News UCIPEM n. 966 – 11 giugno 2023

News UCIPEM n. 966 – 11 giugno 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ADOZIONE E AFFIDO                Primo manuale di “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare

02 AICCe F                                          Giornata Nazionale Consulenza Familiare 2023

03 Centro Internaz. Studi Famiglia            Newsletter CISF – n.22 , 7 giugno 2023

05 CITTÀ DEL VATICANO                               Abusi, il dolore e la ricerca delle cause Al centro la maturità dei futuri sacerdoti

06 DALLA NAVATA                           Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini) – Anno A

08                                                         La mensa del «pane di vita»

09 DIVORZIO (SEPARAZIONE)     Piano genitoriale: il modello del CNF

09 DONNE NELLA (per la ) CHIESA            Cammini possibili, rischi e scenari per le donne nella Chiesa

12                                                          Sulle donne e sul gender. Una lettera aperta a Luigi Maria Epicoco

14 GIURISPRUDENZA                    Un minore può negare il consenso al riconoscimento?

16                                                          Cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare

18 MATERNITÀ SURROGATA       Maternità surrogata: altruismo, gratuità, solidarietà?

29 OMOFILIA                                    L’omosessualità, il corpo e il cristianesimo

30 PROFETI                                        Profeti. Dom Franzoni

35 RELIGIONE                                   Globalizzazione e religioni

39 VIOLENZA                                    Dietro al femminicidio: voce del verbo amare

40 VOLONTARIATO                         5 per mille 2022, aggiornati gli elenchi degli enti ammessi ed esclusi

ADOZIONE E AFFIDO

Primo manuale di “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare

Siamo tutti figli. Tutti generati dentro una storia intergenerazionale e sociale (…) Ma ci sono storie di vita in cui la dinamica della generatività subisce degli intoppi e delle fratture, storie in cui il percorso è tortuoso, a meandri: storie in cui il diritto di diventare ‘persona’ è seriamente minacciato”. Nella seconda di copertina del nuovo volume “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare” queste parole raccontano le storie che accomunano quei figli che al mondo non hanno un genitore o un familiare di nascita che possa accudirli e accompagnarli nella crescita. Sono le storie di quei bambini che vivono l’esperienza dell’adozione e dell’affido, due temi trattati volutamente insieme nel primo manuale italiano sull’argomento, a cura delle psicologhe dell’Università Cattolica Rosa Rosnati e Raffaella Iafrate, presentato il 7 giugno 2023 a Milano, nella Sala Negri da Oleggio in largo Gemelli.

Per sviluppare pienamente la propria identità il bambino, infatti, ha bisogno dei contesti familiare e sociale che, intrecciandosi, lo accolgano e se ne prendano cura, ed è per questo che entrambe le realtà dell’adozione e dell’affido sono ugualmente importanti nei casi di abbandono dei minori.

Durante l’evento a confrontarsi sulle tematiche del volume edito da Vita e Pensiero con la prefazione di Eugenia Scabini, sono Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano; le mamme adottive Roberta Osculati, vicepresidente del Consiglio comunale di Milano; e Giulia Cagnolati del Centro per le famiglie del Comune di Piacenza, Giancarlo Tamanza, docente di Psicologia clinica dell’Università Cattolica, con la moderazione del direttore del Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia, Camillo Regalia.

L’unicità del volume sta in una proposta scientifica e formativa specifica che fino ad oggi è mancata tra i professionisti del settore, non solo psicologi e assistenti sociali ma anche medici, avvocati, magistrati, educatori e le famiglie adottive e affidatarie. Un’altra novità del libro è la possibilità di un approfondimento interdisciplinare in continuo aggiornamento con materiabili accessibili online a chi si registra attraverso il QR code nella terza di copertina.

Video                   https://youtu.be/-SXfBBxWGiI

(G. P. T.)                               Agenzia Sir                         5 giugno 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/6/5/universita-cattolica-milano-il-7-giugno-presentazione-del-primo-manuale-di-psicologia-delladozione-e-dellaffido-familiare/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2

AICCe F         Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari

Giornata Nazionale Consulenza Familiare 2023

La Giornata Nazionale della Consulenza Familiare è una iniziativa dell’AICCeF per far conoscere al grande pubblico la Consulenza Familiare, le sue caratteristiche e la sua efficacia, e promuovere la figura del Consulente della Coppia e della Famiglia.

Tutti noi Soci dell’AICCeF ci siamo messi in gioco per questo scopo comune e sono state organizzate tante manifestazioni, eventi, incontri, azioni creative, che sono state vissute con gioia, determinazione e senso di appartenenza ed ogni altra iniziativa che sia utile a farci conoscere al grande pubblico

                Quest’anno siamo alla 3° edizione e come sempre i Consulenti Familiari si sono attivati per organizzare eventi convegni, open day, manifestazioni e ‘penetrazioni’ nel tessuto sociale per promuovere noi stessi e la Consulenza familiare.

                Mai prima d’ora era accaduto che la Giornata Nazionale della Consulenza familiare venisse preceduta da una informazione editoriale tanto precisa e tanto diffusa. Molti quotidiani hanno dato la notizia della Giornata nazionale in anticipo.

                Ha iniziato “La Repubblica”, nella sua edizione del centro Italia del 24 maggio, che ha dedicato un’intera pagina all’evento AICCeF titolando con una frase importante, significativa e per noi emozionante: Il ruolo essenziale dei Consulenti familiari. L’articolo continua illustrando le attività del Consulente, a chi si rivolge e con quali metodologie, spiega come si diventa Consulenti Familiari e a quali scuole di formazione rivolgersi.

                L’vento principale della Giornata Nazionale  si è tenuto a Napoli presso il Salone dell’Arcivescovado, organizzato dalla Presidente Stefania Sinigaglia, col titolo: Il Consulente familiare, un professionista socio-educativo al servizio del singolo, della coppia e della famiglia.

                A fianco della Presidente, che ha condotto la manifestazione, sono intervenuti il sindaco di Napoli Francesco Beneduce e il rettore della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, Francesco Asti.

                Nella sua introduzione la Presidente Sinigaglia ha detto, di fronte ad una sala gremita: “Una prevenzione integrata si riferisce alla interdisciplinarietà dei saperi, alla possibilità di partecipare, in qualità di Consulenti Familiari, alla costruzione di reti sociali, ad un lavoro congiunto con le agenzie del territorio (Scuola, Università, Servizi Sociali, Municipalità, ecc..). Ecco perché importate inquadrare il Consulente Familiare all’interno dei processi di partecipazione sociale, ossia nella cornice di processi di restituzione di parola, di azione e di attività.”

                Immagini, fotografie e resoconto delle iniziative avvenute in altre città: Belluno, Milano, Roma, Siena

Vedi anche https://youtu.be/Y7YZZO6JVGs?t=5

www.aiccef.it/it/news/la-giornata-nazionale-della-consulenza-familiare.html#cookieOk

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 22, 7 giugno 2023

  • After work”: un film potente che si interroga sul lavoro. Arriva nelle sale il 15 giugno il nuovo docu-film di Erik Gandini sul tema del lavoro. Con interviste realizzate in nazioni molto diverse, Italia, America, Corea e Kuwait, il film esplora la relazione etica che gli uomini hanno con il lavoro, come esso stia cambiando (nelle nuove generazioni e nel futuro, visto che nel breve volgere di pochi anni molte professioni saranno sostituite dall’Intelligenza Artificiale). Ma come cambieranno la società e le organizzazioni sociali dei paesi, senza il lavoro? Ecco il trailer su YouTube – 1 min 38 sec 

                www.youtube.com/watch?v=QgaUE9XYd0E

ª Family Global Compact. Il documento presentato ufficialmente il 30 maggio con un messaggio del Papa e con una conferenza del Dicastero Laici, Famiglia e Vita e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è frutto di un lavoro iniziato nel 2021 a cui ha collaborato attivamente il Cisf. È stato realizzato un “complesso lavoro di mappatura e di ascolto di tutte le conoscenze presenti nei centri di ricerca sulla famiglia dei vari Paesi“, spiega Francesco Belletti, direttore del Cisf, in un lungo articolo su “Il Sussidiario”. “Il testo finale, esito di un’attenta e impegnativa rielaborazione dei dati raccolti, ha sintetizzato una serie di precise indicazioni operative, strutturate su tre aree tematiche: 1) la qualità delle relazioni familiari; 2) la promozione della famiglia come soggetto sociale; 3) le sfide sociali e politiche oggi più urgenti” [qui il link per leggere l’intero approfondimento]

www.ilsussidiario.net/news/family-global-compact-la-rete-di-papa-francesco-per-difendere-la-famiglia/2547392

ª Famiglia e costo dei figli. “Per troppi anni la società e le politiche pubbliche hanno confermato che i figli sono una questione privata, rifiutandosi di sostenere i giovani e le famiglie davanti ai costi, all’impegno, alle scelte e ai sacrifici che mettere al mondo un figlio inevitabilmente genera. Salvo poi, oggi, sollevare incessanti allarmi sulla sostenibilità del sistema previdenziale (chi pagherà le nostre pensioni?), che mi pare l’ennesima beffa ai danni delle giovani generazioni”: Francesco Belletti, direttore Cisf, intervistato da Mondo Padano ha fatto una lunga analisi sul problema della natalità e del sostegno alle famiglie con figli.

                www.mondopadano.it/stories/attualita/26686_se_il_figlio__solo_un_costo

ª Giappone, un piano da 25 miliardi di dollari per rilanciare la natalità. Il primo ministro giapponese Kishida Fumio ha incaricato i ministri competenti di stanziare un budget annuale da 3 trilioni di yen, o circa 25 miliardi di dollari, per affrontare in modo intensivo il calo del tasso di natalità del paese nei prossimi tre anni. Il Giappone, con una popolazione di 125 milioni di abitanti, l’anno scorso è sceso al di sotto delle 800mila nascite, toccando il livello più basso della natalità mai registrato in un secolo. Come scrive NHK-Japan, Kishida, nel garantire il budget, ha espresso il suo impegno a ridurre l’onere finanziario dell’istruzione superiore, prevenire la povertà e gli abusi sui minori e ampliare il sostegno ai bambini con disabilità.

ª Le famiglie americane? Ecco come sono composte. Il 25 maggio è uscito il nuovo rapporto demografico (riferito al 2020) del Census Bureau americano. È interessante, nell’incrocio di dati relativi alle etnie, età della popolazione, tassi di fecondità e molto altro, guardare alle famiglie, che ammontano in totale a 126,8 milioni. Oltre un quarto (27,6%) di esse consiste in una persona che vive da sola; il 7,2% dei nuclei è multigenerazionale; più di 6 milioni di minorenni vivono a casa dei nonni; il 53,2% delle famiglie sono costituite da coppie (per il 71% sposate); le famiglie costituite da coppie dello stesso sesso sono l’1,7%.

www.census.gov/newsroom/press-releases/2023/2020-census-demographic-profile-and-dhc.html

ª Le equilibriste, le madri in Italia nel 2023. A maggio è stato pubblicato il Rapporto annuale di Save the Children sulla maternità in Italia che approfondisce la condizione della maternità in Italia: divario di genere nel lavoro e nella cura familiare, il vissuto difficile delle mamme tra parto e conciliazione dei carichi di lavoro di cura. Tutto questo, nell’anno in cui le nascite sono scese sotto quota 400mila, impone, si legge nel report, di intervenire in modo integrato su più livelli: dalle difficoltà abitative dei giovani alla flessibilità lavorativa, dalla presenza di servizi territoriali per la prima infanzia e cure pediatriche fino al sostegno economico alle famiglie.

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=9%3dLYDePY%26u%3dY%269%3dWDY%260%3dWAYUY%264%3dDEOyO_Cvbv_Nf_1wnu_Al_Cvbv_Mk2Y.D65AECn93Du0C0w.EE_MZyk_WOLF7uEx_MZyk_WOB4GnO_Cvbv_Mk4L7Jj0D_MZyk_WOLF7kH48jV4JwE_Cvbv_MkuA-zL4E7DkN4N3A-76-v7E01J4Oj-EE6uEv-InH-MeAY.A9o%260%3d8P2RxW.wAE%26D2%3dbNWI7v6j%26PD%3dWIXNeEfSVCWMVD%26D%3dybAATYj8wZBbNeAXy8l8NVlax7FBLAm8yAlWSdmBv6jdOcHXPXH0N8IATYoB1dGe

ª Dalle case editrici

  • A. Valle, “Le donne della Repubblica“, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2022, pp. 224
  • S .Vicari, S. Di Vara (a cura di), “Bambini, adolescenti e Covid 19. L’impatto della pandemia dal punto di vista emotivo, psicologico e scolastico“, Erickson , Trento, 2021, pp. 103
  • Joanna Bourke, Vergogna. Considerazioni globali sulla violenza sessuale, Carocci, Roma 2023, pp. 320

Joanna Bourke, docente di Storia al BirkBeck College di Londra, compie la prima vera analisi globale sulla violenza sessuale, attraverso le vicende storiche ma anche gli scenari dei diversi paesi e culture. “Vergogna” è un libro importante, un libro che identifica il flagello dello stupro e cerca azioni possibili per eliminarlo dalle nostre società. (…) (B. Ve.)

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=3%3dBV0YFV%26q%3dS%26y%3dT0S%26z%3dT7SKV%26z%3d85Lu_HbuU_SL_JVsa_TK_HbuU_RQO2M.q3r9rDn1nJnI5AfDl.Ay_HbuU_RQEj4t3_wqdr_7ftEl_HbuU_RQFjM4DjJ57w_HbuU_RQT83tKkDpOxRlDq5r3yEwAgHt.Hi6%26o%3dEzI757.DpL%26nI%3dGU7Z%265K%3d7ZCUEVKZ6TBT6U%26s%3d8g5CWg2pZ8Xq692G3h1l3f5Fb9VKUhWJ4f6lWjXBZBQK6CVE4kWKYBRpbiUo3hUlW84l
  • Save the date
  • Enti (Eu) – 14 giugno 2023 (17.00 – 20.00). “Award Ceremony of the European Art Contest – Who is Saint Joseph for me?”, organizzata da FAFCE.

www.fafce.org/invitation-i-invitation-to-the-award-ceremony-of-fafce-european-art-contest

  • Convegno (Roma-Web) – 15 giugno 2023 (15-18). “Le scuole di presentano: Scuola e Università per la formazione dei futuri insegnanti”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Lumsa.

www.lumsa.it/le-scuole-si-presentano-scuola-e-universit%C3%A0-la-formazione-dei-futuri-insegnanti#:~:text=L%E2%80%99%20Universit%C3%A0%20LUMSA%20e%20il%20Dipartimento%20di%20Scienze,dei%20futuri%20insegnanti%20di%20scuola%20dell%E2%80%99infanzia%20e%20primaria.

  • Evento (Roma-Web) – 7 luglio 2023 (inizio ore 11). “Rapporto Istat 2023: La situazione del paese”, organizzato dall’Istituto Nazionale di Statistica                                                           www.istat.it/it/archivio/285017
https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=out49a1:a=.-

4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vtw_NCLM

Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=out49a1:a=.-4&x=pv&65kac&x=pp&qzb9g6.b9g9h/:i4-7d=vtw_NCLM

CITTÀ DEL VATICANO

Abusi, il dolore e la ricerca delle cause Al centro la maturità dei futuri sacerdoti

      La prefazione del cardinale Parolin al libro “Il dolore della Chiesa di fronte agli abusi” (ed. Pazzini).

  Il vescovo Daucourt (α1941), lo psicologo padre Cencini, il teologo Torres Queiruga riflettono sulla Chiesa di fronte a questa terribile piaga, chiedendosi anche cosa fare degli abusatori. Nella prevenzione ha molta importanza la formazione nei seminari e negli istituti religiosi. È sempre più chiaro come la tragica realtà di queste violenze sia collegata a gravi deficit di personalità sul pieno emotivo e della capacità relazionale.

                Di fronte al dolore procurato da comportamenti cha appaiono folli, drammatici, oltre qualunque possibile spiegazione e, perfino, qualsiasi capacità di compassione, l’essere umano ha bisogno di trovare “una” causa. Più essa è chiara e circoscritta, più sembra lenire la rabbia e lo sconcerto che quell’evento ha prodotto. Tuttavia le vicende umane si sottraggono alla spiegazione univoca e lineare: tanto è complesso l’essere umano, tra bene e male, tra risorse e limiti, altrettanto sono inevitabilmente complesse le motivazioni che muovono il suo cuore e talvolta i suoi gesti. L’abuso sui minori è tra quelle situazioni insostenibili da accettare, ancor più quando a commettere il crimine è una persona che ha fatto del servizio di Dio e del suo popolo una missione di vita. È troppo! Urge porvi rimedio. Su questo intervengono i temi che in questi anni la Chiesa ha posto con forza: dalla fine dell’omertà, alla trasparenza, alla formazione, alla direzione spirituale, all’accoglienza e all’ascolto delle vittime.

Poi rimane aperto l’interrogativo ultimo di come dare un senso alla sofferenza degli innocenti. Domanda che non ha risposta al di fuori della fede. Solo se Dio è nelle vittime possiamo intravedere un senso, altrimenti siamo nell’angoscia. Nello specifico, in questi anni si è cominciato a porre la questione di quale sia la causa: «è colpa del celibato!»; «se la Chiesa fosse più attenta a non accogliere omosessuali»; «se vi fosse meno clericalismo!». E infine ci si è chiesti che fine deve fare la persona del colpevole (…).

La pratica della Chiesa latina, che chiede ai suoi ministri l’impegno del celibato e, di conseguenza la continenza sessuale, risale a due Concili significativi: il Concilio di Elvira nel IV secolo, e il Concilio Lateranense IV nel 1215, e da allora tale norma è rimasta una costante per i sacerdoti della Chiesa cattolica latina. Il problema degli abusi sui minori, invece, ha avuto un andamento discontinuo, in termini numerici di crescita e decrescita nel corso degli anni. È evidente, quindi, che il collegamento causa-effetto tra l’una e l’altro sia indebito, e ha poco senso mettere in discussione il celibato in sé, sulla base delle sue derive.

Vanno presi in considerazione piuttosto – per l’incidenza di rilievo sul fenomeno abuso – i programmi formativi di seminari e istituti religiosi che solo negli ultimi decenni hanno posto una seria attenzione alla maturità umana e psicoaffettiva dei candidati e alla qualità delle relazioni fraterne, prima decisamente in ombra rispetto alla formazione accademica e spirituale. Diventa più chiaro, allora, come la piaga dell’abuso, dentro e fuori la Chiesa, sia collegata piuttosto a personalità disarmoniche, gravemente deficitarie sul piano emotivo e di capacità relazionale. Non solo. Nonostante tale acquisizione, in una certa gamma di test psicodiagnostici i preti abusanti, quanto a caratteristiche individuali esterne o più superficiali, non differiscono in modo significativo da quelli non abusanti, né manifestano più patologie rispetto al gruppo di controllo, dato che suona sconcertante rispetto al nostro bisogno di trovare delle evidenze chiare e univoche. In altre parole: non sono immediatamente riconoscibili, a conferma che le generalizzazioni grossolane sono del tutto inadeguate a “spiegare” il dramma dell’abuso sui minori (…).

La maturità umana: è proprio questo l’aspetto centrale, seppur non esclusivo, da prendere oggi in seria considerazione nella valutazione di chi è in cammino vocazionale, nei seminari e nelle comunità religiose, e non solo nella fase iniziale del percorso, ma per tutta la vita ministeriale e apostolica. Lo sguardo sulla persona deve essere globale, capace di valutare il suo funzionamento attuale, e come siano state vissute e integrate (o meno) eventuali situazioni drammatiche che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza: violenze fisiche e verbali, abbandoni, ambienti conflittuali.

Ogni parcellizzazione della persona a un solo dato della sua storia o della sua personalità rappresenta una pesante e ingiusta condanna a priori sulla maturità e sulla capacità di amare in modo autentico, fedele e libero, secondo la propria specifica vocazione. In questa logica di rispetto della complessità dell’essere umano, in cui ogni dimensione di sé va letta nell’insieme di un tutto più ampio, anche l’orientamento omosessuale non può essere considerato né causa, né aspetto tipico dell’abusante, ancor più quando è sganciato dall’assetto generale della persona. Un’associazione grave e scientificamente insostenibile quella che collega il sexual offender alla sua omosessualità, a priori, e senza una valutazione soggettiva.

La Chiesa, oggi, finalmente, intende promuovere questo clima di attenzione alla persona e alla formazione umana come prevenzione degli abusi da parte di ministri ordinati, perché «ora non possiamo più dire non lo so», riconosce mons. Daucourt. È unanimemente condiviso, infatti, che nel nostro tempo, quanto mai complesso e articolato, non si possono improvvisare i ruoli di superiore o formatore. Certo la loro preparazione non costituisce garanzia assoluta di un andamento sereno del futuro presbitero, ma è ineludibile l’esigenza che gli educatori abbiano gli strumenti necessari per assumere un ruolo tanto delicato e di grande responsabilità, personale ed ecclesiale. Non basta, però, neppure questo. È necessario ripensare con coraggio e chiarezza anche l’accompagnamento post-formazione: la solitudine e un eccesso di lavoro troppo spesso minano la serenità e l’equilibrio psicologico ed emotivo dei presbiteri, rendendo urgente una riflessione sul dopo-seminario, sui cambiamenti antropologici e sull’ambiente in cui il ministro si inserisce (…).

Il tema della responsabilità della Chiesa, pertanto, diventa centrale, e monsignor Daucourt rappresenta una delle poche voci – annota padre Cencini – che cerca di offrire risposte concrete (come “La piccola Betania”) per non abbandonare a loro stessi quanti commettono il crimine, «dei quali essa resta madre». Da questa attenzione del vescovo verso l’abusatore e da una lettura sistemica che riconosce la complessità del fenomeno, nasce la proposta di «quasi un decalogo» – come lo definisce il formatore e psicologo – di atteggiamenti ottimali che dovrebbero mettere in atto tanto la Chiesa quanto le singole comunità per prevenire e/o affrontare il male. Si parte dal riconoscimento e denuncia dell’abuso, all’identificazione delle radici e delle conseguenze del dramma, e si giunge fino all’attenzione alla vittima e alla vigilanza sull’abusatore, attraverso la formazione iniziale e permanente di seminaristi e presbiteri (…).

L’apprezzamento per il contributo e l’opera di monsignor Daucourt, quindi, non è solo per il coraggio e la chiarezza di parlare apertamente della assai dolorosa e sconcertante vicenda dell’abuso da parte dei presbiteri della Chiesa cattolica, ma anche per la capacità di manifestare «il cuore di Dio e il coraggio d’un Pastore che non cessa di cercare e curare le sue pecore smarrite, forse quelle più smarrite» (…).

Chi ha sbagliato, chi ha perso la strada, chi ha compiuto del male non può essere abbandonato a sé stesso; è la possibilità che una storia ferita possa trovare accoglienza oltre la disperazione, e chi ha sbagliato possa «avanzare su un cammino di pace e di guarigione» a dare speranza (…).

Pietro Parolin, (α1955) Segretario di Stato di Sua Santità             “Avvenire” 7 giugno 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230607parolin.pdf

DALLA NAVATA

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini)

Deuteronòmio                 08, 03. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.

Salmo responsoriale 147, 14. Egli mette pace nei tuoi confini e ti sazia con fiore di frumento. Manda sulla

                                               terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce.

Paolo a 1Corinzi              10, 17.Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

Sequenza

Sion, loda il Salvatore, la tua guida, il tuo pastore con inni e cantici.

Impegna tutto il tuo fervore: egli supera ogni lode, non vi è canto che sia degno.

Pane vivo, che dà vita: questo è tema del tuo canto, oggetto della lode.

                Veramente fu donato agli apostoli riuniti in fraterna e sacra cena.

                Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi oggi dallo spirito.

Questa è la festa solenne nella quale celebriamo la prima sacra cena.

È il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge; e l’antico è giunto a termine.

                Cede al nuovo il rito antico, la realtà disperde l’ombra: luce, non più tenebra.

Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena: noi lo rinnoviamo.

Obbedienti al suo comando, consacriamo il pane e il vino, ostia di salvezza.

È certezza a noi cristiani: si trasforma il pane in carne, si fa sangue il vino.

Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura.

                È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi.

                Mangi carne, bevi sangue; ma rimane Cristo intero in ciascuna specie.

                Chi ne mangia non lo spezza, né separa, né divide: intatto lo riceve.

                Siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato.

                Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca.

                Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito!

                Quando spezzi il sacramento non temere, ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte, quanto nell’intero.

                È diviso solo il segno non si tocca la sostanza; nulla è diminuito della sua persona.]

Ecco il pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli: non dev’essere gettato.

                Con i simboli è annunziato, in Isacco dato a morte, nell’agnello della Pasqua, nella manna data ai padri.

Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi.

                Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi

Giovanni             06, 51. In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La mensa del «pane di vita»

L’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»: sono queste le parole con cui Mosè cerca di far capire al popolo il segreto della loro riuscita, la possibilità di essere ora finalmente giunti davanti al Giordano, alla Terra promessa, di essere riusciti a superare il deserto e tutti i pericoli mortali che esso racchiude.

                L’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore, l’essere umano vive della parola di Dio: è questo l’insegnamento finale con cui Mosè si congeda dal suo popolo. Ora il termine «parola» in ebraico ha una molteplicità di sensi che va dal semplice significato letterale a quello di «fatto», «evento», «realtà» e persino «cosa». E la «Parola» di Dio è tutte queste cose insieme, dato che è per sua natura performativa, produce ciò che dice, è – per usare un concetto aristotelico – «potenza e atto» insieme. Tutta la rivelazione biblica è narrazione di questa «Parola» e, nello stesso tempo, è essa stessa «Parola», dato che costantemente comunica vita, diventa evento, realtà in colui che l’ascolta.

                Secondo il Prologo di Giovanni, l’ultima edizione di questa «Parola» è la carne del Figlio, la sua umanità: «E la Parola divenne carne» (Gv 1,14). Gesù è la Parola incarnata di Dio, è l’evento, il fatto, la realtà piena, «la carne» capace di nutrire, di comunicare vita, di mantenere in vita. E dato che questa «carne» proviene da Dio, non solo non conosce morte, ma produce vita senza fine, vita eterna.

                Se teniamo in conto tutto questo, allora il discorso evangelico di oggi acquista un più ampio, e forse più corretto, senso e significato: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (…). In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Sicuramente a queste parole seguirà poi il gesto dell’ultima cena, lo spezzare il pane e il condividere il calice di vino, segno significante e significato della consegna che Gesù farà di sé stesso per divenire «cibo di vita eterna» per tutti; ma molto spesso questa festa del Corpus Domini viene ridotta solo al simbolo sacramentale, al «pane eucaristico», dimenticando tutto ciò che lo precede e che, di fatto, lo realizza, ovvero «il pane-Parola».

                Bene lo aveva capito san Girolamo quando scriveva: «Il nostro unico bene in questo tempo terreno è che noi mangiamo carne e beviamo il suo sangue non solo nel sacramento, ma anche quando leggiamo le Scritture. Infatti la conoscenza delle Scritture è il vero cibo e la vera bevanda, provenienti dalla parola di Dio» (Girolamo, Eccl. III, 12.13, 193-198).

                Nella tradizione cristiana, infatti, sono due le «mense» a cui i fedeli sono invitati a prendere parte: la mensa della Parola e la mensa del Pane. E così viene anche ribadito dai padri conciliari: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, n. 21).

                È usanza in questa festa organizzare processioni, portare in giro per le strade, racchiusa in un ostensorio, l’ostia consacrata; un’usanza che certamente non risale alle origini delle prime comunità cristiane, ma che ha assunto nei secoli un’importante forma devozionale, che a volte però può trasformarsi, nel sentimento popolare, in un segno più apotropaico che prettamente evangelico. E perché non portare in processione anche l’«altro Pane», ovvero la Parola? E ancora: se il «Pane e la Parola» sono il cibo che Dio offre a tutti i credenti, non è forse la «mensa» il luogo più appropriato per ritrovarsi, far festa e ricevere tale dono?

                Ester Abbattista, biblista

DIVORZIO e SEPARAZIONI

Piano genitoriale: il modello del CNF

Pubblicato sul sito del Consiglio Nazionale Forense il modello di riferimento per predisporre il nuovo strumento, obbligatorio nelle separazioni e divorzi dopo la Riforma Cartabia

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-quarto/titolo-ii/

Prima di chiudere la propria relazione, la coppia deve aver trovato una convergenza essenziale sul progetto educativo per i propri figli. Questa è una delle finalità della Riforma Cartabia, per rimediare all’accesa conflittualità delle separazioni familiari che si riversa inevitabilmente a danno dei figli. Lo strumento utilizzato per favorire questa convergenza, quando la coppia non procede consensualmente alla separazione, è il piano genitoriale previsto dall’art. 473 bis.12 comma 4 c.p.c.

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-secondo/titolo-iv-bis/capo-ii/sezione-i/art473bis12.html

                Il piano genitoriale costituisce un documento obbligatorio che deve essere sempre allegato al ricorso introduttivo e nella comparsa del convenuto a pena di decadenza (art. 473 bis.16 c.p.c.).

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-secondo/titolo-iv-bis/capo-ii/sezione-i/art473bis16.html

Il contenuto obbligatorio ed indispensabile del piano è indicato dalla norma, e deve offrire al Giudice una completa descrizione della vita dei minori prima dello scioglimento della convivenza dei genitori con particolare riguardo alle attività scolastiche, extrascolastiche, alle frequentazioni abituali, alle vacanze normalmente godute e le scelte del percorso educativo che i genitori intendono offrire al minore.

All’indomani dell’entrata in vigore della norma, alcuni Tribunali hanno reso disponibili delle linee guida per la redazione del piano, in modo da aiutare le parti a costruirlo con completezza, realizzando un resoconto accurato sulle informazioni necessarie al Giudice per elaborare la proposta.

                Adesso è il CNF a fornire un vero e proprio modello per la stesura del piano.

www.ordineavvocatims.it/wp-content/uploads/2023/05/Piano-Genitoriale-CNF-21.5.23.pdf

Il piano genitoriale del CNF si compone di una parte descrittiva della situazione precedente la cessazione della convivenza, includendo informazioni anche sulle autovetture in uso alla famiglia, sugli eventuali motocicli in uso ai figli, sui nonni e i parenti che collaborano alla gestione dei minori con relativi incombenti assegnati, le eventuali baby sitter che si occupano del minore, con precisazione dell’orario di lavoro e del costo settimanale. Sempre nella prima parte descrittiva, l modello specifica se il figlio segue lezioni private, per quali materie e con quale frequenza, che sport pratica, quali impegni sportivi lo occupano nel fine settimana. Per i figli preadolescenti e adolescenti un riquadro permette di precisare anche se al minore sono concesse o meno uscite serali e in quali giorni e momenti e quali sono gli orari di rientro a casa. Sempre la prima parte del modello fornisce dettagliate informazioni sulle condizioni di salute del minore, su eventuali disturbi dell’apprendimento, patologie particolari, allergie, inclusi i farmaci non da banco, e i medici e gli specialisti alle cui cure il minore è stato affidato negli ultimi tre anni.

La seconda parte del modello è invece dedicata al vero e proprio piano per la gestione dei minori dopo la cessazione della convivenza tra i genitori. In questa sezione è indicata la routine settimanale, l’alternanza con i genitori, chi dovrà occuparsi di accompagnare e riprendere i figli da scuola, e agli impegni sportivi ed extrascolastici. Dovrà essere precisato anche, in caso di impedimento del genitore, quali sono le figure delegate ad accompagnare i figli ai vari impegni e come verranno ripartite le vacanze e le festività.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_45890_1.pdf

Avv. Sara Occhipinti                       Altalex                 01 giugno 2023

www.altalex.com/documents/news/2023/06/01/piano-genitoriale-modello-cnf?utm_source=Eloqua&utm_content=WKIT_NSL_Altalex-

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

Cammini possibili, rischi e scenari per le donne nella Chiesa

L’impianto organizzativo della Chiesa Cattolica rimane uno dei pochissimi ambiti – almeno nel mondo occidentale – ancora caratterizzato da una radicale discriminazione di genere. Le donne cattoliche fanno un’esperienza unica di straniamento, dal momento che vivono in un mondo nel quale possono essere medici, avvocati, muratori, presidenti del consiglio, ma non preti perché appartengono a una comunità di fede che le considera strutturalmente inadatte a svolgere ruoli che le mettano direttamente a contatto con il sacro.

La Chiesa, con Papa Francesco, chiede di accettare questo dato di fatto come una “verità teologicamente fondata” senza fare altre domande, si veda il colloquio con una giovane ragazza che gli chiedeva perché una donna non potrebbe diventare Papa all’interno del documentario di DisneyFaccia a faccia con Papa Francesco”.

www.vanityfair.it/article/faccia-a-faccia-papa-francesco-intervista-iovani#La%20Questione%20Irrisolta%20Del%20Sesso

Ciononostante non si può pretendere che le domande finiscano solo perché sono scomode e alle donne, che ormai da 60 anni studiano teologia, non bastano ragioni poco argomentate, dato che sono fortunatamente finiti i tempi del latinorum di don Abbondio. Eppure alle donne credenti si chiede di fatto di abdicare alla propria consapevolezza riguardo alla comune creaturalità, alla comune dignità battesimale, alla conquista storica dei propri diritti e andare avanti.

Vorrei qui provare dunque ad analizzare sinteticamente quali possibili strade le donne possono intraprendere davanti a questo muro, che non è stato minimamente scalfito dalle concessioni dell’accesso ai ministeri istituiti o del voto a un ristretto numero di donne selezionate al Sinodo.

  1. La prima strada che si apre alle donne, spianata dal processo di secolarizzazione nel quale anch’esse sono immerse, è quella di lasciare la Chiesa. Sappiamo che ormai, tra le donne che si professano cattoliche le “mai praticanti” sono più delle “praticanti regolari”. Scrive Linda Laura Sabbadini che: “in 20 anni si è dimezzata la percentuale di donne che si recano in un luogo di culto ogni settimana, dal 44% al 22%” (La Repubblica, 3 aprile 2023),                 www.repubblica.it/commenti/2023/04/03/news/religione_donne_italia_istat-394701942 ma è già dal 2008 che le percentuali di abbandono della pratica dopo la Cresima sono pressoché uguali per maschi e femmine. Insomma le ragazze si sono allontanate già da molto tempo. Le donne si allontanano senza fare rumore, senza proclami, anche perché non è richiesto un atto pubblico come ad esempio in Germania, semplicemente smettono di frequentare come gli uomini avevano già fatto prima di loro e lo fanno normalmente portando i figli con sé. Questo gruppo di donne, in costante crescita, è contemporaneamente oggetto di preoccupazione da parte della Chiesa istituzionale, che vede i numeri, ma di disattenzione nella pratica pastorale: le donne che frequentavano smettono di farlo e nessuno, nelle comunità parrocchiali, pare accorgersene o comunque ritiene di dover o poter chiederne la ragione.
  2. La seconda strada è ovviamente quella di restare, ma come? Si può restare perché in sintonia con l’impianto ecclesiale attuale, del quale si diventa promotrici e sostenitrici: è il caso dei gruppi antifemministi più o meno strutturati, che tanta fortuna hanno grazie ad alcune personalità di donne molto note e favorite dalla gerarchia al punto da concedere loro spazi simbolicamente importanti come San Giovanni in Laterano o addirittura San Pietro. Queste scelte si inscrivono nel lungo e fattivo impegno antifemminista della Chiesa, fin dai tempi della Principessa Cristina Giustiniani Bandini e Pio X. Si può restare perché disinteressate alle dinamiche più ampie della chiesa, ma fortemente impegnate nella vita concreta delle comunità. Questo è probabilmente il gruppo più numeroso tra le praticanti regolari: sono donne a cui non importa granché della diseguaglianza di genere, del diritto di voto o di altro, importa che ci sia l’oratorio estivo per i ragazzi, che si apra il centro d’ascolto tutte le settimane e che il prete celebri tutte le domeniche. Non necessariamente sono donne poco consapevoli, semplicemente accettano di sospendere la propria rivendicazione di uguaglianza per il tempo che trascorrono in Chiesa, perché la considerano una realtà “altra” rispetto a qualsiasi altra componente della società.
  3. C’è poi chi resta con l’intenzione di cambiare le cose. Questo fanno le donne che appartengono ad associazioni e gruppi informali che in tutto il mondo chiedono cambiamenti strutturali. Si legge, ad esempio, nel documento sinodale del Catholic women’s council, una rete internazionale di secondo livello: “Per percorrere il cammino sinodale, la Chiesa deve liberarsi del suo pensiero feudale, dei dettami patriarcali e degli atteggiamenti paternalistici” e ancora: “Le donne hanno articolato un’ampia comprensione del sacramento come esperienza che apre all’incontro con la sacra Presenza di Dio. Tuttavia, la ristretta focalizzazione dell’istituzione sui sette sacramenti definiti dal Concilio di Trento impoverisce la vita sacramentale della Chiesa. In alcuni contesti, i sacerdoti esercitano il loro potere “tenendo sotto controllo” la ricezione dei sacramenti, piuttosto che invitare la comunità a condividere la loro celebrazione”. Per queste donne “Rivendicare la nostra fede cattolica come donne – nella nostra interezza – è spesso un atto di resistenza” Questo è numericamente il gruppo di minoranza, tra quante decidono di restare all’interno della Chiesa cattolica, perché presuppone un percorso di liberazione interiore dalla visione ufficiale alla quale siamo state socializzate fin da piccolissime e perché chiede un coinvolgimento attivo faticoso e – spesso – sofferto.
  4. C’è poi una strada ulteriore, che serpeggia tra il “dentro” ed il “fuori” e si tratta della scelta di rifugiarsi nella spiritualità, una spiritualità che – dicono i sociologi – oggi “si denuda della religione” perché si rivolge all’esperienza interiore del singolo o del piccolo gruppo. Può essere interna alla Chiesa quando non si pone apertamente in contrasto con gli insegnamenti dottrinali, ma in qualche modo li bypassa, privandoli della loro centralità. Quando non è un cammino solitario, ma di gruppo, accade che anche alcuni preti ne siano alla testa, di solito preti noti grazie ai loro libri o alla presenza sui social. I gruppi si ritrovano fuori dai circuiti parrocchiali e aggregano persone unite da una comune sensibilità spirituale. Ovviamente l’opzione spiritualista può anche porsi al di fuori della Chiesa, salvando alcuni tratti del cristianesimo e lasciandone altri; ma in entrambi i casi questa tendenza manifesta un sostanziale disinteresse riguardo alla forma storica e sociale della Chiesa Cattolica, che non si vuole cambiare o riformare, ma che resta uno scenario di sfondo, non particolarmente significativo se non come serbatoio di segni, simboli e validazione storica. Sono spazi di libertà e creatività e le donne spesso qui non sono solo protagoniste, ma ministre.

La domanda allora è: dove collocarsi tra le diverse opzioni? Per chi, come me, non può neanche volendo tornare a identificarsi tout court con l’istituzione, restano tre strade e io le ritengo tutte valide e comprensibili, ma anche potenzialmente pericolose.

  1. Lasciando la Chiesa si rinuncia a qualcosa, soprattutto se per una porzione della propria vita la si è vissuta intensamente. A livello personale si abdica a parte della propria identità e storia, a livello sociale a una immensa istituzione, dal potenziale di bene incalcolabile, lasciandola in mando a una casta di uomini celibi.
  2. Restare per “combattere” da attiviste, questa è la mia esperienza personale, pian piano porta ad un esaurimento delle forze e delle speranze. Si diventa ciniche, si disimpara ad assaporare il bello che c’è ad esempio nella vita parrocchiale. È un cammino che rischia di prosciugare, perché il cambiamento auspicato non si vede mai, ma può diventare fecondo se e quando si fa in gruppo, quando ci si sostiene le une le altre a mantenere la fiammella della speranza.
  3. Rifugiarsi nella spiritualità da sole o in piccolo gruppo porta con sé il rischio del disimpegno rispetto alla dimensione sociale e politica della Chiesa, chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà che la chiesa è un’istituzione e che ferisce tanta gente: vittime di abusi, donne, divorziati risposati, cristiani lgbt…
  4. Allora che fare? Non ho risposte e sento di ondeggiare io stessa tra queste tre strade, ma intuisco che qui stia il senso di comunità nuove e possibili. Non comunità che si nascondono i problemi, non comunità ciniche e neppure comunità rifugio, ma “attiviste con l’anima”. Comunità che trovano fonti di nutrimento spirituale e sanno essere creative, che sanno aggregare credenti e non credenti, che non temono di essere punto di riferimento per chi cerca giustizia e di esporsi in prima linea.

Comunità come queste possono essere davvero una benedizione per i nostri tempi.

