UCIPEM Unione Consultori Italiani Prematrimoniali e Matrimoniali
News UCIPEM n. 961 – 7 maggio 2023
UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI
“Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.
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Carta dell’U.C.I.P.E.M.
Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto
1. Fondamenti antropologici
1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia
1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.
1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.
Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica
O2 ABUSI Pedofilia, caso prescritto ma la vittima può chiedere il risarcimento dei danni
02 ASSEGNO DIVORZILE come impatta la nuova famiglia sul mantenimento
06 BULLISMO Che cos’è il bullismo?
10 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n. 17, 3 maggio 2023
11 CHIESA CATTOLICA nel mondo Appello al papa: sulla commissione per i minori una revisione indipendente
12 CITTÀ DEL VATICANO Sinodo e voto alle donne: fu vera rivoluzione?
15 CONSULTORI UCIPEM Mantova – Etica, Salute & Famiglia – anno XXVII-n. 3, maggio-giugno 2023
15 CONTRACCEZIONE Luciani, la dottrina morale e lo sguardo del Pastore
17 Pillola contraccettiva gratuita: i vantaggi per la salute
19 Contraccezione gratuita in Toscana: confermata per under 25 e su base Isee
19 Che cosa dice la Bibbia riguardo alla contraccezione?
20 DALLA NAVATA V Domenica di Pasqua – Anno A
21 Commento di biblista
22 EDUCAZIONE CATTOLICA Papa Francesco in Ungheria, il rettore: “Tre i pilastri dell’educazione cattolica”
23 GARANTEPER L’ INFANZIA “contro la pedofilia, «misure e iniziative efficaci»
24.MEDICINA DI GENERE Una nuova sfida
27 MINORI NON ACCOMPAGNATI Minori stranieri non accompagnati. Dove li mettiamo?
28 OMOFILIA Gli Scout Agesci e l’omosessualità. Storia di un cambiamento in corso
30 Da dove nasce il documento dei 50 sacerdoti omo-bisessuali
34 OMOFOBIA Il Report di Omofobia.org inchioda la politica alle sue responsabilità
34 PROFETI Maritain 50 anni dopo: il personalismo al futuro
37 RELIGIONI Un’apologia contro il “silenzio su Dio”
40 RIFLESSIONI Isolamento il male oscuro
41 SCUOLA Dare parole al disagio: il ruolo preventivo della scuola
43 SEPARAZIONE Diritti dei coniugi durante la separazione
45 SINODO La teologia alla prova della sinodalità
50 SINODO CONTINENTALE Sinodo: uscire dalla «bolla»
SINODI DIOCESANI Padova, continua il cammino del Sinodo. La seconda sessione inizierà il 12 maggio
ABUSI
Pedofilia, caso prescritto ma la vittima può chiedere il risarcimento dei danni
La Corte d’appello di Genova riapre la strada al procedimento civile per il risarcire danni a una presunta vittima di pedofilia, pur in assenza della condanna penale, venuta meno a causa della prescrizione.
Torna attuale il dramma degli abusi sui minori, che travolse, agli inizi degli anni duemila, la diocesi savonese. La Corte d’appello di Genova ha deciso di rivalutare la vicenda di Mirko Gabossi, oggi quarantaduenne, che all’età di undici anni sarebbe stato tra le vittime degli abusi di don Nello Giraudo in occasione di un campo estivo a Feglino, organizzato dal sacerdote stesso. Il giudice Luigi Acquarone, del Tribunale di Savona, aveva archiviato il caso valutando di non stabilire, a livello temporale, il momento della maturazione del trauma della presunta vittima attraverso una perizia psichiatrica. Il procedimento era stato, così, archiviato. Ora, la decisione della Corte d’appello genovese e la riapertura del caso che, ad oggi, costituisce un unicum in Italia: si tratta del primo procedimento civile per risarcimento danni di un caso di pedofilia, riaperto senza che si sia giunti alla condanna penale, per la sopraggiunta prescrizione.
Proprio l’aspetto temporale costituisce il fulcro del tema: secondo la linea difensiva del giovane, portata avanti dall’avvocato Francesca Rosso e avvalorata da svariate sentenze della Cassazione, la consapevolezza di avere subito violenze sessuali in giovane età, nella maggior parte dei casi, matura nella vittima solo dopo un percorso complesso e travagliato, che richiede anni. Da qui, spesso, il ritardo nelle denunce e, di conseguenza, in molti casi, anche l’arrivo della prescrizione. La Corte di Genova ha deciso di riaprire il caso e il percorso civile, mirato al risarcimento danni, valutando, attraverso una nuova perizia, il momento in cui nel giovane scattò la consapevolezza del danno subito. La presunta vittima, Mirko Gabossi, che è stato sostenuto dall’associazione Rete l’Abuso di Francesco Zanardi, sarebbe stato abusato all’età di undici anni, nel 1992, da Nello Giraudo, durante un campeggio estivo a cui aveva aderito anche la parrocchia di Calice, di cui lui faceva parte.
Giraudo era stato condannato per un altro caso: nel 2012 aveva patteggiato un anno di carcere per aver abusato di un quindicenne in un campo scout a Finale. Era il 2005 e il reato non era caduto in prescrizione come altri. Oggi, con la decisione della Corte d’appello di Genova, la città fa un balzo indietro ricordando il dramma degli anni in cui i casi erano esplosi. Il prossimo 6 giugno verrà nominato dal Tribunale genovese il ctu, il consulente tecnico d’ufficio, mentre il Cpt (consulente tecnico di parte) è già stato scelto: sarà Maurizio Panza.
Silvia Campese –”Il Secolo XIX 4 maggio 2023
ASSEGNO DIVORZILE
Assegno divorzile: come impatta la nuova famiglia sul mantenimento
La revisione dell’assegno divorzile può tenere conto delle esigenze della nuova famiglia, inclusi i figli dell’altro coniuge nati da precedenti relazioni. La revisione dell’assegno divorzile è una tematica di crescente interesse, soprattutto in relazione alla costituzione di nuove famiglie da parte dei coniugi divorziati. Quali sono le conseguenze della nuova famiglia sull’assegno divorzile? È possibile richiedere una riduzione o revoca dell’assegno tenendo conto delle esigenze di mantenimento della nuova famiglia? In questo articolo, analizzeremo una recente sentenza della Cassazione civile e forniremo esempi pratici per comprendere meglio l’impatto della nuova famiglia sulla revisione dell’assegno divorzile.
Cosa prevede la legge sulla revisione dell’assegno divorzile? La legge prevede la possibilità di richiedere una revisione dell’assegno divorzile in presenza di circostanze che ne giustifichino la revoca o la riduzione. Tali circostanze devono essere sopravvenute rispetto alla precedente decisione del giudice e devono riguardare un significativo cambiamento nelle condizioni economiche di uno dei coniugi divorziati.
Poniamo il caso di Tizio, che dopo il divorzio si ritrova a dover versare un assegno divorzile all’ex moglie Caia. Tizio si risposa e forma una nuova famiglia con Sempronia, che ha due figli da una precedente relazione. Tizio potrebbe chiedere una revisione dell’assegno divorzile se ritiene che le esigenze della nuova famiglia ne giustifichino la riduzione.
Come viene valutata la costituzione della nuova famiglia nella revisione dell’assegno divorzile?
La Cassazione civile ha stabilito che nella revisione dell’assegno divorzile deve essere presa in considerazione anche la costituzione della nuova famiglia da parte dell’obbligato, tenendo conto delle eventuali esigenze di mantenimento del nuovo coniuge e dei figli nati dal precedente matrimonio di quest’ultimo, ove ne sia affidatario. Lo stesso vale in caso di convivenza stabile.
Poniamo il caso di Tizio che, dopo aver divorziato da Mariella, decide di andare a convivere stabilmente con Antonia. Antonia però vive con i suoi due figli avuti da un precedente matrimonio. Alla luce della necessità di mantenere la nuova famiglia, Tizio può chiedere la riduzione dell’assegno di divorzio che versa a Mariella. Formarsi una famiglia è un diritto costituzionale che non può essere limitato dalla presenza di un obbligo di mantenimento all’ex coniuge. Il tutto sempre nell’ottica del necessario bilanciamento, rispetto al soggetto obbligato al versamento dell’assegno divorzile, tra i nuovi doveri di solidarietà coniugale nascenti dalla costituzione del nuovo nucleo famigliare ed i pregressi doveri di solidarietà post-coniugale verso l’ex coniuge.
Come può influire la situazione economica dell’ex coniuge sulla revisione dell’assegno divorzile?
La situazione economica dell’ex coniuge può influire sulla decisione del giudice riguardo alla revisione dell’assegno divorzile. Se l’ex coniuge si trova in difficoltà finanziarie o non è riuscito a trovare un lavoro dopo il divorzio, il giudice potrebbe valutare tali circostanze nel decidere se ridurre o revocare l’assegno.
Cassazione civile, prima Sezione, ordinanza 27 aprile 2023, n. 11155
www.divorzista.org/contenuto.php?id=20245&redirected=da03302111cacc1e196e4e7ef90efdac
La Corte d’appello dell’Aquila, con decreto n. cronol. 374-2020, pubblicato il 28/5/2020, ha respinto il reclamo di C.C. avverso decreto del Tribunale di Pescara che aveva respinto un ricorso del medesimo, ex l.898 del 1970, art. 9, volto ad ottenere, nei confronti di B. , la revisione delle condizioni economiche di divorzio (statuite con sentenza del 2003), in punto di revoca o riduzione dell’assegno divorzile, già riconosciuto nella misura di Euro 560,00 mensili attuali in favore dell’ex moglie.
I giudici del reclamo, in particolare, hanno rilevato la mancata dimostrazione da parte del C. di fatti sopravvenuti, considerato che era “verosimile” che la B. (la quale aveva allegato di avere abbandonato, in costanza di matrimonio, il suo lavoro di psicologa, su richiesta del marito, per dedicarsi alla cura della casa e di non essere successivamente riuscita, in ragione dell’età, dopo il divorzio, nel 2003, all’età di 47 anni, a reinserirsi nel mercato del lavoro), disoccupata, avesse “incontrato difficoltà non facilmente superabili nel reinserirsi nella professione di psicologa” e che fosse stata costretta “nel tempo” ad indebitarsi con il fratello ed ad alienare tutti gli immobili di proprietà per ripianare quel debito, mentre il C. disponeva di un reddito da pensione di Euro 1.800,00 mensili, nonché del reddito, di Euro 600,00, della seconda moglie e del canone, di Euro 850,00 mensili, ricavato dalla locazione di immobile di proprietà, cosicché, detratte le spese (per canone di locazione dell’appartamento in cui abita con il nuovo nucleo familiare, per ratei dei mutui, per assegno divorzile dovuto all’ex coniuge, non essendo invece lo stesso tenuto a provvedere al mantenimento dei figli della seconda moglie, nati da precedente relazione della medesima, “rispetto ai quali non ha vincoli giuridici”), aveva un reddito sufficiente per il sostentamento della famiglia.
Avverso la suddetta pronuncia, C.C. propone ricorso per cassazione, notificato il 29/12/2020, affidato ad un motivo, nei confronti di B. (che resiste con controricorso, notificato l’8/2/2021).
Ragioni della decisione
1. Il ricorrente lamenta, con unico motivo, la nullità del decreto per omessa, illogica o apparente motivazione, in violazione dell’art. 132 c.p.c. e della Cost., art. 111, deducendo che la Corte d’appello abbia omesso di considerare adeguatamente le circostanze sopravvenute allegate, in ordine al nuovo nucleo famigliare costituito dal medesimo ricorrente nel 2018 con la seconda moglie e con i due figli di questa, nati da una precedente relazione sentimentale della stessa e riconosciuti solo dalla stessa (uno minorenne ed altra maggiorenne ma non autosufficiente economicamente), con conseguente sensibile riduzione del reddito personale (considerato che attualmente l’assegno divorzile per la ex moglie ammonta ad Euro 705,20 mensili), stante la necessità di contribuire al sostentamento degli stessi (percependo la seconda moglie solo un reddito di Euro 600,00 mensili), nonché in ordine alla vendita da parte della ex moglie, nel 2011 e nel 2013, di due immobili di proprietà, dalle cui alienazioni ella aveva ricavato Euro 250.000,00, a fronte delle quali la B. non aveva dimostrato né di avere trasferito ad altri la provvista ricavata dalle suddette vendite immobiliari né di essere in uno stato di incolpevole disoccupazione (anche considerato che la “ipoacusia percettiva bilaterale”, in base alla quale le era stata riconosciuta una invalidità al 50%, non comportava una riduzione totale della capacità lavorativa); il ricorrente deduce poi essere stato concordato dai coniugi, al momento del divorzio, che, pur essendo la B. già, all’epoca, iscritta nelle liste di collocamento, l’obbligo, a carico dell’ex coniuge, di corresponsione dell’assegno divorzile sarebbe venuto meno nel momento in cui ella avesse disposto di un reddito adeguato, riconoscendo quindi, la medesima, di potere ancora lavorare.
2. L’unica censura è fondata. La Corte d’appello ha preso in considerazione i fatti allegati dalle parti (la costituzione di una nuova famiglia da parte del ricorrente, i rispettivi redditi degli ex coniugi, le vendite di immobili di proprietà da parte della ex moglie, lo stato di disoccupazione di quest’ultima) non ravvisando la sopravvenienza di circostanze idonee a giustificare la revisione dell’assegno divorzile fissato nel 2003.
Ora, deve rilevarsi che si tratta di procedimento in camera di consiglio, regolato dalle disposizioni del rito camerale e agli artt. 737 e seguenti c.p.c. con riguardo anche alle garanzie del contraddittorio ed all’obbligo della motivazione del decreto emesso a definizione. Al riguardo, questa Corte (Cass.2776-2004) ha rilevato che “la motivazione del decreto che conclude il procedimento camerale è necessaria, ai sensi dell’art. 737 c.p.c. e della Cost., art. 111, affinché possano essere individuati il “thema decidendum” e le ragioni della decisione, ma può essere sommaria e, qualora il decreto sia inserito nel processo verbale d’udienza – come consente l’art. 135 c.p.c. -, può desumersi dal complesso di quanto è stato verbalizzato, sotto la direzione del giudice, e dal dispositivo che conclude il verbale stesso “.
Tuttavia la motivazione, pur sommaria (essenzialmente nell’esposizione dei fatti di causa e dello svolgimento del procedimento), deve sempre consentire di comprendere chiaramente le ragioni fondanti la decisione. Invero, ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Cass. 6758/2022; Cass. 13977/2019; Cass. S.U. 22232/2016).
Nella specie, il provvedimento impugnato non consente di far conoscere il “fondamento della decisione”, non indicando la fonte del raggiunto convincimento circa l’assenza di giustificati motivi sopravvenuti per la revisione delle condizioni economiche del divorzio, a prescindere dalle affermazioni della stessa parte resistente, B. , la quale avrebbe dedotto di avere dovuto vendere i suoi beni immobili per far fronte a debiti contratti con il fratello, e di non essere “più riuscita ad inserirsi nella professione, anche in considerazione dell’età”, tanto da essere ancora iscritta (dalla separazione dal marito) nelle liste di disoccupazione.
Sulla base quindi soltanto di tali dichiarazioni, e senza indicare alcuna fonte di prova, la Corte territoriale ha ritenuto “verosimile” che la B. non sia più riuscita a trovare lavoro (sulla base dell’età – 47 anni – all’epoca del divorzio) e “verosimile” che la stessa abbia contratto debiti con il fratello, senza compiere alcun accertamento in ordine alla effettiva esistenza ed ammontare di tali debiti, alla effettiva e comprovata destinazione della intera, rilevante somma di Euro 250.000,00 al loro ripianamento.
Al riguardo, si deve poi rilevare che il giudizio di verosimiglianza si attaglia alla materia cautelare, fondata su valutazioni ancorate al fumus boni iuris del diritto azionato, non certo ai giudizi ordinari di cognizione che, come dice lo stesso termine “cognizione”, si fondano su acquisizioni probatorie (prove in senso tecnico), costituenti materiale cognitivo idoneo a produrre un risultato di certezza. Neppure è esente da critiche motivazionali la decisione impugnata in relazione alla questione circa le sopravvenute esigenze, allegate e dimostrate dal ricorrente C. ai fini della richiesta, quantomeno, di riduzione dell’assegno divorzile verso l’ex coniuge, di mantenimento del nuovo nucleo familiare con la seconda moglie ed i di lei figli, pur dovendo la costituzione della nuova famiglia essere valutata ai fini della determinazione dell’importo dell’assegno dovuto all’ex coniuge (Cass. 16789-2009). Su questo punto, la Corte si limita ad asserire, con affermazione del tutto apodittica, che il C. non sarebbe tenuto, in difetto di “vincoli giuridici”, a mantenere i figli della nuova moglie, senza valutare le eventuali esigenze di mantenimento di quest’ultima e senza considerare le regole di solidarietà vigenti, ai sensi degli artt. 143 e ss. c.c., in ambito familiare, anche nei confronti dei soggetti non legati da vincoli di sangue con l’obbligato, se gli altri soggetti tenuti al “sostegno alimentare” (in senso Europeo) non hanno – ma sul punto manca qualsiasi accertamento – la possibilità di farlo.
Basti rilevare, a sostegno della tesi che gli obblighi gravanti su entrambi i coniugi verso la famiglia, ai sensi dell’art. 143 c.c., comprendono anche i figli nati dal precedente matrimonio di uno dei coniugi stessi, ove ne sia affidatario, che la Corte Costituzionale già con la sentenza n. 181 del 1988, nel dichiarare illegittimo, con riferimento alla Cost., art. 3, al D.lgs. 722-45, art. 4, comma 1, nella parte in cui non comprendeva tra i familiari a carico del dipendente statale beneficiario di quota di aggiunta di famiglia anche il figlio nato da precedente matrimonio dell’altro coniuge, che ne sia affidatario, posto che, per i lavoratori dipendenti del settore privato, il D.P.R. n. 797-55 estendeva detti benefici anche ai figli del coniuge nati da precedente matrimonio, aveva ravvisato un’evidente disparità, non giustificata da alcuna diversità di condizioni oggettive o soggettive tra le due categorie di lavoratori, ai fini specifici indicati, affermando che “gli obblighi che incombono su entrambi i coniugi verso la famiglia ai sensi dell’art. 143 del vigente c.c. non possono non comprendere anche i figli nati dal precedente matrimonio di un coniuge (sciolto per divorzio), ove questi ne sia affidatario e sempreché l’altro genitore non provveda; condizioni, queste, la cui sussistenza dovrà essere accertata dall’amministrazione o dal giudice di merito, costituendo esse il presupposto di legge perché sorga il diritto a percepire l’aggiunta di famiglia”. E la Corte di Giustizia si è pronunciata, in relazione al diritto di libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione e in tema di ambito e portata dei sussidi economici dello Stato per gli studi dei figli dei lavoratori, sulla necessità di assicurare che anche i figli del coniuge o del partner riconosciuto dallo Stato membro di accoglienza del lavoratore frontaliero possano essere considerati come figli dello stesso, laddove quest’ultimo provveda al loro mantenimento, al fine di poter beneficiare del diritto di percepire il sussidio (Corte Giustizia UE sez. II, 15/12/2016, n. 401).
In definitiva, in sede di revisione ex l.898 del 1970, art. 9 dell’assegno divorzile e di verifica delle circostanze sopravvenute che ne giustificano la revoca o la riduzione, deve essere vagliata anche la costituzione della nuova famiglia da parte dell’obbligato in rapporto alle eventuali esigenze di mantenimento del nuovo coniuge, considerando che gli obblighi gravanti su entrambi i coniugi verso la famiglia, ai sensi dell’art. 143 c.c., comprendono anche i figli nati dal precedente matrimonio di uno dei coniugi stessi, ove ne sia affidatario, il tutto sempre nell’ottica del necessario bilanciamento, rispetto al soggetto obbligato al versamento dell’assegno divorzile, tra i nuovi doveri di solidarietà coniugale nascenti dalla costituzione del nuovo nucleo famigliare ed i pregressi doveri di solidarietà post-coniugale verso l’ex coniuge.
3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del ricorso, va cassato il decreto impugnato, con rinvio alla Corte d’appello dell’Aquila in diversa composizione, per nuovo esame. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M. Dispone che, ai sensi del D. Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.
Angelo Greco La legge per tutti 5 maggio 2023
www.laleggepertutti.it/638802_assegno-divorzile-come-impatta-la-nuova-famiglia-sul-mantenimento
BULLISMO
Che cos’è il bullismo?
Con il termine bullismo si intende definire un comportamento aggressivo ripetitivo nei confronti di chi non è in grado di difendersi. Solitamente, i ruoli, nel bullismo son ben definiti: da una parte c’è il bullo, colui che attua dei comportamenti violenti fisicamente e/o psicologicamente e dall’altra parte la vittima, colui che invece subisce tali atteggiamenti. Gli astanti sono gli studenti che stanno a guardare ciò che sta accadendo senza fare molto per aiutare la vittima. Sono testimoni diretti che preferiscono far finta di non aver visto nulla
Secondo le definizioni date dagli studiosi del fenomeno, uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto deliberatamente da uno o più compagni.
Non si fa quindi riferimento ad un singolo atto, ma a una serie di comportamenti portati avanti ripetutamente, all’interno di un gruppo, da parte di qualcuno che fa o dice cose per avere potere su un’altra persona.
Possiamo poi riconoscere 3 parti principali del bullismo:
- L’intenzione e il voler essere un bullo
- La ripetizione delle azioni aggressive
- La differenza di potere tra la vittima e il bullo
Per quanto riguarda invece l’età in cui si riscontra questo fenomeno, si hanno due diversi periodi. Il primo tra gli 8 e i 14 anni di età, mentre il secondo tra i 14 e i 18, ma negli ultimi anni si sono riscontrati fenomeni di bullismo anche tra i ragazzi di 11 anni e anche di meno.
I comportamenti violenti che caratterizzano il bullismo sono:
- Parolacce, offese, insulti.
- Ridere per l’aspetto fisico o per il modo di parlare.
- Diffamazione
- Esclusione per le proprie opinioni.
- Aggressioni fisiche.
L’incidenza del fenomeno è variabile a seconda degli studi, ma interessa tutti i Paesi del mondo. L’essere vittima di episodi di bullismo risulta significativamente associato a una compromissione dei livelli di funzionamento psicologico e di adattamento sociale e alla presenza di sintomi fisici e psicopatologici. Essere vittima di episodi di bullismo è, inoltre, un fattore predittivo per l’esordio di depressione, ansia, isolamento e ridotta autostima.
Diversi tipi di bullismo
Cyber bullismo. Quando le azioni di bullismo si verificano attraverso Internet (posta elettronica, social network, chat, blog, forum), o attraverso il telefono cellulare si parla di cyberbullismo.
Il cyber bullismo ha delle caratteristiche identificative proprie:
il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un pubblico più vasto, ossia il web, e può controllare le informazioni personali della sua vittima. La vittima al contrario, non sempre ha la possibilità di vedere il volto del suo aggressore, e può avere una scarsa conoscenza dei rischi che si corrono nel condividere le proprie informazioni su internet. Proprio per queste maggiori difficoltà da parte della vittima, talvolta essa può arrivare a compiere atti davvero tragici.
Si può definire inoltre cyberbullismo l’uso delle nuove tecnologie per intimorire, molestare, mettere in imbarazzo, far sentire a disagio o escludere altre persone. Tutto questo può avvenire utilizzando diverse modalità offerte dai nuovi media. Alcuni di essi sono:
- Telefonate
- Messaggi (con o senza immagini)
- Social network (per esempio, Facebook)
- Siti di domande e risposte
- Siti di giochi online
Le modalità specifiche con cui i ragazzi realizzano atti di cyberbullismo sono molte. Alcuni esempi sono:
- pettegolezzi diffusi attraverso messaggi sui cellulari, mail, social network;
- postando o inoltrando informazioni, immagini o video imbarazzanti (incluse quelle false);
- rubando l’identità e il profilo di altri, o costruendone di falsi, al fine di mettere in imbarazzo o danneggiare la reputazione della vittima;
- insultando o deridendo la vittima attraverso messaggi sul cellulare, mail, social network, blog o altri media;
- facendo minacce fisiche alla vittima attraverso un qualsiasi media.
La continua violenza e i comportamenti offensivi in rete possono generare un tale dolore tra i giovani coinvolti che più della metà di loro, il 52%, confessa di provocarsi del male fisico intenzionale. Gli atti di autolesionismo avrebbero la funzione di alleviare, per quei pochi secondi, il disagio psicologico che sentono questi ragazzi.
Bullismo e omofobia. Il bullismo omofobico utilizza il sessismo come arma di attacco. La vittima viene completamente disumanizzata. Chi viene preso di mira sono i gay, lesbiche, transessuali o bisessuali. In questo contesto l’omosessualità diventa un qualcosa da denigrare, e questo viene fatto attraverso varie forme di violenza nei confronti delle persone omosessuali. I tipi di comportamento adottati variano dalle aggressioni fisiche (spinte, calci, pugni) fino all’esclusione sociale, che in diversi casi si è dimostrata più efficace di quella fisica.
Possiamo individuare 3 caratteristiche differenti del bullismo omofobico:
- una maggiore difficoltà a chiedere aiuto per la propria omosessualità
- le prepotenze mirano specificatamente la sfera sessuale, perché l’attacco è rivolto più alla sessualità che alla persona in sé
- la vittima trova con difficoltà figure protettive: infatti “difendere un gay” comporta il rischio di diventare vittima stessa.
Le maggiori conseguenze dovute dalla discriminazione sessuale sono
- la riduzione delle opportunità individuali, sia in campo scolastico che lavorativo,
- riduzione della dignità.
In altre parole, la discriminazione può portare a vivere la scuola con disagio, aumentando l’insicurezza personale e relazionale, con mancato proseguimento degli studi e maggiore difficoltà di inserimento nel mercato lavorativo.
