News UCIPEM n. 957 – 9 aprile 2023

News UCIPEM n. 957 – 9 aprile 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

   Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

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I testi, anche se il contenuto non è condiviso, vengono riprese nell’intento di offrire documenti ed opinioni di interesse consultoriale, che incidono sull’opinione pubblica. La responsabilità delle opinioni riportate è dei singoli autori, il cui nominativo è riportato in calce ad ogni testo.

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                In ottemperanza alla direttiva europea sulle comunicazioni on-line (direttiva 2000/31/CE), se non desiderate ricevere ulteriori news e/o se questo messaggio vi ha disturbato, inviate una e-mail all’indirizzo: newsucipem@gmail.com con richiesta di disconnessione.

Chi desidera connettersi invii a newsucipem@gmail.com la richiesta indicando nominativo e-comune d’esercizio d’attività, e-mail, ed eventuale consultorio di appartenenza. [Invio a 921 connessi].

Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

O2 ABUSI                                              Abusi nella Chiesa: ancora non ci siamo

03 Centro Internaz. Studi Famiglia Newsletter CISF – n. 13, 5 aprile 2023

04 CHIESA IN ITALIA                           Donne, se le laiche superano le religiose

05                                                          In ascolto, senza pregiudizi: gli scout cattolici si interrogano sull’identità di genere

08 CITTÀ DEL VATICANO                    Abusi: Zollner si dimette e affonda la pontificia commissione per la tutela dei minori

10                                                          Una fronda di ultraconservatori frena le aperture di Papa Francesco al mondo Lgbt+

11 CONF. EPISCOPALE ITALIANA      La radicalità di Zuppi: «Siamo i primi a volere la trasparenza sugli abusi»

12 DALLA NAVATA                              Domenica di Pasqua di Resurrezione  – Anno A

12 COMMENTO                                   Commento di p. Ernesto Balducci

14 OMELIA                                            Mons.Moraglia (Venezia),“il primo annuncio dato dalle donne, apostole degli apostoli”

13 DONNE NELLA (per la ) CHIESA Selene Zorzi. La chiesa cattolica crea malattie che non sa curare

15                                                          “Verso una teologia pubblica”: teologhe italiane a convegno

16 FRANCESCO VESCOVO di ROMA Dialogo aperto e sincero in un documentario sul Papa

19                                                          Papa Francesco: “vicino ai preti in crisi, la doppiezza clericale è pericolosa”

21 LITURGIA                                          Battesimo civile e anagrafe ecclesiale: una questione

22 OMOFILIA                                        Chiesa e persone Lgbtq+. L’amore è uno sconosciuto

24                                                          L’amore è uno sconosciuto. Le storie LGBT che hanno cambiato la mia vita da prete

26 OPINIONI                                        L’ordine umano di Gesù

28 PROBLEMATICHE                          “Stati Generali della natalità”: narrazione & ri-proposizione di futuro

31 PROPOSTE                                       Welfare, ecologia e Rdc: il messaggio del papa all’Inps

32 RELIGIONI                                        Oltre le religioni /7. Liberare il cristianesimo da miti e devozionismi

34 RIFLESSIONI                                     La Pasqua delle domande

35                                                          La Pasqua sconfigge il nulla                                           

36 SIN0DO DELLA SINODALITÀ        Potere di insegnare e di battezzare” ai laici e alle donne? Dalla società dell’onore alla società della dignità                                       

BUONA PASQUA DI RESURREZIONE

ABUSI

Abusi nella Chiesa: ancora non ci siamo

   La tanto attesa revisione della legge chiave del papa contro gli abusi è una grande delusione. Papa Francesco ha perso l’opportunità di correggere i gravi difetti della “Vos estis lux mundi” che l’hanno resa inefficace.

www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/20230325-motu-proprio-vos-estis-lux-mundi-aggiornato.html

   La revisione apporta alcuni modesti cambiamenti, alcuni dei quali sono benvenuti. È positivo che si chiarisca che l’abuso di adulti vulnerabili è un crimine secondo il diritto canonico e che anche i leader laici delle associazioni religiose possono essere soggetti a sanzioni. Ma questa politica aveva bisogno di un’ampia revisione, non di qualche ritocco.

   Vos estis rimane un’autopolitica confezionata come responsabilità. Mantiene il controllo dei vescovi nell’indagare e giudicare le accuse contro i colleghi vescovi. Omette qualsiasi obbligo di informare il pubblico. Dice ai vescovi che non sono tenuti a denunciare le molestie sui minori alle autorità civili, a meno che non siano obbligati a farlo dalla legge locale. E limita il coinvolgimento dei laici a ruoli frammentati e privi di potere. Nessuna di queste debolezze viene affrontata nella versione rilasciata oggi. Al popolo cattolico era stato promesso che Vos estis sarebbe stato “rivoluzionario”, un evento epocale per responsabilizzare i vescovi. Ma in quattro anni non abbiamo visto nessuna significativa pulizia della casa, nessun cambiamento drammatico. All’inizio di questo mese, un importante consigliere papale ha ammesso pubblicamente che la nuova politica del papa “non funziona”. Dei 5.600 vescovi viventi in tutto il mondo, BishopAccountability.org ha identificati solo una quarantina che sono stati indagati secondo il nuovo protocollo. Meno della metà di questi sono stati sanzionati, di solito con clemenza (bit.ly/3nrj4vn).

