news UCIPEM n. 968 – 25 giugno 2023

news UCIPEM n. 968 – 25 giugno 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n.22 , 7 giugno 2023

04 DALLA NAVATA                              XI domenica del tempo ordinario (anno A)

04                                                          Verità e valore

05 DONNE NELLA (per la) CHIESA   Il male della banalità. Nella Chiesa, per esempio

O6 ECUMENISMO                               La Conferenza delle chiese europee ha eletto un nuovo presidente

07                                                          Bartolomeo: «In Europa le persone non si identificano più con le chiese nazionali»

08                                                          “Alzati e mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”

09 FRANCESCO VESCOVO DI ROMA Papa: “Blaise Pascal aveva messo l’amore dei fratelli al primo posto”

10 GIURISPRUDENZA                          L’abuso minorile: i minorenni protagonisti di abusi  

12                                                          Sentenza ecclesiastica: no alla delibazione se contraria all’ordine pubblico

13                                                          Contribuzione a spese straordinarie assicura provvista per le specifiche esigenze figli

14 OMOFILIA                                        Educatore in parrocchia e gay? «I criteri siano quelli di “Amoris lætitia”»

15 SACERDOZIO                                   Presbiteri guide di comunità: quale discernimento?

16 SINODO  2023                                Le tappe continentali del Sinodo. Un flash sulla Chiesa

18                                                          Le consegne di papa Francesco

18                                                          Il messaggio di Giovanni XXIII

19                                                          Sinodo: “sana decentralizzazione” per dare “più spazio a laici e donne”

21                                                          Sinodo «Esperienza di ascolto e creatività»

23                                                          Sinodo 2023, IL DOCUMENTO DI LAVORO segna l’avvio di un nuovo processo

23                                                          Matrimonio dei preti donne diacono e gay. Il Sinodo prepara il futuro della Chiesa

26 SINODO. TEMATICHE                     Il teologo Mancuso: «Donne e omosessuali? La Chiesa faccia le riforme.

27..                                                        Il Sinodo e il diaconato femminile: la autorità del Signore e la padronanza di sé del ministro

29                                                          La Chiesa sinodale non ha bisogno degli sposi?

30 SOCIOLOGIA                                    L’incontrastato declino delle verità cristiane

32 TEOLOGIA                                       La tragedia dell’uomo democratico. La teologia sapienziale alla prova della modernità

CISF

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – N. 24, 21 giugno 2023

֍           Elon Musk a Roma: “Non dimenticate di fare bambini!”. “Don’t forget to have kids!” ha detto il miliardario patron della Tesla in uscita da una visita ufficiale con il premier Giorgia Meloni, il 15 giugno scorso. Nell’incontro sono state sollevate due preoccupazioni fondamentali: la denatalità – per risolvere la quale Musk ha consigliato ulteriori sgravi fiscali per chi fa figli, o comunque misure per rendere la natalità una scelta più sostenibile – e, come secondo punto, i rischi dell’intelligenza artificiale per il futuro della specie umana. Vi proponiamo un’intervista a Musk di due anni fa, in cui faceva il punto sul problema del crollo mondiale delle nascite e sui “falsi miti” della sovrappopolazione che, a suo avviso, si generano solo nelle città (4:11 minuti)

֍           USA: le 10 migliori città family friendly. L’americano medio può aspettarsi di trasferirsi circa 11,7 volte nella vita, per motivi che vanno da un nuovo lavoro o l’accumulo di ricchezza a lungo termine, all’instabilità finanziaria, come un pignoramento o la perdita del lavoro. Per le famiglie con bambini, la ricerca di una città accogliente ha un elenco di variabili che include la qualità delle scuole, le liste d’attesa dell’asilo nido, il clima, le attrazioni, la qualità dell’aria. Sono le metriche utilizzate dalla ricerca nazionale di Wallet Hub, un sito finanziario che ogni anno compila la classifica delle città “family friendly” su una lista di 182 città degli Stati Uniti, comprese le 150 città più popolate in generale e almeno due delle città più popolose di ogni stato. Quest’anno ben 5 città della California (compresa San Francisco) si trovano nella top ten. Le peggiori? Detroit, Memphis e Cleveland.

 https://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:HacCFzL6RtsJ:https://wallethub.com/edu/best-cities-for-families/4435&cd=9&hl=it&ct=clnk&gl=it

֍           Lombardia: costituita la consulta regionale della famiglia. Il 12 giugno è stata approvata dalla Giunta regionale della Lombardia, su proposta dall’Assessore alla Famiglia Elena Lucchini, la delibera che istituisce la Consulta Regionale della Famiglia [qui il documento in pdf]. “La consulta sarà un utile strumento di confronto e potrà esprimere pareri e formulare proposte in relazione alle politiche per la famiglia”, ha spiegato l’assessore Lucchini, che ne sarà presidente. Ne fanno parte come membri quattro rappresentati del Terzo Settore – Giovanni Giambattista (Forum regionale delle associazioni familiari), Livia Cadei (Presidente Federazione Lombarda Centri Assistenza Famiglia), Alberto Fedeli e Maria Grazia Campese (Segreteria Tecnica del tavolo Terzo Settore); due rappresentanti dei comuni – Guido Agostoni (Presidente Dipartimento Welfare di Anci Lombardia) e Paolo Brivio (Sindaco di Osnago); un direttore sociosanitario di una ATS – Antonio Colaianni (Direttore sociosanitario ATS Brianza); un direttore sociosanitario di una ASST – Simonetta Cesa (Direttore Sociosanitario ASST Papa Giovanni XXIII). La partecipazione alla Consulta regionale è a titolo gratuito e non prevede alcun compenso ai componenti coinvolti.

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=4%3dHXMZLX%264%3dT%265%3dVMY%266%3dVJTQX%26C%3d9AN8_Ihwh_TR_Litg_VX_Ihwh_SWHwN0FwKA90.JrH826F75zA1KrF.1K_9ukq_Iju000_0rjt_JgrNB2tB565NA_Ihwh_SW840s902-3I53rLv0r.Jv7%26u%3dGCJC7J.EvN%261J%3dMWKS%26AM%3dJaIWRWIUITHbKW%26y%3d5NYM7K6vcRRQcORPVOZt9Q4LdtTOWs62r5swcN4JXs4rVL2L0NUPZxVI6L4McRTIaRSK

֍           La relazione del garante nazionale delle persone private della libertà personale. Il 15 giugno il Garante delle persone private della libertà personale ha presentato la relazione al parlamento. Le problematiche più ricorrenti riscontrate, in particolare nel corso degli anni dell’emergenza pandemica cui la Relazione è riferita, sono state quelle relative alla difficoltà di mantenimento delle relazioni affettive o, più spesso, all’isolamento degli ospiti delle strutture a causa dell’impedimento dell’accesso, anche con le opportune misure di prevenzione del contagio, di parenti, amici e caregivers. Tra i propri compiti, il Garante ha anche quello di monitorare con puntualità la situazione di coloro che vivono in strutture residenziali quali le RSA (Residenze Sanitarie Assistite) o le RSD (Residenze Sanitarie Disabili).

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=9%3dKTFeOT%26w%3dY%268%3dRFd%269%3dRCYTT%266%3dDDJ1O_Bqdv_Ma_3wmp_Cl_Bqdv_Lf8SG.7lNuD5A81AE9DlHyF3EF15E69mABJl.ED_Hbyj_RQC8Fw_Nksa_XZHpO9K39yI_3wmp_ClwC4_Nksa_XZ4z9ECpJDI_3wmp_Clz3BYTQD0ySI9M2leQ3G0TSFcz5CWvYEW.04q%260%3d7K4RwR.yAD%2694%3dbMSC%26P7u1lC%3dRKXMZGXKQDYPQE%26D%3dPTFbLZJARZHWK1B7uTIXQWDWK1pdRUDXKYH0N6JYO1lax4KWKSK8KYpcu4GZSRHc

֍           Corso estivo di bioetica all’UPRA. Dal 3 al 7 luglio 2023 a Roma si svolgerà il 21° Corso estivo monografico di aggiornamento in Bioetica (in italiano e inglese) dal titolo: “Dialogo, amicizia e polarizzazione in bioetica”. Il corso è organizzato dalla Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum in collaborazione con la Cattedra UNESCO in Bioetica e Diritti Umani. C’è tempo fino al 26 giugno per l’iscrizione

www.upra.org/offerta-formativa/facolta/bioetica/corso-estivo

֍           Dalle case editrici

  • L. Ballerini, Scegliere le superiori, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2023, pp. 124.
  • J. Eldredge, Cuore selvaggio. Viaggio nell’animo maschile, Ares, Milano, 2023, pp. 336.

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  • Massimiano Bucchi, Io & Tech. Piccoli esercizi di tecnologia, Bompiani, Milano 2020, pp. 124.

La tecnologia ci cambia, la tecnologia non è neutrale, non è sempre e solo positiva, il modo in cui ne parliamo è importante, non dobbiamo mai cedere alle nostalgie del passato ma nemmeno lasciar guidare “la macchina” a colossi economici transnazionali, i cui interessi non coincidono con il bene dell’umanità. Sono i “fondamentali” di questo libro, un po’ pamphlet un po’ breviario – con tanto di microstorie esemplificative ed esercizi – in cui Massimiano Bucchi, ordinario di Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento, ci propone un percorso di consapevolezza (…) (B .Ve.)

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=8%3dCURdGU%269%3dX%26z%3dSRc%261%3dSOXLU%26H%3dC6KC_Mctm_XM_Inxb_Sc_Mctm_WR_Inxb_ScIqNFGqKG04.JxI22BG156BuKxG.uK_Eveq_Oko0FA_4rpu_DgxO62zCy6AO5_Inxb_ScIqNF8uJ3WFSP_6xC2BmKBGu3ED.253%269%3dyLFQoS.A06%260F%3daETO%26O5%3dSWWEaSWCRPZDTR%26C%3dFSy0CSTADXVYL36m2x3eG6Pdr5RZm3PALY38CWPdL4xWEVQZEW3YoUx0F3U9EVzan6W7

֍           Save the date

  • Webinar (EU) – 27 giugno 2023 (13-14 CEST). “Work Better to Work Longer? Quality of Working Life as Key to a more Resilient Labour Market“, organizzato da Population Europe [per info e iscrizioni]

www.population-europe.eu/events/work-better-work-longer-quality-working-life-key-more-resilient-labour-market

  • Convegno (Milano) – 28 giugno 2023 (14-16). “Nella pancia delle donne. Prospettive socio-antropologiche sulla gravidanza nella società globale”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università di Milano [il programma]

www.sps.unimi.it/ecm/home/aggiornamenti-e-archivi/calendario-eventi/content/nella-pancia-delle-donne-prospettive-socio-antropologiche-sulla-gravidanza-nella-societa-globale.0000.UNIMIDIRE-105118?is-event=true

  • Eventi (Madrid) – 4 luglio 2023 (8.30 – 18.00). “European Forum on Family Support: creating an agenda for 2030”, organizzata da EuroFamNet [per info e programma]                             https://eurofamnet.eu/finalevent
  • Convegno (Roma/Web) – 5 luglio 2023 (18 – 20). “Revenge porn: l’intimità per sempre preda del web”, organizzata da Casa internazionale delle Donne [il programma e diretta web]

                www.facebook.com/Ass.DonnaePolitichefamiliari

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https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=ouy49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vtxsNCLM

Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

DALLA NAVATA

XII Domenica del tempo ordinario (anno A)

Geremia                             20,13, Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero

                                    dalle mani dei malfattori.

Salmo responsoriale     68, 17. Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande

Paolo ai Romani              05, 15. Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.

Matteo                                10,26-32. Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli.

Verità e valore

Il discorso di Gesù nel passo evangelico di questa domenica è molto chiaro e schietto: la sua sequela richiede coerenza, autenticità e coraggio. L’invito è a non avere paura «degli uomini», del loro potere, delle maschere dietro cui si nascondono nell’esercizio di quel potere. Perché prima o poi, come si suole dire, la verità verrà a galla: «Nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto».

Più che delle azioni o degli intrighi di chi pensa, ricoprendo un ruolo di potere, di poterla fare sempre franca, bisognerebbe avere timore della verità, quella verità che non appartiene a nessuno, che è tale di per sé e che, seppur composta da mille sfaccettature, sempre, prima o poi, si manifesta in tutta la forza e anche vitalità.

            Dico «vitalità» perché forse questa è la bellezza più grande della verità. La verità autentica non è mai mortale, non è mai «schiacciante», ma è sempre apertura alla vita, possibilità di crescita, di cammino, di pienezza. Essere capaci di fare verità su sé stessi e sugli altri significa allora essere veramente vivi, al di là di qualsiasi limite mortale che sia dentro di noi o fuori di noi.

«La verità vi farà liberi», dice Giovanni nel suo Vangelo (Gv 8,32), liberi non solo dalle proprie catene, dai propri angoli bui, ma anche liberi per accogliere e amare l’«altro» nella sua verità. Questa scelta interiore, che ciascuno è chiamato a fare in sé stesso, è il passo necessario per costruire un mondo senza maschere, senza difese, senza oppressione, senza potere inteso come esercizio di controllo sugli altri.

C’è anche un altro aspetto che «la verità» possiede: è che per quanto possiamo nasconderla, offuscarla, negarla, ucciderla, la «verità» non muore, non si cancella, non si inabissa e, prima o poi, «viene a galla». In questi tempi assistiamo allo scoperchiamento di molti «abusi» ad opera di persone che avevano e che, forse, continueranno ad avere potere. Spesso si tratta di «verità» nascoste ai più, ben mascherate, ricoperte di un silenzio che fa male, che ha mietuto molte vittime, provocato profonde ferite. Tutto questo può lasciarci sgomenti, può atterrirci di più – magari perché era preferibile guardare la patina esterna della maschera – può disorientarci. Ma può anche diventare occasione di grazia, impulso vitale, desiderio di autenticità proprio a partire da noi stessi.

Il passo successivo è poi l’invito a riconsiderare il «valore»: che cosa ha valore nella nostra vita e, conseguentemente, che cosa ha valore nella vita dell’altro? L’esempio evangelico dei «passeri» ci invita a considerare che tutto ha un valore, che nulla può essere sprecato, ma che allo stesso tempo c’è anche una scala di valori: «Voi valete più di molti [espressione ebraica per dire «tutti»] passeri».

Come dunque definire questa scala di valori? Se sicuramente l’essere umano vale più di tutti i passeri, questo non significa che i passeri non hanno un valore, ma soprattutto significa che il valore che l’altro essere umano ha è uguale al mio. Espressione di per sé decisamente ragionevole, che sembra quasi banale e scontata, ma che nella realtà dei fatti e degli avvenimenti, delle scelte e dei comportamenti è costantemente calpestata, negata.

Affermare, per esempio, che la mia vita ha valore tanto quanto quella di qualsiasi altro essere umano, di fatto quanto peso e quanta rilevanza ha nelle mie scelte su grande e piccola scala? Se poi decliniamo il resto dei valori per noi importanti, possiamo scoprire che il perseguimento di questi, a volte, è a scapito degli altri.

            Che cosa succede se raggiungere, avere o semplicemente vivere e realizzare ciò che per me ha valore va a scapito dell’altro, è negazione implicita del valore dell’altro? Senza che ci si renda conto, si soggettivizza il valore, lo si svuota della sua «valorialità», che è tale proprio perché è per tutti, lo si annulla.

            Faccio un esempio macroscopico, generale, ma che può essere declinato anche nel particolare. Il valore della vita è tale per ogni essere umano, ma di fatto – e gli esempi possono essere tanti – non è così. Il valore della vita di un giovane non è uguale a quello di un anziano, il valore della vita di chi vive in una società «benestante» non è uguale a quello di chi si trova in un paese povero e senza risorse, il valore della vita di un ricco non è uguale a quello della vita di un povero, e così via. cui non ci si rende conto, di fronte a tali esempi – che possono tradursi in altrettanti fatti di cronaca – è che la conseguenza profonda di questa «soggettivizzazione» del valore «vita» finisce per annullare il valore stesso e la sua funzione di principio comune e inderogabile, di ricchezza indivisibile proprio perché appartenente a «tutti». Prendere coscienza, allora, che ciò che è un valore imprescindibile «per me» è veramente tale solo se è riconosciuto e preservato anche nell’«altro», è l’unico modo perché quel valore si mantenga tale per tutti.

            Detto tutto questo, non posso però fare a meno di continuare a constatare quanto la nostra umanità, anziché proteggere e custodire il valore della vita (e non solo quello) continui a svuotarlo, in una logica di «soggettivizzazione» che può solo portare all’autodistruzione.

            E per coloro che oggi, come ieri e forse domani, continueranno a essere le vittime di questa distruzione valoriale? Mi consola pensare che ogni capello di ognuno di loro caduto a terra o in mare viene raccolto da Dio perché ha «valore» nelle sue mani.

Ester Abbattista, biblista

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

Il male della banalità. Nella Chiesa, per esempio

La riduzione della fede a una sorta di gioco dei quattro cantoni tra luoghi comuni catechistici e stimolazioni emotivamente gratificanti, portata avanti da una versione tutta clericale dei moderni influencer, non contribuisce a dare forza al corpo di Cristo, ma lo indebolisce giorno dopo giorno.

                Ci penso da molto tempo, e non perché mi diverta a giocare con le parole.

   Hannah Arendt (α1906-ω1975) ha coniato l’espressione: “la banalità del male”. Un’espressione all’apparenza leggera, ma che invece si è imposta perché è la situazione in cui vengono pronunciate che mette in piena luce la caratura delle parole. Gli argomenti che i gerarchi nazisti portavano a propria difesa dopo l’orrore della Seconda guerra mondiale e dei campi di sterminio inducevano grande sgomento proprio per la banalizzazione che facevano dell’immenso male compiuto. Il 4 dicembre 2022 scorso, giorno anniversario della morte della filosofa tedesca naturalizzata statunitense, inevitabilmente questa frase è rimbalzata a più riprese sui social. E, sulla spinta di una serie di pensieri che da tempo mi occupano e mi preoccupano mi sono detta che quell’espressione poteva essere ribaltata in “il male della banalità”.

L’insidia dei luoghi comuni. Sì, da tempo mi preoccupano la mancanza di una ricerca teologica degna di questo nome, di una divulgazione religiosa di qualità, di una spiritualità capace di bandire i luoghi comuni e di prospettive ecclesiali coraggiose. Anzi dilaga una predicazione mediocre, che ha la pretesa di essere edificante, perché cattura con l’insidia dei luoghi comuni. La banalità, appunto, ma una banalità che, oltre a fare male, fa del male. Abbiamo visto quale ricaduta ha comportato sul tessuto culturale del nostro Paese il decadimento del livello della comunicazione di massa: perché non rendersi conto in tempo del fatto che anche nella comunicazione della fede ogni gioco al ribasso illude, perché è “a presa rapida”, ma non può poi che deludere perché non nutre realmente le radici della professione di fede, della spiritualità, della pratica liturgica, del comportamento etico?

Infatti, in questo tempo così difficile per il mondo intero, ma anche così opaco per le Chiese sembra proprio che l’intelligenza della fede e la politica della fede siano condannate a sottostare alla banalità. Lo ho affermato una volta nel corso di una conferenza pubblica e, alla fine, due editori cattolici sono venuti a chiedermi di fare presto a scriverci su un libro perché erano interessati a pubblicarlo immediatamente. Mi ha fatto piacere. Non per vanagloria, ma perché era un segnale – e, in effetti, per me non è stato né il primo né l’ultimo – che il disagio è condiviso: non sono io la sola a ritenere che la situazione sia grave perché confondiamo spesso i sintomi – come le chiese vuote o la mancanza di vocazioni – con la malattia, oppure crediamo di vivere una sorta di convalescenza post-pandemica e non ci rendiamo conto, invece, che la pandemia ha solo accelerato il processo, non lo ha causato.