Il bullismo femminile è sempre più diffuso negli ambienti scolastici di ogni grado e può nascere fin dalla scuola elementare o addirittura dall’asilo. È messo in atto da ragazze, sempre più spesso bambine, che usano una forma di violenza psicologica, sottile e nascosta che può rimanere invisibile per giorni, mesi, anni agli occhi di adulti e genitori. Il bullismo al femminile è un tipo di bullismo psicologico: molto spesso la stessa vittima non si rende conto di subire una vera e propria violenza. Anche le persone che la circondano non percepiscono i segnali e i sintomi di questo bullismo indiretto. Chi lo vive non ha segni visibili ma interiori. Non si tratta quindi di ferite come quelle lasciate da pugni o schiaffi, in quanto non è un bullismo fisico.
Alcuni atti del bullismo femminile:
- Pettegolezzi: Le bulle mettono in giro voci cattive (è strana, ha i pidocchi, puzza ecc.)
- Isolamento: si forma un gruppo da cui la vittima viene esclusa. Nessuno deve rivolgerle la parola o essere sua amica.
- Umiliazioni sottili: Appena la vittima entra a scuola avverte che nessuno la vuole, si sente fuori posto. Riceve sguardi maligni, risatine, smorfie, occhiate minacciose, facce disgustate. Al suo passaggio tutte ridono guardandola dall’alto in basso.
- Emarginazione: La vittima di bullismo femminile si sente esclusa. Nessuno si siede vicino alla vittima che viene esclusa da giochi, feste e da ogni attività di gruppo. Nessuno le rivolge la parola. La evitano e la trattano come se fosse “diversa”.
- Perdita delle amicizie: Tutte le ragazze che aveva prima si allontanano per far pare del gruppo.
- Tutti ignorano o allontanano la vittima quando si avvicina.
Chi mette in atto il bullismo femminile è una ragazzina apparentemente forte, che riesce ad influenzare gli altri. Veste i panni di una leader: detta le regole e tutti le seguono per far parte dal gruppo. La bulla è temuta dagli altri che preferiscono schierarsi dalla sua parte per non avere problemi.
Al di fuori viene vista come una ragazza vivace, irrequieta o al contrario può essere una ragazzina tranquilla, apparentemente innocua, brava a scuola. Quindi è ancora più difficile in questo caso dimostrare come una ragazza così riesca ad avere un comportamento cattivo. Non è raro che la bulla sia anche la preferita dai professori.
Conseguenze: Maltrattamenti psicologici infantili e ha lo stesso gravi conseguenze. In Italia è in crescita soprattutto tra i giovanissimi, dove 1 bullo su 3 è una ragazza. Le bulle riescono ad individuare il punto debole della vittima e premono su questi tasti, si insidiano nella sua mente. Viene distrutta l’autostima. La sua visione di sé stessa e del mondo viene distorta: si sente sola al mondo e pensa di non avere nessuno. Si convince di essere sbagliata, diversa. Incolpa sé stessa e pensa che sia “normale” quello che vive, perché è lei ad avere qualcosa di strano. In breve le conseguenze del bullismo femminile:
- Perdita di autostima e crescente insicurezza
- Attacchi d’ansia e di panico
- Irascibilità e sbalzi d’umore (crisi di pianto-rabbia…)
- Paure immotivate ed emotività eccessiva
- Depressione e stress
- Disturbi alimentari, perdita di appetito
- Disturbi del sonno e incubi
- Perdita di interesse nella scuola e paura di andarci
- Comportamenti autolesionisti fisici o mentali (scagliare pensieri di odio verso sé stessi e ripetersi “sono inutile”, “sono brutta” ecc..)
- Pensieri legati al suicidio (“Se non ci fossi gli altri starebbero meglio”, “nessuno si accorgerebbe della mia assenza”)
- Conseguenze a lungo termine: Essere vittime di episodi di bullismo da bambini aumenta il rischio di sviluppare diverse tipologie di disturbo oltre che nell’infanzia e nell’adolescenza anche nell’età adulta. Ciò che numerosi studi hanno evidenziato è che le vittime di bullismo nel passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta continuano a presentare diversi disturbi; come ad esempio la paura degli spazi aperti, attacchi di panico, dipendenza e depressione. Ciò che invece è ancor meno noto è che non solo essere vittime di bullismo aumenta la probabilità dell’insorgenza di disturbi, ma anche l’essere bulli.
Lo sport, un aiuto contro il bullismo. Ci sono due punti di vista differenti per quanto riguarda lo sport e il bullismo. Da una parte esistono realtà sportive in cui il bullo trova lo spazio per agire, dall’altra lo sport può essere un’ottima soluzione per aiutare il bullo a rispettare sé stesso e gli altri.
Nello sport come può esprimersi la violenza all’interno della squadra? In un gruppo sportivo ci possono essere ragazzi e adulti che usano un comportamento violento che non necessariamente è stato appreso nell’ambiente sportivo, ma che deriva da una serie di esperienze al di fuori di un contesto sportivo stesso.
Questa violenza può essere riscontrata in diverse situazioni:
- da una parte di un/a giovane verso gli altri compagni di squadra (fenomeni di derisione nei confronti di compagni di squadra più deboli)
- da parte di un/a giovane verso gli avversari (fare male intenzionalmente)
- da parte di un allenatore nei confronti dei propri giocatori (urlare addosso, deridere pubblicamente, denigrare il giocatore, ecc…)
- da parte di un genitore tifoso che si accanisce contro il figlio, gli avversari, l’allenatore e l’arbitro.
E per quanto riguarda il bullismo?
All’interno di una squadra possono verificarsi episodi di bullismo, i quali non hanno a che fare con lo sport in questione ma col fatto di appartenere ad un gruppo che mette in atto dei rituali. Comunque; in questi casi ci sono sempre una o più vittime designate che sono oggetto di scherno e prepotenza in modo continuativo. Solitamente i ragazzi più scarsi/deboli della squadra, sono quelli presi di mira.
Spesso il bullo sente il bisogno di sfogare i propri sentimenti e le proprie emozioni. Lo sport può essere la strada giusta per incanalare questo bisogno nello sforzo fisico invece di riversarlo sulle persone. Tutti gli sport, specie quelli che permettono lo sfogo di queste “energie extra” (come quelli di contatto: dalla lotta, alla box, alle arti marziali, ecc.) fanno sì, che questa più o meno nascosta aggressività trovi una via di sfogo accettabile, in un contesto sociale con regole e strutture condivise alle quali anche il più incallito ribelle deve sottostare. Uno dei vantaggi è la crescita e un cambiamento nell’atteggiamento del bullo.
Il ruolo dell’allenatore. È importante da parte dell’allenatore valutare sempre molto attentamente il modo in cui si relaziona con i ragazzi e soprattutto gli effetti di questo rapporto. Un allenatore è un educatore a tutti gli effetti. Insegna a rispettare le regole, ad avere rispetto per l’avversario, ad avere disciplina non solo nel corpo ma anche nella mente. Diventa una presenza fondamentale nella vita dei propri atleti diventando per loro un punto di riferimento per la propria crescita personale.
Il bullismo nello sport si manifesta quando si ricerca la prestazione a tutti i costi, esaltando solo l’attività sportiva orientata al risultato agonistico e arrivando a giustificare ogni mezzo utilizzato (anche illecito) pur di conquistare la vittoria. Ma questo non è ciò che lo sport vuole insegnare.
La competitività in sé non è affatto da condannare. Lo è invece il suo eccesso, una delle componenti che, ponendo il bullo a suo agio in un clima di tolleranza verso la sopraffazione, potrebbe favorire il nascere di episodi di bullismo. Quando la competizione è percepita come confronto positivo con sé stessi e con gli altri, intesi come atleti con cui confrontarsi e misurare le proprie prestazioni, allora essa diventa un potente strumento capace di educare.
Lo sport, in questo senso, può e deve assumere un ruolo rilevante nella vita dei giovani. Lo sport è in grado di insegnare molte cose a chi si avvicina ad esso con spirito costruttivo e positivo: insegna ad affrontare la vita, a relazionarsi con gli altri, a mettersi sempre in discussione; insegna ad accettare la sconfitta e a superare gli insuccessi; insegna lo spirito di sacrificio e che ad ogni sacrificio corrisponde un vantaggio; insegna… a non arrendersi mai.
Bullismo: come cambia il cervello della vittima
Il bullismo può lasciare cicatrici durature nel cervello. La ricerca sul cervello sta rivelando che il bullismo non è solo una sfortunata circostanza a cui si è esposti durante la crescita. Essere vittime di bullismo può infatti causare cambiamenti a lungo termine nel cervello che possono provocare deficit cognitivi ed emotivi e disturbi comportamentali simili a quelli che si osservano sui minori abusati. Alcuni esempi sono l’ansia, la depressione, la scarsa autostima e l’abuso di droghe.
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Il bullismo affligge lo sviluppo nervoso. Il bullismo può alterare i livelli degli ormoni dello stress. Lo stress causato dall’essere vittima di bullismo può infatti interferire con lo sviluppo del cervello.
Bullismo e comportamenti aggressivi: cosa accade nel nostro cervello? I comportamenti aggressivi provocano gratificazione in chi li mette in atto, in quanto stimolano il sistema cerebrale della ricompensa: chi agisce, dunque, arriva a sperimentare e provare piacere nel vessare i più deboli. Meccanismi, questi, che possono giocare un ruolo chiave anche nel favorire la ripetizione di comportamenti aggressivi, esattamente come accade per le dipendenze.
CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia
֍ La famiglia fondamento di resilienza e flessibilità. È il tema centrale della 68ma Conferenza Internazionale dell’ICCFR-International Commission on Couple and Family Relations, che si svolgerà a Newport (Galles) dal 12 al 14 maggio. Il CISF parteciperà all’evento con un workshop condotto dal direttore Francesco Belletti, dedicato a “Famiglia&Digitale, costi e opportunità”, in cui saranno illustrati i trend delle famiglie rilevati in occasione del CISF Family Report 2022. https://iccfr.org/iccfr-conference
֍ 40 anni di legge 184. La legge 4 maggio 1983, n.184, intitolata “Del diritto del minore ad una famiglia” compie 40 anni. Il Tavolo Nazionale Affido dedica a questa ricorrenza un convegno a Roma a cui parteciperà anche il direttore Cisf, Francesco Belletti.
֍ Spagna: una guida interprofessionale per la genitorialità positiva. I membri del gruppo di lavoro spagnolo di EuroFamNet hanno sviluppato una “Guida alle competenze interprofessionali nella genitorialità positiva“
[testo integrale – 80 pp – ENG], un testo che mira a contribuire al raggiungimento di una buona formazione interprofessionale per lavorare con bambini e famiglie verso un approccio genitoriale positivo. La guida è nata dalla collaborazione tra università spagnole, professionisti locali ed enti del settore pubblico; è stata inoltre promossa dalla Federazione spagnola dei comuni e delle province (FEMP) e Familiasenpositivo, una piattaforma online fondata dal Ministero dei diritti sociali e dell’Agenda 2030 del governo spagnolo.
֍ Il declino demografico si proietta sulla popolazione attiva. Il calo della popolazione e il suo contestuale invecchiamento nei prossimi 20 anni (+4,9 milioni gli over 65 e -900 mila gli under 15) faranno crollare il numero delle persone in età da lavoro (15-64 anni): si prospetta un calo di lavoratori pari a 6,9 milioni di unità nel 2043. Sono alcuni dei dati che emergono dall’ultima ricerca realizzata dalla Fondazione Di Vittorio “L’Italia tra questione demografica, occupazionale e migratoria” [il testo integrale]
www.fondazionedivittorio.it/it/litalia-questione-demografica-occupazionale-e-migr
֍ Connessioni delicate, un progetto per la salute dei minori in ambito digitale. Per sensibilizzare le famiglie sul corretto utilizzo di internet, dispositivi e piattaforme digitali da parte dei ragazzi, le associazioni di pediatri Acp, Fimp e Sip in collaborazione con Meta e Fondazione Carolina lanciano su tutto il territorio nazionale il progetto ‘Connessioni delicate‘. Obiettivo dell’iniziativa è promuovere la consapevolezza sul corretto uso della tecnologia e buone pratiche in questo campo grazie alla guida di oltre 11.000 medici pediatri presenti su tutto il territorio nazionale. www.minorionline.com/connessioni-delicate
֍ Dalle case editrici
- Bobbio, R. Procopio, Il counseling educativo. Teorie, strumenti, dimensioni, San Paolo, 2022, pp. 176.
- M. Muratore, Sono nato così, ma non ditelo in giro, Chiarelettere, 2022, pp. 280.
- Bruno Mastroianni, Storia sentimentale del telefono. Uno straordinario viaggio da Meucci all’Homo smartphonicus, il Saggiatore, Milano 2022, pp. 244.
Fatevi un regalo: leggete questo libro. Saprà dirvi, con il brio e la profondità a cui ci ha abituati Bruno Mastroianni, come siamo cambiati e come ci ha cambiati l’invenzione del telefono. Uno strumento che ha modificato le sorti dell’umanità – al pari della ruota e della stampa – e che negli ultimi 150 anni ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare. (…) (B. Verrini)
֍ Save the date
- Webinar (Int) – 8 giugno 2023 (19-20.30 EDT). “Using Freely Downloadable New Data to Advance Work-Family Research in 193 Countries“, workshop organizzato da Work and Family Researchers Network
- Seminario (Lucca) – 26/28 giugno 2023. “Andò in fretta verso la montagna”, 72ª Settimana nazionale di aggiornamento pastorale dedicata alla questione delle aree interne (Esisterà̀ ancora nei piccoli paesi la comunità cristiana che segue e annuncia Cristo?) www.centroorientamentopastorale.it/organismo
Iscrizione http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx
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CHIESA CATTOLICA NEL MONDO
Appello al papa: sulla commissione per i minori una revisione indipendente
Una «revisione esterna indipendente» sulla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori: la chiedono a papa Francesco l’ex presidente irlandese Mary McAleese e Marie Collins (sopravvissuta agli abusi e per tre anni membro della Commissione), dopo le dimissioni del gesuita p. Hans Zollner. In un comunicato in cui spiegava le ragioni del suo passo, Zollner faceva riferimento alla mancanza di «trasparenza, conformità e responsabilità» nella Commissione.
Nella lettera (ne parla Irish Times il 2/5), le due donne esprimono «profonda preoccupazione» per le dimissioni dalla commissione «del suo eminente membro fondatore più esperto, rispettato a livello mondiale», rilevando che l’integrità e l’onestà di p. Zollner «sono fuori discussione. Il suo impegno per la tutela dei minori all’interno della Chiesa non è secondo a nessuno». «Molto inquietante» definiscono dunque il crollo della fiducia di p. Zollner nella commissione e nel suo staff».
Nel 2017 Collins (seguita poi dal britannico Peter Saunders, fondatore ed ex responsabile dell’associazione di vittime di pedofilia Napac) se ne andò delusa dalla Commissione, arrendendosi a lentezze, ostacoli e persino boicottaggi della Curia nei confronti del lavoro del gruppo; la neuropsichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori, lasciò nel 2018 aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, «singolarmente o nel quadro di associazioni come l’Ending Clerical Abuse (ECA)».
Nella lettera a papa Francesco, le due sollecitano il papa a far sì che la commissione non «affondi senza lasciare traccia portando con sé la credibilità della Santa Sede». «Con tutto il rispetto – affermano – nessun dibattito interno sarà probabilmente adeguato al compito di salvaguardare il futuro della fondamentale commissione di salvaguardia della Chiesa». «Non è un’esagerazione» affermare, sostengono, che il lavoro di p. Zollner «riflette il grande credito» dell’impegno del papa per la tutela dei bambini ed è stato, in larga misura, decisivo «per la credibilità maturata dalla Commissione. Con il ritiro di p. Zollner» «la sua reputazione subisce un danno esistenziale». «Lei, che ha nominato p. Zollner, conosce lo straordinario rispetto che il suo lavoro gli ha procurato a livello globale e che è stato fondamentale per ricostruire la fiducia infranta delle vittime e dei fedeli», proseguono McAleese e Collins, mettendo in guardia contro «i recenti tentativi di utilizzare la stampa per insinuare cattiva fede da parte di Zollner». Tentativi destinati a fallire: «Il suo lavoro continuerà; la commissione naufragherà e purtroppo, se e quando la Santa Sede presenterà il suo rapporto periodico di Stato membro al Comitato [ONU] sui diritti del fanciullo, è probabile che a Ginevra ci sarà costernazione per questa svolta degli eventi».
All’inizio la Commissione «è stata un’iniziativa papale gradita e necessaria», concludono, ma «un decennio dopo ha bisogno di un altro intervento papale»; «Le auguriamo successo nella gestione di questa sfortunata situazione che può solo causare più angoscia alle vittime, specialmente a coloro la cui speranza era stata sollevata solo per essere nuovamente elusa».
Dal canto suo, il papa – che, lo ricordiamo, il 30 settembre scorso aveva provveduto a una sorta di ristrutturazione, nei membri e negli obiettivi, della Commissione, collocandola alle dipendenze del Dicastero per la Dottrina della Fede – nel ricevere in udienza i membri dell’organismo il 5 maggio 2023 torna sui compiti della Commissione rifacendosi alla categoria di una «spiritualità di riparazione»: «Laddove la vita è stata ferita, siamo chiamati a ricordare il potere creativo di Dio di far emergere la speranza dalla disperazione e la vita dalla morte», «nella speranza che quanto è frantumato si possa ricomporre»; e fa l’esempio, senza però citarla esplicitamente, della vicenda dei sopravvissuti inglesi ad abusi dei missionari comboniani, che hanno chiesto e ottenuto di incontrare la direzione della congregazione, dopo decenni di tentativi vani: «Questa è la via della riparazione e della redenzione: la via della croce di Cristo. Nel caso specifico, posso dire che per questi sopravvissuti c’è stato un vero dialogo durante gli incontri, al termine dei quali hanno detto di essersi sentiti accolti da fratelli e di aver recuperato un senso di speranza per il futuro». E conclude rimandando all’impegno di «migliorare le linee guida e gli standard di comportamento del clero e dei religiosi»: «Mi aspetto di ricevere informazioni su questo impegno e un rapporto annuale su ciò che ritenete stia funzionando bene e su ciò che non funziona, in modo da poter apportare le opportune modifiche»: «Avete già fatto molto in questi primi sei mesi».
www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/may/documents/20230505-pontcom-tutelaminori.html
Un giudizio che stride con il passo indietro di p. Zollner.
Ludovica Eugenio Adista 06 maggio 2023
www.adista.it/articolo/69954
CITTÀ DEL VATICANO
Sinodo e voto alle donne: fu vera rivoluzione?
Un comunicato della Segreteria generale del Sinodo ha annunciato che anche laici e in particolare donne e giovani potranno essere membri votanti alla prossima Assemblea del Sinodo dei vescovi di ottobre. Saranno (forse) i posteri a dare l’ardua sentenza.
Ma già oggi è per noi possibile sbilanciarci e dire che sì, le modifiche che sono state annunciate il 26 aprile scorso dai cardinali Mario Grech, segretario generale della Segreteria del Sinodo, e Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e relatore generale della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, costituiscono realmente una piccola rivoluzione: effettiva, perché introducono una componente non episcopale che avrà diritto di voto, e simbolica, perché all’interno di questa nuova componente vi sarà un numero significativo di donne. Vedi newsUCIPEM n. 960, 26 aprile 2023
Da organismo-evento a processo. Infatti dentro a un organismo, che però è anche un evento (l’Assemblea di ottobre) che si è trasformato in un processo (dall’ascolto alle due assemblee del 2023 e 2024) e che è denominato «Sinodo dei vescovi» (nato evidentemente come un genitivo prevalentemente possessivo), è stato inserito a modo di «memoria» – dice il comunicato della Segreteria del Sinodo – l’elemento che sarebbe stato mancante nell’Assemblea di ottobre per dare completezza all’intero «popolo di Dio», la cui voce è stata ascoltata in questa prima fase. Il tutto senza che questo configuri una «rappresentanza» nel senso politico del termine.
Vediamo nel dettaglio: dunque i due cardinali – recita il comunicato – «hanno informato la stampa circa la decisione del santo padre di estendere la partecipazione all’Assemblea sinodale a “non vescovi” (presbiteri, diaconi, consacrate e consacrati, laici e laiche)». Nella prospettiva di una «Chiesa tutta sinodale» va «compresa la decisione del santo padre di mantenere la specificità episcopale dell’Assemblea convocata a Roma, ma al tempo stesso di non limitarne la composizione ai soli vescovi, ammettendo un certo numero di non vescovi come membri a pieno titolo».
Nel registro della memoria, non della rappresentanza. Questa decisione, prosegue il comunicato, «rinforza la solidità del processo nel suo insieme, incorporando nell’Assemblea la memoria viva della fase preparatoria, attraverso la presenza di alcuni di coloro che ne sono stati protagonisti, restituendo così l’immagine di una Chiesa-popolo di Dio, fondata sulla relazione costitutiva tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, e dando visibilità alla relazione di circolarità tra la funzione di profezia del popolo di Dio e quella di discernimento dei pastori».
È dunque «nel registro della memoria», conclude il comunicato, «che si iscrive la presenza dei non vescovi, e non in quello della rappresentanza. In questo modo la specificità episcopale dell’Assemblea sinodale non risulta intaccata, ma addirittura confermata. Lo mostra innanzi tutto il rapporto numerico tra vescovi e non vescovi, risultando questi ultimi meno del 25% del totale dei membri dell’Assemblea. Ma soprattutto lo evidenziano le modalità di designazione dei non vescovi: essi infatti non sono eletti da un qualche demos o cœtus, di cui assumerebbero la rappresentanza, ma sono nominati dal santo padre su proposta degli organi attraverso cui si realizza la collegialità episcopale a livello di aree continentali, radicando la loro presenza nell’esercizio del discernimento dei pastori».
In realtà le modifiche sono 4 (il tutto in un file di domande-risposte linkabile dalla pagina del comunicato).
www.synod.va/content/dam/synod/news/2023-04-6_punto_stampa/2024.04.26_IT_FAQ_Partecipanti_Assemblea.pdf
Domande-risposte sulle modifiche
1) «Anche le (arci)diocesi che non fanno parte di una conferenza episcopale potranno eleggere un vescovo».
2) «Non sono più presenti i 10 chierici appartenenti a istituti di vita consacrata, eletti dalle rispettive organizzazioni che rappresentano i superiori generali. Vengono sostituiti da 5 religiose e 5 religiosi appartenenti a istituti di vita consacrata, eletti dalle rispettive organizzazioni che rappresentano le superiore generali e i superiori generali. In quanto membri hanno diritto di voto».
3) «Non ci sono più gli uditori, ma si aggiungono altri 70 membri non vescovi che rappresentano altri fedeli del popolo di Dio (sacerdoti, consacrate/i, diaconi, fedeli laici) e che provengono dalle Chiese locali. Vengono scelti dal papa da un elenco di 140 persone individuate (e non elette) dalle 5 riunioni internazionali di conferenze episcopali (CELAM, CCEE, SECAM, FABC, FCBCO), dall’Assemblea dei patriarchi delle Chiese orientali cattoliche e, in modo congiunto, dalla Conferenza episcopale cattolica degli Stati Uniti e dalla Conferenza dei vescovi cattolici del Canada (20 per ognuna di queste realtà ecclesiali). Si è seguita la ripartizione territoriale adottata per la celebrazione delle assemblee sinodali continentali della Tappa continentale. Si chiede che il 50% di loro siano donne e che si valorizzi anche la presenza di giovani. Nella loro individuazione si tiene conto non solo della loro cultura generale e della loro prudenza, ma anche della loro conoscenza, teorica e pratica, oltre alla loro partecipazione a vario titolo nel processo sinodale. In quanto membri hanno diritto di voto. Inoltre, oltre ai 70 membri non vescovi di cui sopra è opportuno ricordare che, anche tra i membri di nomina pontificia, sarà possibile aver membri non-vescovi».
4) «I rappresentanti dei dicasteri che parteciperanno, sono quelli indicati dal santo padre», che – possiamo esserne sicuri – ne ridurrà significativamente la presenza.
Quale rapporto con le forme «democratiche». Alcune considerazioni anche alla luce dell’interessante congresso internazionale che dal 27 al 29 aprile 2023 si è tenuto alla Pontificia Università Gregoriana su «La teologia alla prova della sinodalità», su cui torneremo più ampiamente in un altro commento.
www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2017/documents/papa-francesco_20170424_messaggio-accademia-scienzesociali.html
In definitiva rimane confermato il dispositivo in base al quale sinodi dei vescovi, consigli dei gerarchi delle Chiese orientali cattoliche e conferenze episcopali sono gli unici organismi che hanno il potere di eleggere (a scrutinio segreto) delegati (vescovi) all’Assemblea secondo quanto previsto dal can. 346 del Codice di diritto canonico. La novità sta che gli organismi dei religiosi sono comparati ai precedenti nella loro potestas elettiva e che gli eletti non sono solo chierici ma religiosi e religiose in parti uguali. Di fatto le uniche donne «elette» saranno delle religiose.
Infatti tutti gli altri (giovani, donne, laici o altri ancora) saranno designati da vescovi e poi ratificati dal papa in persona, al quale spetta un’ampia possibilità di scelta.
Dunque una procedura della corrente prassi democratica per i membri-vescovi e religiosi e una procedura invece più simile alla cooptazione (indicazione-designazione in base ad alcuni criteri guida) che culmina nella ratificazione da parte del vertice.
A partire dal ragionamento su questi meccanismi procedurali mi viene in mente quanto acutamente osservato – tra l’altro –
da Christoph Theobald SI α1946 al congresso della Gregoriana: occorre prendere atto che «la ragione politica e la ragione sinodale s’incrociano» e che tale incrocio non può essere liquidato dalla più scontata delle affermazioni che dice che «la Chiesa non è una democrazia».
L’uso degli aggettivi: «intaccato». Uno dei maggiori timori che in questo percorso sinodale si percepisce è che l’associazione dei laici ai processi decisionali possa «intaccare» la potestas episcopale, perché, nonostante le parole dicano il contrario, spesso i vescovi sembrano non essere «popolo». Il fatto che il comunicato usi proprio questo aggettivo è una evidente excusatio non petita ai sicuri attacchi del partito anti-sinodale, che tra i vescovi ha alcuni chiassosi esponenti.
Più seriamente, durante un dibattito in Gregoriana Michael Seewald si chiedeva se non fosse giunto il tempo di un approfondimento, ripensamento, conversione del significato della collegialità episcopale nel suo rapporto con la sinodalità.
