ne è un esempio il modo marginale e sospettoso con cui una parte dei soggetti ecclesiali pensa la dinamica sinodale in relazione al rapporto tra magistero e teologia. Vorrei soffermarmi su questo punto impostando una riflessione sulla rilevanza della “immaginazione teologica” come strumento di buon funzionamento di una dinamica sinodale autentica. Perciò imposterò anzitutto una descrizione non ingenua della dinamica sinodale, per poi porre in miglior evidenza la inadeguatezza di ricostruzioni “formali” e giuridiche della subordinazione della teologia al magistero, concependo piuttosto la loro relazione come interazione preziosa tra “due forme di magistero”.
- Ascolto, immaginazione e deliberazione. Nella dinamica di confronto sinodale risulta fondamentale l’attitudine all’ascolto. Che cosa significa? In sostanza, perché sia dato spazio ai disegni dello Spirito, è decisiva una disponibilità ad ascoltarlo nella forma di un ascolto della Parola e della tradizione mediati dall’ascolto del prossimo. Ascoltare l’altro diventa condizione per ascoltare lo Spirito. Per arrivare a questo risultato, tuttavia, le cose non sono mai immediate. Intendo dire che, se questo è vero, occorre uscire da una ricostruzione di comodo – e purtroppo istituzionalmente troppo forte – secondo la quale il “magistero autentico”, di per sé, non ha bisogno di ascoltare nessuno. Qui si nota, istituzionalmente, una brutta falla nella nave della chiesa. La comprensione del “magistero autentico” rischia di censurare a priori ogni cammino sinodale, perché propone una tale “autosufficienza” del magistero, da non aver bisogno di alcun ascolto, di alcuna immaginazione e di alcuna deliberazione. E’ interessante il fatto che una certa comprensione della relazione tra magistero e teologia escluda, allo stesso tempo, la sporgenza di un ascolto strutturale alla fede (riducendo l’ascolto all’esercizio delle “buone maniere”), la creatività della teologia (ridotta a “svolgimento interno al magistero autentico”) e la stessa deliberazione magisteriale (ridotta a “protezione difensiva del depositum fidei”). È evidente che in questo modo è la stessa dinamica sinodale a risultare meramente accessoria. Viceversa, per una adeguata valorizzazione dell’ascolto, occorre pensare ad una funzione strutturale della “immaginazione teologica”, capace di preparare luoghi di ascolto dai quali scaturiscano “deliberazioni autorevoli”, preoccupata non semplicemente di difendere quanto acquisito, ma di scoprire nuove formulazioni della sostanza del depositum. Vi è, in ogni sinodo, un ruolo che la immaginazione teologica svolge per rendere significativo l’ascolto e per preparare deliberazioni autorevoli. Senza immaginazione teologica non si cammina sinodalmente. Questo mette in profonda crisi una ricostruzione di comodo del rapporto tra magistero e teologia, che merita ora di essere approfondita.
- Il Magistero tra Vaticano I e Vaticano II. Il nodo decisivo dello sviluppo del rapporto che dobbiamo qui brevemente studiare consiste in un interessante paradosso: proprio nel momento in cui il Magistero diventa sensibile a nuove istanze della riflessione teologica, esso muta rapporto con la dottrina e con la teologia, passando da Magistero prevalentemente negativo (come è stato per circa 1800 anni) a Magistero quasi esclusivamente positivo. Questo passaggio, che il Concilio Vaticano II ha sancito in forma autorevolissima, soprattutto realizzandolo praticamente, pur con tutte le sue giustificazioni, oggi comporta molti problemi in meno, ma anche qualche difficoltà in più.
Ciò è dovuto precisamente al fatto che il magistero si intende storicamente come negativo (ossia si limita a “condannare proposizioni erronee” o a “dare dignità dogmatica ad affermazioni centrali per la fede”) lasciando tutto il resto del campo al libero dibattito teologico. Il magistero che condanna, condanna proposizioni. Viceversa il magistero che decide di diventare esclusivamente positivo, proprio a causa del fatto che interviene positivamente in ogni aspetto della vita di fede (vita religiosa, vita familiare, bioetica, problemi del mondo del lavoro, turismo, sport, orari di chiusura dei negozi…) tende così a coprire tutto il campo che prima era riservato alla libera discussione teologica e pastorale. Questo è diventato evidente, ovviamente, solo nel post-concilio.