   Paola Lazzarini Orrù            7 giugno 2023

Sulla donna e sul gender. Una lettera aperta a Luigi Maria Epicoco

   Caro Luigi Maria, (Epicoco) (α1980)

ti scrivo direttamente, anche se non ci conosciamo se non per “cultura libresca”, perché mi sembra la cosa più semplice e più utile, tra colleghi, in un caso del genere. Ho letto in questi ultimi due giorni due testi che hai scritto e che mi hanno veramente colpito e allarmato: mi riferisco ad una intervista pubblicata su “alzogliocchiversoilcielo”

Le donne della Bibbia, così “affidabili”. ”Capaci di restare anche in situazioni difficili”

Abbiamo sempre erroneamente pensato che le donne nella Bibbia ricoprano un ruolo marginale. Niente di più sbagliato, perché esse rappresentano il grande fondale dentro cui la storia della salvezza è resa davvero possibile. Ne parla Don Luigi Maria Epicoco, filosofo e teologo, uno dei più apprezzati autori di spiritualità che insegna filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR “Fides et Ratio” di L’Aquila, di cui è anche preside, nel saggio “Le affidabili. Storie di donne nella Bibbia” (Tau Editrice 2023, pp. 132).Il testo raccoglie alcune riflessioni che Don Epicoco, Assistente Ecclesiastico del Dicastero per la Comunicazione, da noi intervistato, nell’arco di questi anni ha potuto dedicare ad alcuni personaggi femminili a cavallo tra l’Antico  e il Novo Testamento.–

Per quale motivo l’affidabilità è la caratteristica piùcomune delle donne presenti nella Bibbia?

«Perché è la caratteristica che accomuna le donne, in quanto a differenza degli uomini sembra che riescano a stare dentro le relazioni anche quando cominciano a diventare faticose, e non conviene rimanere più in un rapporto. In tutta la Bibbia le donne non fanno mai un passo indietro rispetto a quelle che sono le storie raccontate. In questo senso sono più affidabili rispetto agli uomini».–

Ha dedicato il libro “A Maria di Nazareth la più affidabile tra tutte le creature”. Ce ne vuole parlare)?

«Mi è sembrato giusto dire che Maria è la benedetta tra tutte le donne, ed è la più affidabile. Proprio per tornare a quello che dicevo prima, Maria sa rimanere in rapporto anche nelle situazioni difficili. Ad esempio sotto la Croce tutti i discepoli fuggono via, invece Maria rimane lì, sotto la Croce del Figlio. Questo è testimonianza che anche dopo i fatti della Passione e della Resurrezione, Maria è colei che rimette insieme i pezzi della prima comunità cristiana. Nel Cenacolo è Maria che raccoglie i discepoli e li prepara al dono della Pentecoste».–

Che cosa ci insegnala storiadell’adulterae quella della Samaritana?

«Innanzitutto che noi non siamo mai i nostri peccati e non siamo mai le etichette che gli altri ci mettono addosso. Gesù ha la capacità saper scavare dietro i pregiudizi e i peccati di queste persone e le ristabilisce nella loro dignità. Ma è anche vero che Gesù trova dall’altra parte persone che si lasciano raggiungere da questo rapporto, da questa relazione. Sia l’adultera sia la Samaritana sono come se avessero un desiderio di vita spirituale inespresso, che Gesù intercetta e risveglia in ciascuna di loro».

Riassume brevemente la figura di Giuditta, molto più conosciutaper la storia dell’arteche per la suavicenda biblica?

«Giuditta è uno di quei personaggi che magari noi possiamo reputare minori semplicemente perché nella predicazione cristiana non hanno avuto molto spazio. Invece, a differenza dei suoi contemporanei che erano presi dal panico di un assedio di guerra, Giuditta riesce con astuzia, creatività e con una ostinazione tipicamente femminile, a fidarsi di Dio contro tutto e tutti. Riuscendo alla fine a riportare una vittoria per il suo popolo, che deve riconoscere ha ritrovato la vittoria grazie a una donna e non attraverso un generale o un condottiero»

C’è un gran parlare su quale ruolo le donne debbano avere nella Chiesa, invece non pensiamo che il loro contributo è già abbastanza evidente in tutta la sua storia, a partire propriodalle molte sante che sono statefigure chiavi in passaggi storici difficili. Che cosa ne pensa?

«La grande polemica sul ruolo delle donne nella Chiesa mi infastidisce molto, perché è come se noi dovessimo dare spazio a coloro che hanno tutto il diritto di ritenere che questo spazio ce l’hanno già, e se lo sono guadagnato attraverso quella affidabilità di cui parlavo prima. Nel libro ho usato un’immagine. In fondo quando noi guardiamo un quadro veniamo attratti dalle figure che sono in prima linea, ma in realtà queste figure sono comprensibili solo perché c’è un fondale alle spalle, che dà significato ai personaggi in prima linea. Ecco, le donne sono il grande fondale di senso dentro cui nessun personaggio che sta in prima linea potrebbe trovare significato se non attraverso di loro. Dietro i grandi uomini della Bibbia ci sono sempre grandi donne, nella Chiesa le vicende più importanti hanno sempre avuto come fondale figure sagge. Santa Chiara, Santa Caterina da Siena, ci dimentichiamo che durante la cattività avignonese fu proprio Santa Caterina a “costringere” Papa Gregorio XI a tornare a Roma. L’amore che questa donna aveva per la Chiesa ha portato a una rivoluzione all’interno della Chiesa stessa. Nel Cinquecento, in piena Inquisizione, una grande donna, Santa Teresa d’Avila, riforma l’Ordine Carmelitano, ripensando da capo la vita spirituale. Sono tutte donne che in ogni secolo e in ogni epoca storica, hanno lasciato un segno che ha condizionato fortemente la vita della Chiesa. Quindi non siamo noi a dover dare un ruolo alle donne, ma dobbiamo lealmente riconoscere che lo hanno già questo ruolo. E non farle indietreggiare rispetto a questo».

È vero che la Sua vita sacerdotale è costellata da figure femminili affidabili ed essenziali?

«Assolutamente sì, a cominciare dalle mie nonne, da mia madre e dalle mie sorelle. Tutta la mia vita sacerdotale è stata costellata da figure femminili, che mi hanno umanizzato, aiutato a essere fedele alle cose, a ritornare all’essenziale. Soprattutto nei momenti di grande fatica ho trovato sempre in loro un forte appoggio per poter ripartire».

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/06/le-donne-della-bibbia-cosi-affidabili.html?m=1&fbclid=IwAR34GMRyfAE0_xejs9vxLNHxzSWAfRI959D2uyjqqXBaYNoQlR_dFa2k5rk

                e ad un breve intervento sulla “teoria del Gender”

ETICA E MORALE (di Luigi Maria Epicoco)

“In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere, in questo momento storico la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce è sicuramente la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo | e la donna. Se io dico in maniera chiara questa cosa, non è per discriminare qualcuno, ma semplicemente per mettere in guardia tutti dalla tentazione di cadere in quello che è stato il progetto folle degli abitanti di Babele: annullare le diversità per cercare in questo annullamento un’unica lingua, un’unica forma, un unico popolo. Questa apparente uniformità li ha portati all’autodistruzione perché è un progetto ideologico che non tiene conto della realtà, della vera diversità delle persone, dell’unicità di ognuno, della differenza di ognuno. Non è l’annullamento della differenza che ci renderà più vicini, ma è l’accoglienza dell’altro nella sua differenza, nella scoperta della ricchezza nella differenza. È la fecondità presente nella differenza che fa di noi degli esseri umani a immagine e somiglianza di Dio, ma soprattutto capaci di accogliere l’altro per ciò che è e non per ciò in cui lo vogliamo trasformare. Il cristianesimo ha sempre dato priorità al fatto più che alle idee. Nel Gender si vede come un’idea vuole imporsi sulla realtà e questo in maniera subdola. Vuole minare alle basi l’umanità in tutti gli ambiti e in tutte le declinazioni educative possibili, e sta diventando un’imposizione culturale che più che nascere dal basso è imposta dall’alto da alcuni Stati stessi come unica strada culturale possibile a cui adeguarsi.”                     www.gesusacerdote.org/etica-e-morale-di-luigi-maria-epicoco

Sono sorpreso per il fatto che tu scrivi non semplicemente sulla base della tua identità di prete, ma anche come filosofo e come teologo e per questo le tue parole portano una responsabilità critica che i tuoi titoli accademici pretendono da te, come da tutti noi. Voglio anche dire che quanto scrivo dipende dalla lettura di questi due testi citati e nulla ha a che fare con un giudizio sulla tua persona e sul resto della tua attività. Mi limito ad esaminare le questioni che emergono dai due testi e provo a formulare meglio le mie perplessità.

                Aggiungo però subito di considerare questa occasione quasi come provvidenziale: i tuoi due testi mostrano un fenomeno ben più ampio di ciò che scrivi e permettono di affrontare un “deficit teologico” che attanaglia gravemente la nostra tradizione cattolica recente e che implica, da parte dei teologi e dei filosofi, una urgente funzione di terapia linguistica e di riflessione più profonda. Sono convinto che proprio quando emergono posizioni “scabrose”, come le tue, siamo sempre di fronte ad un passaggio utile per la crescita comune e per la elaborazione di una visione più matura e più equilibrata.

a) Le donne e la tradizione teologica

Inizio dal primo testo, che è una intervista a proposito del tuo libro “Le affidabili”. In questa intervista tu fai alcune affermazioni di grande stima verso le donne, sostenendo che “sono più affidabili degli uomini”, riferendoti a Maria, alla Adultera, alla Samaritana, a Giuditta. Però, nel momento in cui la domanda non verte più sulla descrizione dei “personaggi biblici”, ma sulle donne contemporanee, tu mostri di “infastidirti”. Riprendo letteralmente questo passaggio, su cui vorrei soffermarmi:

“La grande polemica sul ruolo delle donne nella Chiesa mi infastidisce molto, perché è come se noi dovessimo dare spazio a coloro che hanno tutto il diritto di ritenere che questo spazio ce l’hanno già, e se lo sono guadagnato attraverso quella affidabilità di cui parlavo prima. Nel libro ho usato un’immagine. In fondo quando noi guardiamo un quadro veniamo attratti dalle figure che sono in prima linea, ma in realtà queste figure sono comprensibili solo perché c’è un fondale alle spalle, che dà significato ai personaggi in prima linea. Ecco, le donne sono il grande fondale di senso dentro cui nessun personaggio che sta in prima linea potrebbe trovare significato se non attraverso di loro. Dietro i grandi uomini della Bibbia ci sono sempre grandi donne, nella Chiesa le vicende più importanti hanno sempre avuto come fondale figure sagge.

                ll fastidio che provi deriverebbe, a quanto dici, da una “domanda di spazio” che tu non capisci, perché tu pensi che questo spazio già sia attribuito alle donne, nella forma metaforica di uno “spazio del fondale”, che dà senso ad ogni “personaggio in prima linea”. Questa immagine che usi (tra primo e secondo piano) è la traduzione in metafora di ciò che la Chiesa ha affermato per molti secoli, identificando uno “specifico femminile” nella sfera privata e lasciando ai maschi il “primo piano della sfera pubblica”. Tu però dovresti sapere che la “grande polemica” che ti infastidisce, e che sicuramente non può accettare questa tua visione, è entrata nella Chiesa cattolica non solo per la grande elaborazione che a partire dal XIX secolo molte donne hanno compiuto sul piano culturale, sociale e scientifico, ma anche perché un papa, Giovanni XXIII, ha ufficialmente chiamato “entrata nello spazio pubblico delle donne” uno dei segni dei tempi con cui dobbiamo fare i conti. Il fastidio, di cui parli, è una crisi di crescita, che ci impedisce di continuare a ragionare con lo schemino: donne in privato, affidabilissime ma invisibili e senza autorità – uomini in pubblico, meno affidabili ma visibili e dotati di autorità.

b) Le donne nel privato e il deficit del magistero

La tua reazione, che si completa nella risposta all’ultima domanda, dove confessi il tuo debito affettivo verso la nonna, la madre e le sorelle, è esemplare di una cultura molto unilaterale: le donne non sono solo “affidabili e affettuose”, ma sono anche sempre maestre, autorità, teologhe, sindaci, tassiste, giudici, musiciste, registe…hanno risorse di autorità e di “primato” che il tuo discorso, indirettamente e direttamente, si affanna a negare e teme come un pericolo. Sarebbe specifico della donna essere “destinata” a questa affidabilità di sfondo. Tu non lo vedi, ma questa è “cultura dello scarto”. Qui, a mio avviso, le tue categorie teologiche e filosofiche non sono per nulla alla altezza di un “segno dei tempi”, ma restano indietro e alimentano quei “complessi di superiorità” che la cultura cattolica da 60 anni dovrebbe sentire il compito di superare. Tuttavia questo imbarazzo ci è utile perché ci spinge a scovare come questo meccanismo automatico e incontrollato, con cui gli uomini di fede relegano le donne in secondo piano, è presente anche nelle parole del magistero. Anche il magistero, idealizzando la donna, la tiene in secondo piano. Parlando di “principio mariano”, ed equiparando arbitrariamente tutte le donne a Maria, ne esclude la rilevanza istituzionale, riservandola a Pietro, ed equiparando altrettanto arbitrariamente tutti i maschi a Pietro. Questo non scusa le tue affermazioni, ma le contestualizza e rende ancora più necessario aprire un dibattito serio sui meccanismi con cui noi “blindiamo” una marginalità femminile, proprio riconoscendole un primato nella affidabilità. Come sai bene, questa è anche la strategia di uno dei documenti che ha inaugurato la presa di posizione del Magistero cattolico in quella che tu chiami “grande polemica”. In effetti in “Inter insigniores” troviamo la seguente affermazione:

                “« I segni sacramentali – dice S. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza ». Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, così per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa « naturale rassomiglianza », che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.”

                Tommaso però non ha mai detto questo. Se analizziamo dove si trova la citazione di Tommaso, scopriamo che l’espressione citata da Inter insigniores compare nel Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 4) ed è parte di una risposta alla discussione, che non riguarda la ordinazione della donna, ma quella dello schiavo (l’articolo 2 si intitola infatti “Se la schiavitù sia impedimento alla ricezione dell’ordine”). Il testo della citazione integrale, che è molto breve, suona così:

                “ Ad quartum dicendum, quod signa sacramentalia ex naturali similitudine repræsentant; mulier autem ex natura habet subjectionem, et non servus; et ideo non est simile.” (I segni sacramentali manifestano una certa naturale somiglianza, ma la donna ha la soggezione per natura, mentre non è così per li schiavo. Perciò non è simile)”

                Come è evidente, il riferimento alla “similitudo” non riguarda di per sé la “somiglianza maschile/femminile” rispetto al Signore, ma la somiglianza nella “condizione di schiavitù”, che lo schiavo ha per contratto o per convenzione, mentre la donna ha “per natura”. Una “schiava per natura” non può in alcun modo rappresentare il Signore!

                La pretesa con cui “Inter insigniores” vuole mostrare che il sesso femminile è escluso dalla rappresentanza di Cristo procede secondo una lettura pregiudiziale del femminile, la cui caratteristica decisiva non è la affidabilità, ma la soggezione e la mancanza di autorità. Questo pregiudizio mi pare pesantemente presente nel “fastidio” con cui tu non riesci a riconoscere alcun valore a ciò che Giovanni XXIII, ben 60 anni fa, ha identificato come “segno dei tempi”: ossia il fatto che “mulieres in re publica intersunt”. Potrà dare fastidio, ma è con questo che il filosofo e il teologo deve misurarsi. E per quanto si parli di affidabilità, anche a giusto titolo, se non ci si confronta con l’esercizio della autorità, non si rende un servizio alla ragione teologica e alla dignità delle donne.

c) La conferma sul Gender

Un ultimo appunto mi pare che meriti il secondo testo che ho citato all’inizio, nel quale tu presenti la “teoria del Gender” in modo del tutto caricaturale. Ma questo non mi sorprende. Se non riesci a comprendere che la considerazione teologica della donna non può partire dai pregiudizi sociologici e culturali con cui la abbiamo pensata come un “maschio difettoso”, come una “schiava per natura”, a cui non rimedia il riconoscimento della affidabilità – che può convivere con quei pregiudizi, e anzi li conferma – evidentemente puoi guardare in modo solo catastrofico alla elaborazione della categoria del “genere/gender”, in cui la dimensione biologica e culturale si fondono in modo più complesso di quanto avevamo pensato fino ad oggi. In questo modo mi pare che tu non riesca a comprendere come ciò che tu liquidi come “esperienza del male” sia in realtà una delicata e preziosa rielaborazione del rapporto tra identità e differenza. Certo la teoria non è priva di problemi e di limiti, ma non può essere giudicabile in modo sommario e sbrigativo come una “esperienza del male”. È proprio il “segno dei tempi” della donna nello spazio pubblico a rendere necessaria una “teoria di genere” che non sia appiattita su una lettura essenzialistica del femminile. Come se il profilo culturale e sociale potesse derivare semplicemente da un dato naturale. Questo modo di intendere le differenze è semplicemente un modo per difendere i propri pregiudizi. Per questo tu puoi scrivere questo testo, che mi sembra dominato da un pregiudizio talmente pesante da risultare frutto di un approccio fondamentalistico, che fatico a correlare alla tua formazione filosofica:

                “In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere, in questo momento storico la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce è sicuramente la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo e la donna”.

Una descrizione caricaturale della domanda di identità che è oggetto della “teoria gender”, la demonizzazione di una radice culturale e la lettura antimodernistica del “progetto creaturale” non mi sembrano parole adeguate al tuo ruolo di filosofo e di teologo. Mi sembra di leggere il testo di uno che parla per slogan vuoti, senza aver davvero meditato ciò che sta dicendo. E questo è molto grave, proprio per un teologo e per un filosofo che gode di un credito di cui non dovrebbe abusare.

                Ho cercato di ragionare, brevemente, con parresìa, esponendo le ragioni della mia preoccupazione. Spero che sia una occasione per dire meglio anche tutto quello che ci accomuna, nella medesima chiesa, a partire dalle differenze qui rimarcate, come era inevitabile, nel dialogo necessario ad ogni tradizione che non sia tentata di fermarsi, ma che sappia di dover camminare, ieri come oggi, per restare sé stessa.

                Andrea Grillo                    blog Come se non                           5 giugno 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/sulla-donna-e-sul-gender-una-lettera-aperta-a-luigi-maria-epicoco

GIURISPRUDENZA

Un minore può negare il consenso al riconoscimento?

    Come avviene il riconoscimento del figlio e quali sono i diritti di quest’ultimo se il padre vuole riconoscerlo e lui non vuole.

                Il padre deve riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio. È un suo obbligo da cui non può esonerarsi, neanche quando si tratta di una nascita non desiderata o quando il rapporto con la madre è cessato in malo modo. Ma cosa succede se, venendo meno a tale dovere, il padre dovesse avere in seguito un ripensamento e volesse procedere al riconoscimento? Sorge a questo punto la domanda: un minore può negare il consenso al riconoscimento? Cerchiamo di fare il punto della situazione alla luce della più recente giurisprudenza.

Il riconoscimento è l’atto con il quale uno o entrambi i genitori dichiarano di essere padre o madre di un bambino. Esso deve essere fatto solo dalle coppie non sposate poiché tutti i bambini nati invece nel matrimonio si presumono già essere figli di quella determinata coppia.

                Se i genitori sono ricorsi a tecniche di procreazione assistita il riconoscimento non è più libero e discrezionale, ma consegue automaticamente per effetto del ricorso a tali tecniche: in tal caso pertanto uno o entrambi i genitori devono procedere immediatamente con la dichiarazione di nascita come avviene per un figlio nato nel matrimonio.

                Può riconoscere il figlio anche chi è sposato con un’altra persona. Il riconoscimento può essere effettuato prima o dopo la nascita, con modalità diverse che vedremo qui di seguito.

Riconoscimento del figlio prima della nascita. Entrambi i genitori o la sola madre possono riconoscere il figlio prima della nascita, per tutelare il nascituro in vista di possibili eventi sfavorevoli (ad esempio la morte di un genitore o il suo allontanamento). Se il riconoscimento è effettuato dalla sola madre, per il successivo riconoscimento del padre richiede è richiesto il consenso della madre stessa.

Come si fa il riconoscimento di un figlio non ancora nato? Il riconoscimento avviene davanti all’ufficiale di stato civile del comune di residenza del genitore del nascituro, presentando un certificato medico che attesti la gravidanza con l’indicazione del tempo di gestazione.

Riconoscimento del figlio dopo la nascita. Entrambi i genitori o uno solo di essi possono riconoscere il figlio dopo la nascita con un’apposita dichiarazione davanti a un ufficiale dello stato civile, davanti a un notaio o in un testamento.

Riconoscimento di figlio con meno di 14 anni. Se il figlio ha meno di 14 anni e questo è già stato riconosciuto dall’altro genitore, è necessario il consenso di quest’ultimo. Ma il consenso non può essere negato senza che vi sia una valida ragione. Il dissenso infatti deve rispondere all’interesse del figlio. Per questo se la madre dovesse immotivatamente negare il consenso al riconoscimento del figlio, il padre potrebbe ricorrere al tribunale affinché sia il giudice a decidere cosa è meglio per il bambino.

                Gravi motivi che possono giustificare il dissenso al riconoscimento possono essere: gravi carenze genitoriali, inidoneità a svolgere il ruolo di padre, scarso interesse verso il figlio, atteggiamento violento, ecc.

Riconoscimento di figlio con almeno 14 anni. Se il figlio ha almeno 14 anni al momento del riconoscimento, è necessario il suo assenso con dichiarazione compiuta davanti all’ufficiale dello stato civile, davanti al giudice tutelare o in un atto pubblico. Non esiste un termine entro il quale il figlio debba manifestare il suo assenso; può farlo anche in un secondo momento o addirittura dopo la morte del genitore che voleva effettuare il riconoscimento. In ogni caso l’assenso ha effetti retroattivi, si producono cioè dal momento del riconoscimento. In mancanza di assenso, l’ufficiale dello stato civile può comunque ricevere la dichiarazione di riconoscimento da parte del genitore, ma tale dichiarazione resta senza effetti fino a quando il minore non dà il consenso.

Il minore può negare il consenso al proprio riconoscimento? Se – come visto prima – il genitore che per primo ha riconosciuto il figlio non può negare il consenso, se ciò non si riversa in un danno per il minore, la cosa è completamente diversa quando il consenso deve essere prestato dal minore stesso. Infatti il suo consenso è un atto completamente discrezionale. Pertanto il figlio può negare il proprio consenso al riconoscimento del genitore e non è tenuto a motivare in alcun modo la propria scelta, né questa gli può essere contestata per alcuna ragione o sotto alcun profilo. Nel momento in cui il figlio compie 14 anni, non è più necessario il consenso dell’altro genitore al riconoscimento del figlio stesso.

Raffaella Mari   La legge per tutti             5 giugno 2023

www.laleggepertutti.it/642070_un-minore-puo-negare-il-consenso-al-riconoscimento

Cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare

Non c’è alcun valido motivo per opporsi al divorzio tranne un’eventuale riconciliazione dei coniugi. Non sono rari i casi in cui un coniuge non voglia concedere il divorzio all’altro. Le ragioni alla base del rifiuto possono essere di natura diversa ad esempio per una ripicca, per evitare che l’ex marito o l’ex moglie convoli a nuove nozze o per ragioni economiche posto che con il divorzio si perdono tutti i diritti successori nei confronti dell’ex partner e l’assegno divorzile spetta solo se si versa in stato di bisogno. Pertanto, cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare? La risposta è semplice: si può iniziare una causa in Tribunale, presentando una domanda di divorzio giudiziale.

                Il diritto al divorzio infatti è un diritto irrinunciabile, riconosciuto a ciascun coniuge anche senza il consenso dell’altro. Esiste però una ragione valida per opporsi al divorzio rappresentata dall’eventuale riconciliazione intervenuta tra i coniugi. Posto che per legge tra la separazione e il divorzio deve intercorrere un determinato periodo di tempo, se durante tale periodo la coppia ad esempio dovesse tornare a vivere stabilmente insieme, la separazione si interrompe. Perciò, se i due intendono divorziare, dovranno procedere a una nuova separazione.

Come si può divorziare? Il divorzio può essere di due tipi:

  • consensuale, quando i coniugi trovano un accordo su come proseguire la propria vita dopo lo scioglimento definitivo dell’unione matrimoniale con riguardo agli aspetti patrimoniali (vedi l’assegnazione della casa familiare o l’assegno di mantenimento) e/o agli aspetti riguardanti i figli (affidamento, collocamento, mantenimento, diritto di visita del genitore non collocatario).

Per divorziare consensualmente i coniugi possono:

  • presentare un’istanza congiunta in Tribunale;
  • ricorrere alla negoziazione assistita dai rispettivi avvocati;
  • effettuare una dichiarazione in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile ma solo se non hanno figli minorenni o maggiorenni incapaci o portatori di handicap oppure economicamente non autosufficienti;
  • giudiziale, quando manca l’accordo tra i coniugi. In tal caso uno dei può rivolgersi al Tribunale affinché pronunci lo scioglimento del matrimonio, se è stato celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile, o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, se è stato celebrato in chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello stato civile.

A proposito del divorzio giudiziale è importante sapere che grazie alla riforma Cartabia, entrata in vigore il 28 febbraio 2023, oggi è possibile presentare con un unico atto, nella specie un ricorso, davanti allo stesso giudice, la richiesta di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso.

È possibile rifiutare il divorzio? Se un coniuge propone all’altro di divorziare consensualmente, ovvero accordandosi tra loro sugli aspetti patrimoniali e/o familiari del divorzio, questi non è obbligato ad accettare la proposta. Se da un lato però può rifiutarsi di procedere in tal senso dall’altro non può rifiutare il divorzio. Da ciò consegue che essendo il divorzio giudiziale comunque possibile, spetta al coniuge che intende ottenerlo, rivolgersi al giudice. Non si può quindi impedire il divorzio se uno dei coniugi lo vuole.

Come si può divorziare senza il consenso del coniuge? Come già anticipato si può divorziare senza il consenso del coniuge chiedendo il divorzio giudiziale. A tal fine la parte interessata deve rivolgersi a un avvocato, preferibilmente esperto in diritto di famiglia, perché avvii la causa in Tribunale. Affinché sia pronunciato il divorzio, il richiedente può sostenere semplicemente che “la convivenza è divenuta intollerabile” senza dovere per forza dimostrare l’intervenuta crisi matrimoniale.

                Il coniuge che ha rifiutato la proposta di divorzio consensuale, non può che prendere atto della volontà dell’ex marito o dell’ex moglie, eventualmente difendendosi in giudizio e sostenendo le proprie ragioni ma non può opporsi alla pronuncia dello/a scioglimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio.

                Può anche decidere di non costituirsi in giudizio; così facendo però non potrà esporre il proprio punto di vista al giudice.

Peraltro, il procedimento farà ugualmente il suo corso e si arriverà comunque ad una sentenza di divorzio.

Quando è possibile opporsi al divorzio? Una ragione valida per opporsi al divorzio è rappresentata dall’intervenuta riconciliazione tra i coniugi, che ha interrotto la separazione.

                Per legge è possibile chiedere il divorzio solo dopo che sono decorsi 6 mesi in caso di separazione consensuale o 12 mesi in caso di separazione giudiziale. Se in tale periodo i coniugi dovessero riconciliarsi, la separazione cessa.

                La riconciliazione potrà avvenire in forme differenti:

  • tacitamente, ovvero con un comportamento che è incompatibile con lo stato di separazione (ad esempio i coniugi tornano a vivere stabilmente insieme);
  • oppure con una dichiarazione scritta nella quale il marito e la moglie mettono per iscritto l’intenzione di riprendere la vita matrimoniale.

In pratica la riconciliazione è l’unico modo per opporsi al divorzio e porta al ripristino della comunione di vita tra i coniugi. Se la riconciliazione non dovesse sortire effetti positivi, la coppia dovrà procedere a una nuova separazione prima di richiedere il divorzio.

 Elda Panniello         La legge per tutti             4 giugno 2023

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MATERNITÀ SURROGATA

Maternità surrogata: altruismo, gratuità, solidarietà?

L’insidioso lessico dell’antilingua nella legittimazione etica della maternità surrogata.

1. Il paradosso della modernità sta tutto nell’incessante e sistematica opera di delegittimazione ideologica e destrutturazione anomica dei paradigmi della normatività etica portata avanti, ad ogni latitudine, dagli agenti morali in obbedienza ad un sorta di credo assiologico negazionale di cui professare la fede: l’universo post-morale in cui è immerso l’uomo moderno inibisce ogni disciplina o esercizio di tipo nomo-poietico e insieme determina l’obnubilamento della dimensione noetica postulata dal conoscere, sfociando in una forma di irrazionalismo di cui è figlio l’esistenzialismo generalizzato odierno. Se questo non impedisce di accedere alle grandi risorse tecnico-investigative offerte dalle scienze moderne, tuttavia, in mancanza di un orizzonte assiologico positivo condiviso, tale accesso si rivela cieco, autoreferenziale, sostanzialmente incapace di indirizzare la ricerca ad un senso che non sia la mera formulazione di paradigmi utili a spiegare il mondo nella forma di un incessante progresso apparente, che sovente e sotto molteplici aspetti appare, invece, acriticamente regressivo. L’homo faber, modello archetipico dell’uomo rinascimentale, ha prodotto una progressiva eclissi della morale classica, che, seppur controversa, offriva un modello ordinamentale per il mondo. Da allora, l’esposizione ossessiva, ipertrofica, incontrollata all’incedere sempre nuovo di pulsionalità desideranti macchiniche, per dirla con Deleuze, pur rimarcando la “tolemaica” ed egolatrica centralità cosmica dell’uomo moderno, nulla dice in merito al rapporto Soggetto-Oggetto, al nuovo senso da dare al tutto, che non sia puramente destrutturante, negazionale, individuo-centrico.

                La negazione teoretica di un senso oggettivo delle cose implica, in fondo, che ciascuno può dare ad esse il senso che preferisce. Eppure, l’univoco, incontrovertibile postulato dell’esperienza pratica, non empirica, il dato a partire dal quale la ragione coglie l’ordine essenziale dell’universo è quello per cui ogni cosa tende al bene che più conviene alla sua natura, una regolarità causale e teleologica in forza della quale il mondo risulta massimamente ordinato. Ma perché l’uomo, seguendo la naturale inclinazione che lo determina verso un comportamento che ha come fine il suo bene, tenda ad esso, deve in primis conoscere in cosa il suo vero bene consista e poi riconoscerlo anche in tutte quelle cose ulteriori che in qualche modo ad esso conducono come mezzi. Ecco perché il problema morale non può mai prescindere dal problema della verità, come l’etica non può fare a meno del discorso teoretico. C’è uno stretto legame tra verità e libertà, perché l’intelletto pratico postula sempre l’operatività previa di quello speculativo.

                Da qui, il rifiuto, professato ed argomentato, di ogni cornice etica soggettivista, di ogni morale di tipo auto-nomo, in ragione del fatto che un paradigma siffatto muove sempre dal mal funzionamento di quell’intelletto che, per essere malato di soggettivismo, non è più capace di cogliere il vero bene e ne coglie uno che è tale solo agli occhi della sua singolare individualità. In questo caso, non si sceglie una cosa perché è veramente buona, ma è veramente buona perché la si è scelta. Del pari, il rifiuto di ogni cornice etica utilitaristica in ragion del fatto che un modello simile legittima il mal funzionamento di quella volontà che, per essere guidata nelle sue scelte da ciò che è a sé utile, finisce per comandare all’intelletto di ritenere lecito tutto ciò che è appunto utile a sé. In questo secondo caso, la scelta non è guidata dalla verità in sé della cosa scelta, vista nel suo valore oggettivo, ma dall’utilità, per il soggetto, della cosa scelta.

                I paradigmi offerti dai modelli etici soggettivista ed utilitarista – assunti nel discorso morale contemporaneo a riferimenti meta-normativi esclusivi, universali ed indiscussi – assurgeranno, in questa sede, ad assi cartesiani in vista dell’inquadramento concettuale e morale della pratica della Maternità Surrogata (MS), in particolare, nella forma in cui essa è stata concepita e proposta dall’Associazione Luca Coscioni, la quale il 30 settembre 2020 (testo aggiornato al 26 gennaio 2021) presentava ufficialmente una Proposta di legge così rubricata: “Gravidanza solidale ed altruistica per altri”, i contenuti dispositivi del cui testo, poi depositato presso la Camera dei deputati, sono tornati prepotentemente di attualità negli ultimi giorni. Pdl da pag. 15

www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2023/05/29-MAGGIO-2023-Gravidanza-per-altri-solidale-Ass.-Luca-Coscioni-Altri.docx.pdf

                I problemi bio-etico-antropologici che, a partire da tale Proposta, si impongono alla nostra attenzione concernono i soggetti coinvolti nella pratica della MS, dalla coppia committente, con la sua richiesta di vedere realizzato il desiderio di genitorialità per mezzo della disposizione del corpo di un’altra donna, alla madre gestante, con le ripercussioni fisiche e psichiche derivanti dal ruolo svolto nel contratto di surrogazione, insieme ai rischi di sfruttamento e reificazione connessi alla sua posizione, al nascituro, con il suo diritto a crescere con la certezza delle sue relazioni parentali e a veder preservato il suo equilibrio affettivo e relazionale. L’importanza cruciale di tali questioni, in uno alla diffusione crescente di questa pratica nel mondo, interpella con insistenza la nostra coscienza morale.

                Da qui, l’attenzione particolare rivolta in questa sede alla già menzionata Proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni, che pare assurgere a paradigma normativo per quanti, a diversi livelli, si stanno facendo propugnatori e propalatori di questa particolare forma di gestazione per altri, la quale dovrebbe trovare nel preteso suo carattere solidale, altruistico ed asseritamente gratuito, i presupposti della sua liceità sul piano morale e della sua legittimazione su quello giuridico ed ordinamentale.

                2. Il testo, organizzato in 9 articoli, ripropone i contenuti dispositivi a partire dai quali giungere alla legittimazione, giuridica ed indirettamente morale, di un duplice assunto:

  1. la liceità della pratica della MS “solidale ed altruista”, comunque e da chiunque praticata (anche coppie omosex e single);
  2. la legalizzazione dei percorsi di riconoscimento del rapporto di filiazione legittima per i nati, tutti, per mezzo del ricorso alla MS. Così nella presentazione che accompagna il testo della proposta: “Ai fini della presente proposta di legge si definisce «gravidanza solidale e altruistica» la gestazione di una donna che sceglie manifestando la propria volontà autonomamente e liberamente formatasi, di accogliere nel proprio utero un embrione a seguito di fecondazione di gameti tramite tecniche di fecondazione in vitro e di favorirne lo sviluppo fino alla fine della gravidanza, al parto. Il percorso che si intende regolamentare, dunque, rappresenta una soluzione per i soggetti, singoli o per le coppie, che, a causa della loro sterilità e/o infertilità, non possono concepire o portare a termine una gravidanza per ragioni medico-fisiologiche o per situazioni personali”.
  3. L’articolo 3 stabilisce i criteri soggettivi e oggettivi di accesso alla gravidanza solidale e altruistica, ferme restando la valutazione medica circa l’opportunità per il genitore singolo o per la coppia di ricorrere a tale percorso, da avviare quando le parti abbiano manifestato il loro consenso informato in forma scritta, e la valutazione psicologica, a seguito di un colloquio con lo psicologo-psicoterapeuta della struttura presso la quale si effettuano le procedure mediche di fecondazione in vitro.
  4. È, altresì, previsto l’obbligo (comma 4) per i committenti di stipulare, prima del trasferimento dell’embrione in utero, una polizza in favore della gestante, per la copertura di tutti i rischi connessi alla gravidanza e al parto, polizza che potrà essere estinta non prima di sei mesi successivi al parto, prorogabili di ulteriori sei mesi, in caso di complicazioni mediche sorte a seguito della gravidanza.
  5.  È infine previsto l’obbligo (comma 5) per il genitore singolo o per la coppia di versare su un conto corrente dedicato un importo congruo a coprire tutti i costi relativi alla gravidanza solidale e altruistica, comprese le spese che saranno sostenute dalla gestante durante la gravidanza.
  6. Nel definire poi la liceità dell’accordo di gravidanza solidale, fornendone, altresì, una definizione (commi 1 e 2), l’articolo 5 prescrive, al comma 3, la forma e le modalità di conclusione dell’accordo. In caso di controversie tra le parti, la competenza è attribuita, secondo quanto stabilito dal comma 5, al Tribunale del luogo in cui si sono svolte le procedure mediche di fecondazione in vitro.
  7.  I commi 6, 8 e 9 disciplinano gli strumenti di tutela accordati alle parti, nonché l’obbligo del genitore singolo o della coppia (comma 8) di sostenere le spese, dirette e indirette, sostenute dalla gestante a motivo della gravidanza.
  8. A regolamentare lo status giuridico dei nati a seguito di un accordo di gravidanza solidale e altruistica, anche in applicazione della legge straniera, compresi i Paesi dove è ammessa la gravidanza per altri a fini commerciali, è l’articolo 7 che, ai commi 1 e 2, prevede, rispettivamente, a tutela dei nati a seguito di tale accordo, anche all’estero, l’acquisizione dello status di figlio legittimo o riconosciuto del genitore singolo o della coppia, nonché la totale liceità della condotta di chi accede a tale percorso, anche all’estero, oltre che la regolare trascrizione nel registro del comune di residenza dei genitori degli atti di nascita legalizzati, apostillati prodotti dall’autorità straniera competente.
  9. Infine, l’articolo 9 contiene un espresso rinvio, per quanto non espressamente previsto o disciplinato, alle norme vigenti in materia di procreazione medicalmente assistita, salva la liceità dell’accordo di gravidanza solidale e altruistica, anche se sottoscritto all’estero in applicazione del modello giuridico della gravidanza a fini commerciali o di altri modelli.

3. Le disposizioni contenute nella menzionata Proposta, qui sinteticamente riportate, permettono di evidenziare l’attualità, sociale, politica e mediatica, che il dibattito sul tema sta assumendo e che pare aver radicalizzato l’opposizione tra quanti puntano a una legislazione uniforme in materia e quanti, al contrario, vedendo in questa pratica uno strumento di violazione sistematica dei diritti fondamentali, rifiutano qualsiasi tentativo di legalizzazione della stessa. In ogni caso, le volte in cui la nascita sia stata la conseguenza di un contratto di surrogazione, possono sorgere questioni legali inerenti, ad esempio, all’acquisto e all’esercizio delle responsabilità genitoriali, all’applicazione delle norme in materia di filiazione legittima e successione, all’attribuzione della paternità legale, o, infine, alla titolarità di alcuni diritti fondamentali del nascituro, relativi alla nazionalità, alla residenza, o all’ingresso nei Paesi di origine dei committenti.

                Orbene, sgombrando il campo dalle questioni giuridiche, che non saranno oggetto di trattazione in questa sede, la nostra attenzione sarà rivolta a una serie di aspetti che, riguardanti la madre gestante, ovvero l’altro soggetto debole – contrattualmente, personalmente e materialmente – oltre al nascituro, nella complessa vicenda umana implicata dalla pratica della MS, emergono in tutta la loro criticità, ovvero:

  1. i meccanismi di selezione del capitale umano da impiegare nella surrogazione, al fine di evidenziare l’invasività rispetto alla persona, alla privacy, alla dignità della candidata alla gestazione per altri;
  2. l’infondatezza delle argomentazioni di quanti rifiutano l’idea di una deriva reificante ontologicamente propria di detta pratica
  3. le ragioni impiegate per giustificare la liceità morale di questa pratica, nella sua forma solidale ed altruistica;
  4. l’esposizione dei motivi che fondano la proposta di una proibizione giuridica a livello globale della MS.

4 Ebbene, rispetto a un quadro così complesso, va subito chiarito come l’eventuale sentimento di altruismo e/o solidarietà che ispirasse ed animasse, anche per l’intera durata della gravidanza, la madre gestante nei confronti dei committenti, nulla toglie all’intrinseca illiceità di questa pratica per tutta una serie di logiche, meccanismi e prassi da essa implicati e che paiono tali da attentare alla dignità morale dei soggetti coinvolti, specie di quelli più deboli. Mi riferisco a:

  1. le asimmetrie di status sociale tra coppia committente e madre gestante, quasi sempre presenti;
  2. le dinamiche di separazione forzata previste ed attuate, in particolare tra madre gestante e nascituro;
  3. le fasi di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati sensibili, tanto dei donatori di gameti, quanto delle candidate alla surrogazione, in vista della classificazione del relativo capitale umano, che consenta alla coppia committente una scelta personalizzata tra molte opzioni possibili.

