UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 967 – 18 giugno 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
O2 Autorità infanzia-adolescenza “Futuro che vorrei”
04 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n.22 , 7 giugno 2023
06 CITTÀ DEL VATICANO Rupnik espulso dai Gesuiti. Parlano le vittime: «È un gioco delle parti per proteggerlo
07 La grande alleanza fra la chiesa e il Cavaliere, sacrificata sull’altare degli scandali
08 Quante sono le donne dirigenti in Vaticano?
08 CRISTOLOGIA “Resurrexit tertia die: l’impossibile possibilità”
12 Dibattito teologico. Sulla resurrezione di Gesù
15 DALLA NAVATA XI domenica del tempo ordinario (anno A)
16 La Parola in cammino
17 DONNE NELLA (per la) CHIESA Il sesso femminile impedimento o opportunità: è davvero una questione dottrinale?
19 Anche le consacrate infrangono il tetto di cristallo
23 ECCLESOLOGIA Il piccolo gregge e la cittadella
25 La parrocchia prenda il largo in un nuovo Esodo
27 ECUMENISMO Lutero e la Santa Cena: perché la questione ci riguarda ancora
28 Cammino sinodale, il passo è ecumenico
29 FORUM ASSOC.FAMILIARI Bordignon neo presidente: la famiglia è determinante per l’Italia
30 GIURSPRUDENZA Differenza tra tribunale ordinario e minorile
30 Affidamento esclusivo dei minori dalla sede presidenziale se il padre non si costituisce
31 LUTTO Flavia Prodi l’addio dell’altra Italia
32 MATERNITÀ SURROGATA le donne spezzano la cortina del silenzio: “È commercio, non altruismo”
33 Procreazione assistita: pensieri sparsi
35 MATRIMON E UNIONI CIVILI l’Italia è già cambiata. Ma Chiesa e Governo guardano dall’altra parte
37 SINODO Dove va la Chiesa sinodale? (registrazione) p. Enzo Bianchi
37 Omosessualità: ripensamenti (di Cosimo Scordato)
38 Perché me ne andrò, ma senza perdere di vista la Chiesa
41 STORIA ECCLESIALE Tutti i rami dell’inquisizione
Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza
“Futuro che vorrei”
All’indagine hanno partecipato oltre 6.500 giovani tra i 12 e i 18 anni. I ragazzi non sono sfiduciati verso il futuro, ma chiedono più attenzione alla politica
Il futuro è molto presente nelle menti dei ragazzi che vivono in Italia: ne sono incuriositi e al tempo stesso impauriti ed eccitati. È piuttosto la condizione che vivono oggi a lasciarli insoddisfatti. Ritengono che si investa troppo poco su di loro e che si tutelino soprattutto le persone con un buon tenore di vita e gli anziani. Sentono i decisori politici distanti e non attenti alle loro richieste, come quella di fermare il cambiamento climatico. Ciò nonostante, non rifiutano l’impegno politico, né appaiono sfiduciati verso il futuro. In realtà pensano di poter cambiare la loro vita e il mondo, ma lontano dalla loro città, dalla regione o dal Paese.
Sono questi, in estrema sintesi, i risultati della consultazione pubblica “Il futuro che vorrei”, promossa dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, alla quale hanno partecipato oltre 6.500 giovani tra i 12 e i 18 anni. A presentarla alla stampa, questa mattina a Roma, è stata l’Autorità Carla Garlatti: “I ragazzi ci mandano un messaggio. Chiedono di essere ascoltati, vogliono essere presi sul serio e domandano che si tenga conto delle loro richieste”.
www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwj_yIjQtcD_AhX4gv0HHfS_DbAQFnoECAwQAQ&url=https%3A%2F%2Fwww.garanteinfanzia.org%2Fsites%2Fdefault%2Ffiles%2F2023-06%2Ffuturo-che-vorrei-web.pdf&usg=AOvVaw2P75fYjcjBQHbOJWh0hzU9
“Possiamo farci sentire, ma lo Stato fa poco” I ragazzi sono convinti (molto il 27,6% e piuttosto il 41%) che esistano canali e modalità per far sentire la loro voce. Tuttavia, il 79,9% ritiene che lo Stato faccia poco per i giovani. Di cosa si dovrebbe occupare il governo? Per il 21,8% di politiche giovanili, per il 20,9% di scuola, per il 17,4% di cambiamenti climatici e per il 12,5% di politiche sociali e povertà. La visione critica si rivolge non solo al nostro Paese ma riguarda anche le politiche giovanili a livello globale: il 71,6% è convinto che non vengano garantite a tutti le stesse opportunità.
La maggior parte dei ragazzi (58,9%) colloca il “futuro” tra dieci anni. Ovviamente lo vedono più vicino i diciottenni, ma è singolare che sia “tra un mese” per una significativa percentuale di coloro che hanno tra i 16 e i 17 anni (9,11% rispetto a quella complessiva, che si attesta attorno al 4%). Per la maggior parte dei ragazzi il futuro è “cambiamento” (45,8%), genera curiosità (53,6%) ed è spesso o sempre nei loro pensieri (74%).
Il 78,6% pensa che “lontano da casa” potrebbe avere maggiori possibilità, sia quanto a formazione che quanto a crescita professionale e lavorativa. Uno su tre, poi, si dichiara molto convinto di avere maggiori opportunità in un’altra città, in un’altra regione o all’estero. E più i ragazzi sono propensi a pensare che il domani riserverà importanti cambiamenti tecnologici, più si mostrano convinti di avere maggiori opportunità lontano da casa.
Le preoccupazioni e dove sentirsi felici. Le preoccupazioni sul futuro si concentrano sì sui cambiamenti climatici (48,3%), ma anche su diseguaglianze sociali ed economiche e guerra, tematiche queste tutte e due stabilmente sopra il 20%. I ragazzi, invece, non sembrano impensieriti per la sicurezza della rete (per il 41,4% è uno dei problemi minori), la libertà di espressione (27,5%) o le emergenze sanitarie (23,8%).
Quasi un ragazzo su tre considera la casa il luogo nel quale si sente oggi e si sentirà domani più felice. L’83% è convinto che in futuro potrà coltivare le proprie passioni. Sulle loro scelte conta assai la famiglia: abbastanza per il 41% e molto per il 23,9%. Gli amici come punto di riferimento hanno una valenza significativa (molto o abbastanza) per il 54,1%.
La quasi totalità dei partecipanti alla consultazione (91,6%) è convinta di poter incidere sul proprio futuro, allo stesso tempo il 93,5% ha un’idea chiara su cosa vuol fare dopo la scuola: il 49,9%, in particolare, pensa di iscriversi all’università. Si tratta di un atteggiamento coerente con la percezione che gli studi intrapresi sono fondamentali per la loro vita futura. Rispetto invece agli strumenti utilizzati per informarsi, la maggior parte dei ragazzi (56,6%) dichiara di ricorrere ai motori di ricerca, il 19,9% di far riferimento ai social network e il 17,3% di consultare i quotidiani online. I cartacei sono praticamente ignorati: dichiara di leggere i quotidiani gratuiti il 2,8% e quelli a pagamento l’1,6%.
Il questionario e le modalità di raccolta. Il questionario utilizzato nella consultazione “Il futuro che vorrei” era composto da oltre 40 domande suddivise in cinque capitoli:
- “Cosa penso del futuro”,
- “Come vedo il futuro del mondo”,
- “Come vedo il mio futuro”,
- “Cosa sto facendo per il mio futuro”,
- “Cosa fa o dovrebbe fare la politica per il futuro dei giovani”.
Il testo delle domande è stato messo a punto con la collaborazione della Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Agia e con il supporto dello psicoterapeuta Mauro Di Lorenzo.
La consultazione è stata svolta online in collaborazione con Skuola.net. Una parte dei questionari è stata somministrata grazie alla partecipazione di soggetti che operano in territori a rischio di marginalità sociale con progetti rivolti ai ragazzi: WeWorld Onlus, il Centro Mater Dei – il salotto fiorito, il Comune di Milano e Dedalus – Cooperativa sociale di Napoli.
(α1957). Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza
“Cosa ci dicono i 6.500 ragazzi dai 12 ai 18 anni che hanno risposto alle oltre 40 domande della nostra consultazione sul loro futuro? Che l’Italia fa poco per i giovani. Tuttavia, nonostante percepiscano una distanza da parte delle istituzioni verso i loro bisogni e nonostante le preoccupazioni che hanno per il presente, a sorpresa si mostrano fiduciosi verso il futuro. Insomma, pensano di farcela e guardano il loro avvenire con speranza. Ma attenzione: molti vedono la propria realizzazione lontano dalla loro attuale residenza, se non addirittura all’estero”.
Carla Garlatti commenta così i numeri contenuti nel volumetto che riassume i risultati della consultazione dell’Agia “Il futuro che vorrei”. “Sfogliando la pubblicazione si possono cogliere qua e là spunti per un approfondimento da parte degli esperti”, prosegue Garlatti. “Ad esempio, rispetto alla parola ‘futuro’ c’è sì curiosità senza differenze di genere, ma sono le femmine a essere più impaurite dal domani rispetto ai maschi. Il rapporto è del 52,4% contro il 34,8%. Al primo posto tra le preoccupazioni dei giovani si conferma quella verso i cambiamenti climatici, è però interessante che a essere presenti nelle loro menti siano anche le diseguaglianze sociali ed economiche e la guerra”.
“Non si tratta di prospettive che affrontano con rassegnazione e con inerzia. Al contrario, i ragazzi si sentono parte attiva e credono che le manifestazioni di protesta non siano inutili. Allo stesso modo quasi il 54% ritiene che per salvare il pianeta contino le azioni di ciascuno. Ciò che mi colpisce di più, tuttavia, è che questi ragazzi (quasi l’80%) denuncino di non sentirsi ascoltati dai decisori politici e che solo il 3,8% ritenga che in Italia la categoria più tutelata sia quella dei giovani. Questo è tanto più grave se si pensa che di fronte alle sfide di oggi e di domani è invece indispensabile coinvolgere coloro che saranno destinatari degli effetti delle scelte politiche: quello della partecipazione non è solo un principio sancito dalla Convenzione di New York, ma una delle basi della democrazia”.
“L’auspicio, in conclusione, è che le sollecitazioni che provengono dal mondo giovanile possano essere l’inizio di un cammino da fare insieme, minorenni e adulti, ponendo maggior attenzione alle istanze di una fascia della popolazione troppo spesso sacrificata o dimenticata. Da parte mia me ne farò carico in occasione della presentazione della Relazione annuale dell’Autorità garante al Parlamento, in programma il 14 giugno alle ore 11 alla Camera dei deputati”, conclude Carla Garlatti.
AGIA 12 giugno 2023
www.garanteinfanzia.org/risultati-consultazione-pubblica-futuro-vorrei
CISF
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
Newsletter CISF – n. 23, 14 giugno 2023
- Cosa spaventa di più un adolescente. Cosa succede dietro la porta delle loro camere? Che cosa si agita nei loro pensieri? Una troupe della redazione di una tv texana ha proposto a 8 adolescenti di tenere un video-diario delle loro paure, e le immagini sono poi state condivise con i genitori. Tra le paure più grandi: non essere abbastanza, tradire le grandi aspettative dei loro genitori, vivere nell’ansia che ti mettono le scuole superiori. Su YouTube – 2 min 17 secondi (sottotitoli in inglese).
www.youtube.com/watch?v=rVuRzyMa9E8
- Assistenti sociali, alleati della famiglia e degli anziani. L’8 giugno scorso, a Milano, si è svolto il corso di formazione “L’assistente sociale nei servizi per anziani e per anziani con demenza” organizzato dal Consiglio Regionale degli Assistenti Sociali in collaborazione con il Cisf [qui la locandina] .
http://cisf.famigliacristiana.it/cisf/incontraCISF/lassistente-sociale-nei-servizi-per-anziani-e-per-anziani-con-demenza.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_14_06_2023
Un convegno che è stato occasione per presentare un nuovo Quaderno realizzato dal Gruppo Anziani degli Assistenti Sociali e per ascoltare le testimonianze di una professione che si prende cura della terza età e delle sue tante fragilità familiari e sociali
Ecco cosa è emerso, da un articolo di Famiglia Cristiana.
www.famigliacristiana.it/articolo/alleati-della-famiglia-e-del-futuro-la-grande-rivoluzione-degli-assistenti-sociali-nell-assistenza-agli-anziani.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_14_06_2023&fbclid=IwAR355GftXtytaOhIZ_3wzWbQiccABjkRliGzX69_HRscl3cVnfNy-TRZkk4
- È partita la newsletter internazionale del CISF. L’8 giugno è partita una nuova newsletter mensile, in inglese, che offre a un pubblico internazionale una panoramica delle notizie più significative riguardanti la famiglia in Italia e all’estero, ma anche le ricerche e gli eventi in corso al Cisf, oltre ad altre informazioni e curiosità utili legate all’educazione familiare o alle pubblicazioni e ricerche più interessanti comparse nel mondo della ricerca sociale. Per riceverla scrivere a: cisf@stpauls.it
- USA: diminuiscono i matrimoni (e i divorzi). Una recente statistica del Census Bureau americano ha osservato il trend di matrimoni e divorzi nel decennio 2021-2011: l’esito osservabile è che entrambi si trovano in diminuzione [qui il link e i grafici]. Nel 2021 si sono sposate 14,9 donne su mille, circa 2 milioni di donne, mentre nel 2011 la percentuale è stata del 16,3 su mille. Rispetto ai divorzi, il tasso è di 6,9 su mille nel 2021 contro i 9,7 su mille di dieci anni prima.
www.census.gov/library/visualizations/interactive/marriage-divorce-rates-by-state-2011-2021.html
- Giovani e giovanissimi con lo sguardo al futuro. Due prospettive di osservazione e di ricerca molto differenti ma comunque puntate sul domani:
- si tratta della consultazione pubblica dell’Autorità garante per l’Infanzia e l’Adolescenza-AGIA, che ha pubblicato “Il futuro che vorrei” una consultazione che ha coinvolto oltre 6.500 ragazzi tra i 12 e i 18 anni, in cui emerge che non sono sfiduciati verso il futuro, ma chiedono alla politica una maggior attenzione.
www.garanteinfanzia.org/risultati-consultazione-pubblica-futuro-vorrei
- La seconda prospettiva, più strutturale, è l’edizione 2023 del Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo (ed. Il Mulino), in distribuzione dal 16 giugno, che affronta il modo di apprendere e la formazione di nuove competenze dei giovani; l’idea di lavoro e di realizzazione professionale; l’idea di famiglia e la propensione ad avere figli; l’impegno sociale e l’organizzazione al basso dei movimenti di cambiamento, in particolare sul tema dell’ambiente; la fiducia verso le istituzioni e le aspettative sul nuovo governo.
www.rapportogiovani.it/tra-disincanto-e-voglia-di-futuro-lavoro-casa-politica-i-giovani-non-ci-credono-quasi-piu-il-rapporto-giovani-2023
- Buone pratiche dalle pastorali familiari nel mondo. Il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita promuove sul nuovo sito Laityinvolved.org molte iniziative e “buone pratiche” da diverse Conferenze episcopali, diocesi e istituzioni private. Il sito vuole essere un punto di riferimento per diversi operatori pastorali, a livello parrocchiale, diocesano o nazionale e rappresenta un’interessante prospettiva rispetto alla famiglia nei suoi diversi componenti (donne, madri, minori) e fasi della vita (giovani e anziani), oltre che sui grandi temi (dalla bioetica al lavoro).
- Cattolica: aperte le iscrizioni per la laurea magistrale in media education. Ha aperto a fine maggio e resta possibile fino all’11 dicembre 2023 la domanda di ammissione al Corso di Laurea magistrale in Media Education, presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano. Il corso
www.unicatt.it/corsi/magistrale/media-education-milano.html
[il link e la presentazione video del corso da parte del coordinatore, il professor Piermarco Aroldi] mira a formare pedagogisti dotati di competenze sia educative che comunicative e tecnologiche: caratteristiche più che mai strategiche nel tempo che viviamo, e che consente di affacciarsi in contesti formativi sia a carattere istituzionale che aziendale e del terzo settore.
- Dalle case editrici
- A. Anastasio, M. Corradi, Non dimenticate il desiderio. L’eredità di don Anas: dialoghi sul matrimonio, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2022, pp. 186.
- A. Rosina, S. Impicciatore, Storia demografica d’Italia, Carocci, Roma, 2022, pp. 188.
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- Margherita Lanz e Camillo Regalia (a cura di), La famiglia di fronte alla sfida del COVID-19. La costruzione di una nuova normalità, Vita e Pensiero, Milano 2023, pp. 241
La pandemia da Covid-19 che ha attanagliato il mondo intero negli ultimi tre anni ha scombussolato e modificato gli equilibri delle famiglie Italiane. Tuttavia, sembra che molti abbiamo preferito insabbiare quegli eventi, in quanto traumatici o spiacevoli da far riaffiorare oppure per la propria incapacità di ricordare. (L. M.)
- Save the date
- Meeting (Riva del Garda) – 20 giugno 2023 (10-13.30). “VIII Meeting dei Distretti Famiglia del Trentino”, a cura della Provincia autonoma di Trento – Agenzia per la coesione sociale
www.trentinofamiglia.it/News-eventi/News/A-Riva-del-Garda-l-ottava-edizione-del-Meeting-Distretti-famiglia?utm_medium=email&utm_source=VOXmail%3A597651+Nessuna+cartella&utm_campaign=VOXmail%3A2937091+14+Newsletter+dellAgenzia+per+la+coesione+sociale+-+Provinci
- Convegno (Brescia) – 23 giugno 2023 (9-13). “Gioco d’azzardo, promozione della salute e sviluppo di comunità”, organizzato dall’Università Cattolica (BS)
www.unicatt.it/eventi/ateneo/Brescia/2023/gioco-d-azzardo–promozione-della-salute-e-sviluppo-di-comunita.html
- Webinar (Int) – 25 luglio 2023 (13-14 – Eastern Time/US & Canada). “Parent Child Contact Problems: Family Violence and Parental Alienation – ReiThera/or, Geithner/non, Both/and, One in the Same?”, organizzato da Association of Family and Conciliation Courts (AFCC)
www.afccnet.org/Webinars/AFCC-Webinars/ctl/View/ConferenceID/557/mid/3711
Archivio http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx
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CITTÀ DEL VATICANO
Rupnik espulso dai Gesuiti. Parlano le vittime: «È un gioco delle parti per proteggerlo»
La decisione è stata presa il 9 giugno scorso dal generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa Abascal, «a causa del suo rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza», come si legge nel comunicato ufficiale diffuso il 15 giugno da padre Johan Verschueren, superiore di Rupnik e delegato per le Case e le Opere interprovinciali romane dei gesuiti.
Dopo un’inchiesta interna alla Compagnia sulle responsabilità del famoso artista, durata diversi mesi, e che aveva appurato gli abusi sessuali, spirituali, di coscienza commessi da Rupnik nei confronti di almeno quindici persone, i gesuiti avevano provato a offrirgli una nuova comunità e una nuova missione, in sostanza «un’ultima possibilità di fare i conti con il proprio passato e di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui». Ma è stato tutto inutile: Rupnik non ha risposto alle direttive dei suoi superiori, rifiutandosi di sottostare alle restrizioni che gli erano state imposte. Come abbiamo documentato su “Domani”, ha infatti continuato come nulla fosse a celebrare messa, a viaggiare e addirittura a portare avanti gli affari dell’atelier del Centro Aletti.
Perdono sempre le vittime. «Di fronte al reiterato rifiuto di Marko Rupnik di obbedire», scrive ancora padre Verschueren, «ci è rimasta purtroppo una sola soluzione: la dimissione dalla Compagnia di Gesù». Ora l’ex gesuita, a cui è stata comunicata la dimissione dall’ordine il 14 giugno, secondo le norme del codice di diritto canonico ha un mese di tempo per presentare ricorso. I gesuiti hanno anche ringraziato «per la comprensione e il sostegno» le persone che hanno testimoniato al Team Referente, formato a dicembre per verificare la verosimiglianza delle denunce a carico del prete.
«Se e quando la dimissione dovesse diventare definitiva – promette la Compagnia in una lettera alle vittime – sarà possibile approfondire i temi e rendere note più cose».
«Rupnik è stato ritenuto responsabile dei fatti che tutte noi abbiamo denunciato – dichiara Anna (nome di fantasia), la prima ex sorella della Comunità Loyola ad aver raccontato a “Domani” le violenze subite da Rupnik – ma chi perde veramente ancora una volta in questa storia? Le vittime, che sono chiamate ad attendere ulteriori sviluppi». «Siamo di fronte a un gioco delle parti, dove la grande assente è la giustizia per chi, come me, aveva creduto nella chiesa e si è ritrovata abusata nello spirito, nell’anima e nel corpo – aggiunge ancora Anna – vincono invece i gesuiti, che allontanano un confratello problematico, la chiesa, che continua a proteggerlo, e ovviamente lo stesso Rupnik, che non è obbligato ad assumersi le sue responsabilità e a iniziare un percorso di conversione».