D’altra parte è risultato molto chiaro che il Cammino sinodale tedesco, scegliendo di associare i laici sia nel momento del decision making [il processo] sia in quello del decision taking [attuare] (con i correttivi delle necessarie percentuali differenziate di voti a favore, dove cioè i vescovi avevano una preminenza) sia da alcuni via preferibile alla soluzione scelta, ad esempio, dal Concilio plenario australiano, che ha associato i laici nel primo momento ma quanto al secondo lo ha riservato solo ai vescovi.
Ne è stata prova, al congresso, il duro intervento in questo senso
del sottosegretario del Dicastero per i testi legislativi, mons. Markus Graulich, SDB α1964.
Il ruolo del diritto canonico. La decisione d’introdurre questi cambiamenti senza apparentemente modificare nessun canone del Codice di diritto canonico porta immediatamente alla domanda sul suo ruolo nella vita della Chiesa (da leggere il libro di Fantappiè sul tema). O all’affermazione fatta da alcuni secondo i quali esso sarebbe un ostacolo sulla via della «riforma» sinodale della Chiesa.
Come ha acutamente osservato
Myriam Wijlens,α962 non c’è canone che possa rendere «obbligatoria» la sinodalità a chi non la vuole vivere e, d’altra parte, è vero che in barba al Codice la storia della Chiesa ha registrato prassi e istituzioni sorte perché se ne percepiva la necessità ma recepite da esso molto tempo dopo, come nel caso delle conferenze episcopali. In altre parole, se manca l’habitus sinodale non ci sarà codificazione canonica che terrà. E, al contrario, dove c’è una forte volontà di viverla – soprattutto se proveniente dal «supremo legislatore» – un modus per realizzarla lo si troverà sicuramente.
Quindi, sì, questa può essere considerata una piccola grande rivoluzione e la riprova sarà il suo concreto funzionamento in assemblea.
Maria Elisabetta Gandolfi Caporedattrice Attualità per “Il Regno” Re-blog 30 aprile 2023
CONSULTORI UCIPEM
Etica, Salute & Famiglia – anno XXVII-n. 3, maggio-giugno 2023
Periodico a cura del Consultorio di Mantova e dell’Associazione Virgiliana di Bioetica
- In Italia prosegue l’inverno demografico Armando Savignano, docente Univ. Trieste
- ↓Dare parole al disagio: ruolo preventivo della scuola Paolo Breviglieri, psicologo
- ↓Medicina di genere. Una nuova sfida Gabrio Zacché, primario emerito Ost. Ginec.
- Emozioni in gravidanza Francesca Amerini, psicologa
- Progetto Menopausa Cristina Danielis, ostetrica-
- Un Dio che si affida agli uomini nel primo testamento Egidio Faglioni, teologo
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA_SALUTE_FAMIGLIA_-_2023_anno_XXVII_n03_-_Maggio_Giugno_web.pdf
CONTRACCEZIONE
Luciani, la dottrina morale e lo sguardo del Pastore
Le posizioni aperturiste sulla pillola, espresse quando era vescovo di Vittorio Veneto, prima dell’Humanæ vitæ di Paolo VI, enciclica che poi difese. S’avvicina la data della beatificazione d’Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I,[α1912-ω1978]
e in questi giorni si è tornati a parlare della sua posizione possibilista e delle sue caute aperture sul tema della contraccezione, espresse quando era vescovo di Vittorio Veneto e prima che Paolo VI [α26 settembre 1897- ω6 agosto 1978] pubblicasse il 25 luglio 1968 l’enciclica Humanæ vitæ, che dichiarerà illecito l’uso degli anticoncezionali. Colpisce ascoltare dalla viva voce di colui che sarebbe diventato successore di papa Montini, grazie a un rarissimo audio, parole come quelle pronunciate nella primavera del 1968 in una parrocchia di Mogliano Veneto. Luciani, che anche da vescovo confessava molto ed era un pastore vicino alle famiglie e ai loro problemi, si rifaceva a ciò che avevano scritto i padri del Concilio Ecumenico Vaticano II nella costituzione pastorale Gaudium et spes riconoscendo le circostanze che sconsigliano o rendono impossibile aumentare il numero dei figli.
L’audio ritrovato. Nel corso di quella conferenza aveva detto: “Per me questa è la più grossa questione teologica che sia mai stata trattata nella Chiesa. Quando c’erano Ario o Nestorio e si parlava sulle due nature in Cristo, erano sì questioni gravi, ma le capivano soltanto al vertice della Chiesa, i teologi i vescovi: la povera gente non capiva niente di queste cose e diceva: ‘Io adoro Gesù Cristo, voglio bene al Signore che mi ha redento’ e tutto era lì, non c’era nessun pericolo. Qui invece c’è un problema che non riguarda più i vertici della Chiesa, ma tutta la Chiesa, tutte le giovani famiglie…”. E aveva aggiunto poco dopo di sperare in una parola “liberalizzatrice” da parte del Pontefice.
Il vescovo Luciani era preoccupato per le coppie di sposi, per le famiglie. Nel 1965, predicando gli esercizi spirituali nella Villa del Sacro Cuore a Possagno, aveva affermato: “L’argomento è così tremendo: ci sono milioni di fedeli in peccato, mentre sarebbero a posto per tutto il resto… Noi non possiamo assolutamente disinteressarcene. Se c’è anche una sola possibilità su mille, dobbiamo trovarla questa possibilità e vedere se per caso, con l’aiuto dello Spirito Santo scopriamo qualcosa che finora ci è sfuggito”. Come è noto, papa Paolo VI aveva avocato a sé la decisione affidando una prima disamina a una commissione di esperti, e il Concilio non si era espresso.
L’argomentazione del vescovo. Nei tre anni che vanno dalla fine del Vaticano II alla pubblicazione dell’ Humanæ vitæ, Luciani aveva studiato la questione. In un dattiloscritto inedito, databile all’agosto 1967, che era stato custodito dal suo segretario a Vittorio Veneto e ora si trova tra i documenti della Postulazione della causa di canonizzazione, Luciani argomenta la sua cauta apertura all’uso della pillola ricordando che la natura stessa blocca l’ovulazione nella donna dopo che questa è rimasta incinta per tutta la gravidanza e nei primi mesi dell’allattamento. “Sembra che sia lecita questa interpretazione: la natura, anche per mezzo del progesterone – scriveva il vescovo – pensa a dare un po’ di riposo alla madre e al bene del figlio (provvedendo a che egli sia partorito unico e a distanza). Il ‘progestinico’ non è altro che progesterone sintetico, fabbricato in laboratorio. Pare che non si vada contro natura, se, fabbricato a imitazione del progesterone naturale, lo si usa per distanziare un parto dall’altro, per dare riposo alla madre e per pensare al bene dei figli già nati o da nascere. Naturalmente, per la liceità del suo uso, devono concorrere le circostanze: intenzione retta, ossia proposito di mettere al mondo – nell’arco degli anni della fecondità – il numero dei figli che si possono convenientemente mantenere ed educare…”.
E a proposito dell’obiezione sollevata, e cioè che la pillola progestinica fosse “contro natura”, Luciani aggiungeva: “Qualcuno dice: la natura ha stabilito che la donna ogni mese abbia l’ovulazione. Sì, ma la stessa natura sospende l’ovulazione durante la gestazione e l’allattamento e dopo la menopausa. Bisogna badare a non prendere la ‘natura’ in senso troppo stretto. La natura vuole, per esempio, che noi siamo più pesanti dell’aria: ciononostante facciamo bene a viaggiare via aerea imitando il principio naturale per cui volano gli uccelli. Il Magistero può certo interpretare autenticamente le leggi naturali. Ma con molta prudenza, quando ha in mano dati certi. Nel nostro caso i dati sembrano tali o che si dica: è lecito, o almeno si dica: non consta, è dubbio. Nel dubbio, non si può accusare di peccato chi usa la pillola”.
Un dossier apprezzato. Le argomentazioni del giovane (65 anni) vescovo di Vittorio Veneto (1958-1970) colpirono il patriarca di Venezia Giovanni Urbani, che lo incaricò di redigere un documento a nome dell’episcopato dell’Italia settentrionale. Il dossier preparato da Luciani era stato apprezzato da Urbani che nella primavera del 1968 lo aveva fatto arrivare sulla scrivania del Papa. Paolo VI lo aveva valutato molto positivamente, dicendo al patriarca Urbani di “tener d’occhio quel vescovetto”. Un anno dopo, morto improvvisamente Urbani, sceglierà proprio “quel vescovetto” per la sede patriarcale veneziana e creandolo cardinale nel 1973 gli aprirà la strada per divenire, cinque anni dopo, suo successore sulla cattedra di Pietro.
La difesa dell’enciclica. Ciò che colpisce è l’atteggiamento di Luciani: aperto alla discussione, anche in pubblico, senza soverchi timori. Poi, una volta che il Papa, in modo meditato e sofferto, prende la decisione di non aprire all’uso della pillola, eccolo a difendere l’enciclica e scrivere che Paolo VI “si pronuncia con la coscienza di assolvere ad un dovere e con grande spirito di fede. Conosce, infatti, che sta per causare amarezza in molti; sa che una soluzione diversa gli avrebbe procurato, probabilmente, più plausi umani; ma mette la sua fiducia in Dio, e per essere fedele alla sua parola, ripropone l’insegnamento costante del Magistero nella delicatissima materia in tutta la sua purezza”. Luciani concludeva quel suo primo commento all’enciclica: “Il pensiero del Papa e mio va specialmente alle difficoltà talora gravi degli sposi. Non si perdano di coraggio, per carità!”.
E il 4 agosto 1968, sul settimanale della sua diocesi, il pastore di Vittorio Veneto pubblicava una lettera sull’Humanæ vitæ dal titolo: “Il vescovo presenta la nuova enciclica. Adesione all’insegnamento del Papa che parla con speciali carismi nel nome di Dio”. Il futuro Giovanni Paolo I, con questo anelito all’unità della Chiesa attorno a Pietro, accompagnerà per il decennio successivo il pontificato di Paolo VI, attraverso i momenti difficili della contestazione, vissuti dallo stesso Luciani a Venezia. E il Papa gli chiederà di scrivere commenti e articoli di fondo per L’Osservatore Romano, spesso pubblicati senza firma.
L’esempio citato da Ratzinger. Questa testimonianza richiama uno sguardo sulla Chiesa che aveva segnato anche la vita del giovane Joseph Ratzinger, anche se in questo caso si trattava di tutt’altra materia e coinvolgeva il dogma. Il futuro papa Benedetto XVI, nella sua autobiografia, ricordava il clima del dibattito teologico che precedette la proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria da parte di Pio XII, avvenuta durante l’Anno Santo del 1950. Papa Pacelli aveva chiesto un parere alle facoltà teologiche di tutto il mondo. “La risposta dei nostri docenti – scrive Ratzinger fu decisamente negativa. In questo giudizio si faceva sentire l’unilateralità di un pensiero che aveva un presupposto non solo e non tanto storico, ma storicistico. La tradizione veniva difatti identificata con ciò che era documentabile nei testi”.
Ratzinger ricordava che nel 1949, un anno prima della proclamazione del dogma, il professor Gottlieb Söhngen si era pronunciato decisamente contro. Un altro docente, Eduard Schlink, professore di teologia sistematica a Heidelberg, gli aveva chiesto: “Che cosa farà se il dogma venisse comunque proclamato? Non dovrebbe voltare le spalle alla Chiesa cattolica?”. Söhngen aveva risposto: “Se il dogma sarà proclamato, mi ricorderò che la Chiesa è più saggia di me e che io ho più fiducia in lei che nella mia erudizione”. “Credo che questa scena – è la conclusione del futuro Benedetto XVI – dica tutto lo spirito con cui a Monaco si faceva teologia, in maniera critica ma credente”.
Una testimonianza attuale. L’atteggiamento del futuro beato Albino Luciani sulla pillola, la sua vicinanza concreta ai problemi delle famiglie e la sua fedeltà al Successore di Pietro rappresentano una testimonianza di grande attualità anche oggi. Ai cardinali che stavano per lasciare Roma, il 30 agosto 1978, Giovanni Paolo I aveva detto: “Abbiate pietà del povero papa nuovo, che veramente non aspettava di salire a questo posto. Cercate di aiutarlo e cerchiamo insieme di dare al mondo spettacolo di unità, anche sacrificando qualche cosa alle volte; ma noi avremmo tutto da perdere se il mondo non ci vede saldamente uniti”.
Andrea Tornielli Vatican news 21 giugno 2022
www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-06/papa-luciani-giovanni-paolo-i-pillola-humanae-vitae-tornielli.html#Una%20Testimonianza%20attuale
Pillola contraccettiva gratuita: i vantaggi per la salute
Benissimo ha fatto l’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) a decidere che la pillola contraccettiva sia rimborsata dal Sistema Sanitario Nazionale, perché è un’ottima alleata della salute della donna, sia per la contraccezione, sia per ridurre le molte patologie che peggiorano in fase mestruale. Dal 1978, quando venne votata con referendum popolare la legge 194 per l’utilizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sotto la tutela dello Stato, il ricorso all’aborto si è molto ridotto. Dal picco del 1983, con 234.801 casi, si è arrivati a 67.638 nel 2021 (ultimo dato reperibile). Purtroppo è in netto aumento l’utilizzo della contraccezione di emergenza. Nel 2012 sono state vendute 363.600 confezioni di pillole del giorno dopo, nel 2018 ben 573.100 (58% in più) e il numero continua a salire.
Scegliere una contraccezione che previene l’ovulazione, e quindi il concepimento, è più “rispettoso della vita” sia della contraccezione di emergenza, sia dell’interruzione di una gravidanza già iniziata, con buona pace della fronda cattolica che si è inalberata per la saggia e lungimirante decisione dell’AIFA.
Non marginale, solo la metà dei figli è concepita scegliendolo consapevolmente, con la giusta preparazione preconcezionale. Per una coppia italiana su due, si va dal «se capita siamo contenti» a «che iattura, sono incinta! Ma ormai che si fa, lo teniamo…». Poter scegliere quando, se e con chi diventare madre, grazie a una contraccezione ben scelta, è un atto di libertà, ma anche di amore e rispetto per il bimbo che verrà, che avrebbe il diritto di nascere desiderato, da una coppia che si è preparata per averlo e seguirlo in modo adeguato.
Benissimo la gratuità anche per l’uso terapeutico della contraccezione, su cui ho esperienza clinica pluridecennale. I benefici per la salute delle donne, ancora sottostimati nel nostro Paese, sono enormi. Attenzione: cento anni fa, una donna aveva al massimo 140-150 cicli nell’arco dell’intera vita fertile. Rispetto a oggi, prima mestruazione più tardi, prima gravidanza spesso prima dei venti anni, molte gravidanze a seguire, spaziate da lunghi allattamenti. Oggi le donne italiane hanno circa 13 cicli l’anno, 450-480 nell’arco della vita, e di più se la pubertà compare prima dei 10 anni. L’età media al primo figlio è 32 anni e 6 mesi, con più dell’8% di prime gravidanze dopo i 40 anni (record mondiale), con un figlio in media per coppia, e allattamenti brevi (media 6 mesi). Se non c’è stato concepimento, ogni mestruazione si associa a un’infiammazione, ossia un micro-incendio biologico acceso dalla caduta di estrogeni e progesterone che consente il distacco a stampo dell’endometrio, lo strato interno dell’utero, affinché possa rinnovarsi per essere pronto ad accogliere un eventuale ovetto fecondato nel ciclo successivo.
Quest’infiammazione è fisiologica, ossia normale, se persegue l’obiettivo di rinnovare l’endometrio, seguendo un raffinato e ben concertato programma di distruzione e rigenerazione endometriale mirata. In tal caso l’infiammazione è “resolving” (ossia in grado di garantire la perfetta “restitutio ad integrum”, il rinnovo anatomico e funzionale del tessuto), è di breve durata e di intensità limitata, e si associa a modesto dolore. Se la donna ha cicli abbondanti (il 20% delle italiane), aumenta il dolore mestruale, fino alla dismenorrea severa, aumenta il rischio di anemia da carenza di ferro con depressione, astenia e perdita di energia vitale, e aumenta di 5 volte il rischio di endometriosi, una patologia serissima.
Cicli abbondanti ed endometriosi sarebbero intercettati e curati perfettamente con un uso tempestivo della contraccezione, riducendo il numero di cicli per anno. In parallelo, si possono attenuare tutte i disturbi infiammatori che vengono esasperati dal ciclo: asma mestruale (meno 30%), epilessia mestruale (fino a meno 50%), sindrome dell’intestino irritabile, vescica dolorosa, vulvodinia, cefalea mestruale, con una pregevolissima riduzione del dolore associato di circa il 30%. Non a caso il 43% delle mie pazienti utilizza la contraccezione terapeutica, a lungo e con soddisfazione, finché non desidera bimbi, contro una media italiana inferiore al 15%. A tutto ciò va aggiunto che la contraccezione ormonale riduce dell’8% il rischio di cancro ovarico per ogni anno d’uso e del carcinoma endometriale fino al 50% dopo cinque anni d’uso.
Perché soffrire per anni, quando una contraccezione intelligente può restituire alla donna pienezza di energia per realizzare talenti e sogni nella vita? Al costo di un semplice contraccettivo, molto meno dispendioso di farmaci, indagini e ricoveri per patologie che altrimenti diventano ben più serie, oltre ai costi non quantizzabili, ma enormi, di vite amputate di felicità e di futuro.
Il prossimo passo? Mi aspetto che l’AIFA, in stato di grazia decisionale, renda rimborsabili anche le cure ormonali per la menopausa. Unitamente a stili di vita sani, questo sarebbe un enorme passo avanti per garantire longevità felice in salute per milioni di donne italiane. Io ci sono!
prof.ssa Alessandra Graziottin, 01 maggio 2023
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano
www.alessandragraziottin.it/it/articoli.php/Pillola-contraccettiva-gratuita-i-vantaggi-per-la-salute?EW_FATHER=35037&ART_TYPE=AQUOT
Contraccezione gratuita in Toscana: confermata per under 25 e su base Isee
La Regione è stata la prima nel 2018 ad attivare questa possibilità e anche per il 2023 offrirà pillola e altri metodi gratuitamente ai giovani tra 14 e 25 anni e alle donne con Isee inferiore a 36mila euro.
La Toscana è stata la prima Regione in Italia nel 2018 a offrire la dispensazione gratuita della pillola anticoncezionale e di altri metodi contraccettivi anche per il 2023 proseguirà con questa misura, che è una delle esperienze più avanzate nel nostro paese. Un impegno, confermato da una recente delibera regionale, che si traduce in una spesa da 350mila euro l’anno.
Chi può usufruire della contraccezione gratuita. Pillola anticoncezionale ed altri metodi contraccettivi sono gratuiti per i giovani da 14 a 25 anni che si recano al consultorio e per le donne, tra 26 e 45 anni, che hanno un reddito fiscale o un Isee che non supera 36.151,98 euro. Contraccezione gratuita anche per le donne, tra 26 e 45 anni, entro dodici mesi dal parto o due anni da un’interruzione della gravidanza. In questo caso non occorrono ulteriori requisiti economici.
La misura è estesa inoltre anche a studenti e studentesse, fino a 25 anni di età e possessori della carta unica dello studente universitario, iscritti alle tre Università toscane di Firenze, Pisa e Siena e all’Università per stranieri di Siena.
Chi non rientra in nessuna di queste categorie, rivolgendosi al consultorio può comunque ricevere gratuitamente un parere, la visita ginecologica, la prescrizione dei contraccettivi e l’inserimento dei dispositivi intrauterini o sottocutanei, che saranno disponibili con una tariffa agevolata.
Nel 2021 sono state 12.500 le donne che hanno usufruito della contraccezione gratuita. La Regione, grazie a finanziamenti ministeriali, organizza anche iniziative nelle scuole per la promozione dell’educazione alla sessualità e all’affettività. Per quanto invece riguardo gli accessi ai consultori toscani, nel triennio 2019-2021 sono state dispensate 1 milione e 45.494 prestazioni per 371.220 utenti.
“Abbiamo voluto confermare il programma di contraccezione gratuita – spiega l’assessore al diritto alla salute, Simone Bezzini – perché lo riteniamo un servizio importante: fino a 25 anni senza paletti legati al reddito, con una soglia Isee e di reddito fiscale per chi ha invece più di 25 anni.
Tra gli obiettivi della misura c’è il contrasto alle malattie sessualmente trasmissibili e la riduzione delle interruzioni di gravidanza volontarie, soprattutto tra la platea di destinatari e destinatarie fino ai 25 anni, garantendo l’accesso gratuito ai metodi contraccettivi e favorendo scelte informate e consapevoli”.
Redazione InToscana 1° febbraio 2023
www.intoscana.it/it/articolo/contraccezione-gratuita-toscana
Che cosa dice la Bibbia riguardo alla contraccezione?
Dio diede all’uomo il seguente incarico: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Genesi 1:28), e il matrimonio fu da Lui istituito come un ambiente stabile i cui avere i figli e allevarli. Nella nostra società, i figli sono considerati spesso un fastidio e un peso. Sono d’intralcio alla carriera delle persone, al conseguimento di certe mète finanziare e al proprio “status sociale”. Spesso c’è l’egoismo alla radice dell’impiego della contraccezione.
Genesi 38 parla dei figli di Giuda, Er e Onan. Er sposò una donna di nome Tamar, ma era malvagio e il Signore lo fece morire, lasciando Tamar vedova e senza figli. Tamar fu data in moglie al fratello di Er, Onan, in armonia con la legge del levirato di Deuteronomio 25:5-6. Onan non volle dividere l’eredità con nessun figlio che avrebbe potuto generare con Tamar per conto del fratello, così praticò la forma più antica di contraccezione. È scritto in Genesi 38:10: “Ciò che egli faceva dispiacque al Signore, il quale fece morire anche lui“. La motivazione di Onan fu egoistica: usò Tamar per il proprio piacere, ma rifiutò di adempiere al suo dovere “fraterno” procreando un erede per il suo fratello defunto. Spesso si indica questo brano per dimostrare che Dio non approva la contraccezione. Tuttavia, non fu l’atto contraccettivo a indurre il Signore a mettere Onan a morte, quanto piuttosto le sue motivazioni egoistiche dietro l’azione.
Ecco alcuni versetti che descrivono i figli dalla prospettiva di Dio: essi sono un dono di Dio (Genesi 4:1; 33:5), un’eredità del Signore (Salmi 127:3-5, ND), una benedizione di Dio (Luca 1:42), la corona dei vecchi (Proverbi 17:6). Inoltre, Dio benedice le donne sterili con i figli (Salmi 113:9; Genesi 21:1-3; 25:21-22; 30:1-2; 1 Samuele 1:6-8; Luca 1:7, 24-25), forma i figli nel grembo (Salmi 139:13-16) e li conosce prima della loro nascita (Geremia 1:5; Galati 1:15).
È importante vedere i figli come li vede Dio, non come ci dice il mondo che dovremmo farlo. Detto ciò, la Bibbia non proibisce la contraccezione, la quale è per definizione il semplice opposto di concezione. Non è l’atto della contraccezione in sé a stabilire se esso sia giusto o sbagliato. Come abbiamo appreso da Onan, è la motivazione dietro la contraccezione a determinarlo. Se delle persone praticano la contraccezione perché vogliono avere di più per se stessi, allora essa è sbagliata. Se praticano la contraccezione per rimandare temporaneamente la nascita dei figli finché non siano più mature e più preparate a livello finanziario e spirituale, allora forse è lecito ricorrere alla contraccezione per un certo periodo. Ribadisco che dipende tutto dalle motivazioni.
La Bibbia presenta sempre il fatto di avere dei figli come qualcosa di buono. La Bibbia si “aspetta” che un marito e una moglie abbiano dei figli. Nella Scrittura, l’incapacità di averne è presentata sempre come qualcosa di negativo. Non c’è nessuno nella Bibbia che abbia espresso il desiderio di non avere figli. Noi crediamo certamente che tutte le coppie sposate dovrebbero cercare di averne. Allo stesso tempo, non crediamo che si possa affermare in base alla Bibbia che sia esplicitamente sbagliato ricorrere alla contraccezione per un certo periodo di tempo. Tutte le coppie sposate dovrebbero cercare la volontà del Signore rispetto al momento in cui dovrebbero cercare di avere figli e riguardo al loro numero.
Got Question Minstries (gruppo interconfessionale)
www.gotquestions.org/Italiano/contraccezione.html
DALLA NAVATA
V domenica di PASQUA
Atti degli Apostoli 06, 02. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
Salmo responsoriale 32, 04. Perché retta è la parola del Signore e fedele ogni sua opera. Egli ama la giustizia e il diritto; dell’amore del Signore è piena la terra.
1Pietro 02, 09. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.
Giovanni 14, 08. Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
Parola in cammino
La pagina del Vangelo di oggi è sicuramente abbastanza complessa e non facile da comprendere. La prima cosa che viene detta è che la realtà in cui i discepoli di Gesù vivono è solo di passaggio, la loro destinazione è «altrove». Non solo, ma in tale «luogo» c’è già un posto preparato per loro e sembra che, stando alle parole di Gesù, costoro conoscano la strada per raggiungerlo: «E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Ma ciò che è scontato per Gesù, di fatto non lo è per i discepoli, e a prendere la parola è ancora una volta Tommaso che, a quanto pare, è destinato a fare la parte non solo dell’incredulo ma, qui, anche di chi «coraggiosamente» esprime quella perplessità che forse alberga nel cuore e nella mente di tutto il gruppo: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?».
C’è dunque uno iato, una distanza, tra quanto Gesù pensa sia ovvio e quanto, di fatto, non lo è per i suoi discepoli. La risposta che Gesù dà anziché chiarire le cose in un certo senso le complica: «Io sono la via, la verità e la vita». Vediamo di declinare questa risposta.
Conoscere la via – per giungere dove Gesù sta andando – significa conoscere Gesù non solo, ma tale conoscenza «è verità», e tale «verità» è «vita». Gesù dunque è la «via» che conduce alla «verità» e questa verità, a sua volta, conduce/produce «vita». In gioco ci sono tre concetti che hanno un «peso specifico» notevole e che attendono di essere compresi per giungere a quella «conoscenza» di cui Gesù parla.