Ciò ha comportato un progressivo spostamento della “questione” della relazione tra magistero e teologia. La autolimitazione del magistero, che la tradizione garantiva in modo sobrio ma efficace, di fatto è venuta meno a partire da una più grande consapevolezza della “mediazione” di cui la Parola ha bisogno.
Vi è qui, a mio parere, proprio lo spazio per uno sviluppo “equivoco”: da un lato la sottolineatura del “principio scritturistico” ha limitato le pretese di un Magistero onnicomprensivo e onnipotente. Ma d’altra parte, proprio la estensione della sollecitudine ecclesiale ha reso possibile una sorta di “santa alleanza” tra antico e nuovo che genera una figura di magistero molto più esteso e incondizionato di prima (Melloni). Se uniamo la lettura del papato/magistero del Vaticano I alla estensione delle competenze del Vaticano II otteniamo una figura sbilanciata di magistero, di fronte al quale nessuna teologia può sperare di avere più alcuna reale consistenza. Il CJC del 1983 costituisce il punto più avanzato e rischioso di una tale riduzione della teologia a mero commento acritico del magistero autentico3.
c) Ministero e magistero, minus et maius. Un principio fondamentale è iscritto nella forma originaria della vita cristiana. In essa, infatti, vi è una singolare coincidenza di due termini che la tradizione precristiana (e anche post-cristiana) oppone decisamente. Ascoltiamo a questo proposito una interessante citazione che J.-L. Marion ha ripreso da
M. Mauss: “Donare equivale a dimostrare la propria superiorità, valere di più, essere più in alto, magister; accettare senza ricambiare in eccesso, equivale a subordinarsi, diventare cliente o servo, farsi piccolo, cadere più in basso, minister“.
L’idea di Marcel Mauss (α1872- ω1950) mostra bene la radice della tensione originaria che si manifesta tra “magistero” e “ministero”: i due concetti, nell’uso culturale e antropologico, tendono ad opporsi radicalmente, allo stesso modo con cui il donatore e il donatario, il soggetto attivo e il soggetto passivo si contrappongono intorno ad un “dono”. Nella Chiesa, tuttavia, l’esperienza del “magistero” è strutturalmente “ministeriale”, mentre il “servizio” ha un suo insuperabile “magistero”. Il dono è anzitutto ricevuto e accettato, ma ha bisogno di poter essere continuamente ri-donato nella testimonianza, nell’annuncio, nella carità.
Questa citazione ha permesso di recuperare quella che il Concilio Vaticano II ha sviluppato e riletto in modo molto acuto e sorprendente: la natura ministeriale del magistero ecclesiale. Il che significa una verità fondamentale e decisiva per la Chiesa: il Magistero ha la funzione di servire, non di essere servito. Ed è quanto afferma chiaramente Dei Verbum 10, quando dice che il “magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve”. Questa asserzione, come verità che attraversa l’intero spettro della storia della Chiesa, ha assunto a partire dal Concilio Vaticano II una particolarissima forma di “paradossalità”, che vorrei qui brevemente portare alla luce.
- Un documento della Commissione Teologica Internazionale. Se infatti il concetto di magistero è profondamente mutato proprio a causa di una nuova rilettura della Chiesa rispetto al proprio fondamento (nella Parola, nel mistero celebrato, nella testimonianza istituzionale e nel rapporto col mondo) questo ha profondamente mutato il rapporto tra teologia e magistero. Quale servizio il Magistero può esercitare nel momento in cui da “”negativo” diventa “positivo”? E quale ruolo gioca la teologia se il Magistero si muove con una nuova disinvoltura (prima quasi impensabile) nel campo delle “opinioni teologiche”? Potremmo rispondere, con il documento della Commissione Teologica Internazionale, Teologia Oggi: Prospettive, Princìpi e Criteri (21 novembre 2011)
- Teologia oggi: prospettive, principi e criteri, “Il Regno”, 57(2012), 269-289.
www.ilregno.it/documenti/2012/9/teologia-oggi-prospettive-principi-e-criteri-commissione-teologica-internazionale
(I numeri tra parentesi si riferiscono ai paragrafi di questo documento).