Ancora una volta in questa storia le vittime rimangono le grandi assenti, a cui nessuno – non la Compagnia di Gesù, tantomeno la chiesa – chiede scusa o propone un risarcimento per il dolore e le violenze subite.
«Mettendomi nei panni delle mie ex consorelle, alle quali gli abusi hanno stravolto la vita, mi chiedo cosa provino leggendo che padre Marko è stato dimesso perché ha rifiutato di osservare il voto di obbedienza», commenta Esther (nome di fantasia), un’altra delle ex suore della comunità Loyola, già intervistata da “Domani” «Non è quello che ci aspettavamo quando abbiamo risposto all’invito del team referente dei gesuiti di testimoniare – aggiunge – abbiamo sperato che lo avrebbero fermato e invece oggi ci troviamo a chiederci quante persone ancora dovranno soffrire a causa sua».
Il giudizio della Santa sede. Rupnik resta un sacerdote secolare: la sua eventuale dimissione dallo stato clericale dipende ora dalla Santa sede, cioè, in ultimo da papa Francesco, che già una volta lo ha salvato dalla scomunica latæ sententiæ che la Congregazione per la dottrina della fede gli aveva impartito per aver assolto in confessione la novizia con cui aveva avuto un rapporto sessuale.
L’ex gesuita ora dovrà cercare un vescovo che accetti di incardinarlo nella sua diocesi: qualcuno che ovviamente gli permetta di continuare a produrre e vendere mosaici con il sostegno dei suoi fedelissimi (e soprattutto delle sue fedelissime) del Centro Aletti. Lo scenario che si apre oggi è dunque ancora ricco di variabili e di problemi da sciogliere. Uno di questi è la permanenza di Rupnik all’interno dello stesso Centro Aletti, che pur dipendendo dalla diocesi di Roma in quanto associazione pubblica di fedeli, si trova in un palazzo romano, in via Paolina, di proprietà dei gesuiti.
Federica Tourn “Domani” 16 giugno 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230616tourn.pdf
La grande alleanza fra la chiesa e il Cavaliere, sacrificata sull’altare degli scandali
La grande alleanza fra la chiesa italiana guidata dal cardinale Camillo Ruini e Silvio Berlusconi, cominciò a infrangersi nel 2009 con l’emergere dello scandalo escort-prostituzione che investì l’allora presidente del Consiglio, e andò definitivamente in frantumi nel novembre 2011, quando cadde il governo guidato dal Cavaliere.
Ma, almeno simbolicamente, le cose erano precipitate già qualche mese prima: nel febbraio dello stesso anno infatti, a Roma, nel corso della grande manifestazione delle donne promossa dal movimento “Non una di meno”, era salita sul palco suor Eugenia Bonetti, religiosa impegnata da moti anni nella lotta contro la tratta di esseri umani e la prostituzione come forma di schiavitù moderna, per dire senza mezzi termini: «Le costanti notizie di cronaca che in queste ultime settimane si susseguono in modo spudorato sui nostri giornali e nelle trasmissioni televisive e radiofoniche ci sgomentano e ci portano a pensare che siamo ancora molto lontani dal considerare la donna per ciò che è veramente e non semplicemente un oggetto o una merce da usare».
Del resto, non era tanto il lato giudiziario della vicenda ad aver messo in difficoltà i vertici della chiesa e ad aver indignato parte del mondo cattolico, ma appunto l’insostenibilità morale, etica, dello scandalo nel quale si trovava invischiato il premier.
Il cardinale e i cattolici adulti. Ruini è rimasto però legato al Cavaliere se, ancora nei giorni scorsi, ha voluto ricordare come suo grande merito quello di aver scongiurato la vittoria degli ex comunisti nel 1994 (il muro di Berlino era caduto già dal 1989). E chissà se il cardinale, in realtà, fosse più grato ancora a Berlusconi per aver avversato fieramente quella parte dei cattolici post-democristiani che scelsero di schierarsi nella seconda Repubblica con il centrosinistra, i cosiddetti cattolici adulti, di cui Romano Prodi fu l’esponente più in vista, che credevano nell’autonomia della sfera politica e pubblica rispetto a una visione confessionale e dalle tinte clericaleggianti della società.
Del resto, di fronte al rischio che la chiesa perdesse peso specifico e ruolo nella vita civile, il capo dei vescovi non esitò a stringere un patto di ferro con il Cavaliere e a lui affidò la difesa dei princìpi valutati dalla chiesa come “non negoziabili”: no a matrimoni e unioni civili fra persone dello stesso sesso, no al testamento biologico, no alla procreazione assistita; mentre era necessario supportare le scuole cattoliche, la sanità cattolica fino a forzare il principio di sussidiarietà per favorire l’intervento del privato sociale (e quindi cattolico) nella gestione dei servizi pubblici.
La chiesa di Ruini fu al contempo, sul piano internazionale, molto prudente sul tema migrazioni e quindi fortemente refrattaria in materia di apertura al dialogo con altre fedi e culture; di fatto era allineata, sia pure con toni più soft, all’impostazione teo-con promossa dalla Casa Bianca guidata da George W. Bush. Il disegno neoconservatore e neo costantiniano, scandito a suon di family day, del cardinal Ruini si scontrò però con due ostacoli insormontabili.
- In primo luogo il fatto che lo stesso Berlusconi era stato, attraverso le sue tv e il modello imprenditoriale e politico che promuoveva, la scala di valori di cui era portatore, uno dei fattori di più potente scristianizzazione della società italiana;
- in secondo luogo, la crisi economica che attanagliò il paese a partire dal 2008 immettendo l’Italia in un processo di declino economico e sociale che perdura ancora oggi, mostrò quanto di velleitario e fragile vi fosse nel progetto ruiniano.
Dal caso Englaro ai grandi eventi. D’altro canto, determinate battaglie dal forte sapore ideologico, come quella condotta sul caso di Eluana Englaro, contribuirono ad allontanare il favore dell’opinione pubblica dall’agire della chiesa. Eppure, anche in quel frangente, il sostegno del Cavaliere non venne meno, il governo le provò tutte per impedire l’interruzione delle terapie dopo 17 anni di stato vegetativo della donna; all’epoca, era il 2009, Berlusconi arrivò a dire che «Eluana è una persona viva, respira, le sue cellule cerebrali sono vive e potrebbe in ipotesi fare anche dei figli. È necessario ogni sforzo per non farla morire».
È anche vero che una folta pattuglia di esponenti cattolici, in prevalenza di centrodestra, faceva da sponda alle richieste sempre più pressanti provenienti dalla conferenza episcopale. Col 2011, tuttavia la crisi del moderno patto trono-altare diventò irreversibile e anche l’estremo tentativo di promuovere Roberto Formigoni come nuovo leader del centrodestra facendo affidamento sulle truppe cielline non andò in porto.
Anche perché nel frattempo qualcosa si era rotto anche nella chiesa. Intanto la concorrenza fra la segreteria di stato del cardinale Tarcisio Bertone e la Cei in relazione alla gestione dei rapporti con la politica italiana aprì una crisi profonda nella Chiesa e nelle relazioni con la Curia vaticana, ne scaturì una stagione di veleni, colpi bassi e poco edificanti lotte intestine. Non va infine dimenticato che le propaggini delle avventure finanziarie del berlusconismo arrivarono anche Oltretevere quando venne a galla lo scandalo dei “grandi eventi”; le indagini portarono alla luce le connessioni fra un affarismo spregiudicato condotto da imprenditori, alti funzionari dello Stato, faccendieri, e ambienti del Vaticano.
Da questo impasto nacque la convinzione fra i cardinali di tutto il mondo, che fosse venuto il momento di liberare la Santa Sede del rapporto preferenziale con l’Italia e di avviare profonde riforme nella gestione delle finanze vaticane.
Francesco Peloso “www.editorialedomani.it” 14 giugno 2023
www.editorialedomani.it/politica/italia/la-grande-alleanza-fra-la-chiesa-e-il-cavaliere-sacrificata-sullaltare-degli-scandali-fd6hjl2l
Quante sono le donne dirigenti in Vaticano?
Attualmente è un dato che in quanto tale non esiste nelle statistiche ufficiali. Abbiamo quindi provato a dedurlo individuando 75 posizioni «dirigenziali» in «Vaticano» (comprendendo sia la Santa Sede sia lo Stato della Città del Vaticano). Tali posizioni vanno da «direttrice» a «membro» dei dicasteri di curia. Con una certa approssimazione si può affermare – come si deduce dall’infografica qui sotto, pubblicata a firma di Lorenzo Tamberi sull’ultimo numero della rivista – che prendendo in considerazione solo gli enti (dicasteri, commissioni ecc.) dove sono presenti anche delle donne (laiche o religiose), queste ultime rappresentano il 21,8% delle presenze. I dati provengono dall’Annuario pontificio 2023, con integrazioni tratte dai bollettini delle Sala stampa della Santa Sede al 31.3.2023. (M.E. G.)
Vai a https://re-blog.it/2023/06/10/quante-sono-le-donne-dirigenti-in-vaticano
CRISTOLOGIA
“Resurrexit tertia die: l’impossibile possibilità”
Mi è stato chiesto di parlare della risurrezione di Gesù. Lo farò in tre tappe, intitolate rispettivamente. Che cos’è la risurrezione di Gesù? Che cosa non è. Che cosa ha prodotto, cioè qual è stato il suo frutto maggiore.
1. Che cos’è la risurrezione di Gesù? È esattamente ciò che dice la parola: quel cc c, morto e sepolto, «il terzo giorno risuscitò», cioè tornò in vita, non rimase chiuso nel sepolcro dov’era stato posto, ma «si presentò vivente con molte prove, facendosi vedere da loro (cioè dagli apostoli, ma non solo da loro, anzi in primo luogo non da loro, sembra intenzionalmente) per quaranta giorni» (Atti 1,3). Lo dice lui stesso: «Ero morto, ma ecco sono vivente per i secoli dei secoli – cioè per sempre – e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti» (Apocalisse 1,18), cioè non è più la morte ad avere potere su di me, sono io che ho potere sulla morte.
La risurrezione significa che Gesù non è come tanti grandi uomini del passato che sono morti, ma parlano ancora, a cominciare dagli uomini della Bibbia: Abramo, Mosè, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Pietro, Paolo e Giovanni e tutti gli altri, sono tutti morti, ma parlano ancora mediante i loro scritti la loro vita. Così pure Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro, Saffo, Omero, Virgilio, Agostino, Dante, Tommaso d’Aquino, Lutero, Bonhoeffer, Oscar Romero, Martin Luther King, Gandhi, e innumerevoli altri, sono tutti morti, ma in un altro senso sono vivi, parlano ancora. Anche Gesù potrebbe parlare come morto, attraverso l’esempio della sua vita, il suo insegnamento e la sua stessa morte, uguale a quella di tanti altri giustiziati, ma anche molto diversa, tanto che il centurione romano che aveva assistito al supplizio essendo «lì presente di fronte a Gesù, avendolo veduto spirare in quel modo, disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio!” (Marco 15,39). La morte di Gesù, per il modo in cui è avvenuta, ha parlato non solo a quel centurione, ma a innumerevoli altre persone attraverso i secoli. La risurrezione, però, vuol dire che Gesù parla a tutti coloro che hanno orecchi per udire non da morto, ma da vivo. Da vivo come siamo vivi noi, anzi molto di più, perché la nostra è vita mortale, la sua è immortale, la nostra è provvisoria, la sua è definitiva.
Risurrezione vuol dunque dire che Gesù è tornato in vita, ma non più alla vita di prima. Gesù risorto non è un redivivo come Lazzaro: ha un corpo nuovo, simile a quello che ebbe per poco tempo sul monte della Trasfigurazione (Marco 9,2-3) – un corpo di luce, potremmo dire, non più opaco come il nostro, un corpo così diverso da quello di prima che nessuno lo riconosce: non Maria di Magdala, non i discepoli di Emmaus, non gli Undici i quali, quando lo videro, «sconvolti e atterriti, pensavano di vedere un fantasma» (Luca 24,37). È sempre lui, Gesù, il rabbino di Nazareth, il Maestro itinerante, il Profeta del regno di Dio, vicino a pubblicani e prostitute, amico dei bambini e delle donne, medico dei corpi e delle anime, è sempre lui, non un altro Gesù ma quello stesso Gesù in altra forma o modo di essere, mai visto prima, completamente inedito, una primizia assoluta, come lo chiama l’apostolo Paolo (I Corinzi15,20). La risurrezione non è un ritorno al passato, una restaurazione della prima creazione, ma l’inaugurazione di una nuova creazione, l’inizio di una cosa nuova.
Ecco perché Gesù risorto è chiamato a più riprese «primogenito»: con lui comincia una nuova discendenza, un nuovo popolo, il popolo della risurrezione; Gesù risorto è «primogenito di molti fratelli», cioè di uomini e donne che lo seguono non più solo come Gesù storico (Marco1,17) nel cammino terreno che tutti conosciamo e percorriamo dalla nascita alla morte, ma anche come Gesù risorto (Giovanni 21,19.22), nel nuovo cammino da lui indicato a Nicodemo che non capisce (come avrebbe potuto ?): dalla nascita alla nuova nascita, dalla vita a una nuova vita risorta con Cristo. Tanto che il Nuovo Testamento non teme di parlare dei cristiani come di gente già ora risuscitata dai morti: «Presentate voi stessi a Dio come morti fatti viventi» (Romani 6,13). E ancora: «Noi sappiamo che siamo passato passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (Giovanni 3,14). Il cristiano –si può dire – ha la morte alle sue spalle. Certo, dovrà anche lui morire, come tutti, ma la morte che sta ancora davanti a lui, non lo potrà separare da Dio (Romani 8,38). La vita iniziata con la nuova nascita – la vita nuova nella fede e nell’amore – non è vita mortale, ma eterna. La morte non è non vivere, ma non credere e non amare.
La risurrezione, novità imprevista e imprevedibile, fu per i discepoli una sorpresa assoluta, accolta da un’incredulità generale. Il più antico racconto evangelico della risurrezione (Marco16,1-8)-[I versetti 9-20 di Marco 16 sono un’aggiunta tardiva non rilevante per il nostro tema.] ci aiuta a capire come l’annuncio della risurrezione sia stato accolto: non con giubilo ed esultanza, ma con spavento e incredulità. Quando le tre donne si recarono al sepolcro «al levar del sole», con gli aromi «per imbalsamare Gesù». Entrate nel sepolcro (la grossa pietra che ne impediva l’accesso era stata misteriosamente rimossa), videro un giovane seduto a destra, vestito di bianco, «e furono spaventate» (v. 5). Il giovane cercò di rassicurarle: «Gesù, che voi cercate, è risuscitato. Non è qui, Ecco il luogo dove l’avevano messo. Ma andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea: lì lo vedrete, come vi ha detto». Cioè: il luogo dov’era, ora è vuoto; «Egli non è qui», non è tra i morti, ma tra i vivi; non vi aspetta al Golgota, ma in Galilea; non vi riporta al passato, ma al futuro.
Neppure l’annuncio esplicito dell’avvenuta risurrezione di Gesù riempie di gioia le donne, le quali, anzi, «fuggirono via dal sepolcro perché erano prese da tremito e sbigottimento, e non dissero nulla a nessuno perché avevano paura» (v. 8).
Spavento, tremito, sbigottimento, paura– ecco la reazione delle donne secondo il più antico racconto della risurrezione. Di fede non ce n’è neppure l’ombra. La stessa accoglienza fu quella dei discepoli: quando Maria di Magdala andò, felice, ad annunciare loro che aveva visto Gesù risorto, «non lo credettero» (v. 11): E non credettero neppure a un’altra testimonianza (v. 13).
Secondo ogni evidenza, la notizia della risurrezione non fu creduta da nessuno degli Undici, forse anche perché Gesù scelse delle donne come prime testimoni della sua risurrezione, ma, secondo il diritto ebraico dell’epoca, le donne non avevano la capacità giuridica di essere ascoltate come testimoni in un processo. Fatto sta che, secondo Luca, le parole con le quali Maria di Magdala e le altre annunciarono agli Undici che Gesù era risorto «sembrarono loro un vaneggiare e non prestarono fede alle donne»(Luca 24,11).
Insomma: i primi a non credere alla risurrezione sono stati proprio gli apostoli! Questo dimostra che nessuno di loro se l’aspettava, e neppure la sperava. È vero che Gesù aveva più volte annunciato, insieme alla sua morte, anche la sua risurrezione (Marco 8,31-32; 9.31), se nonché i discepoli «non intendevano il suo dire e temevano di interrogarlo»(v. 32). Ancora più severo è il parere di Luca: «Essi [i Dodici] non capirono nulla di queste cose [cioè dell’annuncio della passione e della risurrezione di Gesù]; quel parlare era per loro oscuro, e non intendevano le cose dette loro» (Luca 18,34). Ma proprio perché i Dodici «non avevano capito nulla» né della passione e ancora meno della risurrezione di Gesù, dopo la sua morte a tutto essi potevano pensare tranne che a una sua possibile risurrezione. Perciò l’ipotesi avanzata da molti, fin dai tempi antichi, che la risurrezione di Gesù sua stata inventata dai discepoli per rifarsi della cocente delusione della morte ignominiosa del loro Maestro (Matteo 28,11-15), è del tutto inverosimile e completamente campata in aria alla luce dei dati certi che possediamo su come essi hanno accolto, all’inizio, la notizia della risurrezione di Gesù: con un netto rifiuto.
2. Se le cose sono andate come le abbiamo sommariamente descritte e la risurrezione è stata considerata dagli Undici «un vaneggiare» di donne giudicate comunque inaffidabili come testimoni, allora, dopo aver cercato di capire e di dire ciò che la risurrezione di Gesù è, possiamo anche cercar di capire e di dire ciò che la risurrezione non è, limitandoci a due modi di intenderla o fraintenderla.
[a] La risurrezione non è il ritorno in vita di Gesù dopo una morte apparente. Così qualcuno ha interpretato la sua morte: come una morte apparente, per cui quella che i discepoli chiamano «risurrezione» non è stato altro, in realtà, che il risveglio di una persona solo apparentemente morta. Ora, il fenomeno delle morti apparenti esiste veramente. Persone dichiarate clinicamente morte, in realtà non lo erano affatto, e, contrariamente a quello che sembrava, erano vive. È però letteralmente impossibile che questo sia accaduto a Gesù, per due ragioni almeno.
- La prima: le morti apparenti possono accadere, sia puro solo molto raramente, in caso di morti – diciamo così – normali. Ma quella di Gesù non è stata una morte normale, è stata tutto il contrario: una morte violenta avvenuta dopo l’interminabile, atroce agonia durata molte ore, di un uomo inchiodato a una croce. E proprio per accertarsi della morte avvenuta, o per provocarla nel caso che non fosse ancora sopraggiunta, «uno dei soldati gli forò il costato con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua» (Giovanni 19,34). Forare il costato di un uomo crocifisso con una lancia era l’equivalente dell’odierno «colpo di grazia», dopo il quale il condannato è sicuramente morto.
- La seconda ragione per la quale la risurrezione non può essere il risveglio di un morto apparente è che se così fosse, cioè se la sua morte fosse davvero stata solo apparente, anche la sua risurrezione sarebbe stata solo apparente, quindi non una vera risurrezione, ma solo il risveglio alla vita di prima. Sarebbe stato, insomma, un vero e proprio ritorno al passato. Ma proprio questo – come abbiamo visto – è ciò che la risurrezione non è: non un ritorno al passato, ma un inizio completamente nuovo, una nuova creazione.
[b] L’altra interpretazione data delle apparizioni di Gesù risorto è che esse sono state, in realtà, delle visioni dei discepoli, dei miraggi, simili a quello dell’assetato che, nel deserto, «vede» l’oasi che non c’è. Si tratta di fenomeni che accadono realmente: una persona che abbiamo molto amata, e che è morta da poco, abbiamo l’impressione di «vederla» ancora là dove eravamo abituati a vederla, ci «appare» improvvisamente come se fosse ancora là, ma lei non c’è più, è tutto solo una costruzione del nostro animo, una creazione del nostro affetto. Secondo questa interpretazione, le cosiddette apparizioni del Risorto non dimostrano la realtà della risurrezione, ma solo la realtà dell’attaccamento dei discepoli a Gesù; benché tutti lo avessero abbandonato, erano però intimamente legati al loro Maestro e non potevano rassegnarsi a perderlo per sempre. Perciò continuavano a «vederlo». Sarebbero state queste loro visioni (qualcuno le chiamerebbe “allucinazioni”) a tenere in vita Gesù. Sarebbe la fede(per quanto barcollante) dei discepoli che avrebbe «risuscitato» Gesù e non Gesù risorto che avrebbe risuscitato la fede (defunta) dei discepoli.