La tentazione, tipica della nostra cultura occidentale, è quella di cercare una definizione per ciascuno di questi termini che possa essere chiara, esaustiva e dimostrabile, cioè dichiarabile, esprimibile. Ma se percorriamo tale strada è molto facile che alla fine ci perdiamo dietro alle numerose elucubrazioni filosofiche che, peraltro, ci hanno già preceduto. Credo quindi che l’approccio per comprendere questa risposta di Gesù debba essere di tipo diverso.
C’è un particolare importante, infatti, che può illuminare in questo senso: Gesù non dice «questa è la via, la verità e la vita», ma «io sono la via, la verità e la vita», sottolineando e richiamando così l’attenzione a un «qualcosa» che è posto in relazione con lui. La «via», quindi, non può essere intesa come un percorso tracciato su una mappa, qualcosa di visibile e ostentabile, ma come un’esperienza di cammino in relazione, qualcosa che si scopre solo quando si è in movimento e passo dopo passo se ne individua il percorso.
Questo vale anche per il termine «verità»: sarebbe impensabile racchiudere Gesù in una definizione; l’unica possibile comprensione del suo essere «verità» è essere in relazione con lui, vivere la dinamica dell’ascolto, della sequela e persino della contemplazione. La verità che Gesù è non è un qualcosa che si può possedere, circoscrivere, definire, ma una persona con cui si può solo entrare in relazione, di cui si può fare esperienza. E quanto più questa relazione sarà autentica e coinvolgente, tanto più sarà «vera».
Per ultimo, sempre sulla stessa scia, è da considerarsi la terza affermazione: «Io sono la vita». Il camminare, l’immergersi in un percorso, in compagnia e in ascolto di Gesù, produce vita. Anche qui ciò che è in gioco è l’esperienza relazionale, dinamica, non predeterminata o preordinata, ma costantemente vera, proprio perché costantemente nuova, in una relazione che non può mai essere data, proprio perché sempre viva; laddove questo essere viva produce «vita», una vita che si apre e si scopre istante per istante senza una fine, perché la fine sarebbe il termine della relazione.
All’interno di queste tre realtà – via, verità e vita – vi è dunque in gioco la libertà, il costante decidersi, il trasformare il desiderio in atto e l’atto in dono verso l’Altro, in un labirinto di sguardi, di voci, di emozioni; tutti elementi che contribuiscono ad attuare la massima realizzazione della relazione che è amore.
La conoscenza di cui Gesù parla e che i suoi discepoli hanno già, anche se non ne sono consapevoli, è la conoscenza dell’amore, l’amore che hanno sperimentato e che ogni giorno di più è cresciuto in loro nei confronti del Maestro; ed è proprio questo amore «quel luogo» in cui si può arrivare attraverso il «vero» cammino della «vita»: il nostro «posto» accanto al Signore, per sempre.
Ester Abbattista, biblista https://re-blog.it/2022/06/27/benvenuta-a-ester-abbattista
EDUCAZIONE CATTOLICA
Francesco in Ungheria, il rettore: “Tre i pilastri dell’educazione cattolica”
Kuminetz Geza, (α1959) rettore dell’Università Cattolica Pázmány Péter, spiega il senso della visita del Papa e dell’educazione cattolica in un mondo sempre più secolarizzato. Sono tre i pilastri dell’educazione cattolica: la scienza vera, la religione vera e la sana identità nazionale. E sono questi tre i pilastri su cui si basa il progetto di formazione delle università cattoliche, e in particolare dell’Università Cattolica Pázmány Péter, che Papa Francesco ha visitato alla fine del suo viaggio a Budapest.
Lo spiega in una intervista ad ACI Stampa Kuminetz Géza,) rettore dell’università–.
“Il Papa è stato nel campus di Informatica e Bionica, nato 25 anni fa dalla mente brillante di un professore che aveva già capito che la sfida del futuro sarebbe stata quella dell’intelligenza artificiale. Ma è entrato soprattutto in una università cattolica che ha una storia antica, ma che si è costituita come cattolica trenta anni fa, e che ha avuto tra i suoi rettori.
l’attuale arcivescovo di Budapest, il Cardinale Peter Erdő (α1952)”
Per il suo ultimo incontro in Ungheria, Papa Francesco va in una università cattolica, e in particolare nel Dipartimento di Informatica e Scienze Bioniche. È in qualche modo un segnale?
La visita in quel particolare dipartimento nasce anche dal fatto che quell’edificio è l’unico adatto all’accoglienza del Papa, mentre il nuovo campus universitario sarà pronto solo tra quattro anni. Ma, se è una scelta deliberata dal Papa, ha un significato simbolico grande. L’Università Cattolica ha un ruolo importante nella vita della Chiesa, e ha anche la necessità di badare allo sviluppo delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale. Chi possiede gli strumenti delle biotecnologie può sfruttare tutta l’umanità, e la società può essere vittima di una manipolazione. In questo senso, saranno in pericolo la dignità umana, la libertà umana, i diritti umani.
Da quando c’è questo dipartimento?
Il dipartimento compie 25 anni, era nata come una specializzazione nuova dell’Università nel 1998. Fu una scelta profetica.
Ma cosa significa essere una università cattolica oggi?
Università Cattolica è un luogo privilegiato dove si coltivano tre ambiti:
- la scienza vera escludendo lo scientismo;
- la religione vera
- la sana identità nazionale, escludendo il nazionalismo.
Questi tre ambiti sono i più cari tesori della persona umana. Questi tre criteri permettono di sviluppare la personalità umana, consapevoli che oggigiorno ci sono tanti problemi di personalità, basti pensare alla “triade oscura” del machiavellismo, delle psicopatologie, del narcisismo. E questi tre criteri sono le armi con cui la Chiesa lotta contro questa triade oscura.
In Ungheria si assiste ad una “rinascita cristiana”. Questo cosa significa per l’Università Cattolica?
Istituzionalmente è vero che c’è rinascita cristiana in Ungheria, ma la fede nasce dalla grazia non dalla istituzione, non nasce con il denaro.
Quale messaggio si aspetta da Papa Francesco?
Dobbiamo ascoltare cosa ci dirà e anche il nostro Papa ha naturalmente i suoi temi preferiti: la pace, la protezione del creato, la scienza che deve servire l’uomo e non viceversa, l’economia che aiuta e non sfrutta l’uomo. Tutti questi temi sono temi con cui può confermare i fratelli nella fede indicandoci dove si trova la verità, dove si trova la via e la vita, dove è il Signore. Alla fine, Cristo è l’unico salvatore dell’uomo e anche delle scienze.
Come pensa che l’educazione cattolica possa avere un impatto oggi nel mondo secolarizzato?
Certo ha qualche effetto nel mondo odierno. Tuttavia, credo che noi cattolici e scienziati abbiamo un concetto integrale della verità e della conoscenza umana. Per questo, abbiamo bisogno di tanti tipi di conoscenza.
- Prima di tutto il buon senso, il senso comune.
- Poi la tradizione, che è una importante esperienza dell’umanità.
- E infine, abbiamo bisogno delle scienze positive, la filosofia la teologia ed anche la conoscenza mistica. Tutto appartiene al concetto integrale della verità e soltanto questo intero regala all’uomo il senso della vita. Già ho menzionato nella società ci sono tanti problemi causati proprio dall’uomo. Le nostre società sono diventate deumanizzate a causa delle ideologie. Così, l’uomo lotta non solo contro la natura, non solo contro Dio, ma solo contro la sua vera natura. Così, l’essere umano soffre di questa brutta esperienza, e dopo questa sofferenza forse comincia a cercare la verità, a cercare il Messia, con la volontà di edificare una normale vita comunitaria, cerca vera scienza e vera religione. Così oggi la missione dell’università è ri-umanizzare la società. È la sua terza missione dopo l’insegnamento e la ricerca.
Quali sono gli obiettivi dell’Università?
Vogliamo che I nostri studenti e docenti imparino a valorizzare il concetto integrale della verità, e che capiscano cosa è più caro tesoro della vita e in questo consiste la maturità della personalità. Oggi si parla di quoziente intellettivo (IQ) e quoziente emozionale (EQ), ma ci sono anche l’intelligenza politica, l’intelligenza di resilienza e l’intelligenza morale. Noi vogliamo sviluppare tutte queste intelligenze, perché se una persona le possiede tutte allora probabilmente ha la necessaria maturità.
Andrea Gagliarducci ACI Stampa Budapest, 1. maggio, 2023
www.acistampa.com/story/papa-francesco-in-ungheria-il-rettore-tre-i-pilastri-delleducazione-cattolica.
GARANTE PER L’INFANZIA
Contro la pedofilia, «misure e iniziative efficaci»
www.garanteinfanzia.org
L’intervento di Carla Garlatti (α1957) nella Giornata nazionale di contrasto al fenomeno. «La vera sfida è la prevenzione, innanzitutto sul piano culturale ed educativo. Nella Giornata nazionale contro pedofilia e pedopornografia, che si celebra oggi, 5 maggio, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti mette l’accento sulla «comune responsabilità» di «individuare misure e iniziative efficaci per prevenire e contrastare» il fenomeno. Si tratta di «crimini odiosi e complessi che calpestano, più di altri, i diritti di bambini e adolescenti e che producono conseguenze drammatiche, non solo nell’immediato ma anche nel futuro con effetti sulla salute mentale delle vittime», sottolinea.
La violenza «avviene in diversi ambienti: tra le mura domestiche, a scuola e nei luoghi in cui i ragazzi si riuniscono o svolgono attività – sono ancora le parole della garante -. È essenziale che ciascuno presti attenzione ai segnali di un possibile abuso. Non è sempre facile riconoscerli: per questo serve formazione e sensibilizzazione. Allo stesso modo occorre verificare affinché chi sta a diretto contatto con i bambini e ragazzi non abbia precedenti per violenza sessuale nei confronti dei minorenni». Accanto a questi, ci sono poi i «”nuovi luoghi”, come l’ambiente digitale, nei quali il continuo e repentino cambiamento tecnologico rende più difficile intercettare e contrastare i pericoli. Occorre quindi formare una cultura del digitale che attraverso maggiori competenze di minorenni e famiglie argini preventivamente i rischi di un mondo che cambia, anche in virtù delle nuove opportunità offerte dall’intelligenza artificiale».
Nell’analisi di Garlatti, insomma, «la vera sfida è la prevenzione, da realizzare innanzitutto sul piano culturale ed educativo. Come Autorità garante abbiamo avviato in questi anni iniziative di formazione e di sensibilizzazione con le forze di polizia e i tecnici sportivi e siamo aperti a promuoverne di analoghe con altre categorie di professionisti e operatori. Allo stesso tempo voglio richiamare l’attenzione sull’importanza dei dati, essenziali per valutare l’efficacia degli interventi messi in atto. Come Autorità garante – ricorda ancora – abbiamo promosso una ricerca sul maltrattamento all’infanzia, della quale a breve partirà una nuova edizione, e contribuiamo ai lavori dell’Osservatorio per il contrasto della pedofilia e della pornografia minorile nel cui ambito sarà di enorme importanza l’implementazione della banca dati».
Redazione on line RomaSette 5 maggio 2023
www.romasette.it/garante-infanzia-contro-la-pedofilia-misure-e-iniziative-efficaci
MEDICINA DI GENERE
Una nuova sfida
Nel dibattito antropologico e sociologico contemporaneo, il termine gender ha sostituito il termine sesso per indicare la tipizzazione sociale, culturale e psicologica delle differenze tra maschi e femmine. Il genere è nella natura biologica degli esseri umani e si presenza con specifiche differenze genetiche, ormonali e fisiche; questo avviene prima di qualsiasi influenza ambientale, pedagogica e sociale. La Medicina di Genere diventa una necessaria conseguenza, in quanto l’influenza del sesso e del genere cambia la fisiologia e la patologia umana. Essa studia quindi le patologie note, malattie cardiovascolari, tumori, malattie metaboliche, neurologiche, infettive, ecc. considerando la loro incidenza e clinica separatamente nei due sessi. La Medicina di Genere riguarda quindi tutte le specialità del sapere medico. Qui di seguito faremo degli esempi.
Genere ed invecchiamento. Nei paesi occidentali le donne hanno un vantaggio in numero di anni di vita rispetto agli uomini. Molte le teorie sul perché di questa differenza che spaziano dalla genetica alla cultura. In Italia ad esempio la spettanza di vita alla nascita dell’uomo è 79,4 anni quella della donna è 84,5 Tuttavia la spettanza di vita sana è identica nei due generi, quindi i 5 anni di vantaggio della donna possono essere anni di vita ammalata e disabile principalmente per le conseguenze delle malattie cardiovascolari, osteoarticolari e neurologiche (demenza e depressione). Questo ha una enorme influenza sulla qualità della sua vita e sulla spesa sanitaria. La donna inoltre soprattutto con età superiore ai 65 anni è molto più sola dell’uomo, ha un livello culturale inferiore e una situazione economica molto più fragile.
Genere e malattie cardiovascolari. Le malattie cardiovascolari costituiscono un frequente motivo di mortalità e morbilità nelle donne. Negli ultimi 40 anni la mortalità per malattie cardiovascolari (infarto del miocardio, ictus) è diminuita fortemente nell’uomo e in modo molto poco significativo nelle donne. Ancor oggi sia le donne che il mondo medico pensano che queste malattie siano prevalentemente maschili. Questo ha fatto sì che il genere femminile quasi non esista nei trial epidemiologici che hanno descritto i fattori di rischio e quindi la prevenzione. La donna ha dei sintomi molto diversi quando ha un infarto del miocardio: spesso non ha il dolore precordiale, ha dolori al collo, al dorso oppure non ha alcun dolore ma solo irrequietezza, ansia, lieve dispnea; per tale motivo può non essere ricoverata, essere soccorsa in ritardo o non essere indirizzata in area rossa del Pronto Soccorso. Di conseguenza la mortalità della donna in fase acuta e in periodo ospedaliero dopo un infarto è sempre superiore rispetto all’uomo. Ma anche la mortalità dopo 6 mesi da un infarto è superiore nella donna, e anche dopo 6 anni da un intervento per bypass. Nelle donne inoltre ammalano più facilmente le piccole arterie del cuore (il microcircolo) piuttosto che le grandi arterie per cui la diagnostica è più difficile e deve seguire percorsi differenti. L’infarto del miocardio è la prima causa di morte della donna, ma molti lavori che hanno focalizzato l’attenzione sui fattori di rischio per le malattie cardiovascolari non hanno incluso donne. L’età di insorgenza della patologia coronarica è più elevata nella donna, e dopo un infarto si ha una maggiore compromissione emodinamica con frequente deficit della cinetica ventricolare e più frequenti aritmie maligne. Nella donna i fattori di rischio per l’aterosclerosi sembrano avere un impatto diverso. Un esempio è il diabete che è più pericoloso per il cuore della donna che dell’uomo. Inoltre a fronte di una maggiore frequentazione della donna degli ambulatori medici, la diabetica e in genere la donna cardiopatica è meno trattata farmacologicamente. Lo scompenso è più frequente nella donna con età superiore ai 65 anni e più spesso che nell’uomo presenta una disfunzione diastolica, e anche a livello terapeutico risponde in modo diverso ai farmaci inseriti nelle linee guida costruite su casistiche che hanno considerato da 0 al 25% di donne. La cardiologia comunque è la specialità più avanzata nella conoscenza delle differenze di genere.
Oncologia. Molte differenze di genere sono state descritte in campo oncologico, ma anche in questo settore la presenza delle donne nei trial clinici è bassa, l’efficacia dei chemioterapici è diversa e la differenza delle caratteristiche cliniche delle neoplasie con la stessa istologia e stadio è talora osservata ma non inserita nell’attenzione clinica quotidiana e nelle linee guida. Gli animali da esperimento in oncologia sono prevalentemente se non esclusivamente di sesso maschile. Il cancro del colon è la seconda causa di morte in ambedue i sessi in Europa e negli USA, ma colpisce la donna con 5 anni di ritardo rispetto all’uomo, e la mortalità nella donna è ritardata di 5 anni. Si localizza più frequentemente nel colon ascendente, ha meno sintomi all’inizio poi si manifesta con caratteri di urgenza/emergenza (occlusione intestinale). Differente in questa neoplasia è anche la sensibilità ai differenti chemioterapici, gli effetti collaterali, il rischio di ricadute e la prognosi. Quindi, vi è la necessità di rivedere sia i programmi di screening sia di trattamento. La mortalità per cancro del polmone dagli anni ’50 ad oggi è aumentata del 500% nella donna ed è la prima causa di morte per cancro nella donna. Anche se non fumatrice la donna sviluppa 2,5 volte più cancro del polmone dell’uomo, la localizzazione è prevalentemente periferica e la risposta alla chemioterapia è migliore. Differente e più grave è il potere carcinogenetico del fumo di sigaretta nella donna. Non si conoscono ancora le ragioni di queste differenze che non sono solo legate a fattori ormonali, ma anche genetici, metabolici, ed è assolutamente prioritaria la ricerca in questo campo. Le scelte degli investimenti nella ricerca hanno un grande valore etico. Il sesso quindi sembra influenzare sia lo sviluppo del cancro del polmone sia l’efficacia del trattamento, specialmente riguardo ai farmaci biologici. Il ruolo degli estrogeni inoltre sembra essere molto negativo poiché alcuni tumori a grandi cellule esprimono recettori per estrogeni. È indubbio quindi che si debbano attuare campagne per la prevenzione di tali neoplasie e che anche queste devono avere delle attenzioni differenti nei due generi. Il melanoma invece è una neoplasia che vede una maggiore sopravvivenza nella donna: meno metastasi viscerali, maggiore sopravvivenza anche dopo la prima ricaduta, fenomeni questi che possono essere relati al sistema immunitario e al ruolo degli estrogeni.
Malattie osteoarticolari. L’artrosi è patologia molto diffusa ed è causa di disabilità soprattutto nella terza età. La donna sopra ai 65 anni ha il doppio di artrosi alle mani e all’anca rispetto all’uomo e tre volte più artrosi al ginocchio. Gli studi sulle differenze di genere nell’artrosi sono assai pochi; la donna ha pure una aumentata velocità di perdita della cartilagine. L’artrosi è responsabile insieme alle conseguenze delle malattie cardiovascolari e alle malattie neurologiche (demenza) della scadente qualità di vita con perdita dell’autonomia per grave disabilità nei 5 anni di vantaggio nella spettanza di vita alla nascita rispetto all’uomo. L’osteoporosi invece e la conseguente perdita di forza dell’osso e aumentato rischio di frattura è stata studiata prevalentemente nella donna, soprattutto nella localizzazione vertebrale. Con ritardo di 10 anni anche l’uomo nella terza età sviluppa osteoporosi e rischio di frattura. E la mortalità dopo frattura dell’anca è superiore nell’uomo rispetto alla donna. Eppure la determinazione della densità minerale ossea (MOC) è testata 4 volte di meno nell’uomo. Molti farmaci per l’osteoporosi sono stati studiati solo nella donna! Se tale malattia rimane comunque sottostimata nel genere femminile, la consapevolezza di pazienti e medici riguardo all’osteoporosi maschile è ancor più bassa.
Demenza. Le demenze, patologie anch’esse età-associate, ritrovano una epidemiologia particolarmente significativa nel genere femminile tant’è che essere donna è considerato un “fattore di rischio” per lo sviluppo di demenza. Il rischio delle donne di ammalarsi di Alzheimer nel corso della vita è quasi doppio rispetto agli uomini e il carico assistenziale pesa 8 volte su 10 su una donna. È probabile che le differenze ormonali e genetiche tra i sessi contribuiscano a questo aumento di rischio piuttosto che l’aumento della sopravvivenza della donna. Se dunque le differenze di sesso sono importanti (anche se a tutt’oggi poco o nulla chiarite nelle loro etiopatogenesi) nel determinare la maggiore numerosità di donne affette da demenza, altrettanto importanti (e quasi ignoti) possono essere le differenze di genere rispetto a sintomatologie sia di esordio che di decorso di malattia: differenze nella compromissione di aree cerebrali diverse a parità di tipo di demenza, differenze di tipologie e impatto di malattie associate (comorbilità) e, più in generale, risposte al trattamento farmacologico.
Farmacologia. Le differenze di genere in farmacologia sono senz’altro attribuibili in prima battuta alla diversa biologia tra i due sessi. Sicuramente le variazioni ormonali che si osservano nell’età fertile influenzano la farmacocinetica dei farmaci. Tuttavia vi sono altri fattori che possono condizionare queste differenze come il peso corporeo, la massa grassa e l’acidità gastrica. Esistono differenze anche nell’escrezione dei farmaci e nel sistema di metabolizzazione. Questi sono tutti fattori che influenzano ampiamente l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione dei farmaci. Inoltre, differenze genere-relate sembrano influenzare anche la farmacogenomica e la farmacogenetica. Nella pratica clinica è facile osservare una maggior incidenza di eventi avversi nelle donne rispetto agli uomini e una diversa efficacia di alcuni farmaci nei due sessi. Mancano a supporto di queste evidenze derivanti da studi clinici controllati o studi su modelli animali. Infatti, a tutt’oggi la numerosità nelle donne negli studi clinici d’intervento è molto bassa e anche nella sperimentazione preclinica la maggior parte degli studi è stata condotta prevalentemente su animali maschi. Esistono notevoli differenze di genere nella risposta a farmaci come l’aspirina e gli ACEinibitori, farmaci oggetto da moltissimi anni di sperimentazioni cliniche. Nel futuro prossimo acquista grande importanza eseguire studi di genere in farmacologia. Il disegno degli studi clinici e preclinici dovrebbe avere un approccio di genere al fine di giungere a conclusioni corrette per entrambi i sessi. Fondamentale peraltro sarebbe raggiungere il profilo di sicurezza di alcuni farmaci e valutare l’aderenza e la compliance alla terapia nelle donne. Siamo sicuri che la consapevolezza del futuro medico su queste problematiche aiuterà lo sviluppo di una farmacologia di genere.
Medicina di Genere in Italia. La Medicina di Genere in Italia non è “diventata una moda” ma comincia a diffondersi quale necessità di una medicina personalizzata che influenza sempre più il lavoro quotidiano del medico e l’organizzazione sociosanitaria. In questi ultimi 5 anni la diffusione della necessità di una Medicina di Genere ed una sua comprensione (anche il mondo medico ha avuto difficoltà a capirne il significato e la portata) è incredibilmente aumentata. Il Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere, l’Istituto Superiore di Sanità, la Fondazione Giovanni Lorenzini (Milano-Houston), il Gruppo Italiano Salute e Genere hanno messo in atto iniziative e ricerche che hanno sensibilizzato molte Società scientifiche, molte realtà politiche regionali e il Parlamento Italiano che il 27 marzo 2012 ha approvato all’unanimità una mozione sulla Medicina di Genere.
Vi sono ad oggi due proposte di legge sulla Medicina di Genere che speriamo possano trovare presto posto nei lavori parlamentari. In ambedue queste proposte che ricalcano molto la mozione del 2012 vi è la promozione dell’inserimento della Medicina di Genere nei programmi dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e della Scuole di Specializzazione. Intanto molte Regioni hanno inserito nel proprio PSSR (Personal Safety and Social) la Medicina di Genere, in particolare Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Marche, Puglia. A Padova l’Università degli studi ha fondato la prima Cattedra in Italia (e seconda in Europa) di Medicina di Genere. È un buon inizio anche se la Medicina di Genere non è una specialità a sé stante ma deve diventare pervasiva in ogni campo della medicina, dalle materie precliniche a tutte le specialità.
Il 31 gennaio 2018 è stata approvata e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 3/2018.
www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2018;3
L’articolo 3 di questa legge, “Applicazione e diffusione della Medicina di Genere nel Servizio sanitario nazionale”, richiedeva infatti la predisposizione di «un Piano volto alla diffusione della medicina di genere mediante divulgazione, formazione e indicazione di pratiche sanitarie che nella ricerca, nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura tengano conto delle differenze derivanti dal genere, al fine di garantire la qualità e l’appropriatezza delle prestazioni erogate dal Servizio sanitario nazionale in modo omogeneo sul territorio nazionale». Con l’approvazione di questa legge l’Italia è stata il primo Paese in Europa a formalizzare l’inserimento del concetto di “genere” in medicina, indispensabile a garantire ad ogni persona la cura migliore, rispettando le differenze e arrivando a una effettiva “personalizzazione delle terapie”. L’Osservatorio dedicato alla Medicina di Genere è stato istituito il 22 settembre 2020. www.iss.it/osmg-l-osservatorio
All’interno dell’Osservatorio sono stati creati 6 gruppi di lavoro. I principali obiettivi dei Gruppi di Lavoro sono:
- Monitorare le attività a livello centrale e regionale,
- individuare indicatori specifici di monitoraggio,
- proporre all’Osservatorio azioni di miglioramento delle attività relative alla Medicina di Genere, anche sulla base dei dati di monitoraggio.
La newsletter è un prodotto di comunicazione ideato e sviluppato dal Centro di Riferimento per la Medicina di Genere dell’ISS in collaborazione con il Gruppo Italiano Salute e Genere (GISeG) e il Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere.
Gabrio Zacchè Mantova Etica, Salute & Famiglia, pag. 7 1° maggio 2023
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA_SALUTE_FAMIGLIA_-_2023_anno_XXVII_n03_-_Maggio_Giugno_web.pdf
MINORI NON ACCOMPAGNATI
Minori stranieri non accompagnati. Dove li mettiamo?
L’arrivo di MISNA in Italia continua a crescere. Rispetto all’aprile del 2022 sono il 40% in più. Il sistema di accoglienza è in enorme difficoltà mentre l’affidamento familiare “pesa” solo per l’1%
Secondo gli ultimi dati riportati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, al 31 marzo i Minori Stranieri non Accompagnati presenti in Italia erano 19.640. 5.615 in più rispetto a quanti erano presenti nell’aprile del 2022. Si tratta di un aumento del 40%, ma che entro la fine dell’anno potrebbe crescere ulteriormente, visto che già nel 2022 gli arrivi dei MISNA erano aumenti del 64% rispetto all’anno precedente.