L’invasività di tali accertamenti si spinge al punto di prevedere, nella quasi totalità dei casi, indagini relative alle relazioni affettive, familiari e di coppia della gestante, per escludere soggetti la cui instabilità emotiva potrebbe dar vita a complicazioni nella fase gestazionale, o in quella di consegna del neonato alla coppia committente, dopo il parto. La fase del counseling psicologico, poi, implica di norma che siano discussi con la candidata topics relativi a:

1) i rischi di legami affettivi con il feto che potrebbero insorgere durante la gravidanza;

2) l’impatto della gravidanza sul matrimonio, gli equilibri di coppia, la carriera lavorativa della futura gestante;

3) il difficile bilanciamento tra diritto alla privacy della futura gestante e diritti ad essere informati della coppia committente. I test di natura clinica, infine, tesi alla ricostruzione anamnestica di tutte le informazioni concernenti lo stato di salute fisica della candidata, includono di regola un focus necessario sia sulle sue abitudini sessuali, al fine di limitare rischi di contagio del feto con malattie sessualmente trasmissibili, sia sulle dinamiche di precedenti gravidanze, al fine di accertare l’eventuale tasso di abortività spontanea della donna, la cui eventuale incidenza diviene criterio di esclusione dalla lista delle “candidate ideali”. Costituiscono, ancora, cause di esclusione della candidata:

a) l’accertamento di pregressi e certificati stati depressivi, ansiosi, psicotici;

b) uno stile di vita “caotico” o eccessivamente stressante;

c) una fragilità emotiva che potrebbe creare problemi in fase di separazione, alla nascita, dal feto;

d) eventuali precedenti problemi nei rapporti con la giustizia e l’autorità costituita.

                La scelta della futura madre, insomma, dovrà risultare sempre il più possibile in linea con i gusti della coppia committente, che non a caso potrà contare sulle garanzie offerte da un vero e proprio contratto, così esplicitamente definito dall’art. 5 comma 1 della Proposta di legge qui in discussione: in forza contratto di surrogazione, si legge, la «gestante esprime il consenso alla rinuncia della maternità con conseguente riconoscimento dei diritti genitoriali nei confronti del nascituro in favore della persona singola o della coppia. Tale rinuncia deve essere espressa, in forma scritta, prima dell’avvio delle procedure mediche di fecondazione in vitro, e controfirmata anche della persona con cui la gestante è eventualmente sposata, unita civilmente o convivente ai sensi dell’articolo 1, commi da 37 a 67, della legge 20 maggio 2016, n. 76 e comporta l’automatica esclusione della presunzione di paternità di cui all’art. 232 comma 1 del codice civile».

                Ma l’invasività della pratica della MS nella vita della madre gestante si può altresì cogliere nella serie ampia di prescrizioni che la stessa è tenuta pedissequamente ad osservare nella fase della gestazione. Le limitazioni potrebbero teoricamente andare dalle normali precauzioni tese a garantire la preservazione della salute del feto – ad esempio, divieto di fumare, di assumere alcool o droghe – fino a tutta una serie di prescrizioni che possono incidere profondamente sullo stile di vista della medesima, alla quale sarà indicato, a titolo di esempio, la dieta da osservare, gli hobby o gli sport che può praticare, le regole della vita sessuale con il partner durante la gravidanza. La sorveglianza può essere attuata in forme più o meno stringenti, addirittura con visite o telefonate periodiche, da parte di legali e/o psicologi, la cui presenza non potrà non alterare profondamente la naturale dinamica delle relazioni familiari della gestante, oltre che di quelle intrauterine con il feto.

5. Le modalità attuative della MS qui descritte, permettono a ragione di parlare di un processo di reificazione in detrimento delle madri gestanti, tenuto conto di:

1)le limitazioni gravi imposte alla vita della madre gestante durante il tempo della gravidanza;

2) le asimmetrie informazionali, culturali e sociali esistenti tra i committenti da un lato e la madre gestazionale dall’altro;

 3) i rischi per la salute psichica della madre gestante, specie nella fase post-parto, una volta avvenuta la separazione dal nascituro;

4) l’obbligo di dichiarare in anticipo di rinunciare a qualsiasi diritto parentale sul bambino, obblighi che incidono anche sulla sfera giuridica del marito della gestante, tenuto a sua volta a dichiarare, fin dal principio, che compirà ogni atto necessario a respingere la presunzione di paternità;

5) la sostanziale iniquità delle somme corrisposte, che mai possono vedersi come eque controprestazioni, considerando che i rischi implicati in questa pratica per la gestante.

                Da tutto quanto appena descritto, si evince facilmente come quelli della reificazione, della strumentalizzazione, della spersonalizzazione della madre gestante siano effetti e caratteri propri, costitutivi della MS, cioè non legati solo all’eventualità di abusi perpetrati ai danni della parte contrattualmente più debole dell’accordo di surrogazione nei Paesi dove più facile appare vulnerare le prerogative giuridiche fondamentali di una persona, ma piuttosto insiti ad ogni forma di surrogazione nella maternità, sia essa attuata dietro corrispettivo economico, o in assenza di esso. Sebbene il profilo etico di queste due ultime ipotesi appaia differente, un giudizio di inaccettabilità morale le accomuna, dacché nel primo caso è operata la cessione di un bambino in cambio di denaro, così riducendo un essere umano ad oggetto di una transazione economica; nel secondo caso, sebbene in assenza di una controprestazione di natura economica, si attua comunque tanto un’arbitraria disposizione della vita di un essere umano, quella del nascituro – questa volta trasformato nell’oggetto di un preteso atto di liberalità – quanto un arbitrario utilizzo del corpo femminile, trasformato dalla madre gestante in un quid che, lungi dal continuare ad essere l’ipostatizzazione di quella dimensione razionale e spirituale propriamente umana cui diamo il nome di dignità, viene ridotto a strumento di assoggettamento personale, ancorché volontario. Né vale controbattere al primo punto osservando che ad essere ceduta è invero la mera potestà giuridica sul bambino e non il bambino stesso, ovvero solo i cosiddetti diritti parentali, dal momento che la potestà è solo la forma astratta della cessione, laddove l’oggetto concreto dell’interesse, tanto del cedente come del cessionario, rimane il bambino. L’oggetto del contratto sinallagmatico di compravendita, che al pari della donazione, rientra nel novero dei contratti reali, non può mai essere l’astratto concetto di proprietà, dovendo identificarsi necessariamente con un bene, una res scambiata in concreto appunto, qual è il nascituro.

                La natura eminentemente economica dell’accordo sotteso alla surrogazione solidale per altri, secondo la lettera della Proposta qui in esame, emerge in tutta la sua consistenza se solo si consideri non solo l’obbligo per i committenti di accollarsi le spese, mediche e non, sostenute dalla gestante, «il cui importo è stabilito nell’accordo tenendo conto dell’impegno fisico ed emotivo sostenuto dalla gestante nel corso della gravidanza e della perdita di capacità reddituale della stessa a partire dal periodo che precede la gestazione, nel corso della stessa e successivamente al parto, compreso il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro previsto dalla legislazione vigente», ma anche dagli ulteriori esborsi di cui gli stessi dovranno farsi carico, allorché «la gestante sia lavoratrice autonoma o lavoratrice atipica», ai cui fini si dovrà tener conto «altresì, conto del danno economico a essa derivante dalla differenza tra il reddito percepito nell’anno precedente a quello in cui ha stipulato l’accordo di gravidanza per altri solidale e l’anno in cui ha iniziato la gestazione, assicurando il rimborso del mancato guadagno».

                Non solo, ma a sottolineare la natura assolutamente non gratuita, né liberale della gestazione oggetto dell’accordo qui esaminato, è altresì previsto che «ai fini del rimborso delle spese sostenute, a causa della gestazione, dalla gestante, nonché dalla persona con cui la stessa è sposata, unita civilmente o convivente ovvero da una persona accompagnatrice, di cui al presente comma, tali spese devono essere documentate in forma scritta, certificate e approvate dall’avvocato dinanzi al quale è stipulato l’accordo di gravidanza per altri solidale». Dunque, rimborso obbligatorio a carico della coppia committente di tutte le spese sostenute dalla gestante e dal suo partner a motivo della gravidanza, non solo in termini di danno emergente, ma anche di eventuale lucro cessante.

Inoltre, è previsto che i legali delle parti, alla cui presenza l’accordo di surrogazione dovrà necessariamente essere sottoscritto, prima ancora dell’avvio delle procedure mediche di fecondazione in vitro, debbano verificare che

«a) il reddito della gestante sia conforme a quanto previsto dall’articolo 4, comma 3:

b) sia stato aperto il conto corrente dedicato di cui all’articolo 3, comma 6, mediante il versamento dell’importo stabilito dall’accordo di gravidanza per altri solidale, idoneo a coprire tutti i costi relativi alla gravidanza e al parto, comprese le spese di cui al comma 8 del presente articolo;

c) sia stata stipulata la polizza assicurativa di cui all’articolo 3, comma 5, in favore della gestante, per la copertura di tutti i rischi connessi alla gravidanza e al parto».

                Infine, oltre all’obbligo di stretta segretezza dell’accordo, cui la parti devono prestare consenso, è previsto che «al fine di tutelare gli interessi dei nati in caso di morte della persona singola o della coppia ovvero di impossibilità degli stessi di esercitare, per altre cause, la responsabilità genitoriale, la persona singola o la coppia devono procedere, mediante testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata, alla designazione di un tutore».

                6. Orbene, alla luce di simili obbligatorie tutele che devono assistere le parti coinvolte nell’accordo – come accade in ogni tipo di accordo sinallagmatico, a prestazione corrispettive passibili di valutazione propriamente economica –, sono molti quelli che credono che simili garanzie valgano ad assicurare la prestazione di un consenso autenticamente libero da parte delle gestante, fugando il rischio di uno sfruttamento legalizzato perpetrato ai suoi danni, magari indotto dal contesto di povertà e/o di privazione nel quale essa realmente vive. Così, a detta di questi, mancherebbero di una volontà autenticamente libera le sole gestanti provenienti da situazioni di povertà assoluta, mentre la scelta compiuta in un contesto libero da necessità impellenti, come nel caso di una donna occidentale media che offrisse il suo utero in un accordo di surrogazione solidale e altruistica, potrebbe considerarsi fatta mediante una volontà non viziata. Invero, l’esclusione – peraltro mai reale, come visto – di una transazione economica nel caso della MS solidaristica, non esclude, semmai conferma la logica mercificante di tale pratica, laddove si consideri che a poter essere donati sono sempre e solo degli oggetti, non certamente delle persone, e che la logica stessa del dono sembra implicare una quantificazione/quantificabilità del donato in vista di un possibile ritorno.

                Ebbene, ci si chiede, quale stima si potrebbe fare della vita di un essere umano ridotta in questo caso ad oggetto del dono stesso? Il fatto che la madre gestante si limiti a mettere a disposizione l’utero, e non anche il gamete femminile, proverebbe, per alcuni, che il figlio sarebbe invero della madre committente, titolare, insieme al marito ugualmente donante, del patrimonio genetico del nascituro, e non certamente della gestante, la quale dunque non donerebbe ne venderebbe alcunché, ma solo metterebbe a disposizione il suo utero per la gestazione. Ma anche una simile osservazione rinvia alle relazioni di dominio iscritte in tale pratica: il figlio non può, in forza della dignità che gli è propria, appartenere ad alcuno, ma solo essere un soggetto di diritto autonomo da qualsiasi altro, in forza della sua dignità speciale ed inalienabile, ancorché calato in una rete di relazioni significanti e plasmanti fin dalla nascita.

                In ogni caso, e in ultima istanza, il fatto che una donna accetti, coscientemente e razionalmente di essere madre per surrogazione, potrebbe descriversi come un caso nel quale ella starebbe scegliendo secondo arbitrio, ma non secondo una volontà autenticamente libera. Questa è la distinzione messa a punto nell’elaborazione moral-filosofica di Sant’Agostino prima e San Tommaso poi, per i quali la libertà maggiore dell’uomo, la sua volontà, ovvero il tendere razionalmente e scientemente verso beni ultimi e non negoziabili, che la coscienza morale suggerisce ad ognuno, fa tutt’uno con la realizzazione del bene universale. Quest’ultimo aspetto sembra mancare nella pratica della MS, anche solidale, nella misura in cui non si considerano né il bene effettivo del bimbo – obbligato a nascere fuori da una relazione naturale tra i suoi genitori, come frutto di un accordo che implica la presenza, che permarrà durante tutta la sua vita, di una persona terza rispetto alla coppia –, né al bene della gestante – portata a pensarsi come uno strumento per il soddisfacimento di un desiderio altrui –, né, probabilmente, della coppia committente – che semplicemente pensa al soddisfacimento di un impellente desiderio di genitorialità. Per questo si può affermare che la gestante può giungere a scegliere arbitrariamente, ma mai liberamente.

                Le azioni che un uomo compie possono dirsi veramente sue solo quando ha scelto liberamente di compierle, scelta che sarà possibile considerare moralmente giusta o ingiusta solo se operata, si ripete, in una completa libertà di autodeterminazione. A sua volta, una scelta libera presuppone un triplice istanza:

1) un’alternativa reale tra opzioni possibili;

2)l’esigenza di eleggerne una;

3) l’esclusiva personalità della deliberazione, senza che nulla dall’esterno possa averne condizionato la dinamica.

Una scelta così fatta, rivela l’identità propriamente umana e morale di una persona, «l’identità esistenziale integra di un individuo, l’individuo completo in tutte le sue manifestazioni, guidato dal bene morale e da cattive scelte, ma pur sempre disposto a fare ulteriori scelte» La libertà dell’agente morale incontra il suo limite, ma anche la sua fonte esattamente qui, nella responsabilità verso chi ha difronte, con la sua intangibile libertà morale, il quale fa tutt’uno col nostro Io, rendendolo un Io responsabile dell’altro: «L’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica.

Ebbene, i soggetti coinvolti nella pratica della MS sono obbligati, contrattualmente, ad ignorare gli appelli che l’etica della “responsabilità” rivolge a ciascuno di essi e in particolare alla madre gestante, che dunque mai potrà dire di aver agito liberamente fin quando avrà scelto obliando l’obbligo morale di rispondere prima a se stessa – quanto alla mercificazione, reificazione, monetizzazione del proprio corpo che attenta alla sua dignità – e poi al figlio che nascerà, costretto a portare per sempre lo stigma, personale, morale, culturale, di essere stato concepito, portato in grembo, dato alla luce e ceduto dietro un corrispettivo sinallagmatico, contrattualmente fissato, ovvero per effetto di un atto di liberalità che in nessun momento lo libera da una dinamica reificante.

                L’assenza di una volontà veramente libera nella determinazione della madre gestante, ovvero la sua falsa coscienza, il suo “difettivo consenso”, permetterebbero di parlare della coercizione come di un carattere proprio della MS e come il presupposto per argomentarne un aspetto costitutivo ulteriore, quello cioè dello sfruttamento indotto da tale pratica, come confermato dai fattori di vessazione, a livello di pratiche socio-sanitarie, già elencati sopra e divenuti emblematici della surrogazione praticata in Paesi particolarmente poveri. Né vale obiettare che tali caratteri inumani della MS potrebbero essere vinti semplicemente eliminando le cause sociali del disagio, o disciplinando ogni aspetto dei possibili accordi di surrogazione, così da assicurare una tutela legale più stringente della madre gestante. In realtà, il carattere reificatorio della pratica di MS sta non solo nel difetto di una volontà libera della candidata, o nelle condizioni ambientali nelle quali matura la sua scelta, o ancora nelle asimmetrie relazionali tra le parti coinvolte, ma soprattutto nel fatto che l’offerta pro aliis, gratuita oppure no, di un servizio riproduttivo, come di un servizio sessuale, implica sempre una strumentalizzazione della donna, ovvero una lesione ineludibile della sua dignità, quali che siano le condizioni nelle quali si perfeziona l’accordo.

7 Parlando delle pratiche implicanti la reificazione, la spersonalizzazione/mercificazione di una persona,  Marta Nussbaum (α1947), filosofa argomenta sostenendo che esisterebbero almeno sette diversi modi di comportarsi, concettualmente distinti e sottesi al termine “oggettificazione” – nessuno dei quali implica necessariamente l’altro, anche se ci sono molte connessioni complesse tra di essi – ciascuno dei quali appare agli occhi dell’autrice grandemente problematico sul piano morale:

«1) Strumentalità: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come uno strumento per i suoi scopi;

2) Negazione dell’autonomia: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come privo di autonomia e autodeterminazione;

3) Inerzia: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come privo di agency e forse anche di attività;

4) Fungibilità: il soggetto strumentalizzante considera l’oggetto intercambiabile:

(a) con altri oggetti dello stesso tipo e/o

(b) con oggetti di altri tipi;

5) Violabilità: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa che è lecito rompere, frantumare, infrangere;

6) Proprietà: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa che è di proprietà di un altro, che può essere comprato o venduto, ecc.;

7) Negazione della soggettività: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa la cui esperienza e i cui sentimenti (se ci sono) non devono essere presi in considerazione».

                Ebbene, appare chiaro come trattare le cose come oggetti non costituisce di per sé un’ipotesi di oggettificazione, poiché l’oggettificazione/reificazione implica il trasformare in una cosa, il trattare come una cosa qualcosa che una cosa non è, ovvero una persona: «L’oggettificazione consiste nel trattare un essere umano in uno o più di questi modi […]. Nel complesso, mi sembra che “oggettificazione” sia un termine cluster relativamente libero, per la cui applicazione a volte consideriamo sufficiente una qualsiasi di queste caratteristiche, anche se più spesso una pluralità di caratteristiche è presente quando il termine viene applicato. Chiaramente […], abbiamo qualche ragione di pensare che questi sette elementi siano almeno dei segnali di ciò che molti hanno trovato moralmente problematico. E ci sono alcuni punti dell’elenco – soprattutto la negazione dell’autonomia e la negazione della soggettività – che attirano la nostra attenzione».

                Dunque, considerando:

1) la visione strumentale del corpo della gestante da parte dei committenti, che lo considerano come funzionalmente assoggettato alla realizzazione del loro desiderio di genitorialità;

2) il negare rilevanza e dignità alla capacità di decisione autonoma della gestante rispetto al feto che porta in grembo;

3) il concepire la gestante in un’ottica di pura fungibilità strumentale, rispetto al solo obiettivo che rileva in un accordo di surrogazione, ancorché solidale ed altruistico;

4) l’idea della liceità dell’interruzione del legame comunicativo intrauterino, estremamente significativo per lo sviluppo del feto e non solo, che si è instaurato tra la gestante ed il feto;

5) l’idea della violazione/violabilità delle relazioni familiari e coniugali in cui la gestante è calata;

6) la concezione inesorabilmente proprietaria che accompagna i committenti rispetto al feto, specie quando ad essi geneticamente legato;

7) il disinteresse contrattualizzato verso ogni forma di sentimento provato dalla gestante, i cui stati d’animo non meritano menzione alcuna nell’accordo di surrogazione; non si può non concludere nel senso di ritenere lo sfruttamento, la coercizione, la reificazione, la mercificazione, l’oggettificazione come effetti tipici della MS, solidale o non, effetti che possono variare in quantità o combinarsi variamente a seconda del luogo nel quale tale pratica viene effettua, ma che appaiono sostanzialmente identici sotto il profilo qualitativo e, dunque, propri di tale tecnica.

                8. E tuttavia, l’armamentario dialettico cui si continua a ricorrere per giustificare l’accesso e la legalizzazione, giuridica e morale, di tale pratica, si serve essenzialmente di tre argomenti principali:

  1. la libera disponibilità del proprio corpo da parte della madre gestante;
  2. il libero esercizio del “potere” procreativo intrinsecamente legato al corpo della donna, presupposto di emancipazione sociale della stessa;
  3. la libera interazione tra soggettività desideranti, ovvero il desiderio della madre gestante di corrispondere al desiderio di genitorialità della coppia committente.

Ora, proprio sul corpo visto come nudità biologica, organica, materiale, sembrano appuntarsi i desideri, le rivendicazioni, le aspirazioni dei soggetti coinvolti nella pratica della MS: il corpo gestante della madre surrogata; il legame biologico che deve esistere tra il padre, ed eventualmente, la madre committente e il figlio; il corpo del neonato, da assicurare immediatamente alle braccia della coppia appaltante una volta separato dal grembo della madre surrogata. In tutti questi casi, assistiamo ad una dazione commerciale, o almeno sinallagmatica – “Ti do, perché tu mi dia”- e dunque strumentalizzante del corpo umano, o almeno di una sua parte: il ventre, lo sperma, gli ovuli, il feto. Nel caso della madre gestante, poi, l’indisponibilità a se stessa del suo proprio corpo, in vista della realizzazione dei desideri riproduttivi della coppia committente, l’impossibilità cioè di mettere a disposizione, a titolo oneroso o gratuito, il proprio utero per fini procreativi altrui, riposa su una visione del corpo umano da intendersi come totalità donata, prima ancora che donante: dal momento che nessuno può liberamente determinarsi nel nascere, ne segue che il corpo non dovrebbe mai considerarsi come oggetto di una proprietà personale, sul quale poter accampare diritti, ma essere visto come un quid ricevuto, come un dono offerto appunto. La visione del corpo come dono fatto ad ogni persona in maniera sostanzialmente, non accidentalmente, identica, permette di parlare di “corpo personale”, da accettarsi nell’adesione ad un’etica della cura e della corresponsabilità, dimensioni che ci introduco all’idea del limite nella disponibilità del corpo stesso. Contro l’idea della piena autonomia nella disposizione del corpo, la logica del dono ci impone di rifiutare tutto ciò che appare in distonia con le sue leggi, l’uso utilitaristico del corpo per fini di “produzione” ad esempio, come nel caso della MS tanto commerciale, quanto solidaristica.

 Quando la generazione umana è assimilata alla produzione, quantunque non commerciale, di feti da scambiare o anche donare, il corpo viene necessariamente oggettificato, smarrendo quella determinante dimensione personale e soggettiva cui si accennava sopra, cosa che non si verifica nel caso io scegliessi di donare, in maniera veramente e pienamente gratuita, solo un mio organo – un rene, per esempio – in vista della necessità di tenere in vita una persona che diversamente non avrebbe possibilità di sopravvivere.

L’oggettificazione del corpo umano sottesa alla messa a disposizione degli organi di riproduzione ha un’immediata ricaduta in termini di perdita di valore assoluto della persona umana – la cui dignità è apparsa essere quella di una soggettività da intendersi nella duplice dimensione spiritual-corporale – e ciò perché solo gli oggetti, come insegnava Kant, possono essere scambiati dietro la corresponsione di un prezzo. Nel caso della MS il processo di reificazione investirebbe tanto la madre gestante quanto il neonato, entrambi fatalmente attratti in una logica di riduzionismo oggettificante che attenta alla dignità morale di entrambi, come abbiamo avuto modo di acclarare sopra. Dunque le preclusioni maggiori all’indiscriminata disponibilità del corpo umano – di quello della gestante nel caso di specie – crediamo riposino su:

1) l’esistenza di limiti previsti legislativamente, all’interno degli ordinamenti positivi delle civiltà giuridiche più avanzate, alla libera disposizione contrattuale del corpo umano

2) l’assenza di un consenso autenticamente libero all’accordo di surrogazione da parte della candidata alla gestazione, come visto sopra;

3) la latente ed ineludibile logica di reificazione che la pratica della MS porta con sé, reificazione che sembra investire tanto la gestante – portata a concepire il suo corpo come strumento per l’attuazione di finalità ri-produttive etero-indotte ed etero-dirette – quanto la creatura che darà alla luce – vista come oggetto del soddisfacimento dell’altrui desiderio di genitorialità.

                9. La seconda argomentazione usata per giustificare la liceità dell’accesso alla MS fa leva, come visto, sulla presunta libertà di esercizio del “potere” procreativo, intrinsecamente legato al corpo della donna, da parte della madre gestante, libertà che assurgerebbe in tale pratica a presupposto di emancipazione sociale della medesima. La recente speculazione filosofico-politica, in particolare, ha riflettuto sull’opportunità di considerare la pratica della MS quale nuovo paradigma prestazionale nel bio-lavoro globale. I mercati della riproduzione assistita sono, del resto, in costante crescita a livello globale, come prova il numero sempre maggiore di coppie che, intente a veder realizzato il loro desiderio di genitorialità, ricorre alla fecondazione in vitro come alla MS. Il lavoro clinico, in queste pratiche, sfrutta brevetti che sono tra i più redditizi dell’intera economia post-industriale, ma relega la forza-lavoro coinvolta in tali processi, la madre gestante in particolare, a livelli di inquadramento tra i più bassi e in-formalizzati, livelli che includono e attingono per lo più a classi sociali ed economiche marginalizzate.

                La critica di due autrici, Melinda Cooper                                             e Catherine Waldby,

ha assunto come bersaglio polemico la caratteristica del bio-mercato globale di riprodurre i meccanismi di assoggettamento e soggettivazione che l’economia di stampo capitalista ha dimostrato di alimentare e perpetuare. Con il sistema del bio-lavoro globale, cioè, l’alienazione umana prodotta dal capitale non sparisce affatto, ma si trasforma: l’investimento si privatizza nella figura dell’imprenditrice di sé stessa, ora impegnata nella valorizzazione della sua persona per mezzo dello sfruttamento di parti del suo corpo. La proprietà del brevetto da parte delle cliniche, poi, del lavoro cioè non fisico ma intellettuale, garantisce il ritorno di un profitto che, lungi dall’essere socializzato, appare privatizzato, esclusivo, speculativo. Insomma l’economa dei corpi ha portato alla creazione di cornici disciplinari e governamentali che riproducono meccanismi di s-oggettivazione nuovi, perché basati su elementi di assoggettamento bio-politico inediti, quali appunto l’ordine della salute, della privacy, dei ruoli di genere e delle strutture etero-normative in cui siamo immersi.

Una simile impostazione critica, postula, anche se non menziona, il dramma di una cultura antropologica nuova, che punta sempre più a normalizzare i processi di separazione simbolico-culturale e pratico-effettuale tra la donna e la sua capacità riproduttiva, legittimando letture riduzionistiche che, attentando alla sua dignità, alimentano forme sempre nuove di schiavitù, di assoggettamento, il superamento delle quali passa necessariamente per la riabilitazione di una visione che riproponga il dato dell’incommerciabilità ed inalienabilità di alcune funzioni propriamente femminili, oltre che autenticamente umane, quali quelle sessuali e riproduttive. Uno sguardo integrale rivolto alla condizione ontologica della donna, ci introduce al mistero di un’unità profonda tra la sua corporeità, la sua sessualità e la sua capacità generativa. Ogni tentativo di separare queste dimensioni, favorendo l’assolutizzazione di una di esse a scapito delle altre, sarebbe causa di forzature strumentalizzanti che attentano alla sua dignità.

10. La terza ed ultima obiezione, inerisce alla possibilità che la madre gestante giustifichi la sua adesione ad un accordo di surrogazione con l’intenzione di voler corrispondere al desiderio genitoriale della coppia committente. È forse il caso di soffermarsi a considerare più da vicino la fisionomia di questo desiderio, che sembra implicare dinamiche di razionalità ed affettività che il ricorso alla tecnica e il prevalere dell’emotività hanno radicalmente pervertito. Il corto circuito dipende dal fare della paternità e della maternità essenzialmente un progetto della ragione, la realizzazione di una volontà libera, di un desiderio mero di genitorialità appunto, realizzabile attraverso una serie di atti ed espedienti tecnici in sequenza, da considerarsi quali altrettanti steps in vista del conseguimento del risultato atteso. È questa la mentalità spesso sottesa allo stesso desiderio di genitorialità, ad oggi sempre più vissuto come portato emozionale di un non meglio definito timore della diversità a causa di una mancanza – in questo caso di un figlio – o come supporto prospettico ad una relazione di coppia che difetta dei numeri necessari a rimanere in piedi e a camminare da sola, o ancora come volontà di riscatto e prevaricazione contro limiti che, posti dalla natura, sono scambiati per insopportabili tare culturali. L’emotività autoreferenziale di questa volontà di omologazione spesso fonda un desiderio di genitorialità che, potendo contare on demand sul potere prometeico delle tecnica, ripropone il corto circuito di una narrazione che non riuscendo più a scorgere i nessi profondi tra i poli di sessualità ed affettività, di concepimento e generazione, di maternità e femminilità, di capacità generativa e dignità, pensa di poterli porre, scomporre, ricomporre, eventualmente deporre, ad nutum, incurante del fatto che l’identità di ogni soggetto è plasmata all’interno di necessari legami di generazione e riconoscimento.

                Introdurre logiche di corresponsione economica, logiche di scambio, di reciprocità valutabili, all’interno di tali dinamiche significa obbedire ad impulsi ispirati da una progettualità puramente autoreferenziale, soggettivista, sostanzialmente dimentica del fatto che la relazione tra soggettività ugualmente libere e degne non può essere resa asimmetrica da condizionamenti imposti iniquamente, sfruttando cioè posizioni di predominio che sempre finiscono col generare prevaricazioni, inautenticità, assoggettamenti. E questo sembra essere esattamente il caso del desiderio di genitorialità sotteso alla pratica della MS, solidale e non, dove i desideri personali ordiscono prevaricazioni ai danni dei più deboli e i singoli processi di soggettivazione, originati da preesistenti asimmetrie relazionali, producono stigmi esistenziali che segneranno per sempre la vita dei soggetti in essa coinvolti. Nella costellazione fatta di femminilità, maternità, generazione, famiglia, nella quale la pratica della MS ci proietta, si avverte la sistematica assenza dell’attenzione sensibile all’altro, l’algida freddezza di un proceduralismo bio-medico e tecnico che impone l’abdicazione cosciente al darsi conto della presenza dell’altro. Nella pratica della MS si assiste, cioè, ad un’interazione monadica tra le parti, che innesca un’accurata profilassi emotiva del vissuto altrui, presupposto irrinunciabile dell’efficacia disgregativa che è chiamata ad operare tra soggettività distinte, eppure rese prossime dalla profondità di legami biologici destinati ad essere soppiantati dall’artificialità dei vincoli giuridici.

                La descritta esclusione della ragione empatica, l’adesione inopinata a modelli etici ispirati ad un emotivismo soggettivista, l’assunzione di una cornice di riferimento meta-morale di stampo utilitarista, funzionalista, edonista, come denunciato in apertura del presente contributo, annichiliscono il portato umano delle relazioni presenti nella pratica della MS, inaridendo la capacità di tutti i soggetti coinvolti di penetrazione introspettiva. Nella pratica della MS, l’assenza di uno sguardo empatico tra i soggetti coinvolti genera cioè lacerazioni – tra madre gestante e bambino; tra madre gestante e coppia committente; tra questi soggetti e gli eventuali donatori esterni di gameti – che, occultate dai successi rivendicati dall’efficientismo della tecnica, ammantano di normalità pratiche di prevaricazione e assoggettamento, reificazione e spersonalizzazione, generando logiche inumane di sfruttamento e strumentalizzazione. Né pare che questi rischi possano essere evitati, scongiurati, superati per mezzo di norme giuridiche più stringenti, le quali, per un lato finirebbero con l’assicurare la mera coercibilità di molte prestazioni incluse negli odierni contratti di surrogazione e ad oggi non esigibili (si pensi, ad esempio, all’obbligo di abortire feti malformati, o di consegnare il feto appena nato in ogni caso, anche quando la madre abbia maturato una scelta differente), per un altro lato offrirebbero una cornice legale di protezione e tutela giuridica e giudiziaria a quanti commettono abusi, vessazioni, prevaricazioni in danno delle parti contrattualmente più deboli, ossia la madre gestante e il feto appunto.

Antonio Casciano                            Centro Studi Livatino     8 giugno 2023

www.centrostudilivatino.it/maternita-surrogata-altruismo-gratuita-solidarieta

OMOFILIA

L’omosessualità, il corpo e il cristianesimo

Intervento introduttivo di Marta Ghezzi all’incontro-dibattito su

“Se Cristianesimo e Omoaffettività comunicano” (Pavia, 3 giugno 2023)

Sono felice di continuare il percorso del Circolo Teodolinda nell’ambito del programma culturale della Socrem, affrontando un altro tema sensibile, complesso, che richiede ascolto, studio, approfondimento e dialogo tra diversi punti di vista (filosofico, teologico, politico). Dopo aver affrontato il tema dell’eutanasia oggi affrontiamo il tema dell’omosessualità, dei diversi orientamenti sessuali e affettivi e del diritto all’affettività, in qualsiasi forma. Chi siamo noi per giudicare ?

                Lo facciamo con due testimoni che hanno fatto coming out e che appartengono da cristiani a chiese diverse, quella cattolica e quella metodista, Emanuele Macca e Emanuele Crociani con 2 studiosi, Don Gian Luca Carrega della Diocesi di Torino e la pastora valdese Daniela Di Carlo .

                Le quattro persone che ci parleranno oggi sono titolate a farlo sia per esperienza che per studio teologico. Io, come persona eterosessuale per le radici culturali (che non esclude di essere potenzialmente omosessuale) mi permetto di fare alcune riflessioni preliminari : ho preso spunto da alcune teologhe cattoliche e protestanti femministe, da scrittrici e giornaliste.

L’omosessualità è una condizione naturale che esiste da sempre nel mondo animale e umano, nella vita comune di tutti noi. È presente sia tra i prelati che tra i fedeli, sia tra i potenti che tra gli ultimi. Quando si rigetta la propria omosessualità interna si tratta di rapporti di potere. Non riguarda solo la scelta erotica di molti cittadini ma una parte importante, insostituibile, di tutte le relazioni erotiche e affettive. Non si può essere eterosessuali in modo appagante senza una componente omosessuale. Desiderare il proprio sesso è condizione necessaria per conoscere il suo valore erotico, per capire cosa desidera l’altro sesso in noi. Ciò vale anche per gli omosessuali che non sono compiuti senza una componente eterosessuale.

                Del resto l’amicizia tra persone dello stesso sesso può essere considerata un’omosessualità sublimata. Quando si erigono muri e ostracismi tra eterosessuali e omosessuali sia all’interno che all’esterno di noi, ci sono guai per tutti. I muri hanno a che fare con le congiunture socio economiche, il contesto storico culturale, la configurazione del potere politico, l’incidenza del potere secolare delle religioni.

                Più grande è la disuguaglianza, più sono immiserite le relazioni di scambio, più la cultura si chiude in sistemi dogmatici, più prevale l’organizzazione piramidale e autoritaria della società, più la repressione si intensifica, anche quando in forma nascosta la si ammette. L’omosessualità può vivere nel buio ma non essere esibita. E questo è ipocrisia allo stato puro. L’aggressione all’omosessualità nasce dalla paura dell’omosessualità psichica, individuale e collettiva che comporta il desiderio per l’altro simile, familiare ed è una cerniera tra il narcisismo e l’investimento dell’alterità.

Più il narcisismo di morte, il rifiuto dell’alterità è dominante più l’attacco all’omosessualità è un atto dovuto. Per questo è interessante scandagliare il punto di vista religioso, teologico partendo dal presupposto che l’omosessualità non è un peccato e che l’orientamento affettivo e sessuale deve essere esercitato liberamente, senza discriminazioni e repressioni. Non solo perdonato, ma ammesso alla luce del sole.

                Come sottolinea la teologa femminista, monaca benedettina, catalana Teresa Forcades, nella visione biblica e cristiana non c’è spazio per il dualismo tra corpo e anima, tra mondo materiale e mondo spirituale. C’è una visione sbagliata antica, segnata dalla paura e dal sospetto nei confronti del corpo seduttore e peccatore (e quindi oggetto di penitenza). Ma anche la visione contemporanea di un corpo ridotto a oggetto di desiderio, discriminato, sfruttato e controllato non è accettabile. Nel suo libro “Il corpo, gioia di Dio”, Teresa Forcades tratta la materia come spazio d’incontro tra il divino e l’umano. Il cristianesimo non deve disprezzare il corpo ma onorarlo come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiunge la sua pienezza.

                Michela Murgia nel suo libro “God save the queer“ affronta questa antinomia e mostra come la pratica della soglia, la queerness sia una pratica cristologica. Occorre riconoscere che il confine non ci circonda ma ci attraversa, uno spazio fecondo, un potenziale vitale e non una contraddizione.

Innocenzo          Gionata                               7 giugno 2023

www.gionata.org/lomosessualita-il-corpo-e-il-cristianesimo

PROFETI

Chiesa e potere

 dom Giovanni Battista (Mario) Franzoni α1928- ω2017, teologo e scrittore

Il discorso che vogliamo fare questa sera, “Chiesa e Potere”, è estremamente importante in quanto, nell’attuale processo di riappropriazione della dimensione della società che le classi marginali dipendenti stanno conducendo nel loro processo storico, esse si vengono sovente a incontrare in contraddizione proprio con certe strutture che si rifanno al Vangelo volendo perseguire uno stato di liberazione, un messaggio di responsabilizzazione, e questo sorprende ed amareggia. Tante volte si è potuto verificare che certi atteggiamenti da un lato tradiscono il messaggio stesso cristiano, dall’altro costruiscono un supporto, un vero e proprio regalo al potere delle classi dominanti.

                È importante tenere conto di questi meccanismi perché non vanno considerati un fatto mostruoso ed esterno a noi ma noi stessi ne prendiamo parte. Questo scoprire è dentro di noi, è dentro il processo storico scoprire quali sono stati i passi falsi, quali sono state le deviazioni che hanno causato questa situazione.

                Potremmo dire che la strategia di fondo che sta a monte del potere delle classi che esercitano una egemonia sulla società è di carattere anzitutto persuasorio e perbenistico; indica cioè il fatto che fin dalla nascita gli uomini non siano tutti uguali ma hanno di fronte a loro dei percorsi, delle carriere differenziate a seconda di dove nascono, sia geograficamente che sociologicamente.

                Questo di per sé è inaccettabile, quindi la possibilità di ereditare dalle generazioni precedenti o dalla loro situazione dei privilegi per cui questa concorrenza che c’è nella nostra società è un principio non valido e trasforma la vita in una specie di giungla nella quale gli uomini non danno certo il meglio di sé stessi ma mostrano la loro spregiudicatezza, la loro durezza che li rende sempre più violenti.

                Ma, fra l’altro, questa competizione che ci fa dire che la vita è bella perché competitiva, in realtà non è così divertente: se uno la potesse vedere dall’esterno, sarebbe come andare a guardare allo stadio una corsa di 80 metri nella quale ci sono alcuni che partono 20 metri prima e altri 20 metri dopo, oppure andare allo stadio a vedere una partita di calcio in cui da una parte ci stanno undici giocatori e dall’altra parte sei. Sarebbe uno spettacolo ridicolo. Ora questa competizione della vita, nella quale un bambino che nasce nella casa di un proletario ha in mano forse la decima parte della possibilità, o forse anche meno, rispetto a chi nasce da una famiglia di un professionista, rende impossibile concepire la scuola come una cosa nella quale possa vincere il migliore.

                Per esempio, quando nasce un bambino da una famiglia di emigranti siciliani a Torino, inizia a vivere con una quantità di difficoltà: parla siciliano, ma appena esce fuori incontra altri ragazzi che parlano piemontese; a scuola la maestra dice di parlare italiano e segna in blu quando sbaglia; questo bambino potrebbe avere le stesse possibilità di un figlio di professionista che gli sta accanto al banco e che sente a casa parlare italiano e quando sbaglia c’è papà e mamma che lo possono aiutare e se andasse male potrebbero pagare per le ripetizioni?

Direi che queste cose che sto dicendo sono talmente ovvie, che uno si domanda come sia possibile che questa stratificazione, questa società organizzata in classi, questa possibilità di usufruire di privilegi che sfrutta masse enormi possa sussistere. E qui è stata la grande capacità delle classi egemoni che esercitano un controllo sociale attraverso due momenti fondamentali: la persuasione e la repressione per coloro che non accettano con la persuasione l’attuale assetto socio politico. La prima strada è quella della persuasione. Abbiamo un esempio: forse ricordate senz’altro, quando abbiamo studiato la storia di Roma, il primo comizio fascista, o per lo meno reazionario, quando la plebe romana si accorse di essere sfruttata e un giorno decise di incrociare le braccia. Succede sempre che i plebei sono più assuefatti all’aver fame, e quindi scioperavano, perché sentono il disagio della loro situazione e invece i patrizi, più accorti e responsabili nei confronti della società, dicevano “se smettono di lavorare noi che ci mangiamo?”

                Immaginiamo un corpo umano nel quale le braccia e le gambe si affaticano, perché si muovono mentre lo stomaco e gli organi nobili del corpo accumulano cibo e si fanno servire… Incrociando le braccia, smettiamo di lavorare (pensano le braccia e le gambe) e vedremo un po’ come si mettono le cose. E in effetti così fecero, e lo stomaco cominciò a languire perché non entrava più cibo in quanto le braccia avevano smesso di lavorare e quindi per i primi giorni le cose andarono bene: le braccia tutte contente, le gambe tutte contente. Ma cosa successe dopo un po’ di giorni? Successe che la debolezza che veniva dallo stomaco si propagò per tutto il corpo e anche le braccia si sentivano deboli e le gambe cominciavano a tremare e allora si accorsero che lo stomaco e gli organi centrali, pur senza lavorare direttamente, però espletavano una funzione importantissima.