Il fascino dell’effimero. Ho cercato di chiarirmi un po’ per volta perché la banalità è pericolosa. La riduzione della fede alla ovvietà di una sorta di “gioco dei quattro cantoni” tra luoghi comuni catechistici e stimolazioni emotivamente gratificanti, portata avanti da una versione tutta clericale dei moderni influencer, non contribuisce a dare forza al corpo di Cristo, ma lo indebolisce giorno dopo giorno. Cerco anche di capire perché i pastori non si rendano conto del pericolo di affidarsi al fascino dell’effimero, consolante forse, perché almeno per una serata riempie le chiese; inquietante però, perché favorisce una credenza religiosa debole e fluttuante.

Ce lo siamo sentiti ripetere da fior di analisti che la crisi della partecipazione democratica con tutto ciò che comporta è stata favorita proprio dall’indebolimento progressivo della qualità delle cinghie di trasmissione comunicative che innervano e irrorano il tessuto sociale. Perché non facciamo lo sforzo di domandarci cosa può significare tutto questo se rapportato al corpo ecclesiale?

La paura della complessità. Papa Francesco ha cercato di mettere al centro del suo magistero quella “teologia del popolo” nella quale si è espressa la specifica visione argentina della teologia della liberazione e che dovrebbe, però, farci riflettere a fondo. Si tratta di interrogarsi su quale specificità prende la terminologia socio-culturale “popolo/popolare” se riferita a una società post-moderna, come quella italiana, in cui la rigidità ideologica dei dogmi e dei vincoli economico-finanziari è direttamente proporzionale alla fluidità delle reti relazionali, anche di quelle primarie, nonché allo speculare indebolimento dei soggetti individuali sempre più sospinti verso derive narcisistiche.

                La forza anestetizzante di questo modello, che ha assunto ormai tratti totalitari, è sotto gli occhi di tutti ed è favorita proprio da potenti dosi di banalizzazioni e di semplificazioni comunicative che illudono di poter evitare di confrontarsi con la complessità. È certo, però, che al dilagante processo di scristianizzazione non si risponde rispolverando ideologie religiose ormai stantie o armando inutili crociate, ma con un robusto investimento di risorse economiche e umane in una formazione culturale di cui faccia pienamente parte anche la ricerca teologica seria, capace di affrontare problemi e questioni degli uomini e delle donne del nostro tempo e del nostro contesto socio-culturale.

Il mito di una “fede bambina”. Mi vengono allora in mente le parole di Paolo che, sullo sfondo di questo nostro contesto attuale, risuonano anche come un monito alle Chiese che continuano ad avere paura che i credenti escano dallo stato di minorità: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (1Cor 13,11). Ho la sensazione che al mito della “fede della vecchietta”, che veniva contrapposta alla decisione da parte di credenti della mia generazione di intraprendere, come laici e soprattutto come donne, il cammino degli studi teologici, il paternalismo ecclesiastico abbia oggi sostituito il mito di una “fede bambina” che rifugge ogni sforzo di credere «con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza» (Mc 12,30 e par; cfr Dt 6,4s e Lv 19,18)

Marinella Perroni,(α1947)             blog il Regno delle donne           19 giugno 2023

https://ilregno.it/blog/il-male-della-banalita-nella-chiesa-per-esempio-marinella-perroni?utm_source=newsletter-mensile&utm_medium=email&utm_campaign=2023/10

ECUMENISMO

La Conferenza delle chiese europee ha eletto un nuovo presidente

l 19 giugno l’Assemblea generale della Conferenza delle Chiese europee (Kek) ha eletto i nuovi leader: L’arcivescovo Nikitas di Thyateira e Gran Bretagna del Patriarcato ortodosso ecumenico è stato eletto presidente, e i reverendi Dagmar Winter e Frank Kopania vicepresidenti. Le chiese rappresentate sono 125

[La Chiesa cattolica romana non ne fa parte].

 L’arcivescovo Nikitas (α1955) è coordinatore della Task Force del Patriarcato ecumenico sulla tratta di esseri umani e la schiavitù moderna, ed è stato presidente del Comitato per i giovani del Patriarcato, nonché co-presidente e membro del comitato direttivo della Fondazione interreligiosa Elijah. Attualmente è co-presidente del Forum cattolico-ortodosso europeo. Alla presidenza della Kek – il principale organismo ecumenico europeo che riunisce insieme 113 chiese protestanti, anglicane e ortodosse del continente – prende il posto del pastore francese Christian Krieger eletto nel 2018 all’Assemblea di Novi Sad.

L’arcivescovo ha dichiarato di aver sempre creduto che essere cristiani significhi entrare in dialogo con altre persone e altre comunità cristiane. «Sì, certo, abbiamo le nostre differenze, ma abbiamo molto in comune: Gesù Cristo», ha detto. «Abbiamo bisogno di conoscerci e di lavorare insieme».

Per l’arcivescovo diventare presidente della Kek significa diventare pastore di un gregge. «Per essere presidente di un’organizzazione, ci si occupa di fatti e cifre, ma il presidente della Conferenza delle chiese europee deve anche lavorare con le anime delle persone – e questo mi dà l’opportunità di conoscere l’intera organizzazione in un modo diverso. E soprattutto voglio costruire ponti e relazioni».

Ha aggiunto che, molte volte, c’è paura dell’altro. «Voglio che le mie relazioni siano all’insegna dell’amore cristiano, della verità e dell’onestà. Voglio contribuire a creare stabilità negli uffici della Kek, nella struttura economica e nelle relazioni». Una grande priorità è ascoltare più voci di giovani e portarli nella struttura per far loro conoscere cosa sta realmente accadendo. «Dobbiamo sapere cosa pensano e sentono i giovani. Sentiamo da tante persone che le chiese e le congregazioni si stanno riducendo». L’arcivescovo vuole ringiovanire queste chiese e dare loro speranza. «Non possiamo dire che i giovani sono il futuro della Chiesa: sono la realtà di adesso».

a sinistra il presidente uscente Krieger e a destra e il neo eletto Nikitas

Redazione      Riforma.it                                               20 giugno 2023

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Kek, il patriarca Bartolomeo: «In Europa le persone non si identificano più con le chiese nazionali»

A due giorni dalla chiusura della 16ma Assemblea generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, è arrivato forse uno degli interventi più attesi. A parlare stavolta è stato il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo (α1940) . Un intervento programmatico alla presenza delle Chiese a Tallin il cui scopo è quello di celebrare e affermare lo spirito ecumenico tra le diverse chiese, comunioni e confessioni.

                Guardando indietro alla lunga storia delle relazioni ecumeniche in Europa e nel mondo. Ma, al tempo stesso, provando a guardare avanti alle immense sfide che attendono le Chiese sul continente e in tutto il mondo.

Bartolomeo ha richiamato l’attenzione dei partecipanti alla storia del movimento ecumenico. Nato dopo le devastazioni delle due guerre mondiali del secolo scorso, quel movimento prosperava in un’Europa molto diversa da quella contemporanea. L’Europa odierna, infatti, è molto diversa da quella di appena 20 anni fa ed il panorama delle appartenenze religiose è cambiato.

«Come chiese cristiane – ha affermato – non possiamo più dare per scontata l’identificazione degli europei con le chiese nazionali o con una particolare forma di fede».

Il patriarca Bartolomeo ha insistito sul fatto che, oggi, la partecipazione ai servizi liturgici delle grandi cattedrali nelle grandi città può essere sufficiente. Tuttavia è la partecipazione nelle chiese suburbane delle città più piccole ha dimostrare grande debolezza e fragilità. In quei contesti la religiosità è percepita come una minoranza.

Riguardo allo scopo e l’obiettivo del movimento ecumenico in questo tipo di Europa, ha descritto la necessità di un “nuovo ecumenismo” in un contesto distruttivo dove la guerra ha evidenziato la fragilità del cammino fin qui compiuto. E la giustificazione della Chiesa Russa per questa guerra vista come la salvezza dell’Ucraina dalla presunta seduzione di un Occidente senza Dio, secolare e liberale.

D’altra parte, la retorica delle cosiddette “guerre culturali” ha compromesso gravemente qualsiasi potenziale di dialogo, danneggiando il nucleo stesso dell’ecumenismo. «Come comunità cristiane – ha proseguito – dobbiamo innanzitutto adottare un senso di umiltà e accettare che anche noi siamo responsabili di questa riduzione dell’ecumenismo». D’altra parte ha sottolineato il patriarca di Costantinopoli, il «nostro movimento ecumenico – dove le differenze sono riconosciute e rispettate, dove le voci distinte sono articolate e ascoltate – una domanda deve costantemente porsela: cosa intendiamo per Europa cristiana all’interno di un’Unione europea democratica?».

Guardando all’impegno del Consiglio Ecumenico delle Chiese, e al dialogo possibile anche dinanzi a differenze che pure non minano l’unità ecumenica, si è chiesto quale ruolo deve giocare l’Europa cristiana dinanzi a tutte le voci in campo, comprese quelle che esprimono disaccordo e incredulità.

Il discorso integrale in lingua italiana.

www.chiesaluterana.it/wp-content/uploads/2023/06/Patriarca-Ecumenico-Bartolomeo.pdf

Celi        Riforma.it           19 giugno 2023

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Alzati e mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”

La diocesi di Osnabrück (Germania) è stata la prima diocesi cattolica che ha proposto una direttiva ufficiale per la cosiddetta ospitalità eucaristica. La decisione giunge a seguito del convegno ecumenico (Ökumenische Kirchentag) dello

fine settimana ad Osnabrück. Il documento pubblicato mercoledì spiega a quali condizioni tutti i cristiani possono prender parte pienamente ad una eucaristia cattolica o ad una cena del Signore evangelica in casi di situazioni “ecumenicamente sentite”.  Fino ad ora la celebrazione eucaristica era riservata solo ai fedeli cattolici.

Invito all’ospitalità eucaristica al Kirchentag. Il vescovo Franz-Josef Bode aveva approvato la pubblicazione del documento già alla fine di marzo, prima del suo ritiro. Nella sua presentazione Bode aveva sostenuto che, fino a quando non è raggiunta una piena comunità di chiesa, ma c’è una crescente comprensione tra le confessioni, “si ha bisogno di occasioni di reciproca ospitalità”.

L’occasione della pubblicazione è stato il convegno ecumenico (Ökumenische Kirchentag) ad Osnabrück durante lo scorso fine settimana. In quell’occasione le comunità cattolica ed evangelica il sabato sera avevano ufficialmente invitato all’ospitalità eucaristica.

Principi teologici ed esperienze personali. Sotto il titolo “Alzati e mangia, perché è troppo lungo per te il cammino” il fascicoletto di quasi 40 pagine raccoglie due argomentazioni teologiche, di Bode e della teologa Margit Eckholt, oltre a esperienze e riflessioni personali di cristiani evangelici e cattolici. Inoltre offre dei link a importanti testi teologici. Il materiale serve per aiutare a formarsi un’opinione fondata come cristiani, in modo che chi presiede l’eucaristia o la cena possa decidere se fare l’invito e in modo che i fedeli possano decidere se accoglierlo.

Redazione “www.domradio.de” del 22 giugno 2023 (traduzione: www.finesettimana.org)

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230623redazionedomradio.pdf

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Grandezza e miseria dell’uomo, nel IV centenario della nascita di Blaise Pascal

Papa: “Blaise Pascal aveva messo l’amore dei fratelli al primo posto”

www.vatican.va/content/francesco/it/apost_letters/documents/20230619-sublimitas-et-miseria-hominis.html

In un secolo di grandi progressi in tanti campi della scienza, accompagnati da un crescente spirito di scetticismo filosofico e religioso, Blaise Pascal si è mostrato un infaticabile ricercatore del vero, che come tale rimane sempre inquieto, attratto da nuovi e ulteriori orizzonti”.

         (α1623-ω1662) matematico, fisico, filosofo e teologo francese.

Il 19 giugno, ricorre l’anniversario del quarto centenario della nascita nel 1623, a Clermont-Ferrand, del matematico, scienziato e filosofo Blaise Pascal, che morì a Parigi, il 19 di agosto del 1662, quando aveva appena compiuto i 39 anni d’età.

                Francesco sottolinea la grande importanza di Pascal. “Apertura alle altre dimensioni del sapere e dell’esistenza, apertura agli altri, apertura alla società. Ad esempio, egli fu all’origine, nel 1661, a Parigi, della prima rete di trasporti pubblici della storia, le cosiddette “Carrozze a cinque sols”. Se faccio tale sottolineatura all’inizio di questa lettera, è per insistere sul fatto che né la sua conversione a Cristo, a partire specialmente dalla “Notte di fuoco” del 23 novembre 1654, né il suo straordinario sforzo intellettuale di difesa della fede cristiana hanno fatto di lui una persona isolata dal suo tempo. Era attento ai problemi allora più sentiti, come pure ai bisogni materiali di tutte le componenti della società in cui viveva”, si legge nella Lettera Apostolica.

Mi rallegro dunque del fatto che la provvidenza, in questo quarto centenario della sua nascita, mi offra l’occasione di rendergli omaggio e di evidenziare ciò che, nel suo pensiero e nella sua vita, mi sembra adatto a stimolare i cristiani del nostro tempo e tutti gli uomini e le donne di buona volontà nella ricerca della vera felicità. Quattro secoli dopo la sua nascita, Pascal rimane per noi il compagno di strada che accompagna la nostra ricerca della vera felicità e, secondo il dono della fede, il nostro riconoscimento umile e gioioso del Signore morto e risorto”, sottolinea ancora il Papa.

Per Francesco Pascal è un innamorato che parla di Cristo a tutti. Pascal ci “premunisce così contro le false dottrine, le superstizioni o il libertinaggio, che tengono tanti di noi lontani dalla pace e dalla gioia durature di Colui che vuole che scegliamo «la vita e il bene» e non «la morte e il male».

“Occorre dunque, per comprendere bene il discorso di Pascal sul cristianesimo, essere attenti alla sua filosofia. Egli ammirava la sapienza degli antichi filosofi greci, capaci di semplicità e di tranquillità nella loro arte di ben vivere, come membri di una polis: «Ci si immagina Platone e Aristotele con grandi paludamenti da pedanti. Erano gentiluomini ed erano come gli altri, pronti a ridere con i loro amici. E quando si sono divertiti a scrivere le loro Leggi e la loro Politica, l’hanno fatto per diletto. Era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, giacché la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente”, commenta ancora il Pontefice.

Pascal, che ha scrutato con la singolare forza della sua intelligenza la condizione umana, la Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa, intende proporsi con la semplicità dello spirito d’infanzia quale umile testimone del Vangelo. È quel cristiano che vuole parlare di Gesù Cristo a quanti concludono un po’ in fretta che non ci sono ragioni consistenti per credere alle verità del cristianesimo. Pascal, al contrario, sa per esperienza che ciò che si trova nella Rivelazione non solo non si oppone alle richieste della ragione, ma apporta la risposta inaudita alla quale nessuna filosofia avrebbe potuto giungere da sé stessa”, commenta il Pontefice sempre nella

Prima di concludere, è necessario evocare i rapporti di Pascal con il Giansenismo. Una delle sue sorelle, Jacqueline, era entrata nella vita religiosa a Port-Royal, in una congregazione la cui teologia era molto influenzata da Cornelius Jansen, il quale aveva composto un trattato, l’Augustinus, pubblicato nel 1640. Dopo la sua “Notte di fuoco”, Pascal si era recato a fare un ritiro all’abbazia di Port-Royal, nel gennaio 1655. Ora, nei mesi seguenti, una controversia importante e già antica, che opponeva i Gesuiti ai “Giansenisti”, legati all’Augustinus, si risvegliò alla Sorbona, l’università di Parigi. La disputa verteva principalmente sulla questione della grazia di Dio e sui rapporti tra la grazia e la natura umana, in particolare il suo libero arbitrio. Pascal, benché non appartenesse alla congregazione di Port-Royal, e benché non fosse un uomo di parte – «sono solo, egli scrive, non sono affatto di Port-Royal»fu incaricato dai Giansenisti di difenderli, soprattutto perché la sua arte retorica era potente. Lo fece nel 1656 e nel 1657, pubblicando una serie di diciotto lettere, denominate Provinciali”, dice il Papa.

Se molte proposizioni dette “gianseniste” erano effettivamente contrarie alla fede, ciò che Pascal riconosceva, egli contestava che esse fossero presenti nell’Augustinus e seguite dai membri di Port-Royal. Alcune delle sue stesse affermazioni, però, concernenti ad esempio la predestinazione, tratte dalla teologia dell’ultimo Sant’Agostino, le cui formule erano state già affilate da Giansenio, non suonano giuste. Bisogna tuttavia comprendere che, come Sant’Agostino aveva voluto combattere nel V secolo i Pelagiani, i quali sostenevano che l’uomo può con le proprie forze e senza la grazia di Dio fare il bene ed essere salvato, Pascal ha creduto sinceramente di opporsi al pelagianesimo o al semi-pelagianesimo che riteneva di identificare nelle dottrine seguite dai Gesuiti molinisti (dal nome del teologo Luis de Molina, morto nel 1600 ma il cui influsso era ancora vivo a metà del XVII secolo). Facciamogli credito sulla franchezza e la sincerità delle sue intenzioni“, commenta ancora il Papa.

                “Questa lettera non è certo il luogo per riaprire la questione. Tuttavia, ciò che vi è di giusta messa in guardia nelle posizioni di Pascal vale ancora per il nostro tempo: il «neo- pelagianesimo», che vorrebbe far dipendere tutto «dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali», si riconosce dal fatto che «ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze». E occorre ora affermare che l’ultima posizione di Pascal quanto alla grazia, e in particolare al fatto che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4), si enunciava in termini perfettamente cattolici alla fine della sua vita”, chiarisce il Papa.

Conclude il Pontefice: “Blaise Pascal, al termine della sua vita breve ma di una ricchezza e fecondità straordinarie, aveva messo l’amore dei fratelli al primo posto”.

Veronica Giacometti      Città del Vaticano           ACI Stampa        19. giugno, 2023

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«[…] Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto, se perdete non perdete nulla. Scommettete, dunque, che Dio esiste, senza esitare. […]» (Blaise Pascal, Pensieri, 233)

Ovvero, “scommettendo” che Dio non esiste, non si vince nulla, ma si perde tutto (cioè il bene finito); al contrario, “scommettendo” che Dio esiste si vince tutto (cioè la beatitudine eterna e infinita) e non si perde nulla; e il fatto che la scommessa a favore di Dio è totalmente e infinitamente propizia e vantaggiosa a coloro che la compiono, ciò significa che è fondata, e diventa dunque la scommessa stessa una “prova” di tale esistenza divina, e dunque la “vittoria” della scommessa è nella scommessa stessa, che in tal modo non è più scommessa, ma è già vittoria certa.

https://it.wikipedia.org/wiki/Blaise_Pascal#Il_pensiero_scientifico

GIURISPRUDENZA

L’abuso minorile: i minorenni protagonisti di abusi

                L’abuso minorile, o abuso sui minorenni, è un comportamento nei confronti degli stessi, che consiste nel cagionare un danno psicologico, morale o giuridico. Le forme più frequenti di abuso sui minorenni sono: somatico (o fisico), psicologico (o emozionale), sessuale, violenza assistita e incuria.

Non sempre le distinzioni di categoria tra casi di abuso fisico, sessuale, psicologico e trascuratezza rispecchiano una realtà che spesso si presenta come molto complessa, ed è  possibile parlare di “forme miste” di abuso. Questi abusi fanno parte della super categoria delle “Esperienze Sfavorevoli Infantili” e provocano nel tempo disturbi da stress post traumatico.

L’abuso all’infanzia può essere definito come: Qualsiasi comportamento, volontario o involontario, da parte di adulti (parenti, tutori, conoscenti o estranei) che danneggi in modo grave lo sviluppo psicofisico e/o psicosessuale del bambino. Abuso è tutto ciò che impedisce la crescita armonica del minore, non rispettando i suoi bisogni e non proteggendolo sul piano fisico e psichico.