Qual è il tallone d’Achille di questa interpretazione ? È che, se fosse vera, si ripeterebbe lo stesso errore di prima: se fossero stati i discepoli a «risuscitare» Gesù, avrebbero potuto far rivivere solo il Gesù di prima, quello che hanno conosciuto, seguito e di cui hanno condiviso per tre anni l’esistenza itinerante, «senza avere dove posare il capo» (Luca 9,58); sarebbe un ripristino del Gesù storico, un ritorno al passato. Ma abbiamo detto e ripetiamo: la risurrezione è un’altra cosa! Non la replica di ciò che è stato, ma l’apparizione di ciò che non era stato mai, del perfettamente nuovo, dell’inedito assoluto. Se le apparizioni del Risorto fossero effettivamente state visioni dei discepoli, sarebbero qualcosa che con la risurrezione di Gesù non ha nulla a che fare.
Dobbiamo dunque concludere che la risurrezione di Gesù è quello che dice la parola: Gesù, che era morto, è ora vivente, ma non più com’era prima, anche se il suo corpo completamente nuovo reca ancora i segni del suo martirio: è dunque sempre lui, Gesù di Nazareth, figlio di Maria, figlio dell’Uomo, figlio di Dio.
3. Che cosa ha prodotto la risurrezione? Qual è il suo frutto maggiore? È la religione cristiana. Se Gesù non fosse risorto, non sarebbe mai nato il cristianesimo e non esisterebbe la Chiesa cristiana. Perché ? Perché il Venerdì Santo non è morto solo Gesù, è morto anche quel poco di fede in Gesù che i discepoli ancora nutrivano. E a Pasqua, non è risorto solo Gesù, è risorta anche la fede in Gesù.
E qui dobbiamo fermarci un istante per mettere bene in luce questo carattere «pasquale» della fede cristiana, che in realtà è ben più che un «carattere» della fede, è il suo unico fondamento, la pietra angolare sulla quale si regge l’intero edificio cristiano. Il cristianesimo è, nostra conoscenza, l’unica religione al mondo che sia fondata su una risurrezione. Tutte le cosiddette «grandi religioni» (ma anche le altre) in generale fanno riferimento alla vita e soprattutto all’insegnamento di un Fondatore oppure a testi religiosi antichi considerati autorevoli e normativi: così abbiamo i grandi poemi dei Veda o del Bhagavadgita per l’induismo, gli scritti attribuiti a Mosè per l’ebraismo, l’insegnamento di Siddhārta per il buddhismo, il Corano e i Detti di Muhammad per l’islam. Anche il cristianesimo avrebbe potuto essere fondato sulla vita esemplare di Gesù e sul suo insegnamento: l’una e l’altro, insieme, costituivano un ricchissimo patrimonio più che sufficiente per fondare una religione.
Sarebbe anche stato un messaggio molto più immediatamente accessibile e comprensibile, quindi molto più convincente rispetto al messaggio centrato sulla morte e risurrezione di Gesù, indubbiamente più complicato, non facile da capire e ancora meno da accettare. Sarebbe stato molto più agevole e anche più conveniente per gli apostoli fondare la religione cristiana sulla vita e sull’insegnamento di Gesù, ma nessuno ci ha pensato neppure lontanamente, e probabilmente nessuno, tra i Dodici, era in grado di compiere un’impresa del genere, che comunque richiedeva un livello di cultura che nessuno di loro possedeva: erano «popolani senza istruzione» (Atti 4,13). L’apostolo Paolo sarebbe stato all’altezza di un’opera simile, ma proprio lui dichiarò apertamente di non essere interessato alla vita di Gesù (II Corinzi 5,16), ma solo alla sua morte e risurrezione: «Quando venni tra voi [cristiani di Corinto], mi proposi di non sapere altro fra voi, fuorché Gesù Cristo, e lui crocifisso» (I Corinzi 2,2). Nessuno quindi, tra gli apostoli, ha mai pensato di fondare il cristianesimo sulla vita e sull’insegnamento di Gesù, malgrado gli evidenti vantaggi che questa scelta avrebbe comportato.
È chiaro infatti che scegliendo di fondare la religione cristiana sulla morte e soprattutto sulla risurrezione di Gesù, è stato scelto il fondamento più discutibile, più problematico, meno credibile che si potesse immaginare. Qualunque altro fondamento sarebbe stato più plausibile. È allora inevitabile chiedersi: Perché questa scelta così facile da contestare? Perché porre il cristianesimo su un fondamento così opinabile, quindi, alla fine, così poco affidabile? La risposta può essere una sola: perché le cose sono andate proprio così. La fede dei discepoli era morta e sepolta insieme a Gesù, e nulla e nessuno avrebbe potuto risuscitarla se non Gesù stesso «risorto d’infra i morti» (II Timoteo 2,8).
Che cos’è dunque la risurrezione di Gesù? È per eccellenza l’“impossibile possibilità” (Karl Barth). Impossibile all’uomo, possibile a Dio. Dobbiamo parlare di miracolo? Sì, certamente. Siamo circondati da miracolo, per chi ha occhi per vedere, e non solo per guardare, per chi possiede ancora (o di nuovo) lo sguardo del bambino capace di stupirsi davanti a ciò che l’adulto considera normalità, mentre invece non lo è, come l’esistenza dell’universo, il sorgere del sole ogni giorno, un fiore che sboccia, un bambino che nasce. Il miracolo è la normalità di Dio. Dio fa solo miracoli. Quello accaduto nella notte di quel lontano «primo giorno della settimana» (Marco 16,2) è il più fecondo di tutti: ogni vivente trova lì la sua seconda nascita.
Beato chi crede non nei miracoli, ma in Dio che li fa.
Paolo Ricca (α1936), teologo e pastore valdese
Ripreso da “esodo” 2.22
Dibattito teologico. Sulla resurrezione di Gesù
Ferdinando Sudati (α 1046)i ha pubblicato in portoghese, su una rivista brasiliana, un saggio dal titolo: “La fede cristiana nella risurrezione e la crisi del linguaggio religioso nella postmodernità”. Adista Documenti 18/2023 ne pubblica alcuni stralci in italiano inviati dallo stesso autore.
La reale risurrezione di Gesù fa parte del kerygma (annuncio) cristiano da duemila anni, kerygma condiviso da cattolici, ortodossi e protestanti. La critica alla risurrezione di Gesù si può far iniziare già da alcuni personaggi del mondo antico; uno di questi è Celso (II secolo) che viene citato da Sudati.
Tra il 1774 e il 1778 il filosofo G. E. Lessing pubblicò un libro con alcuni manoscritti di H. S. Reimarus (1694-1768) dal titolo: “I frammenti dell’Anonimo di Wolfenbuttel” pubblicati da G. E. Lessing (Editrice Bibliopolis, Napoli 1977). Nei suoi manoscritti Reimarus distingue il Gesù della storia, per lui un rivoluzionario giudeo che non era riuscito a fondare un regno messianico terreno, dal Cristo della fede che si incontra nei Vangeli e nella predicazione della Chiesa. Questo Cristo per Reimarus è un’illusione creata dai discepoli di Gesù che rubarono il suo corpo dalla tomba inventando poi la dottrina della risurrezione.
L’influsso della ragione illuministica che vuole spiegare tutto razionalmente, escludendo dall’esistenza ciò che non è spiegabile, si vede anche nell’opera di D. F. Strauss (1808-1874): “La vita di Gesù, o esame critico della sua storia”, (2 voll., Edizioni La Vita Felice, Milano 2014), il quale così definisce il mito: «Noi chiamiamo mito evangelico un racconto che si riferisce immediatamente o mediatamente a Gesù e che noi non possiamo considerare come un fatto, ma come prodotto da un’idea dei suoi partigiani primitivi» (pag. 127). La risurrezione di Gesù dunque non è un fatto e rientra dunque nel mito. Come per Reimarus, anche per Strauss, tutto ciò che supera la ragione, rientra nel mito.
Nel XX secolo l’esegeta che più si è interessato del mito è stato sicuramente
Rudolf Bultmann (1884-1976) che nel 1941 pubblicò il celebre saggio: Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitizzazione del messaggio neotestamentario (Queriniana, Brescia 1970). In questo saggio Bultmann vuol metter in evidenza che il linguaggio mitico trasmette un messaggio che non è immediatamente accessibile al pensiero scientifico e dunque all’uomo moderno. Scrive Bultmann: come si fa a credere ai miracoli nel tempo «della luce elettrica e della radio»? (pag. 110). Come si fa nel nostro tempo a credere alla risurrezione di Gesù? Anche Bultmann è radicato in quel razionalismo che nega il soprannaturale, come i razionalisti del passato. Nel saggio ci sono testi molto belli su Cristo, e soprattutto si trova un aspetto caratteristico e interessante del pensiero di Bultmann, cioè «l’esigenza di interpretare in chiave esistenziale la mitologia del Nuovo Testamento» (pag. 129). Ma chi è Cristo per lui se scrive che «il Nuovo Testamento presenta Cristo come un evento mitico»? (pag. 158), se mitica è la sua preesistenza, la sua nascita verginale e la sua risurrezione reale? Il Cristo è stato crocifisso “per noi”, ma «non secondo una qualche teoria della soddisfazione o del sacrificio» (pag. 163); per Bultmann è decisiva la storicità di un evento, come è la crocifissione di Gesù, ma non è così per la sua risurrezione. Essa «non è certo un evento che appartenga alla storia e che come tale vada compresa nella sua portata» (pag. 165).
Sudati con il suo saggio si inserisce in questo filone razionalistico: «Di fronte alla risurrezione come evento non-storico, scrive, risulta incongruo anche fare appello ad atteggiamenti fideistici… La risurrezione di Gesù non è un evento che appartenga alla storia… Parlare della risurrezione di Gesù oggi… non è possibile senza una previa decostruzione di essa che conduca a una nuova interpretazione. Occorre, infatti, nello stesso tempo, elaborare un linguaggio nuovo, sia verbale, sia concettuale, che non ripugni all’intelligenza del cristiano che vive nelle coordinate umanistico-scientifiche dell’era attuale».
Ecco il punto decisivo: il confronto fondamentale per la fede è la scienza! Solo che la scienza con il suo metodo (la verifica sperimentale) non può dire nulla sulla fede, perché questa è al di fuori dal suo metodo. Inoltre, e questo è molto importante per il nostro argomento, oggi la scienza, dopo Popper e la fisica quantistica, non ha più quell’assolutezza che le attribuiva il razionalismo e lo scientismo.
K. R. Popper (1902-1994) nelle sue tesi sulla filosofia della scienza espresse nella sua opera fondamentale “La logica della ricerca” del 1935, esprime la sua critica originale al neopositivismo fondato sull’uso costante del «criterio di significanza», del quale Popper contesta la validità. Ad esso egli oppone il «criterio di falsificabilità», come il solo che debba essere usato per distinguere una teoria scientifica. Questa si contraddistingue per la sua possibilità di essere controllata e quindi falsificata empiricamente. Ciò comporta una concezione fallibilista del sapere che è valida per Popper non soltanto nelle scienze naturali, ma anche storico-sociali.
Un’altra disciplina che mette in crisi l’assolutismo della scienza di stampo razionalistico è la fisica quantistica. Sudati non sembra tener conto né di Popper, né della fisica quantistica quando parla di scienza. «La teoria dei quanti, scrive Carlo Rovelli (α1956) , tanto nella versione di Heisenberg che nella versione di Schrodinger, produce possibilità, non certezze» (C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020). In pratica la teoria dei quanti contraddice la fisica classica. «Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni». Questa teoria vale per tutti gli oggetti dell’universo; non ci sono proprietà al di fuori delle interazioni. «Il mondo dei quanti è quindi più tenue di quello immaginato dalla vecchia fisica, è fatto solo di interazioni, accadimenti, eventi discontinui, senza permanenza. È un mondo con una trama rada, come un merletto di Burano. Ogni interazione è un evento, e sono questi eventi lievi ed effimeri che costituiscono la realtà, non i pesanti oggetti carichi di proprietà assolute che la nostra filosofia poneva a supporto di questi eventi» (pagg. 84,92).
A questo punto mi piace riportare quanto scrive Daniela Nucci su Adista Segni Nuovi n.17 (6 maggio 2023) www.adista.it/articolo/69948 nel suo articolo: “L’energia quantistica di Gesù”: la fisica quantistica «ha rivoluzionato l’intera concezione della realtà. La fisica nucleare ci ha aperto a verità sorprendenti sulla materia affermando che tutto è energia, che ogni atomo vibra intorno al nucleo in una sorta di “danza cosmica”; che l’energia che ruota più lentamente è spessa, corporea, e dà vita alla materia, mentre quella che ruota più velocemente è più sottile e dà vita agli stati spirituali. È tutto un mondo che sta al di là delle nostre percezioni sensoriali. Ci ha rivelato la sostanziale unità dell’universo le cui componenti non possono essere scomposte: tutto è collegato, tutti siamo collegati. Indagando sulla natura essenziale delle cose si è scoperto una realtà diversa dietro l’apparenza visibile». E riferendosi alla risurrezione di Gesù: «Nessuno sa cosa sia realmente successo in quella tomba dove era deposto il corpo inanimato di Gesù». Le apparizioni di Gesù ai discepoli potrebbero essere la prova che la morte è solo «un passaggio da un mondo a un altro, non a quel nulla di cui tanti parlano. Tutto nel creato è vita. È possibile che il Nazareno sia passato da questa dimensione fisica a una spirituale e che abbia assunto un “corpo etereo”… Se i discepoli non hanno riconosciuto il loro maestro nelle apparizioni, significa che la modalità della presenza di Gesù era cambiata. Ha sempre un corpo, ma diverso da quello che aveva quando era in vita: ora il suo è un corpo sottile, energetico, che può attraversare la materia, apparire e scomparire. Vive in una nuova dimensione non più soggetta alle leggi del tempo e dello spazio. È entrato nella vita di Dio ed è divenuto eternamente vivente».
Le “coordinate umanistico-scientifiche dell’era attuale” non sono così assolute come credeva Bultmann, come credevano e credono ancora tanti altri e anche Sudati. Dopo Popper e la fisica quantistica la risurrezione reale di Gesù può trovare spazio in una fede, anche perché ci sono testimonianze che rendono possibile questa fede.
1) La più antica e la più importante è sicuramente quella dell’apostolo Paolo contenuta nella prima lettera ai Corinzi 15,3-8, scritta attorno al 56: «A voi fratelli ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me, come a un aborto». Quella di Paolo è una testimonianza personale, difficilmente criticabile da un punto di vista storico, come sono le lettere di Cicerone, di Plinio il Giovane o di Seneca; diversamente bisognerebbe cancellare pagine di storia romana.
Sappiamo che Paolo si è confrontato con Pietro e con Giacomo, il fratello del Signore (Gal 1,18-19); quattordici anni dopo incontra ancora Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le “colonne” della Chiesa di Gerusalemme (Gal 2,1-9). Gesù apparve anche a più di cinquecento persone, alcune delle quali erano ancora in vita nel 56, e quindi si potevano interrogare sulla risurrezione di Gesù. Apparve anche a Giacomo, fratello di Gesù, capo della Chiesa di Gerusalemme, fatto uccidere dal sommo sacerdote Anano nel 62 (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche” XX, 197-203); apparve a tutti gli apostoli, un gruppo più vasto di quello dei Dodici. Infine apparve anche a Paolo. Ci sono dunque testimonianze varie e solide sulla risurrezione di Gesù.
Udo Schnelle, (α1952) autore di un recente e ottimo libro su Paolo (Paolo. Vita e pensiero, Paideia, Brescia 2018), difende in maniera molto convincente la risurrezione reale di Gesù, anche contro Bultmann, secondo il quale, come abbiamo visto, la risurrezione di Gesù dai morti è un mito (pag. 448). La risurrezione di Gesù, secondo Schelle, «è un evento corporeo, è dunque avvenuto nello spazio e nel tempo» (pag. 448), e quindi storico. Nelle pagine 445-465 l’autore espone il pensiero di Paolo sulla risurrezione di Gesù: «L’ampliamento di Paolo dell’elenco dei testimoni (1Cor 15,6-9) serve a comprovare la realtà fisica e di conseguenza verificabile, della risurrezione di Gesù dai morti» (pag. 448).
2) Sudati nel suo saggio continua: le apparizioni di Gesù «possono essere ricondotte a esperienze mistiche o a un fenomeno allucinatorio». È difficile pensare a un fenomeno allucinatorio per tutte le persone citate sopra, e per tutte le persone e le donne citate nei Vangeli. Tutti allucinati? L’allucinazione può al massimo valere per qualche persona, se non per una sola persona.
3) Ciò vale anche per «lo sconvolgimento emotivo o l’alterazione di coscienza». Tutti quelli di sopra sono stati sconvolti o alterati nella coscienza contemporaneamente? Neppure vale l’ipotesi che si siano messi d’accordo, perché i testi del Nuovo Testamento che parlano della risurrezione di Gesù sono stati scritti in tempi diversi, da autori diversi, in luoghi diversi, e tanti autori non si conoscevano neppure tra di loro.
4) Tutti i testimoni elencati volevano arrivare a conclusioni che confermassero ciò che essi già credevano o volevano credere? Ecc., ecc.
Paolo è il discepolo più geniale di Gesù; per predicare la morte e la risurrezione di Gesù, ha viaggiato per l’impero romano per circa trent’anni tra pericoli, sofferenze e avventure di ogni genere, come egli stesso racconta nella 2Cor 11,23-29. La morte e la risurrezione di Gesù sono il centro della sua predicazione, tanto che arriva a scrivere: «Se Cristo non è risorto vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1Cor 15,14).
Per tutto questo, sulla risurrezione di Gesù preferisco credere a Paolo più che a Bultmann, a tutti i razionalisti e anche a Sudati, che scrivono anche 2.000 anni dopo di lui.
Ermanno Arrigoni è laureato in Filosofia, dottorato in Teologia alla Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale di Milano, ha insegnato Storia e Filosofia al liceo.
www.adista.it/articolo/70133
DALLA NAVATA
XI domenica del tempo ordinario (anno A)
Esodo 19, 06. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.
Salmo responsoriale 99, 05. Buono è il Signore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione.
Paolo ai Romani 05, 11. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Matteo 10. 01. Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità.
la Parola in cammino
Il Vangelo di questa domenica ci presenta un Gesù attento alle persone che ha intorno. La loro situazione quasi mortale, non tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista spirituale, umano, lo commuove profondamente. Ai suoi occhi sono come «pecore stanche e sfinite che non hanno un pastore».
Ancora una volta questa immagine appare molto lontana dalla nostra sensibilità, e il pensare a delle «pecore» suscita l’impressione che si stia trattando di persone semplici, incapaci di agire, di pensare autonomamente, come una massa che va governata dall’alto, attraverso delle indicazioni semplici e chiare. Ma in realtà non è questo il senso della metafora usata da Gesù.
In un mondo in cui la pastorizia aveva un suo importante ruolo economico e rappresentava una buona fetta della produzione alimentare del paese, il rapporto pastore-pecore era di ben altro valore. Se si pensa a quante volte le pecore compaiono nei Vangeli si comprende come esse rappresentino un grande valore, prese anche nella loro singolarità; hanno capacità di ascolto, riconoscono il pastore buono e sono ben consapevoli dei lupi, dei briganti e dei cattivi pastori.
Ora queste pecore sono «stanche e sfinite» perché non hanno un «pastore». Non hanno cioè un orizzonte valido, che offra loro senso, non c’è nessuno che cammini con loro e in mezzo a loro, non vedono una strada che si possa percorrere per giungere al pascolo, per ritornare a «casa», all’ovile.
Quasi cambiando discorso – in realtà è solo l’utilizzo di un’altra immagine –, Gesù parla poi della messe. Una messe abbondante, ma che attende di essere mietuta, raccolta; e anche qui gli operai sono pochi, insufficienti per tutto quel raccolto. Colpisce, allora, un particolare: Gesù non chiede che si vadano a chiamare altri operai, ma chiede di pregare «il signore della messe» perché mandi operai alla «sua» messe. Questo significa che non tutti gli operai sono adatti a questo raccolto, e che vi è un particolare legame tra la messe e il padrone della messe. Non si tratta solo di un campo rigoglioso di spighe da raccogliere, ma di una realtà che esprime un profondo vincolo di relazione: ogni spiga è una «sua» spiga e chi è inviato a raccoglierla deve averlo bene in mente.
Il terzo passaggio che Gesù fa è questa volta rivolto ai suoi dodici discepoli: prima di tutto li «chiama a sé», cioè chiede loro di avere una personale relazione con lui; e sarà proprio questa relazione che, poi, permetterà loro di agire nel suo nome, di ricevere il «potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e infermità». L’invio è inoltre accompagnato da alcune raccomandazioni importanti: «non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani».
Anche qui, a prima vista, sembrerebbe che Gesù dia delle indicazioni di sapore elitario se non razzista, ponendo i pagani e i samaritani in una situazione di inferiorità e indegnità nel ricevere i benefici che la visitazione dei suoi discepoli porta con sé. In realtà sappiamo bene che non è questo il senso: sia i pagani che i samaritani, nella narrazione evangelica, sono oggetto di attenzione da parte di Gesù e sarà egli stesso a portare loro l’annuncio di salvezza; si pensi, per esempio, all’episodio della Samaritana, dell’indemoniato di Gerasa, della moltiplicazione dei pani nel territorio della Decapoli, ecc.