Il continuo trend di crescita dei MISNA in Italia. I numeri sono sicuramente importanti e indicano un trend di cui non si può non tenere conto, ma è anche vero che, in termini assoluti, in un Paese che conta 58 milioni di abitanti, meno di 20mila minori non dovrebbero rappresentare un problema insormontabile per il sistema di accoglienza. Invece, a sentire quanto riportano i sindaci e le associazioni, la situazione è molto difficile: manca un sistema di coordinamento a livello generale e troppo è ancora lasciato alle singole iniziativi degli amministratori locali o delle già menzionate associazioni.
“Il sistema sta collassando, non sappiamo più come dirlo – sono le parole del delegato dell’Anci per l’immigrazione Matteo Biffoni riportate da “Repubblica” -. I Comuni sono saturi, ogni giorno inventiamo soluzioni creative per accoglierli: ci appelliamo alle associazioni, li trasferiamo altrove, paghiamo gli alberghi e le mandiamo lì. Ma, nonostante il contributo per ogni minore sia aumentato, servono più investimenti nel Sistema di integrazione e accoglienza, risorse, operatori specializzati e hub in ogni Regione per l’identificazione, l’accertamento dell’età, le visite, la ricostruzione della storia familiare”.
Non è che, sporadicamente, delle iniziative non siano state prese e dei fondi ulteriori stanziati, ma il problema vero è che una gestione perennemente emergenziale del fenomeno non può portare a nulla.
Manca l’istituzione di un sistema di affido internazionale. Mancano soluzioni che siano a lungo termine, come più volte Ai.Bi. ha già avuto modo di sottolineare. Mancano strutture di prima accoglienza adatte così come mancano posti nel sistema Sai che dovrebbe accogliere i MISNA più a lungo termine. Mancano tutori volontari e, soprattutto, è quasi irrilevante la porzione di minori stranieri non accompagnati che vengono accolti in affidamento familiare.
E qui si innesta la principale richiesta che Amici dei Bambini sta portando avanti da tempo: l’istituzione di un sistema di affido internazionale che sia normato e regolamentato; la realizzazione di corridoi umanitari che permettano ai minori di raggiungere l’Italia in sicurezza, nel rispetto delle misure di protezione dell’infanzia e potendo dare ai minori la prospettiva di un futuro possibile.
Sono queste le linee fondamentali del progetto Family to Family che è stato presentato alla Viceministro del Lavoro, con delega alle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci.
Per chi volesse approfondire la conoscenza del fenomeno dei MISNA e capire le caratteristiche principali dei ragazzi e delle ragazze che arrivano in Italia, in base ai paesi di origine e ai viaggi che hanno dovuto affrontare, Faris propone il webinar “Storie in viaggio di Minori Stranieri Non Accompagnati”, in programma mercoledì 7 giugno alle ore 21.00.
Per maggiori informazioni
www.fondazioneaibi.it/faris/prodotto/webinar-storie-in-viaggio-di-minori-stranieri-non-accompagnati-2
www.aibi.it/ita/misna-dove-mettiamo
OMOFILIA
Gli Scout Agesci e l’omosessualità. Storia di un cambiamento in corso
Sulle colonne de “L’Avvenire” del 23 aprile 2023, Luciano Moia ci informa che gli Scout hanno iniziato un dibattito interno sull’omosessualità.
www.avvenire.it/attualita/pagine/gli-scout-e-lidentit-di-genere-in-cammino-verso-la-persona
“È nato, nel giugno dello scorso anno, un percorso di ascolto tra gli oltre 30mila capi-scout dell’Agesci. Nessun programma predefinito, nessuna ricetta già preconfezionata. Ma un autentico itinerario che mette al centro il desiderio di ascoltare la realtà, senza pregiudizi, senza soluzioni già scritte. Una Commissione istituita dal Consiglio Generale, di cui fanno parte alcuni capi e assistenti ecclesiastici, oltre a un esperto esterno – il gesuita padre Pino Piva – ha predisposto una lettera con lo scopo di promuovere la raccolta di testimonianze scritte di quanti, in Agesci, desiderano condividere la loro esperienza”.
“Ai primi di giugno, durante l’assemblea del Consiglio Centrale già programmata a Sacrofano, a Nord di Roma, si valuterà quanto emerso e si deciderà come andare avanti”
Sembra, anzi è, una cosa seria. Tant’è vero che, per la prima volta, l’Agesci ha deciso di farsi accompagnare nel suo percorso da un esperto da sempre vicino alla comunità LGBT+, padre Pino Piva. È però utile ripercorrere un po’ di storia per capire come mai gli scout abbiano deciso di intraprendere un percorso così serio e complesso sui nostri temi.
Scopriremo che non è un tema nuovo e che, negli ultimi vent’anni, l’Agesci, sulla questione omosessuale, ha avuto posizioni altalenanti quando non burrascose. È proprio da questa storia che nasce l’esigenza di fare sintesi una volta per tutte, non rimandando più una discussione non più rimandabile.
2002: Il “Caso Bucaioni”. Qualche tempo fa, avevo già affrontato il caso del mio amico Stefano Bucaioni, scout di Perugia che, nel 2002, era stato degradato e, di fatto, cacciato dall’associazione in seguito al proprio coming out. Ne aveva parlato col suo gruppo, col quale sembravano non esserci problemi. Rimandata però la questione ai responsabili regionali, gli era stato risposto: “la responsabilità di educatore non è compatibile con l’omosessualità”. Da lì, una serie di provvedimenti si susseguirono fino a causare la sua uscita dall’Agesci. Di Stefano, si parlò sui giornali non solo locali. La sua storia però non fece fare alcun passo avanti.
2011: “Omosessualità, nodi da sciogliere nelle Comunità Capi”. Un seminario di studio. Il 12 novembre 2011, a Roma, il Consiglio Nazionale Agesci tenne un seminario in cui, per la prima volta, si tentava di parlare sistematicamente di omosessualità: “Omosessualità, nodi da sciogliere nelle Comunità Capi”. Le posizioni però non mutarono. I tre relatori invitati non fecero che ribadire le posizioni ufficiali della Chiesa di quel tempo. E le argomentazioni lasciavano anche piuttosto desiderare. Padre Francesco Compagnoni disse, per esempio: “E’ evidente che una persona omosessuale da sempre, con la tendenza profondamente radicata, si trova generalmente in difficoltà col proprio sesso”. E più avanti: “Le persone omosessuali adulte che hanno una tendenza innata (e forse predominante) costituiscono, per i ragazzi loro affidati, un problema educativo. Sappiamo che gran parte dell’effetto educativo dipende dall’esemplarità (anche inconscia) dell’adulto”. Eccetera.
Faceva eco il dott. Contardo Seghi, dichiarando: “Nella mia esperienza professionale, nei molti casi di omosessualità femminile che ho incontrato, ho potuto constatare che, molto spesso, queste donne avevano incontrato maschi brutali”. Vi furono reazioni infuocate, non solo per la mancanza di dialogo dimostrata ma soprattutto per l’arretratezza scientifica delle posizioni espresse. L’Agesci precisò che non si trattava di posizioni dell’associazione ma solo dei relatori. Intanto, erano stati invitati quei relatori lì e non altri. E due su tre avevano una lunga esperienza da scout.
2012: Un’esperienza personale. Nel 2012 fui invitato a una serata organizzata a Ivrea sul tema “fede-omosessualità”. C’era un docente della diocesi, una pastora valdese, e c’ero io. Lui disse le solite bestialità; lei ribatté che, dalle sue parti, era tutto diverso (praticamente rose e fiori raimbow); io mi limitai a portare la mia esperienza. Era presente un gruppo scout locale. Al termine del simposio, mi avvicinarono per insegnarmi che non dovevo preoccuparmi troppo. A loro insindacabile giudizio, io ero sicuramente una brava persona; semplicemente non ero cattolico. Perché, per definirsi cattolici, bisogna seguire il Catechismo, che dice bla bla bla. Vabbè, erano gli anni ruggenti di Benedetto XVI e, soprattutto tra i giovani, quella era un’opinione comune. A nessuno sfiorava il dubbio che il Catechismo, opera magna del card. Ratzinger, fosse più sacro (e più comodo) del Vangelo. Ma quel gruppo di ragazzi mi impressionò.
Oggi avranno una trentina d’anni e molti di loro saranno sposati (chissà se in chiesa o, magari, secondo l’istituto delle Unioni Civili). Forse, un giorno il buon Dio donerà loro un figlio omosessuale. Sono sicuro che sarebbe un’esperienza bellissima.
2014: La Carta del Coraggio: “Diritti al Futuro” Quasi inaspettatamente, nell’estate 2014, gli scout partecipanti alla Rout Nazionale scrissero un documento che avrebbe voluto segnare un taglio con le esperienze pregresse: la “Carta del Coraggio”. Un capitolo era dedicato proprio all’omosessualità e sembrava una dichiarazione in appoggio al ddl Cirinnà (e forse lo era). Si leggeva: “Chiediamo all’Agesci di allargare i propri orizzonti affinché tutte le persone – indipendentemente dall’orientamento sessuale – possano vivere l’esperienza scout e il ruolo educativo con serenità senza sentirsi emarginati. Chiediamo inoltre all’Agesci che dimostri maggiore apertura riguardo a temi quali omosessualità, divorzio, convivenza, attraverso occasioni di confronto e di dialogo, diventando così portavoce presso le Istituzioni civili ed ecclesiastiche di una generazione che vuole essere protagonista di un cambiamento nella società. A questo proposito, chiediamo alla Chiesa di accogliere e non solo tollerare qualsiasi scelta di vita guidata dall’amore”.
E ancora: “Chiediamo che l’Agesci non consideri esperienze di divorzio, convivenza o omosessualità invalidanti la partecipazione alla vita associativa e al ruolo educativo, fintanto che l’educatore mantenga i valori dell’integrità morale”.
E infine: “(chiediamo) alla Chiesa di mettersi in discussione e di rivalutare i temi dell’omosessualità, convivenza e divorzio, aiutandoci a prendere una posizione chiara; (chiediamo) che lo Stato porti avanti politiche di non discriminazione e accoglienza nei confronti di persone di qualunque orientamento sessuale, perché tutti abbiamo lo stesso diritto ad amare ed essere amati e che questo amore sia riconosciuto giuridicamente affinché possa diventare un valore condiviso”.
Il vento era cambiato. Naturalmente, alcuni gruppi scout, ex capi e assistenti religiosi si affrettarono anche questa volta a reclamare che non si trattava di dichiarazioni ufficiali. Si vede che le Route Nazionali sono un po’ un gioco. Ci si educa ai rituali della democrazia ma poi… Intanto, ciò che è scritto, è scritto.
2016: La lettera dei centotrenta. A gennaio 2013, gli scout, come tutti i gruppi cattolici, furono calorosamente invitati a partecipare al family day. Centrotrenta capi pubblicarono una lettera aperta indirizzata ai vertici del movimento, in cui si felicitavano per non aver accettato l’invito: “Constatiamo con profonda gioia che l’associazione non prenderà parte all’evento del Family Day”. Ma aggiungevano: “Purtroppo questo non basta”. “Si deve iniziare un cammino ed un confronto con lo scopo ultimo di prendere una decisione di coraggio su tale argomento. Interroghiamoci su cosa sia una famiglia, incontriamo le famiglie arcobaleno, confrontiamoci con associazioni quali Nuova Proposta che raggruppano i cattolici omosessuali”
Gli echi della Carta del Coraggio si facevano sentire. Ma soprattutto, sia il rifiuto a partecipare al family day, e sia la lettera dei centotrenta, avvertivano che gli scout non vivono fuori del mondo e che il loro motto è il cammino, non lo stare fermi.
2017: il caso di Staranzano. Nel giugno 2017, un nuovo caso costrinse gli scout a fare i conti coi temi LGBT+. Il capo scout Marco Di Just, a Staranzano, in provincia di Gorizia, aveva sposato il suo fidanzato. L’ira del parroco locale non si era fatta attendere. Il reverendo aveva preteso che Marco si dimettesse e lasciasse lo scoutismo. Naturalmente, i compagni di Reparto gli risposero che non se ne parlava proprio e gli ricordarono che non aveva alcuna autorità per pretendere robe del genere. Tra l’altro, non era neppure il loro assistente religioso (incarico in capo al viceparroco). Lui rincarò la dose e si rivolse al vescovo. Ottenuta una risposta in cui lo si invitava a smorzare i toni, si mise a smadonnare pure contro il presule. Dopo un anno di battibecchi, don Francesco Fragiacomo (così si chiamava il parroco) si arrese rassegnando le dimissioni. La cosa non fece gran notizia ma, tra gli scout di Staranzano, fu accolta come una vittoria. Potremmo aggiungere. Da allora, la linea dei vari gruppi scout sull’omosessualità e la transessualità è davvero cambiata. Molti gruppi hanno iniziato a confrontarsi sinceramente sul tema fede/omosessualità e, prima ancora, sull’omosessualità in sé.
Io stesso, come tanti de “La Tenda di Gionata”, siamo stati chiamati spesso a intervenire in qualche incontro, e sono sempre stati bei momenti. Diversi gruppi hanno preso a partecipare ai pride.
È evidente che l’attuale dibattito promosso dal Consiglio Nazionale dell’Agesci vuole arrivare a fare sintesi di un percorso travagliato ma interessante. Sa che è urgente. Se, qualche anno fa, c’era il timore che qualche genitore o qualche prete si sarebbero ribellati all’idea che gli scout “promuovessero il gender”, oggi è il contrario.
Massimo Battaglio Progetto “Gionata” 1° maggio 2023
www.gionata.org/gli-scout-agesci-e-lomosessualita-storia-di-un-cambiamento-in-corso
Da dove nasce il documento dei 50 sacerdoti omo-bisessuali
Il contributo al cammino sinodale a cui accenno in questo articolo è il frutto della condivisione di circa 50 sacerdoti diocesani e religiosi con orientamento omosessuale o bisessuale, riuniti in vari incontri tra febbraio e marzo 2022, in almeno 7 piccoli gruppi o con un lavoro individuale. Invitati dalla rete degli operatori pastorali con persone LGBT+ hanno accettato di mettersi in gioco per raccontare il loro vissuto, le loro difficoltà e le loro speranze; nella convinzione – «con tutto il cuore» – che la fedeltà del Signore alla loro vita e alla loro vocazione riempia di fecondità il loro ministero nella Chiesa. La finalità di questo documento, rimasto riservato da marzo a dicembre 2022, è il solo desiderio che alla Chiesa in cammino sinodale non manchi anche la loro voce. Esso fa parte di un opuscolo con altri contributi per il Sinodo, che invito a scaricare e leggere con interesse; si sviluppa in due parti:
- («Solitudini, ferite, silenzi») è una narrazione del vissuto sofferto dei sacerdoti omo-bisessuali dentro la comunità cristiana; consapevoli d’appartenere a una minoranza mal tollerata a cui anzi è negata legittimità o addirittura l’esistenza e che, per questo comprensibilmente, sviluppa varie dinamiche di sopravvivenza, sane e insane che siano.
- Nella II parte («Il dono della vocazione e del servizio»), invece, si apre una prospettiva interiore di trascendenza di sé – di cui si sentono legittimamente capaci – che li fa aprire alla vocazione come dono di sé, vissuto in una prospettiva di servizio alla comunità. Infine la conclusione in prospettiva ecclesiale e sinodale: «Camminando insieme s’apre il cammino».
Le ambiguità dell’istruzione del 2005. Alla radice del vissuto d’esclusione ecclesiale dei sacerdoti omosessuali ci sono le indicazioni disciplinari apparse per la prima volta in modo esplicito nell’istruzione della Congregazione per l’educazione cattolica del 2005: Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione agli ordini sacri;
www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20051104_istruzione_it.html
poi confermate e reiterate nelle varie Ratio sulla formazione nei Seminari fino al 2016 e attualmente in vigore.
www.clerus.va/content/dam/clerus/Ratio%20Fundamentalis/Il%20Dono%20della%20vocazione%20presbiterale.pdf
Al paragrafo 2 l’istruzione afferma: «La Chiesa (…) non può ammettere al seminario e agli ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne. Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall’ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate»
Oltre all’affermazione gratuita sull’incapacità di relazionarsi correttamente con uomini e donne (secondo quali riscontri psico-sociali?), l’elemento problematico di questa affermazione è il riferimento alle persone che presentano «tendenze omosessuali profondamente radicate» (invece, il riferimento a coloro che praticano l’omosessualità o sostengono la cultura gay appare ovvio, se non ridondante, visto che già riguarda tutti, persone eterosessuali comprese).
Che cosa vuol dire questa espressione, scientificamente poco chiara nella sua ambiguità? Commenta a questo riguardo don Stefano Guarinelli nel suo testo del 2020 “Omosessualità e sacerdozio, questioni formative” (Àncora): «Si tratta del riferimento alla presenza di “tendenze omosessuali profondamente radicate”. Cosa si intende affermare con ciò? (…) Trovo problematica la mancanza di una concettualizzazione del termine tendenza (…). Insomma: la tendenza, così isolata, diventa esclusivamente un problema, un elemento comunque non positivo e, da ciò, vivere cristianamente l’omosessualità (ricondotta a tratto isolato) significa sacrificare ciò che essa può esprimere. Il rischio è che la persona che ha una tendenza omosessuale senta di realizzare la volontà di Dio nella propria vita semplicemente cercando di non essere ciò che è» (cf. pp. 14-18).
Dopo 15 anni dall’uscita di quel documento, dunque, nello stesso ambito ecclesiale se ne evidenziano esplicitamente i limiti e le incongruenze scientifiche; chiaro segno della presa di distanza dal contesto culturale da cui il documento ha preso origine.
Il peso di un «predatore». Infatti, già all’epoca della sua uscita quella istruzione rifletteva quel certo conflitto, marcatamente ideologico, tra il contesto religioso cattolico e le nuove consapevolezze scientifiche che dagli anni Novanta del secolo scorso emergevano circa la condizione omosessuale. Il tentativo di giustificare scientificamente le convinzioni dottrinali sulla sessualità umana sembrava promuovere una certa psicologia cattolica, alternativa a quella espressa dalla comunità scientifica mondiale, ritenuta ideologicamente compromessa. Ma oggi appare altrettanto evidente la componente ideologica delle affermazioni di quello stesso documento vaticano; infatti è indicativo ricordare l’esperto a cui fu affidata su L’Osservatore romano del 29.11.2005 la presentazione dell’istruzione: il famoso psicanalista mons. Tony Anatrella, ideologo della reazione cattolica al movimento di liberazione omosessuale, che dopo una lunga vicenda giudiziaria e canonica durata vent’anni, è stato definitivamente condannato lo scorso 17 gennaio per violenze sessuali sui suoi pazienti che egli avrebbe perpetrato durante sedute terapeutiche che miravano alla guarigione dalla loro condizione omosessuale. Queste alcune delle sue parole in quell’articolo di presentazione: «L’omosessualità risulta come una incompiutezza e una immaturità insita nella sessualità umana (…) Le persone omosessuali non sono nella condizione adeguata (…) per accedere al diaconato e al sacerdozio». Oggi appare più che evidente la problematicità di quelle affermazioni, che hanno poco a che fare con l’orientamento omosessuale in genere, ma molto invece con il conflitto interiore del loro autore.
L’allora Pontificio consiglio per la famiglia, a lui aveva affidato nel 2002 la voce «Omosessualità, omofobia» nel Lexicon. “Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche” (EDB, Bologna 2003): un testo vaticano autorevole su questi temi, da cui hanno probabilmente attinto gli autori dell’istruzione, visto che a lui è stato chiesto di presentarla. Il dramma vero, dunque – come mi ricordava una giornalista – è che a quanto pare la Chiesa ha costruito buona parte della sua recente retorica sull’omosessualità anche a partire dalle affermazioni di un «predatore»!
Nel tentativo di dare consistenza scientifica all’istruzione, purtroppo, a mons. Anatrella fece eco p. Amedeo Cencini (certamente non accomunabile ad Anatrella, anzi riconosciuto formatore di tanti sacerdoti e religiosi e religiose): «Credo che, uscendo dal dilemma se si tratti di situazione patologica o no, sia abbastanza chiaro che l’omosessualità rappresenti come una diminuzione o impoverimento della condizione naturale della creatura umana (…) per Anatrella l’omosessualità è una situazione psichica di “incompiutezza e immaturità”».
Coerentemente con queste conclusioni, Cencini proponeva nel 2009 il superamento dell’atteggiamento «egosintonico» a favore di quello «egoalieno»: «La modalità egoaliena, propria di chi considera la sua tendenza omosessuale quasi come un corpo estraneo, qualcosa che soffre e non vorrebbe e di cui riesce a vedere gli aspetti oggettivamente carenti e le implicanze negative, in sé e sul piano relazionale e non esclusivamente a livello sessuale. Per questo, cerca di contrastare, per quanto può, questa tendenza, non solo sul piano del comportamento, ma di tutta la personalità, in un cammino progressivo di conversione e disponibilità al confronto formativo».
I tanti sacerdoti omosessuali e la prospettiva di Francesco. Queste prospettive formative – oggi inconcepibili – hanno condizionato l’atteggiamento di molti vescovi nel non accogliere in seminario, o accogliere con riserva, persone che manifestavano un orientamento omosessuale; hanno alimentato gravi pregiudizi circa la presunta connessione tra omosessualità e pedofilia; hanno motivato un atteggiamento di rifiuto nei riguardi dei sacerdoti con orientamento omosessuale, indipendentemente dal loro modo di viverlo; e soprattutto sono spesso state causa di forti disagi psichici e spirituali in coloro che in buona fede hanno tentato di attuarle.
La cosa strana è che nonostante questo divieto (o forse proprio per quello) la percentuale dei seminaristi e dei sacerdoti omosessuali rispetto a quelli eterosessuali è rimasta sempre sensibilmente maggiore rispetto alla percentuale in altri contesti della società.
Ultimamente stanno emergendo nuove prospettive: si comincia a considerare in modo diverso il vissuto delle persone omosessuali, comprese quelle che si orientano al ministero sacerdotale. Negli ultimi anni – dal pontificato di papa Francesco – da un atteggiamento dialettico e conflittuale circa le indicazioni della comunità scientifica mondiale a questo riguardo, si sta passando a un altro più conciliante e collaborativo. Le parole di papa Francesco nella recente intervista all’Associated Press (25 gennaio 2023), e poi le successive precisazioni avvenute nello scambio con il gesuita James Martin, testimoniano ulteriormente questo cambio di prospettiva che, per la verità, risale ai primi mesi del suo pontificato. Affermando che gli atti omosessuali non sono un «crimine», ma al massimo un «peccato», papa Francesco aggiunge nell’intervista che l’omosessualità è in sé una «condizione umana» e che in quanto tale non va stigmatizzata.
Poi, rispondendo a p. Martin, inaspettatamente non si rifà al Catechismo per ricordare la peccaminosità degli atti omosessuali, ma sembra ricordare piuttosto Amoris lætitia (19.3.2016, nn. 297.305) («mi sono riferito semplicemente all’insegnamento della morale cattolica, che dice che ogni atto sessuale al di fuori del matrimonio è peccato (…) Bisogna considerare anche le circostanze, che diminuiscono o annullano la colpa» perché «sappiamo bene che la morale cattolica, oltre alla materia, valuta la libertà, l’intenzione; e questo, per ogni tipo di peccato»).
Non inserendoli in una categoria a parte, papa Francesco sembra considerare gli atti omosessuali come comportamenti disordinati rispetto a una condizione – l’orientamento omosessuale – semplicemente data, come l’orientamento eterosessuale che, anch’esso, potrebbe essere attuato in modo disordinato. Grazie a questo clima meno ideologico comincia a emergere nella sua realtà il vissuto di tanti sacerdoti omosessuali – pur nel riserbo e nell’imbarazzo della loro condizione stigmatizzata – che testimonia capacità di vivere il celibato, dedizione pastorale e profonda vita interiore. Questo ha molto interrogato formatori e terapeuti che si sono trovati ad accompagnare questi sacerdoti, spesso appesantiti da sensi di colpa e mancanza di fiducia in sé stessi.
Valutare la persona integralmente. Nel solo 2020 sono stati pubblicati vari testi che suggeriscono un approccio diverso all’omosessualità, soprattutto in ambito vocazionale presbiterale o di vita consacrata. Tra questi il già citato testo di don Stefano Guarinelli; e poi altri, che citeremo, di Chiara D’Urbano e don Paolo Pala. Un approccio, quindi, che mette radicalmente in discussione la visione «ferita» dell’omosessualità; e che sposta l’attenzione dal tipo di orientamento sessuale al processo globale di maturazione umana, indipendentemente dall’orientamento affettivo della persona. Una visione che, dentro una prospettiva di castità per il Regno, non ritiene l’omosessualità un impedimento alla maturità della donazione di sé; come invece affermavano esplicitamente, con toni diversi, Tony Anatrella e Amedeo Cencini.
Chiara D’Urbano [psicologa e psicoterapeuta] nel suo “Percorsi vocazionali e omosessualità (Città nuova, 2020), afferma che:
«a) Una valutazione integrale della persona, in rapporto al suo desiderio vocazionale, non può concentrarsi solo sull’orientamento sessuale. L’orientamento sessuale non è solo sesso, e la persona non è solo il suo orientamento;
b) considerato isolatamente, esso non è rappresentativo del funzionamento più o meno maturo di quell’individuo» (39).
La D’Urbano verifica gli atteggiamenti indicatori di maturità umana a partire dal “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5)”, come farebbe qualsiasi terapeuta; ed è a partire da questa prospettiva che rilegge l’istruzione del 2005: «Mi sembra, perciò, da quanto comprendo, che il “profondamente radicate” venga inteso nei documenti citati come l’equivalente del praticare l’omosessualità, costrutto che rafforzerebbe la precedente espressione (…) Però il medesimo criterio andrebbe utilizzato per le tendenze eterosessuali profondamente radicate» (92). E ancora, riguardo ai sacerdoti con orientamento omosessuale: «Il sacerdote omosessuale, in quanto chiamato da Cristo in un percorso di vita celibataria, come tutti gli altri presbiteri, ama e si dedica alle persone che gli vengono affidate. È un uomo compiuto se la vocazione lo rende una persona che “abita con il cuore” direbbe papa Francesco, e se realizza sé stesso nell’annunciare la Buona Novella, nel portare speranza tra la gente, aiutandola a fare un incontro che cambia la vita» (100).