Ci rientrano non esclusivamente comportamenti di tipo commissivo, entro i quali vanno annoverati maltrattamenti di ordine fisico, sessuale o psicologico, ma anche di tipo omissivo, legati  all’incapacità più o meno accentuata, da parte dei genitori, di fornire cure adeguate a livello materiale ed emotivo al proprio figlio.

Per approfondimenti, si consiglia il volume: Codice della Famiglia e dei Minori 2023 e legislazione speciale

Le origini. In ogni società si riscontrano dei sistemi di protezione nei confronti dell’infanzia.

  • Presso gli ebrei, ad esempio, l’abuso sessuale di minorenni era punito con la pena capitale, mentre per quello compiuto su bambini più piccoli di nove anni bastava la fustigazione. In entrambi i casi le modalità rientravano nel diritto pubblico perché si pensava che la società  avrebbe danneggiato il suo insieme.
  • La prima società nazionale per la prevenzione della crudeltà a danno dei fanciulli fu fondata a Londra nel 1884 e assunse delle équipe di ispettori che controllavano le condizioni dei minorenni nei quartieri a rischio. Per ogni bambino era stilato un rapporto dove la diagnosi principale era costituita dall’incuria mentre le altre forme di abuso rispondevano alla voce “altri torti”.
  • In Inghilterra nel 1888 fu introdotta la “carta dei fanciulli” che estendeva i doveri di custodia sino alla protezione dagli abusi ai minorenni.
  • Nel 1892 Papa Leone XIII organizzò il culto della Sacra Famiglia, all’epoca frammentato in una miriade di associazioni private, in un’unica congregazione con lo scopo di diffondere i valori educativi genitoriali in quanto si riteneva che le dottrine dilaganti del liberalismo e del socialismo la stessero corrompendo. Il documento rappresentativo “Neminem fugit” contiene le linee guida per l’assunzione a modello per la Sacra Famiglia indicando per ogni figura ideale una funzione nella vita reale (ad esempio il padre vigilante, la madre sottomessa e il figlio obbediente).
  • Durante il Fascismo l’80% della popolazione viveva in zone rurali, il regime intendeva mantenere tale status quo in ragione della maggiore condizione morale in quanto gli adulteri, gli abbandoni e le nascite illegittime sono minori che nelle città.
  • Nonostante questo, non erano rari i casi di abbandono.
  • L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, a questo proposito, offrì un premio di affiliazione che consisteva in somme di denaro erogate alla coppia sorteggiata che aveva preso in affido uno o più bambini.
  • Dopo il primo o secondo anno il minorenne era dato in affido (affiliazione) o in adozione presso coppie o single, anche all’estero.
  • dotato di personale specializzato, nel ruolo di assistenti sanitarie visitatrici, con il compito di monitorare l’ambiente sociale e sanitario in cui si sviluppava il minore.
  • Dopo sei anni era affidato all’Ente Nazionale di Promozione Morale del Fanciullo, fondato da Benigno Di Tullio nel 1944, che si occupava di caratteriali attraverso i centri provvisori di servizio sociale, eretistico, instabili, immorali, deboli fisici, tramite classi differenziali, mentre quelli che dopo un periodo di osservazione sono riconosciuti recuperabili frequentavano gli “asili scuola”. Dopo il quattordicesimo anno il fanciullo dell’istituto socio assistenziale è riconsegnato alla famiglia d’origine o avviato al lavoro.
  • Nel rapporto privato rientrava anche la donna che era soggetta all’autorità maritale come affermava la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 14 maggio 1938.
  • Se la dichiarazione del 1924 pose il bambino in termini di bisognoso di cure, quella del 1959 aggiunse la famiglia d’origine come oggetto di attenzioni da parte dello Stato.
  • L’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1948 aggiunse tra i diritti fondamentali anche la sicurezza personale.
  • In Italia, lo Stato sociale fascista rimase sostanzialmente integro sino alla seconda metà degli anni settanta, e dal 1979 emerse una determinata attenzione da parte dei mass media attraverso la trasmissione di una serie di servizi di cronaca su fatti e delitti compiuti in ambito familiare.
  • In altre parole, l’abuso venne riconosciuto esclusivamente grazie all’aiuto dei mezzi d’informazione.
  • Persone famose abusate furono Hermann Hesse, Franz Kafka e Cicerone che denunciò gli atti incestuosi di Clodio su sua sorella.
  • Gli studi e le ricerche sul tema dell’abuso e del maltrattamento all’infanzia hanno vissuto varie fasi.
  • Se all’inizio l’interesse era focalizzato sull’abuso fisico, tipologia più facilmente riconoscibile perché lascia segni più evidenti, dagli anni ‘80 l’attenzione si è iniziata a spostare sull’abuso sessuale a danno di minori, mentre più di recente l’abuso psicologico e la trascuratezza sono diventati oggetto di studio.

In Svizzera, sino agli anni ottanta, le autorità della confederazione, con la motivazione ufficiale di proteggere i minori, di fatto tolsero ai loro genitori che si trovavano in situazioni di disagio o difficoltà migliaia di bambini affidandoli a famiglie spesso operaie o contadine che avevano bisogno di manodopera a basso costo.

Questi bambini – schiavi molto spesso furono oggetto di maltrattamenti e a loro non venne assicurata l’educazione.

L’evoluzione dell’abuso minorile. La costruzione sociale della questione permette di capire perché un determinato fenomeno è accettato in determinate culture mentre è proibito in altre e poi c’è quello di comunicare alla cittadinanza i valori fondamentali della società come l’unità della famiglia, il lavoro e la religione.

La famiglia resta la più importante risorsa per il minorenne perché considerata come ambiente di socializzazione primaria dove si sviluppa e ristruttura la personalità del bambino. Nei primi tre anni, vivendo il rapporto con la madre, si sviluppa la fiducia in se stessi, successivamente con il rapporto conflittuale con il padre, il bambino assume la capacità e la gestione del rapporto con gli altri.

I genitori scelgono modelli educativi verso il bambino non esclusivamente in base a un proprio prototipo, se il genitore vede nel bambino se stesso, ma anche come stereotipo quando il bambino è il riflesso delle aspettative che la società riserba una volta diventato adulto.

La protezione dell’infanzia è un’idea che trova ancora molti ostacoli a realizzarsi nella società attuale almeno sino a quando predomina l’opinione che si deve agire a livello riparativo sul minorenne.

3. La sintomatologia e gli indicatori di abuso. Nella maggior parte dei casi il genitore punisce il figlio non per impedirgli di compiere qualcosa, ma per stimolarlo a comportarsi il più possibile in conformità alla sua natura, in questo modo il genitore proietta se stesso sul proprio figlio oppure quello che vorrebbe essere.

Ci sono alcuni fattori predittivi del comportamento deviante che sono incuria emotiva, scarsa identificazione col padre, violenza su animali e violenze domestiche.

L’abuso può essere provocato anche dal consumo di stupefacenti e di bevande alcoliche. A differenza di queste, l’abuso dei mezzi di correzione non è relativo né a una frequenza che si manifesta nel numero di abusi compiuti nel tempo (ad esempio, il consumo di alcool, a lungo andare, può indurre a forme patogene quali la cirrosi epatica), né a una quantità che si esprime con la consistenza dell’abuso (ad esempio l’overdose di eroina può essere insidiosa e letale).

Se l’abuso è commesso da parte femminile può essere dovuto a una forma di ritorsione contro il partner. A questo proposito si indica nel Complesso di Medea il tentativo della madre di colpire il padre assente. Se è vero, però, che la femmina acquista la maturità sessuale in anticipo rispetto al maschio, è anche vero che le donne sono le prime vittime della violenza.

In relazione ai tempi, l’abuso arriva di solito dopo la prima gravidanza quando si percepisce instabile il sistema di alleanze/coalizioni tra membri della famiglia. Le dinamiche non sono esclusivamente attuali ma si possono scontrare con quelle longitudinali, vale a dire, diverse nell’arco del tempo, come ad esempio eventi o traumi o relazioni conflittuali passate.

Lorella Papini                    diritto.it              23 giugno 2023

www.diritto.it/abuso-minorile-i-minorenni-protagonisti-di-abusi

Efficacia della sentenza ecclesiastica: no alla delibazione se contraria all’ordine pubblico

Rapporto tra ordinamenti

La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con l’ordinanza n. 15142 depositata il 30 maggio 2023

ha detto no alla delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio pronunciata in ragione della conclusione di un matrimonio condizionato. La Corte di appello di Catanzaro aveva negato la dichiarazione di efficacia sul territorio italiano della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario resa dal Tribunale ecclesiastico regionale calabro per contrarietà all’ordine pubblico (delibazione). Il marito, che aveva chiesto e ottenuto la nullità del matrimonio in forza di una sorta di condizione

www.marinacastellaneta.it/blog/wp-content/uploads/2023/06/delibazione.pdf

ha così impugnato la decisione dinanzi alla Cassazione che, però, non ha accolto il ricorso. Prima di tutto, la Suprema Corte ha osservato che la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità fondata su una riserva mentale in base alla quale il vincolo matrimoniale sarebbe valido solo al verificarsi di una condizione pro futuro è possibile solo se questa condizione è portata a conoscenza dell’altro coniuge prima della celebrazione del matrimonio, al fine di tutelare la buona fede e l’affidamento incolpevole dell’altro coniuge. In caso contrario – precisa la Cassazione – la delibazione della sentenza ha un ostacolo in quanto contraria all’ordine pubblico italiano “nel cui ambito va ricompreso il principio di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole”. Il giudice italiano, infatti, è tenuto ad accertare in modo autonomo la conoscenza o l’oggettiva conoscibilità della condizione da parte del coniuge, con un’indagine condotta “con esclusivo riferimento alla pronuncia da delibare ed agli atti del processo medesimo eventualmente acquisiti”. Si tratta, inoltre, di un apprezzamento di fatto che è sottratto al sindacato di legittimità. Pertanto, poiché la Corte di appello di Catanzaro aveva accertato che la ex moglie non aveva avuto conoscenza della riserva mentale, il no alla delibazione è stato corretto.

prof. Marina Castellaneta, (α1966)ordinario di diritto internazionale-Università Bari

www.marinacastellaneta.it/blog/efficacia-della-sentenza-ecclesiastica-no-alla-delibazione-se-contraria-allordine-pubblico.html

La contribuzione alle spese straordinarie assicura la provvista per le specifiche esigenze dei figli

Posto che la contribuzione dei genitori alle spese straordinarie non assolve ad un’esigenza meramente perequativa, come l’assegno di mantenimento, ma ha la funzione di assicurare la provvista per specifiche esigenze dei figli, il giudice di merito, stabilendone la ripartizione, deve tenere in considerazione non solamente i criteri previsti per l’assegno di mantenimento quanto alla comparazione dei redditi dei genitori e alla opportuna proporzionalità della partecipazione, ma anche i fabbisogni dei figli, ordinari e straordinari, in relazione al loro interesse.

Lo ha precisato la Corte di Cassazione, attraverso l’ordinanza n. 15215/2023, depositata lo scorso 30 maggio.                                                                    https://www.eclegal.it/wp-content/uploads/2023/06/vassallo.pdf

La Suprema Corte, nella vicenda analizzata, viene nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla contribuzione dei genitori al mantenimento del figlio, nella fattispecie maggiorenne ma non ancora economicamente indipendente. I giudici di piazza Cavour richiamano la giurisprudenza costante in ordine alla determinazione dell’assegno di mantenimento periodico in osservanza del principio di proporzionalità, che va attuato non considerando esclusivamente la capacità economica del soggetto obbligato al versamento dell’assegno perequativo, ma piuttosto comparando le condizioni economiche dei genitori e focalizzando le esigenze del figlio, alla luce dei criteri indicati dall’ art. 337 ter c.c.

                Quanto poi alle spese straordinarie, si puntualizza che queste non vanno necessariamente ripartite tra i genitori in ragione della metà pro quota, ma vanno distribuite tenendo conto del duplice criterio delle rispettive sostanze patrimoniali disponibili e della capacità di lavoro professionale o casalingo di ciascuno di essi (Cfr. Cass. n. 25723/2016). Inoltre, la relativa quantificazione va valutata dal giudice di merito tenendo conto della precipua funzione di provvista per le specifiche esigenze dei figli, in proporzione al loro interesse.

                AIAF      news regionale Sicilia   16 giugno 2023

www.aiaf-avvocati.it/articolo/1367/la-contribuzione-alle-spese-straordinarie-assicura-la-provvista-per-le-specifiche-esigenze-dei-figli

OMOFILIA

Educatore in parrocchia e gay? «I criteri siano quelli di “Amoris lætitia”»

    Padre Pino Piva, (α1964) gesuita esperto del tema, torna sul caso di Cesena: l’inclusione pastorale sollecitata dal Papa non esclude questi incarichi. «Amoris Lætitia affronta il problema delle “esclusioni” pastorali che toccano le situazioni cosiddette “irregolari” proponendo cammini di discernimento caso per caso in vista di una integrazione ecclesiale anche in servizi ecclesiali educativi (L 299). Come mai ancora non si pensa di affrontare questioni pastoralmente di frontiera, come quella della diocesi di Cesena, affidandosi ai criteri pastorali di Amoris Lætitia? ».

È la domanda che si pone padre Pino Piva, gesuita, organizzatore tra l’altro del corso per operatori pastorale “con” e “per” le persone omosessuali che ormai da anni richiama a Bologna decine di operatori pastorali laici e sacerdoti, vescovi compresi. Il caso in questione è quello che si è verificato nei giorni scorsi a Cesena, dove a un giovane gay è stata ritirata la responsabilità di educatore in un centro estivo parrocchiale, dopo che sui social il ragazzo ha postato alcune immagini dalle quali si esplicitava il suo orientamento. Il parroco gli avrebbe consentito di continuare a svolgere il ruolo di organizzatore del Centro estivo ma non quello di educatore.                                                                  www.avvenire.it/attualita/pagine/il-caso-di-cesena-l-educatore-gay

È davvero un problema insormontabile il fatto che un giovane omosessuale ricopra funzioni educative in un centro estivo?

Difficile capire se il problema fosse l’orientamento omosessuale “svelato” dalle foto oppure il fatto che questo ragazzo avesse una relazione sessuale attiva con un altro ragazzo. A rigor di morale, solo una unione sessuale fuori dal matrimonio eterosessuale comporta l’esclusione da responsabilità ecclesiali. Se la motivazione fosse solo l’orientamento sessuale “svelato” dalle foto, allora sarebbe una palese discriminazione anche secondo il catechismo della Chiesa Cattolica: il problema sono solo gli atti omosessuali, non l’orientamento. Se invece il giovane avesse ammesso al suo parroco una relazione attiva con un ragazzo, e soprattutto l’intenzione di non interromperla, allora la sua esclusione sarebbe stata moralmente giustificata; come per le situazioni “irregolari” eterosessuali dei conviventi o i divorziati in seconda unione, a cui vengono normalmente negate nella Chiesa responsabilità educative nella fede. Ma è proprio in questi casi che Amoris Lætitia propone cammini di inclusione pastorale, affidando caso per caso anche incarichi educativi, se possibile.

Come si inquadra questa vicenda con la questione posta anche nell’Instrumentum laboris del Sinodo e già sottolineata nel documento del cammino sinodale italiano a proposito della necessità di “come andare incontro alle persone che si sentono escluse dalla comunità in ragione della loro affettività e sessualità”?

Se oggi si risponde a situazioni sessualmente “irregolari” come trenta o quaranta anni fa – come se Evangelii Gaudium e Amoris Lætitia non fossero state scritte – le parole del Sinodo rischiano di rimanere pura retorica. Dobbiamo partire proprio da lì per esercitare quel discernimento caso per caso a cui ci richiama papa Francesco; discernimento che lui stesso non riserva solo ai divorziati risposati eterosessuali (AL 297). Il Papa afferma infatti nell’Esortazione postsinodale sulla famiglia, al n 305: «Un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone (…) A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti». Appunto, nel caso di Cesena, di particolare delicatezza, dobbiamo chiederci: è stato operato il necessario e opportuno discernimento pastorale?

intervista a Pino Piva, a cura di Luciano Moia    “Avvenire” 23 giugno 2023

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SACERDOZIO

Presbiteri guide di comunità: quale discernimento?

Il prete è stato senza dubbio una figura di grande importanza nella società occidentale e, per certi  versi, lo è anche oggi. Avere in una comunità una persona totalmente disponibile non solo per la  vita religiosa, ma anche per servizi fondamentali come la cura delle persone anziane, l’elaborazione  di proposta educative per bambini e adolescenti, l’attenzione per le famiglie, tra le altre cose, è di  grande importanza.

Una crisi di credibilità. In ogni modo, però, è una figura che sta vivendo una grande crisi non solo d’identità, ma anche e  soprattutto di credibilità. Da una parte, gli scandali della pedofilia hanno contribuito a corrodere  l’immagine del prete come un essere ontologicamente diverso, come una certa spiritualità aveva contribuito a creare, come se fosse immune alle passioni. Dall’altra, l’attuale contesto culturale sempre più post-cristiana e post-teista, rende obsoleta la presenza di quel modello di prete che funzionava nell’epoca della cristianità, ma che oggi ha valore solo per la vecchia guardia cattolica.

Provo, allora, ad indicare alcune strade che potrebbero essere percorse per una guida di comunità che presiede l’eucarestia nell’epoca che stiamo vivendo.

Chiudere i seminari. Prima di tutto occorre chiudere i seminari: non servono più. Sono stati inventati nell’epoca della cristianità e, grazie a Dio, quest’epoca è finita. Non bisogna pensare d’inventare altre strutture che lo sostituiscano: non serve. Nella Chiesa del dopo, che a dire il vero è già iniziata, le guide di comunità non dovranno essere celibi e nemmeno separati dal popolo di Dio. Saranno scelti tra quelle donne e quegli uomini che la comunità indicherà. Sì, hai letto bene: donne. Fa specie che, un cammino che avrebbe dovuto incarnare la proposta egualitaria e pacifica di Gesù, dopo secoli è ancora ferma e irremovibile su questo punto. La fine della cristianità ci permette di guardare con più serenità alla proposta iniziale di Gesù e cogliere quegli aspetti che l’istituzione con il tempo ha modificato.

Una comunità di discepoli e discepole uguali, la cui uguaglianza si fonda sull’unico battesimo esige uno stile di eguaglianza anche nelle guide di comunità. I seminari servivano per offrire percorsi formativi per i futuri presbiteri. D’ora innanzi sarà la comunità che se ne prenderà cura. Famiglia e comunità sono gli ambienti esistenziali più idonei per il cammino di formazione umana di coloro che saranno guide di comunità. Sarà necessario, poi, mettere mano alla proposta culturale che dovrà essere fornita per le future guide. Un percorso molto più semplice, più attento alle tematiche del tempo presente, collegato alle facoltà umanistiche già esistenti e integrato con proposte locali modificabili di anno in anno.

Uno stile di vita riconosciuto. Le guide di comunità che presiedono l’eucarestia dovranno essere persone adulte, con alle spalle un  cammino di vita evangelica riconosciuta dalla comunità. L’idea che dei ragazzi di 25 anni siano in grado di presiedere l’eucarestia in una comunità, per il semplice fatto che hanno terminato un percorso di studi è veramente poco evangelica. Più che di anni di studi, che certamente sono importanti, il criterio di discernimento per indicare una guida di una comunità riunita per celebrare l’Eucarestia, dovrebbe essere lo stile di vita, uno stile trasparente riconosciuto dai membri della stessa comunità. Si tratta di spezzare il pane della Parola e dell’eucarestia, che indica lo stile di amore gratuito e disinteressato di Gesù, la sua sete di giustizia, il suo amore per i poveri, gli esclusi, la sua ricerca costante di cammini di pace.