   Prima della promulgazione di Vos estis, il papa ha fatto credere alle vittime e ai cattolici disperati che la sua risposta decisa ai crimini dell’ex cardinale Theodore McCarrick sarebbe stata un precedente per una nuova era di responsabilità e apertura. Ma il caso McCarrick si è rivelato un’anomalia, “una tantum”. Mentre diversi vescovi sono stati giudicati colpevoli di abusi o di insabbiamento dopo la laicizzazione di McCarrick, nessuno è stato privato del suo sacerdozio o addirittura del suo titolo. Chiediamo sinceramente a papa Francesco di apportare importanti cambiamenti alla Vos estis, iniziando con queste riforme fondamentali:

  1. Richiedere la piena divulgazione di accuse credibili al pubblico. Secondo la Vos estis, è lecito tenere il pubblico all’oscuro dall’inizio alla fine. Non prevede alcun obbligo di informare i fedeli. Bisogna cambiare questa situazione. Per citare l’arcivescovo Scicluna, «l’informazione è fondamentale se vogliamo davvero lavorare per la giustizia». È anche fondamentale per scoraggiare i crimini e gli insabbiamenti.
  2. Eliminare il fallimentare “modello metropolitano” e autorizzare invece i laici a supervisionare la segnalazione, le indagini e il giudizio dei casi contro vescovi e leader religiosi.
  3. Obbligare a denunciare alle autorità civili, indipendentemente dal fatto che la legge locale lo richieda o meno. Ovvero, istruire ogni sacerdote e religioso a notificare alle autorità civili i reati sessuali sospetti o noti, così come i sospetti di insabbiamento da parte di funzionari della Chiesa. Il papa potrebbe esentare il clero da questo obbligo in quelle poche giurisdizioni del mondo in cui ci sono buone ragioni per temere che tale denuncia metta a repentaglio la sicurezza degli accusatori e/o dei presunti colpevoli.

   Questi e altri cambiamenti devono avvenire se si vuole che le vittime vivano una guarigione e che i bambini siano più sicuri all’interno della Chiesa cattolica.

Anne Barrett Doyle*     Adista Notizie n° 13 del 08 aprile2023

* copresidente di BishopAccountability.Org, il più grande database di informazione al mondo sui casi di abusi del clero; è un’organizzazione no-profit indipendente fondata nel 2003. Raccoglie e pubblica dati e documenti sulla crisi degli abusi nella Chiesa cattolica romana.

www.adista.it/articolo/69786

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n. 13, 5 aprile 2023

  • An irish goodbye: l’addio alla madre riallaccia i legami tra due fratelli. Gli Oscar 2023 hanno premiato un cortometraggio prodotto in Nord Irlanda, “An Irish Goodbye”         https://youtu.be/T0YVueR5ho0?t=5

che parla del recupero della relazione tra due fratelli (uno dei quali con sindrome di Down), in seguito alla prematura morte della madre. La richiesta di lei, trovata in una lettera, di esaudire una serie di desideri, concede tempo ai due uomini di ritrovarsi, a modo loro, e prendere una decisione sulla vendita della fattoria.

  • Il CISF alla giornata di studio AICCEF.Genitori confusi e smarriti: come orientare la bussola?” è il titolo della prima giornata di studio 2023 dell’Associazione Italiana Consulenti Coniugali e Familiari, a cui parteciperanno, tra gli altri, il direttore Cisf Francesco Belletti (“Essere genitori nelle sfide educative dell’era digitale: vecchi rischi, nuove possibilità”), la prof. Gabriella Giornelli (“Le relazioni dialogiche tra genitori e figli, per la costruzione comune di  un futuro desiderabile”), la consulente familiare Cristina Graffeo (“Opportunità per divenire genitori consapevoli e  “sufficientemente buoni”). Evento riservato ai Soci Aiccef e agli allievi delle Scuole di formazione riconosciute dall’Aiccef, iscrizioni entro l’11 aprile.