Infine, don Paolo Pala, nel suo “L’accompagnamento dei presbiteri con orientamento omosessuale” (Tau, 2020), arriva a capovolgere le conclusioni di Cencini. Alle pp. 142-145 afferma: «Occorre superare l’aspetto ego-distonico di un’omosessualità riconosciuta, ma non accolta, anzi, percepita come elemento di disturbo e focolaio attivo di conflittualità intrapsichica. (…) Deve subentrare un’accettazione della propria condizione; non è più sufficiente esserne consapevoli, ma occorre accogliersi per quello che si è, sotto lo sguardo sanante di Dio (…). Il superamento del conflitto ego-distonico è essenziale per l’integrazione dell’omosessualità nella persona, e diviene premessa importante per la creazione di una sana unità interiore nella vita del presbitero tra identità e ministero, tra vita spirituale e attività apostolica».
Pertanto, dentro a questo contesto formativo ecclesiale, acquista ancor più senso il citato contributo dei sacerdoti con orientamento omo-bisessuale.
Giuseppe Piva, gesuita e formatore Il Regno attualità 15 febbraio 2023
OMOFOBIA
Il Report di Omofobia.org inchioda la politica alle sue responsabilità
In vista della prossima Giornata mondiale contro l’Omotransfobia, che si celebrerà come ogni anno il 17 maggio, i volontari del portale Cronache di Ordinaria Omofobia (omofobia.org) – progetto lanciato nel 2020 da un gruppo di cattolici Lgbt+ per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema – hanno diffuso i dati sui casi di omofobia in Italia relativi al periodo compreso tra aprile 2022 e marzo 2023.
Il Report annuale, compilato da Massimo Battaglio (analista e animatore del progetto omofobia.org), www.gionata.org/un-imbarazzato-silenzio-i-casi-di-omotransfobia-del-dicembre-2022
www.gionata.org/rapporto-sui-casi-di-ordinaria-omotransfobia-in-italia-aprile-2022-marzo-2023
denuncia 115 episodi denunciati di omofobia nel periodo di riferimento, che hanno colpito 165 vittime distribuite in 62 località. Il Portale su fede e omosessualità “Progetto Gionata” espone i dati del Report, corredati da interessanti infografiche che ben rappresentano la portata e l’estensione del fenomeno nel Paese: «50 delle vittime (pari al 30% del totale) che hanno denunciato hanno subito aggressioni singole. 32 sono state vittime di aggressioni in gruppo o in coppia (19% del totale). Si sono registrati 2 omicidi, 4 suicidi (sicuramente la cifra è per difetto), 1 tentato suicidio e 76 atti non aggressivi ma comunque di grave rilevanza penale (che arrivano al 46%)».
Interessante l’analisi relativa ai periodi di più intensa attività omofobica nel Paese. L’analisi riferisce di un’impennata di casi di violenza in occasione di momenti particolarmente accesi della vita politica del Paese, che spesso coincidono con vere e proprie campagne politiche e mediatiche d’odio. Per esempio, «nel 2018-2019 si era registrato un picco straordinario, particolarmente evidente nel periodo della campagna elettorale».
E poi, si legge ancora su Gionata.org, un altro picco si è registrato a febbraio scorso, quando è stata messa in campo «una martellante campagna di disinformazione sulla maternità surrogata (schifosamente chiamata “utero in affitto”) a cura delle forze di governo e dei media che le sostengono». Allo stesso modo si verificarono picchi di violenza «nell’agosto 2020 e nel giugno 2021, in occasione della presentazione del ddl Zan alle Camere».
Il messaggio alle forze politiche e ai media è forte e chiaro: le parole, le invettive, le campagne e le iniziative politiche possono innescare o disinnescare la bomba della violenza omotransfobica. Un messaggio che si fa dunque appello alla responsabilità.
Giampaolo Petrucci Adista 03 maggio 2023
www.adista.it/articolo/69938
PROFETI
Maritain 50 anni dopo: il personalismo al futuro
Una delle immagini-chiave del Concilio Vaticano II è quella in cui Paolo VI consegna al suo grande amico Jacques Maritain, di cui ricorrono oggi i cinquanta anni dalla scomparsa, “il messaggio rivolto agli intellettuali”, di cui vale la pena di riportare il passaggio centrale:
“Anche per voi abbiamo dunque un messaggio, ed è questo: continuate a cercare, senza stancarvi, senza mai disperare della verità! Ricordate le parole di uno dei vostri grandi amici, sant’Agostino:’ ‘Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo con il desiderio di cercare ancora’. Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri. Felici coloro che, non avendola trovata, camminano verso essa con cuore sincero: che essi cerchino la luce del domani con la luce d’oggi, fino alla pienezza della luce!”
www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1965/documents/hf_p-vi_spe_19651208_epilogo-concilio-intelletuali.html
Si coglie qui, in particolare, il senso di un filone fecondo del pensiero europeo, quello del personalismo comunitario, a cui è connesso in modo stringente il cattolicesimo democratico italiano, che, contrariamente a quanto molti pensano, è stato soprattutto una sorgente di idee, una matrice di idee più che il ricorso a formule fisse, a principi rigidi e immutabili e a strumenti ritenuti permanenti. Un percorso di ricerca in cui affinare e ridiscutere i propri punti di partenza.
Molti sono rimasti incantati o affezionati ai termini un po’ altisonanti, da cultura palingenetica del progetto degli anni ’30, con cui i pensatori personalisti avevano esordito: “rivoluzione personalista e comunitaria” (Mounier), “nuova cristianità democratica” (Maritain) e/o dalla loro identificazione con strumenti partitici, con i partiti democristiani (peraltro mai stata vera per Mounier, ma solo parzialmente per Maritain). Tutte posizioni radicalmente superate nella loro ulteriore riflessione avvenuta nel vivo dei processi storici dei decenni precedenti, a partire dalla partecipazione alla Resistenza, esperienza comune tra credenti di religioni diverse e non credenti, che aveva fatto loro superare la frattura rivoluzionaria tra laici e cattolici, le polemiche eccessive contro lo Stato liberale, una contestazione per così dire dall’alto e dall’esterno degli Stati nazionali e il correlato intransigentismo, simile a quello dei cattolici italiani segnati dalla breccia di Porta Pia.
Emmanuel Mounier (α 1905 – ω 1950)
Di Mounier restano attuali soprattutto le riflessioni sulla legittima difesa anche armata contro l’appeasement verso il nazismo, applicazione particolare della sua dottrina realistica dell’impegno come scelta per cause imperfette e con mezzi imperfetti e la ricerca di strumenti politici nuovi, misti tra laici e cattolici, nello spazio della sinistra non comunista in alternativa alla divisione tra rifomisti cattolici (Mrp, la dc francese) e laici (socialisti e radicali). Ù
Jacques Maritain (α1882 – ω1973)
Di Maritain ci resta soprattutto l’idea dell’opzione preferenziale per la democrazia, contro l’impostazione astratta di neutralità rispetto alle forme di Stato che portava fatalmente ad uno scivolamento verso ambigue alleanze con i regimi autoritari, denunciato a partire dalla sua polemica contro il consenso dato dai vescovi spagnoli al franchismo. Vi è anche, a ben vedere, anche una confutazione ante litteram delle democrazie illiberali. Per Maritain, infatti, se si leggono in particolare le opere mature del dopoguerra, ossia “L’uomo e lo Stato” e le “Riflessioni sull’America”, i Paesi che avevano visto crollare le democrazie per la debolezza delle loro istituzioni e non per la loro forza (Italia, Germania, ma anche la Francia della III Repubblica) dovevano dotarsi di esecutivi forti e stabili, capaci di realizzare moderni Stati sociali, la politica doveva quindi essere decidente, ma al contempo anche non invasiva della sfera di autonomia della persona. In particolare a ciò conduce l’evoluzione del concetto di bene comune ben rilevata da Roberto Ruffilli: mentre in precedenza il pensiero cattolico, segnato dall’intransigentismo, si rivolgeva allo Stato per favorire la partecipazione alla vita eterna e quindi la propria attività sacramentale, e riteneva quindi i Concordati con gli stati autoritari un elemento chiave di questa strategia, in seguito il bene comune è invece visto in modo più ampio come un insieme di condizioni che consentono di valorizzare la dignità di tutta la persone, in tutte le sue dimensioni. Dalla richiesta per la libertà della Chiesa si passa a quella della libertà per i credenti e poi per quella di coscienza di tutti gli uomini. Come nel primo emendamento della Costituzione americana, attentamente compreso da Maritain, occorre evitare quindi la tentazione di imporre una particolare confessione religiosa o un’unilaterale visione etica. In particolare occorre evitare di farlo con la coercizione del diritto penale perché ciò, nonostante le intenzioni, metterebbe in pericolo il bene comune ampiamente inteso, inserendo un contrasto tra la lealtà alle istituzioni e i codici morali di alcune persone e gruppi sociali “la cui forza morale non è adeguata alla messa in vigore di quella proibizione”, come scrive ne “L’uomo e lo stato”, a partire da alcuni brani di S. Tommaso sulla legge umana che non può pretendere di inserire il vino nuovo della virtù in otri vecchi, nelle persone e nei gruppi umani coi loro limiti strutturali, pena la rottura degli otri.
Il personalismo, e il cattolicesimo democratico che ne deriva, non consiste pertanto nella sostituzione dell’imposizione di alcuni principi del cattolicesimo intransigente (in primis la libertà della Chiesa) con altri più o meno nuovi (l’uguaglianza, la fratellanza), con la medesima logica a somma zero del tutto o niente, ma nel ricercare con gli altri, senza autoghettizzazioni, concrete soluzioni pratiche, efficaci mediazioni tra principi e realtà, tra punti di vista che partono da fondamenti irriducibilmente diversi, come nel lavoro che Maritain sviluppò nella stesura della Dichiarazione Onu sui diritti umani. Difficile non vederne l’attualità, pur nella diversità di situazioni, a cinquant’anni di distanza.
Stefano Ceccanti (α1961) Il Riformista, 29 aprile 2023
www.landino.it/blog/maritain-50-anni-dopo-il-personalismo-al-futuro-di-stefano-ceccanti
RELIGIONI
Un’apologia contro il “silenzio su Dio”
intervista a Paolo Ricca
Paolo Ricca (α1936) è stato consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercitando il ministero pastorale in diverse chiese valdesi in Italia. Ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Facoltà teologica dell’Università di Basilea e, successivamente, la Facoltà di Teologia dell’Università di Heidelberg gli ha conferito la laurea honoris causa.
Ha insegnato Storia del Cristianesimo presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma e ha insegnato come professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Per l’editrice Claudiana dirige la Collana Opere scelte di Martin Lutero, di cui ha curato vari volumi.
Tra le sue opere ricordiamo: ”Le dieci parole di Dio. Le tavole della libertà e dell’amore” (Morcelliana, 1998), “Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa accade quando si muore?” (Claudiana, 2018) e “Ego te absolvo. Colpa e perdono nella Chiesa di ieri e oggi”” (Claudiana, 2019). Nel suo ultimo libro,” Dio. Apologia” (Claudiana, 2022) affronta e discute le maggiori obiezioni che nella modernità sono state e continuano a essere mosse alla fede in Dio e alla sua stessa esistenza per poi esporre i tratti più caratteristici dell’idea cristiana di Dio, così come emergono dalle pagine della Bibbia, non rinunciando al dialogo costante con la cultura contemporanea e con le religioni mondiali.
Pur avendo scritto diversi e impegnativi libri di carattere teologico, mai nessuno dei tuoi libri è stato dedicato espressamente a parlare di Dio. Perché, adesso, hai dedicato a questo ponderoso tema il tuo volume?
L’ho pensato e scritto adesso perché mi sembra chiaro che la Chiesa, e per Chiesa intendo tutte le Chiese, non parla di Dio: parla dei poveri, dei rifugiati, degli ultimi. Insomma parla delle nostre opere, predica le nostre opere, ma non predica Gesù, non parla di Dio. Naturalmente le opere sono importanti e non ho nulla da obiettare al discorso sulle opere, e all’impegno per l’accoglienza e la cura; del resto, Gesù per tutta la sua vita non ha fatto altro che opere. Egli è un operaio di Dio, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, compreso il sabato. Quindi le opere sono costitutive dell’essere cristiano; tuttavia il Cristianesimo non sono le nostre opere, ma l’annuncio di Dio. I leader cristiani presuppongono Dio, ovviamente, come premessa al loro bene operare. Ma Dio non è una premessa; se facciamo così Lo mettiamo già dietro le spalle, e noi non siamo davanti a Dio.
Da qualche decennio in alcuni settori delle Chiese – partendo dalla Chiesa episcopaliana (anglicana) statunitense e lambendo poi quella Cattolica – si è sviluppato un movimento di pensiero, che si definisce “Oltre le religioni” che, tra le altre cose, arriva a oscurare quanto da due millenni proclamano tutte le Chiese, e cioè Gesù Cristo “veramente Dio e veramente uomo”. Ma può esistere il Cristianesimo se si nega questa verità?
L’allergia a Dio si esprime anche così. È un’allergia mondiale e l’Europa, con tutto il primo mondo, è maestra in questo (altro sarebbe il discorso proveniente dal resto del pianeta). A me sembra che non si voglia ammettere che c’è il Dio di Gesù, cioè una realtà diversa dall’umano, dal materiale, dallo storico, dall’evidente, dal visibile: una Realtà verissima, non proiettata e costruita da noi. Dio, che sta in te e di fronte a te, è però altro da te. È un Tu ineffabile, misterioso, lontano e presentissimo. Se lo si elimina, allora lo si elimina anche nella figura di Gesù. Tuttavia vorrei fare una proposta: va bene, prendiamo per buono che Gesù sia solo uomo. Ma quale uomo? Questa diventa la domanda. Che tipo di umanità? Un tipo di umanità che trascende l’umano e che essa non riesce a spiegare. Questo è il motivo per cui si è parlato di Gesù come presenza divina nell’umanità, nella storia. Se poi parliamo dell’uomo, allora dobbiamo riferirci a quell’uomo, così come ci è stato descritto nelle Scritture. Egli manifesta un tipo di umanità che non riesco a spiegarmi in base a tutte le categorie dell’umano conosciute. Nell’umanità ci sono aspetti bellissimi, e realtà di bene meravigliose. Ma essa, nell’insieme, è un pianto. Anche nel passato vi era questa ambiguità: in tale contesto operò Gesù che non era un uomo religioso, ma semplicemente un uomo. Un uomo credente, anche relativamente praticante, ma la sua caratteristica non era quella di rendere religiosa l’umanità, ma di rivelarne un tipo che l’umanità non conosceva. Gesù è il punto di aggancio a queste tre realtà, che sono Padre, Figlio e Spirito Santo. Sono nomi, titoli e hanno un valore relativo, ma la loro funzione è di distinguere delle funzioni e dice appunto che nessuno dei tre esaurisce la pienezza di Dio.
È soltanto insieme che questa pienezza viene raggiunta, per cui Dio è trinitario. Detto in breve: noi uomini e donne del mondo non abbiamo potuto e, da Adamo ed Eva (e chi per loro!) e fino alla fine del mondo, quando sarà, non possiamo e non potremo mai dire con chiarezza come Dio è fatto. C’è un salto di fede ineliminabile. Del resto, nella Bibbia c’è il nascondimento di Dio, la nuvola che lo copre, per cui non è mai esplicito, evidente o a disposizione. Ma se parliamo di “relazione” nella Trinità, ci avviciniamo al mistero. Se esistesse una sola creatura umana, essa non avrebbe la parola, non dovendo relazionarsi con un tu. La relazionalità è costitutiva dell’essere umano, ma anche del mondo animale e vegetale. Una stupefacente ricchezza. Se trasferiamo questa sensibilità alla riflessione su Dio, arriviamo, pur alla lontana, ad intuire che Gesù è un appiglio per cercare di pensare a Dio come a una relazione di amore. Egli è, in qualche modo, conoscibile; non è una sfinge. Possiamo dire, con verità, che Dio è amore, non odio; pace, non guerra; riconciliazione, non violenza. Perché possiamo dirlo? Perché Dio ha parlato attraverso i profeti e la Torah [la legge ebraica], tutto quel grande e straordinario filone che è arrivato molto avanti nella conoscenza del mistero, perché c’è un mistero che, parzialmente, si può conoscere. Io credo che in Gesù, nella Parola fatta carne, fatta uomo, la realtà di Dio è apparsa in una luce che non è stata raggiunta da altri. Questo non vuol dire che non possiamo imparare anche su Dio molte cose, da tante altre voci, piste, emergenti nel mondo. Realtà che non è possibile, né giusto, liquidare come “paganesimo”. Invece è, anch’essa, ricerca di Dio. Ma la mia convinzione profonda è che la rivelazione di Dio in Gesù sia quella più illuminante. Tuttavia, attenzione: dobbiamo evitare di identificare Dio con la nostra comprensione di Dio; dobbiamo cercarLo, ognuno per la sua strada. Ci possono essere varie piste; per me Gesù non è soltanto una pista, ma la pista. Ma questo è Lui, non sono io, non è il cristiano. Se si fa questa distinzione e non si sovrappone l’essere cristiano all’essere di Gesù allora siamo tutti alla ricerca di Dio e ciascuno nella sua convinzione provvisoria ma anche profonda. L’assoluto è la rivelazione di Dio per noi in Gesù. È Lui la via, la verità, non me stesso o la mia comprensione di Dio e di Gesù; non il mio Cristianesimo.
Formalmente, si diventa cristiani con il battesimo. Questo sacramento serve a lavarci dallo stigma del “peccato originale”?
Il battesimo è il patto di Dio in vista dell’umanità nuova, quella di Gesù, che noi dobbiamo cercare di imitare. Io credo che Egli ci salva con la morte e con la vita. Infine, con la sua risurrezione ci riscatta, perché Dio non permette la nostra dissoluzione totale, ma ci tira fuori dalla tomba e ci dona un’eternità. Ma torniamo al “peccato originale”. Di esso la Bibbia non parla, ed è ignoto alla tradizione ebraica. Nella Chiesa dei primi secoli a poco a poco si è creata questa tradizione, infine a cavallo tra il quarto e quinto secolo sistematizzata da Agostino, vescovo di Ippona (nell’attuale Algeria); essa è stata poi dogmatizzata e il Concilio di Trento, nel 1546, comminava la scomunica a chi negasse che i nostri progenitori peccarono, o negasse che la loro colpa si trasmettesse, per generazione, come una tara indelebile, a ogni creatura umana nascente. Solo il battesimo – si
affermava – avrebbe potuto lavarci da tale colpa. Ma davvero è andata così? Adamo ed Eva si resero subito conto della nostra finitudine: siamo limitati, possiamo ammalarci, e dobbiamo morire. Se poi essi disobbedirono a Dio, è un fatto che non per quello li punì; vissero, infatti, molti anni (lo afferma il libro della Genesi). Ai loro figli e discendenti essi trasmisero dunque la finitudine, ma nessunissimo peccato.
I “padri” della Chiesa confusero indebitamente le due realtà. Trovo dunque bellissimo “Il perdono originale”, un libro in cui Lytta Bassett, teologa contemporanea della Chiesa riformata di Ginevra, afferma appunto che “in principio” non ci fu nessun peccato originale ma, al contrario, il Signore trattò con misericordia Adamo ed Eva, che dunque non trasmisero ai discendenti alcuna colpa. Ogni persona vivente non parte svantaggiata, con un “handicap spirituale”, ma ricolma della grazia di Dio: poi ognuna sarà giudicata se, liberamente, nella vita avrà scelto il bene o il male. Nel battesimo, dunque, il Signore stringe un patto con noi, invitandoci ad imitare Gesù. Certo, se guardiamo l’esperienza, constatiamo che facilmente ci appassiona più il male che il bene. Abbiamo una predilezione, un fascino verso il male. Quindi la dottrina del “peccato originale” è stata un tentativo di spiegare questo desolante atteggiamento. Ma noi oggi dobbiamo respingere l’idea del battesimo come lavacro da una colpa trasmessaci da migliaia di generazioni infettate da Adamo ed Eva; per proclamare, invece, che fin “dal principio” Dio ci ricopre con il manto del suo “perdono originale”.
Ritieni opportuno che nel 2025 tutte le Chiese celebrino i millesettecento anni dal Concilio di Nicea? Esso proclamò che Gesù Cristo, figlio di Dio, è uguale (non simile!) al Padre, e dunque “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto. Per la nostra salvezza si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto ed è risorto il terzo giorno”. È tuttora valida la sua proclamazione di fede, oppure è un mito da abbandonare?
Le celebrazioni sono importanti perché ci ricordano che siamo creature storiche e che la storia umana non comincia con noi. Questa mi pare sana, come posizione. Perciò sono per le celebrazioni delle ricorrenze importanti, in generale: e ancor più per le celebrazioni critiche. Infatti, oggi noi abbiamo la distanza sufficiente per vedere i limiti di tutto quello che ci precede, così come i nostri successori vedranno i nostri limiti. Quindi ben venga la commemorazione di Nicea. Rilevo che le singole affermazioni di quel Concilio risentono molto dei dibattiti teologici e politici, di quel tempo, assai accesi e violenti. Però trovo bella la dottrina della Trinità, cioè l’affermazione che l’essere profondo di Dio è un essere relazionale, e non una monade. Dio è unico, ma non solitario. Dio non vuole essere solo, perché è in Sé questa pluralità di soggetti: una realtà che, ovviamente, sfida la nostra razionalità.
Capisco che è una sfida all’intelligenza affermare che Dio non è uniforme, ma pluriforme (un teologo africano mi ha detto che proprio il rifiuto del dogma misterioso del Dio uno e trino, per proclamare invece l’assoluta unità e unicità di Dio, è il motivo per cui molti africani scelgono l’Islam piuttosto che il Cristianesimo).
L’affermazione, anche nelle Chiese, del femminismo, può condurre ad una revisione globale di dottrine su Dio elaborate in sostanza da uomini, e dunque segnate dal maschilismo?
È vero: la riflessione teologica, compiuta nei secoli soprattutto (ma non unicamente!) da uomini, ha un’impronta maschilista. Ma Dio non è sessuato; e non si esce dalla dialettica maschile-femminile anche perché oggi c’è il discorso della fluidità sessuale: siamo tutti un po’ uomini e un po’ donne. Si potrebbe dire che Dio sia tutto al maschile o al femminile, o Crista invece di Cristo, oppure Dea invece di Dio; ma non si esce dalla polarità sessuale. È chiaro che il maschile non è tutta l’umanità, come non lo è il femminile: ognuno è solo una parte. Siamo in una prigione confortevole, ma nella prigione dei sessi.
Dunque, è un arricchimento l’arrivo delle teologhe?
Certamente, perché esse ci aiutano a vedere la maternità nella paternità di Dio. Dio è padre ma un padre super materno. Il femminismo, a me che difendo il Padre nostro, offre un grandissimo aiuto a cogliere questa dimensione. Comprendo meglio che Dio manda in frantumi lo schema del maschile con la sua maternità straordinaria. In Gesù il Creatore non è tanto colui che genera, ma colui che cura il passerotto, il giglio del campo, l’uomo malato, l’indemoniato, l’alienato. L’ideale sarebbe se si potesse parlare di Dio in maniera da render conto di questa ampia complessità. Dobbiamo soltanto sapere che la pienezza del discorso su Dio dovrebbe poter riflettere la pienezza del discorso sull’umano, quindi includere il maschile e il femminile.
Sempre tenendo conto del fatto che, anche se si dice che Cristo è donna, lo si ingabbia ugualmente. Così come lo ingabbio se dico che è maschio. Finché siamo in questo mondo e finché ci troviamo ad essere maschio o femmina, con tutte le varianti, non possiamo fare altro che riflettere questa nostra parzialità. Ma se siamo consapevoli di essere, come maschi, parziali, siamo aperti a tutte le integrazioni che possono venire dalle donne. È un formidabile arricchimento perché “in principio maschio e femmina li creò”.
a cura di Luigi Sandri [α1939] “Confronti” maggio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230501riccasandri.pdf
RIFLESSIONI
Isolamento il male oscuro
Sappiamo che esiste una forza e una poesia nella solitudine. Sappiamo che senza la «capacità di restare solo», come si esprimeva un grande psicoanalista come Winnicott, non si dà alcuna possibilità di generare legami sociali fecondi. Sappiamo anche che nella solitudine l’Altro resta sempre presente, pur nella forma dell’assenza. È la solitudine che spesso accompagna la sublimazione artistica o quella spirituale che, come tali, sono esperienze altamente creative.
Totalmente diversa appare invece la fisionomia dell’isolamento. Qui non c’è alcuna forza né alcuna poesia. Qui non c’è più nessun Altro, se non la spinta al suo azzeramento. Qui non c’è all’orizzonte alcuna esperienza creativa ma solo una mortificazione della vita. L’isolamento annienta, infatti, la dimensione sociale della nostra esistenza.
Mentre la solitudine può scaturire da una scelta vitale, l’isolamento appare piuttosto come una condizione subita, l’esito di una impossibilità di scegliere, di un naufragio, di una derelizione dell’esistenza. Nel nostro tempo l’isolamento è divenuto una vera e propria piaga sociale. Questo significa che la nostra condizione di vita che appare così più esposta agli stimoli e ai contatti sociali rispetto al passato, rischia di essere solo apparenza. In una società dove la vita media si è straordinariamente allungata, l’aumento della popolazione anziana si associa molto frequentemente al ritiro dai legami sociali, dalla comunità, dalla vita. Dato che si potenzia ulteriormente se lo si associa alle condizioni di precarietà economica e di fragilità soggettiva che spesso accompagna la vita dei nostri anziani. Con l’aggiunta tragica che l’aggressività darwinana del Covid li ha colpiti con particolare virulenza decimandoli letteralmente, esasperando la loro condizione di abbandono. Ma non sono solo gli anziani a sperimentare il laccio mortale dell’isolamento. Il circo della società dello spettacolo e dei consumi, dell’individualismo e del profitto, tende ad isolare tutti coloro che non sono in grado di sostenere un livello adeguato di prestazione.
L’isolamento diventa allora una sorta di prigione-rifugio che ripara dalle ferite e dalle umiliazioni imposte da una vita sociale concepita come una gara senza esclusione di colpi. Non a caso sono moltissimi i giovani che rinunciano alla loro libertà per appartarsi, per uscire fuori dalla giostra infernale di una vita obbligata a vincere. La terribile esperienza della pandemia ha esasperato questa tendenza che era però già presente in tutto l’Occidente. L’isolamento non colpisce solo anziani e giovani ai margini del ciclo produttivo, ma anche coloro che appaiono come dei suoi protagonisti.