Ebbene, chi celebra dovrebbe essere una persona che da anni sta vivendo questo stile, in un modo così evidente da venir riconosciuto dalla stessa comunità. È questo che conta: vivere il Vangelo, essere discepoli e discepole del Signore. Per uscire dalle logiche di egoismo e autoreferenzialità stimolate dall’istinto di sopravvivenza è necessaria un’intensa e profonda vita comunitaria, che pone al centro il servizio gratuito e disinteressato ai fratelli e alle sorelle, soprattutto a quelli più poveri, deboli e indifesi. È tra coloro che spiccano nel servizio umile che verranno indicate le future guide.

Coinvolgere il popolo nella scelta. Da questo aspetto ne deriva un altro di grande importanza. A mio avviso nel cammino di Chiesa che  viene formandosi sulle macerie della cristianità, la comunità non dovrebbe più subire passivamente la nomina della sua guida, ma dovrebbe essere coinvolta. Sappiamo che nei primi secoli la scelta di un vescovo spesso avveniva per indicazione del popolo. Il caso più eclatante è l’elezione di Agostino a vescovo d’Ippona. Il coinvolgimento del popolo nella scelta della guida di comunità sarebbe un segno chiaro dell’uscita da una parte, dalla mentalità gerarchica sempre strisciante e mai abbandonata, che rivela un’impostazione autoritaria e un’interpretazione del potere che non lascia spazio all’immaginazione; dall’altra, manifesterebbe il coinvolgimento effettivo dei laici nella vita della comunità.

Infatti, nonostante i proclami e i tanti documenti, è visibile la separazione netta tra clero e laicato. Una guida scelta tra la gente e dal popolo sarebbe un gesto che indicherebbe una controtendenza di stile e segnerebbe l’avvio di una Chiesa davvero popolo di Dio. Sarebbe la comunità che indica al vescovo la guida scelta tra le persone della comunità stessa e, dopo un cammino di discernimento, giungere alla nomina. In questo modo, diverrebbe visibile che, la scelta della guida della comunità, più che essere basata su criteri meritocratici, tipica della mentalità individualistica che poco ha a che fare con il Vangelo, verrebbe evidenziata la disponibilità alla vita comune, al servizio umile, all’ascolto, tutti elementi che non s’imparano sui libri, ma si assimilano da un vissuto quotidiano animato dal desiderio di seguire il Maestro.

Rivedere la teologia del sacramento dell’Ordine. Continuando su questa linea è possibile domandarsi: perché una persona deve fare per tutta la vita la guida di comunità? Quest’impostazione che sto presentando, infatti, pone la questione del significato della vocazione, che ha sempre avuto una valenza soggettiva e personale. Se la scelta non è più individuale ma comunitaria, nel senso che è la comunità che indica il candidato e non viceversa, può essere un servizio a tempo, un periodo stabilito assieme ai membri della comunità, a partire anche dalla situazione personale del candidato. Questo aspetto aiuterebbe a sfatare l’alone di mistero attorno al prescelto, come se fosse un eletto da Dio.

Il periodo alla guida della comunità potrebbe essere realizzato anche da una coppia di sposi, che ricevono il sacramento dell’Ordine e, al termine del mandato, può svolgere altre mansioni. Se il centro del cammino di fede indicato dal vangelo è la comunità, allora dovrebbe essere rivista alla radice la teologia del sacramento dell’ordine sacro. Credo che, dinanzi ai cambiamenti epocali, come quello che stiamo accompagnando, diventi importante non aggrapparsi alle tradizioni come se fossero dei pezzi di marmo massiccio, ma lasciarsi guidare dallo Spirito Santo che soffia dove vuole. In fin dei conti, le comunità cristiane non sono chiamate a proteggere il passato, ma a vivere nel presente la novità del Vangelo di Gesù accogliendo con docilità e disponibilità il suo Spirito.

Nella gratuità. Per ultimo, questa forma di ministero non dovrebbe essere remunerata. La guida di comunità, infatti, è una persona che svolge il proprio lavoro e alla domenica presiede l’eucarestia. Oltre a ciò, guida gli organismi di coordinazione della comunità. Ciò significa che nella comunità i diversi servizi vengono assunti da varie persone in modo gratuito. Questo vale per i funerali, i matrimoni, la catechesi, la pastorale giovanile e altri servizi ancora. Non ci sarà, dunque, più bisogno di alcun organismo amministrativo a livello diocesano come il sostentamento del clero e nemmeno di una tassa dello Stato come l’otto per mille. Chi guida la comunità dovrà essere una persona che si mantiene con il proprio lavoro. Ciò permetterebbe alle guide di essere più libere, meno dipendenti dalla comunità da un legame di tipo economico. È da persone libere che abbiamo la possibilità di accompagnare i fratelli e sorelle nel cammino della libertà dei figli e delle figlie di Dio vissuta da Gesù.

Paolo Cugini, dottore in Teologia. Dal 1998 al 2013 missionario fidei donum in Brasile nello Stato della Bahia, come parroco e come professore di filosofia nella Facoltà Cattolica di Feira di Santana. Ho contribuito a fondare e ad accompagnare nei primi anni il gruppo cristiani LGBT di Reggio Emilia. Attualmente sono amministratore parrocchiale di quattro parrocchie nella campagna bolognese al confine con Ferrara.

                “Pensando”https://regiron.blogstop.com              5 giugno 2023

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SINODO 2023

Le tappe continentali del Sinodo. Un flash sulla Chiesa

                La consultazione sinodale appena conclusa ha scattato una nitida foto di quanto si sta muovendo all’interno delle Chiese e ha prodotto un significativo materiale per l’elaborazione del documento di lavoro (Instrumentum laboris) che orienterà il confronto della prossima assemblea dei vescovi, la cui pubblicazione è prevista per i primi giorni di giugno.

Un grande patchwork (lavori con le pezze per creare manufatti). Ora, attraverso i documenti conclusivi delle sette assemblee continentali conosciamo le sensibilità delle varie Chiese, le loro difficoltà, le loro urgenze e le loro aspettative nei confronti del Sinodo. La lettura di tutti questi testi offre alcune sorprese. La cattolicità che si tende a pensare come uniforme si presenta caratterizzata dalla diversità, anzi da molte diversità, che credibilmente segneranno l’assemblea del Sinodo.

Le Chiese europee constatano che le diversità continuano a percorrerle non solo da Est a Ovest, ma anche da Nord a Sud e avvertono l’esigenza di purificare la loro memoria. Le Chiese dell’America latina, del Medio Oriente e dell’Africa, ricordano (o forse rivendicano) la loro lunga e intensa tradizione sinodale: l’America latina dalla costituzione del Celam (1955) ai successivi molteplici organismi partecipativi, l’Africa a partire dal Vaticano II e le Chiese del Medio oriente costitutivamente sinodali dalle origini. In Oceania, le Chiese polverizzate in tanti piccoli e grandi stati insulari avvertono come cruciale la crisi ecologica e la sfida della grandissima varietà di etnie, lingue e culture. Le Chiese dell’Asia, una piccolissima minoranza nella maggior parte dei paesi, si confrontano con una povertà diffusa e con molte fedi anche più antiche di quella cristiana (buddhismo, confucianesimo, taoismo, …), ma in particolare con l’Islam che è la più diffusa. Le Chiese del Nord America, che hanno scelto il formato virtuale e linguistico (inglese, francese, spagnolo) delle assemblee (solo l’équipe che ha steso il rapporto finale si è incontrata in presenza), hanno registrato una problematica carenza di sinodalità: la “grande maggioranza” dei vescovi ha “partecipato a piccoli gruppi formati da altri vescovi” e nelle plenarie “ha ascoltato” le relazioni degli altri gruppi. Per questo “molti fedeli laici” hanno chiesto di conoscere come i vescovi hanno visto questo processo sinodale, infatti, nel documento finale possiamo leggere un ampio capitolo dedicato alle “riflessioni dei vescovi”.

Le tensioni che attraversano le Chiese. Molte sono le tensioni che hanno attraversato questi confronti continentali, per giungere poi ad indicare le priorità di cui dovrebbe occuparsi il Sinodo. La stessa metafora della tenda utilizzata nel titolo (Allarga lo spazio della tua tenda) del Documento per la Tappa continentale (Dtc) è stata motivo di confronto. “Fortemente contestata” in Africa dove è stata associata a “guerra, sfollamento e profughi”, accolta con sentimenti contrastanti in Oceania, è stata valutata positivamente in Asia perché nella tenda c’è “posto per tutti” e in Medio Oriente dove è vista come segno della storia della salvezza.

Ampia e unanime risonanza ha avuto la questione degli abusi, che mina la fiducia e la credibilità della Chiesa fino a portare a “intolleranza, risentimento” e abbandoni. Accanto a questa piaga se ne è evidenziata un’altra legata al pregiudizio, al razzismo e al colonialismo: i “torti storici” nel trattamento riservato ai popoli indigeni in Africa, Asia, Oceania e Nord America.

Un rimando inevitabile in molte sintesi è stato alla figura del presbitero con il suo corollario di problemi: selezione e formazione iniziale (si chiede la riforma dei seminari), rapporto con il sacerdozio comune dei laici, clericalismo, abusi, modalità con le quali esercita la sua leadership.

La grande varietà di contesti ha dato all’ecumenismo e al dialogo interreligioso una diversa priorità, in Medio oriente è “questione di vita o di morte” e in Europa vi è una ricchezza di esperienze nelle relazioni, in altre realtà ci si interroga, invece, su questi rapporti (Nord America, Asia).

Nonostante vi siano stati due sinodi specifici, la famiglia, con le sue varie declinazioni (poligamia, arcobaleno, separata, …), e il problema giovani ritornano continuamente nelle sintesi e restano un nervo scoperto della pastorale.

Infine, ascoltare non è facile e occorre ancora esercitarsi. Lo si coglie in più di un passaggio: “si ascoltano di più coloro che detengono l’autorità”, “coloro che hanno osato parlare sono stati talvolta considerati antagonisti” perché le opinioni erano controcorrente, si avverte che “la Chiesa non ascolta o almeno è selettiva”, occorre ascoltare anche le culture locali.

Alcune priorità. Le tappe continentali hanno consegnato al Sinodo un’ampia varietà di priorità, tra queste alcune assumono una particolare importanza.

  • La questione partecipazione, corresponsabilità, autorità e processi decisionali è avvertita come un nodo centrale della Chiesa sinodale. L’attenzione va agli organi di partecipazione e al loro potere (consultivo o deliberativo), al rapporto tra autorità del vescovo e i processi decisionali, alla definizione dei livelli (chiesa universale/locale) a cui vanno prese le decisioni, alla revisione del Diritto canonico (“crea uno squilibrio di potere tra vescovi, clero e laici”) e alla trasparenza amministrativa.
  • Ampiamente trattato e in modo unanime è il ruolo e la responsabilità delle donne nella vita della Chiesa, per i quali si auspicano “concrete e coraggiose decisioni” e si pongono interrogativi sui limiti all’ordinazione (Nord America, Europa e Oceania).
  • Vi è poi un ampio elenco di urgenze che potrebbero essere raccolte sotto la voce riforma, si tratta di liturgia, inculturazione, dottrina e tradizione, chiesa ministeriale.
  • La liturgia con le sue criticità (linguaggio, omelia, …) era già apparsa in un paragrafo del Dtc segreteria generale del Sinodo (3.5) ritorna ora e si intreccia con la questione dell’inculturazione in particolare in Africa, Asia, Oceania e America Latina. Si tratta di rileggere e valorizzare la cultura dei popoli indigeni.
  • La richiesta di un rinnovamento liturgico, adeguandolo alle attuali esigenze dei fedeli si può dire che sia pervasiva, ma deve anche fare i conti, in Europa (Francia, Gran Bretagna, Paesi nordici) e Nord America, con le nostalgie per la liturgia preconciliare.
  • Anche l’accoglienza (e l’inclusione) che dovrebbe essere una caratteristica tout court della Chiesa non è priva di problematicità. Le Chiese del Nord America pur presentandola come una priorità, si domandano “quali sono i suoi risvolti pastorali e anche dottrinali?” e segnalano che la definizione “inclusione radicale”, utilizzata dal Dtc, ha suscitato “reazioni ampiamente divergenti”.
  • Il tema del “cambiamento” dell’insegnamento della Chiesa (dottrina/tradizione) è proposto come priorità solo in un caso, ma è stato toccato in alcuni continenti e il confronto ha registrato due scontate tensioni: esigenza di una rivisitazione o approfondimento e nessuna apertura al cambiamento.

Sinodalità: adelante con juicio. L’esigenza di una Chiesa sinodale è presente unanimemente, almeno come desiderio in tutte le Tappe continentali. Dubbi, interrogativi e riserve, però, non sono mancati. Le maggiori perplessità sono emerse dal documento del Nord America. La domanda è: dove la sinodalità porterà la Chiesa?

Se da un lato è ritenuta “indispensabile per la gestione della pluralità” (Medio Oriente) o la si considera “uno stile di vita” della Chiesa (Europa), altrove si ritiene che “la sinodalità danneggerà la Chiesa”, che tra processo di discernimento e governo della maggioranza vi sia una “linea sottile” e si teme una forma di democratizzazione, oppure ci si chiede se sia possibile “sostenere questo stile in modo coerente”.

Ottenere la giusta intonazione delle molte diversità spetta ora alle due assemblee sinodali di Roma.

Una grande operazione di ascolto delle Chiese. La consultazione sinodale è stata un’impresa che si può dire abbia dello straordinario: per la capillarità e il numero delle persone coinvolte, per il tempo dedicato (due anni) e per il metodo di lavoro utilizzato.

La Chiesa cattolica, infatti, da un punto di vista sociologico, con un miliardo e 360 milioni di fedeli e la capillare distribuzione nei vari continenti, si può considerare una delle grandi organizzazioni mondiali.

La consultazione di base nelle singole diocesi confluita poi in una sintesi delle Conferenze episcopali nazionali (hanno risposto 112 Conferenze su 114) che sono servite alla Segreteria generale del Sinodo per elaborare un documento dal titolo “Allarga lo spazio della tua tenda” che ha fatto da base per i lavori di 7 assemblee continentali, composte da laici, religiosi, presbiteri e vescovi, alle quali hanno partecipato 2.347 delegati, esclusa l’Oceania di cui non si conoscono i dati. (f.f.)

Franco Ferrari   “giornalMissione Oggi”               n. 3 del maggio-giugno 2023

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Le consegne di papa Francesco

Il 25 maggio papa Francesco ha incontrato i referenti diocesani del cammino sinodale italiano. Nel suo discorso ha affermato che i Cantieri sinodali sono «una bella esperienza di ascolto dello Spirito e di confronto tra le diverse voci delle comunità cristiane». Un’esperienza «spirituale unica, di conversione e di rinnovamento» che ha coinvolto molte persone su temi spirituali «cruciali e prioritari » per il presente e il futuro della Chiesa. Ha esortato i presenti a proseguire «con coraggio e determinazione su questa strada, anzitutto valorizzando il potenziale delle parrocchie e della varie comunità cristiane». In attesa di quella che sarà la «fase sapienziale», ha affidato ai referenti diocesani alcune consegne finalizzate a «superare resistenze e preoccupazioni, sul coinvolgimento dei sacerdoti e dei laici e sulle esperienze di emarginazione».

  1. La prima: continuare a camminare con umiltà, disinteresse e beatitudine, lasciandosi guidare dallo Spirito. Un cammino nella storia, incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo, non per salvaguardare i propri interessi, ma per servire «il Vangelo in stile di gratuità e cura, coltivando la libertà e la creatività proprie di chi testimonia la lieta notizia dell’amore di Dio».
  2. La seconda: fare Chiesa insieme. Accade infatti che si è tentati di lasciare che pochi, «i capi della parrocchia», portino avanti l’azione pastorale e il popolo di Dio rimanga «solamente ricettivo delle loro azioni» come è già stato scritto nell’Evangelii gaudium, n 120, dove si precisa che «in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro […] è diventato discepolo missionario». Deve allora crescere quella che Francesco ha chiamato «corresponsabilità ecclesiale», una partecipazione attiva alla vita della Chiesa. Occorre quindi «com-prendere e sperimentare» come comportarsi, da ministri ordinati, con l’Altro, come condividere il cammino con chi è lontano e con quelli che, pur essendo vicini, non sono stati mai ascoltati.
  3. La terza: essere una Chiesa aperta capace di ascoltare e coinvolgere chi non ha voce superando l’autoreferenzialità che ancora si registra nelle parrocchie, ma anche il «neoclericalismo di difesa» sia dei preti, sia dei laici. Clericalismo che il papa ha definito «perverso» per i vescovi e i preti e «terribile» per le laiche e i laici. Al contrario, il Sinodo ci chiama a «diventare una Chiesa che cammina con gioia, accendendo i cuori dei nostri fratelli e delle nostre sorelle».

Un messaggio di fiducia e di speranza quello di Francesco ai referenti diocesani e non poteva essere altrimenti. Un discorso che lascia anche a noi un po’ di ottimismo in attesa dell’assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi che si terrà nell’ottobre 2023 e alla quale parteciperanno, con particolare attenzione, preti, religiosi, religiose, laici e laiche con il 50 per cento di donne. Non saprei dire in quante parrocchie, a quanti preti, consacrati, laiche e laici siano giunte le consegne di papa Francesco. Né saprei dare risposte ad alcune semplici domande. Là dove le consegne sono arrivate, la Chiesa continuerà veramente a camminare ed è davvero aperta? La partecipazione del popolo di Dio sarà realmente attiva?

Francesco ha dichiarato che i ministri ordinati sono chiamati a «comprendere e sperimentare». Vuol dire che, fino a oggi, nelle parrocchie soprattutto nei rapporti tra capi siano essi preti e laici, la Sinodalità è stata disattesa o, meglio, nonostante il Sinodo sia stato istituito dal Vaticano II e, più tardi, siano stati costituiti i consigli pastorali e altri organismi, non è stata mai attuata? Nei luoghi invece, dove le parole del papa non siano giunte, si continuerà a fare come si è sempre fatto?

Cesare Sottocorno                         Notam 579, pag. 11                       12 giugno 2023

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Inoltre sulla colonna a destra

Il messaggio di Giovanni XXIII

Nella lettera inviata da Barbiana il 1° ottobre 1964, a tutti i preti della diocesi fiorentina e per conoscenza all’arcivescovo Florit, …don Bruno Borghi e don Lorenzo Milani scrivono:

«Ma questi non sono che tre episodi di un problema molto più generale: il problema del dialogo. Il Papa ha chiamato i Vescovi a dialogo, perché il Vescovo chiamasse a dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il suo scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo con il Vescovo e il Vescovo non parla a noi!»

Lorenzo Milani,        Lettere da Barbiana, 1954-1967,

a cura di Michele Gesualdi, edizioni San Paolo, maggio 2023, 303 pagine.

Sinodo: “sana decentralizzazione” per dare “più spazio a laici e donne”

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/06/20/0456/01015.html

Con la pubblicazione dell’Instrumentum laboris si chiude la prima fase del Sinodo e si apre la seconda, in programma per l’ottobre 2023 e l’ottobre 2024. “Comunione, missione, partecipazione” le parole chiave per affrontare questioni come gli abusi, i divorziati risposati, le persone LGBTQ+. Più spazio ai laici e alle donne, per una “sana decentralizzazione” nell’esercizio del primato.

“Rilanciare il processo e incarnarlo nella vita ordinaria della Chiesa, identificando su quali linee lo Spirito ci invita a camminare con maggiore decisione come Popolo di Dio”. È l’obiettivo della fase finale del Sinodo, di cui oggi è stato diffuso l’Instrumentum laboris, “strumento operativo” redatto sulla base di tutto il materiale raccolto durante la fase dell’ascolto, e in particolare dei Documenti finali delle Assemblee continentali.

 “Il percorso compiuto finora, e in particolare la tappa continentale –  si legge nella premessa del testo, con cui si chiude la prima fase del Sinodo convocato per la prima volta “dal basso” da Papa Francesco, “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, e si apre la seconda,  articolata nelle due sessioni in cui si svolgerà la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2023 e ottobre 2024) – ha permesso di identificare e condividere anche le peculiarità delle situazioni che la Chiesa vive nelle diverse regioni del mondo, a partire “dalle troppe guerre che insanguinano il nostro pianeta e richiedono di rinnovare l’impegno per la costruzione di una pace giusta”.