Che cosa significano allora queste raccomandazioni rivolte ai discepoli? Si tratta, in realtà, di una messa in guardia a non assumere caratteristiche culturali o comportamentali che siano pagane, a non permettere che divisioni, scismi, possano compromettere l’autenticità della loro missione e della loro testimonianza. Per ultimo, ma non da ultimo, i discepoli devono sempre avere bene in mente la gratuità, una gratuità per prima cosa ricevuta e poi, proprio per questo, ridonata: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
Di fronte a questa pagina evangelica, allo sguardo di Gesù verso le pecore e la messe, alle raccomandazioni che vengono rivolte ai discepoli, mi viene da chiedermi: a che punto siamo?, che cosa vedrebbe oggi Gesù, guardando la nostra realtà, «i pascoli e i campi coltivati»? E mi viene in mente un agile libretto che Antonio Rosmini, (α1797-ω1855)scrisse nel 1848 dedicandolo al «Clero cattolico» e intitolandolo “Delle cinque piaghe della santa Chiesa”.
- La prima piaga è «la divisione del popolo dal clero nel pubblico culto»,
- la seconda è «l’insufficiente educazione del clero»,
- la terza è «la disunione dei vescovi»,
- la quarta è «la nomina dei vescovi abbandonata al potere laicale»;
- la quinta è «la servitù dei beni ecclesiastici».
Ora, se applichiamo una piccola variante alla quarta piaga in questo modo: «la nomina dei vescovi abbandonata al potere dei movimenti laicali nella Chiesa», possiamo concludere con lo stesso sguardo disincantato del Qohelet: «non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9). Ma uno sguardo «disincantato» non è uno sguardo disperato, anzi è l’unico che veramente tiene aperte le porte alla speranza: è solo riconoscendo l’origine della «piaga» che si può provvedere alla sua cura.
Ester Abbattista, biblista
DONNE NELLA (per la ) CHIESA
Il sesso femminile come impedimento o come opportunità: è davvero una questione dottrinale?
Quando si studiano le questioni che riguardano il soggetto del “ministero ordinato”, non è difficile trovare nei manuali una distinzione ragionevole, ma che merita di essere riletta con maggiore attenzione. Si dice, di solito, che la questione della “ordinazione di uomini sposati” è questione di carattere disciplinare, mentre la questione della “ordinazione delle donne” è questione di carattere dottrinale. Questa distinzione dovrebbe essere discussa. Perché a me sembra che, considerando la tradizione, la esclusione della donna dalla ordinazione non risulti un contenuto “de fide”, ma un tema “de moribus”. I costumi, tuttavia, possono cambiare senza che con ciò cambi la fede. Su questo, credo, non si possa dubitare.
Impegnare il magistero definitivo (o addirittura il magistero infallibile) su questioni che possono mutare secondo la storia e la coscienza sembra una procedura non solo rischiosa, ma contraddittoria rispetto al compito di “confirmare” che il magistero dovrebbe garantire. Il magistero non ha mai inteso utilizzare la funzione di confirmare, al suo livello più alto, su materie che sono soggette al cambiamento storico. Non avrebbe avuto senso impegnare il magistero definitivo nei giudizi sulla astronomia tolemaica o copernicana, nei giudizi sulla geografia europea o americana, nei giudizi sulla antropologia civilizzata o primitiva. Nessuno si è mai sognato di vincolare la Chiesa ad un giudizio contingente, pur essendovi stati, lungo la storia, giudizi pesantemente limitati, espressi da parte di uomini di Chiesa. Il magistero custodisce un “depositum” che non è una enciclopedia con tutte le definizioni al loro posto. Anche il Catechismo, esercizio magisteriale ragguardevole, ma non definitivo, non può essere considerato un prontuario per risolvere ogni questione, ma un indirizzo autorevole di orientamento dello sguardo, sempre sottoposto a nuove evidenze possibili ed anche a correzioni necessarie.
La definizione del sesso femminile (e reciprocamente, del sesso maschile) non appartiene ai compiti ultimi del magistero. Giustamente, lungo la storia, la parola autorevole dei vescovi e dei vescovi di Roma ha utilizzato non solo la parola biblica, ma le comprensioni che il mondo giudaico, greco, romano, visigoto, franco, longobardo, sassone e poi americano, indiano, russo, africano e asiatico hanno offerto del soggetto femminile e del soggetto maschile. In questa complessità non esiste una dottrina compiuta sulla donna e sull’uomo. Dire questo non significa che non vi siano autorevoli linee interpretative, ricche e fondamentali, a proposito della relazione umana e della relazione sessuale, della identità umana e della identità sessuata, ma che non chiudono il profilo interpretativo del maschile e del femminile, il quale dipende sempre anche dal contesto culturale entro il quale e grazie al quale la esperienza del femminile e del maschile si configura, prende coscienza e forma storicamente una coscienza di sé e dell’altro da sé.
Se osserviamo la tradizione non è difficile notare come il trattamento del “sesso femminile”, sia da punto di vista della creazione, sia dal punto di vista della redenzione, conosca una argomentazione che non si può definire “dottrinale” in senso stretto. La tradizione non ha voluto costruire una compiuta “dottrina del femminile”, ma ha assunto, di volta in volta, concezioni culturali disponibili e autorevoli nel contesto comunicativo della pastorale o della ricerca teologica.
Osserviamo due casi classici: Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto.
Tommaso (α1225-ω1274) Giovanni (α1265-ω1308)
In entrambi la considerazione del “sesso femminile” trova un fondamento ritenuto “rivelato”, perché basato su una interpretazione della creazione e della volontà di Cristo, fondata anche su evidenze di carattere antropologico, mediate dal pensiero filosofico, attraverso le quali viene letta la tradizione biblica. Da un lato, infatti, la creazione della donna, tratta “dal fianco” di Adamo, viene riconosciuta né come padrona, né come schiava, ma come “socia”. Ma una comprensione della donna segnata da “naturale soggezione”, la restituisce ad un orizzonte di “schiavitù insuperabile”. Da questa confusione dei piani, che attribuisce alla creazione un disegno di strutturale subordinazione della donna all’uomo in fatto di “auctoritas”, discende la conclusione per cui, secondo Tommaso, gli impedimenti alla ordinazione sono di due tipi: ratione præcepti, perché superabili, e ratione sacramenti, perché insuperabili. Ma la “ratio” di queste due rationes non dipende dalla rivelazione, bensì dalla antropologia e dalla sociologia del tempo di Tommaso. L’idea che la donna non possa “emanciparsi dalla schiavitù” è la guida teoretica di Tommaso, che non può più essere tale né per noi, né per il nostro magistero. E il magistero lo sa.
In modo diverso, Giovanni Duns Scoto procede ad una rilettura della tradizione con la preoccupazione di non perdere il rapporto della dottrina cristiana con la “legge naturale”. Sebbene Duns Scoto ponga recisamente la questione della fondazione cristologica della esclusività maschile, basata tuttavia su una esegesi curiosa dei testi paolini, quando giunge alle conclusioni del suo ragionamento approda ad una sintesi assai interessante. Dice infatti: “quantum ad gloriam consequendam et ad gratiam habendam, non est distinctio in lege Christi inter fœminam et macellum, quia tantam gratiam habere et tantam gloriam attingere potest illis, sicut iste; sed quantum ad gradum excellentem habendum in Ecclesia, bene decet esse distinctionem inter virum et mulierem in lege Christi, quia hoc consonat legi naturæ” (Johannis Duns Scoti, Quæstiones in librum quartum sententiarum, d. XXV, q. II).
Il “grado più alto da avere nella Chiesa” richiede una “differenza tra maschio e femmina” in cui la “legge di Cristo” esige una consonanza con la legge naturale. Anche in questo caso, la consonanza con la legge naturale non dipende dal pregiudizio, ma dal giudizio. Questo giudizio ha trovato, nella ragione che coglie la legge naturale, una evoluzione decisiva negli ultimi due secoli. Se la “legge naturale” fosse pensata come un dato immutabile, la società non avrebbe potuto diventare “aperta”, ma sarebbe strutturalmente “chiusa”. Una legge naturale che fissasse una volta per tutte il profilo del femminile e del maschile, sarebbe in contraddizione con lo sviluppo dei costumi che l’ultimo secolo ha visto affermarsi, anche nella Chiesa.
Questo sviluppo rende possibile, come cosa prima inaudita e scandalosa, che le donne possano svolgere compiti “pubblici” ritenuti prima inadeguati, indecorosi o “infami” addirittura. Che una donna oggi possa essere “pubblico ministero”, “ministro della Repubblica”, “cardiologo”, “avvocato”, “taxista, “carabiniere” o “camionista” è un mutamento della legge naturale con la quale la legge di Cristo non può non concordare. In qualche modo, siamo di fronte ad una ridefinizione di ciò che è ritenuto “naturale” per la donna. L’idea che alla Chiesa sia sottratta la possibilità di accedere a questa consonanza – e che quindi la “riserva maschile” del ministero ordinato segua una “legge” incompatibile con la aggiornata legge naturale (secondo Duns Scoto), o con il nuovo riconoscimento della eminenza nella autorità (secondo Tommaso d’Aquino) – è la ipotesi che la dottrinalizzazione del “sesso femminile” ha introdotto nel cattolicesimo, indirettamente con il Codice del 1917, direttamente con “Inter Insigniores” e con “Ordinatio sacerdotalis”.
È chiaro che questo modo di argomentare costituisce una discontinuità significativa con lo stile classico e implica una “separazione” della esperienza ecclesiale della autorità, che non riesce più a trovare consonanza né con le evidenze antropologiche, né con le norme giuridiche extra ecclesiali. Se il sesso femminile viene ancora percepito come “impedimento”, è difficile entrare in consonanza con il segno dei tempi della donna riconosciuta apertamente come libero soggetto (e non come necessariamente o dogmaticamente soggetta) “in re pubblica”. Di qui l’aspra dissonanza tra una Chiesa che grida giustamente per i diritti delle donne fuori di sé e non vede la discriminazione che alimenta con la dichiarazione di “non avere la facoltà di integrare la donna nel ministero ordinato”, cosa che si traduce, purtroppo, nel riconoscersi la facoltà di escludere la donna dal ministero ordinato. Che una opportunità continui ad essere giudicata come un impedimento non è una bella cosa, né per la donna, né per la Chiesa. E non basta confessare la propria presunta impotenza per mettersi il cuore in pace.
Andrea Grillo blog: Come se non 12 giugno 2023
Anche le consacrate infrangono il tetto di cristallo
Una foto sta facendo il giro d’Italia in queste ultime settimane: l’abbadessa di un convento di clausura, ritratta di spalle sul terrazzo del monastero, che esulta, sventolando una bandiera, per lo scudetto vinto dal Napoli. Conosco la religiosa. È una suora che scrive e frequenta gli archivi, maneggiando con perizia professionale le fonti storiche e che ha fatto di un piccolo monastero, nel cuore antico e popolare di Napoli, un luogo di incontro e di manifestazioni religiose e culturali. Parto da lei per provare a esplorare un mondo variegato e in trasformazione, attraversato da fermenti e contraddizioni e dove la frontiera spesso convive con la retrovia, che è quello delle donne consacrate. Si incontrano oggi tra loro molte donne che non ci stanno più nei cliché rigidi imposti dalla tradizione e che rispondono molto meno di qualche tempo fa all’immaginario collettivo su di loro.
Si potrebbe osservare che di religiose fuori standard se ne incontrano diverse nella storia, ed è certamente vero. Basti pensare a
Teresa d’Avila (α1515-ω1582, definita dal nunzio pontificio «femmina inquieta e vagabonda» per la sua esigenza di riformare il Carmelo e per le iniziative che mise coraggiosamente in campo; a Juana Inés de la Cruz, la religiosa che scriveva poesie e che nel Messico di età moderna incarnò un profilo di altissima levatura culturale;
a Caritas Pirckheimer (α1467-ω1532), monaca clarissa che a Norimberga, quando la città diventò interamente protestante, scelse con le sue consorelle di non sciogliere la comunità, resistendo alle pressioni familiari e cittadine per esercitare il diritto, neanche ancora lontanamente formulato a quei tempi, all’autodeterminazione e per di più femminile. E poi a Mary Ward (α1585-ω1645) e al suo progetto, siamo nel XVII secolo, che volle per le donne uguale a quello della Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola; aveva pensato a una vita religiosa femminile libera da abiti e regole, interamente dedita all’apostolato negli stessi campi dei gesuiti: educazione, confronto con gli eretici, presenza dove si annidano i mali della società e che Urbano VIII definì «velenosa escrescenza nella Chiesa». Lei scriveva: «Alcuni, pensando che siamo donne […], sperano forse di vederci cadere o rimanere manchevoli in molte cose; altri ancora, stimando che siamo solo donne […], si attendono di vederci raffreddare nel fervore e che quindi tutto si dissolva in nulla, a nostra vergogna e confusione»; e, ancora, all’orsolina
Marie Guyard, Marie de l’Incarnation, (α1599-ω1672)che nel 1639, arrivata in Canada, scelse come suo ambito di azione l’insegnamento alle ragazze indigene: «Sono sufficientemente dotta per insegnare [Gesù Cristo] a tutte le nazioni», diceva. O, ancora, procedendo più avanti nel tempo, a
Francesca Cabrini (α1850-ω1917)e alle sue sorelle imbarcate sulle navi che portavano gli emigranti in America, o ad un’icona del Novecento,
suor Rosemary Lynch, (α1917-ω2011) francescana nonviolenta finita anche in prigione per le proteste organizzate intorno al Nevada test site dove si sperimentava con gli ordigni nucleari. Vi sono state religiose così nella storia, che hanno trovato nella vita religiosa occasioni e opportunità per esprimere sé stesse e su cui certo non si sono accesi riflettori adatti a farne risaltare le specificità e la grandezza.
Vi sono, nel presente, molte religiose che interpretano in modi non consueti la loro scelta di vita. Personalità prorompenti o suore che ce l’hanno fatta a infrangere un pezzettino di quel tetto di cristallo che sta sul capo delle donne, anche religiose. Si pensi alla sottosegretaria del Sinodo dei vescovi, con diritto di voto, suor Nathalie Becquart, (α1969) nominata a tale ruolo da papa Francesco nel 2021.
O a suor Jeanine Gramick, (α1942) la suora con un dottorato in scienze matematiche, osteggiata in passato per il suo coraggioso e schierato impegno a favore delle persone Lgbtq+ – su di lei grava una condanna della Congregazione per la dottrina della Fede del 1999 – e finalmente riconosciuta da papa Francesco, in una lettera che le ha scritto nel 2022 ringraziandola per la sua vicinanza, compassione e tenerezza con le persone omosessuali. O, ancora,
a Teresa Forcades, (α1966), medico, benedettina di Montserrat, teologa femminista, una delle esponenti di punta della teologia queer. Sono solo esempi, scelti per indicare ambiti, spazi e peculiarità diversi, ma l’elenco si potrebbe allungare moltissimo.
C’è poi un pullulare di forme di vita religiosa che si collocano molto variamente quanto a ispirazione, vedute, obiettivi, nel panorama ecclesiastico attuale, tra cui forme nuove sviluppatesi nell’ambito delle società di vita apostolica e degli istituti secolari e realtà come l’Ordo virginum. Ma si registra anche la nascita di nuovi fenomeni come Iesu Communio, la comunità di religiose contemplative la cui età media, in Spagna, abbassa notevolmente quella delle altre religiose e la cui fondatrice è
suor Verónica Berzosa Martínez, α1965 oggi nella cinquantina, dalle sopracciglia perfette e che ha scelto come abito un saio di tela jeans. La nuova famiglia religiosa ha fatto discutere non poco per le contiguità che sembra avere con l’Opus Dei, banche importanti (che pare abbiano finanziato la costruzione della loro casa) e ambienti conservatori.
Un mondo plurale, dunque, che attraverso l’Unione Internazionale delle Superiori Generali, sta cercando di conquistare una presenza e una voce e spesso chiede di contare, prendendo posizione anche su urgenti questioni come le disuguaglianze sociali, il disastro ecologico, le discriminazioni sui migranti. Suore che esercitano ruoli di leadership e anche di guida spirituale e che vogliono che tali ruoli vengano riconosciuti ed ampliati; che chiedono di esercitare il diritto di voto, senza temere che queste richieste passino per “rivendicazioni”: lo stigma mistificante che viene ancora troppo spesso applicato alle donne che ambiscono, semplicemente, alla giustizia di genere. Ci sono suore che pongono la questione di una contrattualizzazione delle loro prestazioni d’opera, che spesso passano per volontariato, anche presso le realtà diocesane, e che invece si configurano come sfruttamento. E anche suore che trovano il coraggio di parlare del loro orientamento sessuale, come hanno fatto nel volume curato nella versione italiana da Cristina Simonelli e Laura Scarmoncin, “Nella giustizia e nella tenerezza. Storie sacre di suore lesbiche”, pubblicato da Effatà.
Il mondo plurale delle consacrate è formato anche dalle schiere di suore reclutate in Asia e in Africa e tradotte in Europa a garantire futuro assistenziale a congregazioni di anziane suore occidentali. Così come dalle suore vittime di preti che le hanno abusate, spesso approfittando di un potere che deriva da una presunta sacralità e ciò si è risolto in un’ulteriore umiliazione per queste donne sottomesse, accusate di essere psicologicamente deboli per essersi lasciate sopraffare. E poi ci sono le martiri; suore che continuano a morire vittime di guerre e di lotte per il predominio in Asia, in Africa, nelle Americhe. Ma ci sono anche le suore che purtroppo studiano ancora poco, che vorrebbero farlo ma non viene loro concesso, quasi che la formazione culturale, biblica, teologica fosse un optional per le religiose, mentre è considerata una necessità per preti e religiosi. Si potrebbe affermare che nei ranghi si affanna ancora. In molti contesti le suore sono le meno libere tra le donne, tenute ancora sotto tutela e “protezione”, impegnate in attività di piccolo supporto e manovalanza parrocchiale; considerate “minori” in una Chiesa maschile; sebbene la vulgata contraria, vedendo le donne e le suore dappertutto nella Chiesa, preferisca pensare che abbiano spazi, piuttosto che concludere che nonostante le donne siano la maggioranza numerica, nella Chiesa è la minoranza maschile che comanda.
E non c’è da meravigliarsi se un’esigenza e una consapevolezza femministe comincino a farsi strada tra le religiose. Il 22 ottobre 2021, incontrando le partecipanti al Capitolo generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice – le suore salesiane – papa Francesco ha esortato le suore a non essere «zitellone» e poi, proseguendo nel suo discorso, le ha invitate ad essere «madri». Nonostante le “cautele” con cui il papa l’ha usata, l’espressione “zitellone” ha fatto discutere e ha ferito non poche religiose, che hanno visto profilarsi davanti a loro il pregiudizio nei confronti delle donne che non sono veramente tali se non sono mogli e, anche, madri. Né mogli né madri. È così che molte religiose vogliono essere e così vogliono essere viste, dentro la Chiesa in primis.
Quale futuro immaginare, per quel che riguarda la vita religiosa femminile, attiva o contemplativa che sia?
Nonostante i fermenti che la attraversano, essa resta tuttavia in forte contrazione e i problemi di sopravvivenza riguardano quasi tutti gli ordini, le congregazioni e le forme varie di vita consacrata. Che cosa è ragionevole aspettarsi? Che tutto il movimento e le espressioni vitali producano alla fine delle novità: fuori dai recinti, molto probabilmente.
Anna Carfora, Adista 17 giugno 2023
saggista, docente di Storia della Chiesa – Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale.
www.adista.it/articolo/70180
ECCLESIOLOGIA
Il piccolo gregge e la cittadella
Vent’anni fa il prete teologo e filosofo francese Maurice Bellet (α1923-ω2018), prendendo atto della crisi che minacciava il futuro del cattolicesimo, pubblicava un libro capace di scuotere molti credenti e di porre interrogativi drammatici per la chiesa. Il titolo, “La quarta ipotesi”, lasciava intuire ciò che Bellet auspicava: una rinascita del cristianesimo, un nuovo inizio che prendesse atto di ciò che sta morendo, di ciò che non ha più una parola convincente nell’oggi della storia. Delle altre ipotesi formulate quella presentata come la più probabile era tuttavia un procedere stanco della fede cristiana con saltuari tentativi di rinnovamento, operazioni di maquillage, che però non sarebbero riusciti ad assicurare un futuro e una propulsione alla chiesa
Bellet intravvedeva anche la possibilità di un’uscita di scena dolce, indolore, della fede cristiana ormai dissolta in cultura, nei valori della società occidentale, in quanto avrebbe esaurito il suo compito e il domani sarebbe rimasto impermeabile, indifferente e insensibile all’annuncio del Vangelo.
Nel libro di Bellet non compariva però un’altra ipotesi: la riduzione della chiesa a minoranza in diaspora, con forte identità, esposta alla tentazione delle dinamiche settarie: pochi ma zelanti, dispersi ma capaci di una coesa contrapposizione al mondo, combattenti assediati in cittadelle aventi come stile l’affermazione della loro differenza.