                Questi plebei romani che non avevano chi gli facesse una analisi razionale, qualcuno che gli desse una mano per capire questo marchingegno, abboccarono e tornarono a lavorare. Dove sta l’errore? Dove sta l’imbroglio? In realtà è vero che un organismo sociale ha bisogno di darsi determinate funzioni, ruoli diversi, ma non è affatto vero che questi ruoli devono essere fissi e che certi devono avere sempre, arbitrariamente e per nascita, un ruolo subalterno e certi altri devono avere sempre un ruolo egemone. Quindi nel momento in cui l’aristocrazia fece balenare di fronte agli occhi della plebe, non tanto la crisi di quell’assetto sociale, ma la crisi di ogni possibile assetto sociale, fece vedere davanti a loro il baratro, l’abisso, il caos e, sotto questo profilo, la plebe venne ricondotta all’obbedienza e alla sudditanza.

                Direi che questo metodo è normale e si è protratto per secoli, per millenni. Per millenni gli uomini accettarono questa loro situazione e accettarono di mettersi in riga. Naturalmente i metodi persuasivi si sono affinati, a seconda delle spinte che sono venute da parte dei lavoratori, da parte del proletariato, e comunque questi accettano di mettersi in fila nella rincorsa al successo, al benessere, alla libertà della vita; ecco cercano di mettersi in fila cercando in qualche modo di raggiungere una posizione migliore se non eccellente in questa società che è data come unica possibile. La mistificazione è sempre questa: si va a scuola e non si impara la storia, ma si impara la storia delle classi dominanti, ad esempio la storia delle battaglie di Napoleone; e questa è la mistificazione fondamentale.

                La lotta delle classi operaie per portare la giornata da 18 a 14 ore che hanno fatto i minatori in Germania, la lotta dei tessili inglesi o dei braccianti siciliani, questo non fa storia, quello che fa storia sarebbe quello per cui tu prendi una bocciatura e non sei maturo per andare avanti; si deve assimilare la storia che è una storia delle classi dominanti. La geografia che ti propina l’ideologia delle “capitali”, per cui tu devi sapere, ad esempio, che Roma si identifica con il Colosseo, con Piazza S. Pietro, con determinati monumenti, e non che è anche una città in cui abitano degli uomini, dei lavoratori che vivono e devono avere dei rapporti comunitari fra di loro, che hanno dei figli che hanno bisogno di servizi. Uno studia la geografia, imparando a conoscere le capitali. E attraverso questo passa una determinata ideologia.

                Perfino l’aritmetica appare una cosa neutrale ma secondo me neanche l’aritmetica è neutrale perché, quando un bambino studia che un ortolano compra le mele a 100 lire al chilo e le vende a 200 e gli si chiede “quanto guadagna?”, evidentemente già passa una determinata ideologia che intorno a una operazione di questo genere ci possa essere un profitto privato. Sulla qual cosa non si pone nessun dubbio. L’importante che si impari a fare, per esempio, le sottrazioni, quindi voi immaginate l’operaio con un problema di questo tipo: un operaio prende 180 mila lire al mese, paga di affitto 60 mila lire al mese. Gliene servono per vivere 80 mila lire. Se voi date problemi di questo genere al bambino, quando va a casa il padre dà un’occhiata e dice “guardi signora maestra io non ne prendo 180 ma ne prendo 150 e poi non pago 60 di affitto ma 85 più il condominio, quanto poi ai generi alimentari del supermercato… eccetera. In questo modo il bambino imparerebbe ugualmente a fare le somme e le sottrazioni ma avrebbe gli agganci con la vita reale.

                Almeno ai tempi miei era così, ma credo che non sia cambiato molto, perché vi sono ancora dei riferimenti che sono del tutto irreali. In definitiva la scuola fa questa opera di distrazione dalla realtà, ma non solo la scuola. Si vuole che il servizio militare alla patria si svolga separandosi per un periodo notevolissimo dalle lotte e dai problemi della propria società, che per un certo periodo uno non faccia politica, perché serve la patria imparando a usare le armi e c’è da sperare soltanto che non verranno mai usate; così anche qui passa, sotto, sotto, una determinata ideologia che è funzionale all’assetto attuale e quindi c’è tutto un sistema che consente di trasmettere, fin da bambini, un senso di immutabilità, di impossibilità a concepire qualche cosa di diverso. Mentre si scatena l’altra possibilità che attraverso uno studio molto applicato, un lavoro molto responsabile e cosciente, attraverso l’obbedienza e nel farsi veramente stimare prima dagli insegnanti, poi dai vicini, prima dal parroco, poi finalmente dal datore di lavoro e così via, allora potrai diventare in questo sistema caporale, caporal maggiore e forse anche dirigente e in questo modo passa quest’altro tipo di discorso.

                Entra nella trafila con gli altri, non ribellarti, obbedisci, caccia via dalla testa fantasie, come il poter ipotizzare un assetto sociale diverso e allora vedrai che le tue possibilità aumenteranno fino a raggiungere l’obiettivo mitico, famoso negli Stati Uniti, della società talmente libera e perfetta, nel quale il bambino che da piccolo a piedi nudi ha cominciato a vendere giornali è diventato poi il re della carta stampata, il grande miliardario. Naturalmente quanti milioni di bambini devono lustrare scarpe e andare a vendere i giornali finché non ne esce uno che diventa ricco? La stessa logica del totocalcio: c’è uno solo che vince sempre, che è quello che gestisce la lotteria.

                Questa diciamo è l’alternativa fasulla che viene presentata soprattutto in una società tipo come la nostra nella quale, astrattamente parlando, tutti i cittadini sono uguali; astrattamente parlando perfino il figlio del bracciante pugliese può diventare presidente della Repubblica; da nessuna parte c’è scritto il contrario, non c’è una legge che discrimina da questa possibilità, dall’accesso a questo ruolo. La beffa più grande è quando per combinazione, un figlio di braccianti, dopo essersi dovuto ficcare in questa trafila, dopo aver accettato questo, diventa effettivamente onorevole o papa o presidente della repubblica. In realtà non farebbe altro che confermare questa ideologia e quindi compirebbe un disservizio nei confronti della classe di provenienza. Se poi, nonostante tutto questo, la classe dominante non riuscisse a persuadere le persone a mettersi in fila, abbiamo una serie di metodi repressivi che iniziano fin da bambini.

                Il bambino che non accetta la comunità del gruppo genitoriale deve subire la delusione dei genitori e del parentato che dicono: “che sarà di questo bambino? non avrà la stima degli altri… è un bambino cattivo… è un ribelle… non si allinea e domani non avrà un posto sicuro”. L’azione educativa consiste nel disarmarlo, integrarlo nel sistema vigente. Lo stesso può succedere nella repressione che si scatena nella scuola, oltre a presentare, con questo tipo di visuale, che l’attuale società è l’unica possibile. Se uno poi uscisse da quel tipo di cultura, rifiutasse in modo irrazionale, in modo individualistico qualcosa, verrebbe colpito dalla sanzione, avrebbe il brutto voto, forse la bocciatura e così via. Si direbbe: “Questo non è adatto per la scuola. Non è adatto, è bene che vada a fare quello che faceva suo padre”.

                E poi ci sono altre forme di repressione. Via, via che uno esce da questo allineamento, aumentano le possibilità che vada a finire nel carcere minorile, che vada a essere depositato nei ghetti del sottoproletariato, che vada a finire ai margini della società quali sono le carceri e i manicomi. A questo punto si chiude il cerchio e quando uno è caduto ben bene nella fossa, dopo essersi ribellato, subentra l’assistenza e la beneficienza che si salda al discorso della persuasione; cioè questa società che ha discriminato e ha falciato coloro che non accettavano la norma della classe dominante, si china, misericordiosa, sul carcerato, sull’afflitto, sull’emarginato e sul ricoverato in manicomio e lo assiste; lo assiste con la visita, lo assiste con la beneficienza e in questo modo mostra: “vedete come siamo buoni!”, e chi ne può dubitare? E tutte queste cose, in certi momenti, anche recentemente o qualche decennio fa, sono trasformate in ideologie.

Allora direte: “perché ci hai raccontato questa storia?” Perché io volevo domandarvi: dove sta la Chiesa in questo meccanismo? I discepoli di Cristo che fu un emarginato, un ribelle, uno che portò un messaggio profetico che non era certamente funzionale al potere delle classi dominanti di quell’epoca, fu respinto a causa del suo tipo di lettura della parola della Bibbia, che era il libro sul quale ci si confrontava in quel tempo; fu respinto dalla classe culturale degli scribi, detentori della chiave di una porta che, diceva Gesù, non faceva oltrepassare dagli altri; fu respinta la predicazione di Cristo e il suo tipo di comportamento etico e morale; fu respinta dai farisei che erano i detentori del modello morale, erano i perfetti, i ligi, gli osservanti della legge, coloro che in ogni cosa manifestavano lo scrupolo estremo.

                E lui portava una diversa interpretazione della parola di Dio, visto che diceva che non era l’uomo fatto per il sabato ma era il sabato fatto per l’uomo, e che per lui era importante non tanto la purezza materiale, la purezza legale del non toccare questo oggetto, non toccare quella persona, ma l’importante era instaurare dei rapporti umani, di solidarietà, di riconoscibilità tra uomo e uomo, tra uomo e donna. Questo è importante. E quindi frequentava e parlava anche con le prostitute, con le peccatrici, con i pubblicani, con i samaritani, con i lebbrosi, con tutte quelle persone che nel sistema sociale di quell’epoca, esistevano, potevano esistere e in fondo erano anche accettati, ma purché ciascuno rimanesse al proprio posto; perché se la prostituta sta sul suo marciapiede con il suo fuocherello accanto, tutto sommato assolve la sua funzione sociale, ma se la prostituta va nel banchetto in cui un rabbi è ospite di un fariseo e c’è tutto intorno un insieme di persone a godersi questo ospite succulento e d’onore, e la peccatrice va lì a toccarlo, baciarlo, a cercare un rapporto con lui, tutto a un tratto la sua situazione non è più accettata.

                Il pubblicano assolve una funzione del sistema economico del tempo, è un esattore delle tasse, colui che accetta di sporcarsi, di rendersi impuro toccando animali e cose impure e, soprattutto, esercitando una funzione in favore dei romani; quindi i pubblicani sono antipatici, sono emarginati, ma tutto sommato assolvono, se restano al loro posto, alla loro funzione; ma nel momento in cui Gesù va a mangiare da Zaccheo il pubblicano e fa un banchetto con lui e i suoi, ribalta questa situazione; e racconta che un pubblicano andò a pregare nella sinagoga o nel tempio e, siccome si rese conto di certe sue malversazioni, ne uscì puro mentre un fariseo che stava lì a testa alta a vantarsi di una sua perfezione, ne uscì con i suoi peccati.

                Gesù che, in modo così provocatorio, ribaltava l’assetto sociale del suo tempo, non piacque ai farisei come non piacque ai sadducei, come non piacque ai sommi sacerdoti, perché non mise al centro dei suoi discorsi e dei suoi comportamenti il punto di aggregazione per il regno dei cieli e l’adempimento delle promesse messianiche che tutti attendevano; non lo mise nella restaurazione del tempio ma lo mise nell’uomo.

                «È venuto il tempo in cui Dio non sarà più adorato nel tempio fatto dall’uomo, ma avrà adoratori in spirito e verità», «Distruggete questo tempio. io lo edificherò in tre giorni» e alludeva al suo corpo spezzato e dato, condiviso, a una vita condivisa con altri uomini. Sarà questo il nuovo punto di aggregazione degli uomini, là dove sono gli affamati, gli assetati, i bastonati dalla vita, dove sono gli oppressi e gli sfruttati, non più nel tempio. Quando l’uomo contrae il peccato, non sarà più a contrarre il peccato in mezzo agli altri uomini per poi andare a purificarsi, a lavarsi nel tempio. Come è possibile pagare la colpa fatta verso suo fratello portando l’elemosina al tempio? «Lascia il tuo dono all’altare, vai a riconciliarti con tuo fratello, smetti di opprimerlo e solo così tu potrai tornare ad onorare Dio». E vedete bene che questo atteggiamento svuotava il tempio e mandava in pensione la casta sacerdotale, una casta separata che non aveva più nulla da fare, e riconduceva tutti gli uomini a misurarsi sulla dimensione umana. Ed è per questo che la sua ribellione disarmata lo portò a fare la fine degli inermi, degli oppressi, perché se non hai alleanze le classi dominanti si vendicano e quindi Gesù andò a finire in mezzo agli altri malfattori sulla croce.

                Allora noi ci immagineremmo che questo messaggio consegnato ai suoi discepoli, nella società di cui parlavo prima che cerca il controllo sociale accaparrandosi il consenso attraverso sistemi persuasori, e attraverso una costante riflessione di coloro che rifiutano la norma attraverso la persuasione, noi ci immagineremmo ad ogni passaggio della vita, che nella comunità ecclesiale, nella scuola, nel carcere, ovunque, il colpito, l’oppresso, lo sfruttato, l’emarginato si venisse a trovare almeno in compagnia di Gesù Cristo. Si trovasse almeno accanto a questo crocifisso, morto come lui, per non aver accettato supinamente e acriticamente di obbedire alle autorità umane mentre sentiva di obbedire ulteriormente alla volontà del Padre che chiede prepotentemente giustizia e verità. Invece no. Invece il calpestato, l’oppresso si trova Gesù dall’altra parte, non perché ci stia, ma perché ci sta la sua immagine, la sua effige, il crocifisso, la statuina se la trova sempre dall’altra parte.

                Quindi quando è bambino si trova Gesù Bambino dalla parte dei genitori, e quindi passa il principio di autorità, che io non voglio negare globalmente, per carità! ma viene consolidato e sacralizzato anche in aspetti effimeri perché in certi giorni il bambino ha diritto di ribellarsi, di sporcarsi. E così a scuola di nuovo si dice “Gesù Bambino piange, l’angelo piange” se non ubbidisce, se non fa i compiti, se non ti allinei con gli altri e così via fino a che in Tribunale se lo troverà appeso sopra la testa del Giudice, per cui, innocente o colpevole che sia, in ogni caso Gesù Cristo sta con i Giudici in questo mondo e non sta dalla parte dell’imputato; è questa, che io non oso chiamare altro che aberrazione, tradimento di Gesù Cristo, contro la quale noi ci dobbiamo ribellare. Proseguendo le analisi (poi chiudo perché vorrei dare spazio a un po’ di dibattito), vorrei fare alcuni esempi concreti di come, attraverso un messaggio di fede liberante, che viene di per sé presentato con una immagine seducente, per la quale ci battiamo e che vogliamo riconquistare, riappropriandoci della carica liberante del Vangelo, venga invece nascosta questa esca dell’amo pericolosa: l’ideologia delle classi dominanti che passa.

                Un primo concetto è la cognizione di salvezza, l’altro è quello dell’obbedienza e poi vorrei un po’ parlare di come l’immagine della Madonna viene anche presentata, vista l’attuale condizione della donna.

                La salvezza: quando si dice l’importante è salvarsi l’anima, si pensa che la salvezza sia dopo la morte, che sia un premio congelato al di là della vita per cui uno sta in questa valle di lacrime cercando di sporcarsi il meno possibile, di fare il meno possibile per non peccare, perché più fai e più corri il rischio di sbagliare, quindi si cerca di ficcare la testa nelle spalle e passare il più presto possibile questo tunnel buio, questa valle di lacrime, perché l’unica cosa che vale sta dopo, nell’al di là. Ecco a me viene in mente, ritornando all’immagine sulla scuola, un bambino, uno studente che detesti la scuola, che non gli piacciano la scuola e le materie di insegnamento, né i compagni, tuttavia studia moltissimo soltanto perché sogna per tutto l’anno il giorno in cui il Direttore didattico gli appunterà la medaglia al petto e tutti gli batteranno le mani. Questa è l’immagine dell’alienazione: cioè non vivere per avere il premio.

                Ora è questa l’immagine di salvezza che passa attraverso il Vangelo? Veramente no. Più e più volte Gesù ha detto alle persone e a chi lo incontrava: “la tua fede ti ha salvato”. Ecco l’unico caso diverso è quello del così detto Buon ladrone, quando era in punto di morte, e Gesù gli ha detto “oggi sarai con me in paradiso”; ma questo è un segno ben preciso, indica che l’uomo, in qualsiasi momento della sua vita, anche quando sembra perduto agli occhi di tutti, ha sempre davanti a sé tutta la salvezza, tutta la speranza, tutta la vita. Ma di per sé ha detto altre 100, 1.000, o chissà quante altre volte a delle persone, “la tua fede ti ha salvato”, non intendendo per questo, “ecco per te ho messo da parte un premio”, ma intendendo che da questo momento per te incomincia una nuova vita, perché ti ha salvato la tua vita, perché tu hai voltato le spalle al tuo individualismo, al tuo egoismo, alla tua condizione di peccato e stai decidendo di vivere, di essere con gli altri , stai decidendo di amare, stai decidendo di condividere e perciò sei un santo. E quindi quando Gesù parla di salvezza non intende tanto la guarigione da una malattia, perché un paralitico ha riacquistato la mobilità, per cui un lebbroso è guarito, non è questo. Certo Gesù ascolta il grido dell’uomo, non dice al lebbroso, all’emarginato, alla peccatrice “io ignoro la vostra condizione”, la salvezza è là, Gesù scende in quella condizione e quindi parte dal problema della lebbra, del paralitico, dell’emarginato, non solo per fermarsi alla soluzione di quel problema perché, anche se ha risuscitato Lazzaro, poi Lazzaro è morto di nuovo, quindi non credo che Gesù sia venuto per fare resuscitare i morti e per guarire i cechi e i sordi.

                Non è venuto per raddrizzare le gambe alla natura attraverso dei segni, attraverso il fatto che deboli e morti potessero risorgere; attraverso questo si indicava qualche cosa che era poi in definitiva la vita che può risorgere. Mi sembra abbastanza indicativo l’episodio dei 10 lebbrosi. Ci sono 10 lebbrosi che si avvicinano al Signore. Bisogna anche dire che nel tempo non è che ci fosse una diagnosi ben precisa della malattia: uno aveva delle macchie e allora pensavano che avesse la lebbra; ma non risultava con chiarezza che fosse guarito, allora si presentavano ai magistrati che erano i sacerdoti. E questa dinamica Gesù la segue: questi 10 lebbrosi chiedono di essere guariti, Gesù dice “andate, presentatevi ai magistrati”. Infatti loro si accorgono strada facendo che in realtà queste macchie non ci sono più, allora succede una cosa stranissima: in nove di questi, tanto contenti della guarigione, se ne vanno per i fatti loro mentre uno di questi disobbedisce materialmente non va a presentarsi ai sacerdoti ma corre immediatamente indietro perché è tutto pervaso di esperienza nuova, di gioia, di gratitudine; e allora Gesù a questo dice “la tua fede ti ha salvato”, il che non significa che tu sei guarito dalla lebbra; io non posso pensare che Gesù agli altri 9 dica non siete venuti a ringraziare adesso vi torna la lebbra e così imparate la gratitudine, penso che gli altri 9 sono dei guariti dalla lebbra, il che è una cosa molto importante, ma relativa in fondo. Questo decimo non è solo un guarito dalla lebbra è uno nel quale Dio non è passato invano, è uno del quale la provocazione a vivere è andata al di là della provocazione di guarire da questa malattia, è quindi uno capace di fare cose nuove, di essere quella nuova creatura di cui parlerà più tardi San Paolo nelle sue lettere.

                E allora lui veramente è un saggio, gli altri sono solo dei guariti dalla lebbra, lui è un saggio; se c’è qualcuno al quale non importerebbe più della lebbra di fronte alla grandezza dell’esperienza che Dio è passato dalla propria vita, questo è il decimo lebbroso. Non sono un esegeta raffinato posso anche sbagliare, però io penso che se entrasse Dio nella mia vita, seppure nella stretta, angusta porta in cui una volta, in un momento di debolezza, lo pregassi perché mi passasse una malattia e da quel momento io mi accorgessi che Dio veramente si è chinato su di me, si è accorto di me e mi ha ascoltato, da quel momento direi: non mi importa più niente, questo tuo segno di attenzione per me è tutto. Che mi importa, del mal di testa o della malattia. È molto più importante questo segno di attenzione su di me. Questo secondo me io penso che sia la salvezza. La capacità di essere uomo nuovo.

                Zaccheo per esempio; ricordate la storiella di Zaccheo in mezzo alla folla? Sale sull’albero e cerca di vedere Gesù. E si accorge di questo uomo che era un notabile della città, il capo dei pubblicani che si espone in ridicolo arrampicandosi su un albero. E Gesù non ha esitazioni: “presto scendi, oggi mangerò a casa tua”. Instaura un rapporto di cordialità, non gli dice “ehi tu peccatore, strozzino che succhi il sangue degli altri è venuta la tua ora o ti converti o ti lascio lì per sempre” no dice: “scendi, oggi mangerò a casa tua”, come fa d’altra parte con tutti. Instaura un rapporto conviviale, poi non sappiamo se gli ha detto qualcosa; Zaccheo ha capito, non ha avuto bisogno che gli dicesse niente; noi sappiamo solo che da quel momento il popolo si divide. Fuori dalla casa di Zaccheo ci sono i benpensanti, ci sono i farisei che dicono “non può essere profeta costui perché mangia con i peccatori”, dentro invece succede il prodigio, la resurrezione. Zaccheo che dice “ecco Signore la metà dei miei beni la do ai poveri e se ho depredato qualcuno restituisco quattro volte tanto”. Quindi qui abbiamo, non il paradiso un domani, ma ci sarà la salvezza subito.

                Su questo vorrei insistere, non c’è una predicazione di rassegnazione, l’accettazione dell’ingiustizia; la misura della conversione è data dalla capacità di dire: dove ieri c’era il peccato, dove ieri c’era lo strozzinaggio, dove ieri c’era l’oppressione del fratello, oggi, con quegli stessi strumenti invece c’è la comunione col fratello, c’è ristabilire il rapporto di crescita e di comunicazione col fratello, quindi quei denari, quei beni terreni che ieri erano da accaparrare oggi servono per instaurare la comunione con gli altri uomini e questo vuol dire essere un uomo nuovo. E allora vedete che la prima immagine di salvezza è deresponsabilizzante perché conduce appunto a disistimare questa vita, questa terra, a disprezzare le cose di questo mondo, a considerare i beni della terra, la terra stessa, l’impegno politico per la giustizia, come cose spregevoli che non contano.

(Concludiamo qui l’intervento di Giovanni Franzoni perché poi la registrazione è parziale e interrotta e le poche parole trascritte non esprimono un significato compiuto).

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RELIGIONE

Globalizzazione e religioni

La religione dell’io crede solo al denaro ma l’amore e la stima non si comprano

Il modello dei nostri giorni è l’uomo che più guadagna e spende tanto più vale, altrimenti non avremmo stipendi così bassi per gli insegnanti e così alti per gli influencer.

Le religioni, soprattutto il cristianesimo e l’islam, hanno da sempre sognato di globalizzare il mondo riconducendolo alla loro obbedienza, nel frattempo però il mondo è stato globalizzato dall’economia. E il raggiungimento del sogno delle religioni da parte dell’economia ha portato inevitabilmente con sé un nuovo paradigma etico e antropologico, perché nelle menti contemporanee l’economia non è più solo una scienza che analizza la produzione della ricchezza e le altre questioni connesse, non è più per nulla solo una scienza come la fisica, ma, esattamente come la religione, è diventata anche una morale. Di più: è la morale vincente, il modello normativo, il canone. È il vero e proprio Nuovo Testamento della società moderna, il cui trionfo produce la seguente metamorfosi: dalla religione di Dio alla religione dell’Io.

Così l’essere umano globalizzato è passato da homo sapiens a homo faber et consumens: da un essere che poneva la sua qualifica essenziale nel culto e nella cultura, a un essere che la pone nella produzione e nel consumo (passando dal ritenere di vivere per qualcosa più importante di sé , al ritenere che non vi sia nulla più importante di sé ). Per questo il modello ispiratore dei nostri giorni è l’uomo che guadagna e che spende, che tanto più vale quanto più guadagna e più spende, e che, secondo una tendenza sempre più palese, non si cura per nulla della cultura, che anzi irride e disprezza. Se non fosse così, non avremmo un sistema che assegna stipendi poco gratificanti agli insegnanti e ricopre di denaro personaggi equivoci e fatui detti “influencer”, e che assegna in un giorno a un calciatore quello che un medico guadagna in un anno e talora in tutta la vita.

Il vero libro sacro dei nostri giorni, che rende antichi tutti i libri sacri precedenti (della religione, della filosofia, della politica), è il vangelo dell’economia. Tutto infatti, per poter sussistere, deve risultare conforme alla logica economica, è essa il criterio che rende canonico oppure apocrifo ogni aspetto dell’agire umano. Se un evento o un’istituzione non riceve il pollice alzato del responsabile dei conti, proprio come l’imperatore romano con i gladiatori, non sopravvive.

                È giusto che sia così? I conti devono sempre tornare, o talora possono andare? Se i conti devono sempre tornare è perché il denaro ha come fine il denaro; se i conti talora possono andare senza tornare è perché il denaro viene finalizzato a qualcosa di più importante. A cosa? Cos’è più importante del denaro? È più importante del denaro ciò che non può essere acquistato con il denaro. Ovvero il tempo, l’amore, la cultura, la dignità , la stima. Nessuno, per esempio, può comprarsi la stima. Di un essere umano voi potete comprare il tempo, il corpo, le parole, ma non la stima. La stima non è acquistabile, è una libera donazione. Oggi però si pensa che tutto possa essere acquistato con il denaro, che ogni essere umano abbia il suo prezzo e che sia solo questione di individuarlo e di pagare.

Ebbene, in questo orizzonte dove si ritiene che tutti i conti debbano tornare perché il fine del denaro è di produrre altro denaro e tutto può essere comprato con il denaro, il compito della ricerca spirituale è di ricordare che esiste qualcosa che non è in vendita. È di lottare perché gli esseri umani non si appiattiscano diventando “a una sola dimensione”, come preconizzava

    Herbert Marcuse [α1898- ω1979] nel 1964, ma mantengano la loro molteplice stratificazione. Oggi, quando l’economia è diventata una religione, il compito della religione è di ricordare agli esseri umani che “non di solo pane vive l’uomo”. È chiaro che senza pane e senza l’economia che lo produce non c’è vita umana, ma il punto è il fine, lo scopo. Occorre sempre ricordare

 Immanuel Kant e [α1724- ω1804] il suo imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità , sia nella tua sia nell’altrui persona, sempre come fine e mai solo come mezzo”. Quando, rispetto a sé stessi, si agisce come un fine?

   Scipione l’Africano [α238 a.C.- ω183 a.C.] (proprio quello dell’elmo di cui l’Italia “si cinse la testa”) soleva dire: “Mai sono più attivo di quando non faccio nulla”. C’è un’attività che non coincide con l’operatività esteriore e che tuttavia è produttiva. Anzi, conferisce più essere, visto che il condottiero romano continuava: “Mai sono meno solo di quando sono solo con me stesso”. Egli parlava di ciò che definiva “otium”, che in questo caso non è il dolce far niente ma la coltivazione della mente e del cuore. È il lavoro come giardinaggio interiore. Lavorando su di noi infatti compiamo il lavoro più prezioso: quello di vincere la solitudine interiore che ci fa stare male e ci porta a circondarci di persone e di cose, di notizie e di rumori, per la paura di rimanere soli con noi stessi. Questo è il grande lavoro umano degli esseri umani: coltivare la propria interiorità , avere momenti di raccoglimento, praticare ciò che

  Carlo Maria Martini [α1926- ω2012] chiamava “la dimensione contemplativa della vita”.

Non si tratta di agire contro o a dispetto dell’economia, si tratta di conferire a tale scienza, oggi ritenuta assoluta, un criterio superiore. Se ci vogliamo salvare. Dico salvare come esseri umani, senza continuare a distruggere gli ecosistemi del nostro pianeta e senza cadere preda delle macchine umanoidi economicamente molto più performanti e convenienti di noi.

A questo punto però è inevitabile chiedersi: a cosa serve quello che ho detto? Possiamo forse cambiare il sistema economico nel quale siamo immersi? È almeno dal 1848, data del Manifesto del partito comunista di     Marx e Engels, che la filosofia ha cercato di cambiare il sistema economico, ma dopo quasi due secoli da quel poderoso incipit (“Uno spettro s’aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”) il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo spettro del comunismo non fa più paura né affascina nessuno, mentre sono ben altri gli spettri che si aggirano per l’Europa e ci fanno tremare. Lo stesso vale per gli ammonimenti della religione, altrettanto fallimentari, si pensi all’esito delle parole di Gesù : “Beati voi poveri! Guai a voi ricchi!”, mentre il mondo in ogni momento ripete allegramente l’esatto contrario: “Guai ai poveri! Beati i ricchi!”.

Se però guardiamo le cose dall’alto con uno sguardo più ampio, il bilancio non appare così negativo: almeno da noi non ci sono più schiavi né servi della gleba, non si lavora più dodici o tredici ore al giorno come all’inizio della rivoluzione industriale, la miseria delle famiglie per la gran parte è vinta, i diritti dei lavoratori sono riconosciuti e anche abbastanza tutelati. E se talora accade il contrario, il diritto interviene e libera e punisce chi di dovere. Oggi poi si assiste al fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”, “Grandi dimissioni”: chi può si dimette da lavori che ritiene umanamente poco gratificanti e si riprende la vita, nella consapevolezza che non si vive per lavorare ma si lavora per vivere e che esiste qualcosa più importante della carriera (nel 2022 negli Usa sono stati più di 40 milioni a lasciare il lavoro; da noi più di 2 milioni, con una media di oltre 180.000 dimissioni al mese). È un fenomeno negativo o positivo? Di certo segnala la presenza di eretici rispetto al dogma del primato assoluto dell’economia.

Vorrei inoltre aggiungere che grazie al mio lavoro sono entrato in contatto con alcune grandi aziende del nostro paese e sono felice di poter dire di averne tratto un’ottima impressione, giungendo a farmi l’idea che se il nostro paese, nonostante tutto, ancora tiene è proprio grazie al sistema aziende. Ho visto attenzione al bilancio sociale, al territorio, alla qualità delle relazioni umane, spesso ho riscontrato un vivo senso di responsabilità verso i dipendenti, talora sincera reciproca gratitudine. Quando sono guidate bene e con lungimiranza, le stesse aziende sono le prime a essere consapevoli che i conti non sempre devono tornare, che qualche volta li si deve lasciar andare, perché “andando” alimentano la fiducia e l’umanità .

Vorrei concludere dicendo che siamo chiamati a rimodellare la nostra utopia: prima che a cambiare il mondo, si tratta di non farci cambiare dal mondo. Di non farci ridurre a merce. Di non guardare noi ogni cosa e ogni persona come merce. E tale cambiamento può essere praticato già qui e ora da ognuno di noi. Ognuno di noi infatti è un sistema economico, una specie di azienda, e può scegliere a cosa dare il primato: se al negotium o all’otium, agli oggetti o alla cultura, all’avere o all’essere. Il modo migliore per cambiare il mondo è migliorare quel  piccolo pezzo di mondo su cui abbiamo realmente potere: noi stessi. Diceva

 [α1869- ω1948] Mahatma Gandhi: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.             

Vi ho parlato in quanto teologo, laico ma comunque teologo, e se questa disciplina antichissima che è la teologia oggi ha ancora un valore è quello di ricordarci che non viviamo di solo pane, che non siamo solo merce, né solo “gene egoista”. L’intelligenza e l’amore di cui siamo capaci, e che non si possono comprare, costituiscono il vero scopo del nostro vivere.

 Vito Mancuso [α1962]  La Stampa 2 giugno 2023

www.vitomancuso.it/wp-content/uploads/2023/06/Globalizzazione-e-religioni.pdf

https://www.lastampa.it/economia/2023/06/02/news/vito_mancuso_la_religione_dellio_crede_solo_al_denaro_ma_lamore_e_la_stima_non_si_comprano-12836983

VIOLENZA

Dietro al femminicidio: voce del verbo amare

Impossibile non ripetere gli stessi concetti, in questi tristi, cupi e desolati giorni di commento degli ultimi femminicidi in Italia, compiuti da uomini relativamente giovani, ben inseriti nella società, che si potrebbero definire tranquillamente ‘perbene’: il poliziotto (suicidatosi dopo il femminicidio) e il feroce barman di hotel di lusso.

                Si discute, ci si divide sugli approcci, sulle letture del fenomeno strutturale della violenza maschile, sul da farsi. Lo sapevamo tutte, certo, da sempre, tanto da farci anche un hashtag. È sempre l’uomo che ti ama(va) quello che ti farà del male, fino ad ucciderti. La favoletta dello sconosciuto straniero che ti assale all’improvviso non regge davvero più, e da parecchio.

Se nel linguaggio comune si tramanda, senza riflettere sugli esiti concreti, la frase amare da morire, attribuendole persino un carattere romantico, vorrà pur dire qualcosa questa connessione perversa tra amore e morte che diamo per scontata e subliminale.

                E poi, ancora: se è vero, come è vero, che il sesso che uccide nella coppia, in proporzione assolutamente maggioritaria, è quello maschile, perché ci si rivolge solo alle donne dicendo loro: di non andare all’ultimo appuntamento, di scappare al primo segnale di aggressività, di imparare i segni per far capire che si è in pericolo, di mandare a memorie le frasi da dire quando si ordina la pizza e comunicare a chi ascolta di chiamare la polizia? Tutte cose utili, sensate, legate all’emergenza, certo.

Ma il fatto acclarato e manifesto che i perpetratori sono gli uomini, che esista il problema del comportamento e della responsabilità in primo luogo maschile resta, comunque, sullo sfondo. Si fa fatica, c’è reticenza, omertà, opacità a concentrarsi su questo, ovvero sulla incontrovertibile realtà: il problema sono gli uomini. Non tutti, certo, ma molti.

                Una decina di anni fa il formatore e attivista contro la violenza maschile Jackson T. Katz rilasciò un Ted nel quale sosteneva che la violenza maschile sulle donne è un problema maschile, e che per fermarla c’è bisogno di uomini che intervengano nei gruppi di pari, dal bar alla palestra, dalle scuole alle famiglie, dai partiti ai centri sociali passando per le parrocchie e le caserme, che abbiano il coraggio di prendere parola su questo. E non solo nelle aule universitarie o sui giornali, ma nella vita di ogni giorno, a partire dall’uso normalizzato della misoginia nel linguaggio, dalle ‘battute’ umilianti, dalle barzellette ambigue e volgari, sui social.

                Ecco le sue parole: ”Quando si tratta di uomini e di cultura maschile, l’obiettivo è quello di indurre gli uomini che non sono misogini a sfidare gli uomini che lo sono. E quando dico misogini e violenti non intendo solo gli uomini maltrattanti. Non sto dicendo che un uomo deve fermare l’amico quando sta abusando della sua ragazza al momento della violenza. Non banalizziamo, perché così non andiamo da nessuna parte. Si tratta di avere chiaro che è necessario che sempre più uomini interrompano il continuum di violenza diffusa sulle donne. Così, per esempio, se sei un ragazzo e sei in un gruppo di amici che giocano a poker, che chiacchierano, che stanno fuori insieme, senza nessuna donna presente, e uno dice qualcosa di sessista o degradante o molesto verso le donne, invece di ridere o di fingere di non aver sentito, abbiamo bisogno di uomini che dicano: ‘Ehi, non è divertente. Quello che hai detto potrebbe coinvolgere mia sorella, o un’altra donna che mi è cara. Non potresti scherzare su qualcos’altro? Non apprezzo questo tipo di discorsi’. L’analisi di Katz ci porta dritto al cuore del problema: il consenso, la minimizzazione della violenza maschile sulle donne passano attraverso il silenzio e l’omertà dei comportamenti quotidiani degli uomini, comportamenti apparentemente inoffensivi che però entrano sotto pelle e costituiscono l’ossatura della corazza patriarcale che ingabbia e stritola corpi e menti, fino a costruire negli uomini, sin da piccoli, la convinzione che le donne siano di loro proprietà, esseri minori da manipolare, sottomettere fino a ucciderle. Di questo discutiamo da decenni tra donne, nei convegni, negli incontri, nelle formazioni, in occasione di eventi dove però, se si tocca questo argomento, gli uomini sono sempre pochi, troppo pochi.

                Sui social da tempo circola un cartello nel quale la frase Insegnate alle ragazze a proteggersi è cancellata e sotto di essa è scritto Educate i ragazzi. Sì, il punto è questo: fino a che la violenza maschile sulle donne verrà letta, descritta, raccontata nello spazio pubblico, così come in privato, come un fatto che riguarda (solo) le donne non sarà possibile cambiare la realtà, i cui numeri parlano di una donna uccisa in ambito relazionale ogni tre giorni in Italia.

                Porto un esempio recente di questa situazione nella mia esperienza di formazione nelle scuole. Nel copione del laboratorio teatrale “Manutenzioni-uomini a nudo” per le scuole superiori, realizzato in gran parte usando le risposte ad un questionario al quale hanno risposto oltre 5.000 studenti, c’è la frase (scritta da un ragazzo) “mi vergogno di essere un uomo”, che avrebbe dovuto essere ripetuta da quattro di loro alla fine di una riflessione sulla violenza. Uno degli studenti più attivi e interessati allo spettacolo ha convinto il gruppo della classe coinvolta nel progetto che quella frase era da eliminare dal copione, perchè ritenuta offensiva verso il loro sesso. Alla fine di un lungo confronto con i ragazzi, nel quale ho sostenuto che pronunciare quella frase era la manifestazione di una consapevolezza e di una assunzione di responsabilità empatica verso le donne, non di una accusa verso tutti gli uomini, uno di loro ha accettato di dirla, ma gli altri si sono rifiutati.

                La fatica più grande, a scuola, quando si porta il discorso sulla violenza maschile sulle donne, è proprio l’aggettivo ‘maschile’: mentre è più facile trovare solidarietà su altre forme di violenza e ingiustizia, per esempio sulla questione migratoria, sulla violenza contro gli animali, l’ambiente, l’orientamento sessuale, sulla primaria questione delle relazioni tra donne e uomini il convincimento è che si stia esagerando, colpevolizzando l’intero sesso maschile. Le reazioni più gettonate sono: “Anche le donne sono violente”, “Perché generalizzate?” fino al surreale ma in voga: “Il femminismo criminalizza tutti gli uomini per prendere il potere”, molto caro ai movimenti Incel sparsi sul pianeta.

                È così difficile aprire un duro conflitto nello spazio pubblico sul fatto che dobbiamo cambiare alle fondamenta il modo di educare i maschi, fin da piccoli, a considerarsi, come le femmine, portatori di gentilezza, premura, sensibilità, cura e non solo muscoli? Sì, è molto difficile, ma senza questo lavoro di smantellamento dei pregiudizi, degli stereotipi, del sessismo inconscio e della misoginia che deve iniziare dai primi anni di vita dei bambini non faremo che continuare a piangere donne massacrate, persino incinta, uccise da uomini normali e perbene

Monica Lanfranco           Noi Donne                         4 giugno 2023

www.noidonne.org/articoli/dietro-al-femminicidio-voce-del-verbo-amare.php

VOLONTARIATO

5 per mille 2022, aggiornati gli elenchi degli enti ammessi ed esclusi

                Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali lo ha reso pubblico sul proprio sito a correzione di quello uscito il 6 aprile 2023 in cui erano state erroneamente riportate alcune posizioni già ricomprese nell’elenco degli enti ammessi al beneficio per il medesimo anno finanziario

Sono stati pubblicati sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali gli elenchi aggiornati degli enti ammessi ed esclusi al 5 per mille 2022 (Allegato A e Allegato B) e il relativo decreto direttoriale di approvazione numero 98 del 30 maggio 2023. Come si legge nella comunicazione ufficiale, infatti, nell’elenco degli enti esclusi dal beneficio del 5 per mille anno finanziario 2022, pubblicato il 6 aprile 2023, sono state erroneamente riportate alcune posizioni già ricomprese nell’elenco degli enti ammessi al beneficio per il medesimo anno finanziario.

                Per segnalare eventuali errori nell’elenco, o comunque per fare una segnalazione al Ministero, è possibile inviare una mail all’indirizzo quesiti5permille@lavoro.gov.it.