Due le sezioni del documento:

  • la sezione A, intitolata “Per una Chiesa sinodale”, prova a raccogliere i frutti della rilettura del cammino percorso,
  • mentre la sezione B, intitolata “Comunione, missione, partecipazione”, esprime in forma di interrogativo le tre priorità che con maggiore forza emergono dal lavoro di tutti i continenti, sottoponendole al discernimento dell’Assemblea. A servizio della dinamica dell’Assemblea, in particolare dei lavori di gruppo (Circuli Minores), per ciascuna di queste tre priorità sono proposte cinque Schede di lavoro che consentono di affrontarle a partire da prospettive diverse.
  • Abusi e divorziati risposati. “In molte regioni le Chiese sono profondamente colpite dalla crisi degli abusi”, si denuncia nel testo: ”la cultura del clericalismo e le diverse forme di abuso – sessuale, finanziario, spirituale e di potere erodono la credibilità della Chiesa compromettendo l’efficacia della sua missione”. Nel documento, inoltre, si auspicano “passi concreti per andare incontro alle persone che si sentono escluse dalla Chiesa in ragione della loro affettività e sessualità”, come “divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+”. Altro interrogativo da porsi, “come possiamo essere più aperti e accoglienti verso migranti e rifugiati, minoranze etniche e culturali, comunità indigene che da lungo tempo sono parte della Chiesa ma sono spesso ai margini”, in modo da “testimoniare che la loro presenza è un dono”.
  • Autorità e primato. L’Instrumentum laboris dà ampio risalto al tema del primato petrino e alla necessità di un “ripensamento dei processi decisionali”, all’insegna di una “sana decentralizzazione” all’interno della Chiesa. “La diversità dei carismi senza l’autorità diventa anarchia, così come il rigore dell’autorità senza la ricchezza dei carismi, dei ministeri, delle vocazioni diventa dittatura”, il monito del documento. “Come sono chiamati a evolvere, in una Chiesa sinodale, il ruolo del vescovo di Roma e l’esercizio del primato?”, una delle sfide da affrontare, tenendo presente che “autorità, responsabilità e ruoli di governo – talvolta indicati sinteticamente con il termine inglese leadership – si declinano in una varietà di forme all’interno della Chiesa”. “Atteggiamento di servizio e non di potere o controllo, trasparenza, incoraggiamento e promozione delle persone, competenza e capacità di visione, di discernimento, di inclusione, di collaborazione e di delega”, le caratteristiche di una Chiesa sinodale missionaria, dove centrale risulta “l’attitudine e la disponibilità all’ascolto”. Di qui la necessità di una formazione specifica a tali competenze “per chi occupa posizioni di responsabilità e autorità, oltre che sull’attivazione di procedure di selezione più partecipative, in particolare per i vescovi”.
  • Laici e donne. “Dare nuovo slancio alla partecipazione peculiare dei laici all’evangelizzazione nei vari ambiti della vita sociale, culturale, economica, politica”. Anche il tema dei “nuovi ministeri” al servizio della Chiesa trova ampio spazio nel testo: l’obiettivo è quello di “una reale ed effettiva corresponsabilità”, coinvolgendo anche quei fedeli che, “per diverse ragioni, sono ai margini della vita della comunità”. In particolare, nell’Instrumentum laboris si dà voce all’istanza di “un maggiore riconoscimento e promozione della dignità battesimale delle donne”, affinché la “pari dignità” possa “trovare una realizzazione sempre più concreta nella vita della Chiesa anche attraverso relazioni di mutualità, reciprocità e complementarità tra uomini e donne”, combattendo “tutte le forme di discriminazione ed esclusione” e garantendo alle donne “posti di responsabilità e  di governo”.
  • Preti sposati e ambiente digitale. “È possibile aprire una riflessione sulla possibilità di rivedere, almeno in alcune aree, la disciplina sull’accesso al Presbiterato di uomini sposati?”, ci si chiede nel testo, in cui a proposito dei candidati al sacerdozio si auspica “una riforma dei curricula di formazione nei seminari e nelle scuole di teologia”.
  •  “L’ambiente digitale ormai modella la vita della società”, si afferma nel documento, in cui si auspica un aggiornamento dei linguaggi e dell’”accompagnamento” in questo ambiente, attraverso percorsi adeguati.  “Come incoraggiare il protagonismo dei giovani, corresponsabili della missione della Chiesa in questo spazio?”, l’altra questione a alla quale è urgente rispondere.  No alle diverse forme di “colonizzazione culturale”, sì invece all’“opzione preferenziale” per i giovani e per le famiglie, “che li riconosca come soggetti e non oggetti della pastorale”.

M. Michela Nicolais       Agenzia SIR        20 giugno 2023

www.agensir.it/chiesa/2023/06/20/sinodo-sana-decentralizzazione-per-dare-piu-spazio-a-laici-e-donne

«Esperienza di ascolto e creatività»

   Padre Giacomo Costa SI, (α1967) parla del cammino che la Chiesa sta compiendo verso l’appuntamento del Sinodo dei vescovi a ottobre. «L’Instrumentum laboris è il frutto del confronto di questi due anni, ma non vuole essere la bozza di un documento finale». Padre Costa, gesuita, consultore della Segreteria generale del Sinodo, non è rimasto sorpreso da come i media hanno accolto la pubblicazione dell’Instrumentum laboris, con cui si passa dalla prima fase del Sinodo  “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”, alla seconda, articolata nelle due sessioni in cui si svolgerà la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2023 e ottobre 2024). Era «prevedibile » che si sarebbe interessato ai temi più “pruriginosi”, come l’accoglienza di divorziati risposati e persone omosessuali, il diaconato femminile, l’ordinazione di uomini sposati, gli abusi sessuali o di potere. Temi seri e importanti, ma che non costituiscono il nocciolo del documento presentato martedì dallo stesso padre Costa insieme ai cardinali Mario Grech, segretario della Segreteria generale del Sinodo, e Jean-Claude Hollerich, gesuita, arcivescovo di Lussemburgo e relatore generale all’Assemblea di ottobre.

 Padre Costa, cosa è e cosa non è l’Instrumentum laboris che avete presentato tre giorni fa?

Iniziamo da cosa vuole essere: uno strumento di lavoro all’interno del percorso di costruzione di una Chiesa sempre più sinodale, che aiuta a rileggere l’esperienza vissuta dal Popolo di Dio in questi ultimi due anni a livello locale, nazionale e continentale e ne esprime gli interrogativi. Si tratta di un sussidio pratico che aiuterà l’Assemblea di ottobre anche ad affrontare, a livello di Chiesa universale, questioni riguardo alle quali, pur desiderando tutti essere fedeli al Vangelo, fatichiamo a trovare una strada che permetta non solo di riconoscere e rispettare le differenze (di cultura, spiritualità, comprensioni ecclesiali, ecc.), ma anche di procedere insieme come unica Chiesa di Cristo.

L’attenzione mediatica si è concentrata su alcune di tali questioni…

In effetti il rischio è quello di assolutizzare alcune delle molte domande presenti nella seconda parte del testo, perdendo l’orizzonte dell’esperienza vissuta raccontata nella prima parte, o quello di rimanere su questo orizzonte in una maniera astratta, disincarnata.

E invece cosa non è questo Instrumentum laboris?

Non è una ricetta già pronta per rispondere alle esigenze della Chiesa oggi. Non è la bozza del documento finale, né un pronunciamento del magistero. E non va letto come se lo fosse. È uno stimolo per identificare alcuni passi concreti a cui sentiamo che lo Spirito Santo ci sta chiamando.

Quindi quello che stiamo vivendo è, in un certo senso, un sinodo metodologico, che però investe contenuti concreti…

Questo non è un Sinodo sulla sinodalità, termine astratto che non mi convince, ma sulla Chiesa sinodale, su quale stile dobbiamo adottare per camminare insieme. Per fare in modo che le polarità e le differenze, che ci sono, possano essere affrontate in maniera costruttiva, pregando insieme, ascoltando in profondità, cercando di riconoscere la presenza dello Spirito anche in posizioni differenti dalla propria. Ma…

Ma

…è anche vero che senza affrontare temi concreti questo stile rimarrebbe vago e spiritualista. Quindi sperimentiamo un metodo usandolo per affrontare questioni concrete. Comunque l’elenco delle domande fornito dall’Instrumentum laboris è infinito…

Si riuscirà in meno di un mese a rispondere a tutte?

In realtà gli interrogativi fondamentali sono tre.

  1. Il primo: come crescere nel camminare tutti insieme, nell’accoglienza – di tutti, senza esclusioni – e nella ospitalità reciproca.
  2. Il secondo: come valorizzare il contributo di ciascuno – anche delle donne – per la missione di annuncio del Vangelo, che è un compito di tutti i battezzati, non solo di sacerdoti e consacrati.
  3. Il terzo: come articolare partecipazione e servizio dell’autorità in questa Chiesa sinodale.

Tutte le altre domande presenti nel testo servono ad aiutare a collegare questi tre interrogativi alla vita concreta della Chiesa nelle diverse parti del mondo.

Nel cammino di questi due anni il coinvolgimento del Popolo di Dio è stato importante. Però se si guardano i numeri a partecipare è stata una piccola minoranza dei battezzati…È una osservazione che abbiamo sentito più volte. In Italia comunque la partecipazione è stata significativa. Detto questo, è importante ribadire che bisognava iniziare a vivere una esperienza di Chiesa sinodale. E questo non si può fare con i documenti, ma lavorando insieme. Poi, se l’esperienza è attraente, come sta succedendo, richiama sempre più persone, e cresce via via che procede: è l’effetto valanga. Penso in particolare ai tanti vescovi e sacerdoti che dopo uno scetticismo iniziale, stimolati dai fedeli laici, si sono messi in gioco con entusiasmo. E hanno capito che il Sinodo non è un cavallo di Troia per arrivare a chissà quale rivoluzione, ma un modo di vivere oggi il Vangelo come comunità, mettendo i carismi di ciascuno a servizio dell’unica missione.

Quindi la sinodalità non va a scapito della collegialità episcopale?

Assolutamente no. Forse qualcuno temeva o teme che questo Sinodo sminuisca o snaturi il ruolo dei vescovi. Ma chi si è messo in gioco ha capito che non è così. Anzi. Ha capito che in una Chiesa autenticamente sinodale, con la collaborazione dei preti, dei religiosi, delle consacrate, dei laici e delle laiche, il suo compito è agevolato e soprattutto la sua autorità di pastore ne esce riconosciuta e rafforzata in una prospettiva evangelica.

Non vede il rischio che la parola sinodalità diventi uno slogan o che si possa creare un ceto di “professionisti della sinodalità”?

C’è sempre il rischio che le parole si consumino e diventino slogan alla moda. Vale anche per il termine sinodalità. Anche per questo preferisco parlare di Chiesa sinodale, che indica una esperienza molto impegnativa di ascolto e creatività. Riguardo al rischio di diventare dei “professionisti”, sarebbe un fallimento se le equipe sinodali diocesane diventassero gruppi di esperti a cui la Chiesa delega il proprio cammino. Ma finora hanno saputo svolgere con grande generosità un ruolo che va inteso come un ministero, un servizio alla comunità cristiana.

«Si tratta di una riflessione su quale stile dobbiamo adottare per camminare insieme. Ovviamente non può essere solo uno stile legato al vago o alla spiritualità. Quindi sperimentiamo un metodo per affrontare questioni concrete» «Il testo che abbiamo presentato non è una ricetta pronta per rispondere alle esigenze della Chiesa di oggi né un pronunciamento del magistero ma un sussidio pratico per aiutare i lavori dell’assemblea».

intervista a Giacomo Costa, a cura di Gianni Cardinale                  Avvenire” del 23 giugno 2023

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230623costacardinale.pdf

Il documento di lavoro segna l’avvio di un nuovo processo

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/06/20/0456/01015.html

Diviso in due parti, l’Instrumentum Laboris si presenta più come un sussidio, e non esclude l’utilizzo degli altri documenti della preparazione. Un nuovo metodo, che non vuole cambiare la Chiesa

Quello che si mette in chiaro sin da subito, e con termini netti, è che non siamo di fronte ad un documento del magistero, né siamo di fronte al report di una indagine sociologica. Siamo piuttosto di fronte a un momento di ascolto, qualcosa che porta le periferie al centro, tanto che le Chiese locali sono “punto di riferimento privilegiato”, che però non significa che questa Chiesa locale “può vivere al di fuori delle relazioni che la uniscono a tutte le altre, incluse quelle, del tutto speciali, con la Chiesa di Roma”.

Insomma, l’Instrumentum Laboris del Sinodo 2023 – 2024 cerca un equilibrio, un bilanciamento tra le istanze di democratizzazione della Chiesa e invece un metodo che sia sinodale, nel senso che sia basato sull’ascolto e sulla non esclusione delle opinioni di tutti. Tanto che arriva a spiegare che, sì, questioni come quella dell’accesso alla comunione per i divorziati risposati sono già state definite dal magistero (tra cui include anche la Amoris Lætitia) ma che se c’è una discussione sul tema non si deve mettere da parte. Tutto questo sarà discusso a Roma, dal 4 al 29 ottobre 2023, per la prima volta in Aula Paolo VI e non nell’Aula Nuova del Sinodo, considerando che il numero dei partecipanti è particolarmente lievitato con l’ingresso di 70 membri (anche non vescovi) proposti dai Sinodi continentali, che si aggiungono poi ai membri di nomina pontificia.

Verso l’Instrumentum Laboris. L’Instrumentum laboris è il documento di lavoro del Sinodo. Serve a stabilire i temi e definire le priorità della discussione sinodale. Veniva dopo i “Lineamenta”, che erano i pre-temi di discussione. Già dal primo sinodo voluto da Papa Francesco, nel 2014, i “Lineamenta “erano stati sostituiti da questionari distribuiti da tutto il popolo di Dio. Non che fosse una novità assoluta, dato che questionari erano distribuiti anche per definire i “Lineamenta”. Ma l’obiettivo era quello di mostrare una sempre più aperta inclusività.

Questo percorso di rinnovamento ha il suo culmine in questa nuova tappa sinodale, un sinodo che cambia “da evento a processo”, come ama ripetere il Cardinale Mario Grech, segretario del Sinodo dei Vescovi, e che si snoderà in due assisi sinodali, nel 2023 e 2024, perché alla fine – spiega l’Instrumentum Laboris – non a tutte le domande si potrà trovare risposta.

Il processo sinodale ha visto la stesura di un Documento Preparatorio, con un questionario che ha chiesto il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio. Quindi, dalle risposte giunte da conferenze episcopali, dicasteri, congregazioni, e popolo di Dio appunto, si redatto un documento di lavoro per la Tappa Continentale del Sinodo. E questo documento di lavoro è servito da guida per le sette tappe continentali, definitesi diversamente a seconda delle località geografiche, che si sono svolte in Europa, Asia, Oceania, America del Nord, America del Sud, Africa, insieme ad una riunione speciale in Libano per le Chiese Orientali.

Da questi documenti finali si è raccolto il materiale che ha portato alla stesura di questo Instrumentum Laboris, che vuole presentarsi con un linguaggio nuovo. Si divide in due parti.

  1. La prima, di 26 pagine e 60 punti, è il vero e proprio documento.
  2. La seconda è fatta di schede, questioni, indicazioni per il discernimento e il metodo di lavoro. Sono sussidi, che raccolgono (senza giudicarle) le sollecitazioni che giungono dall’assemblea, e che servono non solo ai padri sinodali, ma a chiunque voglia utilizzarli. E, in fondo, se tutti sono membri del Sinodo – secondo l’ultima riforma, voteranno come membri anche laici proposti dai vari organismi continentali e scelti e approvati dal Papa – a maggior ragione tutti devono poter “fare sinodo” anche se non sono parte attiva del processo. Tutti i documenti saranno parte dell’assemblea del Sinodo, e questo permetterà di vedere le priorità nei documenti originali. Allo stesso tempo, c’è il rischio che il sovraccarico di informazioni renda il dibattito sinodale perlomeno un po’ scontato.

La necessità di trovare un centro. C’è bisogno di un linguaggio nuovo, e soprattutto di dimostrare la volontà della Chiesa di ascoltare tutti. Per questo, si mette in luce la gioia e la sorpresa di quanti sono stati parte del percorso sinodale: perché è quello il punto. Eppure, l’Instrumentum Laboris mette in chiaro da subito di non essere “una indagine sociologica”, né una “compiuta elaborazione di una visione teologica”. Anzi, la volontà è stata quella di prendere alcune priorità venute fuori dalle assemblee “non in forma di asserzione o di prese di posizione”, ma di domande, e sarà poi l’Assemblea sinodale a “operare un discernimento per identificare alcuni passi concreti per continuare a crescere come Chiesa sinodale, passi che sottoporrà poi al Santo Padre”.

E ancora: la Chiesa locale è “un punto di riferimento privilegiato”, ma non si può prescindere dalla Chiesa di Roma, cui “è affidato il servizio dell’unità attraverso il ministero del suo Pastore, che ha convocato la Chiesa intera in Sinodo”. Non c’è, insomma, un processo di democratizzazione. Solo la possibilità di parlare e di essere ascoltati, in un linguaggio che cerca di essere “non divisivo” proprio per aiutare la comprensione reciproca.

Ci si chiede anche “come creare una via sinodale”, ma si ammette anche che “come questo si possa conciliare con la Chiesa universale e il ruolo del Papa è tutto da vedere, e la scelta del Sinodo è quella di mantenere questo ruolo centrale di Roma, e di chiedere unità, da cementare con la preghiera”.

Le sfide della Chiesa oggi. Un documento in due parti, dunque, che riprende esattamente il tema del Sinodo. La prima parte è intitolata “Per una Chiesa sinodale”, la seconda “Comunione, missione, partecipazione”, con un piccolo scambio riguardo il tema del sinodo (che è “Comunione, partecipazione, missione”) che sposta la missione a fianco della comunione, e lascia un po’ in disparte la partecipazione.

È un cambiamento che serve a collegare comunione e missione, anche questo parte di un rilancio del processo sinodale tanto che sia “incarnato nella vita ordinaria della Chiesa”. Ma il documento non manca di guardare agli scenari attuali, dalla guerra in Ucraina alle situazioni “peculiari” che la Chiesa vive in diverse parti del mondo, dalla persecuzione dei cristiani (subdola o palese) alla costruzione di una pace giusta fino alla minaccia del cambio del clima. Ma soprattutto, la sfida della sopravvivenza per le “comunità cristiane che rappresentano minoranze sparute all’interno del Paese in cui vivono, fino a quella di fare i conti con una secolarizzazione sempre più spinta, e talora aggressiva, che sembra ritenere irrilevante l’esperienza religiosa, ma non per questo smette di avere sete della Buona Notizia del Vangelo”.

Da notare la scelta di affrontare il tema degli abusi guardandolo da una prospettiva non istituzionale, e diversa da quella che impone una colpevolizzazione della Chiesa che non può essere vera, perché sono sempre gli uomini ad abusare. “In molte regioni – si legge nel documento – le Chiese sono profondamente colpite dalla crisi degli abusi: sessuali, di potere e di coscienza, economici e istituzionali. Si tratta di ferite aperte, le cui conseguenze non sono ancora state affrontate fino in fondo. Alla richiesta di perdono rivolta alle vittime delle sofferenze che ha causato, la Chiesa deve unire il crescente impegno di conversione e di riforma per evitare che situazioni analoghe possano ripetersi in futuro”.

Come è fatta la Chiesa sinodale.

L’Instrumentum Laboris dà anche una descrizione di quali siano i segni caratteristici di una Chiesa sinodale: Chiesa dell’ascolto, dell’incontro e del dialogo, della cultura dell’incontro, aperta, accogliente e che abbraccia tutti.