Sono passati vent’anni e si continuano a formulare ipotesi sul futuro del cristianesimo, anche perché la sua crisi si è aggravata in occidente, ma si può constatare che queste si sono ridotte. Sì, ridotte essenzialmente a due:
- l’ipotesi che appare sempre più seducente – soprattutto in paesi come gli Stati Uniti, e in Europa la Francia – è quella di un cattolicesimo con una forte identità, che dia la precedenza all’identità cattolica rispetto a quella cristiana. Il cattolicesimo, espressione della fede della chiesa romana degli ultimi secoli, va assolutamente recuperato anche perché il tradizionalismo sembra sempre più seducente e vincente in quest’epoca di incertezze. Chi si riconosce in questa tendenza non pensa certo a una “minoranza-piccolo gregge”, una minoranza significativa secondo il Vangelo, una minoranza che sia sale e lievito nella pasta, ma a una cittadella, quella dei “pochi, ma puri e osservanti”.
- Questa visione non collima certo con l’ipotesi formulata più volte dal Cardinale e poi Papa Ratzinger, che profetizzava sì una chiesa-minoranza, ma presenza ospitale nella compagnia degli uomini e non contro il mondo. Proprio questa visione di Ratzinger, che è molto vicina all’ipotesi caldeggiata da Maurice Bellet, resta attuale proprio perché consente al cristianesimo di ricominciare sempre, di rinascere sempre e di attrarre uomini e donne pellegrini sulle strade di quella speranza che il Vangelo dischiude.
Ma, proprio perché le ipotesi si sono ridotte e i cristiani di entrambe le posizioni devono accettare il fatto di essere minoranza nel mondo, occorrerà capacità di discernimento e grande responsabilità: resistere alla tendenza settaria che nutre l’orgoglio e fornisce una forte identità e imparare ogni giorno ad abitare questo mondo con tanta simpatia verso l’umanità, perché tutti fratelli, tutti alla ricerca della vita e della felicità. D’altronde questa quarta ipotesi è la più vicina alla visione della comunità cristiana tratteggiata da Gesù: piccolo gregge che, anche se attorniato da lupi, sceglie e vive la mitezza degli agnelli e non è tentato dall’inimicizia e dalla pretesa di possedere una verità che abbaglia.
Enzo Bianchi La Repubblica – 12 giugno 2023
www.repubblica.it/rubriche/2023/06/12/news/altrimenti_enzo_bianchi_lunedi_12_giugno_2023-404082918
www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/190614/il-piccolo-gregge-e-la-cittadella
Convertire la Chiesa per evitare il naufragio. Un libro di Ortensio da Spinetoli
«I figli che osano rimproverare la loro madre non l’amano meno di quelli che per falsa pietà o per opportunismo le celano i propri mali»: lo scriveva nel lontano 1975
p. Ortensio da Spinetoli (Nazzareno Urbanelli, (α α 1925-ω2015) nella conclusione di un suo celebre libro, “La conversione della Chiesa”. Con quel testo, il cappuccino teologo intendeva contribuire a un autentico rinnovamento della Chiesa, che in quell’anno celebrava il decimo anniversario dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Erano stati, i primi anni successivi al Concilio, anni di grandi speranze e di innovative esperienze liturgiche, pastorali, teologiche. Ma anche anni in cui molti avevano capito che l’istituzione, che si era inizialmente lasciata permeare dal vento di modernità, apertura, dialogo cui la società e gli stessi fedeli l’avevano sollecitata, si stava progressivamente richiudendo su sé stessa, guardando con malcelato sospetto, talvolta con aperta ostilità, alle punte più avanzate del dibattito ecclesiale e teologico.
A padre Ortensio il decennale dalla fine del Concilio parve un’occasione da non perdere per offrire una visione di Chiesa che corrispondesse alle grandi aspettative di tanta parte del mondo cattolico e di quello laico. Proprio in quel 1975, tra l’altro, si celebrava il Giubileo, che Ortensio segnalava come un evento la cui ideologia, così come la gerarchia ecclesiastica la stava proponendo, si presentava in aperto contrasto con la dirompenza dei documenti conciliari. E che la parola Giubileo – lo scriverà anche Giovanni Franzoni nel suo celebre “Farete riposare la terra”, qualche anno dopo (1996) – fa riferimento a una realtà del tutto diversa da quella “trionfante” con cui la Chiesa cattolica presenta sé stessa al mondo, perché nelle sue origini bibliche il giubileo è legato alla necessità di liberare l’uomo e il creato da tutte le forme di sfruttamento e ingiustizia.
Oggi, a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione del libro, e con un Giubileo nuovamente alle porte (quello del 2025, indetto da papa Francesco), il gruppo degli “amici di Ortensio”, che da anni operano per conservare e divulgare il suo pensiero e la sua testimonianza, ha pensato di ripubblicare “La conversione della Chiesa”, rendendola di nuovo disponibile, poiché l’edizione del 1975, della Cittadella, è ormai da tempo fuori catalogo.
La nuova edizione, pubblicata dal Pozzo di Giacobbe (pp. 180) è corredata da un saggio introduttivo di don Marcello Farina, prete e saggista trentino, studioso di teologia e filosofia, non mostra affatto i segni del tempo trascorso. Il libro resta davvero di grande attualità. Ortensio, a partire dal significato della parola “conversione” (ossia “mutamento progressivo, ma radicale”) conduce per mano il lettore attraverso sei capitoli:
- il primo parla della conversione giubilare, secondo il significato che quell’evento aveva nella Bibbia;
- il secondo parla della conversione al progetto di Dio a partire dalla conversione delle strutture di potere e privilegio, anche nella Chiesa;
- nel terzo si parla di “riconciliazione” in un senso nuovo, non più legato all’ottica della riparazione e del risarcimento dell’offesa recata a Dio, ma sulla riscoperta della sua straordinaria e unica benevolenza verso l’umanità. Per questo «riconciliarsi non è accettare, subire, tacere, ma cercare le condizioni più opportune e più favorevoli per un rapporto paritario, fraterno tra i componenti del popolo di Dio».
- Il successivo capitolo, il quarto, è invece incentrato sul senso biblico dell’evangelizzazione. Anche qui, Ortensio prima sfata l’idea che evangelizzare sia proporre/imporre una serie di verità precostituite e inconfutabili; poi, attraverso la demitizzazione e la deculturizzazione della predicazione evangelica, il teologo propone l’annuncio non come «un vademecum o un prontuario di risposte», ma come concreta attuazione di ciò che le parole di Gesù annunciano. E che ciascun discepolo di Gesù incarna con la propria vita spesa per il bene comune, con il Vangelo «che ognuno scrive con la propria vita».
- Nel quinto capitolo Ortensio riflette sulla funzione dei sacramenti. Che non vanno considerati «contenitori e veicoli materiali del soprannaturale», e nemmeno solo riti che non hanno valore in sé; le forme e i linguaggi possono (e devono) cambiare secondo i tempi e i contesti. Quello che resta è l’azione dell’impegno cristiano, «che non è ritualistico e culturalistico, ma umano e storico».
- Infine – e siamo al cap. 6 – Ortensio riflette sul fatto che la Chiesa ha ormai una incidenza sempre minore nella società contemporanea. «È da secoli che la Chiesa sembra far di tutto per non farsi capire, che percorre una strada opposta a quella della società». La Chiesa ha combattuto la Rivoluzione francese e quella proletaria, l’Illuminismo e il Protestantesimo, invece di consacrare con il suo carisma questi eventi e accoglierne i significati essenziali. «Ma il rifiuto di cambiare è il rifiuto di crescere». E «il Vangelo non è un messaggio chiuso, fermo, ma un fermento, un germe, che si sviluppa, matura, cresce con l’evolversi delle situazioni e condizioni dell’uomo. È sempre un annuncio di Dio, ma cammina, progredisce, avanza, “cambia” con l’essere umano chiamato a viverlo». Solo se la Chiesa smette di essere «un feudo di alcuni, pochi privilegiati» e diventa realmente comunità di fratelli potrà essere strumento credibile ed efficace testimone del Vangelo dentro il mondo che cambia.
Certo: chi oggi come 50 anni fa propone una visione profetica della Chiesa e della fede è spesso costretto a pagare prezzi alti, come accadde anche a Ortensio, respinto ed emarginato, come religioso e come teologo, dalla Chiesa che amava. Ma, lo scrive lui stesso: «L’amore alla Chiesa non si misura dagli onori che si accumulano, ma dalle sofferenze che si sopportano per il suo bene».
Valerio Gigante Adista Notizie n° 21 17 giugno 2023
La parrocchia prenda il largo in un nuovo Esodo
Il vescovo di Avellino, mons. Arturo Aiello (α1955), ha scritto una lettera a noi preti della diocesi, per proporre una soluzione alla crisi che anche la nostra porzione di Chiesa sta vivendo. Nel testo dà una lettura lucida di alcuni tra i problemi ecclesiali che siamo condannati a vivere nei nostri territori e, sono certo, altrove: «Mi sembra che tutto il tempo che impieghiamo per regolare, raddrizzare, orientare, restaurare la pastorale ordinaria sia come mettere mascara e fondotinta a un malato terminale. Dobbiamo continuare a fare le cose di sempre, possibilmente con amore, ma con la certezza che tra dieci anni, per lo più, sarà solo un reperto museale. Sono addolorato per quelli che fra voi pensano d’essere “gli ultimi dei Moicani” e che di questo mio messaggio, raccoglieranno solo la prima parte, a consolazione delle loro visioni apocalittiche. Da un lato bisogna fare una semplice “cura di mantenimento”, ma dall’altro bisogna preparare una pista su cui lo Spirito Santo possa atterrare per mostrare, a voi che sopravvivrete, la Terra Promessa dopo tanto vagare nel deserto».
Lo confesso, forse sono uno “degli ultimi Moicani”, perché sogno non un’altra Chiesa, ma una Chiesa-altra, che spero soppianti non la Chiesa, ma questa Chiesa; in fondo è avvenuto altre volte nella storia millenaria del sogno di Dio incarnato nella Chiesa: «Umana realtà impregnata di divina Presenza» (Lumen Gentium).
Nel territorio delle due parrocchie di cui sono parroco ci sono nove edifici di culto. In uno sto pensando di realizzare un pub-parrocchia che sia un luogo dove ci si incontri per divertirsi, per progettare e sperimentare vie nuove di impegno e, perché no, di spiritualità. Per incarnare la parrocchia nel nostro tempo, tirarla fuori da una crisi che sembra irreversibile, occorre forse ripartire da parole come “tempio” e “strada” che, spesso, sono viste in contraddizione tra loro: la preghiera, il culto, il catechismo, non sono affatto in alternativa, non sono inconciliabili con la carità, con la vita vissuta immergendosi nei problemi concreti degli uomini, nelle storie di ingiustizia, di violenza e di dolore che vengono vissute oltre il sagrato. Forse bisognerebbe trovare il coraggio di chiudere le parrocchie per qualche tempo per tornare, si spera, a desiderarle nuove e, approfittando della loro chiusura, iniziare – fuori da ogni clericalismo, anche da quello laico – un ampio e sincero confronto che abbia come guida lo Spirito Santo e che coinvolga tutti, ma veramente tutti coloro che hanno a cuore il futuro della Chiesa.
Le parole d’ordine identitarie che si ascoltano ancora nelle nostre parrocchie raccontano, al contrario, la scarsa fiducia nella libertà di pensiero, e quindi nello Spirito Santo che “soffia dove vuole”, e che si cerca invece di ingabbiare per non lasciarsi infastidire e smuovere dalla comoda convinzione che “si è sempre fatto così”.
Quanto avrebbe ancora da dire oggi la parrocchia se vissuta come comunità di fratelli e sorelle nella quale trovano posto tutte le diversità, dove albergano la misericordia e la condivisione, e un linguaggio nuovo indispensabile se si vuole essere capiti: lontano da formule stantie che sanno di muffa e autoreferenzialità, che poco dicono ai contemporanei, che sanno di stanchezza e pigrizia, che, a volte, rasentano la superstizione. La crisi della parrocchia va certamente compresa nel contesto più generalizzato di un profondo mutamento culturale e antropologico che investe il modo di vivere e che, insieme alla comunicazione digitale, dilata i confini dell’esistenza ed esige perciò una “parrocchia in uscita”, più flessibile, aperta, ospitale, connotata da una reale integrazione col territorio.
Per fare ciò, visto che non riusciamo più a essere interessanti, non dobbiamo temere i mezzi che il nostro tempo ci mette a disposizione: «Tra le meravigliose invenzioni tecniche che… l’ingegno umano è riuscito a trarre dal creato… rientrano la stampa, il cinema, la radio, la televisione», e internet! Il Decreto Conciliare “Inter Mirifica” ha inteso certamente dare un’indicazione positiva e “profetica” sull’uso di questi strumenti.
www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19631204_inter-mirifica_it.html
I mezzi di comunicazione sono comunque “un segno dei tempi”, costituiscono una sfida con cui misurarsi, senza farne degli idoli e senza demonizzarli; senza colonizzarli o, invece, lasciarli totalmente nelle mani degli altri. «Sono stato mandato a portare la buona notizia fino all’estremità del mondo», diceva Paolo. Oggi i social, nonostante tutto, sono lo strumento di comunicazione più straordinario che abbiamo a nostra disposizione. Se i mass media ci ospitano, tanto meglio, lasciamoci accogliere senza pregiudizi e senza condizioni. L’importante è essere veri, esprimere quello che ci anima. E, ancora e sempre, portare lontano la Parola.
Dal mio attuale minuscolo osservatorio sento il bisogno di credere che la Chiesa cattolica stia cambiando più di quanto si immagini: è ormai impossibile pensare a essa come un monolito, del tutto corrispondente al dettato dei numerosissimi documenti vaticani o alle oceaniche dirette televisive da piazza San Pietro. Per me, oggi, risulterebbe difficile comprendere la portata di questo cambiamento, se non facendo ricorso a rapporti allacciati negli anni con tante persone e comunità “evangelicamente progressiste” in tanta parte della Chiesa. Provvidenzialmente i lunghi anni di “terrore ecclesiale” durante il “regno” Wojtyla-Ratzinger, non sono riusciti a impedire che tante lillipuziane comunità proseguissero quel cammino di rinnovamento iniziato con il Concilio Ecumenico Vaticano II. La storia racconterà il trentennio del papa polacco e di quello tedesco e il sistematico tradimento, depotenziamento o lettura ristretta delle riforme apportate dal Concilio. A Roma, nonostante papa Francesco e il suo sogno di una “Chiesa in uscita”, c’è chi sembra non rendersi conto che i tempi sono cambiati, e continua a pretendere che il clero cattolico e i milioni di fedeli laici in tutto il mondo pensino all’unisono, che concordino in pieno con tutte le affermazioni del magistero in materia di pastorale e applichino tutte le indicazioni degli innumerevoli documenti che produce a getto continuo la Santa Sede. Al di là degli apparenti trionfi, negli ultimi anni si è intensificato un divario profondo tra la dottrina ufficiale e le coscienze dei fedeli, che tocca tanti aspetti dei rapporti tra messaggio cristiano e mondo moderno. Il Concilio, “prevedendo” i rischi a cui la Chiesa sarebbe andata incontro, ha tentato di dare risposte “profetiche”, su cui bisognerebbe tornare a riflettere onestamente e insieme.
I contadini delle mie zone temono un animaletto che infesta le campagne e ne inverte l’ordine; un insetto che, dicono con una sorta di meraviglia, guarda il mondo sott’e n’coppa, sottosopra; si chiama ’o ruofolo, il grillotalpa che da un lato danneggia le piante, dall’altro, con i suoi tunnel sotterranei, ossigena il terreno e permette alle piante di ricrescere. Sogno cristiani che assomiglino a questo animaletto, che si sentano liberi di criticare fraternamente chi ha ruoli decisionali nella Chiesa e, contemporaneamente, la “ossigenino” con la propria testimonianza. Sogno comunità che imparino a guardare il mondo e la Chiesa, da un punto di vista altro, da angolazioni scomode dalle quali nessuno si mette mai ad osservare; ci si renderà conto che da lì si notano sfumature che dal punto di vista scontato non si scorgono mai. Comunità pronte a difendere con dignità il proprio punto di vista e a confrontarlo fraternamente con altri, recuperando quella virtù dei martiri che va sotto il nome di “parresia”, sfrontatezza agli occhi del mondo, franchezza del testimone agli occhi di Dio. C’è ovviamente tanto di evangelico in tutto questo; c’è la beatitudine dei calpestati, degli scartati e degli sconfitti agli occhi degli uomini, ma non agli occhi di Dio che invece: «rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili; ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote» (Luca 1, 51-53). Appunto: il mondo capovolto!
Nel Vangelo c’è una parabola nella quale Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape, il più piccolo tra i semi che però diventa un arbusto frondoso, «e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra»: paradigma della Chiesa-altra che siamo chiamati a costruire come «convivialità delle differenze» (don Tonino Bello). Una Chiesa inclusiva, che non emargina, non usa la pesante scure del giudizio su nessuno, una «Chiesa degli esclusi e non dell’esclusione» (mons. Jacques Gaillot).
Le parrocchie, le comunità, il clero e i fedeli laici dovranno imparare a scoprire e percorrere vie nuove, inesplorate, spesso gioiose, a volte dolorose, ma sempre positive e ricche di insegnamenti. A noi cristiani è richiesto di “prendere il largo”, di lasciarci coinvolgere in un nuovo Esodo, di smuoverci dagli spazi chiusi che la sedentarietà e la pigrizia, la mancanza di spirito di iniziativa, la paura dell’imprevisto invitano a non abbandonare. Ci è richiesto di metterci in cammino, per incontrare, lungo la strada, come avveniva a Gesù, l’adultera, l’uomo lasciato mezzo morto dai ladroni o i discepoli che scappavano, tristi e sconfitti, verso Emmaus.
Vitaliano Della Sala (α1963) è parroco a Mercogliano (AV)
www.adista.it/articolo/70179
ECUMENISMO
Lutero e la Santa Cena: perché la questione ci riguarda ancora
Il trattato eucaristico di Lutero del 1528* ci arriva da un altro mondo. Lo scontro con Zwingli sulla Cena del Signore è, per noi oggi, semplicemente incomprensibile: non solo nella cultura secolare, ma nella stessa chiesa. Altre, pare a noi, sono le priorità e le domande che la fede deve affrontare. Per non pochi aspetti (linguaggio, metodi di interpretazione biblica, comprensione di ciò che unisce e di ciò che divide) è effettivamente così. Tre questioni, tuttavia, sono centrali ieri come oggi, se solo si ha l’onestà intellettuale necessaria per affrontarle:
a) Cristo è realmente presente nel mondo o si tratta solo di un modo di parlare pio?
b) Nel primo caso: come mi devo immaginare tale presenza?
c) Che succede se le mie categorie di pensiero si scoprono incapaci di esprimere l’evento? Ù
Lutero e Zwingli, mediante le loro elucubrazioni per noi abbastanza astruse, discutono di questi temi. E Lutero è convinto che l’altro renda la vita troppo semplice a sé stesso e alla chiesa, interpretando la presenza di Cristo nel pane e nel vino in una forma che gli appare “ragionevole”.
Dio però, secondo Lutero, è più grande della ragionevolezza di Zwingli e di chiunque altro. Nemmeno la sacrosanta battaglia contro il “papismo” (siamo, ricordiamolo, nel primo decennio della Riforma) giustifica sconti rispetto alla verità, anzi: «piuttosto che condividere con i fanatici soltanto vino [e soltanto pane; i “fanatici”, ovviamente, sono Zwingli e soci], preferisco accordarmi con il papa che ci sia soltanto sangue» (p. 377). Insomma, meglio la transustanziazione che la dottrina zwingliana. Il consenso appare impossibile. Bisogna dire che il partito zwingliano, e poi calviniano, è sempre stato meno refrattario a un accordo: il luteranesimo, complessivamente, si è mostrato più arcigno.
Ora però che abbiamo smesso di scomunicarci, almeno tra luterani e riformati, dobbiamo evitare di banalizzare le passioni di un tempo: esse avevano a che fare con la fede. Lo si vede bene nell’edizione del grande testo luterano del 1528 curata da Winfrid Pfannkuche (un pastore valdese radicato con cuore e competenza nella tradizione luterana: il più adatto alla bisogna!) per la collana «Opere Scelte di Lutero», diretta da Paolo Ricca e che ormai compie 35 anni. Il volume è perfettamente integrato negli standard della serie: traduzione accurata (con testo a fronte), note puntuali, ampia introduzione soprattutto storica, ma che non rinuncia ad aprire prospettive sull’oggi («Da Marburgo a Leuenberg», pp. 49-53). I nomi dei due luoghi evidenziano che, dopo lo scritto del 1528, la discussione è proseguita. A Marburgo, nel 1529, Lutero rifiuta definitivamente ogni possibilità di accordo sul punto controverso (ma presenza di Cristo nel pane e nel vino anche secondo la natura umana); sul Leuenberg, una collina non lontano da Basilea, viene siglato, nel 1973 (si fa presto a scomunicarsi, ma ritrovare la comunione sembra richiedere un certo tempo…) il documento teologico che sancisce la comunione ecclesiale tra luterani, riformati e in seguito anche metodisti.