                               Lara Esposito                    CSVnet                 06 giugno 2023

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/4728-5-per-mille-2022-aggiornati-gli-elenchi-degli-enti-ammessi-ed-esclusi?Itemid=893

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News UCIPEM n. 966 – 11 giugno 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ADOZIONE E AFFIDO                Primo manuale di “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare

02 AICCe F                                          Giornata Nazionale Consulenza Familiare 2023

03 Centro Internaz. Studi Famiglia            Newsletter CISF – n.22 , 7 giugno 2023

05 CITTÀ DEL VATICANO                               Abusi, il dolore e la ricerca delle cause Al centro la maturità dei futuri sacerdoti

06 DALLA NAVATA                           Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini) – Anno A

08                                                         La mensa del «pane di vita»

09 DIVORZIO (SEPARAZIONE)     Piano genitoriale: il modello del CNF

09 DONNE NELLA (per la ) CHIESA            Cammini possibili, rischi e scenari per le donne nella Chiesa

12                                                          Sulle donne e sul gender. Una lettera aperta a Luigi Maria Epicoco

14 GIURISPRUDENZA                    Un minore può negare il consenso al riconoscimento?

16                                                          Cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare

18 MATERNITÀ SURROGATA       Maternità surrogata: altruismo, gratuità, solidarietà?

29 OMOFILIA                                    L’omosessualità, il corpo e il cristianesimo

30 PROFETI                                        Profeti. Dom Franzoni

35 RELIGIONE                                   Globalizzazione e religioni

39 VIOLENZA                                    Dietro al femminicidio: voce del verbo amare

40 VOLONTARIATO                         5 per mille 2022, aggiornati gli elenchi degli enti ammessi ed esclusi

ADOZIONE E AFFIDO

Primo manuale di “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare

Siamo tutti figli. Tutti generati dentro una storia intergenerazionale e sociale (…) Ma ci sono storie di vita in cui la dinamica della generatività subisce degli intoppi e delle fratture, storie in cui il percorso è tortuoso, a meandri: storie in cui il diritto di diventare ‘persona’ è seriamente minacciato”. Nella seconda di copertina del nuovo volume “Psicologia dell’adozione e dell’affido familiare” queste parole raccontano le storie che accomunano quei figli che al mondo non hanno un genitore o un familiare di nascita che possa accudirli e accompagnarli nella crescita. Sono le storie di quei bambini che vivono l’esperienza dell’adozione e dell’affido, due temi trattati volutamente insieme nel primo manuale italiano sull’argomento, a cura delle psicologhe dell’Università Cattolica Rosa Rosnati e Raffaella Iafrate, presentato il 7 giugno 2023 a Milano, nella Sala Negri da Oleggio in largo Gemelli.

Per sviluppare pienamente la propria identità il bambino, infatti, ha bisogno dei contesti familiare e sociale che, intrecciandosi, lo accolgano e se ne prendano cura, ed è per questo che entrambe le realtà dell’adozione e dell’affido sono ugualmente importanti nei casi di abbandono dei minori.

Durante l’evento a confrontarsi sulle tematiche del volume edito da Vita e Pensiero con la prefazione di Eugenia Scabini, sono Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano; le mamme adottive Roberta Osculati, vicepresidente del Consiglio comunale di Milano; e Giulia Cagnolati del Centro per le famiglie del Comune di Piacenza, Giancarlo Tamanza, docente di Psicologia clinica dell’Università Cattolica, con la moderazione del direttore del Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia, Camillo Regalia.

L’unicità del volume sta in una proposta scientifica e formativa specifica che fino ad oggi è mancata tra i professionisti del settore, non solo psicologi e assistenti sociali ma anche medici, avvocati, magistrati, educatori e le famiglie adottive e affidatarie. Un’altra novità del libro è la possibilità di un approfondimento interdisciplinare in continuo aggiornamento con materiabili accessibili online a chi si registra attraverso il QR code nella terza di copertina.

Video                   https://youtu.be/-SXfBBxWGiI

(G. P. T.)                               Agenzia Sir                         5 giugno 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/6/5/universita-cattolica-milano-il-7-giugno-presentazione-del-primo-manuale-di-psicologia-delladozione-e-dellaffido-familiare/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2

AICCe F         Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari

Giornata Nazionale Consulenza Familiare 2023

La Giornata Nazionale della Consulenza Familiare è una iniziativa dell’AICCeF per far conoscere al grande pubblico la Consulenza Familiare, le sue caratteristiche e la sua efficacia, e promuovere la figura del Consulente della Coppia e della Famiglia.

Tutti noi Soci dell’AICCeF ci siamo messi in gioco per questo scopo comune e sono state organizzate tante manifestazioni, eventi, incontri, azioni creative, che sono state vissute con gioia, determinazione e senso di appartenenza ed ogni altra iniziativa che sia utile a farci conoscere al grande pubblico

                Quest’anno siamo alla 3° edizione e come sempre i Consulenti Familiari si sono attivati per organizzare eventi convegni, open day, manifestazioni e ‘penetrazioni’ nel tessuto sociale per promuovere noi stessi e la Consulenza familiare.

                Mai prima d’ora era accaduto che la Giornata Nazionale della Consulenza familiare venisse preceduta da una informazione editoriale tanto precisa e tanto diffusa. Molti quotidiani hanno dato la notizia della Giornata nazionale in anticipo.

                Ha iniziato “La Repubblica”, nella sua edizione del centro Italia del 24 maggio, che ha dedicato un’intera pagina all’evento AICCeF titolando con una frase importante, significativa e per noi emozionante: Il ruolo essenziale dei Consulenti familiari. L’articolo continua illustrando le attività del Consulente, a chi si rivolge e con quali metodologie, spiega come si diventa Consulenti Familiari e a quali scuole di formazione rivolgersi.

                L’vento principale della Giornata Nazionale  si è tenuto a Napoli presso il Salone dell’Arcivescovado, organizzato dalla Presidente Stefania Sinigaglia, col titolo: Il Consulente familiare, un professionista socio-educativo al servizio del singolo, della coppia e della famiglia.

                A fianco della Presidente, che ha condotto la manifestazione, sono intervenuti il sindaco di Napoli Francesco Beneduce e il rettore della Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, Francesco Asti.

                Nella sua introduzione la Presidente Sinigaglia ha detto, di fronte ad una sala gremita: “Una prevenzione integrata si riferisce alla interdisciplinarietà dei saperi, alla possibilità di partecipare, in qualità di Consulenti Familiari, alla costruzione di reti sociali, ad un lavoro congiunto con le agenzie del territorio (Scuola, Università, Servizi Sociali, Municipalità, ecc..). Ecco perché importate inquadrare il Consulente Familiare all’interno dei processi di partecipazione sociale, ossia nella cornice di processi di restituzione di parola, di azione e di attività.”

                Immagini, fotografie e resoconto delle iniziative avvenute in altre città: Belluno, Milano, Roma, Siena

Vedi anche https://youtu.be/Y7YZZO6JVGs?t=5

www.aiccef.it/it/news/la-giornata-nazionale-della-consulenza-familiare.html#cookieOk

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 22, 7 giugno 2023

  • After work”: un film potente che si interroga sul lavoro. Arriva nelle sale il 15 giugno il nuovo docu-film di Erik Gandini sul tema del lavoro. Con interviste realizzate in nazioni molto diverse, Italia, America, Corea e Kuwait, il film esplora la relazione etica che gli uomini hanno con il lavoro, come esso stia cambiando (nelle nuove generazioni e nel futuro, visto che nel breve volgere di pochi anni molte professioni saranno sostituite dall’Intelligenza Artificiale). Ma come cambieranno la società e le organizzazioni sociali dei paesi, senza il lavoro? Ecco il trailer su YouTube – 1 min 38 sec 

                www.youtube.com/watch?v=QgaUE9XYd0E

ª Family Global Compact. Il documento presentato ufficialmente il 30 maggio con un messaggio del Papa e con una conferenza del Dicastero Laici, Famiglia e Vita e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è frutto di un lavoro iniziato nel 2021 a cui ha collaborato attivamente il Cisf. È stato realizzato un “complesso lavoro di mappatura e di ascolto di tutte le conoscenze presenti nei centri di ricerca sulla famiglia dei vari Paesi“, spiega Francesco Belletti, direttore del Cisf, in un lungo articolo su “Il Sussidiario”. “Il testo finale, esito di un’attenta e impegnativa rielaborazione dei dati raccolti, ha sintetizzato una serie di precise indicazioni operative, strutturate su tre aree tematiche: 1) la qualità delle relazioni familiari; 2) la promozione della famiglia come soggetto sociale; 3) le sfide sociali e politiche oggi più urgenti” [qui il link per leggere l’intero approfondimento]

www.ilsussidiario.net/news/family-global-compact-la-rete-di-papa-francesco-per-difendere-la-famiglia/2547392

ª Famiglia e costo dei figli. “Per troppi anni la società e le politiche pubbliche hanno confermato che i figli sono una questione privata, rifiutandosi di sostenere i giovani e le famiglie davanti ai costi, all’impegno, alle scelte e ai sacrifici che mettere al mondo un figlio inevitabilmente genera. Salvo poi, oggi, sollevare incessanti allarmi sulla sostenibilità del sistema previdenziale (chi pagherà le nostre pensioni?), che mi pare l’ennesima beffa ai danni delle giovani generazioni”: Francesco Belletti, direttore Cisf, intervistato da Mondo Padano ha fatto una lunga analisi sul problema della natalità e del sostegno alle famiglie con figli.

                www.mondopadano.it/stories/attualita/26686_se_il_figlio__solo_un_costo

ª Giappone, un piano da 25 miliardi di dollari per rilanciare la natalità. Il primo ministro giapponese Kishida Fumio ha incaricato i ministri competenti di stanziare un budget annuale da 3 trilioni di yen, o circa 25 miliardi di dollari, per affrontare in modo intensivo il calo del tasso di natalità del paese nei prossimi tre anni. Il Giappone, con una popolazione di 125 milioni di abitanti, l’anno scorso è sceso al di sotto delle 800mila nascite, toccando il livello più basso della natalità mai registrato in un secolo. Come scrive NHK-Japan, Kishida, nel garantire il budget, ha espresso il suo impegno a ridurre l’onere finanziario dell’istruzione superiore, prevenire la povertà e gli abusi sui minori e ampliare il sostegno ai bambini con disabilità.

ª Le famiglie americane? Ecco come sono composte. Il 25 maggio è uscito il nuovo rapporto demografico (riferito al 2020) del Census Bureau americano. È interessante, nell’incrocio di dati relativi alle etnie, età della popolazione, tassi di fecondità e molto altro, guardare alle famiglie, che ammontano in totale a 126,8 milioni. Oltre un quarto (27,6%) di esse consiste in una persona che vive da sola; il 7,2% dei nuclei è multigenerazionale; più di 6 milioni di minorenni vivono a casa dei nonni; il 53,2% delle famiglie sono costituite da coppie (per il 71% sposate); le famiglie costituite da coppie dello stesso sesso sono l’1,7%.

www.census.gov/newsroom/press-releases/2023/2020-census-demographic-profile-and-dhc.html

ª Le equilibriste, le madri in Italia nel 2023. A maggio è stato pubblicato il Rapporto annuale di Save the Children sulla maternità in Italia che approfondisce la condizione della maternità in Italia: divario di genere nel lavoro e nella cura familiare, il vissuto difficile delle mamme tra parto e conciliazione dei carichi di lavoro di cura. Tutto questo, nell’anno in cui le nascite sono scese sotto quota 400mila, impone, si legge nel report, di intervenire in modo integrato su più livelli: dalle difficoltà abitative dei giovani alla flessibilità lavorativa, dalla presenza di servizi territoriali per la prima infanzia e cure pediatriche fino al sostegno economico alle famiglie.

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=9%3dLYDePY%26u%3dY%269%3dWDY%260%3dWAYUY%264%3dDEOyO_Cvbv_Nf_1wnu_Al_Cvbv_Mk2Y.D65AECn93Du0C0w.EE_MZyk_WOLF7uEx_MZyk_WOB4GnO_Cvbv_Mk4L7Jj0D_MZyk_WOLF7kH48jV4JwE_Cvbv_MkuA-zL4E7DkN4N3A-76-v7E01J4Oj-EE6uEv-InH-MeAY.A9o%260%3d8P2RxW.wAE%26D2%3dbNWI7v6j%26PD%3dWIXNeEfSVCWMVD%26D%3dybAATYj8wZBbNeAXy8l8NVlax7FBLAm8yAlWSdmBv6jdOcHXPXH0N8IATYoB1dGe

ª Dalle case editrici

  • A. Valle, “Le donne della Repubblica“, San Paolo, Cinisello B. (MI), 2022, pp. 224
  • S .Vicari, S. Di Vara (a cura di), “Bambini, adolescenti e Covid 19. L’impatto della pandemia dal punto di vista emotivo, psicologico e scolastico“, Erickson , Trento, 2021, pp. 103
  • Joanna Bourke, Vergogna. Considerazioni globali sulla violenza sessuale, Carocci, Roma 2023, pp. 320

Joanna Bourke, docente di Storia al BirkBeck College di Londra, compie la prima vera analisi globale sulla violenza sessuale, attraverso le vicende storiche ma anche gli scenari dei diversi paesi e culture. “Vergogna” è un libro importante, un libro che identifica il flagello dello stupro e cerca azioni possibili per eliminarlo dalle nostre società. (…) (B. Ve.)

https://unicalmondo.musvc2.net/e/tr?q=3%3dBV0YFV%26q%3dS%26y%3dT0S%26z%3dT7SKV%26z%3d85Lu_HbuU_SL_JVsa_TK_HbuU_RQO2M.q3r9rDn1nJnI5AfDl.Ay_HbuU_RQEj4t3_wqdr_7ftEl_HbuU_RQFjM4DjJ57w_HbuU_RQT83tKkDpOxRlDq5r3yEwAgHt.Hi6%26o%3dEzI757.DpL%26nI%3dGU7Z%265K%3d7ZCUEVKZ6TBT6U%26s%3d8g5CWg2pZ8Xq692G3h1l3f5Fb9VKUhWJ4f6lWjXBZBQK6CVE4kWKYBRpbiUo3hUlW84l
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  • Enti (Eu) – 14 giugno 2023 (17.00 – 20.00). “Award Ceremony of the European Art Contest – Who is Saint Joseph for me?”, organizzata da FAFCE.

www.fafce.org/invitation-i-invitation-to-the-award-ceremony-of-fafce-european-art-contest

  • Convegno (Roma-Web) – 15 giugno 2023 (15-18). “Le scuole di presentano: Scuola e Università per la formazione dei futuri insegnanti”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Lumsa.

www.lumsa.it/le-scuole-si-presentano-scuola-e-universit%C3%A0-la-formazione-dei-futuri-insegnanti#:~:text=L%E2%80%99%20Universit%C3%A0%20LUMSA%20e%20il%20Dipartimento%20di%20Scienze,dei%20futuri%20insegnanti%20di%20scuola%20dell%E2%80%99infanzia%20e%20primaria.

  • Evento (Roma-Web) – 7 luglio 2023 (inizio ore 11). “Rapporto Istat 2023: La situazione del paese”, organizzato dall’Istituto Nazionale di Statistica                                                           www.istat.it/it/archivio/285017
https://a4e9e4.emailsp.com/f/rnl.aspx/?fgg=wsswt/e-ge=s/fh0=out49a1:a=.-

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Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

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CITTÀ DEL VATICANO

Abusi, il dolore e la ricerca delle cause Al centro la maturità dei futuri sacerdoti

      La prefazione del cardinale Parolin al libro “Il dolore della Chiesa di fronte agli abusi” (ed. Pazzini).

  Il vescovo Daucourt (α1941), lo psicologo padre Cencini, il teologo Torres Queiruga riflettono sulla Chiesa di fronte a questa terribile piaga, chiedendosi anche cosa fare degli abusatori. Nella prevenzione ha molta importanza la formazione nei seminari e negli istituti religiosi. È sempre più chiaro come la tragica realtà di queste violenze sia collegata a gravi deficit di personalità sul pieno emotivo e della capacità relazionale.

                Di fronte al dolore procurato da comportamenti cha appaiono folli, drammatici, oltre qualunque possibile spiegazione e, perfino, qualsiasi capacità di compassione, l’essere umano ha bisogno di trovare “una” causa. Più essa è chiara e circoscritta, più sembra lenire la rabbia e lo sconcerto che quell’evento ha prodotto. Tuttavia le vicende umane si sottraggono alla spiegazione univoca e lineare: tanto è complesso l’essere umano, tra bene e male, tra risorse e limiti, altrettanto sono inevitabilmente complesse le motivazioni che muovono il suo cuore e talvolta i suoi gesti. L’abuso sui minori è tra quelle situazioni insostenibili da accettare, ancor più quando a commettere il crimine è una persona che ha fatto del servizio di Dio e del suo popolo una missione di vita. È troppo! Urge porvi rimedio. Su questo intervengono i temi che in questi anni la Chiesa ha posto con forza: dalla fine dell’omertà, alla trasparenza, alla formazione, alla direzione spirituale, all’accoglienza e all’ascolto delle vittime.

Poi rimane aperto l’interrogativo ultimo di come dare un senso alla sofferenza degli innocenti. Domanda che non ha risposta al di fuori della fede. Solo se Dio è nelle vittime possiamo intravedere un senso, altrimenti siamo nell’angoscia. Nello specifico, in questi anni si è cominciato a porre la questione di quale sia la causa: «è colpa del celibato!»; «se la Chiesa fosse più attenta a non accogliere omosessuali»; «se vi fosse meno clericalismo!». E infine ci si è chiesti che fine deve fare la persona del colpevole (…).

La pratica della Chiesa latina, che chiede ai suoi ministri l’impegno del celibato e, di conseguenza la continenza sessuale, risale a due Concili significativi: il Concilio di Elvira nel IV secolo, e il Concilio Lateranense IV nel 1215, e da allora tale norma è rimasta una costante per i sacerdoti della Chiesa cattolica latina. Il problema degli abusi sui minori, invece, ha avuto un andamento discontinuo, in termini numerici di crescita e decrescita nel corso degli anni. È evidente, quindi, che il collegamento causa-effetto tra l’una e l’altro sia indebito, e ha poco senso mettere in discussione il celibato in sé, sulla base delle sue derive.

Vanno presi in considerazione piuttosto – per l’incidenza di rilievo sul fenomeno abuso – i programmi formativi di seminari e istituti religiosi che solo negli ultimi decenni hanno posto una seria attenzione alla maturità umana e psicoaffettiva dei candidati e alla qualità delle relazioni fraterne, prima decisamente in ombra rispetto alla formazione accademica e spirituale. Diventa più chiaro, allora, come la piaga dell’abuso, dentro e fuori la Chiesa, sia collegata piuttosto a personalità disarmoniche, gravemente deficitarie sul piano emotivo e di capacità relazionale. Non solo. Nonostante tale acquisizione, in una certa gamma di test psicodiagnostici i preti abusanti, quanto a caratteristiche individuali esterne o più superficiali, non differiscono in modo significativo da quelli non abusanti, né manifestano più patologie rispetto al gruppo di controllo, dato che suona sconcertante rispetto al nostro bisogno di trovare delle evidenze chiare e univoche. In altre parole: non sono immediatamente riconoscibili, a conferma che le generalizzazioni grossolane sono del tutto inadeguate a “spiegare” il dramma dell’abuso sui minori (…).

La maturità umana: è proprio questo l’aspetto centrale, seppur non esclusivo, da prendere oggi in seria considerazione nella valutazione di chi è in cammino vocazionale, nei seminari e nelle comunità religiose, e non solo nella fase iniziale del percorso, ma per tutta la vita ministeriale e apostolica. Lo sguardo sulla persona deve essere globale, capace di valutare il suo funzionamento attuale, e come siano state vissute e integrate (o meno) eventuali situazioni drammatiche che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza: violenze fisiche e verbali, abbandoni, ambienti conflittuali.

Ogni parcellizzazione della persona a un solo dato della sua storia o della sua personalità rappresenta una pesante e ingiusta condanna a priori sulla maturità e sulla capacità di amare in modo autentico, fedele e libero, secondo la propria specifica vocazione. In questa logica di rispetto della complessità dell’essere umano, in cui ogni dimensione di sé va letta nell’insieme di un tutto più ampio, anche l’orientamento omosessuale non può essere considerato né causa, né aspetto tipico dell’abusante, ancor più quando è sganciato dall’assetto generale della persona. Un’associazione grave e scientificamente insostenibile quella che collega il sexual offender alla sua omosessualità, a priori, e senza una valutazione soggettiva.

La Chiesa, oggi, finalmente, intende promuovere questo clima di attenzione alla persona e alla formazione umana come prevenzione degli abusi da parte di ministri ordinati, perché «ora non possiamo più dire non lo so», riconosce mons. Daucourt. È unanimemente condiviso, infatti, che nel nostro tempo, quanto mai complesso e articolato, non si possono improvvisare i ruoli di superiore o formatore. Certo la loro preparazione non costituisce garanzia assoluta di un andamento sereno del futuro presbitero, ma è ineludibile l’esigenza che gli educatori abbiano gli strumenti necessari per assumere un ruolo tanto delicato e di grande responsabilità, personale ed ecclesiale. Non basta, però, neppure questo. È necessario ripensare con coraggio e chiarezza anche l’accompagnamento post-formazione: la solitudine e un eccesso di lavoro troppo spesso minano la serenità e l’equilibrio psicologico ed emotivo dei presbiteri, rendendo urgente una riflessione sul dopo-seminario, sui cambiamenti antropologici e sull’ambiente in cui il ministro si inserisce (…).

Il tema della responsabilità della Chiesa, pertanto, diventa centrale, e monsignor Daucourt rappresenta una delle poche voci – annota padre Cencini – che cerca di offrire risposte concrete (come “La piccola Betania”) per non abbandonare a loro stessi quanti commettono il crimine, «dei quali essa resta madre». Da questa attenzione del vescovo verso l’abusatore e da una lettura sistemica che riconosce la complessità del fenomeno, nasce la proposta di «quasi un decalogo» – come lo definisce il formatore e psicologo – di atteggiamenti ottimali che dovrebbero mettere in atto tanto la Chiesa quanto le singole comunità per prevenire e/o affrontare il male. Si parte dal riconoscimento e denuncia dell’abuso, all’identificazione delle radici e delle conseguenze del dramma, e si giunge fino all’attenzione alla vittima e alla vigilanza sull’abusatore, attraverso la formazione iniziale e permanente di seminaristi e presbiteri (…).

L’apprezzamento per il contributo e l’opera di monsignor Daucourt, quindi, non è solo per il coraggio e la chiarezza di parlare apertamente della assai dolorosa e sconcertante vicenda dell’abuso da parte dei presbiteri della Chiesa cattolica, ma anche per la capacità di manifestare «il cuore di Dio e il coraggio d’un Pastore che non cessa di cercare e curare le sue pecore smarrite, forse quelle più smarrite» (…).

Chi ha sbagliato, chi ha perso la strada, chi ha compiuto del male non può essere abbandonato a sé stesso; è la possibilità che una storia ferita possa trovare accoglienza oltre la disperazione, e chi ha sbagliato possa «avanzare su un cammino di pace e di guarigione» a dare speranza (…).

Pietro Parolin, (α1955) Segretario di Stato di Sua Santità             “Avvenire” 7 giugno 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202306/230607parolin.pdf

DALLA NAVATA

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini)

Deuteronòmio                 08, 03. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.

Salmo responsoriale 147, 14. Egli mette pace nei tuoi confini e ti sazia con fiore di frumento. Manda sulla

                                               terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce.

Paolo a 1Corinzi              10, 17.Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

Sequenza

Sion, loda il Salvatore, la tua guida, il tuo pastore con inni e cantici.

Impegna tutto il tuo fervore: egli supera ogni lode, non vi è canto che sia degno.

Pane vivo, che dà vita: questo è tema del tuo canto, oggetto della lode.

                Veramente fu donato agli apostoli riuniti in fraterna e sacra cena.

                Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi oggi dallo spirito.

Questa è la festa solenne nella quale celebriamo la prima sacra cena.

È il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge; e l’antico è giunto a termine.

                Cede al nuovo il rito antico, la realtà disperde l’ombra: luce, non più tenebra.

Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena: noi lo rinnoviamo.

Obbedienti al suo comando, consacriamo il pane e il vino, ostia di salvezza.

È certezza a noi cristiani: si trasforma il pane in carne, si fa sangue il vino.

Tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura.

                È un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi.

                Mangi carne, bevi sangue; ma rimane Cristo intero in ciascuna specie.

                Chi ne mangia non lo spezza, né separa, né divide: intatto lo riceve.

                Siano uno, siano mille, ugualmente lo ricevono: mai è consumato.

                Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca.

                Vita ai buoni, morte agli empi: nella stessa comunione ben diverso è l’esito!

                Quando spezzi il sacramento non temere, ma ricorda: Cristo è tanto in ogni parte, quanto nell’intero.

                È diviso solo il segno non si tocca la sostanza; nulla è diminuito della sua persona.]

Ecco il pane degli angeli, pane dei pellegrini, vero pane dei figli: non dev’essere gettato.

                Con i simboli è annunziato, in Isacco dato a morte, nell’agnello della Pasqua, nella manna data ai padri.

Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi.

                Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi

Giovanni             06, 51. In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La mensa del «pane di vita»

L’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore»: sono queste le parole con cui Mosè cerca di far capire al popolo il segreto della loro riuscita, la possibilità di essere ora finalmente giunti davanti al Giordano, alla Terra promessa, di essere riusciti a superare il deserto e tutti i pericoli mortali che esso racchiude.

                L’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore, l’essere umano vive della parola di Dio: è questo l’insegnamento finale con cui Mosè si congeda dal suo popolo. Ora il termine «parola» in ebraico ha una molteplicità di sensi che va dal semplice significato letterale a quello di «fatto», «evento», «realtà» e persino «cosa». E la «Parola» di Dio è tutte queste cose insieme, dato che è per sua natura performativa, produce ciò che dice, è – per usare un concetto aristotelico – «potenza e atto» insieme. Tutta la rivelazione biblica è narrazione di questa «Parola» e, nello stesso tempo, è essa stessa «Parola», dato che costantemente comunica vita, diventa evento, realtà in colui che l’ascolta.

                Secondo il Prologo di Giovanni, l’ultima edizione di questa «Parola» è la carne del Figlio, la sua umanità: «E la Parola divenne carne» (Gv 1,14). Gesù è la Parola incarnata di Dio, è l’evento, il fatto, la realtà piena, «la carne» capace di nutrire, di comunicare vita, di mantenere in vita. E dato che questa «carne» proviene da Dio, non solo non conosce morte, ma produce vita senza fine, vita eterna.

                Se teniamo in conto tutto questo, allora il discorso evangelico di oggi acquista un più ampio, e forse più corretto, senso e significato: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (…). In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Sicuramente a queste parole seguirà poi il gesto dell’ultima cena, lo spezzare il pane e il condividere il calice di vino, segno significante e significato della consegna che Gesù farà di sé stesso per divenire «cibo di vita eterna» per tutti; ma molto spesso questa festa del Corpus Domini viene ridotta solo al simbolo sacramentale, al «pane eucaristico», dimenticando tutto ciò che lo precede e che, di fatto, lo realizza, ovvero «il pane-Parola».

                Bene lo aveva capito san Girolamo quando scriveva: «Il nostro unico bene in questo tempo terreno è che noi mangiamo carne e beviamo il suo sangue non solo nel sacramento, ma anche quando leggiamo le Scritture. Infatti la conoscenza delle Scritture è il vero cibo e la vera bevanda, provenienti dalla parola di Dio» (Girolamo, Eccl. III, 12.13, 193-198).

                Nella tradizione cristiana, infatti, sono due le «mense» a cui i fedeli sono invitati a prendere parte: la mensa della Parola e la mensa del Pane. E così viene anche ribadito dai padri conciliari: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, n. 21).

                È usanza in questa festa organizzare processioni, portare in giro per le strade, racchiusa in un ostensorio, l’ostia consacrata; un’usanza che certamente non risale alle origini delle prime comunità cristiane, ma che ha assunto nei secoli un’importante forma devozionale, che a volte però può trasformarsi, nel sentimento popolare, in un segno più apotropaico che prettamente evangelico. E perché non portare in processione anche l’«altro Pane», ovvero la Parola? E ancora: se il «Pane e la Parola» sono il cibo che Dio offre a tutti i credenti, non è forse la «mensa» il luogo più appropriato per ritrovarsi, far festa e ricevere tale dono?

                Ester Abbattista, biblista

DIVORZIO e SEPARAZIONI

Piano genitoriale: il modello del CNF

Pubblicato sul sito del Consiglio Nazionale Forense il modello di riferimento per predisporre il nuovo strumento, obbligatorio nelle separazioni e divorzi dopo la Riforma Cartabia

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-quarto/titolo-ii/

Prima di chiudere la propria relazione, la coppia deve aver trovato una convergenza essenziale sul progetto educativo per i propri figli. Questa è una delle finalità della Riforma Cartabia, per rimediare all’accesa conflittualità delle separazioni familiari che si riversa inevitabilmente a danno dei figli. Lo strumento utilizzato per favorire questa convergenza, quando la coppia non procede consensualmente alla separazione, è il piano genitoriale previsto dall’art. 473 bis.12 comma 4 c.p.c.

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-secondo/titolo-iv-bis/capo-ii/sezione-i/art473bis12.html

                Il piano genitoriale costituisce un documento obbligatorio che deve essere sempre allegato al ricorso introduttivo e nella comparsa del convenuto a pena di decadenza (art. 473 bis.16 c.p.c.).

www.brocardi.it/codice-di-procedura-civile/libro-secondo/titolo-iv-bis/capo-ii/sezione-i/art473bis16.html

Il contenuto obbligatorio ed indispensabile del piano è indicato dalla norma, e deve offrire al Giudice una completa descrizione della vita dei minori prima dello scioglimento della convivenza dei genitori con particolare riguardo alle attività scolastiche, extrascolastiche, alle frequentazioni abituali, alle vacanze normalmente godute e le scelte del percorso educativo che i genitori intendono offrire al minore.

All’indomani dell’entrata in vigore della norma, alcuni Tribunali hanno reso disponibili delle linee guida per la redazione del piano, in modo da aiutare le parti a costruirlo con completezza, realizzando un resoconto accurato sulle informazioni necessarie al Giudice per elaborare la proposta.

                Adesso è il CNF a fornire un vero e proprio modello per la stesura del piano.

www.ordineavvocatims.it/wp-content/uploads/2023/05/Piano-Genitoriale-CNF-21.5.23.pdf

Il piano genitoriale del CNF si compone di una parte descrittiva della situazione precedente la cessazione della convivenza, includendo informazioni anche sulle autovetture in uso alla famiglia, sugli eventuali motocicli in uso ai figli, sui nonni e i parenti che collaborano alla gestione dei minori con relativi incombenti assegnati, le eventuali baby sitter che si occupano del minore, con precisazione dell’orario di lavoro e del costo settimanale. Sempre nella prima parte descrittiva, l modello specifica se il figlio segue lezioni private, per quali materie e con quale frequenza, che sport pratica, quali impegni sportivi lo occupano nel fine settimana. Per i figli preadolescenti e adolescenti un riquadro permette di precisare anche se al minore sono concesse o meno uscite serali e in quali giorni e momenti e quali sono gli orari di rientro a casa. Sempre la prima parte del modello fornisce dettagliate informazioni sulle condizioni di salute del minore, su eventuali disturbi dell’apprendimento, patologie particolari, allergie, inclusi i farmaci non da banco, e i medici e gli specialisti alle cui cure il minore è stato affidato negli ultimi tre anni.

La seconda parte del modello è invece dedicata al vero e proprio piano per la gestione dei minori dopo la cessazione della convivenza tra i genitori. In questa sezione è indicata la routine settimanale, l’alternanza con i genitori, chi dovrà occuparsi di accompagnare e riprendere i figli da scuola, e agli impegni sportivi ed extrascolastici. Dovrà essere precisato anche, in caso di impedimento del genitore, quali sono le figure delegate ad accompagnare i figli ai vari impegni e come verranno ripartite le vacanze e le festività.

www.studiocataldi.it/allegati/news/allegato_45890_1.pdf

Avv. Sara Occhipinti                       Altalex                 01 giugno 2023

www.altalex.com/documents/news/2023/06/01/piano-genitoriale-modello-cnf?utm_source=Eloqua&utm_content=WKIT_NSL_Altalex-

DONNE NELLA (per la ) CHIESA

Cammini possibili, rischi e scenari per le donne nella Chiesa

L’impianto organizzativo della Chiesa Cattolica rimane uno dei pochissimi ambiti – almeno nel mondo occidentale – ancora caratterizzato da una radicale discriminazione di genere. Le donne cattoliche fanno un’esperienza unica di straniamento, dal momento che vivono in un mondo nel quale possono essere medici, avvocati, muratori, presidenti del consiglio, ma non preti perché appartengono a una comunità di fede che le considera strutturalmente inadatte a svolgere ruoli che le mettano direttamente a contatto con il sacro.

La Chiesa, con Papa Francesco, chiede di accettare questo dato di fatto come una “verità teologicamente fondata” senza fare altre domande, si veda il colloquio con una giovane ragazza che gli chiedeva perché una donna non potrebbe diventare Papa all’interno del documentario di DisneyFaccia a faccia con Papa Francesco”.

www.vanityfair.it/article/faccia-a-faccia-papa-francesco-intervista-iovani#La%20Questione%20Irrisolta%20Del%20Sesso

Ciononostante non si può pretendere che le domande finiscano solo perché sono scomode e alle donne, che ormai da 60 anni studiano teologia, non bastano ragioni poco argomentate, dato che sono fortunatamente finiti i tempi del latinorum di don Abbondio. Eppure alle donne credenti si chiede di fatto di abdicare alla propria consapevolezza riguardo alla comune creaturalità, alla comune dignità battesimale, alla conquista storica dei propri diritti e andare avanti.

Vorrei qui provare dunque ad analizzare sinteticamente quali possibili strade le donne possono intraprendere davanti a questo muro, che non è stato minimamente scalfito dalle concessioni dell’accesso ai ministeri istituiti o del voto a un ristretto numero di donne selezionate al Sinodo.

  1. La prima strada che si apre alle donne, spianata dal processo di secolarizzazione nel quale anch’esse sono immerse, è quella di lasciare la Chiesa. Sappiamo che ormai, tra le donne che si professano cattoliche le “mai praticanti” sono più delle “praticanti regolari”. Scrive Linda Laura Sabbadini che: “in 20 anni si è dimezzata la percentuale di donne che si recano in un luogo di culto ogni settimana, dal 44% al 22%” (La Repubblica, 3 aprile 2023),                 www.repubblica.it/commenti/2023/04/03/news/religione_donne_italia_istat-394701942 ma è già dal 2008 che le percentuali di abbandono della pratica dopo la Cresima sono pressoché uguali per maschi e femmine. Insomma le ragazze si sono allontanate già da molto tempo. Le donne si allontanano senza fare rumore, senza proclami, anche perché non è richiesto un atto pubblico come ad esempio in Germania, semplicemente smettono di frequentare come gli uomini avevano già fatto prima di loro e lo fanno normalmente portando i figli con sé. Questo gruppo di donne, in costante crescita, è contemporaneamente oggetto di preoccupazione da parte della Chiesa istituzionale, che vede i numeri, ma di disattenzione nella pratica pastorale: le donne che frequentavano smettono di farlo e nessuno, nelle comunità parrocchiali, pare accorgersene o comunque ritiene di dover o poter chiederne la ragione.
  2. La seconda strada è ovviamente quella di restare, ma come? Si può restare perché in sintonia con l’impianto ecclesiale attuale, del quale si diventa promotrici e sostenitrici: è il caso dei gruppi antifemministi più o meno strutturati, che tanta fortuna hanno grazie ad alcune personalità di donne molto note e favorite dalla gerarchia al punto da concedere loro spazi simbolicamente importanti come San Giovanni in Laterano o addirittura San Pietro. Queste scelte si inscrivono nel lungo e fattivo impegno antifemminista della Chiesa, fin dai tempi della Principessa Cristina Giustiniani Bandini e Pio X. Si può restare perché disinteressate alle dinamiche più ampie della chiesa, ma fortemente impegnate nella vita concreta delle comunità. Questo è probabilmente il gruppo più numeroso tra le praticanti regolari: sono donne a cui non importa granché della diseguaglianza di genere, del diritto di voto o di altro, importa che ci sia l’oratorio estivo per i ragazzi, che si apra il centro d’ascolto tutte le settimane e che il prete celebri tutte le domeniche. Non necessariamente sono donne poco consapevoli, semplicemente accettano di sospendere la propria rivendicazione di uguaglianza per il tempo che trascorrono in Chiesa, perché la considerano una realtà “altra” rispetto a qualsiasi altra componente della società.
  3. C’è poi chi resta con l’intenzione di cambiare le cose. Questo fanno le donne che appartengono ad associazioni e gruppi informali che in tutto il mondo chiedono cambiamenti strutturali. Si legge, ad esempio, nel documento sinodale del Catholic women’s council, una rete internazionale di secondo livello: “Per percorrere il cammino sinodale, la Chiesa deve liberarsi del suo pensiero feudale, dei dettami patriarcali e degli atteggiamenti paternalistici” e ancora: “Le donne hanno articolato un’ampia comprensione del sacramento come esperienza che apre all’incontro con la sacra Presenza di Dio. Tuttavia, la ristretta focalizzazione dell’istituzione sui sette sacramenti definiti dal Concilio di Trento impoverisce la vita sacramentale della Chiesa. In alcuni contesti, i sacerdoti esercitano il loro potere “tenendo sotto controllo” la ricezione dei sacramenti, piuttosto che invitare la comunità a condividere la loro celebrazione”. Per queste donne “Rivendicare la nostra fede cattolica come donne – nella nostra interezza – è spesso un atto di resistenza” Questo è numericamente il gruppo di minoranza, tra quante decidono di restare all’interno della Chiesa cattolica, perché presuppone un percorso di liberazione interiore dalla visione ufficiale alla quale siamo state socializzate fin da piccolissime e perché chiede un coinvolgimento attivo faticoso e – spesso – sofferto.
  4. C’è poi una strada ulteriore, che serpeggia tra il “dentro” ed il “fuori” e si tratta della scelta di rifugiarsi nella spiritualità, una spiritualità che – dicono i sociologi – oggi “si denuda della religione” perché si rivolge all’esperienza interiore del singolo o del piccolo gruppo. Può essere interna alla Chiesa quando non si pone apertamente in contrasto con gli insegnamenti dottrinali, ma in qualche modo li bypassa, privandoli della loro centralità. Quando non è un cammino solitario, ma di gruppo, accade che anche alcuni preti ne siano alla testa, di solito preti noti grazie ai loro libri o alla presenza sui social. I gruppi si ritrovano fuori dai circuiti parrocchiali e aggregano persone unite da una comune sensibilità spirituale. Ovviamente l’opzione spiritualista può anche porsi al di fuori della Chiesa, salvando alcuni tratti del cristianesimo e lasciandone altri; ma in entrambi i casi questa tendenza manifesta un sostanziale disinteresse riguardo alla forma storica e sociale della Chiesa Cattolica, che non si vuole cambiare o riformare, ma che resta uno scenario di sfondo, non particolarmente significativo se non come serbatoio di segni, simboli e validazione storica. Sono spazi di libertà e creatività e le donne spesso qui non sono solo protagoniste, ma ministre.

La domanda allora è: dove collocarsi tra le diverse opzioni? Per chi, come me, non può neanche volendo tornare a identificarsi tout court con l’istituzione, restano tre strade e io le ritengo tutte valide e comprensibili, ma anche potenzialmente pericolose.

  1. Lasciando la Chiesa si rinuncia a qualcosa, soprattutto se per una porzione della propria vita la si è vissuta intensamente. A livello personale si abdica a parte della propria identità e storia, a livello sociale a una immensa istituzione, dal potenziale di bene incalcolabile, lasciandola in mando a una casta di uomini celibi.
  2. Restare per “combattere” da attiviste, questa è la mia esperienza personale, pian piano porta ad un esaurimento delle forze e delle speranze. Si diventa ciniche, si disimpara ad assaporare il bello che c’è ad esempio nella vita parrocchiale. È un cammino che rischia di prosciugare, perché il cambiamento auspicato non si vede mai, ma può diventare fecondo se e quando si fa in gruppo, quando ci si sostiene le une le altre a mantenere la fiammella della speranza.
  3. Rifugiarsi nella spiritualità da sole o in piccolo gruppo porta con sé il rischio del disimpegno rispetto alla dimensione sociale e politica della Chiesa, chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà che la chiesa è un’istituzione e che ferisce tanta gente: vittime di abusi, donne, divorziati risposati, cristiani lgbt…
  4. Allora che fare? Non ho risposte e sento di ondeggiare io stessa tra queste tre strade, ma intuisco che qui stia il senso di comunità nuove e possibili. Non comunità che si nascondono i problemi, non comunità ciniche e neppure comunità rifugio, ma “attiviste con l’anima”. Comunità che trovano fonti di nutrimento spirituale e sanno essere creative, che sanno aggregare credenti e non credenti, che non temono di essere punto di riferimento per chi cerca giustizia e di esporsi in prima linea.

Comunità come queste possono essere davvero una benedizione per i nostri tempi.