È, per esempio, l’isolamento di chi vive strenuamente impegnato nel proprio lavoro, ma che non è più in grado di coltivare legami generativi di nessun tipo. È l’isolamento di molti – uomini e donne – , che avendo consacrato la loro vita alla propria professione si accorgono di avere fatto terra bruciata attorno a sé stessi. In questo senso si tratta di una piaga sociale che riflette l’altra faccia del discorso del capitalista. È l’ombra spessa che incalza l’apparente euforia permanente a cui sembra obbligarci la civiltà ipermoderna. Essa può trovare un suo paradigma clinico nella figura inquietante degli accumulatori compulsivi (secondo il Dsm “disturbo da accumulo”) che riempiono le proprie abitazioni di oggetti di ogni genere, privi di qualunque utilità e accatastati alla rinfusa. Si tratta di oggetti morti, spogliati di qualunque finalità, di oggetti devitalizzati che hanno il solo scopo di riempire un vuoto inestinguibile. Ma, in realtà, questo riempimento non sottrae affatto la vita dal
suo isolamento, bensì lo accresce ulteriormente.
È la triste verità che accompagna, in generale, la cosiddetta società dei consumi. Le cose hanno preso il posto delle persone, ma la loro presenza in eccesso anziché costruire legami li disfa rendendoli impossibili come diventa impossibile muoversi nei corridoi e nelle stanze delle case stracolme di oggetti morti accumulati dai soggetti affetti da disturbo di accumulo. È lo stesso che accade, per citare un’altra figura clinica tipica dell’isolamento ipermoderno, nell’iperconnessione tecnologica. L’ideale positivo della connessione sistemica si capovolge qui in una disconnessione drammatica e silenziosa raggiunta proprio come esito paradossale di una iperconnessione illimitata, senza pause, senza tregue. L’isolamento è probabilmente destinato a diventare, se non lo è già, la cifra antropologica più inquietante della civiltà ipermoderna. La moltiplicazione illimitata dei “contatti” e l’espansione della tecnologia che li rende possibili, mascherano il reale scabroso di questa nuova condizione di vita.
Massimo Recalcati “La Stampa” 5 maggio 2023
www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202305/230505recalcati.pdf
SCUOLA
Dare parole al disagio: il ruolo preventivo della scuola
I frequenti fatti di cronaca che ci riportano episodi di forte disagio e di esplosioni comportamentali nella fase preadolescenziale, ci colpiscono e ci interrogano profondamente. Se da un lato questi fenomeni appaiono accompagnati da situazioni sociali e psicologiche molto difficili e già facilmente individuabili, altre volte sembrano scaturire da condizioni emotive e ambientali apparentemente normali o “sotto soglia”; in alcuni casi vediamo ad esempio che un malessere espresso in forma abbastanza contenuta e comune, dà poi la carica e la stura per comportamenti dirompenti. In effetti, se pensiamo alle situazioni che talvolta vivono gli adolescenti quali atti di autolesionismo, episodi di aggressività, momenti di depressione o ansia non sempre questi aspetti sono strettamente connessi con un disturbo psichico che si manifesta in modo stabile e riconoscibile.
Questi disagi interrogano i genitori, gli educatori e gli stessi insegnanti che di fronte ad essi si pongono la domanda se appartengono a manifestazioni “fisiologiche” e quindi temporanee o al contrario sono le spie di un imminente tracollo psichico o comportamentale. Riuscire a discriminare questi aspetti è molto difficile e talvolta francamente impossibile in quanto dobbiamo mettere in conto che la fase adolescenziale è caratterizzata da una tendenza al passaggio all’atto e all’impulsività che rende molto più probabile il verificarsi di esiti comportamentali improvvisi. Questi aspetti della fase evolutiva preadolescenziale e adolescenziale sono stati ampiamente confermati anche dagli studi neurofisiologici che hanno evidenziato come il processo di maturazione del cervello si possa considerare concluso solo attorno ai 25 anni e come quindi, nelle fasi precedenti, possano presentarsi modalità di funzionamento particolari, quali ad esempio la ricerca accentuata della gratificazione immediata, la difficoltà di controllo emotivo, la capacità di immaginare le conseguenze delle azioni o di pianificarle a lungo termine. In particolare, la corteccia prefrontale, deputata all’integrazione delle diverse reti cerebrali, alla funzione delle capacità empatiche e alla previsione del comportamento altrui, giunge a completare il suo sviluppo solo nella tarda adolescenza. In questa condizione evolutiva quindi la possibilità di fare previsione può essere più difficile, nello stesso tempo però non possiamo esimerci dallo sforzo di intercettare i disagi presenti nei ragazzi e tentare di elaborarli e contenerli attraverso diversi dispositivi educativi, relazionali, terapeutici.
In questa breve riflessione vorrei portare l’attenzione su quali potrebbero essere dei fattori protettivi e preventivi presenti nell’ambito scolastico. Ritengo infatti che la scuola costituisca per certi aspetti una “seconda famiglia” sociale per i ragazzi in quanto in essa sono presenti tutti gli ingredienti necessari e fondamentali per proseguire il percorso evolutivo impostato nella famiglia. La scuola è luogo di relazione tra pari, luogo di confronto con adulti, ambito di impegno e di sperimentazione di sé nei confronti di un compito, ambito di fondamentale rispecchiamento della propria identità, del proprio valore, delle proprie potenzialità. In questo senso la scuola ha enormi potenzialità e nello stesso tempo può vedere al suo interno il generarsi anche di significative sofferenze nei ragazzi: pensiamo ad esempio ai fenomeni di bullismo, di isolamento, di insuccesso scolastico, al senso di inferiorità che talvolta i ragazzi vivono nel confronto con gli altri.
Mi pare che un primo dispositivo che possa essere ipotizzato in senso preventivo è costituito da un momento in cui la classe ha modo di esprimersi in merito ai disagi o alle esperienze emotive che ciascun ragazzo sperimenta. Questa attività è stata denominata con più termini, tempo del cerchio, gruppo di parola, tra questi mi piace particolarmente l’espressione Cerchio della Fiducia. Si tratta di una pratica che può essere svolta con una certa periodicità da un insegnante che ha la funzione di guidare e moderare il gruppo. Le regole che il gruppo deve fare proprie sono molto semplici: l’ascolto e il rispetto di ciò che ciascuno dice, l’impegno a tenere riservato ciò che viene detto e l’impegno ad ascoltarsi senza disprezzare o a prendere in giro i compagni. Gli obiettivi che questo momento permette di raggiungere progressivamente sono molteplici:
A) Aiutare i ragazzi ad esprimersi e a mettere in parole stati emotivi o situazioni personali, che possono creare tensione e angoscia;
B) Consolidare il senso di appartenenza e di coesione nel gruppo classe che può essere percepito come un luogo di protezione e di libertà di espressione;
C) Aiutare i ragazzi a sentirsi “simili nella loro diversità”, ovvero tutti accomunati da momenti di maggiore/minore benessere, momenti di insicurezza che possono riguardare diverse situazioni ma che sono sempre molto frequenti alla loro età.
D) Questo aspetto è molto significativo in quanto frequentemente i ragazzi soffrono della sensazione di essere gli unici ad avere difficoltà interne e questo fatto accresce enormemente il loro senso di insicurezza;
E) Promuovere nei ragazzi un atteggiamento di responsabilizzazione nei confronti dei loro disagi, evitando di ripiegare in un tunnel di fatalismo o vittimismo.
Di fronte ai problemi sia relazionali che emotivi è importante insegnare ai ragazzi che vi sono sempre diverse opzioni di scelta, e che in ogni modo occorre ricercare attivamente delle soluzioni o degli adattamenti. Questa fase di “problem solving emotivo e sociale” può essere assunta anche dai compagni che in modo libero possono scambiarsi suggerimenti ed idee.
1). La conduzione di questi momenti può essere gestita da uno o più insegnanti sensibili e formati, con un eventuale supporto esterno sia nella fase dell’avvio che in quella del suo funzionamento ordinario. Non poter parlare dei propri problemi, sentirsi diversi, isolati, sprofondare nei propri pensieri e sensazioni senza un confronto con gli altri, sono le più sicure premesse per trasformare un problema comune di un adolescente in un macigno che schiaccia e verso il quale si possono immaginare delle soluzioni disadattive o anche catastrofiche. Questo tipo di intervento così brevemente descritto si colloca quindi nell’ambito di un rinforzo delle relazioni di coesione e di supporto all’interno della classe e di potenziamento delle capacità espressive e di consapevolezza dei ragazzi.
2). Sul versante più educativo/preventivo sono altresì disponibili diversi programmi su temi trasversali molto importanti che possono essere svolti a scuola da un team di insegnanti dopo un breve corso di formazione: mi riferisco ad esempio ai programmi regionali Life skills training o Unplugged.
www.promozionesalute.regione.lombardia.it/wps/portal/site/promozione-salute/dettaglioredazionale/setting/scuola/programmi-preventivi-regionali
Altri programmi suono disponibili sul tema del bullismo o dell’educazione socio affettiva. Credo inoltre che in questa fase storica sia importante centrare una serie di attività di riflessione con i ragazzi sul tema del modo in cui si vive nella realtà virtuale che certamente è non meno reale di quella sperimentata nella vita in presenza ma che assume regole e meccanismi di funzionamento specifici. È sempre più evidente infatti come l’impatto del mondo social, online o mediatico sia sempre più potente sul nostro funzionamento psichico e relazionale sia con aspetti di criticità ma anche di potenzialità. È essenziale quindi aiutare i ragazzi a muoversi in questa realtà particolare che assume talvolta connotazioni ipnotiche o dissociate rispetto alla percezione più globale e “incarnata” della realtà. Se da un lato la tendenza a vivere alcuni momenti in un mondo parallelo può essere fisiologica durante l’adolescenza, la pervasività dei sistemi mediatici e del mondo online, può amplificare questa propensione creando vere e proprie dissociazioni o confusioni tra ciò che si è sperimentato, detto o agito online e quello che si agisce nella vita concreta e complessiva.
3). La terza dimensione che può essere favorita nella scuola in senso preventivo, oltre a quella relazionale ed educativa, consiste nel favorire una presa in carico terapeutica di fronte alle situazioni in cui il disagio si mostra significativo e persistente. Il passaggio da un disagio espresso a scuola, magari ad un insegnante con cui si ha maggiore confidenza, o la rilevazione di un problema familiare e la predisposizione di una presa in carico psicologica, sociale o medica, non è affatto semplice né banale. Non si tratta infatti semplicemente di dare indicazioni alla famiglia o al ragazzo, ma di creare un contesto in cui insegnante e operatore sociosanitario possano interloquire e riflettere per valutare il modo più funzionale per costruire quest’invio. Per questo è cruciale che il mondo della scuola e quello dei servizi psicologici o sociali sia sempre più vicino e vi sia il modo di parlarsi con fiducia non appena i livelli di sofferenza diventano significativi e non transitori.
Queste condizioni sono molto spesso presenti nei diversi territori anche grazie alla continuità con cui operatori ed insegnanti lavorano negli stessi, tuttavia è evidente che questo sforzo va ampliato e tenuto vivo da entrambe le componenti.
In sintesi: il mondo della scuola è un ambito di crescita di straordinaria rilevanza psicologica, identitaria e sociale ed è indubbio che in essa si possano esercitare importanti azioni preventive. Gli attori adulti di queste azioni sono senza dubbio gli insegnanti coadiuvati e sostenuti dalle figure che da un lato possono già “abitare” la scuola come psicologi scolastici ed educatori o che dall’altro sono i più stretti “vicini di casa”: servizi sanitari, sociali, risorse territoriali. Se gli insegnanti non possono lasciare soli i ragazzi di fronte ai loro compiti evolutivi, noi operatori non possiamo lasciare soli gli insegnanti in questa impresa, affascinante ma comunque estremamente impegnativa anche perché segnata inevitabilmente dà il senso di incertezza e da una quota di imprevedibilità che non è totalmente riducibile.
Paolo Breviglieri, psicologo Etica, Salute, Famiglia 1° maggio 2023. Pag. 3
www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA_SALUTE_FAMIGLIA_-_2023_anno_XXVII_n03_-_Maggio_Giugno_web.pdf
SEPARAZIONE
Diritti dei coniugi durante la separazione
Per i coniugi che intendono porre fine alla loro unione la separazione è una fase intermedia durante la quale gli effetti del rapporto matrimoniale rimangono sospesi in attesa della pronuncia del provvedimento definitivo di divorzio. La separazione quindi è una situazione temporanea che incide però sui diritti che nascono dal matrimonio. Infatti se da un lato il marito e la moglie non sono più sposati dall’altro lato non hanno ancora del tutto reciso il legame che li univa.
I diritti dei coniugi durante la separazione possono essere schematizzati nel seguente modo.
Diritto di vivere da soli. Il primo diritto dei coniugi separati è quello di andare a vivere da soli. Nella sentenza di separazione infatti è contenuta l’autorizzazione a vivere separati e quindi ad interrompere la convivenza. In verità sia il marito sia la moglie potrebbero lasciare la casa coniugale già al momento del deposito del ricorso di separazione senza che tale comportamento venga considerato come “abbandono del tetto coniugale” in quanto giustificato dalla volontà di separarsi. Ciò nonostante il coniuge più benestante dovrà provvedere al mantenimento dell’ex se questi non è in grado di procurarsi da solo i mezzi di sostentamento e soprattutto se sono presenti figli minori.
Diritto di godimento della casa coniugale. I coniugi separati non hanno alcun diritto sulla casa coniugale (ovvero di godimento/di continuarvi ad abitare dopo la separazione) se non è il giudice ad accordare loro tale prerogativa. Se la coppia che si separa non ha figli e la casa è di proprietà esclusiva solo del marito o solo della moglie, di solito il giudice assegna l’immobile all’intestatario. Le uniche eccezioni sono rappresentate da situazioni eccezionali, quali ad esempio gravi patologie a carico del coniuge non proprietario, il quale necessiti di assidue cure domiciliari e che non sia in condizioni di poter lasciare l’immobile senza gravi pregiudizi per il proprio stato di salute. Se la coppia ha figli minori o maggiorenni ma non ancora autosufficienti oppure portatori di handicap, il giudice assegna la casa al coniuge con il quale i figli andranno a vivere (genitore collocatario), anche se l’intestatario dell’immobile è l’altro coniuge. Il coniuge assegnatario perde il diritto al godimento della casa familiare qualora non abiti o cessi di abitare stabilmente nell’immobile, o conviva more uxorio, o ancora contragga nuovo matrimonio. La revoca dell’assegnazione della casa familiare può verificarsi anche in caso di raggiungimento della maggiore età dei figli e della loro indipendenza economica, nonché naturalmente in caso di decesso dell’assegnatario della casa.
Diritto al mantenimento. I coniugi separati, economicamente più deboli, hanno diritto al mantenimento, solitamente sottoforma di un assegno mensile, solo se i propri redditi sono inferiori a quelli degli ex coniugi e non possono procurarsi da soli i mezzi di sostentamento per ragioni oggettive. Va precisato però che i giudici spesso tendono a penalizzare i coniugi più giovani e che hanno una formazione, richiedendo loro un minimo di intraprendenza per trovare un’occupazione, al fine di scoraggiare che si vengano a creare delle situazioni parassitarie. Il mantenimento spetta comunque solo ai coniugi che non abbiano violato i doveri nascenti dal matrimonio, cioè a quelli a cui non sia stata addebitata la separazione. Il giudice può pronunciare l’addebito ad esempio nei confronti di chi ha tradito, di chi si è allontanato dalla casa coniugale oppure di chi si è macchiato di atti di violenza fisica o psicologica.
Diritti di successione. Ai coniugi separati spettano i diritti di successione nei confronti dell’ex marito/moglie sino alla pronuncia della sentenza di divorzio a meno che siano stati dichiarati responsabili per la fine del matrimonio. In pratica in caso di morte di un coniuge separato, il superstite a cui non sia stata addebitata la separazione, è erede a tutti gli effetti. Invece dopo il divorzio cessano definitivamente tutti i diritti ereditari.
Diritto alla pensione di reversibilità. I coniugi separati hanno altresì diritto alla pensione di reversibilità dell’ex marito/moglie. Detta pensione può essere pretesa anche nel caso in cui il coniuge superstite rinunci all’eredità dell’altro ad esempio in presenza di una situazione debitoria particolarmente elevata. La pensione di reversibilità spetta pure al coniuge separato con addebito. [1] Cass. civ., sent. n. 2606/2018 e sent. n. 7464/2019 nonché circolare Inps n. 19/2022.
Diritto al trattamento di fine rapporto. I coniugi separati non hanno diritto a una quota del trattamento di fine rapporto erogato dal datore a favore dell’ex partner alla cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, il coniuge lavoratore che cessa di lavorare dopo la separazione ma prima dell’instaurazione del giudizio di divorzio, può disporre liberamente delle somme ricevute a titolo di indennità di fine rapporto mentre l’altro coniuge non può pretendere alcunché, anche se è titolare di assegno di mantenimento.
Diritto all’affido condiviso. I coniugi che si separano hanno diritto all’affido condiviso dei figli. Con tale tipo di affido entrambi i genitori esercitano la responsabilità genitoriale sulla prole. Pertanto, le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente [2]. Art. 337-ter, co. 3, cod. civ. Solo quando il padre o la madre si dimostri inidoneo a ricoprire il ruolo genitoriale il giudice può disporre l’affidamento esclusivo all’altro genitore [3]. Art. 337-quarter, co. 1, cod. civ.
Diritto di frequentare i figli. I coniugi separati hanno diritto a frequentare i figli e a mantenere con loro un rapporto equilibrato e stabile. Il giudice perciò nel pronunciarsi sulla separazione deve stabilire i tempi e le modalità con cui i genitori non collocatari, cioè quelli con i quali i figli non convivono abitualmente, possono vederli. Se l’altro genitore impedisce il diritto di frequentazione, tale condotta integra gli estremi del reato di sottrazione di persone incapaci [4]. Art. 574 cod. pen. In sede civile il genitore al quale è stato negato il diritto di frequentazione può chiedere il risarcimento del danno e, in caso di reiterazione, la modifica delle condizioni di affido.
Elda Panniello la legge per tutti 3 maggio 2023
www.laleggepertutti.it/638349_diritti-dei-coniugi-durante-la-separazione
sinodo
SINODO
La teologia alla prova della sinodalità
Pubblichiamo la relazione del cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo, che, giovedì 27 aprile 2023, ha aperto alla Pontificia Università Gregoriana il congresso internazionale dal titolo “La teologia alla prova della sinodalità”. Obiettivo del convegno, durato tre giorni, è stato aprire un confronto tra teologi di diversa provenienza allo scopo di «esplorare le condizioni per una teologia che chiarisca a sé stessa la propria vocazione alla sinodalità, al fine di identificare i percorsi per una teologia rinnovata, fino a porre le basi per l’attuazione di un metodo sinodale in teologia». Il convegno è stato organizzato dalla Facoltà di Teologia dell’Ateneo in collaborazione con la segreteria generale del Sinodo.
Grazie per aver organizzato questo Convegno internazionale sulla «teologia alla prova della sinodalità». La speranza è che la buona riuscita dell’iniziativa sia per tanti teologi e tante istituzioni teologiche uno stimolo ad approfondire un argomento che si offre come il banco di prova per la teologia. Molti ripetono, quasi fosse uno slogan, le parole di Papa Francesco sul «cammino della sinodalità» come «il cammino che Dio si attende dalla Chiesa del terzo millennio». L’affermazione interpella molto da vicino la teologia, chiamata a interpretare alla luce della Rivelazione il vissuto della Chiesa.
Il processo sinodale in atto pone molte domande alla teologia. Già nel titolo si incontrano questioni teologiche enormi: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione». Ogni termine domanda una riflessione attenta a molti livelli; la loro collocazione nell’orizzonte della sinodalità moltiplica le implicazioni, sollecitando la ricerca di soluzioni che dipendono da una teologia sapienziale, che svolge la sua funzione nella logica evangelica dello scriba, il quale, «divenuto discepolo del Regno, è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52).
Il Convegno — così recita la presentazione — «intende esplorare le condizioni per una teologia che chiarisca a sé stessa la propria vocazione alla sinodalità, al fine di identificare i percorsi per una teologia rinnovata, fino a porre le basi per l’attuazione di un metodo sinodale in teologia». Il programma lascia intuire un progetto giustamente ambizioso, che, a partire dalle visioni ed esperienze (prima sezione), prova a fondare la vocazione della teologia alla sinodalità (seconda sezione) e a delineare un metodo sinodale in teologia (terza sezione).
Lascio al Convegno approfondire la seconda e la terza sezione, aspettando i frutti del confronto. Gli obiettivi che il Convegno si propone promettono un raccolto abbondante: non è poca cosa, infatti, immaginare una teologia sinodale, disegnando un profilo di teologia dalla e per la sinodalità, approfondendo a livello metodologico sinodalità e trans-disciplinarietà, e a livello di cammino ecclesiale sinodalità e dialogo ecumenico.
Per parte mia, vorrei offrire qui una riflessione sulla prima sezione, che rilegge la sinodalità «a partire dalle visioni e dalle esperienze», mettendo a fuoco l’esperienza sinodale fin qui vissuta nella prima fase del processo sinodale e sottolineando gli aspetti che maggiormente interpellano la teologia. La riflessione che propongo mette a fuoco anzitutto il processo sinodale, evidenziando i momenti salienti della prima fase, per sottolineare gli elementi di maggior rilievo teologico che lungo il cammino sono emersi, sottoponendoli al vaglio critico della teologia.
La questione di fondo: dall’evento al processo. Il primo elemento che sottopongo alla vostra attenzione è il “perfezionamento” del Sinodo. Parlo di perfezionamento, perché Paolo VI , al momento di istituire il Sinodo dei Vescovi come «un consiglio permanente di Vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente ed immediatamente alla Nostra potestà e che con nome proprio chiamiamo Sinodo dei Vescovi», aggiungeva che «come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato». Il Sinodo, come spiega il motu proprio Apostolica sollicitudo (15 settembre 1965) consisteva in
www.vatican.va/content/paul-vi/it/motu_proprio/documents/hf_p-vi_motu-proprio_19650915_apostolica-sollicitudo.html
- una istituzione ecclesiastica centrale;
- rappresentante tutto l’Episcopato cattolico;
- perpetua per sua natura;
- quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo ed occasionale».
Sulla base di tali presupposti, si comprende perché il Sinodo dei Vescovi, con il passare del tempo, sia stato accompagnato in modo sempre più insistente dalla domanda sull’esercizio della collegialità episcopale. In questa linea sembrava intenderlo il concilio, al momento di recepirlo nel decreto Christus Dominus (n. 5), ma tale comprensione si scontrava con la composizione dell’aula, che non vedeva presente il collegio dei vescovi, «soggetto di piena e universale potestà su tutta la Chiesa» (Lumen Gentium 23), ma solo un’assemblea di vescovi chiamati a dare un aiuto al Papa «per il bene della Chiesa universale». L’organismo aveva dunque natura consultiva, a totale servizio del primato, realizzando la partecipazione dei vescovi a una prerogativa fino a quel momento riservata al papa, vale a dire la sollecitudine per tutte le Chiese.
Con questo impianto, confermato dal Codice di Diritto Canonico, si sono celebrate 15 Assemblee generali ordinarie; 3 Assemblee generali straordinarie, 11 Assemblee speciali. Tuttavia, già durante l’Assemblea generale ordinaria sulla famiglia (la seconda), il Papa introduce una riflessione che apre a un “perfezionamento” del Sinodo dei Vescovi, in un discorso pronunciato il 17 ottobre 2015, per la commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi. In quella occasione il Papa introduce per la prima volta l’idea di una Chiesa sinodale, descrivendola in questo modo: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Gv 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Ap 2, 7)».
E continua: «Il Sinodo dei Vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa», indicando la parte di ciascun soggetto. Così «il cammino sinodale inizia ascoltando il Popolo, che “pure partecipa alla funzione profetica di Cristo”, secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: “Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet”». «Il cammino del Sinodo prosegue ascoltando i Pastori. Attraverso i Padri sinodali, i Vescovi agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa, che devono saper attentamente distinguere dai flussi spesso mutevoli dell’opinione pubblica». «Infine, il cammino sinodale culmina nell’ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come “Pastore e Dottore di tutti i cristiani”: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiæ, “garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa”».
Non bastasse, il Papa riprende l’idea del processo dal punto di vista non dei soggetti, ma della Chiesa stessa come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste la una e unica Chiesa Cattolica» (Lumen Gentium, 23). Così «in una Chiesa sinodale, il Sinodo dei Vescovi è solo la più evidente manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali», attraverso un processo articolato per livelli:
- «Il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari».
- «Il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali».
- «L’ultimo livello è quello della Chiesa universale. Qui il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l’episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale».
Nasce qui l’idea di processo sinodale, sancito dalla costituzione apostolica Episcopalis communio (15,9, 2018),
www.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2018/9/18/episcopalis-communio.html
che supera l’idea del Sinodo dei Vescovi come evento circoscritto a un’Assemblea di vescovi per trasformarla in un processo articolato in fasi: l’art. 4 di Episcopalis communio dispone che «ogni Assemblea del Sinodo si sviluppa secondo fasi successive: la fase preparatoria, la fase celebrativa, la fase attuativa». In questa logica si sta svolgendo l’attuale Sinodo, iniziato il 10 ottobre 2021 con la consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese particolari e le successive tappe di discernimento nelle Conferenze Episcopali e nelle Assemblee continentali/regionali e ora avviata verso la seconda fase, con la celebrazione a Roma dell’Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi in due sessioni, una nel prossimo ottobre e una nell’ottobre del 2024.