Oggi discutiamo della possibilità di condividere la cena del Signore tra le diverse famiglie ecclesiali: romana, ortodossa e protestante. Se fosse per le chiese evangeliche, la questione sarebbe già risolta, da un pezzo anche. Poiché però dipende anche dagli altri, non si può escludere che occorrano altri cinquecento anni. Forse è legittimo sperare che giunga prima «il caro ultimo giorno», come Lutero amava chiamarlo.
Fulvio Ferrario “Riforma”, settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi –16 giugno 2023
www.riforma.it/it/articolo/2023/06/13/lutero-e-la-santa-cena-perche-la-questione-ci-riguarda-ancora
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230613ferrario.pdf
Cammino sinodale, il passo è ecumenico
Il vescovo Derio Olivero (α1961): un evento storico.
A Roma ieri per la prima volta si sono riuniti nella sede della Conferenza episcopale italiana, i rappresentanti delle Chiese cristiane presenti in Italia. Nell’ambito del Cammino sinodale, la Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo ha infatti organizzato l’incontro dal titolo “Sulla stessa barca” che ha visto la partecipazione di 20 delegati di 17 Chiese. Si tratta, spiega monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo e presidente della Commissione, di «un evento storico che, nella prospettiva dell’ascolto indicata dal Cammino sinodale, ci ha aiutato a capire cosa lo Spirito dice alle Chiese».
La giornata si è sviluppata secondo il metodo della “conversazione spirituale”, con il lavoro in due gruppi sinodali e il confronto in aula. A fare da filo rosso, tre domande:
- “Quali sfide all’annuncio del Vangelo per le Chiese in Italia?;
- Quali sfide al cristianesimo oggi in Italia?;
- Cosa lo Spirito ci chiama a vivere insieme?”.
«Nell’ascolto – spiega monsignor Olivero – abbiamo percepito chiaramente di essere tutti sulla stessa barca e di avere problematiche simili. Sono emersi però alcuni spunti, che sono espressione della diversità delle nostre Chiese e che rappresentano il punto nodale per l’ecumenismo di oggi e quello futuro. Nella società odierna, siamo chiamati ad assumere insieme la sfida posta al cristianesimo. Le diversità diventano una ricchezza per la loro capacità di esprimere meglio il cristianesimo nel tempo attuale. Siamo certi che, nonostante le onde della paura e del pessimismo, il Signore è presente nelle nostre Chiese e ci accompagna, proprio come nel dipinto “La tempesta sedata” (1841) di Delacroix, scelta come immagine dell’incontro, Maria Maddalena ricorda ai discepoli che si trovano in balia del mare, preda della rabbia, della nostalgia, dell’ansia di non farcela o al contrario della convinzione di riuscire a salvarsi da soli».
L’appuntamento che si è chiuso con l’auspicio comune che possa ripetersi in futuro, è il primo passo di un cammino che porterà ad altri momenti di condivisione e ascolto reciproco.
Il 27 giugno, sempre a Roma, è in programma un evento che vedrà protagonisti i rappresentanti delle religioni presenti nel Paese.
Redazione “Avvenire” 13 giugno 2023
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FORUM ASSOCIAZIONI FAMILIARI
Bordignon neo presidente del Forum delle Famiglie: la famiglia è determinante per l’Italia
Un colloquio con Adriano Bordignon dopo gli Stati Generali della Natalità e l’intervento di Papa Francesco
Intervenendo agli Stati generali della Natalità Papa Francesco aveva sottolineato la preoccupazione per le poche nascite, sintomo per il futuro di ogni Nazione: “Oggi mettere al mondo dei figli viene percepito come un’impresa a carico delle famiglie. E questo, purtroppo, condiziona la mentalità delle giovani generazioni, che crescono nell’incertezza, se non nella disillusione e nella paura. Vivono un clima sociale in cui metter su famiglia si è trasformato in uno sforzo titanico, anziché essere un valore condiviso che tutti riconoscono e sostengono”.
Una preoccupazione serie, emersa dai dati dell’Istat, che ha evidenziato che i dati sulle nascite sono in diminuzione. Tali dati preoccupano anche il neo presidente del Forum delle Famiglie, Adriano Bordignon, direttore del Consultorio del Centro della Famiglia di Treviso, a cui ho chiesto di spiegarci il problema:
“Istat ci racconta anno dopo anno la storia del declino di un Paese che non sta investendo su giovani e futuro. Nel 2022 siamo scesi per la prima volta sotto i 400.000 nati e le prospettive, se non si cambia marcia e non si cambia rotta sono quelle di uno spegnimento. In Italia mettere al mondo un figlio è una sfida più complessa e più impervia che in altri Paesi. Da noi c’è il più alto spread tra figli desiderati e figli effettivamente nati. Stiamo spegnendo la carica propulsiva di intere generazioni”.
In Italia esiste una politica per la famiglia?
“L’Italia è stata lungamente priva di politiche familiari. Oggi abbiamo iniziato timidamente ad attivare un percorso significativo con l’Assegno Unico. Ma la misura è troppo poco generosa, è troppo complessa e non è completamente universale. Dobbiamo sicuramente semplificarla e renderla più ricca per avvicinarci ai modelli francese e tedesco”.
Cosa significa ‘occuparsi’ di famiglia?
“Occuparsi di famiglia significa far indossare gli occhiali della famiglia ad un Paese troppo a lungo miope e strabico. Significa porsi al fianco delle famiglie riconoscendone la soggettività sociale, cioè il loro essere portatori di diritti e di doveri, e il loro essere un luogo strategico di investimento per la vita del Paese. Significa amplificare le potenzialità e accompagnare le fragilità riconoscendo che non esistono “politiche neutre” per le famiglie. Si parli di scuola, salute, economia, urbanistica, ambiente, politiche sociali, tutto passa per la famiglia”.
Quali sono le ‘sue’ priorità per la famiglia?
“La famiglia non è il malato del Paese. La famiglia è la gemma generativa da cui scaturiscono il capitale relazionale, quello sociale ed anche quello economico del Paese. L’abbiamo sempre data per scontata: come l’aria e come l’acqua. Oggi non possiamo più farlo e dobbiamo fare in modo che far famiglia non sia più come fare gli acrobati su un filo.
Servono servizi per la prima infanzia e per la cura dei più fragili, politiche per il lavoro femminile e giovanile, interventi per la conciliazione e per una maggiore condivisione dei compiti di cura. È improrogabile una riforma fiscale che riconosca finalmente la numerosità della composizione dei nuclei familiari. È necessario anticipare i tempi delle autonomie e del protagonismo dei giovani nella costruzione dei loro progetti di vita. Percorsi che sono ambiziosi ma che meritano di essere affrontati con coraggio ed unità”.
Perché è importante la famiglia per la società italiana?
“In famiglia, se le cose funzionano, impariamo i linguaggi e l’agire solidale e non opportunistico. Impariamo la solidarietà e l’economia. Il senso di appartenere a qualcosa di più grande di cui è bene farsi responsabili. La famiglia è perciò, prima di tutto, un laboratorio di umanizzazione da cui dipendono le fortune della vita di una comunità territoriale e di un intero Paese”.
Quale ruolo hanno i consultori familiari?
“Nel nostro Paese ci sono troppo pochi consultori familiari rispetto ai bisogni della popolazione: uno ogni 35.000 abitanti mentre sarebbe raccomandato fossero uno ogni 20.000. La funzione dei Consultori dovrebbe essere quelle di accompagnare le famiglie lungo il ciclo di vita per sostenere le competenze relazionali ed educative delle famiglie e supportarle nei momenti più critici della loro storia”.
Cosa si aspettano le famiglie?
“Le famiglie si aspettano innanzitutto stima e riconoscimento sociale per quanto fanno silenziosamente giorno dopo giorno nella cura dei più fragili, nell’educazione dei più giovani, nella solidarietà ai più anziani. Si aspettano anche un vento nuovo che alimenti le fiammelle della speranza e che faccia percepire che sarà ancora bello nascere, crescere, vivere ed invecchiare nel Belpaese”.
Simone Baroncia ACI Stampa 15 giugno 2023
www.acistampa.com/story/bordignon-neo-presidente-del-forum-delle-famiglie-la-famiglia-e-determinante-per-litalia?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=262614177&_hsenc=p2ANqtz-8QY3mPGr0mHM4tyTarEqiV5KOgnzipA8cfEg6-XjaxaVfY1xpu69Zra3Pk_eIfKYlhC1tZcBJVGQNbMliLt-5etepulQ&utm_content=262614177&utm_source=hs_email
GIURISPRUDENZA
Differenza tra tribunale ordinario e minorile
La legge n. 219/2012 ha modificato l’articolo 38 disp. att. cc., affidando al tribunale minorile la competenza in merito a: www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2012;219
- la decadenza della responsabilità genitoriale;
- la reintegrazione della responsabilità genitoriale;
- la condotta pregiudizievole ai figli;
- la rimozione dall’amministrazione;
- la riammissione nell’esercizio dell’amministrazione.
Sono di competenza del tribunale ordinario i provvedimenti relativi alle procedure di separazione o divorzio, o alle controversie riguardanti la responsabilità genitoriale.
Affidamento esclusivo dei minori sin dalla sede presidenziale se il padre non si costituisce
Tribunale Ordinario di Urbino, provvedimento del 14 giugno 2023
www.aiaf-avvocati.it/aiaf_cms/public/news/15.06.pdf
“L’affidamento esclusivo dei figli, ai sensi dell’art. 337 quater c.c., costituisce regime eccezionale di esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio, consentito esclusivamente ove risulti, nei confronti di uno dei genitori, una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa, tale da rendere l’affidamento condiviso in concreto pregiudizievole e contrario all’interesse del minore. […] Dunque l’affidamento esclusivo deve essere particolarmente motivato da circostanze concrete e concordanti in relazione non soltanto al pregiudizio potenzialmente arrecato ai bambini da un affidamento condiviso, ma anche all’idoneità del genitore affidatario ed alla corrispondente idoneità educativa dell’altro, con violazioni gravi e manifeste dei doveri posti a carico del genitore dell’art. 147 c.c. […]. In particolare, il totale disinteresse del padre nei confronti dei figli, in assenza di contestazione sul punto da parte del convenuto, non costituitosi in giudizio rappresenta circostanza idonea, allo stato, a determinare, in conformità all’orientamento consolidato dalla giurisprudenza (cfr. Trib. Ancona Sez. I, 07.03.2022 n. 324), l’opportunità di statuire, in via provvisoria ed urgente, il regime di affidamento esclusivo dei figli alla madre, cui consegue l’assegnazione della casa familiare in conformità al disposto dell’art. 337 septies c.c.”.
www.aiaf-avvocati.it/articolo/1366/affidamento-esclusivo-dei-minori-sin-dalla-sede-presidenziale-se-il-padre-non-si-costituisce
LUTTO
Flavia Prodi l’addio dell’altra Italia
Flavia Franzoni (α1947-ω2023)
Nell’ariosa e stracolma chiesa di San Giovanni in Monte – San Żvân in Månt come la chiamano i bolognesi – da mezz’ora l’ultimo addio a Flavia Franzoni Prodi si sta svolgendo in un’atmosfera sospesa, tipica dei preliminari liturgici: tutti sono in attesa delle parole “giuste”, quelle capaci di restituire un senso alla commozione per la scomparsa di una donna anticonformista: poco appariscente e molto influente, cattolica di sostanza e non di forma. Una anti-first lady. E l’incantesimo si crea con la splendida omelia del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, che sceglie le parole con cura, nel raccontare l’amore e la religiosità di Flavia e ad un certo punto aggiunge: «Riservata, in un mondo sguaiato, pieno di vanagloria, davvero vana, di penosa esibizione perché riduce l’amore ad apparenze. Flavia preferiva la sobria e solida vicinanza».
Impossibile attribuire al cardinale raffronti con altri recenti funerali: i confronti non li fa Zuppi e men che mai li fanno i Prodi che hanno altro a cui pensare. Ma il loro saluto è fatto di interiorità, come conferma pochi minuti dopo Romano Prodi, (α1939): si avvicina all’altare e con la voce arrochita dalla commozione conclude il suo breve ricordo con parole poetiche: «Pochi giorni fa ci eravamo chiesti con Flavia: chissà se dal Paradiso si vede bene Piazza Santo Stefano?», che è la piazzetta sotto casa, dove i due Prodi hanno camminato sottobraccio per tanti anni. A questo punto in chiesa si rompono gli argini emotivi: molti piangono e mentre il Professore torna tra i suoi nipoti, si alza un applauso lungo, a sua volta commovente. Qualche minuto dopo il Cardinale Zuppi chiude la cerimonia, rilanciando il pensiero di poco prima: «Secondo me dal Paradiso si vede bene Santo Stefano e da oggi, dalla piazza, anche il cielo si vedrà meglio. Con una stella in più».
Anche i più cinici cedono, l’emozione dilaga nel ricordo di quella donna così schiva che ogni bolognese incontrava spesso, talora con le sporte di plastica della spesa. In tanti inseguono i propri pensieri e anche se nessuno l’ha esplicitamente “chiamata” è come se, a fine cerimonia, si fosse materializzata quella che tante volte è stata chiamata, spesso retoricamente ma con efficacia, l’«altra Italia». Diversa, almeno un po’, dall’Italia «sguaiata», evocata dal cardinal Zuppi.
www.ilsussidiario.net/news/funerali-flavia-franzoni-moglie-romano-prodi-diretta-video-a-bologna-col-card-zuppi-il-messaggio-del-papa/2552854
Certo, un’Italia fatta di tanti frammenti. A Bologna, per l’ultimo saluto a Flavia è arrivata la prima “squadra” di Prodi, la squadra dell’Ulivo, quella del 1996: Walter Veltroni, Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Enrico Letta, Rosy Bindi, Giovanna Melandri, Barbara Pollastrini, ovviamente Arturo Parisi e Giulio Santagata ma anche i leader dei partiti di allora, Piero Fassino e Pierluigi Castagnetti. Personalità diverse tra loro, ma che a metà degli anni Novanta condivisero la speranza che fosse possibile, appunto, un’altra Italia.
E di quell’altra Italia è tornata a far parte anche la Chiesa italiana: dopo aver assecondato per anni un personaggio distante dai propri valori come Silvio Berlusconi, in pochi giorni è come se avesse “riallineato” le gerarchie: mentre nel Duomo di Milano per i funerali di Berlusconi, è stata ascoltata l’ambivalente omelia dell’arcivescovo (ma non cardinale) Mario Delpini, per i Prodi non soltanto la presenza fisica di Matteo Zuppi, ma anche la delicatissima lettera autografa di Papa Francesco.
www.ilsole24ore.com/art/funerali-stato-berlusconi-duomo-si-prepara-all-ultimo-saluto-AED2LOgD#U403224623475gtE
Nella quale il pontefice chiama Prodi «caro fratello» e aggiunge: «Sono convinto che dopo più di 50 anni di matrimonio saprai raccogliere l’eredità di fede e di fortezza di Flavia continuando a testimoniare, nel suo vivo ricordo, la bellezza del vincolo di amore che vi ha tenuti uniti, mano nella mano fino all’ultima passeggiata insieme».
È stata una cerimonia semplice, nello stile della famiglia Prodi-Franzoni, che si era occupata degli aspetti organizzativi: la scelta delle preghiere, dei brani da leggere, dei canti e delle fotografie. Tra i banchi della chiesa quasi inevitabile la caccia a presenti e assenti. Sergio Mattarella ha parlato con Prodi per telefono a lungo e in modo affettuoso dopo i funerali, la presidente del Consiglio ha mandato una corona di fiori, nessuno ha visto esponenti di rilievo del Terzo polo, c’erano la segretaria del Pd Elly Schlein, Mario Monti e Mario Draghi. Nel suo breve ricordo in chiesa il Professore aveva detto: «Dopo due anni e più di corteggiamento, mai mi sono pentito di avere tanto insistito…», «la nostra unione è stata cielo e terra, non solo uno scambio intellettuale, ma tanta felicità, la casa sempre piena di amici». Bella la frase sul pensiero politico della moglie, riassunto da termini in disuso anche a sinistra: «Flavia sognava un’Italia limpida e discreta».
Fabio Martini “La Stampa” 17 giugno 2023
www.lastampa.it/cronaca/2023/06/17/news/funerali_flavia_prodi-12862661
I mondi di Zuppi e Delpini Concita De Gregorio “la Repubblica” 18 giugno 2023
www.repubblica.it/commenti/2023/06/17/news/due_funerali_berlusconi_franzoni_prodi-404826465/
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230618degregorio.pdf
MATERNITÀ SURROGATA
Maternità surrogata, le donne spezzano la cortina del silenzio: “È commercio, non altruismo”
(Da New York). Il silenzio è la condizione di molte delle donne che hanno vissuto un’esperienza traumatica di maternità surrogata. La sofferenza è uno status che si nasconde a parenti e amici. ed è molto difficile che qualcuna di queste mamme per procura osi contrastare la narrativa dell’altruismo e del dono che le lega al contratto di portare avanti una gravidanza per conto terzi. Tanya e Allen hanno sollevato la coltre su questo dolore silente, ma nascondono ancora la loro identità dietro nomi fittizi per proteggere i loro figli, la loro famiglia e quei bambini biologici, che ora sono figli di altri.
Tanya, madre in una coppia gay Tanya, una contabile del Minnesota, pensava di essere la candidata perfetta per la maternità surrogata. Dopo aver dato alla luce due figli sani, voleva dare agli altri la stessa gioia che aveva provato lei e ha deciso di offrire il suo utero e i suoi ovuli ad una coppia dello stesso sesso, desiderosa di un figlio. A chi le fa notare i soldi ricevuti per contratto e non per altruismo, risponde che “sono stati appena sufficienti per coprire l’assicurazione sanitaria, l’assicurazione sulla vita, il lavoro perso”. Il contratto stilato con i nuovi genitori, comunque, includeva la possibilità di essere coinvolta nella vita della bambina, “perché non c’era un’altra mamma”.
Quando la bimba è nata, “quando era proprio lì tra le mie braccia, tutti quei pezzi di carta che abbiamo firmato sono semplicemente caduti”, ricorda la donna che ha dovuto ricorrere alle vie legali per poter avere una relazione con la figlia, fino a quando non è riuscita ad ottenere un ordine di affidamento congiunto. Nonostante oggi la bambina abbia 10 anni, Tanya è ancora perseguitata dalla decisione e dal pensiero di “aver venduto sua figlia”.
Allen e i gemelli diversi La storia di Allen, californiana ha altri risvolti. Aveva scelto la maternità surrogata con la speranza che i 30.000 dollari ricevuti per questa gravidanza sarebbe tornati utili a lei e al marito per comprare una casa e consentirle di occuparsi degli altri suoi due bambini, senza dover tornare al lavoro. I genitori aspiranti erano di origine cinese ed Allen ha ospitato due embrioni per essere sicura che uno dei due si impiantasse. La pratica non è inusuale per chi sceglie la surrogazione e non sono poche le donne che alla fine della gestazione partoriscono due gemelli. Dal momento dell’impianto dell’embrione e dopo aver segnato il contratto, la salute di Allen risponde solo alla coppia e al medico che la segue. Vita sana, nessun rapporto sessuale con il marito fino a quando il medico non le dà il permesso. Allen resta incinta di due gemelli e il compenso aumenta di 5.000 dollari per il secondo figlio. Il parto avviene alla 38ma settimana con un cesareo. Ad Allen per contratto è concesso di vedere i bambini per un’ora prima di consegnarli alla nuova mamma. Mentre le due donne si beano dei neonati, Allen si accorge che i due bambini non erano identici, ma che uno era con tratti asiatici e l’altro era più scuro. Allen si è trovata al centro di un incidente medico, la superfetazione: aveva concepito su un altro concepimento; era rimasta incinta del marito, dopo la fecondazione in vitro con l’embrione asiatico. La famiglia pagante non accetta il secondo bambino e chiede 18.000 dollari di danni.
Poiché Allen e il marito non sono in grado di restituire il denaro, il neonato afroamericano viene messo in adozione, senza che i genitori biologi possano intervenire in alcun modo, se non sborsando i soldi dovuti per un bambino che era diventato una merce. Dopo due mesi di battaglie legali Allen ha potuto tenere il bambino, che oggi si prepara a compiere 7 anni.
Maddalena Maltese Agenzia Sir 17 giugno 2023
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Procreazione assistita: pensieri sparsi
È un argomento quello della procreazione medicalmente assistita che mi pone molte domande, a cui ho solo frammenti di risposte. Quello che condivido qui sono pensieri sparsi che mi frullano in testa, nel tentativo di contribuire a costruire un confronto sereno su un tema di cui si sa poco e sul quale ci sono schieramenti nettamente contrapposti. C’è invece bisogno di regalarci il tempo e soprattutto la serenità per conoscere, capire e poterci orientare.