   Paola Lazzarini Orrù            7 giugno 2023

Sulla donna e sul gender. Una lettera aperta a Luigi Maria Epicoco

   Caro Luigi Maria, (Epicoco) (α1980)

ti scrivo direttamente, anche se non ci conosciamo se non per “cultura libresca”, perché mi sembra la cosa più semplice e più utile, tra colleghi, in un caso del genere. Ho letto in questi ultimi due giorni due testi che hai scritto e che mi hanno veramente colpito e allarmato: mi riferisco ad una intervista pubblicata su “alzogliocchiversoilcielo”

Le donne della Bibbia, così “affidabili”. ”Capaci di restare anche in situazioni difficili”

Abbiamo sempre erroneamente pensato che le donne nella Bibbia ricoprano un ruolo marginale. Niente di più sbagliato, perché esse rappresentano il grande fondale dentro cui la storia della salvezza è resa davvero possibile. Ne parla Don Luigi Maria Epicoco, filosofo e teologo, uno dei più apprezzati autori di spiritualità che insegna filosofia alla Pontificia Università Lateranense e all’ISSR “Fides et Ratio” di L’Aquila, di cui è anche preside, nel saggio “Le affidabili. Storie di donne nella Bibbia” (Tau Editrice 2023, pp. 132).Il testo raccoglie alcune riflessioni che Don Epicoco, Assistente Ecclesiastico del Dicastero per la Comunicazione, da noi intervistato, nell’arco di questi anni ha potuto dedicare ad alcuni personaggi femminili a cavallo tra l’Antico  e il Novo Testamento.–

Per quale motivo l’affidabilità è la caratteristica piùcomune delle donne presenti nella Bibbia?

«Perché è la caratteristica che accomuna le donne, in quanto a differenza degli uomini sembra che riescano a stare dentro le relazioni anche quando cominciano a diventare faticose, e non conviene rimanere più in un rapporto. In tutta la Bibbia le donne non fanno mai un passo indietro rispetto a quelle che sono le storie raccontate. In questo senso sono più affidabili rispetto agli uomini».–

Ha dedicato il libro “A Maria di Nazareth la più affidabile tra tutte le creature”. Ce ne vuole parlare)?

«Mi è sembrato giusto dire che Maria è la benedetta tra tutte le donne, ed è la più affidabile. Proprio per tornare a quello che dicevo prima, Maria sa rimanere in rapporto anche nelle situazioni difficili. Ad esempio sotto la Croce tutti i discepoli fuggono via, invece Maria rimane lì, sotto la Croce del Figlio. Questo è testimonianza che anche dopo i fatti della Passione e della Resurrezione, Maria è colei che rimette insieme i pezzi della prima comunità cristiana. Nel Cenacolo è Maria che raccoglie i discepoli e li prepara al dono della Pentecoste».–

Che cosa ci insegnala storiadell’adulterae quella della Samaritana?

«Innanzitutto che noi non siamo mai i nostri peccati e non siamo mai le etichette che gli altri ci mettono addosso. Gesù ha la capacità saper scavare dietro i pregiudizi e i peccati di queste persone e le ristabilisce nella loro dignità. Ma è anche vero che Gesù trova dall’altra parte persone che si lasciano raggiungere da questo rapporto, da questa relazione. Sia l’adultera sia la Samaritana sono come se avessero un desiderio di vita spirituale inespresso, che Gesù intercetta e risveglia in ciascuna di loro».

Riassume brevemente la figura di Giuditta, molto più conosciutaper la storia dell’arteche per la suavicenda biblica?

«Giuditta è uno di quei personaggi che magari noi possiamo reputare minori semplicemente perché nella predicazione cristiana non hanno avuto molto spazio. Invece, a differenza dei suoi contemporanei che erano presi dal panico di un assedio di guerra, Giuditta riesce con astuzia, creatività e con una ostinazione tipicamente femminile, a fidarsi di Dio contro tutto e tutti. Riuscendo alla fine a riportare una vittoria per il suo popolo, che deve riconoscere ha ritrovato la vittoria grazie a una donna e non attraverso un generale o un condottiero»

C’è un gran parlare su quale ruolo le donne debbano avere nella Chiesa, invece non pensiamo che il loro contributo è già abbastanza evidente in tutta la sua storia, a partire propriodalle molte sante che sono statefigure chiavi in passaggi storici difficili. Che cosa ne pensa?

«La grande polemica sul ruolo delle donne nella Chiesa mi infastidisce molto, perché è come se noi dovessimo dare spazio a coloro che hanno tutto il diritto di ritenere che questo spazio ce l’hanno già, e se lo sono guadagnato attraverso quella affidabilità di cui parlavo prima. Nel libro ho usato un’immagine. In fondo quando noi guardiamo un quadro veniamo attratti dalle figure che sono in prima linea, ma in realtà queste figure sono comprensibili solo perché c’è un fondale alle spalle, che dà significato ai personaggi in prima linea. Ecco, le donne sono il grande fondale di senso dentro cui nessun personaggio che sta in prima linea potrebbe trovare significato se non attraverso di loro. Dietro i grandi uomini della Bibbia ci sono sempre grandi donne, nella Chiesa le vicende più importanti hanno sempre avuto come fondale figure sagge. Santa Chiara, Santa Caterina da Siena, ci dimentichiamo che durante la cattività avignonese fu proprio Santa Caterina a “costringere” Papa Gregorio XI a tornare a Roma. L’amore che questa donna aveva per la Chiesa ha portato a una rivoluzione all’interno della Chiesa stessa. Nel Cinquecento, in piena Inquisizione, una grande donna, Santa Teresa d’Avila, riforma l’Ordine Carmelitano, ripensando da capo la vita spirituale. Sono tutte donne che in ogni secolo e in ogni epoca storica, hanno lasciato un segno che ha condizionato fortemente la vita della Chiesa. Quindi non siamo noi a dover dare un ruolo alle donne, ma dobbiamo lealmente riconoscere che lo hanno già questo ruolo. E non farle indietreggiare rispetto a questo».

È vero che la Sua vita sacerdotale è costellata da figure femminili affidabili ed essenziali?

«Assolutamente sì, a cominciare dalle mie nonne, da mia madre e dalle mie sorelle. Tutta la mia vita sacerdotale è stata costellata da figure femminili, che mi hanno umanizzato, aiutato a essere fedele alle cose, a ritornare all’essenziale. Soprattutto nei momenti di grande fatica ho trovato sempre in loro un forte appoggio per poter ripartire».

www.alzogliocchiversoilcielo.com/2023/06/le-donne-della-bibbia-cosi-affidabili.html?m=1&fbclid=IwAR34GMRyfAE0_xejs9vxLNHxzSWAfRI959D2uyjqqXBaYNoQlR_dFa2k5rk

                e ad un breve intervento sulla “teoria del Gender”

ETICA E MORALE (di Luigi Maria Epicoco)

“In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere, in questo momento storico la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce è sicuramente la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo | e la donna. Se io dico in maniera chiara questa cosa, non è per discriminare qualcuno, ma semplicemente per mettere in guardia tutti dalla tentazione di cadere in quello che è stato il progetto folle degli abitanti di Babele: annullare le diversità per cercare in questo annullamento un’unica lingua, un’unica forma, un unico popolo. Questa apparente uniformità li ha portati all’autodistruzione perché è un progetto ideologico che non tiene conto della realtà, della vera diversità delle persone, dell’unicità di ognuno, della differenza di ognuno. Non è l’annullamento della differenza che ci renderà più vicini, ma è l’accoglienza dell’altro nella sua differenza, nella scoperta della ricchezza nella differenza. È la fecondità presente nella differenza che fa di noi degli esseri umani a immagine e somiglianza di Dio, ma soprattutto capaci di accogliere l’altro per ciò che è e non per ciò in cui lo vogliamo trasformare. Il cristianesimo ha sempre dato priorità al fatto più che alle idee. Nel Gender si vede come un’idea vuole imporsi sulla realtà e questo in maniera subdola. Vuole minare alle basi l’umanità in tutti gli ambiti e in tutte le declinazioni educative possibili, e sta diventando un’imposizione culturale che più che nascere dal basso è imposta dall’alto da alcuni Stati stessi come unica strada culturale possibile a cui adeguarsi.”                     www.gesusacerdote.org/etica-e-morale-di-luigi-maria-epicoco

Sono sorpreso per il fatto che tu scrivi non semplicemente sulla base della tua identità di prete, ma anche come filosofo e come teologo e per questo le tue parole portano una responsabilità critica che i tuoi titoli accademici pretendono da te, come da tutti noi. Voglio anche dire che quanto scrivo dipende dalla lettura di questi due testi citati e nulla ha a che fare con un giudizio sulla tua persona e sul resto della tua attività. Mi limito ad esaminare le questioni che emergono dai due testi e provo a formulare meglio le mie perplessità.

                Aggiungo però subito di considerare questa occasione quasi come provvidenziale: i tuoi due testi mostrano un fenomeno ben più ampio di ciò che scrivi e permettono di affrontare un “deficit teologico” che attanaglia gravemente la nostra tradizione cattolica recente e che implica, da parte dei teologi e dei filosofi, una urgente funzione di terapia linguistica e di riflessione più profonda. Sono convinto che proprio quando emergono posizioni “scabrose”, come le tue, siamo sempre di fronte ad un passaggio utile per la crescita comune e per la elaborazione di una visione più matura e più equilibrata.

a) Le donne e la tradizione teologica

Inizio dal primo testo, che è una intervista a proposito del tuo libro “Le affidabili”. In questa intervista tu fai alcune affermazioni di grande stima verso le donne, sostenendo che “sono più affidabili degli uomini”, riferendoti a Maria, alla Adultera, alla Samaritana, a Giuditta. Però, nel momento in cui la domanda non verte più sulla descrizione dei “personaggi biblici”, ma sulle donne contemporanee, tu mostri di “infastidirti”. Riprendo letteralmente questo passaggio, su cui vorrei soffermarmi:

“La grande polemica sul ruolo delle donne nella Chiesa mi infastidisce molto, perché è come se noi dovessimo dare spazio a coloro che hanno tutto il diritto di ritenere che questo spazio ce l’hanno già, e se lo sono guadagnato attraverso quella affidabilità di cui parlavo prima. Nel libro ho usato un’immagine. In fondo quando noi guardiamo un quadro veniamo attratti dalle figure che sono in prima linea, ma in realtà queste figure sono comprensibili solo perché c’è un fondale alle spalle, che dà significato ai personaggi in prima linea. Ecco, le donne sono il grande fondale di senso dentro cui nessun personaggio che sta in prima linea potrebbe trovare significato se non attraverso di loro. Dietro i grandi uomini della Bibbia ci sono sempre grandi donne, nella Chiesa le vicende più importanti hanno sempre avuto come fondale figure sagge.

                ll fastidio che provi deriverebbe, a quanto dici, da una “domanda di spazio” che tu non capisci, perché tu pensi che questo spazio già sia attribuito alle donne, nella forma metaforica di uno “spazio del fondale”, che dà senso ad ogni “personaggio in prima linea”. Questa immagine che usi (tra primo e secondo piano) è la traduzione in metafora di ciò che la Chiesa ha affermato per molti secoli, identificando uno “specifico femminile” nella sfera privata e lasciando ai maschi il “primo piano della sfera pubblica”. Tu però dovresti sapere che la “grande polemica” che ti infastidisce, e che sicuramente non può accettare questa tua visione, è entrata nella Chiesa cattolica non solo per la grande elaborazione che a partire dal XIX secolo molte donne hanno compiuto sul piano culturale, sociale e scientifico, ma anche perché un papa, Giovanni XXIII, ha ufficialmente chiamato “entrata nello spazio pubblico delle donne” uno dei segni dei tempi con cui dobbiamo fare i conti. Il fastidio, di cui parli, è una crisi di crescita, che ci impedisce di continuare a ragionare con lo schemino: donne in privato, affidabilissime ma invisibili e senza autorità – uomini in pubblico, meno affidabili ma visibili e dotati di autorità.

b) Le donne nel privato e il deficit del magistero

La tua reazione, che si completa nella risposta all’ultima domanda, dove confessi il tuo debito affettivo verso la nonna, la madre e le sorelle, è esemplare di una cultura molto unilaterale: le donne non sono solo “affidabili e affettuose”, ma sono anche sempre maestre, autorità, teologhe, sindaci, tassiste, giudici, musiciste, registe…hanno risorse di autorità e di “primato” che il tuo discorso, indirettamente e direttamente, si affanna a negare e teme come un pericolo. Sarebbe specifico della donna essere “destinata” a questa affidabilità di sfondo. Tu non lo vedi, ma questa è “cultura dello scarto”. Qui, a mio avviso, le tue categorie teologiche e filosofiche non sono per nulla alla altezza di un “segno dei tempi”, ma restano indietro e alimentano quei “complessi di superiorità” che la cultura cattolica da 60 anni dovrebbe sentire il compito di superare. Tuttavia questo imbarazzo ci è utile perché ci spinge a scovare come questo meccanismo automatico e incontrollato, con cui gli uomini di fede relegano le donne in secondo piano, è presente anche nelle parole del magistero. Anche il magistero, idealizzando la donna, la tiene in secondo piano. Parlando di “principio mariano”, ed equiparando arbitrariamente tutte le donne a Maria, ne esclude la rilevanza istituzionale, riservandola a Pietro, ed equiparando altrettanto arbitrariamente tutti i maschi a Pietro. Questo non scusa le tue affermazioni, ma le contestualizza e rende ancora più necessario aprire un dibattito serio sui meccanismi con cui noi “blindiamo” una marginalità femminile, proprio riconoscendole un primato nella affidabilità. Come sai bene, questa è anche la strategia di uno dei documenti che ha inaugurato la presa di posizione del Magistero cattolico in quella che tu chiami “grande polemica”. In effetti in “Inter insigniores” troviamo la seguente affermazione:

                “« I segni sacramentali – dice S. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza ». Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, così per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa « naturale rassomiglianza », che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.”

                Tommaso però non ha mai detto questo. Se analizziamo dove si trova la citazione di Tommaso, scopriamo che l’espressione citata da Inter insigniores compare nel Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 4) ed è parte di una risposta alla discussione, che non riguarda la ordinazione della donna, ma quella dello schiavo (l’articolo 2 si intitola infatti “Se la schiavitù sia impedimento alla ricezione dell’ordine”). Il testo della citazione integrale, che è molto breve, suona così:

                “ Ad quartum dicendum, quod signa sacramentalia ex naturali similitudine repræsentant; mulier autem ex natura habet subjectionem, et non servus; et ideo non est simile.” (I segni sacramentali manifestano una certa naturale somiglianza, ma la donna ha la soggezione per natura, mentre non è così per li schiavo. Perciò non è simile)”

                Come è evidente, il riferimento alla “similitudo” non riguarda di per sé la “somiglianza maschile/femminile” rispetto al Signore, ma la somiglianza nella “condizione di schiavitù”, che lo schiavo ha per contratto o per convenzione, mentre la donna ha “per natura”. Una “schiava per natura” non può in alcun modo rappresentare il Signore!

                La pretesa con cui “Inter insigniores” vuole mostrare che il sesso femminile è escluso dalla rappresentanza di Cristo procede secondo una lettura pregiudiziale del femminile, la cui caratteristica decisiva non è la affidabilità, ma la soggezione e la mancanza di autorità. Questo pregiudizio mi pare pesantemente presente nel “fastidio” con cui tu non riesci a riconoscere alcun valore a ciò che Giovanni XXIII, ben 60 anni fa, ha identificato come “segno dei tempi”: ossia il fatto che “mulieres in re publica intersunt”. Potrà dare fastidio, ma è con questo che il filosofo e il teologo deve misurarsi. E per quanto si parli di affidabilità, anche a giusto titolo, se non ci si confronta con l’esercizio della autorità, non si rende un servizio alla ragione teologica e alla dignità delle donne.

c) La conferma sul Gender

Un ultimo appunto mi pare che meriti il secondo testo che ho citato all’inizio, nel quale tu presenti la “teoria del Gender” in modo del tutto caricaturale. Ma questo non mi sorprende. Se non riesci a comprendere che la considerazione teologica della donna non può partire dai pregiudizi sociologici e culturali con cui la abbiamo pensata come un “maschio difettoso”, come una “schiava per natura”, a cui non rimedia il riconoscimento della affidabilità – che può convivere con quei pregiudizi, e anzi li conferma – evidentemente puoi guardare in modo solo catastrofico alla elaborazione della categoria del “genere/gender”, in cui la dimensione biologica e culturale si fondono in modo più complesso di quanto avevamo pensato fino ad oggi. In questo modo mi pare che tu non riesca a comprendere come ciò che tu liquidi come “esperienza del male” sia in realtà una delicata e preziosa rielaborazione del rapporto tra identità e differenza. Certo la teoria non è priva di problemi e di limiti, ma non può essere giudicabile in modo sommario e sbrigativo come una “esperienza del male”. È proprio il “segno dei tempi” della donna nello spazio pubblico a rendere necessaria una “teoria di genere” che non sia appiattita su una lettura essenzialistica del femminile. Come se il profilo culturale e sociale potesse derivare semplicemente da un dato naturale. Questo modo di intendere le differenze è semplicemente un modo per difendere i propri pregiudizi. Per questo tu puoi scrivere questo testo, che mi sembra dominato da un pregiudizio talmente pesante da risultare frutto di un approccio fondamentalistico, che fatico a correlare alla tua formazione filosofica:

                “In ogni epoca storica il male si è manifestato in diverse maniere, in questo momento storico la modalità più specifica attraverso cui il male si fa presente e agisce è sicuramente la teoria del Gender. Voglio però subito precisare che dicendo questo non mi sto riferendo a coloro che hanno un orientamento omosessuale. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci invita anzi ad accompagnare e a prenderci cura pastorale di questi fratelli e di queste sorelle. Il mio riferimento è più ampio e riguarda una pericolosa radice culturale. Essa si propone implicitamente di voler distruggere alla radice quel progetto creaturale che Dio ha voluto per ciascuno di noi: la diversità, la distinzione. Far diventare tutto omogeneo, neutrale. È l’attacco alla differenza, alla creatività di Dio, all’uomo e la donna”.

Una descrizione caricaturale della domanda di identità che è oggetto della “teoria gender”, la demonizzazione di una radice culturale e la lettura antimodernistica del “progetto creaturale” non mi sembrano parole adeguate al tuo ruolo di filosofo e di teologo. Mi sembra di leggere il testo di uno che parla per slogan vuoti, senza aver davvero meditato ciò che sta dicendo. E questo è molto grave, proprio per un teologo e per un filosofo che gode di un credito di cui non dovrebbe abusare.

                Ho cercato di ragionare, brevemente, con parresìa, esponendo le ragioni della mia preoccupazione. Spero che sia una occasione per dire meglio anche tutto quello che ci accomuna, nella medesima chiesa, a partire dalle differenze qui rimarcate, come era inevitabile, nel dialogo necessario ad ogni tradizione che non sia tentata di fermarsi, ma che sappia di dover camminare, ieri come oggi, per restare sé stessa.

                Andrea Grillo                    blog Come se non                           5 giugno 2023

www.cittadellaeditrice.com/munera/sulla-donna-e-sul-gender-una-lettera-aperta-a-luigi-maria-epicoco

GIURISPRUDENZA

Un minore può negare il consenso al riconoscimento?

    Come avviene il riconoscimento del figlio e quali sono i diritti di quest’ultimo se il padre vuole riconoscerlo e lui non vuole.

                Il padre deve riconoscere il figlio nato fuori dal matrimonio. È un suo obbligo da cui non può esonerarsi, neanche quando si tratta di una nascita non desiderata o quando il rapporto con la madre è cessato in malo modo. Ma cosa succede se, venendo meno a tale dovere, il padre dovesse avere in seguito un ripensamento e volesse procedere al riconoscimento? Sorge a questo punto la domanda: un minore può negare il consenso al riconoscimento? Cerchiamo di fare il punto della situazione alla luce della più recente giurisprudenza.

Il riconoscimento è l’atto con il quale uno o entrambi i genitori dichiarano di essere padre o madre di un bambino. Esso deve essere fatto solo dalle coppie non sposate poiché tutti i bambini nati invece nel matrimonio si presumono già essere figli di quella determinata coppia.

                Se i genitori sono ricorsi a tecniche di procreazione assistita il riconoscimento non è più libero e discrezionale, ma consegue automaticamente per effetto del ricorso a tali tecniche: in tal caso pertanto uno o entrambi i genitori devono procedere immediatamente con la dichiarazione di nascita come avviene per un figlio nato nel matrimonio.

                Può riconoscere il figlio anche chi è sposato con un’altra persona. Il riconoscimento può essere effettuato prima o dopo la nascita, con modalità diverse che vedremo qui di seguito.

Riconoscimento del figlio prima della nascita. Entrambi i genitori o la sola madre possono riconoscere il figlio prima della nascita, per tutelare il nascituro in vista di possibili eventi sfavorevoli (ad esempio la morte di un genitore o il suo allontanamento). Se il riconoscimento è effettuato dalla sola madre, per il successivo riconoscimento del padre richiede è richiesto il consenso della madre stessa.

Come si fa il riconoscimento di un figlio non ancora nato? Il riconoscimento avviene davanti all’ufficiale di stato civile del comune di residenza del genitore del nascituro, presentando un certificato medico che attesti la gravidanza con l’indicazione del tempo di gestazione.

Riconoscimento del figlio dopo la nascita. Entrambi i genitori o uno solo di essi possono riconoscere il figlio dopo la nascita con un’apposita dichiarazione davanti a un ufficiale dello stato civile, davanti a un notaio o in un testamento.

Riconoscimento di figlio con meno di 14 anni. Se il figlio ha meno di 14 anni e questo è già stato riconosciuto dall’altro genitore, è necessario il consenso di quest’ultimo. Ma il consenso non può essere negato senza che vi sia una valida ragione. Il dissenso infatti deve rispondere all’interesse del figlio. Per questo se la madre dovesse immotivatamente negare il consenso al riconoscimento del figlio, il padre potrebbe ricorrere al tribunale affinché sia il giudice a decidere cosa è meglio per il bambino.

                Gravi motivi che possono giustificare il dissenso al riconoscimento possono essere: gravi carenze genitoriali, inidoneità a svolgere il ruolo di padre, scarso interesse verso il figlio, atteggiamento violento, ecc.

Riconoscimento di figlio con almeno 14 anni. Se il figlio ha almeno 14 anni al momento del riconoscimento, è necessario il suo assenso con dichiarazione compiuta davanti all’ufficiale dello stato civile, davanti al giudice tutelare o in un atto pubblico. Non esiste un termine entro il quale il figlio debba manifestare il suo assenso; può farlo anche in un secondo momento o addirittura dopo la morte del genitore che voleva effettuare il riconoscimento. In ogni caso l’assenso ha effetti retroattivi, si producono cioè dal momento del riconoscimento. In mancanza di assenso, l’ufficiale dello stato civile può comunque ricevere la dichiarazione di riconoscimento da parte del genitore, ma tale dichiarazione resta senza effetti fino a quando il minore non dà il consenso.

Il minore può negare il consenso al proprio riconoscimento? Se – come visto prima – il genitore che per primo ha riconosciuto il figlio non può negare il consenso, se ciò non si riversa in un danno per il minore, la cosa è completamente diversa quando il consenso deve essere prestato dal minore stesso. Infatti il suo consenso è un atto completamente discrezionale. Pertanto il figlio può negare il proprio consenso al riconoscimento del genitore e non è tenuto a motivare in alcun modo la propria scelta, né questa gli può essere contestata per alcuna ragione o sotto alcun profilo. Nel momento in cui il figlio compie 14 anni, non è più necessario il consenso dell’altro genitore al riconoscimento del figlio stesso.

Raffaella Mari   La legge per tutti             5 giugno 2023

www.laleggepertutti.it/642070_un-minore-puo-negare-il-consenso-al-riconoscimento

Cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare

Non c’è alcun valido motivo per opporsi al divorzio tranne un’eventuale riconciliazione dei coniugi. Non sono rari i casi in cui un coniuge non voglia concedere il divorzio all’altro. Le ragioni alla base del rifiuto possono essere di natura diversa ad esempio per una ripicca, per evitare che l’ex marito o l’ex moglie convoli a nuove nozze o per ragioni economiche posto che con il divorzio si perdono tutti i diritti successori nei confronti dell’ex partner e l’assegno divorzile spetta solo se si versa in stato di bisogno. Pertanto, cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare? La risposta è semplice: si può iniziare una causa in Tribunale, presentando una domanda di divorzio giudiziale.

                Il diritto al divorzio infatti è un diritto irrinunciabile, riconosciuto a ciascun coniuge anche senza il consenso dell’altro. Esiste però una ragione valida per opporsi al divorzio rappresentata dall’eventuale riconciliazione intervenuta tra i coniugi. Posto che per legge tra la separazione e il divorzio deve intercorrere un determinato periodo di tempo, se durante tale periodo la coppia ad esempio dovesse tornare a vivere stabilmente insieme, la separazione si interrompe. Perciò, se i due intendono divorziare, dovranno procedere a una nuova separazione.

Come si può divorziare? Il divorzio può essere di due tipi:

  • consensuale, quando i coniugi trovano un accordo su come proseguire la propria vita dopo lo scioglimento definitivo dell’unione matrimoniale con riguardo agli aspetti patrimoniali (vedi l’assegnazione della casa familiare o l’assegno di mantenimento) e/o agli aspetti riguardanti i figli (affidamento, collocamento, mantenimento, diritto di visita del genitore non collocatario).

Per divorziare consensualmente i coniugi possono:

  • presentare un’istanza congiunta in Tribunale;
  • ricorrere alla negoziazione assistita dai rispettivi avvocati;
  • effettuare una dichiarazione in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile ma solo se non hanno figli minorenni o maggiorenni incapaci o portatori di handicap oppure economicamente non autosufficienti;
  • giudiziale, quando manca l’accordo tra i coniugi. In tal caso uno dei può rivolgersi al Tribunale affinché pronunci lo scioglimento del matrimonio, se è stato celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile, o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, se è stato celebrato in chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello stato civile.

A proposito del divorzio giudiziale è importante sapere che grazie alla riforma Cartabia, entrata in vigore il 28 febbraio 2023, oggi è possibile presentare con un unico atto, nella specie un ricorso, davanti allo stesso giudice, la richiesta di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso.

È possibile rifiutare il divorzio? Se un coniuge propone all’altro di divorziare consensualmente, ovvero accordandosi tra loro sugli aspetti patrimoniali e/o familiari del divorzio, questi non è obbligato ad accettare la proposta. Se da un lato però può rifiutarsi di procedere in tal senso dall’altro non può rifiutare il divorzio. Da ciò consegue che essendo il divorzio giudiziale comunque possibile, spetta al coniuge che intende ottenerlo, rivolgersi al giudice. Non si può quindi impedire il divorzio se uno dei coniugi lo vuole.

Come si può divorziare senza il consenso del coniuge? Come già anticipato si può divorziare senza il consenso del coniuge chiedendo il divorzio giudiziale. A tal fine la parte interessata deve rivolgersi a un avvocato, preferibilmente esperto in diritto di famiglia, perché avvii la causa in Tribunale. Affinché sia pronunciato il divorzio, il richiedente può sostenere semplicemente che “la convivenza è divenuta intollerabile” senza dovere per forza dimostrare l’intervenuta crisi matrimoniale.

                Il coniuge che ha rifiutato la proposta di divorzio consensuale, non può che prendere atto della volontà dell’ex marito o dell’ex moglie, eventualmente difendendosi in giudizio e sostenendo le proprie ragioni ma non può opporsi alla pronuncia dello/a scioglimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio.

                Può anche decidere di non costituirsi in giudizio; così facendo però non potrà esporre il proprio punto di vista al giudice.

Peraltro, il procedimento farà ugualmente il suo corso e si arriverà comunque ad una sentenza di divorzio.

Quando è possibile opporsi al divorzio? Una ragione valida per opporsi al divorzio è rappresentata dall’intervenuta riconciliazione tra i coniugi, che ha interrotto la separazione.

                Per legge è possibile chiedere il divorzio solo dopo che sono decorsi 6 mesi in caso di separazione consensuale o 12 mesi in caso di separazione giudiziale. Se in tale periodo i coniugi dovessero riconciliarsi, la separazione cessa.

                La riconciliazione potrà avvenire in forme differenti:

  • tacitamente, ovvero con un comportamento che è incompatibile con lo stato di separazione (ad esempio i coniugi tornano a vivere stabilmente insieme);
  • oppure con una dichiarazione scritta nella quale il marito e la moglie mettono per iscritto l’intenzione di riprendere la vita matrimoniale.

In pratica la riconciliazione è l’unico modo per opporsi al divorzio e porta al ripristino della comunione di vita tra i coniugi. Se la riconciliazione non dovesse sortire effetti positivi, la coppia dovrà procedere a una nuova separazione prima di richiedere il divorzio.

 Elda Panniello         La legge per tutti             4 giugno 2023

www.laleggepertutti.it/640052_cosa-succede-se-uno-dei-due-coniugi-non-vuole-divorziare

MATERNITÀ SURROGATA

Maternità surrogata: altruismo, gratuità, solidarietà?

L’insidioso lessico dell’antilingua nella legittimazione etica della maternità surrogata.

1. Il paradosso della modernità sta tutto nell’incessante e sistematica opera di delegittimazione ideologica e destrutturazione anomica dei paradigmi della normatività etica portata avanti, ad ogni latitudine, dagli agenti morali in obbedienza ad un sorta di credo assiologico negazionale di cui professare la fede: l’universo post-morale in cui è immerso l’uomo moderno inibisce ogni disciplina o esercizio di tipo nomo-poietico e insieme determina l’obnubilamento della dimensione noetica postulata dal conoscere, sfociando in una forma di irrazionalismo di cui è figlio l’esistenzialismo generalizzato odierno. Se questo non impedisce di accedere alle grandi risorse tecnico-investigative offerte dalle scienze moderne, tuttavia, in mancanza di un orizzonte assiologico positivo condiviso, tale accesso si rivela cieco, autoreferenziale, sostanzialmente incapace di indirizzare la ricerca ad un senso che non sia la mera formulazione di paradigmi utili a spiegare il mondo nella forma di un incessante progresso apparente, che sovente e sotto molteplici aspetti appare, invece, acriticamente regressivo. L’homo faber, modello archetipico dell’uomo rinascimentale, ha prodotto una progressiva eclissi della morale classica, che, seppur controversa, offriva un modello ordinamentale per il mondo. Da allora, l’esposizione ossessiva, ipertrofica, incontrollata all’incedere sempre nuovo di pulsionalità desideranti macchiniche, per dirla con Deleuze, pur rimarcando la “tolemaica” ed egolatrica centralità cosmica dell’uomo moderno, nulla dice in merito al rapporto Soggetto-Oggetto, al nuovo senso da dare al tutto, che non sia puramente destrutturante, negazionale, individuo-centrico.

                La negazione teoretica di un senso oggettivo delle cose implica, in fondo, che ciascuno può dare ad esse il senso che preferisce. Eppure, l’univoco, incontrovertibile postulato dell’esperienza pratica, non empirica, il dato a partire dal quale la ragione coglie l’ordine essenziale dell’universo è quello per cui ogni cosa tende al bene che più conviene alla sua natura, una regolarità causale e teleologica in forza della quale il mondo risulta massimamente ordinato. Ma perché l’uomo, seguendo la naturale inclinazione che lo determina verso un comportamento che ha come fine il suo bene, tenda ad esso, deve in primis conoscere in cosa il suo vero bene consista e poi riconoscerlo anche in tutte quelle cose ulteriori che in qualche modo ad esso conducono come mezzi. Ecco perché il problema morale non può mai prescindere dal problema della verità, come l’etica non può fare a meno del discorso teoretico. C’è uno stretto legame tra verità e libertà, perché l’intelletto pratico postula sempre l’operatività previa di quello speculativo.

                Da qui, il rifiuto, professato ed argomentato, di ogni cornice etica soggettivista, di ogni morale di tipo auto-nomo, in ragione del fatto che un paradigma siffatto muove sempre dal mal funzionamento di quell’intelletto che, per essere malato di soggettivismo, non è più capace di cogliere il vero bene e ne coglie uno che è tale solo agli occhi della sua singolare individualità. In questo caso, non si sceglie una cosa perché è veramente buona, ma è veramente buona perché la si è scelta. Del pari, il rifiuto di ogni cornice etica utilitaristica in ragion del fatto che un modello simile legittima il mal funzionamento di quella volontà che, per essere guidata nelle sue scelte da ciò che è a sé utile, finisce per comandare all’intelletto di ritenere lecito tutto ciò che è appunto utile a sé. In questo secondo caso, la scelta non è guidata dalla verità in sé della cosa scelta, vista nel suo valore oggettivo, ma dall’utilità, per il soggetto, della cosa scelta.

                I paradigmi offerti dai modelli etici soggettivista ed utilitarista – assunti nel discorso morale contemporaneo a riferimenti meta-normativi esclusivi, universali ed indiscussi – assurgeranno, in questa sede, ad assi cartesiani in vista dell’inquadramento concettuale e morale della pratica della Maternità Surrogata (MS), in particolare, nella forma in cui essa è stata concepita e proposta dall’Associazione Luca Coscioni, la quale il 30 settembre 2020 (testo aggiornato al 26 gennaio 2021) presentava ufficialmente una Proposta di legge così rubricata: “Gravidanza solidale ed altruistica per altri”, i contenuti dispositivi del cui testo, poi depositato presso la Camera dei deputati, sono tornati prepotentemente di attualità negli ultimi giorni. Pdl da pag. 15

www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2023/05/29-MAGGIO-2023-Gravidanza-per-altri-solidale-Ass.-Luca-Coscioni-Altri.docx.pdf

                I problemi bio-etico-antropologici che, a partire da tale Proposta, si impongono alla nostra attenzione concernono i soggetti coinvolti nella pratica della MS, dalla coppia committente, con la sua richiesta di vedere realizzato il desiderio di genitorialità per mezzo della disposizione del corpo di un’altra donna, alla madre gestante, con le ripercussioni fisiche e psichiche derivanti dal ruolo svolto nel contratto di surrogazione, insieme ai rischi di sfruttamento e reificazione connessi alla sua posizione, al nascituro, con il suo diritto a crescere con la certezza delle sue relazioni parentali e a veder preservato il suo equilibrio affettivo e relazionale. L’importanza cruciale di tali questioni, in uno alla diffusione crescente di questa pratica nel mondo, interpella con insistenza la nostra coscienza morale.

                Da qui, l’attenzione particolare rivolta in questa sede alla già menzionata Proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni, che pare assurgere a paradigma normativo per quanti, a diversi livelli, si stanno facendo propugnatori e propalatori di questa particolare forma di gestazione per altri, la quale dovrebbe trovare nel preteso suo carattere solidale, altruistico ed asseritamente gratuito, i presupposti della sua liceità sul piano morale e della sua legittimazione su quello giuridico ed ordinamentale.

                2. Il testo, organizzato in 9 articoli, ripropone i contenuti dispositivi a partire dai quali giungere alla legittimazione, giuridica ed indirettamente morale, di un duplice assunto:

  1. la liceità della pratica della MS “solidale ed altruista”, comunque e da chiunque praticata (anche coppie omosex e single);
  2. la legalizzazione dei percorsi di riconoscimento del rapporto di filiazione legittima per i nati, tutti, per mezzo del ricorso alla MS. Così nella presentazione che accompagna il testo della proposta: “Ai fini della presente proposta di legge si definisce «gravidanza solidale e altruistica» la gestazione di una donna che sceglie manifestando la propria volontà autonomamente e liberamente formatasi, di accogliere nel proprio utero un embrione a seguito di fecondazione di gameti tramite tecniche di fecondazione in vitro e di favorirne lo sviluppo fino alla fine della gravidanza, al parto. Il percorso che si intende regolamentare, dunque, rappresenta una soluzione per i soggetti, singoli o per le coppie, che, a causa della loro sterilità e/o infertilità, non possono concepire o portare a termine una gravidanza per ragioni medico-fisiologiche o per situazioni personali”.
  3. L’articolo 3 stabilisce i criteri soggettivi e oggettivi di accesso alla gravidanza solidale e altruistica, ferme restando la valutazione medica circa l’opportunità per il genitore singolo o per la coppia di ricorrere a tale percorso, da avviare quando le parti abbiano manifestato il loro consenso informato in forma scritta, e la valutazione psicologica, a seguito di un colloquio con lo psicologo-psicoterapeuta della struttura presso la quale si effettuano le procedure mediche di fecondazione in vitro.
  4. È, altresì, previsto l’obbligo (comma 4) per i committenti di stipulare, prima del trasferimento dell’embrione in utero, una polizza in favore della gestante, per la copertura di tutti i rischi connessi alla gravidanza e al parto, polizza che potrà essere estinta non prima di sei mesi successivi al parto, prorogabili di ulteriori sei mesi, in caso di complicazioni mediche sorte a seguito della gravidanza.
  5.  È infine previsto l’obbligo (comma 5) per il genitore singolo o per la coppia di versare su un conto corrente dedicato un importo congruo a coprire tutti i costi relativi alla gravidanza solidale e altruistica, comprese le spese che saranno sostenute dalla gestante durante la gravidanza.
  6. Nel definire poi la liceità dell’accordo di gravidanza solidale, fornendone, altresì, una definizione (commi 1 e 2), l’articolo 5 prescrive, al comma 3, la forma e le modalità di conclusione dell’accordo. In caso di controversie tra le parti, la competenza è attribuita, secondo quanto stabilito dal comma 5, al Tribunale del luogo in cui si sono svolte le procedure mediche di fecondazione in vitro.
  7.  I commi 6, 8 e 9 disciplinano gli strumenti di tutela accordati alle parti, nonché l’obbligo del genitore singolo o della coppia (comma 8) di sostenere le spese, dirette e indirette, sostenute dalla gestante a motivo della gravidanza.
  8. A regolamentare lo status giuridico dei nati a seguito di un accordo di gravidanza solidale e altruistica, anche in applicazione della legge straniera, compresi i Paesi dove è ammessa la gravidanza per altri a fini commerciali, è l’articolo 7 che, ai commi 1 e 2, prevede, rispettivamente, a tutela dei nati a seguito di tale accordo, anche all’estero, l’acquisizione dello status di figlio legittimo o riconosciuto del genitore singolo o della coppia, nonché la totale liceità della condotta di chi accede a tale percorso, anche all’estero, oltre che la regolare trascrizione nel registro del comune di residenza dei genitori degli atti di nascita legalizzati, apostillati prodotti dall’autorità straniera competente.
  9. Infine, l’articolo 9 contiene un espresso rinvio, per quanto non espressamente previsto o disciplinato, alle norme vigenti in materia di procreazione medicalmente assistita, salva la liceità dell’accordo di gravidanza solidale e altruistica, anche se sottoscritto all’estero in applicazione del modello giuridico della gravidanza a fini commerciali o di altri modelli.

3. Le disposizioni contenute nella menzionata Proposta, qui sinteticamente riportate, permettono di evidenziare l’attualità, sociale, politica e mediatica, che il dibattito sul tema sta assumendo e che pare aver radicalizzato l’opposizione tra quanti puntano a una legislazione uniforme in materia e quanti, al contrario, vedendo in questa pratica uno strumento di violazione sistematica dei diritti fondamentali, rifiutano qualsiasi tentativo di legalizzazione della stessa. In ogni caso, le volte in cui la nascita sia stata la conseguenza di un contratto di surrogazione, possono sorgere questioni legali inerenti, ad esempio, all’acquisto e all’esercizio delle responsabilità genitoriali, all’applicazione delle norme in materia di filiazione legittima e successione, all’attribuzione della paternità legale, o, infine, alla titolarità di alcuni diritti fondamentali del nascituro, relativi alla nazionalità, alla residenza, o all’ingresso nei Paesi di origine dei committenti.

                Orbene, sgombrando il campo dalle questioni giuridiche, che non saranno oggetto di trattazione in questa sede, la nostra attenzione sarà rivolta a una serie di aspetti che, riguardanti la madre gestante, ovvero l’altro soggetto debole – contrattualmente, personalmente e materialmente – oltre al nascituro, nella complessa vicenda umana implicata dalla pratica della MS, emergono in tutta la loro criticità, ovvero:

  1. i meccanismi di selezione del capitale umano da impiegare nella surrogazione, al fine di evidenziare l’invasività rispetto alla persona, alla privacy, alla dignità della candidata alla gestazione per altri;
  2. l’infondatezza delle argomentazioni di quanti rifiutano l’idea di una deriva reificante ontologicamente propria di detta pratica
  3. le ragioni impiegate per giustificare la liceità morale di questa pratica, nella sua forma solidale ed altruistica;
  4. l’esposizione dei motivi che fondano la proposta di una proibizione giuridica a livello globale della MS.

4 Ebbene, rispetto a un quadro così complesso, va subito chiarito come l’eventuale sentimento di altruismo e/o solidarietà che ispirasse ed animasse, anche per l’intera durata della gravidanza, la madre gestante nei confronti dei committenti, nulla toglie all’intrinseca illiceità di questa pratica per tutta una serie di logiche, meccanismi e prassi da essa implicati e che paiono tali da attentare alla dignità morale dei soggetti coinvolti, specie di quelli più deboli. Mi riferisco a:

  1. le asimmetrie di status sociale tra coppia committente e madre gestante, quasi sempre presenti;
  2. le dinamiche di separazione forzata previste ed attuate, in particolare tra madre gestante e nascituro;
  3. le fasi di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati sensibili, tanto dei donatori di gameti, quanto delle candidate alla surrogazione, in vista della classificazione del relativo capitale umano, che consenta alla coppia committente una scelta personalizzata tra molte opzioni possibili.