Allo stesso tempo, la Chiesa sinodale “affronta onestamente e senza paura la chiamata a una comprensione più profonda del rapporto tra amore e verità”, e allo stesso tempo è capace di “gestire le tensioni senza esserne schiacciata, vivendole come spinta ad approfondire il modo di comprendere e vivere comunione, missione e partecipazione”. La sinodalità è una via privilegiata di conversione, perché ricostituisce la Chiesa nell’unità: cura le sue ferite e riconcilia la sua memoria, accoglie le differenze di cui è portatrice e la riscatta da divisioni infeconde.

Il metodo, però, deve essere prima di tutto spirituale, e l’Instrumentum Laboris propone il metodo della conversazione con lo Spirito Santo, considerato particolarmente concreto e adatto.

Detto dell’inversione dei termini di comunione e missione, resta il tema della partecipazione, che ha riguardato anche la più recente riforma del Sinodo dei vescovi. Un tema che affronta il tema della “questione dell’autorità, del suo senso e dello stile del suo esercizio all’interno di una Chiesa sinodale. In particolare, essa si pone nella linea di parametri di derivazione mondana, o in quella del servizio?

La questione della formazione. Un punto essenziale resta la formazione. Ed in effetti, non c’è da preoccuparsi se nel processo di ascolto sinodale viene data la parola a ragazzi che con l’irruenza dei loro anni pongono questioni obiettivamente esagerate e fuori dalle competenze della Chiesa. C’è da preoccuparsi piuttosto di come questi giovani siano stati formati, o vengano formati e accompagnati. Il tema del ruolo del vescovo, con il suo munus docendi, è stato oggetto di diverse discussioni nelle tappe continentali. 

“La formazione – si legge nel documento – è il mezzo indispensabile per rendere il modo di procedere sinodale un modello pastorale per la vita e l’azione della Chiesa. Abbiamo bisogno di una formazione integrale, iniziale e permanente, per tutti i membri del Popolo di Dio. Nessun Battezzato può sentirsi estraneo a questo impegno e occorre quindi strutturare adeguate proposte di formazione al modo di procedere sinodale rivolte a tutti i Fedeli. In particolare, poi, più uno è chiamato a servire la Chiesa, più deve avvertire l’urgenza della formazione: Vescovi, Presbiteri, Diaconi, Consacrati e Consacrate”.

Un linguaggio nuovo. L’Instrumentum Laboris nota che “numerosi contributi evidenziano la necessità di uno sforzo analogo per il rinnovamento del linguaggio utilizzato dalla Chiesa: nella liturgia, nella predicazione, nella catechesi, nell’arte sacra, così come in tutte le forme di comunicazione rivolte sia ai Fedeli sia all’opinione pubblica più ampia, anche attraverso nuovi e vecchi media”. A primo acchito, sembra il riferimento ad una riforma liturgica. Ma invece, il documento sottolinea che “senza mortificare o svilire la profondità del mistero che la Chiesa annuncia o la ricchezza della sua tradizione, il rinnovamento del linguaggio dovrà puntare a renderle accessibili e attraenti per gli uomini e le donne del nostro tempo, senza rappresentare un ostacolo che li tiene lontani”. L’ispirazione viene dalla “freschezza del linguaggio evangelico, la capacità di inculturazione che la storia della Chiesa esibisce e le promettenti esperienze già in corso, anche nell’ambiente digitale, ci invitano a procedere con fiducia e decisione in un compito di importanza cruciale per l’efficacia dell’annuncio del Vangelo, che è il fine a cui tende una Chiesa sinodale missionaria”.

Insomma, si parte da qui. I questionari, divisi per colore cercano di chiedere a tutti il loro parere sul processo sinodale. Ci sono anche indicazioni per il discernimento.

L’importanza della preghiera. Presentando l’instrumentum laboris, padre Giacomo Costa, consultore della Segreteria General del Sinodo, ci tiene a sottolineare che nelle conversazioni è venuta fuori la necessità di utilizzare il metodo della “conversazione spirituale“, che permette di comprendere le tensioni e le differenze senza polarizzarsi – un metodo “assolutamente non atteso“.

www.diocesiverona.it/media/pages/files/3e97925f07-1641814723/quaderno_sinodo-3-indicazione-e-metodo-per-la-facilitazione-degli-incontri-sinodali.pdf

Ma, soprattutto, ci tiene a sottolinea che il Sinodo abbia una dimensione spirituale, e dunque è importante che il Sinodo “si apra con una veglia ecumenica e con il ritiro guidato da

   padre Timothy Radcliffe (α1945) che tutto inizierà con “la celebrazione eucaristica iniziale il giorno di San Francesco e si conclude con una celebrazione eucaristica”, e i lavori sinodali saranno inframezzati da “maggiori momenti di preghiera”.

                Le consultazioni, afferma il Cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, hanno mostrato che “laddove i vescovi hanno accompagnato il processo sinodale sono venute fuori riflessioni più profonde”, e lamentato che considera “un insulto” sentire che il popolo non è capace di profondità.

Il Cardinale Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo, ha invece messo in luce l’instrumentum laboris non è un documento che, dopo diversi emendamenti ai partecipanti del Sinodo, dovrebbe portare ad una versione finale da votare alla fine del Sinodo”, né un “tentativo di risposta a tutte le domande sulla sinodalità”, ma è piuttosto “il risultato di un processo sinodale a tutti i livelli, che porta a molte domandi alle quali potranno rispondere i partecipanti del Sinodo”.

I rischi. Insomma, si va al sinodo con questo documento, e da lì scaturirà tutto. Di certo, il Papa non dà mostra di volere cambiare le cose. Resta, però, la possibilità di gesti che, nella loro vaghezza, possono essere considerati ambivalenti, e dunque utilizzati per cercare di portare qualche forma di cambiamento nella Chiesa. Il problema non sarà realmente il Sinodo, quanto come gestire i gruppi di discussione, come quelli, fortissimi, che si legano al Cammino Sinodale Tedesco e che puntano persino ad un cambiamento dottrinale. Non sarà facile. 

Andrea Gagliarducci      Città del Vaticano ACI Stampa   20 giugno 2023

www.acistampa.com/story/sinodo-2023-il-documento-di-lavoro-segna-lavvio-di-un-nuovo-processo

Matrimonio dei preti donne diacono e gay. Il Sinodo prepara il futuro della Chiesa

Si preannuncia un autunno caldo in Vaticano. Dal 4 al 29 ottobre un’assemblea sinodale con 370 partecipanti da tutto il mondo discuterà sul presente e sul futuro della Chiesa. Se il titolo è generico — “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione” — i temi sul tappeto, esemplificati nell’“instrumentum laboris”, il documento-base presentato ieri in Vaticano, contrappongono da tempo progressisti e conservatori: la possibilità di introdurre il diaconato per le donne, l’ipotesi dei “preti sposati”, la prospettiva di benedire le coppie gay.

Oltre ai “padri sinodali”, ossia vescovi, teologi e religiosi che sinora hanno fatto parte del sinodo, per la prima volta, per decisione di Francesco, saranno membri a pieno titolo anche le “madri sinodali”, una quarantina di donne con diritto di voto.

Gli uomini del Papa spargono cautela a piene mani. Le questioni sono quelle emerse nel corso delle assemblee che si sono svolte nei diversi continenti da quando Jorge Mario Bergoglio, a ottobre del 2021, aprì questo sinodo globale. Sono poste sotto forma di “domande”, e non di “asserzioni o prese di posizione”. L’agenda, insomma, non è chiusa, le conclusioni, che si delineeranno in una seconda assemblea a ottobre del 2024, sono di là da venire. «Non è un sinodo sulla sessualità, ma sulla sinodalità», ripetono in Vaticano.

Ma i temi che incrociano la sessualità e i ruoli di potere si impongono. “Tutte le Assemblee continentali chiedono di affrontare la questione della partecipazione delle donne al governo, ai processi decisionali, alla missione e ai ministeri a tutti i livelli della Chiesa”, afferma il documento, che stigmatizza la “discriminazione ed esclusione” di cui le donne sono vittime. Se il sacerdozio femminile è stato escluso già da Giovanni Paolo II,  emerge la proposta di “considerare nuovamente la questione dell’accesso delle donne al Diaconato. È possibile prevederlo — è la domanda — e in che modo?”. Il documento sviscera il nodo dei “ministeri”, registra “la richiesta di superare una visione che riserva ai soli Ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) ogni funzione attiva nella Chiesa, riducendo la partecipazione dei battezzati a una collaborazione subordinata” e arriva a ipotizzare, sempre a mo’ di domanda, di “aprire una riflessione sulla possibilità di rivedere, almeno in alcune aree, la disciplina sull’accesso al Presbiterato di uomini sposati”.

Vi è poi l’evergreen delle coppie gay: il Vaticano ha vietato la benedizione, in diverse chiese europee è prassi. Il sinodo domanda quali “passi concreti” si possano fare per chi si sente escluso dalla Chiesa, “divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+”.

Tutte ipotesi che piacciono ai progressisti, allarmano i conservatori. Gli episcopati degli Stati Uniti, della Polonia e di altri paesi dell’Europa orientale, di numerosi paesi africani sono pronti a fare le barricate, con il benestare di un pezzo di Curia romana. I cattolici della Germania e di molti altri paesi europei, nonché quelli dell’America latina, spingono invece per passi arditi.

La strategia di Bergoglio è sempre stata quella di far avanzare la Chiesa ma senza spaccare. Teme la «polarizzazione », ripete che il sinodo «non è un Parlamento». L’assemblea, ha detto più volte, deve essere guidata dallo Spirito, e dalla convinzione che sia possibile mantenere «l’unità nella diversità».

Ma ritiene che la Chiesa non possa vivere fuori dalla storia, né deve avere paura delle tensioni. E così proposte che in altri sinodi, durante il pontificato, erano state bocciate o accantonate, ora tornano sul tappeto. Trovare nuove sintesi, afferma il documento, permette che la Chiesa “rimanga viva e vitale”: nel caso alternativo chissà.

Francesco vuole far maturare il consenso più ampio possibile. È la logica del Concilio vaticano II, l’assise che dal 1962 al 1965 ha sancito l’aggiornamento della Chiesa a valle di discussioni che hanno evitato scissioni, tranne quella di estrema destra dei lefebvriani. Un’esigenza più viva che mai, ora che, nota il documento-base, la Chiesa vive una epocale “crisi degli abusi: sessuali, di potere e di coscienza, economici e istituzionali”. Ed è pertanto chiamata alla “conversione e alla riforma”.

   Iacopo Scaramuzzi (1976)           “la Repubblica”              21 giugno 2023

www.repubblica.it/cronaca/2023/06/20/news/sinodo_chiesa_gay_donne_diacono_matrimonio_preti-405181410

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230621scaramuzzi.pdf

SINODO. TEMATICHE

Il teologo Mancuso: «Donne e omosessuali? La Chiesa faccia le riforme.

È questione di giustizia». Il primo a mettere le mani avanti è lo stesso segretario generale del Sinodo dei vescovi, il cardinale Mario Grech. «Non è detto che ad ottobre 2023 e 2024 dovremmo trovare tutte le risposte ste. Però prendiamo atto che ci sono delle domande. E non è poco, considerando che per la prima volta tutte le questioni più delicate nella Chiesa – dall’ordinazione presbiterale di uomini sposati, al diaconato femminile, passando per la piena accoglienza di gay e divorziati – finiscono nero su bianco nel documento di lavoro di un Sinodo, l’appuntamento più immediato per un confronto ecclesiale ad ogni livello. Per l’esattezza rientrano nell’Instrumentum laboris dell’assise indetta da papa Francesco in due sessioni – dal 4 al 29 ottobre e dodici mesi più tardi – dedicata alla sinodalità, la via del camminare insieme».

                «Gay, diaconato femminile e clero uxorato sono il minimo sindacale per la Chiesa di oggi -non ha dubbi il teologo Vito Mancuso, scuola martiniana e autore del bestseller “L’anima e il suo destino” -. Sono riforme da approvare m tempi rapidi per una questione di giustizia davanti a Dio e di dignità degli uomini e delle donne qualsiasi sia la loro condizione».

Senza questi cambiamenti la Chiesa è destinata a scomparire?

«Siamo onesti, tali modifiche non porterebbero più fedeli a messa. Nel mondo protestante, dove tutto ciò è realtà, la situazione è anche peggiore del contesto cattolico quanto a partecipazione ai sacramenti».

Ha ragione allora chi sostiene che i dossier più spinosi dovrebbero essere tenuti fuori dal Sinodo?

«Assolutamente no, sono temi da affrontare in maniera alta e consapevole. Partendo dal primo aspetto, pur considerando i rischi di scisma davanti all’ipotesi del sacerdozio per le donne. Va fatto un passo avanti rispetto al diaconato femminile. Non bisogna avere paura di varare, giustificandolo a livello teologico, l’accesso al cardinalato per entrambi i sessi: non si deve essere necessariamente diaconi, preti o vescovi per ricevere la porpora».

E quando accenna alla consapevolezza a cosa si riferisce?

«Al fatto che oggi viviamo una fase di decrescita del cristianesimo. Dobbiamo accettare, senza nostalgismi, l’idea che i fasti della Chiesa di Pio XII siano ormai consegnati alla storia.»

La sfida è recuperare l’essenziale del cristianesimo, l’annuncio del massaggio evangelico di salvezza?

«Sì ed è curioso il fatto che oggi sia la società a dettare i temi, dai gay ai divorziati risposati, a una Chiesa che per secoli si è imposta e ha imposto agli altri le sfide all’ordine del giorno. Anche questo è un segno dei tempi.».

II Sinodo sulla sinodalità, definita da papa Francesco come ‘il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa nel terzo millennio, può essere ben altro che un mero gioco di parole?

«Ragionare sul metodo con cui ci si vuole organizzare e s’intende oggi il Vangelo è I’occasione propizia per ripensare, senza omettere la disamina dei dossier caldi, la struttura ecclesiale e il rapporto di ciascuno di noi con Dio, il dolore, la morte e il destino dell’anima».

I protagonisti della Chiesa di oggi sono all’altezza di un compito così profondo?

«Non lo so e non sta a me dirlo. Mi limito solo a constatare che purtroppo non abbiamo nessuna enciclica recente sul senso della preghiera»

La polarizzazione tra progressisti e conservatori rischia di far naufragare la barca di Pietro nel mare delle riforme?

«È un ostacolo, certo ma, come sempre accade nella Chiesa cattolica, tutto dipenderà dal Papa».

Francesco deve essere meno politico e diplomatico?

«Finora è stato assai profetico, ma ha anche avuto paura di rompere l’unità della Chiesa. Il successo del Sinodo dipende dalla sua volontà di approvare le riforme. Dovrà essere capace di parlare al cuore dei vescovi polacchi e americani. Far loro capire che dare il via libera al diaconato femminile non significa essere progressisti o cedere alla postmodernità, ma sostanziare quel ‘genio femminile’ di cui parlò Karol Wojtyla. Altrimenti certe espressioni finiscono per essere una presa in giro».

intervista a Vito Mancuso a cura di Giovanni Panettiere                QN”     23 giugno 2023

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230623mancusopanettiere.pdf

Il Sinodo e il diaconato femminile: la autorità del Signore e la padronanza di sé del ministro

Nell’Instrumentum Laboris ↑↑↑↑↑del prossimo Sinodo sulla “sinodalità”, al punto B 2.3, che reca il titolo “Come può la Chiesa del nostro tempo compiere meglio la propria missione attraverso un maggiore riconoscimento e promozione della dignità battesimale delle donne?” si legge la questione n. 4 così formulata:

“La maggior parte delle Assemblee continentali e le sintesi di numerose Conferenze Episcopali chiedono di considerare nuovamente la questione dell’accesso delle donne al Diaconato. È possibile prevederlo e in che modo?

Nel grande cantiere del prossimo duplice Sinodo, questa domanda solleva un preciso compito anche per la teologia: quello di corrispondere ad una richiesta, che viene “dalla maggior parte delle Assemblee continentali” e che chiede “l’accesso delle donne al Diaconato”. Come prevedere e rendere praticabile questo “accesso” richiede alla teologia e ai teologi il coraggio di uno specifico lavoro. Che è già iniziato da tempo e che è accelerato a partire dal 2016, al momento della costituzione della prima Commissione vaticana sul diaconato femminile. Come è noto la questione della “ordinazione della donna” è diventata problematica da non molto tempo. E la esclusione della donna dal ministero ecclesiale ha goduto di una evidenza che era garantita dalla parallela esclusione da ogni ministero anche extra ecclesiale. La cultura comune era la grande apologeta della esclusione femminile.

Il testo che qui brevemente presento vuole contribuire a promuovere il dibattito sull’accesso della donna al ministero ordinato, di cui il diaconato è il grado minore.

Le argomentazioni fondamentali intorno a questo tema, a favore o contro, sono di tre tipi:

a) ci sono argomenti di autorità, che possono limitarsi ad escludere, senza bisogno di spiegare

perché.

b) ci sono argomenti fattuali o positivi, che possono invocare un testo, un atto o un fatto per scovare

in esso un principio.

c) ci sono argomenti di convenienza e principi sistematici, che elaborano una spiegazione della

esclusione o della inclusione in modo più complessivo.

Molto recente è la preoccupazione di riconoscere il problema della “ordinazione della donna” come un problema di carattere non disciplinare, ma dottrinale, ossia che implica, al suo interno, un atto decisivo per la fede. Se però  esaminiamo la tradizione, possiamo costatare che fino al XX secolo l’argomentazione ecclesiale, sul tema della ordinazione della donna, restava all’interno di una comprensione “minorata” della dignità femminile sul piano pubblico. La grande teologia medievale affronta il tema dentro una logica in cui è centrale questo argomento: per essere “ministri di Cristo” bisogna essere simili al Signore, nel senso che bisogna es sere “padroni di sé”. Non c’è somiglianza con il Signore, e quindi non si può rappresentarlo, se si è “disabili”, se si è “assassini”, se si è “figli naturali”, se si è “schiavi”, se si è “incapaci” o “minori”, ma soprattutto se si è “donne”. Questo è l’elenco che si trova in S. Tommaso d’Aquino, che lo presenta capovolto. Che cosa accomuna tutti questi impedimenti? La mancanza di quell’elemento di “somiglianza naturale col Signore” che non è la anatomia, ma l’autorità, intesa come padronanza di sé. Tutte queste categorie di persone sono incapaci di ministero perché “dipendono dagli altri”. Non possono testimoniare la autorità perché ne sono privi. Soprattutto questo vale per la donna, che direi ontologicamente viene pensata come dipendente o dal padre o dal marito. Mentre gli altri “incapaci” sono dipendenti “per contingenza”, la donna viene vista come incapace “per natura”. La impossibilità strutturale di una “emancipazione femminile” nella società chiusa implica la esclusione che ad essa possa essere affidata una rappresentanza ecclesiale: non è difficile pensare che questo impedimento sia “per sempre”: perché la donna non ha “somiglianza naturale” con il Signore in quanto manca di autorità. Il cambiamento del profilo culturale della donna, della sua autocoscienza e della sua presenza pubblica, della sua “padronanza di sé”, non è un fatto esterno alla tradizione della Chiesa, tanto meno è un peccato del mondo moderno.

Nel momento in cui, tra il 1963 e il 1965, con Pacem in terris e con Dignitatis Humanæ, la donna viene riconosciuta “senza complessi di inferiorità” e “con dignità” all’interno della vita pubblica e il soggetto, maschile e femminile, viene letto come originariamente custode della libertà di coscienza, la antica argomentazione sulla “minorità femminile”, che resiste fino ad oggi nelle forme più camuffate, diventa del tutto inservibile, addirittura controproducente, almeno sul piano discorsivo.