Gli sviluppi che ci sono stati negli anni su questo e in generale su tutte le tecnologie, la velocità con cui si va avanti rischia di portare ad una disarmonia tra i tempi dell’avanzamento di tecnologie sempre più sofisticate e quelli necessari per la riflessione, per darci strumenti di comprensione e di valutazione, per raggiungere una maturità etica sul loro utilizzo. Le tecnologie possono essere usate per il bene e per il male. Non tutto quello che si può fare è bene farlo. La società ha il compito di regolamentarne l’utilizzo perché sia a vantaggio di tutti gli esseri viventi.
Faremmo bene a riscoprire il sabato ebraico, un giorno per fermarci, non per fare programmi, ma per voltarci indietro e vedere chi ci siamo lasciati alle spalle o chi, nella corsa, abbiamo calpestato. E se nei giorni precedenti ci siamo lasciati prendere dal delirio di onnipotenza, il sabato, come descritto nel libro dell’Esodo, è il giorno in cui tutti gli esseri viventi tornano creature davanti all’unico Creatore, il giorno in cui i padroni sono un po’ meno padroni e gli schiavi un po’ meno schiavi. L’accelerazione che stiamo vivendo in questo nostro tempo richiederebbe un lungo sabato per fermarci e riflettere.
Una decina di anni fa la mia riflessione avrebbe potuto fermarsi qui, con una domanda rispetto alla procreazione assistita: stiamo valutando quali problemi si troveranno di fronte un giorno i bambini e le bambine nati con le nuove tecnologie disponibili? Cos’è successo in questi dieci anni? È successo che quei bambini e quelle bambine hanno continuato a nascere e le vite di alcuni di loro si sono incrociate con la mia. Poco più di un anno fa sono diventata prozia di un bambino nato con la fecondazione omologa. Ho conosciuto le Famiglie Arcobaleno, due in particolare le frequento: una coppia di mamme con due bambine, nate con la fecondazione eterologa, ed una coppia di papà con un bambino e due bambine, nati in Canada con la gestazione per altri. La donna che ha portato avanti le due gravidanze (di cui una gemellare), con ovuli donati da un’altra donna, era già mamma di due figli ed è lesbica, non ha avuto compensi economici, se non quelli relativi alle spese mediche che ha sostenuto durante la gravidanza. In linea con ciò che la legge per la gestazione per altri prevede in Canada.
Il mio non è certo un campione significativo, ma ciò che vedo sono bambine e bambini sereni, protetti e amati. Tutti nati non seguendo, e nell’impossibilità di seguire una via naturale per far nascere un figlio o una figlia. Spesso si tira in ballo la natura, per classificare in modo sbrigativo come sbagliato quello che è o è considerato contro natura. Anche la Chiesa cattolica nelle sue gerarchie su vari temi ricorre a questo argomento. Forse si potrebbe liquidare il discorso dicendo che anche il trapianto di organi, e non solo quello, è contro natura, ma vale invece la pena di parlarne più approfonditamente.
Essenziale premettere l’importanza del rispetto per la natura. Noi siamo parte della natura, violentare la casa dove abitiamo, oltre che sbagliato è suicida. Può succedere però di definire come contro natura qualcosa che non lo è, ma di cui non abbiamo conoscenza e che per questo ci fa paura. È successo per l’omosessualità, che ora sappiamo essere una variante naturale, ma che per lungo tempo è stata considerata contro natura.
Ma andiamo oltre. Quali sono le leggi della natura lo ha spiegato bene Darwin: sopravvivono quelli che si adattano all’ambiente e alle sue mutazioni, gli altri sono destinati a perire. Il forte (almeno nelle condizioni ambientali date) sopravvive, il debole muore. E ciò che è naturale può diventare norma. Così è successo nel passato che, laddove non c’erano abbastanza risorse per tutti, fosse “naturale” pensare che un bambino malforme dovesse essere eliminato per non togliere le già scarse risorse ai bambini sani. Ma sarà anche successo che qualcuno, probabilmente una donna, disobbedendo alle leggi del gruppo, avrà deciso un giorno di tenersi il proprio bambino nato malforme. Un gesto di follia contro le sagge regole del gruppo. E se dietro quel gesto si nascondesse il divino che ci portiamo dentro? Se fosse l’espressione della follia di quel Dio contro natura che sceglie pietre scartate per farne testate d’angolo e ventri sterili per aprirli alla vita? Non ho semplificato, ho aggiunto complessità, non perché non ami le semplificazioni, ma perché le semplificazioni funzionano solo dopo che la complessità si è capita, altrimenti sono finte scorciatoie.
La complessità va attraversata. Quello della procreazione assistita, nelle sue varie forme, è un tema complesso, su cui la maggior parte delle persone ha una conoscenza non solo limitata ma anche falsata, soprattutto ad opera delle destre che, ricorrendo a finte semplificazioni, ne fanno un uso strumentale con l’obiettivo di colpire la comunità LGBT+.
Diamoci il tempo di approfondire, ma possiamo intanto trovare dei punti su cui convergere? Ne propongo alcuni:
• I bambini e le bambine, comunque siano venuti al mondo, devono avere gli stessi diritti, incluso quello di avere fin dalla nascita una famiglia riconosciuta. La decisione del governo di impedire la trascrizione da parte dei sindaci dei bambini delle coppie omogenitoriali nega questo diritto.
• Affermare con forza il rispetto della dignità delle donne e il contrasto allo sfruttamento e alla mercificazione del corpo femminile. La divisione che c’è sulla gestazione per altri, tra chi ritiene che serva regolamentarla anche a tutela delle donne e chi la critica aspramente, come lesiva della dignità delle donne, sebbene netta, non è una divisione sui principi, ma su come tutelarli.
• Accusare di reato universale chi ricorre alla gestazione per altri in Paesi dove è consentita è un modo subdolo da parte del governo per criminalizzare i genitori, equiparando la gestazione per altri ai crimini di guerra e ai genocidi (questi sì crimini universalmente riconosciuti). Smascherare l’azione del governo per quello che è dovremmo porcelo come obiettivo comune, qualunque sia la posizione che abbiamo sulla gestazione per altri.
• Per quanto riguarda il linguaggio, aboliamo l’espressione “utero in affitto”, o almeno lasciamola solo alle destre: è violenta e offensiva, soprattutto per le donne. Si può criticare la gestazione per altri chiamandola con il suo nome.
Come possiamo andare avanti? Io credo che la via maestra sia quella di ascoltare le storie, dando la parola ai protagonisti e alle protagoniste di queste esperienze: alle Famiglie Arcobaleno, ai figli e alle figlie – ci sono anche maggiorenni tra loro – e ai genitori; alle donne che hanno portato avanti una gestazione per altri. E chissà se qualcuna di loro, nel difendere la propria scelta come libera scelta, non usi proprio quelle parole che hanno accompagnato il movimento femminista fin dagli anni ’70: “L’utero è mio, me lo gestisco io”.
Dea Santonico, ex dipendente Esa (Agenzia spaziale europea) “www.finesettimana.org” 16 giugno 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230616santonico.pdf
MATRIMONI E UNIONI CIVILI
Matrimoni e unioni civili, l’Italia è già cambiata. Ma Chiesa e Governo guardano dall’altra parte
Il processo di secolarizzazione sta cambiando profondamente anche la società italiana, ne muta abitudini sociali, costumi, comportamenti. Così assistiamo a una crescita – certificata dagli ultimi rilevamenti dell’ISTAT – dei matrimoni civili, delle seconde nozze, dei divorzi consensuali, delle unioni civili. Cambia insomma volto anche la famiglia considerata baluardo della “tradizione” e usata, spesso a sproposito, per propagandare una visione conservatrice della vita sociale e del rapporto con la fede e con la Chiesa-istituzione. Lentamente e quasi sotterraneamente, dunque, il Paese prosegue sul cammino della modernizzazione, nonostante i rigurgiti reazionari del governo guidato da Giorgia Meloni e un episcopato che non ha dato in questi anni grandi segni di apertura ignorando anche quelle indicazioni minime provenienti da papa Francesco circa la necessità e anzi l’urgenza, di porsi in ascolto della società e dei bisogni nuovi che andava esprimendo, mettendo da parte le consunte condanne e i pregiudizi verso chi viene considerato comunque un peccatore, si tratti di omosessuali, divorziati, single con figli o quant’altro. Parallelamente, crollano le vocazioni e anche i battesimi, per esempio in quella che era considerata una delle diocesi più grandi del mondo, ovvero Milano.
Un quadro, quello che emerge dalle indagini statistiche, che mostra una società più dinamica di quanto non si pensi, ma che preferisce compiere le proprie scelte senza sbandierarlo troppo. Al contempo, tuttavia, dalla ricerca, esce una conferma chiara delle difficoltà che incontrano i giovani nel mettere su famiglia; sposarsi, infatti, resta un miraggio per tante coppie soprattutto a causa dei problemi legati alle condizioni economiche e alla mancanza di lavoro stabile. Il report «Matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi, anno 2021», del marzo scorso, mostra anche i dati relativi a una parte del 2022, mentre il raffronto vero con il passato va fatto con l’anno 2019, l’ultimo pre-pandemia; il 2020, infatti, è stato condizionato fortemente dalla “clausura” forzata e dai timori relativi alla diffusione del coronavirus. I numeri dicono che nel 2021 sono stati celebrati in Italia 180.416 matrimoni, l’86,3% in più rispetto al 2020, anno in cui, appunto a causa della crisi pandemica, molte coppie avevano rinviato le nozze. L’aumento non è stato però sufficiente a recuperare quanto perso nell’anno precedente (la variazione rispetto al 2019 è infatti pari a -2,0%). I matrimoni religiosi, quasi triplicati rispetto al 2020, sono però decisamente in calo (-5,1%) rispetto al periodo pre-pandemico.
Le nozze civili “salvano” il matrimonio. Dal rapporto, emerge dunque che nei primi nove mesi del 2022, si è assistito a un lieve aumento dei matrimoni, +4,8% rispetto allo stesso periodo del 2021, dovuto esclusivamente alla crescita dei matrimoni civili (+10,8%). Crescono in misura marcata (+32,0%) le unioni civili. Mettendo a confronto il 2022 con il 2021, crescono soprattutto i secondi matrimoni, +15,6%, mentre i primi matrimoni aumentano in misura molto più contenuta, +2,1% e, tra questi, l’aumento è dovuto esclusivamente al rito civile (+8,2%). I primi matrimoni religiosi mostrano, infatti, una diminuzione del 2,0%. Le unioni civili, a loro volta, aumentano di un terzo nei primi nove mesi del 2022.
Tra i giovani, spiega l’Istat, c’è sempre meno desiderio o possibilità di convolare a nozze. Il protrarsi degli anni di studio, le difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro e il sempre maggior numero di coloro che rimangono in famiglia fino alla soglia dei 35 anni, determina un effetto diretto sul rinvio delle prime nozze, amplificato dalla crisi economica. Sul posticipo del primo matrimonio incide anche la diffusione delle convivenze prematrimoniali.
Il rito civile stravince nelle seconde nozze. In generale, guardando ai dati completi relativi al 2021, si consolida un evento, già rilevato, nel recente passato, che mostra più di tanti discorsi il cambiamento in atto: più di un matrimonio su due è ormai celebrato con rito civile, pari al 54,1%. La quota dei matrimoni civili osservata nel 2020 (71,1%) aveva registrato un eccezionale aumento a causa delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria, che hanno colpito soprattutto le celebrazioni con rito religioso. Nel 2021 tale quota si ridimensiona (54,1%) riallineandosi all’andamento crescente osservato negli anni pre-pandemici (52,6% nel 2019). Il rito civile è – secondo quanto riferisce il rapporto dell’Istat – chiaramente più diffuso nelle seconde nozze (95,0%), essendo in molti casi una scelta obbligata, e nei matrimoni con almeno uno sposo straniero (91,9% contro il 48,2% dei matrimoni di sposi entrambi italiani).
La scelta del rito civile va però diffondendosi anche nel caso dei primi matrimoni (43,1% nel 2021). Considerando i primi matrimoni tra sposi entrambi italiani (89,0% del totale dei primi matrimoni) l’incidenza di quelli celebrati con rito civile è del 37,5% nel 2021 (33,4% nel 2019 e 20,0% nel 2008). Per tale tipologia di coppia è spiccata la variabilità territoriale: si riscontrano incidenze di celebrazioni con rito civile più basse nel Mezzogiorno (25,4%) e più alte nel Centro (47,5%) La scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni, tendenzialmente in crescita rispetto al passato (62,7% nel 2008, 40,9% nel 1995), mostra una lieve contrazione nel 2021, risultando l’opzione prescelta dagli sposi nel 73,4% dei casi (74,7% nel 2020).
Ancora, è significativo che nel 2021 i divorzi consensuali presso i Tribunali siano stati 34.225. Questa tipologia di divorzi registra l’aumento più consistente con il + 31,7% rispetto al 2020 quando erano stati 25.982. Complessivamente i divorzi nel 2021 sono stati 83.192 con un aumento del 24,8% rispetto al 2020 quando erano stati 66.662 (nel 2019 erano stati 85.319).
Ogni anno più di 2mila unioni omosessuali. «Nel 2021 – si legge nel rapporto – sono state costituite 2.148 unioni civili tra coppie dello stesso sesso presso gli Uffici di Stato Civile dei Comuni italiani, che con un aumento del 39,6% rispetto al 2020 (anno di generale contrazione) tornano sostanzialmente ai livelli del 2019 (2.297 unioni civili). Il 34,5% delle unioni civili è nel Nord-ovest, seguito dal Centro (27,2%). Tra le regioni in testa si posiziona la Lombardia con il 21,8%; seguono Lazio (13,8%) ed Emilia-Romagna (10,1%)». «Considerando i tassi per 100mila residenti – prosegue l’Istat – la Toscana si colloca al primo posto (5,6 per 100mila) seguita dal Lazio (5,2) e dalla Lombardia (5,0). Emerge con particolare evidenza il ruolo attrattivo di alcune metropoli. Nel 2021 l’8,5% delle unioni civili si è costituito nel comune di Roma e il 6,6% in quello di Milano. Si conferma anche nel 2021 la prevalenza di unioni tra uomini (1.225 unioni, il 57,0% del totale), pur se in diminuzione rispetto sia all’anno precedente (62,4%) sia all’anno pre-pandemico (62,2%). La ripartizione con la più alta incidenza delle unioni tra uomini è il Sud (59,3%) mentre tra le regioni spicca l’Umbria (68,6%)».
Diocesi di Milano, crollano battesimi e vocazioni. Il processo fin qui descritto, trova riscontro anche nelle indagini portate avanti e pubblicate nello scorso mese di maggio, da una diocesi importante come quella di Milano che riassume in sé due caratteristiche significative: da una parte quella di essere una delle Chiese locali storicamente più strutturate e vivaci della penisola, dall’altra di convivere con un territorio dove i mutamenti sociali hanno effetti più rapidi e consistenti. I battesimi, a Milano, sono passati da poco più di 35 mila nel 1995 a poco oltre i 10 mila nel 2022; una tendenza che ha cominciato a essere marcata a partire dal 2005. Per i matrimoni in chiesa si è passati dai circa 18mila annui degli anni Novanta, ai 4mila attuali. Non va meglio sul fronte delle vocazioni, dove anzi si registrano numeri che dovrebbero destare allarme in primis fra le gerarchie cattoliche: «A oggi i preti ambrosiani sono 1.694 – non troppo lontani i tempi (1.998) in cui si diceva 1.100 parrocchie per 2.200 presbiteri –, già diminuiti a 1.737 nel 2020 e che caleranno, entro il 2040, fino al numero previsto di 1.050-1.055», afferma l’indagine diffusa dalla diocesi. «Ma ciò che fa più impressione – si osserva ancora – è l’età media del clero ambrosiano nel 2040: sostanzialmente, dei 1.050 sacerdoti, 767 saranno sotto i 75 anni (in realtà quelli possibilmente attivi si attesteranno sui 750) e solo 94 saranno quelli sotto i 40 anni. Il che significa che, nella grande maggioranza delle realtà diocesane (parrocchie, comunità pastorali, cappellanie), non vi sarà la presenza di un sacerdote giovane. A Milano, per esempio, si prevede che gli under 40 saranno solo 14. Naturalmente, due dei dati cruciali sono rappresentati dalle cifre relative agli ingressi in Seminario (6 nel 2022) e alle ordinazioni: per il 2023 sono 15 i candidati, ma il numero medio annuale oscillerà intorno ai 12, come cifra tendenziale, tra i 17 di una previsione ottimistica e i 7 della pessimistica».
Francesco Peloso Adista Notizie n° 21 17 giugno 2023
www.adista.it/articolo/70142
SINODO
Dove va la Chiesa sinodale?
Riflessione che Enzo Bianchi ha tenuto lo scorso 04 giugno nella fraternità monastica di Cumiana (TO) sull’andamento dei lavori sinodali della Chiesa. Buon ascolto!
Omosessualità: ripensamenti (di Cosimo Scordato)
In questo testo, Cosimo Scordato esamina alcuni passaggi di uno dei frutti del “Cammino sinodale tedesco”. Utile riflessione per cogliere il senso dei “ripensamenti sinodali” che offrono alla chiesa cattolica la occasione preziosa per rivedere le categorie teologiche di comprensione della creazione e della redenzione. Ringrazio Cosimo per questo testo, che pubblico volentieri (ag)
Recentemente ci siamo imbattuti in alcuni passaggi del testo della Commissione del Sinodo tedesco, presentato diversi mesi fa al papa, che rappresenta una svolta nel percorso del magistero, seppure in itinere. Presentiamo una prima sottolineatura.
“Ogni uomo è creato da Dio nel suo genere e in questa sua condizione creaturale ha un valore intoccabile; ad ogni persona umana appartiene il suo orientamento sessuale, in maniera indissolubile, esso non è stato scelto ed è invariabile. Come immagine di Dio dobbiamo a ciascuno un uomo attenzione e rispetto a prescindere dall’orientamento sessuale; tutti i credenti sono obbligati a ad agire contro ogni discriminazione giustificata sull’orientamento sessuale. Dato che l’orientamento sessuale appartiene all’uomo, come è stato creato da Dio stesso, esso va trattato eticamente allo stesso modo dell’orientamento eterosessuale. Ogni uomo è chiamato a integrare la sua sessualità nello sviluppo della sua vita. La responsabile sessualità genitale nella relazione con l’altra persona va orientata all’attenzione del valore e dell’autorealizzazione, dell’amore e della fiducia, della reciproca responsabilità come anche della specifica dimensione della generatività. Essa si realizza nelle relazioni che vengono costruite sulla esclusività e sulla durata”. (Lehramtiliche Neubewertung von Homosesualitaet, Handlungtext; Nuove valutazioni dottrinali sull’omosessualità).
Un passaggio significativo dal punto di vista squisitamente teologico è quanto affermano i vescovi nel momento in cui ci propongono la condizione omosessuale come facente parte della creazione di Dio. Non che vada sottovalutato il percorso culturale, che fa da sfondo alle nuove acquisizioni; ma in questo modo i vescovi si esprimono iuxta propria principia, ovvero attingendo e riproponendo un approccio nuovo alla fonte biblica. L’omosessuale (e altro ancora) è creatura di Dio e come tale va riconosciuto non come un “fuori programma” dalla creazione, ma facente parte di essa e integrato nel progetto di Dio. Il fatto di cominciare a guardarlo come creatura, nell’orizzonte di tutto il creato, entra in circuito col fatto di riconoscerlo a immagine e somiglianza di Dio; come tale, l’esperienza di amore cui egli è chiamato, fa parte di quella rivelazione, che annunzia Dio come sorgente e meta del cammino di tutte le creature e che rilegge la ricerca di amore omosessuale come manifestativa dello stesso amore di Dio.
L’affermazione che ogni uomo è creato da Dio “nel suo genere” ci sembra particolarmente rilevante perché sembra volere sottolineare che ogni creatura umana un suo genere, che andrà scoprendo man mano nel processo della sua crescita e del quale non deve vergognarsi perché rappresenta un atto creativo di Dio.
Come si può osservare, cambia radicalmente il punto di osservazione e si comincia riscrivere una teologia della creazione, che punta alla coppia, nelle diverse modalità in cui essa cercherà di identificarsi, come esperienza del dono di amore, che congiunge i partners nella esperienza della grazia sgorgante dall’atto creatore e perennemente creativo di Dio. Ciò che qualifica la condizione umana (sia essa etero, omo o altro ancora) è la chiamata all’amore, che ha le sue caratteristiche qualificanti e che va realizzato nella pari dignità di un progetto di vita e di uno scambio continuo della propria esistenza.
Il testo continua esplicitando ulteriormente la validità degli atti posti in essere dagli omosessuali. “La sessualità dello stesso genere, realizzata anche negli atti sessuali, non va considerata pertanto come peccato che separa da Dio e non va considerata in sé come qualcosa di brutto; piuttosto essa va considerata nella realizzazione dei valori sopraindicati.” Passaggio importante che porta all’invito conseguente rivolto dagli stessi vescovi a ripensare, tra gli altri, alcuni numeri (nn. 2357-2359) del Catechismo della Chiesa cattolica, che finora hanno considerato per sé peccaminoso ogni atto sessuale all’interno della relazione omosessuale.