“Esiste effettivamente nella Chiesa un certo ‘magistero’ dei teologi” (39). Non vi è dubbio che il servizio teologico è riconosciuto da sempre come una funzione indispensabile per l’esercizio del magistero della Chiesa. Proprio l’ultimo Concilio ha rappresentato un evento che ha messo in singolare evidenza la stretta collaborazione tra vescovi e teologi. Proprio per questo la teologia può anche montarsi la testa e pretendere che il magistero episcopale sia semplicemente “applicativo” dei risultati delle proprie ricerche. D’altra parte, a sua volta, il magistero episcopale può anche arrivare a illudersi di poter fare a meno di ogni contributo teologico scientifico, di avere già, di per sé, tutti gli elementi per la azione pastorale. La arroganza dei teologi corrisponde, talvolta, alla presunzione dei pastori. Si tratta di due errori speculari e altrettanto deleteri.
Questo aspetto del rapporto delicato tra teologi e pastori viene presentato con accuratezza dal documento della Commissione Teologica Internazionale (29.XI.2011) al paragrafo 4 (nn.37-44). Una prima affermazione che merita di essere considerata è la seguente:
“Vescovi e teologi hanno una chiamata diversa, e devono rispettare le rispettive competenze, per evitare che il magistero riduca la teologia a mera scienza ripetitiva, o che i teologi presumano di sostituirsi all’ufficio di insegnamento dei pastori della Chiesa” (37)
Questo primo passo consente di identificare uno specifico servizio teologico che non permette di interpretare la funzione del teologo come quella dell’addetto stampa. Il teologo elabora la propria scienza con criteri di criticità che non sempre coincidono con la ufficialità ecclesiale: la ricerca teologica, se diventa meramente ripetitiva del magistero, non è più ricerca e non è più teologia. Ma veniamo a un altro passo interessante, che riguarda la interpretazione “autentica” della fede, che solo il magistero e non la teologia può dare:
“L’accettazione di questa funzione del magistero relativamente all’autenticità della fede richiede che vengano riconosciuti i diversi livelli delle affermazioni magisteriali. A questi diversi livelli corrisponde una risposta differenziata da parte dei credenti e dei teologi. L’insegnamento del magistero non ha tutto lo stesso peso” (40)
Proprio a causa della diversa funzione che la teologia e il magistero esercitano all’interno della Chiesa, la teologia in alcuni pochi casi è strettamente vincolata dal pronunciamento del magistero, mentre in altri è indirizzata, consigliata, orientata, senza impedirle di esplorare e percorrere, rispettosamente e in comunione, altre strade.
D’altra parte il documento ricorda come non sia sbagliato attribuire alla stessa teologia un ruolo magisteriale: “Esiste effettivamente nella Chiesa un certo ‘magistero’ dei teologi” (39), che non ha senso pensare come alternativo o concorrenziale rispetto a quello dei pastori, ma che necessariamente conosce dei momenti di “tensione” rispetto a quello. Ed è prezioso il fatto che in nota (alla nota 87, per la precisione) il testo ricorda che Tommaso d’Aquino distingueva tra magisterium cathedræ pastoralis e magisterium cathedræ magistralis, riferendo il primo ai vescovi e il secondo ai teologi.
Vorrei citare, infine, un’ultima affermazione. Si tratta della necessaria adesione al magistero, che caratterizza la tradizione della fede cattolica, e alla quale il teologo non fa eccezione, qualificando tuttavia la propria adesione come “responsabile”. Il testo qui precisa molto opportunamente:
“La libertà della teologia e dei teologi è un tema di particolare interesse. Tale libertà deriva da una vera responsabilità scientifica”. (43). In questa espressione troviamo affermato un principio spesso dimenticato nel dibattito all’interno, ma anche all’esterno alla Chiesa, dopo Dei Verbum. Il teologo, in quanto tale, deve essere libero proprio per la funzione di servizio che svolge all’interno della Chiesa. Potremmo dire “libero di servire” in una forma molto determinata: la Chiesa ha bisogno di uomini e donne “liberi per il rispetto critico e per la critica rispettosa”. In questo modo essa si arricchisce e di rafforza, garantendo al proprio interno, all’interno della comunione ecclesiale, la presenza di voci che per mestiere/ministero debbono soppesare parole, espressioni, decisioni, strutture, evoluzioni della Tradizione, antica e recente. Non per assumere decisioni ultime (cui sono preposti non i teologi, ma i pastori), ma per prepararle, commentarle, analizzarle, correggerle.