Le argomentazioni con cui si prova a sostituire la posizione sistematica classica o esasperano le logiche di autorità (senza teologia) o esasperano i precedenti di fatto (ma che valgono solo in un mondo diverso dal nostro). L’accesso della donna al grado del diaconato del ministero ordinato è reso possibile dal venir meno dell’impedimento del sesso femminile. La vera questione, che chiede un pensiero sistematico nuovo, e che non ha bisogno di commutare la minorità pubblica in “principio mariano”, può concepire l’accesso della donna al diaconato senza contraddizione con la dottrina sana, superando invece quelle forme di pretesa dottrinale che non sono altro che pregiudizi riverniciati con citazioni bibliche forzate o con tradizioni ecclesiali non più adeguate.

Una volta, in Brasile, all’inizio di un Convegno liturgico, mi è capitato di assistere ad una scena esemplare: una grande assemblea si disponeva a celebrare il Vespro, con la presenza di alcuni vescovi, ma con la presidenza di una donna, docente di liturgia in un Istituto teologico. La donna, da qualche decennio, può “presiedere”. Questo è un punto di non ritorno, culturale ed anche ecclesiale. O la Chiesa lo assimila e lo valorizza, o lavora non per la tradizione, ma contro sé stessa.

   Il volume, la cui copertina ho riportato nella foto e che uscirà tra circa una settimana, cerca di essere un contributo ad un ripensamento aggiornato e pacato della logica dell’”impedimento” e delle ragioni del suo superamento. Se l’impedimento è teologicamente superato, l’accesso al ministero ordinato è possibile. La esclusiva del sesso maschile non è “sostanza del sacramento dell’ordine” ma pregiudizio secolare fondato su una cultura particolare, confusa e identificata col vangelo. La somiglianza a Cristo non dipende dalla anatomia, ma dalla autorità. Aver scoperto, ufficialmente dopo Pacem in terris, che le donne sono dotate di autorità anche in pubblico ha modificato, in pochi anni, il rito del matrimonio, il diritto matrimoniale canonico oltre che il diritto civile. In qualche decennio, questo stesso “segno dei tempi” modificherà i riti di ordinazione, come ha già fatto per i ministeri istituiti. Un passaggio delicato sarà quello sinodale. Per impedire questo sviluppo non vale riferirsi né ai discorsi vietati sul sacerdozio, che non toccano il diaconato. Né ai discorsi sui reati, che mutano con il mutare del diritto positivo. Ovviamente in tutto questo una competenza giuridica “de iure condendo” sarà decisiva e anche profetica, se lo si vorrà. Perché alle donne sia riconosciuta non solo una dignità battesimale, ma anche una dignità ministeriale, non trovo impedimento alcuno.

Andrea Grillo    “Come se non” 24 giugno 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/diaconato-femminile-e-sinodo-questione-di-autorita-o-di-anatomia

La Chiesa sinodale non ha bisogno degli sposi?

Martedì 20 giugno è stato pubblicato il Documento di lavoro – l’Instrumentum Laboris – del prossimo Sinodo sulla “sinodalità”. Ho fatto un rapido scroll del testo. E ne ho tratto alcune prime impressioni che riporto come tali, non ancora ragionate.

Registro con soddisfazione, tra le cose positive, la codificazione del cosiddetto metodo della “conversazione spirituale”. Un’ottima risposta al chiacchiericcio di cui parla spesso il Papa e una indicazione pastorale da custodire per ovviare alla poca attenzione che in tante situazioni ecclesiali si dà a un vero ascolto, non superficiale e protetto.

Annoto però anche la sparizione dalla Chiesa sinodale – almeno su carta – del matrimonio e degli sposi. Laddove si parla di Chiesa missionaria “tutta ministeriale” e di corresponsabilità, suona strano. Una “Chiesa-famiglia” (bene), senza famiglia?

La parola “matrimonio” viene usata una sola volta, per riferirsi al matrimonio poligamico. La parola “sposi” mai.

La parola “famiglia” (o “famiglie”) è usata ancora prevalentemente come “oggetto” di attenzione nel testo principale,  salvo un richiamo in forma di domanda di cui farò cenno tra poche righe nelle schede di lavoro, ove negli altri casi si usano le due espressioni con riferimento alla “famiglia umana” e alla “chiesa come famiglia”.

La parola “coppia”, in realtà al plurale, è usata in poche ricorrenze anche essa solo nelle schede di lavoro, tra i possibili spunti di preghiera e riflessione. In particolare,

  1. in un caso rispetto al ruolo ecumenico delle coppie “interconfessionali” (interessante).
  2. Nel secondo, riappare nella nuova riformulazione di un mantra che procede sin dalla fine del Concilio, senza per ora avermi pacificato granché: «Le sintesi delle Conferenze Episcopali e le Assemblee continentali chiedono con forza una “opzione preferenziale” per i giovani e per le famiglie, che li riconosca come soggetti e non oggetti della pastorale».

Non credo che la riduzione ai minimi termini del matrimonio e del ruolo ecclesiale degli sposi sia dovuta alla volontà di non confliggere con la nuova e benvenuta sensibilità verso le persone LGBTQ+.

Penso proprio che sia una negazione costante, nella storia e nella vita della Chiesa. Una difficoltà, un fastidio imbarazzato forse, a riconoscere al matrimonio la dignità ecclesiologica che merita. Spero che qualcuno porti questa osservazione nel Sinodo.

Personalmente sono rimasto a questa “visione” di 10 anni fa, quella di una Chiesa che “sa far casa”… Sono come l’ultimo giapponese nella giungla?

Simone Sereni                  “Vino nuovo”   22 giugno 2023

Una replica a “La Chiesa sinodale non ha bisogno degli sposi?”

È triste dirlo ma il documento di lavoro partorito sembra la cacofonia della Torre di Babele. 27.000 parole, tra cui mancano le parole più significative della fede cristiana mentre abbondano parole astratte e sociologismi d’accatto, nessuna priorità di valori per cui certo la famiglia compare pochissimo e alla rinfusa con altre realta. Certo se si vuole solo “ascoltare” senza alcun criterio, si ascolterà un bailamme di voci ,nessuna armonia, nessuno scopo se non autoreferenziale, la sinodalità che riflette sinodalmente su sé stessa sinodale ,in un gioco di specchi che non porta da nessuna parte. Un incubo.                                                          Piero Del Bono

www.vinonuovo.it/teologia/pensare-la-fede/la-chiesa-sinodale-non-ha-bisogno-degli-sposi

SOCIOLOGIA

L’incontrastato declino delle verità cristiane

Le indagini sociologiche che affrontano la percezione che oggi si ha di alcune verità cristiane riguardanti il contenuto della fede (la cosiddetta fides quæ creditur) – cfr. tra i contributi più recenti quello di Franco Garelli,Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio”, Il Mulino, Bologna 2020 – mettono in evidenza la loro perdita di significato o addirittura la loro cancellazione anche nella coscienza di molti praticanti. Verità come l’Unità-Trinità di Dio, la nascita verginale di Gesù, la transustanziazione, l’Immacolata Concezione, l’infallibilità papale, l’Ascensione di Maria al cielo, l’escatologia (e l’enumerazione potrebbe continuare), anche laddove permangono nell’immaginario dei credenti sembrano non avere alcun riscontro e alcuna incidenza sul vissuto quotidiano così da poter essere tranquillamente accantonate.

Le ragioni di questo declino sono molte, e vanno ricercate nello scarso livello di cultura religiosa assai diffuso nel nostro Paese e nell’incapacità della Chiesa (del magistero in particolare) di rendere attuale il messaggio evangelico con un linguaggio capace di interpretare in modo adeguato le istanze proprie della modernità e della postmodernità. Nel primo caso – quello dello scarso livello di cultura religiosa – a generare questa situazione, è, da un lato, l’irrilevanza del fenomeno religioso, il predominio della cultura scientifico-tecnologica, che ha sostituito il linguaggio simbolico, che è il linguaggio proprio dell’esperienza religiosa, con quello fisico-matematico; e, dall’altro, il ripiegarsi della Chiesa su sé stessa, facendo del messaggio cristiano una sua proprietà esclusiva, e non favorendo, di conseguenza, il suo inserimento nelle istituzioni culturali della società, per paura che venga alienato. Emblematica è, al riguardo, la riforma dell’Insegnamento della religione cattolica, attuata dopo l’ultimo Concordato, con una formula ambigua tra cultura e catechesi e con la sola preoccupazione di poter gestire come chiesa nella scuola statale la nomina e il controllo degli insegnanti (una pretesa assurda e miope, che ha condotto e condurrà sempre più in futuro alla diserzione).

Sul secondo versante – quello dell’incapacità del magistero di proporre in mondo attuale e coinvolgente le verità cui si fa qui riferimento – è indubbio l’arroccamento della Chiesa su formule tradizionali, legate alla cultura del tempo in cui sono nate e che vanno invece oggi tradotte, per essere comprese, in un linguaggio nuovo, che faccia proprie, sia pure criticamente, le categorie interpretative della modernità e della postmodernità. Tale trasferimento – come è risaputo – non è facile: il linguaggio non è un semplice involucro separabile dal contenuto della verità che intende trasmettere; è parte integrante di essa – linguaggio e contenuto interagiscono tra loro in maniera costante e inscindibile –; ma questo non impedisce che sussista la possibilità di operare una certa distinzione e di attivare un processo di risignificazione; cosa, del resto, in certa misura, sempre messa in atto. Basti pensare che il passaggio dalla Patristica dei primi secoli alla Scolastica medioevale ha segnato l’abbandono delle categorie platoniche, in cui le verità cristiane venivano formulate, e l’adozione – grazie soprattutto a Tommaso d’Aquino – di quelle aristoteliche, con due visioni del mondo tra loro assai diverse.

La gerarchia delle verità. Ma, tornando più direttamente alla questione iniziale riguardante alcune (tra le molte) verità che appartengono al patrimonio della tradizione cristiana, è anzitutto importante sottolineare – lo ha messo chiaramente in evidenza la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II, la “Lumen gentium” – che non tutte le verità del cristianesimo hanno lo stesso valore; in termini più appropriati, che le verità cristiane presentano una varietà di “note teologiche” con un diverso grado di rilevanza e che si dà pertanto, una “gerarchia delle verità” che va rispettata, se si intende avere una visione organica del mistero cristiano che consenta di coglierne l’armonica e articolata ricchezza.

A questo si deve aggiungere – e non è cosa di poco conto – che è giustamente venuto affermandosi, anche a seguito della riforma conciliare, l’impegno a una essenzializzazione del cristianesimo, essenzializzazione che si è tradotta in una forma di “concentrazione cristologica” che fa dell’evento-persona di Gesù di Nazaret il perno attorno a cui far ruotare le altre verità secondo un processo a cerchi concentrici, la cui rilevanza è proporzionale alla maggiore o minore vicinanza rispetto al nucleo centrale.

Questi due fondamentali criteri vanno applicati anche alla rassegna delle verità elencate. Molto diversa è, in primo luogo, l’importanza della verità dell’Unità-Trinità di Dio rispetto a quella della “transustanziazione”. Nel primo caso, si tratta del nucleo portante del mistero cristiano – in questo non si può dar torto al catechismo di San Pio X che definisce l’Unità e Trinità di Dio e l’incarnazione, passione morte e risurrezione di Gesù Cristo come il centro della fede –; nel secondo caso, si tratta di una categoria teologica utilizzata per esprimere il mistero dell’eucaristia; categoria che ha le sue radici in una concezione filosofica medioevale divenuta oggi desueta, e che va allora sostituita con altre – nel dibattito teologico postconciliare è emersa come categoria sostitutiva “transignificazione” (per alcuni teologi “transfinalizzazione”) – la quale meglio corrisponde all’odierna riproposizione della realtà del mistero.

Analogamente, una radicale reinterpretazione esigono le verità della nascita verginale da Gesù e dell’escatologia. La prima, che appartiene al patrimonio della più antica tradizione cristiana e che si è costantemente conservata nel tempo, è stata – purtroppo – fatta oggetto di letture fisiciste e materialiste che vengono giustamente respinte dalla sensibilità dell’uomo di oggi. La seconda serie di verità – quelle relative all’escatologia – ha generato raffigurazioni folkloristiche, che hanno trovato espressione anche nell’arte pittorica: si pensi in particolare alle rappresentazioni dell’inferno (fiamme, diavoli con forconi, ecc.) divenute ai nostri giorni grottesche e improponibili.

Una considerazione a parte meritano i dogmi mariani (Immacolata Concezione e Assunzione di Maria al cielo), la cui proclamazione è avvenuta a seguito della definizione, da parte del Concilio Vaticano I, dell’infallibilità papale fortemente voluta da papa Pio IX. Le condizioni poste per esercitare tale infallibilità sono restrittive – si pensi al concetto di ex cathedra –: il che non ha mancato tuttavia di introdurre una sorta di esteso infallibilismo – ce lo ha ricordato Hans Küng – che ha finito per conferire al papa il potere di un monarca assoluto, separandolo tanto dal collegio dei vescovi quanto dal sensus fidei dell’intera comunità cristiana. I due dogmi che peraltro – va detto – affondano le radici in una lunga tradizione cristiana, vanno letti anche come l’assegnazione di un potere dottrinale destinato a ridare prestigio al papato, dopo che gli era stato (giustamente) tolto il potere temporale.

Una conclusione aperta. La possibilità di uscire da questa distretta per restituire duttilità alla proposta cristiana, restituendole credibilità e rendendone possibile la trasmissibilità anche agli uomini di oggi è legata alla messa in atto di un costante processo reinterpretativo, che la renda esistenzialmente assimilabile.

Questo comporta una rilettura anche del patrimonio dogmatico; le verità in esso contenute, lungi dal dover essere conservate in termini mummificati, aderendo alla formulazione linguistica che ha preso corpo in un preciso momento storico con riferimento perciò alle categorie filosofiche e culturali di quel momento, vanno assunte come il punto di arrivo di un cammino e, nello stesso tempo, come l’avvio di ulteriori approfondimenti. Questo significa che la verità cristiana è dunque permanentemente in fieri – è questo il significato del concetto di “evoluzione dei dogmi” – la quale, senza venir meno al nucleo portante, va soggetta a continue reinterpretazioni che la rendono significativa nel tempo.

In questo modo (e solo in questo) è possibile che le verità cristiane sulle quali ci si soffermati (e le molte altre) ritrovino una credibilità e un consenso, che va oltre un’astratta adesione teorica, per coinvolgere la vita quotidiana in tutta la ricca gamma delle sue espressioni.

   Giannino Piana (α1939)        Adista Documenti n° 22               24 giugno 2023

www.adista.it/articolo/70177

TEOLOGIA

La tragedia dell’uomo democratico. La teologia sapienziale alla prova della modernità

p. Elmar Salmann, (α 1948)  monaco benedettino tedesco dell’abbazia di Gerleve in Westfalia, è un’icona vivente della teologia sapienziale. Al suo insegnamento di circa trent’anni all’Anselmianum e alla Gregoriana si sono formati decine di giovani teologi che nei loro scritti sono immediatamente riconoscibili per le tracce derivanti dal suo pensiero. Un pensiero, sì sapienziale, ma che si sostanzia anche di originalità, creatività, ironia, e un appassionato gusto del paradosso. Ingredienti che hanno fatto di padre Salmann una delle voci più autorevoli della teologia contemporanea.  

Il 16 maggio scorso molti dei suoi ex allievi si sono ritrovati nell’aula capitolare dell’Ateneo di Sant’Anselmo per celebrare, in un evento organizzato dal rettore Bernhard Eckerstorfer osb, il 75° genetliaco di padre Salmann, con i contributi dell’abate primate benedettino Gregory Polan, di monsignor Armando Matteo, segretario al Dicastero per la Dottrina della Fede, e della teologa Isabella Bruckner, docente a Sant’Anselmo e premio Rahner 2022.

A margine di questo incontro il padre Salmann ha accettato di dialogare a tutto campo con «L’Osservatore Romano». Ciò che negli anni ha reso padre Salmann particolarmente apprezzato nel mondo accademico e teologico, insieme alla profondità  e originalità delle sue riflessioni, è senz’altro il colore, insieme arguto elaborato ed ironico, del suo linguaggio, che non ha mancato di usare anche in questo dialogo.

Padre Salmann, è ormai già qualche anno che lei si è ritirato dall’insegnamento, e rientrato nel suo monastero, centellina le occasioni pubbliche. Per questo siamo curiosi di interpellarla su tre questioni in qualche modo fondamentali: come sta il mondo, come sta la Chiesa e… come sta lei?

Il teologo sorride, di cuore, e chiede: «…e in che ordine cominciamo?». 

Cominciamo dal mondo; un mondo che sta cambiando con una velocità inusitata e in profondità.   Soprattutto ci interroghiamo su quello che ci sembra il cambiamento più importante, ben oltre la globalizzazione o la digitalizzazione, cioè il cambiamento antropologico. In una recente intervista al nostro giornale il cardinale Hollerich ha detto «Ho paura che la nostra pastorale parli ad un uomo e una donna che non esistono più».

Sono molto d’accordo con questa affermazione. Le dirò di più: siamo confinati in un’insignificanza totale nel mondo occidentale attuale. Ovviamente il mio è un punto di osservazione molto parziale, però mi sforzo di accompagnare e comprendere le vicissitudini dei tempi che viviamo, della profonda mutazione della società e direi della “stoffa” umana. Vorrei essere preciso su questo punto: non ho la pretesa di avere ragione, ma di offrire prospettive, di allargare il raggio delle nostre intuizioni. Vado un po’ indietro, all’inizio della contraddittorietà dei tempi correnti.  Come per un vostro regista famoso, mi torna il ricordo di me giovinetto al tempo dell’invasione russa dell’Ungheria e lo stato inerme dell’occidente in quell’occasione storica. E più tardi nel ’68 quell’altra contraddizione storica: i giovani cechi che a mani nude fronteggiavano nelle vie di Praga i carri armati sovietici, e dall’altro lato i giovani occidentali che, all’opposto, nelle università europee inneggiavano a Mao Dse Dong. Contraddizioni che a volte convergevano nell’ispirazione e nello stile. La diversità e l’impatto (mancante?) di mondi incompatibili che non si guardano: questo mi ha sempre attirato e spaventato.  Così una costellazione del tutto asimmetrica agli albori del mio soggiorno romano: vidi sfilare una madornale manifestazione sindacale, un milione di persone in piazza San Giovanni contro l’abolizione della scala mobile. Rimasi molto turbato, scosso, dalla passione estrema che i manifestanti mostravano nel difendere un istituto che già solo il buon senso chiedeva di modificare. Non mi ero ancora ripreso dal turbamento che mi ritrovai nel pomeriggio in un modo del tutto diverso nei pressi del Vaticano. E anche lì fui investito da una folla vociante — senz’altro più piccola e moderata— con la medesima intensità. L’occasione era la dedicazione del mondo alla Madonna di Fatima. La coesistenza di questi due mondi nel medesimo giorno e nella medesima città mi fece riflettere. Da fenomenologo mi sentivo da questi eventi suscitato, spesso spaventato, a volte animato, sempre sfidato.  Con lo stesso approccio incuriosito ho accompagnato la grande stagione del concilio Vaticano II . Con uno sguardo disincantato, perché da giovane non appartenevo tanto all’ambiente ecclesiale, non ho mai fatto il chierichetto o il catechista, decisi di studiare la teologia solo alla fine del liceo. E ad esser sinceri credo che in tale scelta più che la mia volontà abbia giocato uno di quei moti estemporanei e paradossali che spesso usa lo Spirito Santo: fu l’idea della Trinità ad attrarmi. La stessa Chiesa non mancava di evolversi in un’apparente distonia di immagini: dalla figura austera e ieratica, che sembrava uscita da un libro di Thomas Mann, di Pio XII   a quella del contadino bonario e grassottello di Roncalli (così ricordo il giorno della sua elezione davanti alla televisione, in osteria).

Ogni Papa è un unicum, con un proprio stile. E questa è senz’altro una ricchezza. In fondo è una storia che si è ripetuta anche 10 anni fa.