L’invasività di tali accertamenti si spinge al punto di prevedere, nella quasi totalità dei casi, indagini relative alle relazioni affettive, familiari e di coppia della gestante, per escludere soggetti la cui instabilità emotiva potrebbe dar vita a complicazioni nella fase gestazionale, o in quella di consegna del neonato alla coppia committente, dopo il parto. La fase del counseling psicologico, poi, implica di norma che siano discussi con la candidata topics relativi a:

1) i rischi di legami affettivi con il feto che potrebbero insorgere durante la gravidanza;

2) l’impatto della gravidanza sul matrimonio, gli equilibri di coppia, la carriera lavorativa della futura gestante;

3) il difficile bilanciamento tra diritto alla privacy della futura gestante e diritti ad essere informati della coppia committente. I test di natura clinica, infine, tesi alla ricostruzione anamnestica di tutte le informazioni concernenti lo stato di salute fisica della candidata, includono di regola un focus necessario sia sulle sue abitudini sessuali, al fine di limitare rischi di contagio del feto con malattie sessualmente trasmissibili, sia sulle dinamiche di precedenti gravidanze, al fine di accertare l’eventuale tasso di abortività spontanea della donna, la cui eventuale incidenza diviene criterio di esclusione dalla lista delle “candidate ideali”. Costituiscono, ancora, cause di esclusione della candidata:

a) l’accertamento di pregressi e certificati stati depressivi, ansiosi, psicotici;

b) uno stile di vita “caotico” o eccessivamente stressante;

c) una fragilità emotiva che potrebbe creare problemi in fase di separazione, alla nascita, dal feto;

d) eventuali precedenti problemi nei rapporti con la giustizia e l’autorità costituita.

                La scelta della futura madre, insomma, dovrà risultare sempre il più possibile in linea con i gusti della coppia committente, che non a caso potrà contare sulle garanzie offerte da un vero e proprio contratto, così esplicitamente definito dall’art. 5 comma 1 della Proposta di legge qui in discussione: in forza contratto di surrogazione, si legge, la «gestante esprime il consenso alla rinuncia della maternità con conseguente riconoscimento dei diritti genitoriali nei confronti del nascituro in favore della persona singola o della coppia. Tale rinuncia deve essere espressa, in forma scritta, prima dell’avvio delle procedure mediche di fecondazione in vitro, e controfirmata anche della persona con cui la gestante è eventualmente sposata, unita civilmente o convivente ai sensi dell’articolo 1, commi da 37 a 67, della legge 20 maggio 2016, n. 76 e comporta l’automatica esclusione della presunzione di paternità di cui all’art. 232 comma 1 del codice civile».

                Ma l’invasività della pratica della MS nella vita della madre gestante si può altresì cogliere nella serie ampia di prescrizioni che la stessa è tenuta pedissequamente ad osservare nella fase della gestazione. Le limitazioni potrebbero teoricamente andare dalle normali precauzioni tese a garantire la preservazione della salute del feto – ad esempio, divieto di fumare, di assumere alcool o droghe – fino a tutta una serie di prescrizioni che possono incidere profondamente sullo stile di vista della medesima, alla quale sarà indicato, a titolo di esempio, la dieta da osservare, gli hobby o gli sport che può praticare, le regole della vita sessuale con il partner durante la gravidanza. La sorveglianza può essere attuata in forme più o meno stringenti, addirittura con visite o telefonate periodiche, da parte di legali e/o psicologi, la cui presenza non potrà non alterare profondamente la naturale dinamica delle relazioni familiari della gestante, oltre che di quelle intrauterine con il feto.

5. Le modalità attuative della MS qui descritte, permettono a ragione di parlare di un processo di reificazione in detrimento delle madri gestanti, tenuto conto di:

1)le limitazioni gravi imposte alla vita della madre gestante durante il tempo della gravidanza;

2) le asimmetrie informazionali, culturali e sociali esistenti tra i committenti da un lato e la madre gestazionale dall’altro;

 3) i rischi per la salute psichica della madre gestante, specie nella fase post-parto, una volta avvenuta la separazione dal nascituro;

4) l’obbligo di dichiarare in anticipo di rinunciare a qualsiasi diritto parentale sul bambino, obblighi che incidono anche sulla sfera giuridica del marito della gestante, tenuto a sua volta a dichiarare, fin dal principio, che compirà ogni atto necessario a respingere la presunzione di paternità;

5) la sostanziale iniquità delle somme corrisposte, che mai possono vedersi come eque controprestazioni, considerando che i rischi implicati in questa pratica per la gestante.

                Da tutto quanto appena descritto, si evince facilmente come quelli della reificazione, della strumentalizzazione, della spersonalizzazione della madre gestante siano effetti e caratteri propri, costitutivi della MS, cioè non legati solo all’eventualità di abusi perpetrati ai danni della parte contrattualmente più debole dell’accordo di surrogazione nei Paesi dove più facile appare vulnerare le prerogative giuridiche fondamentali di una persona, ma piuttosto insiti ad ogni forma di surrogazione nella maternità, sia essa attuata dietro corrispettivo economico, o in assenza di esso. Sebbene il profilo etico di queste due ultime ipotesi appaia differente, un giudizio di inaccettabilità morale le accomuna, dacché nel primo caso è operata la cessione di un bambino in cambio di denaro, così riducendo un essere umano ad oggetto di una transazione economica; nel secondo caso, sebbene in assenza di una controprestazione di natura economica, si attua comunque tanto un’arbitraria disposizione della vita di un essere umano, quella del nascituro – questa volta trasformato nell’oggetto di un preteso atto di liberalità – quanto un arbitrario utilizzo del corpo femminile, trasformato dalla madre gestante in un quid che, lungi dal continuare ad essere l’ipostatizzazione di quella dimensione razionale e spirituale propriamente umana cui diamo il nome di dignità, viene ridotto a strumento di assoggettamento personale, ancorché volontario. Né vale controbattere al primo punto osservando che ad essere ceduta è invero la mera potestà giuridica sul bambino e non il bambino stesso, ovvero solo i cosiddetti diritti parentali, dal momento che la potestà è solo la forma astratta della cessione, laddove l’oggetto concreto dell’interesse, tanto del cedente come del cessionario, rimane il bambino. L’oggetto del contratto sinallagmatico di compravendita, che al pari della donazione, rientra nel novero dei contratti reali, non può mai essere l’astratto concetto di proprietà, dovendo identificarsi necessariamente con un bene, una res scambiata in concreto appunto, qual è il nascituro.

                La natura eminentemente economica dell’accordo sotteso alla surrogazione solidale per altri, secondo la lettera della Proposta qui in esame, emerge in tutta la sua consistenza se solo si consideri non solo l’obbligo per i committenti di accollarsi le spese, mediche e non, sostenute dalla gestante, «il cui importo è stabilito nell’accordo tenendo conto dell’impegno fisico ed emotivo sostenuto dalla gestante nel corso della gravidanza e della perdita di capacità reddituale della stessa a partire dal periodo che precede la gestazione, nel corso della stessa e successivamente al parto, compreso il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro previsto dalla legislazione vigente», ma anche dagli ulteriori esborsi di cui gli stessi dovranno farsi carico, allorché «la gestante sia lavoratrice autonoma o lavoratrice atipica», ai cui fini si dovrà tener conto «altresì, conto del danno economico a essa derivante dalla differenza tra il reddito percepito nell’anno precedente a quello in cui ha stipulato l’accordo di gravidanza per altri solidale e l’anno in cui ha iniziato la gestazione, assicurando il rimborso del mancato guadagno».

                Non solo, ma a sottolineare la natura assolutamente non gratuita, né liberale della gestazione oggetto dell’accordo qui esaminato, è altresì previsto che «ai fini del rimborso delle spese sostenute, a causa della gestazione, dalla gestante, nonché dalla persona con cui la stessa è sposata, unita civilmente o convivente ovvero da una persona accompagnatrice, di cui al presente comma, tali spese devono essere documentate in forma scritta, certificate e approvate dall’avvocato dinanzi al quale è stipulato l’accordo di gravidanza per altri solidale». Dunque, rimborso obbligatorio a carico della coppia committente di tutte le spese sostenute dalla gestante e dal suo partner a motivo della gravidanza, non solo in termini di danno emergente, ma anche di eventuale lucro cessante.

Inoltre, è previsto che i legali delle parti, alla cui presenza l’accordo di surrogazione dovrà necessariamente essere sottoscritto, prima ancora dell’avvio delle procedure mediche di fecondazione in vitro, debbano verificare che

«a) il reddito della gestante sia conforme a quanto previsto dall’articolo 4, comma 3:

b) sia stato aperto il conto corrente dedicato di cui all’articolo 3, comma 6, mediante il versamento dell’importo stabilito dall’accordo di gravidanza per altri solidale, idoneo a coprire tutti i costi relativi alla gravidanza e al parto, comprese le spese di cui al comma 8 del presente articolo;

c) sia stata stipulata la polizza assicurativa di cui all’articolo 3, comma 5, in favore della gestante, per la copertura di tutti i rischi connessi alla gravidanza e al parto».

                Infine, oltre all’obbligo di stretta segretezza dell’accordo, cui la parti devono prestare consenso, è previsto che «al fine di tutelare gli interessi dei nati in caso di morte della persona singola o della coppia ovvero di impossibilità degli stessi di esercitare, per altre cause, la responsabilità genitoriale, la persona singola o la coppia devono procedere, mediante testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata, alla designazione di un tutore».

                6. Orbene, alla luce di simili obbligatorie tutele che devono assistere le parti coinvolte nell’accordo – come accade in ogni tipo di accordo sinallagmatico, a prestazione corrispettive passibili di valutazione propriamente economica –, sono molti quelli che credono che simili garanzie valgano ad assicurare la prestazione di un consenso autenticamente libero da parte delle gestante, fugando il rischio di uno sfruttamento legalizzato perpetrato ai suoi danni, magari indotto dal contesto di povertà e/o di privazione nel quale essa realmente vive. Così, a detta di questi, mancherebbero di una volontà autenticamente libera le sole gestanti provenienti da situazioni di povertà assoluta, mentre la scelta compiuta in un contesto libero da necessità impellenti, come nel caso di una donna occidentale media che offrisse il suo utero in un accordo di surrogazione solidale e altruistica, potrebbe considerarsi fatta mediante una volontà non viziata. Invero, l’esclusione – peraltro mai reale, come visto – di una transazione economica nel caso della MS solidaristica, non esclude, semmai conferma la logica mercificante di tale pratica, laddove si consideri che a poter essere donati sono sempre e solo degli oggetti, non certamente delle persone, e che la logica stessa del dono sembra implicare una quantificazione/quantificabilità del donato in vista di un possibile ritorno.

                Ebbene, ci si chiede, quale stima si potrebbe fare della vita di un essere umano ridotta in questo caso ad oggetto del dono stesso? Il fatto che la madre gestante si limiti a mettere a disposizione l’utero, e non anche il gamete femminile, proverebbe, per alcuni, che il figlio sarebbe invero della madre committente, titolare, insieme al marito ugualmente donante, del patrimonio genetico del nascituro, e non certamente della gestante, la quale dunque non donerebbe ne venderebbe alcunché, ma solo metterebbe a disposizione il suo utero per la gestazione. Ma anche una simile osservazione rinvia alle relazioni di dominio iscritte in tale pratica: il figlio non può, in forza della dignità che gli è propria, appartenere ad alcuno, ma solo essere un soggetto di diritto autonomo da qualsiasi altro, in forza della sua dignità speciale ed inalienabile, ancorché calato in una rete di relazioni significanti e plasmanti fin dalla nascita.

                In ogni caso, e in ultima istanza, il fatto che una donna accetti, coscientemente e razionalmente di essere madre per surrogazione, potrebbe descriversi come un caso nel quale ella starebbe scegliendo secondo arbitrio, ma non secondo una volontà autenticamente libera. Questa è la distinzione messa a punto nell’elaborazione moral-filosofica di Sant’Agostino prima e San Tommaso poi, per i quali la libertà maggiore dell’uomo, la sua volontà, ovvero il tendere razionalmente e scientemente verso beni ultimi e non negoziabili, che la coscienza morale suggerisce ad ognuno, fa tutt’uno con la realizzazione del bene universale. Quest’ultimo aspetto sembra mancare nella pratica della MS, anche solidale, nella misura in cui non si considerano né il bene effettivo del bimbo – obbligato a nascere fuori da una relazione naturale tra i suoi genitori, come frutto di un accordo che implica la presenza, che permarrà durante tutta la sua vita, di una persona terza rispetto alla coppia –, né al bene della gestante – portata a pensarsi come uno strumento per il soddisfacimento di un desiderio altrui –, né, probabilmente, della coppia committente – che semplicemente pensa al soddisfacimento di un impellente desiderio di genitorialità. Per questo si può affermare che la gestante può giungere a scegliere arbitrariamente, ma mai liberamente.

                Le azioni che un uomo compie possono dirsi veramente sue solo quando ha scelto liberamente di compierle, scelta che sarà possibile considerare moralmente giusta o ingiusta solo se operata, si ripete, in una completa libertà di autodeterminazione. A sua volta, una scelta libera presuppone un triplice istanza:

1) un’alternativa reale tra opzioni possibili;

2)l’esigenza di eleggerne una;

3) l’esclusiva personalità della deliberazione, senza che nulla dall’esterno possa averne condizionato la dinamica.

Una scelta così fatta, rivela l’identità propriamente umana e morale di una persona, «l’identità esistenziale integra di un individuo, l’individuo completo in tutte le sue manifestazioni, guidato dal bene morale e da cattive scelte, ma pur sempre disposto a fare ulteriori scelte» La libertà dell’agente morale incontra il suo limite, ma anche la sua fonte esattamente qui, nella responsabilità verso chi ha difronte, con la sua intangibile libertà morale, il quale fa tutt’uno col nostro Io, rendendolo un Io responsabile dell’altro: «L’Altro, assolutamente altro – Altri – non limita la libertà del Medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica.

Ebbene, i soggetti coinvolti nella pratica della MS sono obbligati, contrattualmente, ad ignorare gli appelli che l’etica della “responsabilità” rivolge a ciascuno di essi e in particolare alla madre gestante, che dunque mai potrà dire di aver agito liberamente fin quando avrà scelto obliando l’obbligo morale di rispondere prima a se stessa – quanto alla mercificazione, reificazione, monetizzazione del proprio corpo che attenta alla sua dignità – e poi al figlio che nascerà, costretto a portare per sempre lo stigma, personale, morale, culturale, di essere stato concepito, portato in grembo, dato alla luce e ceduto dietro un corrispettivo sinallagmatico, contrattualmente fissato, ovvero per effetto di un atto di liberalità che in nessun momento lo libera da una dinamica reificante.

                L’assenza di una volontà veramente libera nella determinazione della madre gestante, ovvero la sua falsa coscienza, il suo “difettivo consenso”, permetterebbero di parlare della coercizione come di un carattere proprio della MS e come il presupposto per argomentarne un aspetto costitutivo ulteriore, quello cioè dello sfruttamento indotto da tale pratica, come confermato dai fattori di vessazione, a livello di pratiche socio-sanitarie, già elencati sopra e divenuti emblematici della surrogazione praticata in Paesi particolarmente poveri. Né vale obiettare che tali caratteri inumani della MS potrebbero essere vinti semplicemente eliminando le cause sociali del disagio, o disciplinando ogni aspetto dei possibili accordi di surrogazione, così da assicurare una tutela legale più stringente della madre gestante. In realtà, il carattere reificatorio della pratica di MS sta non solo nel difetto di una volontà libera della candidata, o nelle condizioni ambientali nelle quali matura la sua scelta, o ancora nelle asimmetrie relazionali tra le parti coinvolte, ma soprattutto nel fatto che l’offerta pro aliis, gratuita oppure no, di un servizio riproduttivo, come di un servizio sessuale, implica sempre una strumentalizzazione della donna, ovvero una lesione ineludibile della sua dignità, quali che siano le condizioni nelle quali si perfeziona l’accordo.

7 Parlando delle pratiche implicanti la reificazione, la spersonalizzazione/mercificazione di una persona,  Marta Nussbaum (α1947), filosofa argomenta sostenendo che esisterebbero almeno sette diversi modi di comportarsi, concettualmente distinti e sottesi al termine “oggettificazione” – nessuno dei quali implica necessariamente l’altro, anche se ci sono molte connessioni complesse tra di essi – ciascuno dei quali appare agli occhi dell’autrice grandemente problematico sul piano morale:

«1) Strumentalità: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come uno strumento per i suoi scopi;

2) Negazione dell’autonomia: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come privo di autonomia e autodeterminazione;

3) Inerzia: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come privo di agency e forse anche di attività;

4) Fungibilità: il soggetto strumentalizzante considera l’oggetto intercambiabile:

(a) con altri oggetti dello stesso tipo e/o

(b) con oggetti di altri tipi;

5) Violabilità: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa che è lecito rompere, frantumare, infrangere;

6) Proprietà: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa che è di proprietà di un altro, che può essere comprato o venduto, ecc.;

7) Negazione della soggettività: il soggetto strumentalizzante tratta l’oggetto come qualcosa la cui esperienza e i cui sentimenti (se ci sono) non devono essere presi in considerazione».

                Ebbene, appare chiaro come trattare le cose come oggetti non costituisce di per sé un’ipotesi di oggettificazione, poiché l’oggettificazione/reificazione implica il trasformare in una cosa, il trattare come una cosa qualcosa che una cosa non è, ovvero una persona: «L’oggettificazione consiste nel trattare un essere umano in uno o più di questi modi […]. Nel complesso, mi sembra che “oggettificazione” sia un termine cluster relativamente libero, per la cui applicazione a volte consideriamo sufficiente una qualsiasi di queste caratteristiche, anche se più spesso una pluralità di caratteristiche è presente quando il termine viene applicato. Chiaramente […], abbiamo qualche ragione di pensare che questi sette elementi siano almeno dei segnali di ciò che molti hanno trovato moralmente problematico. E ci sono alcuni punti dell’elenco – soprattutto la negazione dell’autonomia e la negazione della soggettività – che attirano la nostra attenzione».

                Dunque, considerando:

1) la visione strumentale del corpo della gestante da parte dei committenti, che lo considerano come funzionalmente assoggettato alla realizzazione del loro desiderio di genitorialità;

2) il negare rilevanza e dignità alla capacità di decisione autonoma della gestante rispetto al feto che porta in grembo;

3) il concepire la gestante in un’ottica di pura fungibilità strumentale, rispetto al solo obiettivo che rileva in un accordo di surrogazione, ancorché solidale ed altruistico;

4) l’idea della liceità dell’interruzione del legame comunicativo intrauterino, estremamente significativo per lo sviluppo del feto e non solo, che si è instaurato tra la gestante ed il feto;

5) l’idea della violazione/violabilità delle relazioni familiari e coniugali in cui la gestante è calata;

6) la concezione inesorabilmente proprietaria che accompagna i committenti rispetto al feto, specie quando ad essi geneticamente legato;

7) il disinteresse contrattualizzato verso ogni forma di sentimento provato dalla gestante, i cui stati d’animo non meritano menzione alcuna nell’accordo di surrogazione; non si può non concludere nel senso di ritenere lo sfruttamento, la coercizione, la reificazione, la mercificazione, l’oggettificazione come effetti tipici della MS, solidale o non, effetti che possono variare in quantità o combinarsi variamente a seconda del luogo nel quale tale pratica viene effettua, ma che appaiono sostanzialmente identici sotto il profilo qualitativo e, dunque, propri di tale tecnica.

                8. E tuttavia, l’armamentario dialettico cui si continua a ricorrere per giustificare l’accesso e la legalizzazione, giuridica e morale, di tale pratica, si serve essenzialmente di tre argomenti principali:

  1. la libera disponibilità del proprio corpo da parte della madre gestante;
  2. il libero esercizio del “potere” procreativo intrinsecamente legato al corpo della donna, presupposto di emancipazione sociale della stessa;
  3. la libera interazione tra soggettività desideranti, ovvero il desiderio della madre gestante di corrispondere al desiderio di genitorialità della coppia committente.

Ora, proprio sul corpo visto come nudità biologica, organica, materiale, sembrano appuntarsi i desideri, le rivendicazioni, le aspirazioni dei soggetti coinvolti nella pratica della MS: il corpo gestante della madre surrogata; il legame biologico che deve esistere tra il padre, ed eventualmente, la madre committente e il figlio; il corpo del neonato, da assicurare immediatamente alle braccia della coppia appaltante una volta separato dal grembo della madre surrogata. In tutti questi casi, assistiamo ad una dazione commerciale, o almeno sinallagmatica – “Ti do, perché tu mi dia”- e dunque strumentalizzante del corpo umano, o almeno di una sua parte: il ventre, lo sperma, gli ovuli, il feto. Nel caso della madre gestante, poi, l’indisponibilità a se stessa del suo proprio corpo, in vista della realizzazione dei desideri riproduttivi della coppia committente, l’impossibilità cioè di mettere a disposizione, a titolo oneroso o gratuito, il proprio utero per fini procreativi altrui, riposa su una visione del corpo umano da intendersi come totalità donata, prima ancora che donante: dal momento che nessuno può liberamente determinarsi nel nascere, ne segue che il corpo non dovrebbe mai considerarsi come oggetto di una proprietà personale, sul quale poter accampare diritti, ma essere visto come un quid ricevuto, come un dono offerto appunto. La visione del corpo come dono fatto ad ogni persona in maniera sostanzialmente, non accidentalmente, identica, permette di parlare di “corpo personale”, da accettarsi nell’adesione ad un’etica della cura e della corresponsabilità, dimensioni che ci introduco all’idea del limite nella disponibilità del corpo stesso. Contro l’idea della piena autonomia nella disposizione del corpo, la logica del dono ci impone di rifiutare tutto ciò che appare in distonia con le sue leggi, l’uso utilitaristico del corpo per fini di “produzione” ad esempio, come nel caso della MS tanto commerciale, quanto solidaristica.

 Quando la generazione umana è assimilata alla produzione, quantunque non commerciale, di feti da scambiare o anche donare, il corpo viene necessariamente oggettificato, smarrendo quella determinante dimensione personale e soggettiva cui si accennava sopra, cosa che non si verifica nel caso io scegliessi di donare, in maniera veramente e pienamente gratuita, solo un mio organo – un rene, per esempio – in vista della necessità di tenere in vita una persona che diversamente non avrebbe possibilità di sopravvivere.

L’oggettificazione del corpo umano sottesa alla messa a disposizione degli organi di riproduzione ha un’immediata ricaduta in termini di perdita di valore assoluto della persona umana – la cui dignità è apparsa essere quella di una soggettività da intendersi nella duplice dimensione spiritual-corporale – e ciò perché solo gli oggetti, come insegnava Kant, possono essere scambiati dietro la corresponsione di un prezzo. Nel caso della MS il processo di reificazione investirebbe tanto la madre gestante quanto il neonato, entrambi fatalmente attratti in una logica di riduzionismo oggettificante che attenta alla dignità morale di entrambi, come abbiamo avuto modo di acclarare sopra. Dunque le preclusioni maggiori all’indiscriminata disponibilità del corpo umano – di quello della gestante nel caso di specie – crediamo riposino su:

1) l’esistenza di limiti previsti legislativamente, all’interno degli ordinamenti positivi delle civiltà giuridiche più avanzate, alla libera disposizione contrattuale del corpo umano

2) l’assenza di un consenso autenticamente libero all’accordo di surrogazione da parte della candidata alla gestazione, come visto sopra;

3) la latente ed ineludibile logica di reificazione che la pratica della MS porta con sé, reificazione che sembra investire tanto la gestante – portata a concepire il suo corpo come strumento per l’attuazione di finalità ri-produttive etero-indotte ed etero-dirette – quanto la creatura che darà alla luce – vista come oggetto del soddisfacimento dell’altrui desiderio di genitorialità.

                9. La seconda argomentazione usata per giustificare la liceità dell’accesso alla MS fa leva, come visto, sulla presunta libertà di esercizio del “potere” procreativo, intrinsecamente legato al corpo della donna, da parte della madre gestante, libertà che assurgerebbe in tale pratica a presupposto di emancipazione sociale della medesima. La recente speculazione filosofico-politica, in particolare, ha riflettuto sull’opportunità di considerare la pratica della MS quale nuovo paradigma prestazionale nel bio-lavoro globale. I mercati della riproduzione assistita sono, del resto, in costante crescita a livello globale, come prova il numero sempre maggiore di coppie che, intente a veder realizzato il loro desiderio di genitorialità, ricorre alla fecondazione in vitro come alla MS. Il lavoro clinico, in queste pratiche, sfrutta brevetti che sono tra i più redditizi dell’intera economia post-industriale, ma relega la forza-lavoro coinvolta in tali processi, la madre gestante in particolare, a livelli di inquadramento tra i più bassi e in-formalizzati, livelli che includono e attingono per lo più a classi sociali ed economiche marginalizzate.

                La critica di due autrici, Melinda Cooper                                             e Catherine Waldby,

ha assunto come bersaglio polemico la caratteristica del bio-mercato globale di riprodurre i meccanismi di assoggettamento e soggettivazione che l’economia di stampo capitalista ha dimostrato di alimentare e perpetuare. Con il sistema del bio-lavoro globale, cioè, l’alienazione umana prodotta dal capitale non sparisce affatto, ma si trasforma: l’investimento si privatizza nella figura dell’imprenditrice di sé stessa, ora impegnata nella valorizzazione della sua persona per mezzo dello sfruttamento di parti del suo corpo. La proprietà del brevetto da parte delle cliniche, poi, del lavoro cioè non fisico ma intellettuale, garantisce il ritorno di un profitto che, lungi dall’essere socializzato, appare privatizzato, esclusivo, speculativo. Insomma l’economa dei corpi ha portato alla creazione di cornici disciplinari e governamentali che riproducono meccanismi di s-oggettivazione nuovi, perché basati su elementi di assoggettamento bio-politico inediti, quali appunto l’ordine della salute, della privacy, dei ruoli di genere e delle strutture etero-normative in cui siamo immersi.

Una simile impostazione critica, postula, anche se non menziona, il dramma di una cultura antropologica nuova, che punta sempre più a normalizzare i processi di separazione simbolico-culturale e pratico-effettuale tra la donna e la sua capacità riproduttiva, legittimando letture riduzionistiche che, attentando alla sua dignità, alimentano forme sempre nuove di schiavitù, di assoggettamento, il superamento delle quali passa necessariamente per la riabilitazione di una visione che riproponga il dato dell’incommerciabilità ed inalienabilità di alcune funzioni propriamente femminili, oltre che autenticamente umane, quali quelle sessuali e riproduttive. Uno sguardo integrale rivolto alla condizione ontologica della donna, ci introduce al mistero di un’unità profonda tra la sua corporeità, la sua sessualità e la sua capacità generativa. Ogni tentativo di separare queste dimensioni, favorendo l’assolutizzazione di una di esse a scapito delle altre, sarebbe causa di forzature strumentalizzanti che attentano alla sua dignità.

10. La terza ed ultima obiezione, inerisce alla possibilità che la madre gestante giustifichi la sua adesione ad un accordo di surrogazione con l’intenzione di voler corrispondere al desiderio genitoriale della coppia committente. È forse il caso di soffermarsi a considerare più da vicino la fisionomia di questo desiderio, che sembra implicare dinamiche di razionalità ed affettività che il ricorso alla tecnica e il prevalere dell’emotività hanno radicalmente pervertito. Il corto circuito dipende dal fare della paternità e della maternità essenzialmente un progetto della ragione, la realizzazione di una volontà libera, di un desiderio mero di genitorialità appunto, realizzabile attraverso una serie di atti ed espedienti tecnici in sequenza, da considerarsi quali altrettanti steps in vista del conseguimento del risultato atteso. È questa la mentalità spesso sottesa allo stesso desiderio di genitorialità, ad oggi sempre più vissuto come portato emozionale di un non meglio definito timore della diversità a causa di una mancanza – in questo caso di un figlio – o come supporto prospettico ad una relazione di coppia che difetta dei numeri necessari a rimanere in piedi e a camminare da sola, o ancora come volontà di riscatto e prevaricazione contro limiti che, posti dalla natura, sono scambiati per insopportabili tare culturali. L’emotività autoreferenziale di questa volontà di omologazione spesso fonda un desiderio di genitorialità che, potendo contare on demand sul potere prometeico delle tecnica, ripropone il corto circuito di una narrazione che non riuscendo più a scorgere i nessi profondi tra i poli di sessualità ed affettività, di concepimento e generazione, di maternità e femminilità, di capacità generativa e dignità, pensa di poterli porre, scomporre, ricomporre, eventualmente deporre, ad nutum, incurante del fatto che l’identità di ogni soggetto è plasmata all’interno di necessari legami di generazione e riconoscimento.

                Introdurre logiche di corresponsione economica, logiche di scambio, di reciprocità valutabili, all’interno di tali dinamiche significa obbedire ad impulsi ispirati da una progettualità puramente autoreferenziale, soggettivista, sostanzialmente dimentica del fatto che la relazione tra soggettività ugualmente libere e degne non può essere resa asimmetrica da condizionamenti imposti iniquamente, sfruttando cioè posizioni di predominio che sempre finiscono col generare prevaricazioni, inautenticità, assoggettamenti. E questo sembra essere esattamente il caso del desiderio di genitorialità sotteso alla pratica della MS, solidale e non, dove i desideri personali ordiscono prevaricazioni ai danni dei più deboli e i singoli processi di soggettivazione, originati da preesistenti asimmetrie relazionali, producono stigmi esistenziali che segneranno per sempre la vita dei soggetti in essa coinvolti. Nella costellazione fatta di femminilità, maternità, generazione, famiglia, nella quale la pratica della MS ci proietta, si avverte la sistematica assenza dell’attenzione sensibile all’altro, l’algida freddezza di un proceduralismo bio-medico e tecnico che impone l’abdicazione cosciente al darsi conto della presenza dell’altro. Nella pratica della MS si assiste, cioè, ad un’interazione monadica tra le parti, che innesca un’accurata profilassi emotiva del vissuto altrui, presupposto irrinunciabile dell’efficacia disgregativa che è chiamata ad operare tra soggettività distinte, eppure rese prossime dalla profondità di legami biologici destinati ad essere soppiantati dall’artificialità dei vincoli giuridici.

                La descritta esclusione della ragione empatica, l’adesione inopinata a modelli etici ispirati ad un emotivismo soggettivista, l’assunzione di una cornice di riferimento meta-morale di stampo utilitarista, funzionalista, edonista, come denunciato in apertura del presente contributo, annichiliscono il portato umano delle relazioni presenti nella pratica della MS, inaridendo la capacità di tutti i soggetti coinvolti di penetrazione introspettiva. Nella pratica della MS, l’assenza di uno sguardo empatico tra i soggetti coinvolti genera cioè lacerazioni – tra madre gestante e bambino; tra madre gestante e coppia committente; tra questi soggetti e gli eventuali donatori esterni di gameti – che, occultate dai successi rivendicati dall’efficientismo della tecnica, ammantano di normalità pratiche di prevaricazione e assoggettamento, reificazione e spersonalizzazione, generando logiche inumane di sfruttamento e strumentalizzazione. Né pare che questi rischi possano essere evitati, scongiurati, superati per mezzo di norme giuridiche più stringenti, le quali, per un lato finirebbero con l’assicurare la mera coercibilità di molte prestazioni incluse negli odierni contratti di surrogazione e ad oggi non esigibili (si pensi, ad esempio, all’obbligo di abortire feti malformati, o di consegnare il feto appena nato in ogni caso, anche quando la madre abbia maturato una scelta differente), per un altro lato offrirebbero una cornice legale di protezione e tutela giuridica e giudiziaria a quanti commettono abusi, vessazioni, prevaricazioni in danno delle parti contrattualmente più deboli, ossia la madre gestante e il feto appunto.

Antonio Casciano                            Centro Studi Livatino     8 giugno 2023

www.centrostudilivatino.it/maternita-surrogata-altruismo-gratuita-solidarieta

OMOFILIA

L’omosessualità, il corpo e il cristianesimo

Intervento introduttivo di Marta Ghezzi all’incontro-dibattito su

“Se Cristianesimo e Omoaffettività comunicano” (Pavia, 3 giugno 2023)

Sono felice di continuare il percorso del Circolo Teodolinda nell’ambito del programma culturale della Socrem, affrontando un altro tema sensibile, complesso, che richiede ascolto, studio, approfondimento e dialogo tra diversi punti di vista (filosofico, teologico, politico). Dopo aver affrontato il tema dell’eutanasia oggi affrontiamo il tema dell’omosessualità, dei diversi orientamenti sessuali e affettivi e del diritto all’affettività, in qualsiasi forma. Chi siamo noi per giudicare ?

                Lo facciamo con due testimoni che hanno fatto coming out e che appartengono da cristiani a chiese diverse, quella cattolica e quella metodista, Emanuele Macca e Emanuele Crociani con 2 studiosi, Don Gian Luca Carrega della Diocesi di Torino e la pastora valdese Daniela Di Carlo .

                Le quattro persone che ci parleranno oggi sono titolate a farlo sia per esperienza che per studio teologico. Io, come persona eterosessuale per le radici culturali (che non esclude di essere potenzialmente omosessuale) mi permetto di fare alcune riflessioni preliminari : ho preso spunto da alcune teologhe cattoliche e protestanti femministe, da scrittrici e giornaliste.

L’omosessualità è una condizione naturale che esiste da sempre nel mondo animale e umano, nella vita comune di tutti noi. È presente sia tra i prelati che tra i fedeli, sia tra i potenti che tra gli ultimi. Quando si rigetta la propria omosessualità interna si tratta di rapporti di potere. Non riguarda solo la scelta erotica di molti cittadini ma una parte importante, insostituibile, di tutte le relazioni erotiche e affettive. Non si può essere eterosessuali in modo appagante senza una componente omosessuale. Desiderare il proprio sesso è condizione necessaria per conoscere il suo valore erotico, per capire cosa desidera l’altro sesso in noi. Ciò vale anche per gli omosessuali che non sono compiuti senza una componente eterosessuale.

                Del resto l’amicizia tra persone dello stesso sesso può essere considerata un’omosessualità sublimata. Quando si erigono muri e ostracismi tra eterosessuali e omosessuali sia all’interno che all’esterno di noi, ci sono guai per tutti. I muri hanno a che fare con le congiunture socio economiche, il contesto storico culturale, la configurazione del potere politico, l’incidenza del potere secolare delle religioni.

                Più grande è la disuguaglianza, più sono immiserite le relazioni di scambio, più la cultura si chiude in sistemi dogmatici, più prevale l’organizzazione piramidale e autoritaria della società, più la repressione si intensifica, anche quando in forma nascosta la si ammette. L’omosessualità può vivere nel buio ma non essere esibita. E questo è ipocrisia allo stato puro. L’aggressione all’omosessualità nasce dalla paura dell’omosessualità psichica, individuale e collettiva che comporta il desiderio per l’altro simile, familiare ed è una cerniera tra il narcisismo e l’investimento dell’alterità.

Più il narcisismo di morte, il rifiuto dell’alterità è dominante più l’attacco all’omosessualità è un atto dovuto. Per questo è interessante scandagliare il punto di vista religioso, teologico partendo dal presupposto che l’omosessualità non è un peccato e che l’orientamento affettivo e sessuale deve essere esercitato liberamente, senza discriminazioni e repressioni. Non solo perdonato, ma ammesso alla luce del sole.

                Come sottolinea la teologa femminista, monaca benedettina, catalana Teresa Forcades, nella visione biblica e cristiana non c’è spazio per il dualismo tra corpo e anima, tra mondo materiale e mondo spirituale. C’è una visione sbagliata antica, segnata dalla paura e dal sospetto nei confronti del corpo seduttore e peccatore (e quindi oggetto di penitenza). Ma anche la visione contemporanea di un corpo ridotto a oggetto di desiderio, discriminato, sfruttato e controllato non è accettabile. Nel suo libro “Il corpo, gioia di Dio”, Teresa Forcades tratta la materia come spazio d’incontro tra il divino e l’umano. Il cristianesimo non deve disprezzare il corpo ma onorarlo come principio dell’individualità senza cui l’anima non raggiunge la sua pienezza.

                Michela Murgia nel suo libro “God save the queer“ affronta questa antinomia e mostra come la pratica della soglia, la queerness sia una pratica cristologica. Occorre riconoscere che il confine non ci circonda ma ci attraversa, uno spazio fecondo, un potenziale vitale e non una contraddizione.

Innocenzo          Gionata                               7 giugno 2023

www.gionata.org/lomosessualita-il-corpo-e-il-cristianesimo

PROFETI

Chiesa e potere

 dom Giovanni Battista (Mario) Franzoni α1928- ω2017, teologo e scrittore

Il discorso che vogliamo fare questa sera, “Chiesa e Potere”, è estremamente importante in quanto, nell’attuale processo di riappropriazione della dimensione della società che le classi marginali dipendenti stanno conducendo nel loro processo storico, esse si vengono sovente a incontrare in contraddizione proprio con certe strutture che si rifanno al Vangelo volendo perseguire uno stato di liberazione, un messaggio di responsabilizzazione, e questo sorprende ed amareggia. Tante volte si è potuto verificare che certi atteggiamenti da un lato tradiscono il messaggio stesso cristiano, dall’altro costruiscono un supporto, un vero e proprio regalo al potere delle classi dominanti.

                È importante tenere conto di questi meccanismi perché non vanno considerati un fatto mostruoso ed esterno a noi ma noi stessi ne prendiamo parte. Questo scoprire è dentro di noi, è dentro il processo storico scoprire quali sono stati i passi falsi, quali sono state le deviazioni che hanno causato questa situazione.

                Potremmo dire che la strategia di fondo che sta a monte del potere delle classi che esercitano una egemonia sulla società è di carattere anzitutto persuasorio e perbenistico; indica cioè il fatto che fin dalla nascita gli uomini non siano tutti uguali ma hanno di fronte a loro dei percorsi, delle carriere differenziate a seconda di dove nascono, sia geograficamente che sociologicamente.

                Questo di per sé è inaccettabile, quindi la possibilità di ereditare dalle generazioni precedenti o dalla loro situazione dei privilegi per cui questa concorrenza che c’è nella nostra società è un principio non valido e trasforma la vita in una specie di giungla nella quale gli uomini non danno certo il meglio di sé stessi ma mostrano la loro spregiudicatezza, la loro durezza che li rende sempre più violenti.

                Ma, fra l’altro, questa competizione che ci fa dire che la vita è bella perché competitiva, in realtà non è così divertente: se uno la potesse vedere dall’esterno, sarebbe come andare a guardare allo stadio una corsa di 80 metri nella quale ci sono alcuni che partono 20 metri prima e altri 20 metri dopo, oppure andare allo stadio a vedere una partita di calcio in cui da una parte ci stanno undici giocatori e dall’altra parte sei. Sarebbe uno spettacolo ridicolo. Ora questa competizione della vita, nella quale un bambino che nasce nella casa di un proletario ha in mano forse la decima parte della possibilità, o forse anche meno, rispetto a chi nasce da una famiglia di un professionista, rende impossibile concepire la scuola come una cosa nella quale possa vincere il migliore.

                Per esempio, quando nasce un bambino da una famiglia di emigranti siciliani a Torino, inizia a vivere con una quantità di difficoltà: parla siciliano, ma appena esce fuori incontra altri ragazzi che parlano piemontese; a scuola la maestra dice di parlare italiano e segna in blu quando sbaglia; questo bambino potrebbe avere le stesse possibilità di un figlio di professionista che gli sta accanto al banco e che sente a casa parlare italiano e quando sbaglia c’è papà e mamma che lo possono aiutare e se andasse male potrebbero pagare per le ripetizioni?

Direi che queste cose che sto dicendo sono talmente ovvie, che uno si domanda come sia possibile che questa stratificazione, questa società organizzata in classi, questa possibilità di usufruire di privilegi che sfrutta masse enormi possa sussistere. E qui è stata la grande capacità delle classi egemoni che esercitano un controllo sociale attraverso due momenti fondamentali: la persuasione e la repressione per coloro che non accettano con la persuasione l’attuale assetto socio politico. La prima strada è quella della persuasione. Abbiamo un esempio: forse ricordate senz’altro, quando abbiamo studiato la storia di Roma, il primo comizio fascista, o per lo meno reazionario, quando la plebe romana si accorse di essere sfruttata e un giorno decise di incrociare le braccia. Succede sempre che i plebei sono più assuefatti all’aver fame, e quindi scioperavano, perché sentono il disagio della loro situazione e invece i patrizi, più accorti e responsabili nei confronti della società, dicevano “se smettono di lavorare noi che ci mangiamo?”

                Immaginiamo un corpo umano nel quale le braccia e le gambe si affaticano, perché si muovono mentre lo stomaco e gli organi nobili del corpo accumulano cibo e si fanno servire… Incrociando le braccia, smettiamo di lavorare (pensano le braccia e le gambe) e vedremo un po’ come si mettono le cose. E in effetti così fecero, e lo stomaco cominciò a languire perché non entrava più cibo in quanto le braccia avevano smesso di lavorare e quindi per i primi giorni le cose andarono bene: le braccia tutte contente, le gambe tutte contente. Ma cosa successe dopo un po’ di giorni? Successe che la debolezza che veniva dallo stomaco si propagò per tutto il corpo e anche le braccia si sentivano deboli e le gambe cominciavano a tremare e allora si accorsero che lo stomaco e gli organi centrali, pur senza lavorare direttamente, però espletavano una funzione importantissima.