A 50 anni dal Concilio Vaticano II possiamo riconoscere il cammino compiuto dalla teologia, anche in Italia, e le buone prove di collaborazione con il Magistero. Il quale, talvolta comprensibilmente, sembra temere soprattutto una teologia che abusa della libertà, che si emancipa dai vincoli, che gioca al tiro al piattello, che prende posizioni di aperto e irrimediabile dissenso. Ma questo, io credo, resta oggi un problema minore. Il problema maggiore è invece quello di una teologia che rinuncia alla libertà, che esercita la funzione dell’addetto stampa o dell’incaricato delle pubbliche relazioni, che si trasforma – sua sponte – da servizio a servitù e che finisce per essere teologia di corte. Ma una “teologia di corte” fornisce invariabilmente al magistero una “teologia di corte vedute”.
e) La dottrina e una memoria del “caso Sobrino”. Il mutamento che il Concilio Vaticano II ha introdotto induce a riconoscere che l’adeguamento della Chiesa a tale nuovo modello di “dottrina” stenta a decollare e determina – sia dal punto di vista delle procedure che dei contenuti – una forte tensione tra diversi paradigmi di esercizio della autorità. Del tutto evidente mi pare la forma con cui si sono svolte alcune “indagini” a proposito del pensiero di singoli teologi. Qui, bisogna riconoscerlo ancora una volta, il mutamento tra magistero negativo e magistero positivo, non è affatto un passaggio lineare e progressivo, ma comporta incomprensioni, pericolose estensioni di competenze o limitative comprensioni del pensiero altrui.
Il caso Sobrino, ma già prima altri casi, come ad esempio il caso De Mello, e oggi di nuovo ciò che mi pare stia accadendo con Torres Queiruga, risentono precisamente di questo mutamento di approccio tra magistero negativo e magistero positivo. Non si condannano più “proposizioni”, ma “posizioni”, “idee”, “istanze” che potrebbero indurre in proposizioni errate! Proprio il fatto che il Magistero si autointerpreti in modo “positivo”, rende molto più precario il “garantismo” – in tutti i sensi – verso le posizioni teoriche messe sotto inchiesta. Vorrei ricordare come, proprio in occasione del “caso Sobrino”, P. Huenermann ebbe a scrivere un commento molto amaro sulla “occasione mancata” che il caso aveva rappresentato. Il noto teologo tedesco, dopo aver illustrato con puntualità tutte le debolezze della notificazione che la Congregazione per la Dottrina delle Fede ha inviato a Sobrino, conclude in modo molto più generale le proprie considerazioni, entrando nel merito della relazione delicata tra teologia e magistero. Vorrei citare integralmente questa parte finale del suo scritto, nella quale sono riassunti con grande chiarezza una serie di questioni insolute:
“ La relazione fra papa e vescovi, da un lato, e fra papa-vescovi e teologi, dall’altro, riveste un’importanza ineludibile per il cammino della Chiesa verso l’avvenire. Oggi, la Congregazione per la dottrina della fede assolve la funzione più importante nel garantire la qualità della teologia. Essa deve preoccuparsi che la teologia esprima veramente la ratio fidei. Il fatto che al riguardo, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, si siano ripetutamente registrati conflitti gravi e dannosi per l’immagine della Chiesa e del suo cammino di fede, non dipende solo dalle persone che vi lavorano, dalla loro formazione più o meno completa e aggiornata.