In questo nuovo orientamento la Chiesa Tedesca si trova accanto anche qualche altra Chiesa (quella Fiamminga, per esempio). Il fatto che i vescovi si siano rivolti al papa, dal quale si attendono una rinnovata presa di posizione su queste tematiche, lascia intendere che il magistero di questi vescovi aspetta una valutazione da parte del papa, che potrebbe anche non venire o manifestarsi in maniera diversa. Ci piace sottolineare, però, che questo nuovo orientamento è maturato all’interno di quei lavori sinodali, che proprio il papa ha sollecitato e dal quale si aspetta qualcosa di nuovo. Il testo è frutto di un lungo e laborioso dibattito che ha impegnato vescovi e rappresentanze notevoli del laicato e presenta una sua qualche rilevanza magisteriale, che attinge alla sinodalità della Chiesa tedesca e, seppure in attesa di un riscontro da parte del papa, ovvero di chi presiede alla comunione delle Chiese, viene incontro all’esigenza di un ripensamento radicale di teorie e prassi rispetto alle quali ormai il disagio è notevole.
Come possiamo intravedere ogni sinodo ha i suoi ‘rischi’; saranno benvenuti?
Andrea Grillo “Come se non” 13 giugno 2023
www.cittadellaeditrice.com/munera/omosessualita-ripensamenti-di-cosimo-scordato
Perché me ne andrò, ma senza perdere di vista la Chiesa
Per molte persone, partecipare ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali dei membri della loro famiglia, significa essere cattolici ed essere nella Chiesa. Al di fuori di questi eventi particolari della vita, mi chiedo se queste persone siano alla ricerca di vivere una fede in Gesù Cristo e di viverla ogni giorno…
Oggi, avendo la secolarizzazione compiuto la sua opera, questa ricerca vitale non si pone quasi più. Si continua ad essere cristiani per adesione, ma non per convinzione. Scoraggiati alla lunga da una pratica priva di sapore, un gran numero di cristiani ha finito per gettare il bambino con l’acqua sporca. Per loro la Chiesa è diventata un ambito desueto destinato a scomparire tra qualche decennio.
Eppure alcune persone fanno ancora un percorso di fede, chiedono il battesimo e, senza giungere ad una pratica ecclesiale, interrogano i vangeli, scoprono la persona di Gesù e il suo messaggio universale d’Amore di Dio e del prossimo.
Un percorso guidato da incontri. È proprio a seguito della domanda posta da un’amica ebrea verso l’età dei 16 anni: “Perché vai a messa?”, che ho preso coscienza di non aver nessuna risposta da darle perché mi è improvvisamente divenuto chiaro che credevo in Dio in maniera molto vaga e credevo ancor meno a quei riti fastidiosi durante i quali mi annoiavo fortemente aspettando che finissero. E mi chiedevo se tutte quelle persone (a quell’epoca le chiese erano piene) provavano lo stesso mio sentimento, di essere là per dovere, per assicurare la loro salvezza, perché si sosteneva ancora lo slogan: “Fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”.
Poi ho cominciato a lavorare, ho fatto delle letture, quelle che la Chiesa proibiva o consigliava solo molto prudentemente. Ho fatto degli incontri, come quello di un giovane, ateo ma in ricerca, con il quale avevo occasione di parlare al di fuori del lavoro. Trovavo in lui una libertà che i credenti e le credenti assidui alle messe non avevano, essendo troppo sottomessi all’autorità e alla moralità ecclesiale.
Poi c’è stato il Concilio Vaticano II e quel giovane un giorno mi ha detto: “In realtà, quello che tu fuggi, è la chiusura della Chiesa su sé stessa, sui suoi riti, sui suoi dogmi, ma il Concilio offre una reale apertura e non riduce più la salvezza ai soli praticanti. C’è un ritorno alle sorgenti che porterà un ringiovanimento della Chiesa”. Era ancora il tempo della Speranza per la Chiesa, si parlava di quella primavera che avrebbe superato tutti gli inverni ecclesiali.
Dovevo quindi risalire alle sorgenti. Allora, ho intrapreso la lettura dei Vangeli e ho scoperto la Parola, ho scoperto che quella Parola era viva, inscritta da sempre nel più profondo di me stessa. Non ero più io che leggevo, ma qualcuno che mi parlava e mi dettava le parole a partire dalla mia lettura. Qualcuno sorgeva da quelle parole e mi apriva uno spazio di dialogo e di fede.
Semplicemente, incontravo Gesù Cristo. Ma non arrivavo a mettere in rapporto questo incontro con la Chiesa-Istituzione con tutti i suoi comandamenti, le sue proibizioni, i suoi sacramenti. Questo rapporto, non sono mai arrivata a farlo pienamente. Ho cercato maldestramente di tornare verso la Chiesa, visto che era l’unico luogo che faceva riferimento a Gesù Cristo e all’universo che lui mi aveva aperto. Ma mi tornava in mente tutto un passato di gesti ripetitivi, di termini passivi, di leggi ambigue, perché, anche se c’era stato il Concilio, né i gesti né i preti erano cambiati. Solamente, il prete aveva cambiato posizione, non essendo più rivolto verso l’altare durante le messe.
La scoperta di una comunità vivente. Così ho fatto “andata e ritorno” diverse volte per diversi anni, fino al mio incontro con la comunità Saint-Luc di Marsiglia. È stata una scoperta sconvolgente. Finalmente avevo scoperto un luogo dove si viveva realmente la Parola evangelica, dove “non si assisteva più” passivamente ma si “partecipava” con gioia e in verità. Non si veniva più a cercare il cibo settimanale. Si faceva parte di una comunità in cui ciascuno diventava un membro attivo. Ci si poteva esprimere, anche se quell’espressione usciva un po’ dagli schemi. Ci si poteva assumere delle responsabilità, incoraggiati dai preti accompagnatori. E la definizione che siamo tutti “sacerdoti, profeti e re” assumeva lì tutto il suo senso.
Credevo allora ingenuamente che questa esperienza si sarebbe estesa ad altre parrocchie e che ci sarebbe stato così un rinnovamento della Chiesa, una primavera, come si diceva allora. Ma non è stato così. C’erano preti che rifiutavano tale apertura, come se si togliessero loro delle funzioni. I giovani che portavano delle novità con la musica o l’espressione artistica erano respinti. I tradizionalisti che con la conservazione del latino e il prete rivolto verso l’altare tentavano di mobilitare i cristiani nostalgici del passato e prendere il sopravvento. E l’Istituzione, pur diffidando di loro, diffidava ancor di più della novità, della creatività, dell’assunzione di responsabilità da parte dei laici. Era una cosa sospetta, dava l’idea della setta e soprattutto toccava la perdita di un potere cristallizzato sull’eucaristia, ambito riservato ai soli preti maschi e celibi, e sui tabù della sessualità.
A poco a poco, quelle prese di posizione, le diverse encicliche da cui uscivano solo divieti fecero fuggire i giovani. Molti cristiani se ne andarono, la maggior parte allevarono i loro figli senza farli battezzare, dicendo che avrebbero scelto i figli stessi più tardi, ma senza orientarli verso la fede in Gesù Cristo o almeno verso l’esistenza di Dio. E l’ateismo prese allora il sopravvento su tutte le forme di fede. Le chiese furono così abbandonate, frequentate solo da poche persone anziane abituate a sottomettersi all’ “ancien régime”.
La fede a costo dell’Istituzione. Per fortuna, la comunità di Saint Luc mi permetteva di vivere la mia fede. Ma sarebbe durato? Evitavo di pensarci.
È grave il rifiuto di cambiare, l’arroccamento dietro la “Tradizione” che porta al disprezzo e al rifiuto dei preti sposati (“ridotti allo stato laicale”), alla scomunica dei divorziati-risposati. È grave l’espressione: “piuttosto veder morire la Chiesa e i cristiani che rinunciare al nostro status gerarchico”. È molto grave “preferire di salvare l’Istituzione piuttosto che il messaggio evangelico”, anche se Gesù ha tenuto a fondare un’organizzazione attorno al suo messaggio: “Su questa pietra costruirò la mia Chiesa”. Che cosa resta se si salvano solo le pietre?
Gesù, invece, non rifiuta di cambiare o di rompere con la tradizione del suo tempo. L’episodio della Cananea che gli fa prendere coscienza della sua missione verso i pagani come verso gli ebrei, ci dice che anche noi siamo sulla terra per cambiare nel nostro modo di pensare, di accogliere la Parola, nel senso del meglio e del bene per gli altri.
Nell’episodio della donna adultera, Gesù non esita a prendere posizione contro gli scribi e i farisei. Non prende in mano nessuna pietra per lapidare la donna, ma si abbassa e con il dito si mette a scrivere sulla sabbia. C’è in quel gesto di non-violenza tutto il peso della riflessione e della rinuncia, non solo al giudizio, ma al sessismo e all’ipocrisia degli scribi e dei farisei.
Per due volte fa il gesto di abbassarsi per scrivere sulla sabbia con il dito, come se la legge di Mosè dovesse essere riscritta, portata a compimento nel senso dell’amore e del perdono… Ed è ciò che inscrive nella sua mente perché niente di importante si scrive sulla sabbia, soprattutto con un dito, a parte quella legge di lapidazione destinata ad essere cancellata.
Marco 10,9: “Ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo deve separare”. Certo, questo è stato detto, ma l’episodio della donna adultera mostra che ogni caso è particolare, che la situazione dell’uno è diversa da quella dell’altro. L’episodio della Samaritana è un altro caso particolare con quei cinque mariti del suo passato. Ma né l’una né l’altra sono state giudicate.
Inoltre, Gesù non ha mai collegato la Cena a casi di ripudio che portasse all’adulterio. Solo con la lavanda dei piedi dirà (Giovanni 13,11): “Non tutti siete puri”, avendo in mente il tradimento di Giuda. Eppure sarà offerto anche a quest’ultimo il pane inzuppato che mangerà in presenza degli altri discepoli. Gesù non collega quindi il tradimento di Giuda alla possibilità di prendere il pane e il vino, e tanto meno la collega ai divorziati risposati. Si dice che i divorziati-risposati sono in stato di “peccato continuo”. Ma siamo tutti in questo stato! Chi può affermare di non aver mai ripetuto i propri errori? La prova ne è che, di fronte all’immensità dell’amore di Dio noi non possiamo che riconoscerci peccatori e questo vale per tutti. È sufficiente che ci rivolgiamo a Dio con le nostre debolezze aperte davanti a lui.
“Le porte dei sacramenti non dovrebbero chiudersi per nessuna ragione. L’eucaristia non è un premio destinato ai perfetti, ma un alimento per i deboli”. È papa Francesco che dice questo, eppure nulla viene fatto in questo senso. Se l’Istituzione avesse ragione con il suo divieto, perché lo Spirito Santo si manifesterebbe nei divorziati risposati senza tener conto della loro situazione?
Per spirito di superiorità l’Istituzione ha soppresso le ADAP (Assemblee domenicali in assenza di preti), col pretesto che tali riunioni di cristiani tendevano troppo a sostituire il prete assente nelle celebrazioni. Che peccato per l’Istituzione aver perso in questo modo l’occasione di incontrare lo Spirito Santo! Ma perché i cristiani obbediscono? Troppo spesso si mettono dalla parte dell’Istituzione, vogliono un parroco come se fosse un’ancora di salvezza. Non hanno visto il pericolo, dietro questa ingiunzione dell’Istituzione, non hanno visto che essa nascondeva dietro la sacralità dei preti rifiutata da Gesù, una ripresa di potere a proprio favore? Il fatto è che quei cristiani sono stati troppo “formattati” nella passività della sottomissione! Anzi, certi laici si arrogano il diritto di condannare perfino dei divorziati non risposati, mentre dei preti sarebbero inclini a maggiore indulgenza. Se non avessi conosciuto la comunità di Saint Luc che accetta tutte le situazioni, avrei fatto come un gran numero di cristiani, me ne sarei andata in silenzio perché l’Istituzione veicola troppe contro-testimonianze.
E adesso? La comunità di Saint Luc è invecchiata nel frattempo, nonostante la nostra apertura a tutti, nonostante la corresponsabilità preti-laici vissuta in comunità, nonostante la creatività che l’ha caratterizzata. Tutto ciò che aveva costituito la nostra primavera è lontano dietro di noi. I più vecchi sono morti o in case di riposo, i giovani se ne sono andati con motivazioni diverse dalla Chiesa, spesso più vicini a scelte umanitarie, il che è comunque una buona cosa. Visto il piccolo numero di noi che siamo rimasti, un giorno Saint Luc rischia di chiudere, nonostante tutto ciò che abbiamo fatto per rendere la liturgia più viva. Ma è la liturgia il futuro della Chiesa? L’Istituzione rifiuta di prevedere un cambiamento per il futuro perché i vecchi demoni della Tradizione risorgono continuamente per opporvisi.
Matteo 22,32: “Dio è il Dio dei vivi e non dei morti”. Non voler andare avanti verso maggiore vita e maggiore apertura nella Chiesa, significa andare indietro, e cioè scegliere il cammino che porta alla morte. Lascerò Saint Luc con grande dispiacere, ma non andrò altrove, perché non posso accettare l’idea di ritrovare una Chiesa di prima del Vaticano II. Ma non la perderò di vista soprattutto nelle feste importanti, perché l’esistenza e il messaggio di Gesù li ho imparati da lei, anche se lei non li rispetta interamente. Il doppio comandamento dell’amore di Dio e del prossimo resterà inscritto in me forse a causa del mio battesimo, ma è anche inscritto nel mondo fino alla fine dei tempi. Resterà sempre la nostra bussola, di noi cristiani, anche se navighiamo senza poter trovare pace.
Conserviamo semplicemente in noi queste due parole che Gesù ci ha lasciato: Mt 24,35: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno!” e Mt 28,20 “Sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
E poi, chissà? Forse un giorno piccole comunità di laici rinasceranno come nei primi tempi della Chiesa e lo Spirito Santo che si credeva definitivamente nascosto, risorgerà per nuove Pentecoste.
Christiane Guès in “www.garriguesetsentiers.org” del 14 giugno 2023
www.garriguesetsentiers.org/2023/06/pourquoi-je-partirai-mais-sans-perdre-de-vue-l-eglise.html
segnalato da www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230618gues.pdf
STORIA ECCLESIALE
Tutti i rami dell’inquisizione
Adriano Prosperi (α1939) cura ventotto saggi che spaziano dal Sant’Ufficio romano alle sedi periferiche, tra censura e persecuzioni: un arsenale di studi e stimoli a nuove ricerche L’apertura agli studiosi dell’archivio di quello che fu il Sant’Ufficio dell’Inquisizione romana, decretata da Giovanni Paolo II nel 1999 in vista dell’anno giubilare, ha segnato una svolta negli studi sulla vita religiosa italiana e sulla storia della Chiesa in età moderna. Da lungo tempo sollecitata dagli storici e infranta solo da qualche sporadico favoritismo, la disponibilità di nuove fonti, talora importantissime, è stata un elemento essenziale di quello che è stato definito come l’Inquisitorial turn nella ricostruzione di una fase storica decisiva per la storia della Chiesa e dell’Italia.
La lunga stagione che, reagendo – sia pure con ritardo – alla profonda crisi in cui era caduta l’istituzione ecclesiastica in età rinascimentale, ha infatti finito con il perdere i connotati prevalenti di una Riforma cattolica imperniata sulla normativa del concilio tridentino che gli erano stati attribuiti (e non di rado lo sono ancora, specie negli studi anglosassoni), per assumere invece quelli di un centralismo curiale dominato dal Sant’Ufficio, preoccupato di controllare l’ortodossia dottrinale di chierici e laici ben più che la moralità, la preparazione culturale, l’impegno pastorale del clero. Già attiva in varie forme nel Medioevo e separata dall’Inquisizione spagnola (organo dello Stato e non della Chiesa), la Congregazione dell’Inquisizione fu formalmente istituita nel 1542, la prima delle congregazioni cardinalizie, presieduta in prima persona dal papa e destinata a durare sino ad oggi come Congregazione per la dottrina della fede. A lungo canale privilegiato per la promozione delle carriere ecclesiastiche, essa ebbe un ruolo cruciale nel plasmare la struttura, l’azione, l’identità dell’istituzione ecclesiastica tra Cinque e Novecento.
In realtà, quegli archivi erano stati gravemente depauperati dalla distruzione di migliaia di fascicoli processuali ordinata da Roma quando si trattò di recuperare l’enorme quantità di documenti vaticani che Napoleone aveva fatto trasferire a Parigi: una perdita grave e irrimediabile, mentre si è conservato integralmente l’archivio di un’altra congregazione, strettamente collegata e anzi subalterna al Sant’Ufficio, quella preposta al controllo della stampa e dei libri proibiti, alla formulazione dell’Indice, all’espurgazione dei testi, soprattutto letterari, a cominciare da Petrarca e Boccaccio. Ne sono scaturiti molti e importanti studi sulla censura ecclesiastica, primi fra tutti quelli sulla proibizione della lettura della sacra Scrittura in volgare, che molto dice sullo spirito della Controriforma: «È dalla Bibbia che nascono le eresie», tuonava all’inizio del Seicento papa Paolo V, vicario di Cristo in terra, con buona pace della fede cristiana.
Quanto all’Inquisizione, nonostante quelle irrimediabili perdite, non si contano le ricerche di vario tipo che sono apparse nell’ultimo quarto di secolo sui temi che ad essa si ricollegano grazie alla possibilità di approfittare della nuova documentazione resa accessibile in Vaticano: eresie e dissenso religioso, anzitutto, ma anche magia, stregoneria, superstizioni, scienza, filosofia, letteratura, devozioni sospette, reati sessuali e comportamenti anomici in generale.
A fianco e in collaborazione con la pratica sacramentale della confessione (che si occupava dei peccati nel foro interno), l’Inquisizione (che si occupava dei reati nel foro esterno) diede vita a un’efficiente macchina di “Tribunali della coscienza”, per usare il titolo di un altro libro di Adriano Prosperi diventato ormai un classico (I ed. Einaudi 1996). Nel volume Inquisizioni, fresco di stampa, lo stesso autorevole studioso ha raccolto 28 saggi, apparsi in vari momenti e varie sedi, che spaziano dal Sant’Ufficio romano alle Inquisizioni periferiche, fino al Portogallo settecentesco, dalle streghe agli ebrei, dalle conseguenze della censura al sacramento della penitenza, da sant’Ignazio alle origini dell’Accademia dei Lincei, dalla miscredenza alla simulazione, da Galileo alla trattatistica.
Il corposo volume offre quindi un vero e proprio arsenale di studi, ricco di risultati importanti così come di preziosi stimoli a nuove ricerche, nel quale è dato intravedere anche un lungo percorso storiografico. Esso si affianca a un’altra raccolta di saggi dello stesso autore, pubblicata sempre da Quodlibet nel 2021 con il titolo di “Eresie”, che affronta problemi analoghi e spesso correlati a quelli raccolti in questo volume, ma nella prospettiva rovesciata dei perseguitati anziché dei persecutori.
Si tratta dunque nell’uno e nell’altro di scritti sparsi e diversi, che paradossalmente le introduzioni presentano in entrambi i casi in una sorta di prospettiva rovesciata rispetto ai contenuti dei volumi. Il primo si apriva infatti con un saggio su “La religione italiana e il mondo”, che delinea la storia di un Paese non solo in larghissima maggioranza cattolico ma anche fortemente influenzato dalla presenza centrale nella penisola della Roma papale, cosa che secondo Machiavelli aveva reso gli italiani «sanza religione e cattivi». Solo marginalmente quindi vi si parlava di eresie. E anche il secondo si apre con un saggio che non affronta il problema generale delle Inquisizioni ma risale invece “Alle origini della “coscienza”, in cui Prosperi muove dalla considerazione che fu nell’ambito del primo cristianesimo che prese forma il concetto di coscienza, come luogo in cui il credente «si interroga su di sé e si sottopone a un giudice infallibile», in cui individua «il fondamento interiore della verità», e trova conforto sacramentale nella confessione, cui gli inquisitori vollero attribuire il significato di vere e proprie deposizioni in foro esterno, utilizzabili quindi in sede processuale.
Non è un caso del resto che alle sue origini la Riforma protestante avesse indicato proprio nella coscienza e nel suo inviolabile primato il luogo della libertà cristiana, rivendicata da Lutero in faccia a Carlo V imperatore, e poi ben presto negata dalla Riforma magisteriale non meno che dalla Chiesa papale fino al concilio Vaticano II, per essere invece coraggiosamente preservato – come ci ricorda Prosperi – dalle minoranze religiose europee e poi americane, fino a diventare principio ineludibile delle costituzioni democratiche.
Massimo Firpo. α1946, storico, accademico “Il Sole 24 Ore” 18 giugno 2023
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