Esattamente. È proprio così. Questi cambi di passo sono piuttosto salutari. Lo dico anche dal punto di vista della mia esperienza di monaco. Un convento saggio elegge sempre un abate che abbia caratteristiche opposte al suo predecessore. Perché il cambiamento è sempre positivo e non bisogna averne paura. Ma torniamo alla domanda iniziale. Cos’è che è peculiare dei tempi attuali alla luce di tutti questi cambiamenti che abbiamo vissuto negli ultimi 60 anni? Mi sembra che siamo giunti ad un capolinea, ad una soglia, ad un limite dello stile di vita che l’uomo ha assunto negli ultimi decenni. È lo stile di quello che io definisco l’“uomo democratico”, che non è una mera forma politica, ma l’indole intrinseca allo stile dell’uomo contemporaneo. L’uomo democratico è colui che democratizza tutto, che, rappresentando una costellazione di minoranze e relativi diritti, finisce all’opposto con il minare le basi della democrazia, come forma organizzata del vivere civile. Così ad esempio i partiti si (con)fondono nei movimenti, come insegnano le esperienze in Italia di Berlusconi o dei Cinque Stelle, in Francia di Macron e En Marche, Podemos in Spagna, e i Grünen o l’estrema destra da noi in Germania. L’altra faccia di questa fluidità organizzativa è l’emersione degli “uomini forti”: Trump, Erdogan, Morawiecki, Orban, Xi Ping,  solo per citarne alcuni. Cioè l’uomo democratico al tempo stesso porta a compimento, ma anche consuma e distrugge l’assetto democratico. Negli anni ’90 del secolo scorso si credeva che la democrazia dei diritti fosse la carta vincente in politica, ma questa idea ha soltanto generato una cultura improntata al manicheismo, che ha danneggiato la democrazia. E non solo essa, perché questo manicheismo sorto tra i partiti e nei partiti, si è poi esteso alla cultura e alla società provocando quella polarizzazione globale che è la vera cifra dei nostri tempi. Un manicheismo, e una polarizzazione, che ha contagiato anche i vescovi e la Chiesa. Non è un caso che la tendenza al totalitarismo pervada gran parte del mondo, indifferentemente dalle diverse condizioni storiche e sociali.  Mi sorprende — e mi conferma — il caso di Israele, che è paradigmatico di questo fenomeno:  l’unica democrazia del Medio Oriente, che eppure rischia l’implosione dinanzi alle spinte congiunte della polarizzazione e dell’autoritarismo.  Siamo di fronte ad un fenomeno planetario, che come tale dovrebbe interpellarci seriamente. E chiederci come l’uomo democratico possa invertire la prospettiva e ricostruire una forma istituzionale basata sulla rappresentatività.

La stessa dicotomia la attraversa la religione: siamo agnostici e spirituali. I due pericoli  da cui continuamente ci mette in guardia Papa Francesco: neo pelagianesimo e neo gnosticismo. Per cui la religiosità comune ondeggia dal sincretismo orientaleggiante al rigorismo fanatico, e via dicendo attraverso un campionario spirituale da supermarket.  E anche qui la domanda è come l’uomo, agnostico o spiritualizzante, possa ritrovare una formattazione istituzionale perché la religione possa esprimersi. Siamo oggi però ancora dentro la fase distruttiva; pensate alle perplessità ormai dominanti sulla forma ontologica, giuridica e misterica dei sacramenti. La prassi sacramentale sta per affondare. Ma cosa mettere al suo posto? Non lo sappiamo. Sono problemi seri per il mondo e per la Chiesa.  E sono problemi seri anche per il singolo individuo “uomo democratico”.  Pensate al culto della “grande salute”, al mito della longevità; siamo ancora figli a 70 anni, come descrive gustosamente nei suoi libri Armando Matteo. Siamo saturi e sfibrati così che la parola “redenzione” torni in mente solo un minuto prima di morire. C’è una diffusa disperazione dietro lo schermo, il velo, della perenne vitalità. Il mito della fitness e dell’eterna gioventù nascondono un’angoscia esistenziale, che si esprime, ad esempio, nel dibattito sull’eutanasia e sul fine vita. Abbiamo strapazzato la vita, e la vita ora si prende la sua vendetta. Il fatto è che il nostro moralismo ecclesiale non aiuta ad entrare nella carne ferita di questa angoscia. La stessa dinamica di pensiero vale per l’ecologia: abbiamo perso l’escatologia, e ora la recuperiamo nelle sembianze di una colpevole catastrofe. Vogliamo ovviare alla catastrofe con mezzi che non basteranno mai, e questo crea un misto di fanatismo e di rassegnazione sconsolata. E lo stesso vale per la giustizia: l’uomo democratico vuole rendere giustizia alla singolarità di ciascuno e all’uguaglianza di tutti. Ma nessuno può reggere a questa pretesa, a questo dogma del ’68, che era uno sposalizio tra liberalismo e socialismo, e ci ha messo alle strette nella sua contraddittorietà. E  ancora lo stesso vale per la sensibilità. Un termine che negli anni della mia gioventù suonava quasi come un’offesa. Mentre oggi è un imperativo essere sensibili alla sensibilità di ciascuno, di ogni minoranza e contro-minoranza. Sia chiaro, è una grande conquista dell’umanità, che discende da una nuova storiografia introdotta dalla scuola di Francoforte e dal trauma della Shoah. Ma il punto è che oggi ognuno si sente minoranza e vittima di qualcosa. Insomma hanno vinto le minoranze, così che non esistono più maggioranze: la democrazia si distrugge da sé per causa dell’uomo democratico, che vanta la rappresentatività di ciascuno ed odia la mediazione.

Se questa quindi è la sua visione del mondo attuale, passando alla seconda questione: come stanno oggi le religioni, come sta la Chiesa?

C’è un nesso immediato tra quanto ho detto finora e lo stato delle religioni. Se negli anni della mia gioventù la Chiesa istituzionale  in occidente rappresentava il paradigma, l’orizzonte della cultura e della politica — anche di chi gli si opponeva — sta oggi precipitando inesorabilmente verso un abisso. Eravamo alle vette dell’apprezzamento sociale, oggi siamo considerati di infima rilevanza, stiamo finendo nel dimenticatoio della vita quotidiana.

Papa Francesco questo lo ha evidenziato senza mezzi termini. La cristianità è finita. E forse questo è anche provvidenziale, perché ci offre un’opportunità di purificazione…

Esattamente. Il Papa ha ragione. Siamo condannati o forse beneficiati alla marginalità. Siamo alla ricerca di un’altra prassi.  Ma quale?  È facile a dirsi. Difficile individuarla. Forse impossibile. Se non allo Spirito. Come vivere una religione che ha la pretesa di essere veritiera e vera, accettando di essere inascoltati dalla maggioranza degli uomini e donne, senza diventare una denominazione settaria, piagnucolosa ed autocompiacente. E ancor più quale forma di rappresentatività istituzionale dovrebbe avere un nuovo modo di vivere e professarsi cristiani? Quale forma riconoscere alla liturgia e ai sacramenti, che deve essere sì umana, ma non solo umanistica.  E qui arriviamo al compimento oggettivo del Vaticano II . Perché il problema non è ormai attuare il Vaticano II , ma inventare una cosa nuova. Lo stile dei commenti e dell’ermeneutica al Vaticano II è uno stesso stile aperto alla vita, e al mondo. “Nostra ætate” ne è forse la novità più evidente. Il Concilio ha portato sicuramente ad una umanizzazione del messaggio, ad una spiritualizzazione in chiave lucana, viviamo l’era del terzo Vangelo, un passaggio drammatico e straordinario che ha percorso in parallelo alla mia vita. Ma questa umanizzazione non ci ha reso più umani, cioè, voglio dire, non ha dato un profilo al mistero. L’Eucarestia oggi è “pasto fraterno”, bene, ma che ne abbiamo fatto del Mistero, della presenza reale, dell’attualizzazione della passione di Gesù? Si è spinta la tensione alla comprensibilità del Mistero, fino a smarrirlo come tale. Così il cristiano umanizzato scalza l’impianto dei misteri e con essi il ruolo della chiesa. È un’azione parallela a quanto dicevo sopra sull’uomo democratico. Siamo passati dal Dio Padre che è onnipotente, al Gesù che è Signore e Re, poi al Logos che è l’approccio teologico alla verità della Bibbia, e poi al Cristo kenotico di von Balthasar, e il Dio Umano, e poi il Gesù scapigliato, profeta e rivoluzionario del ’68, poi ancora il Fratello che cammina con noi, come noi forse senza più un’aura divina… Tante immagini di Dio che seguono l’evoluzione dell’uomo democratico. Lo stesso vale per la Chiesa: dalla parrocchia, alla famiglia parrocchiale, poi alla comunità. Ma una parrocchia non è una comunità: cinquemila persone non fanno comunità. Così come un monastero benedettino non è una comunità, può avere momenti comunitari, auspicabili certo, ma io mi sono fatto monaco per seguire una regola di vita non per entrare in una comunità.

Questa sua ultima affermazione ci suscita un’ulteriore domanda: i cambiamenti epocali, come quello che stiamo vivendo, hanno sempre visto una presenza attiva dei monaci che facilitavano il transito al nuovo con la preservazione della ricchezza dell’antico.  Oggi questo non sembra più proponibile, il monachesimo istituzionale è anch’esso in profonda crisi.

Verissimo; il monachesimo istituzionale attraversa una crisi abissale, forse irreversibile. Questo processo di accompagnamento dall’antico al nuovo alcuni di noi, in modo umile e non appariscente, lo svolgono anche oggi. Penso per esempio a quei monasteri che svolgono un ruolo di dialogo col mondo protestante, o anche a me stesso nel mio piccolo lavoro di accompagnamento dei preti che hanno lasciato. Ma sicuramente, nel complesso, non siamo più le levatrici del nuovo.  Non perché ce ne manchino le forze, ma semplicemente perché non sappiamo cosa proporre. Anche le nuove forme di vita religiosa contemplativa e secolare sorte dopo il Concilio, mi sembra che non godano di vita migliore, anzi a tratti mi sembrano più anacronistiche di noi.

Insomma sembrerebbe che fu buon profeta suo padre, secondo il noto aneddoto per cui quando lo informò della sua decisione di farsi monaco cattolico, rispose, pur rispettando la sua scelta, «Elmar ti imbarchi su una nave che sta affondando», o no?

(ridendo) Sì, proprio così!  Ho un vivido ricordo di quell’episodio. Fu a Villa Celimontana nell’aprile del 1966. Io non risposi nulla a mio padre. Non per rispetto, ma perché sapevo già allora che aveva ragione. Ma al tempo stesso sentivo che dovevo prendere quella strada. Nulla me lo avrebbe impedito.  È la forza ineludibile dello Spirito Santo sulle nostre vite. Ogni volta che torno a Roma faccio una passeggiata a Villa Celimontana e mi siedo su quella panchina che c’è ancora, e immagino di parlare a mio padre dicendo «Sì, hai avuto perfettamente ragione… ma io ancora di più!».

Questa sua visione dell’uomo democratico che consuma la democrazia, e, in parallelo, del cristiano spiritualizzante e  umanizzato, fa tornare alla mente quel Umano, troppo umano di Friedrich Nietzsche. Troppo umanesimo disumanizza?

Sì, il rischio c’è. E aggiungo che andando al limite di questa umanizzazione non si salva né l’uomo né la classicità. Non si salva la democrazia, e non si salva il Mistero.

Aveva quindi ragione Heidegger che diceva che solo un Dio ci può salvare?

 Ma  Martin Heidegger (α1889-ω1976) non scordiamoci che era un ex chierichetto e figlio di un sagrestano! Scherzi a parte, aveva un fiuto infallibile, e si è conservato in tutta la sua enigmaticità. Aveva comunque un senso del sacro, ha creato una sua mitologia privata, in qualche modo ha precorso il movimento che qui ho descritto. Salta il cristianesimo in nome di una religione esistenzialista, ontologica, mitologica e qui, lungo il crinale dell’esistenzialismo, si apre una pista interessante che porta in Francia che, dal punto di vista religioso, ha già alle spalle molte delle vicissitudini che stiamo attraversando negli altri paesi europei; in qualche modo i francesi sono un laboratorio. E questo mi induce a pensare ad un altro problema che è quello della regionalizzazione del cristianesimo. In Francia il cristianesimo è già imploso ed esploso; noi siamo ancora nella fase dell’implosione. Il Sinodo è in tal senso un intervento necessario e d’emergenza; peccato che nel mio paese si sia scelto di dargli un programma a priori, e questo è stato il suo prevedibile  limite.

Interessante da questo punto di vista la proposta di Remi Brague (α1947)    

che ne Il futuro dell’Occidente auspica un ritorno alla Romanitas. I Romani sono stati straordinari nel saper assumere nazioni, tradizioni, religioni, filosofie; assumevano e trasformavano. Così che pure Paolo poteva dirsi cittadino romano, e, pur essendo un rabbino fariseo, poteva appellarsi all’imperatore.  È lo spazio “dell’uno accanto all’altro”, che fu la vera formula vincente dei romani, assai più delle conquiste militari. In questo senso credo dovremmo recuperare la Romanitas: l’ospitalità come gesto di debolezza feconda. L’ospitalità come gesto di disarmo. Sicuramente un gesto che è sfidato dalla precarietà, e per questo deve essere corroborato dalla preghiera, dal coraggio.  Ci vuole più coraggio ad ospitare che a respingere. Il rifiuto è espressione di debolezza. 

Gesù non ha scritto niente, non ha voluto essere filosofo di sé, né docente di dogmatica o morale. Ma ha dato una spinta, uno scandalo (in tedesco sono la stessa parola: Anstoß), un fermento, e poi ha lasciato agire lo Spirito. Senza lo Spirito la Chiesa non sarebbe esistita e non potrebbe oggi esistere. Uno statuto allora “romano” e cristiano sarebbe una grande svolta per la Chiesa, ma anche per l’umanità. La Chiesa, ancorché minoritaria, tornerebbe ad essere sale della terra. In fondo è quello che sta cercando di fare Papa Francesco.  Certo, non ci sono garanzie, ma noi, come lui, confidiamo nell’azione dello Spirito.  Una struttura di cristianesimo esposto, dove la “debolezza” viene riconosciuta, accettata, accolta, attraversata, per far nascere un altro tipo di forza trasformante. È la nuova frontiera dell’evangelizzazione della società. Essere forti senza essere potenti. Essere veritieri senza essere fanatici. Avere un senso per l’estetica senza essere estetici. Avere un senso per la rettitudine senza essere moralisti. Essere uno, ma non senza l’altro. Mai senza l’altro come diceva

   Michel de De Certeau, (α1925-ω1986). Gesuita n altro genio francese oggi sempre più attuale e prezioso in questa ricerca per trovare un contegno umano di una minoranza che vive dentro una nuova società.

Papa Francesco è dunque il primo capitolo di questa nuova avventura del cristianesimo?

Senz’altro sì. È il primo capitolo, ma è costretto ad essere anche l’ultimo del vecchio mondo, perché conciliare il carisma con il governo di un’“azienda” come la nostra è un’impresa ai limiti della proponibilità. Solo così si comprendono anche i suoi aspetti drammatici. Lui si è imbarcato in questa impresa, che è una scommessa aperta pascaliana. E dobbiamo scommettere con lui, perché altro non abbiamo. Tutto questo implica inevitabilmente un ripensamento anche dei fondamentali della teologia. È necessario infatti che noi tutti facciamo un esercizio di verità, altrimenti non ci ascolta più nessuno. Abbandonare già nella lettura fenomenologica quel lessico un po’ fiabesco, da un lato sdolcinato e dall’altro aspro, che per esempio, ci fa dire che la vita è un dono. La vita non è un dono, o almeno non è percepita tale. È più giusto parlare di un “pre-dato”. Se non siamo sinceri con i nostri interlocutori abbiamo già perso questa gara tra umanesimo e religione. Oppure pensate all’obnubilazione del sacrificio nel linguaggio teologico corrente, come fosse qualcosa di scomodo. Al contrario Gesù ha attraversato la pena, nella storia drammatica della passione non è mai eroe né vittima, ma, al contempo, signorile e abbandonato. Se non consideriamo la sua sofferenza con il grido, con la sete, la sua pressione escatologica e metafisica, non comprendiamo la penosità della nostra limitatezza. È da questa penosità che si apre uno spiraglio per il futuro, «non guardate a me, andate avanti, camminate insieme»; esorta Maria e Giovanni sulla croce.  E apre legittimità al consenso in manus tuas commendo spiritum meum è l’affidamento, che è sinonimo di libertà.  Quella libertà minacciata e vilipesa oggi dal mondo all’uomo. 

E allora veniamo alla terza questione: cioè a lei padre Salmann, al suo percorso. Ci sembra di capire che il suo sguardo teologico si rivolga oggi sempre più ad ovest, verso la Francia, giusto?

Devo riconoscere che già quando ero liceale mi sentivo un po’ francofilo. Lo scorso anno ho passato i 50 anni della mia ordinazione, in silenzio, in sordina.  Non ho “celebrato una festa” come si usa qui da voi in Italia. Perché non c’è niente da celebrare, semmai da ripensare. E non una festa. Non per falsa modestia. Ma Gesù ad Emmaus non celebra una festa; sparisce invece agli occhi dei discepoli e lascia che sia lo Spirito a guidarli sulla strada del Kerigma [annuncio]. Ho attraversato nella mia vita stagioni politiche, sociali, culturali, ecclesiali, sempre con una serenità malinconica  scuotendo un po’ il capo dinanzi ad un divenire spesso squilibrante, cercando sempre uno stile che ovviasse a ciò. Uno stile che definisco da barcaiolo, da interprete, da fautore del transfert, di un linguaggio ecclesiale antico e misterico, intrapersonale e psicanalitico, proteso allo scambio dei doni, e in bilico tra lingua e realtà, vivendo fra le sponde del Mistero, che conosco nella sua classicità, e le diverse frange del mondo post-democratico, che guardo con simpatia critica. E mi sono fatto avvocato dell’uno e dell’altro. Ci sono tanti mondi diversi nella Chiesa, popolo di Dio, e mi sono adoperato a cercare di dar loro una voce, e insieme cercare tocchi, musiche, che intuiscano la sapienza della vita, i misteri cristiani e il Dio che viene invocato, questa invocazione creaturale. Se dovessi riassumere il senso del mio insegnare e lavorare, potrei dire: ho cercato di contribuire a che il Dio cristiano possa fare bella figura nella storia del pensare ed agire umano, e di chiedermi perché questo risulta tanto difficile.

In tutti questi aggettivi che si è attribuito manca però quello che più le è riconosciuto: padre, lei che è acclamato “padre” di una generazione di teologi.

Beh sì, è vero. Non sono fratello. E al tempo stesso non ho i baffi o la gentilezza del padre. Certo, cerco di essere gentile, ma in modo signorile, anche in convento do a quasi tutti del “lei”. Sono un uomo del “lei”, se vogliamo, un borghese benedettino. Con sprazzi di gesuitismo. E forse di laicità, perché senza uno sguardo da fuori non si combina molto oggi.  Un’ultima battuta. Non rinnego nulla della mia vita e della mia provenienza borghese ed imprenditoriale. Tutti mi chiedono perché ho lasciato l’insegnamento e Roma per ritrovarmi di nuovo in convento. Ma queste due cose non si oppongono ma completano. Io sono in sintonia con la finitezza, con la contingenza. Forse, se vivrò a lungo, penso che il mio convento sparirà; ma questo non mi spaventa. E non sono neanche stoico. Accolgo le variazioni della contingenza, come benedizione di Dio. Anche la Chiesa è contingente: in cielo non ci sono templi e sacerdoti.  E non ci sono neanche benedettini, con mio grande sollievo… e chissà, forse non ci sono nemmeno i gesuiti. anche se loro rispuntano sempre!

www.osservatoreromano.va/it/news/2023-06/quo-136/la-tragedia-dell-uomo-democratico.html

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