Queste deficienze aggravano i potenziali conflitti. Ma la vera ragione dei conflitti è essenzialmente un’altra: in fondo la Congregazione per la dottrina della fede – succeduta al Sant’Uffizio – ha conservato quella struttura di ufficio censorio che aveva agli inizi dell’era moderna e che, del resto, allora esisteva in tutti gli stati europei. Oggi l’assicurazione della qualità in campo scientifico è strutturata in modo diverso: collabora essenzialmente con le scienze e include – possibilmente – le autorità scientifiche nei processi decisionali relativi alla politica della ricerca scientifica e alla gestione delle scoperte scientifiche. Oggi, bisogna elaborare la ratio fidei in una società culturale molto complessa, con i suoi gravi problemi e rifiuti sociali, scientifici, umani. Essa presenta quindi un grado di complessità, che un ufficio censorio di vecchio stampo non è assolutamente in grado di affrontare, sia sul piano organizzativo che tecnico. Occorre un’intelligente ristrutturazione della Congregazione per la dottrina della fede.
Riguardo a questo caso – la condanna degli scritti di Jon Sobrino – sarebbe opportuno, anzi necessario, fare seguire alla presente Notificazione – come nel caso delle comunicazioni ufficiali sulla teologia della liberazione – una seconda Notificazione, con una diversa impostazione e argomentazione.”
Vorrei soltanto aggiungere un fattore di ulteriore complessità, ma anche di ricchezza. Quanto diceva Huenermann 15 anni fa procede dal cambiamento di paradigma conciliare: ma esso comporta anche il riconoscimento di un diverso modo di esercitare l’autorità nella Chiesa. Il pericolo che oggi corriamo è di avere un magistero capace di essere “positivo” – e questa è una grande novità – ma che reagisce in modo solo “negativo” alle sollecitazioni della teologia.
f) Sinodo e teologia. Il percorso argomentativo seguito fin qui permette di identificare nella “immaginazione teologica” – tipica del magistero accademico – una delle condizioni perché il magistero sia in grado di ascoltare e perché l’ascolto conduca il magistero a deliberare. Senza questa mediazione preziosa, l’ascolto non produce deliberazioni e le deliberazioni prescindono da ogni ascolto. Il paradosso è questo: lo statuto formale della teologia secondo la versione istituzionale (del CJC del 1983) non lascia spazio ad alcuna immaginazione teologica: anzi, la proscrive! Ma senza immaginazione teologica ogni sinodo resta un buco nell’acqua: l’ascolto non produce deliberazioni e le deliberazioni restano per principio indipendenti dall’ascolto.
Andrea Grillo blog: Come se non 17 luglio 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/immaginare-e-fare-sinodo
VESCOVI EUROPEI:
Non esiste un “diritto fondamentale all’aborto”. Il richiamo della Comece: rispettare la vita
Si intitola “L’indifendibilità etica di un diritto fondamentale dell’Ue all’aborto” la dichiarazione elaborata dalla Commissione etica della Comece, diffusa martedì 18 luglio. La posizione dei vescovi europei entra nel dibattito pubblico sull’inclusione di un presunto diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Il richiamo alle normative nazionali e alle competenze comunitarie. E, soprattutto, al diritto alla vita
Mons. Anton Jamnik, (α1961) presidente della Commissione etica della Comece
Nell’ambito del dibattito pubblico sull’inclusione di un presunto diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, la Comece (Commissione degli episcopati dell’Unione europea) ha pubblicato martedì 18 luglio una dichiarazione intitolata “L’indifendibilità etica di un diritto fondamentale dell’Ue all’aborto” elaborata dalla sua Commissione etica. Il documento sostiene che il rispetto della dignità inalienabile di ogni essere umano in ogni fase della vita – specialmente nelle situazioni di completa vulnerabilità – è un “principio fondamentale nelle nostre società democratiche”.
Profonda preoccupazione. Mons. Anton Jamnik, presidente della Commissione etica della Comece, ha affermato che “gli Stati membri dell’Unione europea hanno tradizioni costituzionali molto diverse per quanto riguarda la regolamentazione legale dell’aborto, pertanto, costituire un diritto fondamentale all’aborto andrebbe contro i principi generali del diritto dell’Unione”. Il documento ribadisce inoltre che “non esiste alcun diritto riconosciuto all’aborto nel diritto europeo o internazionale”.
Occorre ricordare che all’inizio del 2022, la Comece aveva espresso la sua profonda preoccupazione per la proposta del presidente francese Emmanuel Macron di includere un presunto diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nel luglio 2022, in reazione a una risoluzione del Parlamento europeo, la Comece aveva invece rilasciato una dichiarazione in cui incoraggiava i leader politici “a lavorare per una maggiore unità tra gli europei, non per creare barriere ideologiche e polarizzazioni più elevate”.