Tutto questo interpella la teologia. Potrei riassumere la questione che nasce dal “perfezionamento” del Sinodo in una domanda: è vero che la trasformazione da evento in processo garantisce che il Sinodo sia «espressione della collegialità episcopale all’interno di una Chiesa tutta sinodale»? Quanto sia decisiva la questione è inutile dirlo: si concentra qui tutto un dibattito che ha attraversato la vita della Chiesa dal concilio ad oggi e ha agitato la teologia, con discussioni infuocate. Non tocca a me riassumere il percorso difficile e contrastato dell’ecclesiologia post-conciliare, con tutte le sue tensioni. Mi piace pensare che un modello sinodale di Chiesa costituisca il punto di soluzione di quei dibattiti, la composizione delle tensioni (non di rado create ad arte per dividere il corpo ecclesiale), la recezione matura dell’ecclesiologia conciliare. Ma si tratta di dimostrare la verità dell’affermazione che la Chiesa sinodale è il frutto maturo del concilio Vaticano II . Alcuni lo ripetono come un ritornello, una frase fatta, senza portare argomenti e senza provare la continuità. Una teologia che voglia e sappia pensarsi «nella e dalla sinodalità» deve provare questa affermazione. Una sfida non da poco, che domanda impegno, conoscenza del concilio e dei processi che lo hanno attraversato, conoscenza della storia della Chiesa e della storia del dogma, capacità di lettura dei processi che intrecciano il cammino della Chiesa: in una parola, conoscenza del dinamismo della Tradizione.
Le questioni teologiche emergenti. Dentro questo orizzonte della Chiesa sinodale, emerge un’infinità di questioni, che domandano di essere sviluppate in una logica nuova. Mi limito a quelle che emergono in modo più evidente dal processo sinodale.
- La prima: se «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto», e l’ascolto è ascolto dello Spirito Santo che guida la Chiesa, bisogna tornare anzitutto alla pneumatologia come “luogo” proprio e sorgente della sinodalità. Tutti sappiamo come la Chiesa in Occidente abbia patito per lungo tempo un deficit pneumatologico. La paura di una Ecclesia spiritualis come minaccia alla gerarchia produsse una ecclesiologia centrata soprattutto sugli aspetti visibili e istituzionali della Chiesa. Per secoli abbiamo ripetuto l’affermazione di Roberto Bellarmino, padre dell’Università delle Nazioni, che la Chiesa è «tam visibilis quam cœtus Populi Romani, respublica Venetorum et regnum Galliæ». Il Vaticano II ha recuperato in termini embrionali la presenza e l’azione dello Spirito nella Chiesa. La «non debole analogia» della Chiesa con il mistero del Verbo Incarnato, proposta in Lumen Gentium 8, porta a concludere che non esiste Chiesa senza Spirito. Ciò che fa lo Spirito nella Chiesa lo dice in sintesi Lumen Gentium 4: «Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1 Cor 3, 16; 6, 19) e in essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4, 6; Rm 8, 15-16 e 26). Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16, 13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4, 11-12; 1 Cor 12, 4; Gal 5, 22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: «Vieni» (cfr. Ap 22, 17) Il processo sinodale è stato condotto con il metodo della «conversazione spirituale», che non è una variante di un qualche metodo di lettura spirituale, ma è un ascolto ecclesiale dello Spirito, una «conversatio in Spiritu Sancto»! Attraverso questo «dinamismo di ascolto» da parte di tutti nella Chiesa lo Spirito la guida nel suo cammino — «insieme»! — verso il Regno di Dio. Questo significa ripensare in chiave nuova i tre termini su cui il Sinodo è chiamato a interrogarsi — comunione, partecipazione, missione —, termini che si illuminano alla luce della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa.
- La seconda: se il principio dell’ascolto coinvolge Popolo di Dio, Collegio episcopale, Vescovo di Roma, che rapporto intercorre tra questi tre soggetti? Come pensare la sinodalità, la collegialità e il primato dentro il processo sinodale? Il concilio Vaticano II ha ricollocato il primato dentro la costituzione gerarchica della Chiesa, in equilibrio con il ministero dei vescovi, e ha ripensato la funzione gerarchica al servizio del Popolo di Dio, ponendo i presupposti per un esercizio pieno della sinodalità, della collegialità, del primato. Sviluppare un processo sinodale in cui tutti i soggetti siano garantiti nell’esercizio della propria funzione, senza pregiudicare la funzione altrui, significa sviluppare una via cattolica alla sinodalità, che rispetta i dati che emergono dalla Tradizione sul ministero petrino, sul ministero episcopale e sulla capacità del Popolo di Dio di essere soggetto attivo nella Chiesa. Rileggere il tutto da una prospettiva sinodale aiuterà — ne sono convinto — a superare tensioni e contrapposizioni secolari. Una teologia del processo sinodale in grado di pensare in unità dinamica sinodalità, collegialità e primato sarà un grande aiuto alla causa ecumenica.
- La terza: se «il processo sinodale inizia ascoltando il Popolo di Dio», il processo sinodale riconsegna alla Chiesa l’ecclesiologia del Popolo di Dio, proposta nel capitolo II di Lumen Gentium, che costituisce — lo dicono gli ecclesiologi — la «rivoluzione copernicana» del concilio Vaticano II : «Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue (cfr. 1 Cor 11, 25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1, 23), non dalla carne ma dall’acqua e dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3, 5-6), costituiscono “una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo… Quello che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio” (1 Pt 2, 9-10). Questo popolo messianico ha per capo Cristo… Ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio… Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13, 34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio» (Lumen Gentium, 9). A questa rivoluzione si ricollega il recupero del sacerdozio comune dei fedeli, la partecipazione del Popolo di Dio alla funzione profetica, sacerdotale e regale di Cristo, il tema del sensus fidei e dei carismi. La prima stagione post-conciliare è stata segnata da polemiche arroventate per un uso ideologico della categoria di Popolo di Dio, determinando una sorta di arroccamento della Chiesa attorno all’ecclesiologia di comunione, declinata in termini di communio hierarchica. Un’ecclesiologia in chiave sinodale può superare interpretazioni di parte, rileggendo in unità il cammino della Chiesa nel post-concilio. Bisogna poter dire, in modo teologicamente fondato, che la forma della communio nella Chiesa-Popolo di Dio è propriamente la sinodalità. Non si tratta di usare strumentalmente la sinodalità per riaprire una stagione di conflitti tra Popolo di Dio e gerarchia, ma di tradurre in atto l’ecclesiologia del concilio Vaticano II .
- La quarta: se «il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari», il processo sinodale chiede di pensare la Chiesa a partire dal principio ecclesiologico enunciato dal concilio, sul quale poggia l’intero processo sinodale: la Chiesa è «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa Cattolica» (Lumen Gentium 23). Su questa famosa formula — in quibus et ex quibus — sono stati versati fiumi d’inchiostro e sono state accese polemiche che hanno recato danno alla Chiesa, quando si sono contrapposte artificiosamente le Chiese particolari alla Chiesa universale. Una comprensione della Chiesa in chiave sinodale può superare queste tensioni e restituire una ecclesiologia del Popolo di Dio che integri serenamente il capitolo III di Lumen Gentium sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Il processo sinodale nelle sue diverse fasi ha tradotto in prassi virtuosa il principio della «mutua interiorità» tra Chiese particolari e Chiesa universale, incominciando il processo dalle Chiese particolari dove “abita” il Popolo di Dio. Il fatto che sia stato il Vescovo ad aprire la consultazione del Popolo di Dio nella sua Chiesa mostra che in una Chiesa di Chiese la dimensione sinodale e quella gerarchica si compongono armonicamente. Per questa via si può ripensare il ministero dei Pastori come forma di servizio a una Chiesa sinodale. E si possono anche ripensare le strutture esistenti in forma nuova, sinodale.
La questione del metodo. Potrei continuare. Ma non tocca a me fare l’elenco delle questioni a chi è «maestro in Israele». Come Segretario Generale della Segreteria Generale del Sinodo, totalmente impegnata nel processo sinodale, mi permetto di ripetere quanto dice Episcopalis communio, art. 9: «Gli Istituti di Studi Superiori, soprattutto quelli che possiedono una speciale competenza sul tema dell’Assemblea del Sinodo o su questioni specifiche con esso attinenti, possono offrire studi, o di propria iniziativa o su richiesta […] delle Conferenze Episcopali, o su richiesta della Segreteria Generale del Sinodo».
Sul tema dell’Assemblea del Sinodo tutte le istituzioni teologiche e tutti i teologi possono contribuire grandemente. È bastato ripercorrere il processo sinodale per rendersi conto di quante e quali questioni teologiche sono suscitate dal tema della sinodalità. Sono certo che molti tra di voi, a partire dal tema dell’assemblea — «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione» — potrebbero scrivere un saggio teologico che arricchirebbe la conoscenza di questo «meraviglioso poliedro» che è la Chiesa sinodale. La speranza è che, mentre si compiono le tre fasi del processo sinodale la teologia approfondisca in termini decisivi il tema della sinodalità e della «Chiesa costitutivamente sinodale».
Potrei concludere qui. Ma il fatto che la dinamica del processo sinodale ponga questioni di enorme portata alla teologia mi sollecita a offrire un accenno alla questione del metodo sinodale in teologia. So quanta importanza rivesta il metodo. La Facoltà di teologia della Gregoriana ha prodotto dopo il concilio due grandi proposte in ambito metodologico. La prima e più conosciuta è quella del padre Lonergan, con il suo Method in Theology, che vide la prima edizione nel 1972, alla quale va associato Insight, il famoso studio of Human Understanding. Qui il padre. Lonergan sottolinea l’importanza dell’esperienza nei processi cognitivi, distinguendo il livello dei dati, il livello della ricerca, il livello della critica. Anche la seconda proposta, quella dei padri Alszeghy e Flick, che nel 1974 hanno pubblicato il fortunato libro “Come si fa la teologia”, insiste sulla funzione della teologia di interpretare la vita ecclesiale. Mi colpisce questa affermazione: «L’interpretazione critica ha due aspetti: essa implica dall’una parte un ritorno al passato, in cui la Rivelazione una volta per sempre è stata accettata e progressivamente compresa dalla Chiesa; dall’altra parte è una apertura verso nuove esperienze che emergono in ogni epoca della storia e appellano ad un rinnovamento e ripensamento della realtà ecclesiale» (Come si fa la teologia, 56).
Queste parole calzano perfettamente al momento attuale che sta vivendo la Chiesa, come apertura alla sinodalità, che domanda al contempo di essere fondata nella Tradizione, perché non sia una novità fine a sé stessa. Emerge nelle due proposte di metodo una attenzione forte alla vita della Chiesa, all’esperienza che la comunità dei credenti vive oggi. Tanto Lonergan quanto Flick-Alszeghy sembrano dirci, con linguaggi e sensibilità diverse, che il teologo deve partire dall’esperienza, lasciarsi interrogare dalla situazione che sta vivendo la Chiesa, offrendo risposte — o quantomeno ipotesi di risposta — che mostrino come sia possibile incarnare oggi il Vangelo.
È questo aspetto che vorrei sottolineare: il processo sinodale, in tutte le tappe della prima fase, ha rivelato l’importanza dell’esperienza per la comprensione della sinodalità. Chi si è lasciato coinvolgere e interpellare, chi ha effettivamente vissuto una partecipazione piena al processo sinodale, ha anche compreso «dal di dentro» la sinodalità, come una realtà viva, un processo dinamico che restituisce vita alla Chiesa. Ristabilendo anzitutto le relazioni tra chi partecipa al processo e si pone in ascolto dello Spirito attraverso l’ascolto degli altri. Questo metodo della conversazione nello Spirito rimanda al dinamismo della Tradizione descritto da Dei Verbum: «Questa Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2, 19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum 8).
La teologia è un atto secondo, che interpreta la vita ecclesiale. I tre fattori che partecipano del dinamismo della Tradizione, attraverso un processo di «comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse», riguardano tutti in un modo o nell’altro il vissuto ecclesiale, la sua dimensione esperienziale. Io vi invito ad ascoltare quanto è avvenuto finora e quanto avverrà nelle fasi venture del processo sinodale. Dentro questa esperienza della Chiesa-Popolo di Dio chiamata a «camminare insieme» sta germogliando uno stile e una forma di Chiesa, uno stile e una forma di vita cristiana per il nostro tempo. Fornire una adeguata interpretazione a questa esperienza credo sia il compito di una teologia che voglia pensarsi sinodale e ripensare il suo compito al servizio di una Chiesa sinodale.
Non so se sia facile sviluppare un metodo sinodale in teologia. Pensare al teologo e identificarlo con una sorta di “solitario” alla ricerca di una sintesi originale del pensiero cristiano o di qualche suo aspetto, è un tutt’uno. La funzione del teologo è in certo qual senso personale, legata com’è alla sua competenza scientifica. Ma la teologia non può e non dev’essere un prodotto di laboratorio, il risultato di un’applicazione deduttiva di principi astratti che stanno a fondamento di sistemi, non di rado senza riscontro nella realtà.
Nella letteratura sulla sinodalità, che in questi ultimi anni ha conosciuto una moltiplicazione esponenziale, non è mancata la tentazione di dedurre da principi astratti una teoria della sinodalità che non corrispondeva all’esperienza della Chiesa che sta vivendo il processo sinodale. Non voglio qui assolutizzare l’esperienza, né sminuire la funzione della teologia, ma stabilire una relazione necessaria tra l’esperienza sinodale in atto e la teologia della sinodalità. Una teologia sinodale dipende anch’essa dal principio dell’ascolto: ascoltare le esperienze di sinodalità significa porsi nella possibilità di formulare una teologia della sinodalità a partire da ciò che lo Spirito sta operando nella comunità dei credenti. Non si tratta di una teologia che si limita a descrivere i processi sinodali, ma li legge criticamente, li interpreta, per «distinguere ciò che nell’esperienza ecclesiale è genuino e autentico, e ciò che invece è frutto di malinteso, abuso e oscuramento; suo compito è discernere la “sostanza” inalienabile del messaggio cristiano nelle varie “forme” contingenti, in cui esso s’incarna attraverso il susseguirsi delle varie culture» (Come si fa la teologia, 56).
Così, una teologia sfidata dalla sinodalità e dall’esperienza sinodale saprà rispondere alla sfida aprendosi all’ascolto. Si tratterà sempre di un ascolto critico, in grado di comprendere, attraverso il vaglio della scienza teologica, la natura della sinodalità e la dinamica interna del processo sinodale. Se farà questo, la teologia aiuterà veramente la causa della sinodalità. Dunque, non mi resta che ringraziarvi per quanto questo Convegno approfondirà il tema della sinodalità, proprio a partire dalle visioni e dalle esperienze di sinodalità. Buon Convegno!
www.osservatoreromano.va/it/news/2023-05/quo-105/la-teologia-alla-prova-della-sinodalita.html
SINODO CONTINENTALE
Sinodo: uscire dalla «bolla»
Il 20 aprile scorso si è tenuta la conferenza stampa sulla conclusione della II tappa del processo sinodale della Chiesa universale, quella continentale https://re-blog.it/2023/04/16/spigolature-sinodali
e del lavoro del Gruppo di esperti che ha letto i 7 documenti delle altrettante assemblee continentali e sta elaborando l’Instrumentum laboris. Quest’ultimo, cruciale documento – ha detto la sottosegretaria della Segreteria generale del Sinodo suor Nathalie Becquart – sarà pronto alla fine di maggio. Sempre Becquart ha sottolineato come i nodi della diversità presenti nei documenti continentali (ad esempio la cura del creato per l’Oceania, l’ecumenismo e la liturgia per il Medio Oriente, la Chiesa come famiglia per l’Africa) non vengano solo al pettine nel momento in cui a Roma si tenta una sintesi complessiva, ma siano già ampiamente vissuti nelle Chiese locali a motivo del forte movimento migratorio: un caso per tutti, quello di una parrocchia di Abu Dhabi che riunisce 99 nazionalità e 7 riti diversi.
Sulla consapevolezza che «vi è più di un modo per essere Chiesa» e che questa «grande diversità» è «già una realtà», vissuta in una «profonda unità che non significa solo uniformità», riportiamo in una nostra traduzione dall’inglese ampi stralci dell’intervento che il presidente dei vescovi australiani,
mons. Timothy Costelloe, [α1954] arcivescovo di Perth e membro della Commissione preparatoria del Sinodo, ha tenuto durante la conferenza stampa in Vaticano. (M.E. G.)
Uniformità e diversità. Sebbene io abbia partecipato solo all’Assemblea dell’Oceania, mi è parso di capire, parlando con chi ha partecipato alle altre e leggendo i documenti di ciascuna Assemblea, che ognuna è stata molto diversa per stile e contenuto. Questo era prevedibile, dati i contesti ecclesiali e sociali molto diversi in cui vivono le varie Chiese d’ogni continente. Ciò evidenzia un aspetto molto importante della sinodalità, soprattutto se la pensiamo nel contesto di una Chiesa globale, universale: c’è più di un modo di essere Chiesa.
Una delle cose più importanti che stiamo sperimentando in questo viaggio verso una maggiore e più profonda esperienza di sinodalità è che riconosciamo e celebriamo la grande diversità che è già una realtà nella Chiesa; stiamo in realtà sperimentando una profonda unità che non solo non si fonda sull’uniformità, ma che anzi ci invita ad abbandonare qualsiasi ricerca di una rigida uniformità.
Ciò indica un fatto: che i principi universali devono essere «incarnati» nel contesto della cultura e della situazione locali. Questo è un punto chiave: ci sono principi universali (e in questo c’è una forma di uniformità), ma i principi devono essere incarnati nei contesti locali.
Questo è stato il caso dell’esperienza in Oceania. L’Oceania è costituita da una grande varietà di culture (…) È anche un continente che contiene sia nazioni economicamente e politicamente stabili, sia altre nazioni molto meno stabili in entrambi gli aspetti. Inoltre, è quello che potremmo definire un «continente d’acqua» più che un continente di terra, nel senso che se disegnassimo un cerchio su una mappa attorno a tutte le nazioni che compongono il continente, la maggior parte del contenuto del cerchio sarebbe l’Oceano Pacifico. Infine, è un continente che contiene un numero significativo di nazioni e Chiese relativamente giovani.
L’insieme di questi fattori ha fatto sì che, di fatto, l’ideale di un’assemblea ecclesiale continentale nel senso pieno del termine non fosse possibile. Ciò che è stato possibile è che la grande maggioranza dei vescovi dell’Oceania ha potuto riunirsi nelle isole Fiji, con una piccola ma significativa presenza rappresentativa del popolo di Dio (…)
Le buone ragioni dell’altro. Ritengo che questo faccia parte del cammino sinodale: siamo portati a riconoscerci come parte essenziale della realtà della Chiesa – a prestare attenzione agli echi della nostra esperienza, alle nostre speranze e ai nostri sogni, alle nostre convinzioni sulla Chiesa, che sentiamo nelle voci delle altre assemblee continentali, e allo stesso tempo a essere aperti ad altri sogni, ad altre speranze e ad altre convinzioni – e in tutto questo ad ascoltare con attenzione e aspettativa la voce e la chiamata dello Spirito Santo che viene attraverso tutte queste voci: trovare l’armonia che c’è, se guardiamo con sufficiente attenzione, in quella che a volte può sembrare disarmonia.
Una parte fondamentale di questo processo è stata la pratica della conversazione spirituale (…) in cui ciascuno è invitato a parlare apertamente e onestamente di ciò che sta scoprendo nel corso della vita e della fede, e allo stesso modo ad ascoltare con attenzione e «senza difese» l’altro che parla. Siamo invitati a riconoscerci come compagni di viaggio nel cammino della vita e della fede e non certo come antagonisti o su fronti contrapposti.
Certamente nell’Assemblea dell’Oceania questo è stato fondamentale per creare un clima di rispetto e, direi, la presunzione che anche nell’altro c’era buona volontà e sincerità, anche se ciò che l’altro diceva poteva essere una sfida o una contrapposizione. Questo, a sua volta, contribuisce a creare un atteggiamento d’apertura verso l’altro che permette di considerare che «potrebbe esserci di più in questa o quella questione di quanto non abbia visto in precedenza». Questo apre una strada per tutti (…)
Che cosa ha fatto il Gruppo di esperti. Come sapete, gli incontri che si sono conclusi ieri si sono concentrati su due aspetti:
- una riflessione e una condivisione di impressioni sull’esperienza della fase continentale del cammino sinodale, iniziata con la pubblicazione del documento per la fase continentale Allarga lo spazio della tua tenda,
- e poi un’attenta lettura dei 7 documenti emersi dalle Assemblee continentali, che hanno cercato di raccogliere il lavoro di riflessione e discernimento intrapreso a livello continentale.
Il processo che abbiamo seguito è stato molto simile a quello che abbiamo utilizzato durante tutto questo percorso: conversazioni spirituali. Ci siamo dati un tempo per pregare, per riflettere su ciò che stavamo leggendo, per parlare apertamente tra di noi e ascoltarci con attenzione, in relazione a ciò che stava emergendo, per poi iniziare a discernere insieme temi, priorità e punti di tensione da offrire come contributo alla stesura dell’Instrumentum laboris (…)
Un elemento molto importante della settimana di incontri è stato l’incontro con i prefetti e/o i segretari generali di alcuni dicasteri della curia romana. Questi incontri sono stati di per sé un buon esempio di ciò che sta al centro del cammino sinodale: parlare e ascoltare apertamente, onestamente, in modo attento e rispettoso. Non è mai bene che le persone operino «in una bolla»: dobbiamo entrare in questo viaggio sinodale con occhi, orecchie e cuori aperti (…)
Verso Emmaus. Concludo con una semplice riflessione su ciò che ci aspetta. Da oggi fino all’inizio della I Assemblea, in ottobre, il cammino sinodale continuerà, mi auguro, a svolgersi a livello di base. Abbiamo una grande quantità di materiale che fa parte del nostro cammino comune (…) E tutto questo è stato raccolto nei documenti che sono arrivati, principalmente anche se non solo, attraverso le conferenze episcopali. Da questi è emerso il Documento sulla tappa continentale (DTC)
che è stato a sua volta restituito alle Chiese locali, cioè a tutta la Chiesa, per un’ulteriore e più approfondita riflessione a livello continentale. Mentre ora iniziamo a guardare con trepidazione alla prossima tappa del cammino, la I Assemblea di ottobre, auspico che a livello locale di parrocchia, di diocesi, di comunità religiosa, di aggregazione ecclesiale, continui la riflessione, attraverso la pratica della conversazione spirituale, su tutto questo materiale e in particolare sui documenti delle sette assemblee continentali (…)
Se invece restiamo in disparte, potremmo perdere un’opportunità, così come è successo ai due discepoli sulla strada di Emmaus: quella che Gesù si unisca a noi nel viaggio, ci ascolti e parli con noi, e faccia ardere i nostri cuori dentro di noi. Il viaggio sinodale ha il potenziale per accendere un fuoco nei nostri cuori, che diventerà una fonte di energia, entusiasmo, coraggio e fede fiduciosa di cui avremo bisogno per diventare la Chiesa missionaria che papa Francesco sta sognando.
Timothy Costelloe, arcivescovo di Perth 24 aprile 2023
SINODI DIOCESANI
Padova, continua il cammino del Sinodo. La seconda sessione inizierà il 12 maggio
Prosegue il cammino del Sinodo della diocesi di Padova: domenica 30 aprile in Seminario si è ritrovata l’Assemblea sinodale, presieduta dal vescovo, mons. Claudio Cipolla,(α1955) per il secondo incontro della prima sessione di lavori. Ogni sessione di lavoro – ne sono previste sei fino a dicembre 2023 – si compone di due incontri. I lavori della prima sessione di lavoro hanno visto la lettura e l’approfondimento dello Strumento di lavoro 2, in cui sono stati raccolti e sistematizzati dalla Presidenza del Sinodo i frutti del lavoro fatto nei mesi precedenti dai gruppi di discernimento e dalle commissioni sinodali.
Lo Strumento di lavoro 2 è composto da una prima parte che evidenza cinque stili generativi, su cui si innestano 28 proposte. Gli stili generativi evidenziati sono
- la comunità cristiana in dialogo con il contesto sociale e culturale attuale;
- la spiritualità e l’esperienza di fede: un tesoro da custodire;
- la qualità delle relazioni, degli affetti e dei legami: le persone al centro e come fine;
- la fraternità e le collaborazioni pastorali: tutti corresponsabili;
- la formazione: cristiani si diventa.
Le 28 proposte riferite a questi stili generativi rappresentano delle leve su cui attivare quel cambiamento che la Chiesa di Padova sta cercando per disegnare un nuovo volto di Chiesa che risponda ad alcune domande che il vescovo ha rilanciato all’inizio del secondo incontro della prima sessione: come essere oggi Chiesa che annuncia il Signore Gesù? Come la liturgia parla di Gesù? Come la carità parla di Gesù? Come la Chiesa parla di Gesù ai giovani e agli adulti di oggi?
Dopo un primo momento assembleare di preghiera e di orientamento per i lavori, i 26 gruppi, in cui è suddivisa l’Assemblea sinodale, si sono ritrovati per lavorare sulle 28 proposte, alla luce di tre criteri di riferimento:
- la conversione in chiave missionaria della pastorale,
- l’urgenza dell’evangelizzazione,
- la sostenibilità realizzativa.
Con la seconda sessione, che inizierà venerdì 12 maggio, si inizieranno a focalizzare con più precisione le proposte su cui si concentreranno i lavori del Sinodo nei prossimi mesi, attraverso un lavoro di discernimento con più modalità: individuale nei gruppi e in plenaria.
Si possono seguire gli aggiornamenti del Sinodo tramite il sito sinodo.diocesipadova.it, dove vengono aggiunti per ogni incontro un “diario di bordo” che raccoglie gli elementi salienti dei lavori, le foto e un video che racconta il momento introduttivo di ciascun incontro.
Il Sinodo diocesano vede al lavoro 366 persone ma l’intera diocesi ne è coinvolta attraverso i volontari di alcune parrocchie che supportano di volta in volta la preghiera e la logistica degli incontri e grazie alla disponibilità di molte parrocchie di tenere le “chiese aperte” durante i lavori del sinodo per accompagnare l’Assemblea sinodale con un momento di sosta orante per chi lo desidera.
Inoltre una “squadra” di comunicatori aiuterà e terrà viva la comunicazione del Sinodo nelle parrocchie.
(G. A.) Agenzia SIR 2 maggio 2023
www.agensir.it/quotidiano/2023/5/2/diocesi-padova-continua-il-cammino-del-sinodo-la-seconda-sessione-iniziera-il-12-maggio/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=la-newsletter-di-agensir-it_2
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