                Questi plebei romani che non avevano chi gli facesse una analisi razionale, qualcuno che gli desse una mano per capire questo marchingegno, abboccarono e tornarono a lavorare. Dove sta l’errore? Dove sta l’imbroglio? In realtà è vero che un organismo sociale ha bisogno di darsi determinate funzioni, ruoli diversi, ma non è affatto vero che questi ruoli devono essere fissi e che certi devono avere sempre, arbitrariamente e per nascita, un ruolo subalterno e certi altri devono avere sempre un ruolo egemone. Quindi nel momento in cui l’aristocrazia fece balenare di fronte agli occhi della plebe, non tanto la crisi di quell’assetto sociale, ma la crisi di ogni possibile assetto sociale, fece vedere davanti a loro il baratro, l’abisso, il caos e, sotto questo profilo, la plebe venne ricondotta all’obbedienza e alla sudditanza.

                Direi che questo metodo è normale e si è protratto per secoli, per millenni. Per millenni gli uomini accettarono questa loro situazione e accettarono di mettersi in riga. Naturalmente i metodi persuasivi si sono affinati, a seconda delle spinte che sono venute da parte dei lavoratori, da parte del proletariato, e comunque questi accettano di mettersi in fila nella rincorsa al successo, al benessere, alla libertà della vita; ecco cercano di mettersi in fila cercando in qualche modo di raggiungere una posizione migliore se non eccellente in questa società che è data come unica possibile. La mistificazione è sempre questa: si va a scuola e non si impara la storia, ma si impara la storia delle classi dominanti, ad esempio la storia delle battaglie di Napoleone; e questa è la mistificazione fondamentale.

                La lotta delle classi operaie per portare la giornata da 18 a 14 ore che hanno fatto i minatori in Germania, la lotta dei tessili inglesi o dei braccianti siciliani, questo non fa storia, quello che fa storia sarebbe quello per cui tu prendi una bocciatura e non sei maturo per andare avanti; si deve assimilare la storia che è una storia delle classi dominanti. La geografia che ti propina l’ideologia delle “capitali”, per cui tu devi sapere, ad esempio, che Roma si identifica con il Colosseo, con Piazza S. Pietro, con determinati monumenti, e non che è anche una città in cui abitano degli uomini, dei lavoratori che vivono e devono avere dei rapporti comunitari fra di loro, che hanno dei figli che hanno bisogno di servizi. Uno studia la geografia, imparando a conoscere le capitali. E attraverso questo passa una determinata ideologia.

                Perfino l’aritmetica appare una cosa neutrale ma secondo me neanche l’aritmetica è neutrale perché, quando un bambino studia che un ortolano compra le mele a 100 lire al chilo e le vende a 200 e gli si chiede “quanto guadagna?”, evidentemente già passa una determinata ideologia che intorno a una operazione di questo genere ci possa essere un profitto privato. Sulla qual cosa non si pone nessun dubbio. L’importante che si impari a fare, per esempio, le sottrazioni, quindi voi immaginate l’operaio con un problema di questo tipo: un operaio prende 180 mila lire al mese, paga di affitto 60 mila lire al mese. Gliene servono per vivere 80 mila lire. Se voi date problemi di questo genere al bambino, quando va a casa il padre dà un’occhiata e dice “guardi signora maestra io non ne prendo 180 ma ne prendo 150 e poi non pago 60 di affitto ma 85 più il condominio, quanto poi ai generi alimentari del supermercato… eccetera. In questo modo il bambino imparerebbe ugualmente a fare le somme e le sottrazioni ma avrebbe gli agganci con la vita reale.

                Almeno ai tempi miei era così, ma credo che non sia cambiato molto, perché vi sono ancora dei riferimenti che sono del tutto irreali. In definitiva la scuola fa questa opera di distrazione dalla realtà, ma non solo la scuola. Si vuole che il servizio militare alla patria si svolga separandosi per un periodo notevolissimo dalle lotte e dai problemi della propria società, che per un certo periodo uno non faccia politica, perché serve la patria imparando a usare le armi e c’è da sperare soltanto che non verranno mai usate; così anche qui passa, sotto, sotto, una determinata ideologia che è funzionale all’assetto attuale e quindi c’è tutto un sistema che consente di trasmettere, fin da bambini, un senso di immutabilità, di impossibilità a concepire qualche cosa di diverso. Mentre si scatena l’altra possibilità che attraverso uno studio molto applicato, un lavoro molto responsabile e cosciente, attraverso l’obbedienza e nel farsi veramente stimare prima dagli insegnanti, poi dai vicini, prima dal parroco, poi finalmente dal datore di lavoro e così via, allora potrai diventare in questo sistema caporale, caporal maggiore e forse anche dirigente e in questo modo passa quest’altro tipo di discorso.

                Entra nella trafila con gli altri, non ribellarti, obbedisci, caccia via dalla testa fantasie, come il poter ipotizzare un assetto sociale diverso e allora vedrai che le tue possibilità aumenteranno fino a raggiungere l’obiettivo mitico, famoso negli Stati Uniti, della società talmente libera e perfetta, nel quale il bambino che da piccolo a piedi nudi ha cominciato a vendere giornali è diventato poi il re della carta stampata, il grande miliardario. Naturalmente quanti milioni di bambini devono lustrare scarpe e andare a vendere i giornali finché non ne esce uno che diventa ricco? La stessa logica del totocalcio: c’è uno solo che vince sempre, che è quello che gestisce la lotteria.

                Questa diciamo è l’alternativa fasulla che viene presentata soprattutto in una società tipo come la nostra nella quale, astrattamente parlando, tutti i cittadini sono uguali; astrattamente parlando perfino il figlio del bracciante pugliese può diventare presidente della Repubblica; da nessuna parte c’è scritto il contrario, non c’è una legge che discrimina da questa possibilità, dall’accesso a questo ruolo. La beffa più grande è quando per combinazione, un figlio di braccianti, dopo essersi dovuto ficcare in questa trafila, dopo aver accettato questo, diventa effettivamente onorevole o papa o presidente della repubblica. In realtà non farebbe altro che confermare questa ideologia e quindi compirebbe un disservizio nei confronti della classe di provenienza. Se poi, nonostante tutto questo, la classe dominante non riuscisse a persuadere le persone a mettersi in fila, abbiamo una serie di metodi repressivi che iniziano fin da bambini.

                Il bambino che non accetta la comunità del gruppo genitoriale deve subire la delusione dei genitori e del parentato che dicono: “che sarà di questo bambino? non avrà la stima degli altri… è un bambino cattivo… è un ribelle… non si allinea e domani non avrà un posto sicuro”. L’azione educativa consiste nel disarmarlo, integrarlo nel sistema vigente. Lo stesso può succedere nella repressione che si scatena nella scuola, oltre a presentare, con questo tipo di visuale, che l’attuale società è l’unica possibile. Se uno poi uscisse da quel tipo di cultura, rifiutasse in modo irrazionale, in modo individualistico qualcosa, verrebbe colpito dalla sanzione, avrebbe il brutto voto, forse la bocciatura e così via. Si direbbe: “Questo non è adatto per la scuola. Non è adatto, è bene che vada a fare quello che faceva suo padre”.

                E poi ci sono altre forme di repressione. Via, via che uno esce da questo allineamento, aumentano le possibilità che vada a finire nel carcere minorile, che vada a essere depositato nei ghetti del sottoproletariato, che vada a finire ai margini della società quali sono le carceri e i manicomi. A questo punto si chiude il cerchio e quando uno è caduto ben bene nella fossa, dopo essersi ribellato, subentra l’assistenza e la beneficienza che si salda al discorso della persuasione; cioè questa società che ha discriminato e ha falciato coloro che non accettavano la norma della classe dominante, si china, misericordiosa, sul carcerato, sull’afflitto, sull’emarginato e sul ricoverato in manicomio e lo assiste; lo assiste con la visita, lo assiste con la beneficienza e in questo modo mostra: “vedete come siamo buoni!”, e chi ne può dubitare? E tutte queste cose, in certi momenti, anche recentemente o qualche decennio fa, sono trasformate in ideologie.

Allora direte: “perché ci hai raccontato questa storia?” Perché io volevo domandarvi: dove sta la Chiesa in questo meccanismo? I discepoli di Cristo che fu un emarginato, un ribelle, uno che portò un messaggio profetico che non era certamente funzionale al potere delle classi dominanti di quell’epoca, fu respinto a causa del suo tipo di lettura della parola della Bibbia, che era il libro sul quale ci si confrontava in quel tempo; fu respinto dalla classe culturale degli scribi, detentori della chiave di una porta che, diceva Gesù, non faceva oltrepassare dagli altri; fu respinta la predicazione di Cristo e il suo tipo di comportamento etico e morale; fu respinta dai farisei che erano i detentori del modello morale, erano i perfetti, i ligi, gli osservanti della legge, coloro che in ogni cosa manifestavano lo scrupolo estremo.

                E lui portava una diversa interpretazione della parola di Dio, visto che diceva che non era l’uomo fatto per il sabato ma era il sabato fatto per l’uomo, e che per lui era importante non tanto la purezza materiale, la purezza legale del non toccare questo oggetto, non toccare quella persona, ma l’importante era instaurare dei rapporti umani, di solidarietà, di riconoscibilità tra uomo e uomo, tra uomo e donna. Questo è importante. E quindi frequentava e parlava anche con le prostitute, con le peccatrici, con i pubblicani, con i samaritani, con i lebbrosi, con tutte quelle persone che nel sistema sociale di quell’epoca, esistevano, potevano esistere e in fondo erano anche accettati, ma purché ciascuno rimanesse al proprio posto; perché se la prostituta sta sul suo marciapiede con il suo fuocherello accanto, tutto sommato assolve la sua funzione sociale, ma se la prostituta va nel banchetto in cui un rabbi è ospite di un fariseo e c’è tutto intorno un insieme di persone a godersi questo ospite succulento e d’onore, e la peccatrice va lì a toccarlo, baciarlo, a cercare un rapporto con lui, tutto a un tratto la sua situazione non è più accettata.

                Il pubblicano assolve una funzione del sistema economico del tempo, è un esattore delle tasse, colui che accetta di sporcarsi, di rendersi impuro toccando animali e cose impure e, soprattutto, esercitando una funzione in favore dei romani; quindi i pubblicani sono antipatici, sono emarginati, ma tutto sommato assolvono, se restano al loro posto, alla loro funzione; ma nel momento in cui Gesù va a mangiare da Zaccheo il pubblicano e fa un banchetto con lui e i suoi, ribalta questa situazione; e racconta che un pubblicano andò a pregare nella sinagoga o nel tempio e, siccome si rese conto di certe sue malversazioni, ne uscì puro mentre un fariseo che stava lì a testa alta a vantarsi di una sua perfezione, ne uscì con i suoi peccati.

                Gesù che, in modo così provocatorio, ribaltava l’assetto sociale del suo tempo, non piacque ai farisei come non piacque ai sadducei, come non piacque ai sommi sacerdoti, perché non mise al centro dei suoi discorsi e dei suoi comportamenti il punto di aggregazione per il regno dei cieli e l’adempimento delle promesse messianiche che tutti attendevano; non lo mise nella restaurazione del tempio ma lo mise nell’uomo.

                «È venuto il tempo in cui Dio non sarà più adorato nel tempio fatto dall’uomo, ma avrà adoratori in spirito e verità», «Distruggete questo tempio. io lo edificherò in tre giorni» e alludeva al suo corpo spezzato e dato, condiviso, a una vita condivisa con altri uomini. Sarà questo il nuovo punto di aggregazione degli uomini, là dove sono gli affamati, gli assetati, i bastonati dalla vita, dove sono gli oppressi e gli sfruttati, non più nel tempio. Quando l’uomo contrae il peccato, non sarà più a contrarre il peccato in mezzo agli altri uomini per poi andare a purificarsi, a lavarsi nel tempio. Come è possibile pagare la colpa fatta verso suo fratello portando l’elemosina al tempio? «Lascia il tuo dono all’altare, vai a riconciliarti con tuo fratello, smetti di opprimerlo e solo così tu potrai tornare ad onorare Dio». E vedete bene che questo atteggiamento svuotava il tempio e mandava in pensione la casta sacerdotale, una casta separata che non aveva più nulla da fare, e riconduceva tutti gli uomini a misurarsi sulla dimensione umana. Ed è per questo che la sua ribellione disarmata lo portò a fare la fine degli inermi, degli oppressi, perché se non hai alleanze le classi dominanti si vendicano e quindi Gesù andò a finire in mezzo agli altri malfattori sulla croce.

                Allora noi ci immagineremmo che questo messaggio consegnato ai suoi discepoli, nella società di cui parlavo prima che cerca il controllo sociale accaparrandosi il consenso attraverso sistemi persuasori, e attraverso una costante riflessione di coloro che rifiutano la norma attraverso la persuasione, noi ci immagineremmo ad ogni passaggio della vita, che nella comunità ecclesiale, nella scuola, nel carcere, ovunque, il colpito, l’oppresso, lo sfruttato, l’emarginato si venisse a trovare almeno in compagnia di Gesù Cristo. Si trovasse almeno accanto a questo crocifisso, morto come lui, per non aver accettato supinamente e acriticamente di obbedire alle autorità umane mentre sentiva di obbedire ulteriormente alla volontà del Padre che chiede prepotentemente giustizia e verità. Invece no. Invece il calpestato, l’oppresso si trova Gesù dall’altra parte, non perché ci stia, ma perché ci sta la sua immagine, la sua effige, il crocifisso, la statuina se la trova sempre dall’altra parte.

                Quindi quando è bambino si trova Gesù Bambino dalla parte dei genitori, e quindi passa il principio di autorità, che io non voglio negare globalmente, per carità! ma viene consolidato e sacralizzato anche in aspetti effimeri perché in certi giorni il bambino ha diritto di ribellarsi, di sporcarsi. E così a scuola di nuovo si dice “Gesù Bambino piange, l’angelo piange” se non ubbidisce, se non fa i compiti, se non ti allinei con gli altri e così via fino a che in Tribunale se lo troverà appeso sopra la testa del Giudice, per cui, innocente o colpevole che sia, in ogni caso Gesù Cristo sta con i Giudici in questo mondo e non sta dalla parte dell’imputato; è questa, che io non oso chiamare altro che aberrazione, tradimento di Gesù Cristo, contro la quale noi ci dobbiamo ribellare. Proseguendo le analisi (poi chiudo perché vorrei dare spazio a un po’ di dibattito), vorrei fare alcuni esempi concreti di come, attraverso un messaggio di fede liberante, che viene di per sé presentato con una immagine seducente, per la quale ci battiamo e che vogliamo riconquistare, riappropriandoci della carica liberante del Vangelo, venga invece nascosta questa esca dell’amo pericolosa: l’ideologia delle classi dominanti che passa.

                Un primo concetto è la cognizione di salvezza, l’altro è quello dell’obbedienza e poi vorrei un po’ parlare di come l’immagine della Madonna viene anche presentata, vista l’attuale condizione della donna.

                La salvezza: quando si dice l’importante è salvarsi l’anima, si pensa che la salvezza sia dopo la morte, che sia un premio congelato al di là della vita per cui uno sta in questa valle di lacrime cercando di sporcarsi il meno possibile, di fare il meno possibile per non peccare, perché più fai e più corri il rischio di sbagliare, quindi si cerca di ficcare la testa nelle spalle e passare il più presto possibile questo tunnel buio, questa valle di lacrime, perché l’unica cosa che vale sta dopo, nell’al di là. Ecco a me viene in mente, ritornando all’immagine sulla scuola, un bambino, uno studente che detesti la scuola, che non gli piacciano la scuola e le materie di insegnamento, né i compagni, tuttavia studia moltissimo soltanto perché sogna per tutto l’anno il giorno in cui il Direttore didattico gli appunterà la medaglia al petto e tutti gli batteranno le mani. Questa è l’immagine dell’alienazione: cioè non vivere per avere il premio.

                Ora è questa l’immagine di salvezza che passa attraverso il Vangelo? Veramente no. Più e più volte Gesù ha detto alle persone e a chi lo incontrava: “la tua fede ti ha salvato”. Ecco l’unico caso diverso è quello del così detto Buon ladrone, quando era in punto di morte, e Gesù gli ha detto “oggi sarai con me in paradiso”; ma questo è un segno ben preciso, indica che l’uomo, in qualsiasi momento della sua vita, anche quando sembra perduto agli occhi di tutti, ha sempre davanti a sé tutta la salvezza, tutta la speranza, tutta la vita. Ma di per sé ha detto altre 100, 1.000, o chissà quante altre volte a delle persone, “la tua fede ti ha salvato”, non intendendo per questo, “ecco per te ho messo da parte un premio”, ma intendendo che da questo momento per te incomincia una nuova vita, perché ti ha salvato la tua vita, perché tu hai voltato le spalle al tuo individualismo, al tuo egoismo, alla tua condizione di peccato e stai decidendo di vivere, di essere con gli altri , stai decidendo di amare, stai decidendo di condividere e perciò sei un santo. E quindi quando Gesù parla di salvezza non intende tanto la guarigione da una malattia, perché un paralitico ha riacquistato la mobilità, per cui un lebbroso è guarito, non è questo. Certo Gesù ascolta il grido dell’uomo, non dice al lebbroso, all’emarginato, alla peccatrice “io ignoro la vostra condizione”, la salvezza è là, Gesù scende in quella condizione e quindi parte dal problema della lebbra, del paralitico, dell’emarginato, non solo per fermarsi alla soluzione di quel problema perché, anche se ha risuscitato Lazzaro, poi Lazzaro è morto di nuovo, quindi non credo che Gesù sia venuto per fare resuscitare i morti e per guarire i cechi e i sordi.

                Non è venuto per raddrizzare le gambe alla natura attraverso dei segni, attraverso il fatto che deboli e morti potessero risorgere; attraverso questo si indicava qualche cosa che era poi in definitiva la vita che può risorgere. Mi sembra abbastanza indicativo l’episodio dei 10 lebbrosi. Ci sono 10 lebbrosi che si avvicinano al Signore. Bisogna anche dire che nel tempo non è che ci fosse una diagnosi ben precisa della malattia: uno aveva delle macchie e allora pensavano che avesse la lebbra; ma non risultava con chiarezza che fosse guarito, allora si presentavano ai magistrati che erano i sacerdoti. E questa dinamica Gesù la segue: questi 10 lebbrosi chiedono di essere guariti, Gesù dice “andate, presentatevi ai magistrati”. Infatti loro si accorgono strada facendo che in realtà queste macchie non ci sono più, allora succede una cosa stranissima: in nove di questi, tanto contenti della guarigione, se ne vanno per i fatti loro mentre uno di questi disobbedisce materialmente non va a presentarsi ai sacerdoti ma corre immediatamente indietro perché è tutto pervaso di esperienza nuova, di gioia, di gratitudine; e allora Gesù a questo dice “la tua fede ti ha salvato”, il che non significa che tu sei guarito dalla lebbra; io non posso pensare che Gesù agli altri 9 dica non siete venuti a ringraziare adesso vi torna la lebbra e così imparate la gratitudine, penso che gli altri 9 sono dei guariti dalla lebbra, il che è una cosa molto importante, ma relativa in fondo. Questo decimo non è solo un guarito dalla lebbra è uno nel quale Dio non è passato invano, è uno del quale la provocazione a vivere è andata al di là della provocazione di guarire da questa malattia, è quindi uno capace di fare cose nuove, di essere quella nuova creatura di cui parlerà più tardi San Paolo nelle sue lettere.

                E allora lui veramente è un saggio, gli altri sono solo dei guariti dalla lebbra, lui è un saggio; se c’è qualcuno al quale non importerebbe più della lebbra di fronte alla grandezza dell’esperienza che Dio è passato dalla propria vita, questo è il decimo lebbroso. Non sono un esegeta raffinato posso anche sbagliare, però io penso che se entrasse Dio nella mia vita, seppure nella stretta, angusta porta in cui una volta, in un momento di debolezza, lo pregassi perché mi passasse una malattia e da quel momento io mi accorgessi che Dio veramente si è chinato su di me, si è accorto di me e mi ha ascoltato, da quel momento direi: non mi importa più niente, questo tuo segno di attenzione per me è tutto. Che mi importa, del mal di testa o della malattia. È molto più importante questo segno di attenzione su di me. Questo secondo me io penso che sia la salvezza. La capacità di essere uomo nuovo.

                Zaccheo per esempio; ricordate la storiella di Zaccheo in mezzo alla folla? Sale sull’albero e cerca di vedere Gesù. E si accorge di questo uomo che era un notabile della città, il capo dei pubblicani che si espone in ridicolo arrampicandosi su un albero. E Gesù non ha esitazioni: “presto scendi, oggi mangerò a casa tua”. Instaura un rapporto di cordialità, non gli dice “ehi tu peccatore, strozzino che succhi il sangue degli altri è venuta la tua ora o ti converti o ti lascio lì per sempre” no dice: “scendi, oggi mangerò a casa tua”, come fa d’altra parte con tutti. Instaura un rapporto conviviale, poi non sappiamo se gli ha detto qualcosa; Zaccheo ha capito, non ha avuto bisogno che gli dicesse niente; noi sappiamo solo che da quel momento il popolo si divide. Fuori dalla casa di Zaccheo ci sono i benpensanti, ci sono i farisei che dicono “non può essere profeta costui perché mangia con i peccatori”, dentro invece succede il prodigio, la resurrezione. Zaccheo che dice “ecco Signore la metà dei miei beni la do ai poveri e se ho depredato qualcuno restituisco quattro volte tanto”. Quindi qui abbiamo, non il paradiso un domani, ma ci sarà la salvezza subito.

                Su questo vorrei insistere, non c’è una predicazione di rassegnazione, l’accettazione dell’ingiustizia; la misura della conversione è data dalla capacità di dire: dove ieri c’era il peccato, dove ieri c’era lo strozzinaggio, dove ieri c’era l’oppressione del fratello, oggi, con quegli stessi strumenti invece c’è la comunione col fratello, c’è ristabilire il rapporto di crescita e di comunicazione col fratello, quindi quei denari, quei beni terreni che ieri erano da accaparrare oggi servono per instaurare la comunione con gli altri uomini e questo vuol dire essere un uomo nuovo. E allora vedete che la prima immagine di salvezza è deresponsabilizzante perché conduce appunto a disistimare questa vita, questa terra, a disprezzare le cose di questo mondo, a considerare i beni della terra, la terra stessa, l’impegno politico per la giustizia, come cose spregevoli che non contano.

(Concludiamo qui l’intervento di Giovanni Franzoni perché poi la registrazione è parziale e interrotta e le poche parole trascritte non esprimono un significato compiuto).

www.adista.it/articolo/70088

RELIGIONE

Globalizzazione e religioni

La religione dell’io crede solo al denaro ma l’amore e la stima non si comprano

Il modello dei nostri giorni è l’uomo che più guadagna e spende tanto più vale, altrimenti non avremmo stipendi così bassi per gli insegnanti e così alti per gli influencer.

Le religioni, soprattutto il cristianesimo e l’islam, hanno da sempre sognato di globalizzare il mondo riconducendolo alla loro obbedienza, nel frattempo però il mondo è stato globalizzato dall’economia. E il raggiungimento del sogno delle religioni da parte dell’economia ha portato inevitabilmente con sé un nuovo paradigma etico e antropologico, perché nelle menti contemporanee l’economia non è più solo una scienza che analizza la produzione della ricchezza e le altre questioni connesse, non è più per nulla solo una scienza come la fisica, ma, esattamente come la religione, è diventata anche una morale. Di più: è la morale vincente, il modello normativo, il canone. È il vero e proprio Nuovo Testamento della società moderna, il cui trionfo produce la seguente metamorfosi: dalla religione di Dio alla religione dell’Io.

Così l’essere umano globalizzato è passato da homo sapiens a homo faber et consumens: da un essere che poneva la sua qualifica essenziale nel culto e nella cultura, a un essere che la pone nella produzione e nel consumo (passando dal ritenere di vivere per qualcosa più importante di sé , al ritenere che non vi sia nulla più importante di sé ). Per questo il modello ispiratore dei nostri giorni è l’uomo che guadagna e che spende, che tanto più vale quanto più guadagna e più spende, e che, secondo una tendenza sempre più palese, non si cura per nulla della cultura, che anzi irride e disprezza. Se non fosse così, non avremmo un sistema che assegna stipendi poco gratificanti agli insegnanti e ricopre di denaro personaggi equivoci e fatui detti “influencer”, e che assegna in un giorno a un calciatore quello che un medico guadagna in un anno e talora in tutta la vita.

Il vero libro sacro dei nostri giorni, che rende antichi tutti i libri sacri precedenti (della religione, della filosofia, della politica), è il vangelo dell’economia. Tutto infatti, per poter sussistere, deve risultare conforme alla logica economica, è essa il criterio che rende canonico oppure apocrifo ogni aspetto dell’agire umano. Se un evento o un’istituzione non riceve il pollice alzato del responsabile dei conti, proprio come l’imperatore romano con i gladiatori, non sopravvive.

                È giusto che sia così? I conti devono sempre tornare, o talora possono andare? Se i conti devono sempre tornare è perché il denaro ha come fine il denaro; se i conti talora possono andare senza tornare è perché il denaro viene finalizzato a qualcosa di più importante. A cosa? Cos’è più importante del denaro? È più importante del denaro ciò che non può essere acquistato con il denaro. Ovvero il tempo, l’amore, la cultura, la dignità , la stima. Nessuno, per esempio, può comprarsi la stima. Di un essere umano voi potete comprare il tempo, il corpo, le parole, ma non la stima. La stima non è acquistabile, è una libera donazione. Oggi però si pensa che tutto possa essere acquistato con il denaro, che ogni essere umano abbia il suo prezzo e che sia solo questione di individuarlo e di pagare.

Ebbene, in questo orizzonte dove si ritiene che tutti i conti debbano tornare perché il fine del denaro è di produrre altro denaro e tutto può essere comprato con il denaro, il compito della ricerca spirituale è di ricordare che esiste qualcosa che non è in vendita. È di lottare perché gli esseri umani non si appiattiscano diventando “a una sola dimensione”, come preconizzava

    Herbert Marcuse [α1898- ω1979] nel 1964, ma mantengano la loro molteplice stratificazione. Oggi, quando l’economia è diventata una religione, il compito della religione è di ricordare agli esseri umani che “non di solo pane vive l’uomo”. È chiaro che senza pane e senza l’economia che lo produce non c’è vita umana, ma il punto è il fine, lo scopo. Occorre sempre ricordare

 Immanuel Kant e [α1724- ω1804] il suo imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità , sia nella tua sia nell’altrui persona, sempre come fine e mai solo come mezzo”. Quando, rispetto a sé stessi, si agisce come un fine?

   Scipione l’Africano [α238 a.C.- ω183 a.C.] (proprio quello dell’elmo di cui l’Italia “si cinse la testa”) soleva dire: “Mai sono più attivo di quando non faccio nulla”. C’è un’attività che non coincide con l’operatività esteriore e che tuttavia è produttiva. Anzi, conferisce più essere, visto che il condottiero romano continuava: “Mai sono meno solo di quando sono solo con me stesso”. Egli parlava di ciò che definiva “otium”, che in questo caso non è il dolce far niente ma la coltivazione della mente e del cuore. È il lavoro come giardinaggio interiore. Lavorando su di noi infatti compiamo il lavoro più prezioso: quello di vincere la solitudine interiore che ci fa stare male e ci porta a circondarci di persone e di cose, di notizie e di rumori, per la paura di rimanere soli con noi stessi. Questo è il grande lavoro umano degli esseri umani: coltivare la propria interiorità , avere momenti di raccoglimento, praticare ciò che

  Carlo Maria Martini [α1926- ω2012] chiamava “la dimensione contemplativa della vita”.

Non si tratta di agire contro o a dispetto dell’economia, si tratta di conferire a tale scienza, oggi ritenuta assoluta, un criterio superiore. Se ci vogliamo salvare. Dico salvare come esseri umani, senza continuare a distruggere gli ecosistemi del nostro pianeta e senza cadere preda delle macchine umanoidi economicamente molto più performanti e convenienti di noi.

A questo punto però è inevitabile chiedersi: a cosa serve quello che ho detto? Possiamo forse cambiare il sistema economico nel quale siamo immersi? È almeno dal 1848, data del Manifesto del partito comunista di     Marx e Engels, che la filosofia ha cercato di cambiare il sistema economico, ma dopo quasi due secoli da quel poderoso incipit (“Uno spettro s’aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”) il risultato è sotto gli occhi di tutti: lo spettro del comunismo non fa più paura né affascina nessuno, mentre sono ben altri gli spettri che si aggirano per l’Europa e ci fanno tremare. Lo stesso vale per gli ammonimenti della religione, altrettanto fallimentari, si pensi all’esito delle parole di Gesù : “Beati voi poveri! Guai a voi ricchi!”, mentre il mondo in ogni momento ripete allegramente l’esatto contrario: “Guai ai poveri! Beati i ricchi!”.

Se però guardiamo le cose dall’alto con uno sguardo più ampio, il bilancio non appare così negativo: almeno da noi non ci sono più schiavi né servi della gleba, non si lavora più dodici o tredici ore al giorno come all’inizio della rivoluzione industriale, la miseria delle famiglie per la gran parte è vinta, i diritti dei lavoratori sono riconosciuti e anche abbastanza tutelati. E se talora accade il contrario, il diritto interviene e libera e punisce chi di dovere. Oggi poi si assiste al fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”, “Grandi dimissioni”: chi può si dimette da lavori che ritiene umanamente poco gratificanti e si riprende la vita, nella consapevolezza che non si vive per lavorare ma si lavora per vivere e che esiste qualcosa più importante della carriera (nel 2022 negli Usa sono stati più di 40 milioni a lasciare il lavoro; da noi più di 2 milioni, con una media di oltre 180.000 dimissioni al mese). È un fenomeno negativo o positivo? Di certo segnala la presenza di eretici rispetto al dogma del primato assoluto dell’economia.

Vorrei inoltre aggiungere che grazie al mio lavoro sono entrato in contatto con alcune grandi aziende del nostro paese e sono felice di poter dire di averne tratto un’ottima impressione, giungendo a farmi l’idea che se il nostro paese, nonostante tutto, ancora tiene è proprio grazie al sistema aziende. Ho visto attenzione al bilancio sociale, al territorio, alla qualità delle relazioni umane, spesso ho riscontrato un vivo senso di responsabilità verso i dipendenti, talora sincera reciproca gratitudine. Quando sono guidate bene e con lungimiranza, le stesse aziende sono le prime a essere consapevoli che i conti non sempre devono tornare, che qualche volta li si deve lasciar andare, perché “andando” alimentano la fiducia e l’umanità .

Vorrei concludere dicendo che siamo chiamati a rimodellare la nostra utopia: prima che a cambiare il mondo, si tratta di non farci cambiare dal mondo. Di non farci ridurre a merce. Di non guardare noi ogni cosa e ogni persona come merce. E tale cambiamento può essere praticato già qui e ora da ognuno di noi. Ognuno di noi infatti è un sistema economico, una specie di azienda, e può scegliere a cosa dare il primato: se al negotium o all’otium, agli oggetti o alla cultura, all’avere o all’essere. Il modo migliore per cambiare il mondo è migliorare quel  piccolo pezzo di mondo su cui abbiamo realmente potere: noi stessi. Diceva

 [α1869- ω1948] Mahatma Gandhi: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.             

Vi ho parlato in quanto teologo, laico ma comunque teologo, e se questa disciplina antichissima che è la teologia oggi ha ancora un valore è quello di ricordarci che non viviamo di solo pane, che non siamo solo merce, né solo “gene egoista”. L’intelligenza e l’amore di cui siamo capaci, e che non si possono comprare, costituiscono il vero scopo del nostro vivere.

 Vito Mancuso [α1962]  La Stampa 2 giugno 2023

www.vitomancuso.it/wp-content/uploads/2023/06/Globalizzazione-e-religioni.pdf

https://www.lastampa.it/economia/2023/06/02/news/vito_mancuso_la_religione_dellio_crede_solo_al_denaro_ma_lamore_e_la_stima_non_si_comprano-12836983

VIOLENZA

Dietro al femminicidio: voce del verbo amare

Impossibile non ripetere gli stessi concetti, in questi tristi, cupi e desolati giorni di commento degli ultimi femminicidi in Italia, compiuti da uomini relativamente giovani, ben inseriti nella società, che si potrebbero definire tranquillamente ‘perbene’: il poliziotto (suicidatosi dopo il femminicidio) e il feroce barman di hotel di lusso.

                Si discute, ci si divide sugli approcci, sulle letture del fenomeno strutturale della violenza maschile, sul da farsi. Lo sapevamo tutte, certo, da sempre, tanto da farci anche un hashtag. È sempre l’uomo che ti ama(va) quello che ti farà del male, fino ad ucciderti. La favoletta dello sconosciuto straniero che ti assale all’improvviso non regge davvero più, e da parecchio.

Se nel linguaggio comune si tramanda, senza riflettere sugli esiti concreti, la frase amare da morire, attribuendole persino un carattere romantico, vorrà pur dire qualcosa questa connessione perversa tra amore e morte che diamo per scontata e subliminale.

                E poi, ancora: se è vero, come è vero, che il sesso che uccide nella coppia, in proporzione assolutamente maggioritaria, è quello maschile, perché ci si rivolge solo alle donne dicendo loro: di non andare all’ultimo appuntamento, di scappare al primo segnale di aggressività, di imparare i segni per far capire che si è in pericolo, di mandare a memorie le frasi da dire quando si ordina la pizza e comunicare a chi ascolta di chiamare la polizia? Tutte cose utili, sensate, legate all’emergenza, certo.

Ma il fatto acclarato e manifesto che i perpetratori sono gli uomini, che esista il problema del comportamento e della responsabilità in primo luogo maschile resta, comunque, sullo sfondo. Si fa fatica, c’è reticenza, omertà, opacità a concentrarsi su questo, ovvero sulla incontrovertibile realtà: il problema sono gli uomini. Non tutti, certo, ma molti.

                Una decina di anni fa il formatore e attivista contro la violenza maschile Jackson T. Katz rilasciò un Ted nel quale sosteneva che la violenza maschile sulle donne è un problema maschile, e che per fermarla c’è bisogno di uomini che intervengano nei gruppi di pari, dal bar alla palestra, dalle scuole alle famiglie, dai partiti ai centri sociali passando per le parrocchie e le caserme, che abbiano il coraggio di prendere parola su questo. E non solo nelle aule universitarie o sui giornali, ma nella vita di ogni giorno, a partire dall’uso normalizzato della misoginia nel linguaggio, dalle ‘battute’ umilianti, dalle barzellette ambigue e volgari, sui social.

                Ecco le sue parole: ”Quando si tratta di uomini e di cultura maschile, l’obiettivo è quello di indurre gli uomini che non sono misogini a sfidare gli uomini che lo sono. E quando dico misogini e violenti non intendo solo gli uomini maltrattanti. Non sto dicendo che un uomo deve fermare l’amico quando sta abusando della sua ragazza al momento della violenza. Non banalizziamo, perché così non andiamo da nessuna parte. Si tratta di avere chiaro che è necessario che sempre più uomini interrompano il continuum di violenza diffusa sulle donne. Così, per esempio, se sei un ragazzo e sei in un gruppo di amici che giocano a poker, che chiacchierano, che stanno fuori insieme, senza nessuna donna presente, e uno dice qualcosa di sessista o degradante o molesto verso le donne, invece di ridere o di fingere di non aver sentito, abbiamo bisogno di uomini che dicano: ‘Ehi, non è divertente. Quello che hai detto potrebbe coinvolgere mia sorella, o un’altra donna che mi è cara. Non potresti scherzare su qualcos’altro? Non apprezzo questo tipo di discorsi’. L’analisi di Katz ci porta dritto al cuore del problema: il consenso, la minimizzazione della violenza maschile sulle donne passano attraverso il silenzio e l’omertà dei comportamenti quotidiani degli uomini, comportamenti apparentemente inoffensivi che però entrano sotto pelle e costituiscono l’ossatura della corazza patriarcale che ingabbia e stritola corpi e menti, fino a costruire negli uomini, sin da piccoli, la convinzione che le donne siano di loro proprietà, esseri minori da manipolare, sottomettere fino a ucciderle. Di questo discutiamo da decenni tra donne, nei convegni, negli incontri, nelle formazioni, in occasione di eventi dove però, se si tocca questo argomento, gli uomini sono sempre pochi, troppo pochi.

                Sui social da tempo circola un cartello nel quale la frase Insegnate alle ragazze a proteggersi è cancellata e sotto di essa è scritto Educate i ragazzi. Sì, il punto è questo: fino a che la violenza maschile sulle donne verrà letta, descritta, raccontata nello spazio pubblico, così come in privato, come un fatto che riguarda (solo) le donne non sarà possibile cambiare la realtà, i cui numeri parlano di una donna uccisa in ambito relazionale ogni tre giorni in Italia.

                Porto un esempio recente di questa situazione nella mia esperienza di formazione nelle scuole. Nel copione del laboratorio teatrale “Manutenzioni-uomini a nudo” per le scuole superiori, realizzato in gran parte usando le risposte ad un questionario al quale hanno risposto oltre 5.000 studenti, c’è la frase (scritta da un ragazzo) “mi vergogno di essere un uomo”, che avrebbe dovuto essere ripetuta da quattro di loro alla fine di una riflessione sulla violenza. Uno degli studenti più attivi e interessati allo spettacolo ha convinto il gruppo della classe coinvolta nel progetto che quella frase era da eliminare dal copione, perchè ritenuta offensiva verso il loro sesso. Alla fine di un lungo confronto con i ragazzi, nel quale ho sostenuto che pronunciare quella frase era la manifestazione di una consapevolezza e di una assunzione di responsabilità empatica verso le donne, non di una accusa verso tutti gli uomini, uno di loro ha accettato di dirla, ma gli altri si sono rifiutati.

                La fatica più grande, a scuola, quando si porta il discorso sulla violenza maschile sulle donne, è proprio l’aggettivo ‘maschile’: mentre è più facile trovare solidarietà su altre forme di violenza e ingiustizia, per esempio sulla questione migratoria, sulla violenza contro gli animali, l’ambiente, l’orientamento sessuale, sulla primaria questione delle relazioni tra donne e uomini il convincimento è che si stia esagerando, colpevolizzando l’intero sesso maschile. Le reazioni più gettonate sono: “Anche le donne sono violente”, “Perché generalizzate?” fino al surreale ma in voga: “Il femminismo criminalizza tutti gli uomini per prendere il potere”, molto caro ai movimenti Incel sparsi sul pianeta.

                È così difficile aprire un duro conflitto nello spazio pubblico sul fatto che dobbiamo cambiare alle fondamenta il modo di educare i maschi, fin da piccoli, a considerarsi, come le femmine, portatori di gentilezza, premura, sensibilità, cura e non solo muscoli? Sì, è molto difficile, ma senza questo lavoro di smantellamento dei pregiudizi, degli stereotipi, del sessismo inconscio e della misoginia che deve iniziare dai primi anni di vita dei bambini non faremo che continuare a piangere donne massacrate, persino incinta, uccise da uomini normali e perbene

Monica Lanfranco           Noi Donne                         4 giugno 2023

www.noidonne.org/articoli/dietro-al-femminicidio-voce-del-verbo-amare.php

VOLONTARIATO

5 per mille 2022, aggiornati gli elenchi degli enti ammessi ed esclusi

                Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali lo ha reso pubblico sul proprio sito a correzione di quello uscito il 6 aprile 2023 in cui erano state erroneamente riportate alcune posizioni già ricomprese nell’elenco degli enti ammessi al beneficio per il medesimo anno finanziario

Sono stati pubblicati sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali gli elenchi aggiornati degli enti ammessi ed esclusi al 5 per mille 2022 (Allegato A e Allegato B) e il relativo decreto direttoriale di approvazione numero 98 del 30 maggio 2023. Come si legge nella comunicazione ufficiale, infatti, nell’elenco degli enti esclusi dal beneficio del 5 per mille anno finanziario 2022, pubblicato il 6 aprile 2023, sono state erroneamente riportate alcune posizioni già ricomprese nell’elenco degli enti ammessi al beneficio per il medesimo anno finanziario.

                Per segnalare eventuali errori nell’elenco, o comunque per fare una segnalazione al Ministero, è possibile inviare una mail all’indirizzo quesiti5permille@lavoro.gov.it.

                               Lara Esposito                    CSVnet                 06 giugno 2023

https://csvnet.it/component/content/article/144-notizie/4728-5-per-mille-2022-aggiornati-gli-elenchi-degli-enti-ammessi-ed-esclusi?Itemid=893

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