Richiamo ai “padri fondatori”. Per quanto riguarda l’indifendibilità etica di un diritto fondamentale dell’Unione europea all’aborto, la Commissione sull’etica della Comece ritiene anzitutto che “la dignità umana è un valore fondamentale nei trattati e nella Carta dell’Ue. I padri fondatori dell’Unione europea – affermano i vescovi –, basata sulla genuina tradizione umanistica che fa dell’Europa quello che è, erano ben consapevoli dell’importanza fondamentale della dignità inalienabile dell’essere umano. Il rispetto della dignità di ogni essere umano in ogni fase della sua vita, specialmente nelle situazioni di completa vulnerabilità, è un principio fondamentale in una società democratica”.
Il “principio di attribuzione”. Nel documento emesso a Bruxelles, dove ha sede la Comece, si afferma che da un punto di vista legale, non esiste alcun diritto riconosciuto all’aborto nel diritto europeo o internazionale. “Né la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue né la Convenzione europea dei diritti fondamentali (Cedu) approvano tale diritto all’aborto”.
Quindi si precisa: “le competenze legislative degli Stati membri dell’Ue e il principio di attribuzione secondo cui l’Unione agisce solo nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati per il conseguimento degli obiettivi da essi previsti (articolo 5.2 del Trattato di dell’Unione europea) dovrebbero essere rispettati. Non ci sono competenze a livello Ue per regolamentare l’aborto”.
Corte europea dei diritti umani. Fra l’altro il documento dei vescovi precisa che la Corte europea dei diritti dell’uomo non ha mai dichiarato l’aborto un diritto umano protetto dalla Convenzione europea dei diritti fondamentali. “Al contrario, ha dichiarato il diritto alla vita come un diritto umano fondamentale” e “ha confermato nella sua giurisprudenza che è obiettivo legittimo per gli Stati contraenti della Convenzione proteggere la vita nascente”. Inoltre la dottrina generale della Corte europea dei diritti dell’uomo indica che “in questioni che impegnano più di un diritto umano fondamentale, e su cui i cittadini e gli Stati democratici hanno opinioni diverse, lo Stato membro gode di un ampio margine di apprezzamento nel modo in cui questi diritti sono bilanciati”. L’aborto, dunque, “impegna il diritto alla privacy nella vita familiare, ma lo Stato ha anche un legittimo interesse a proteggere i bambini non nati e ha il dovere di garantire che le leggi non rafforzino la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità o ledano i diritti di coscienza degli operatori sanitari. L’aborto è un legittimo fulcro del diritto penale e civile, e la grande maggioranza degli Stati ha statuti specifici che impongono requisiti e limiti alla pratica dell’aborto”.
[In Itala, l’art. 19 della legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza depenalizza il fatto al rispetto della stessa legge e punisce altrimenti il reato. – Esiste anche l’aborto come severa patologia medica, ovviamente involontario]
Rispettare le tradizioni costituzionali. La dichiarazione Comece prosegue così: “per quanto riguarda l’Unione europea e il ripetuto appello ad implementare in futuro un nuovo diritto fondamentale all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, la Commissione per l’etica sottolinea che la modifica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea richiederebbe una procedura molto complessa”. Secondo i requisiti di legge dell’art. 48 del Trattato “la ratifica da parte di tutti gli Stati membri è un prerequisito per le modifiche del trattato” stesso. “Sarebbe inoltre necessaria una convenzione composta dai rappresentanti di tutti i parlamenti nazionali, dei capi di Stato e di governo, del Parlamento europeo e della Commissione”. Inoltre, “vi è una grande diversità nel modo in cui gli Stati membri bilanciano i diritti delle donne incinte con i diritti del nascituro”.
Per quanto riguarda “le tradizioni costituzionali, all’interno dell’Ue emerge un quadro molto diverso. Il rispetto della diversità di queste norme e la grande importanza di ciascuna tradizione costituzionale nel soppesare diritti fondamentali divergenti in un conflitto sulla gravidanza suggeriscono di non costituire un diritto all’aborto come principio generale del diritto dell’Unione”.
Gianni Borsa Agenzia SIR 18 luglio 2023
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