                www.aiccef.it/it/news/la-giornata-di-studio-del-30-aprile-a-roma.html#cookieOk

  • Adolescenti e tecnologia: la struttura familiare fa la differenza? Un nuovo rapporto dell’Institute for Family Studies e del Wheatley Institute (“Adolescenti e tecnologia: che differenza fa la struttura familiare?”) identifica un gruppo vulnerabile alla dipendenza dai social: quello dei ragazzi nelle famiglie con genitori acquisiti e monoparentali. Questa indagine nazionale (svolta su 1.600 giovani statunitensi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni) ha rilevato che i giovani in famiglie non integre trascorrono circa due ore al giorno in più sui media digitali rispetto a quelli che vivono con i loro genitori biologici sposati.
https://ifstudies.org/reports/teens-and-tech/2022/executive-summary
  • Politiche contro la povertà: la proposta al Governo di Caritas italiana. Caritas Italiana ha presentato al Governo, a seguito di un tavolo di confronto, una proposta di revisione del Reddito di cittadinanza, che prevede l’introduzione di due misure, tra loro complementari: l’Assegno Sociale per il Lavoro (AL) e il Reddito di Protezione (REP).  La prima (AL) si rivolge alle persone in difficoltà economica senza lavoro e ha come obiettivo il reinserimento lavorativo. La seconda (REP) è destinata, invece, alle famiglie in povertà e con essa si intende garantire loro una vita dignitosa con percorsi di reinserimento sociale e/o di avvicinamento al mercato del lavoro [il testo della proposta]

www.caritas.it/wp-content/uploads/sites/2/2023/03/Riforma_RdC_Caritas_def.pdf

  • Premio giornalistico “giovani e futuro”. Promosso dall’Agenzia per la coesione sociale della Provincia autonoma di Trento in collaborazione con il settimanale Famiglia Cristiana, il Premio Giornalistico Nazionale “Giovani e Futuro” è alla sua prima edizione. È aperto ai giovani fino ai 35 anni d’età e vuole indagare il mondo giovanile oggi combattuto tra le difficoltà occupazionali e la costruzione di una famiglia, il desiderio di avere figli e le prospettive di carriera. La scadenza per partecipare al concorso è fissata al 31 agosto 2023 [il bando]               www.trentinofamiglia.it/Premio-giornalistico-Giovani-e-futuro
  • Indagine sull’impatto della disabilità sul sistema familiare. In questi giorni la Fondazione Paideia https://fondazionepaideia.it/sta promuovendo un’indagine sull’impatto della disabilità sul sistema familiare. La ricerca è un’occasione preziosa per generare consapevolezza e una visione concreta nell’opinione pubblica rispetto ai bisogni e alle sfide che ogni giorno tante famiglie sono chiamate ad affrontare. L’indagine è rivolta a famiglie con bambini o ragazzi con disabilità nella fascia 0-18 anni.

Con la compilazione di questo form è possibile esprimere la propria pre-adesione a essere contattati, nel corso delle prossime settimane, per partecipare ad una breve intervista telefonica o alla compilazione di un questionario online in forma anonima, a seconda delle proprie preferenze.

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScRhCUnvRdQC4a_gXVrc7Ppfh7wFPn0JJZh-HY7EgKtsfaRiQ/viewform
  • Dalle case editrici
  • S. Astori, Lessico resiliente, San Paolo, Cinisello B. 2022, pp. 186.
  • Portinari, Donne in politica. Dalle suffragette all’attuale rappresentanza femminile, FrancoAngeli, Milano 2022, pp. 180.
  • Angelica Massera, Un figlio è poco e due son troppi. Diario di una mamma, Mondadori, Milano 2019, pp. 154

Angelica Massera è un’attrice e una delle più divertenti e autoironiche testimonial della vita quotidiana di una mamma: seguendola sulle varie piattaforme social (Facebook, YouTube, Instagram) centinaia di migliaia di follower condividono e s’identificano nelle sue avventure di donna e mamma (…). (B. Ve.)

  • Save the date
  • webinar (IT) – 14 aprile 2023 (9.30-13). “Il servizio di spazio neutro: tra risorse e criticitàa cura di CISMAI Lombardia [per info e iscrizioni su Zoom]
  • evento (Roma) – 18 aprile 2023 (17.30-19). “Camminando verso Lisbona: Fratelli Tutti organizzato dal Centro Fede e Cultura Alberto Hurtado presso l’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana

www.unigre.it/it/eventi-e-comunicazione/eventi/calendario-eventi/fratelli-tutti

  • evento (Milano) – 19 aprile 2023 (inizio ore 20). “Veglia per il lavoro 2023 – Giovani e lavoro protagonisti del cambiamento organizzata dall’Arcidiocesi di Milano [qui la locandina]

www.aggiornamentisociali.it/agenda/veglia-per-il-lavoro-2023-giovani-e-lavoro-protagonisti-del-cambiamento

  • webinar (EU) – 20 aprile 2023 (14-15.30 CET). “Regional population diversity and social cohesion in the local contexta cura di Population Europe [qui per info e iscrizioni]
https://population-europe.eu/welcoming-newcomers-what-works-local-level
  • webinar (EU) – 20 aprile 2023 (17-18.30). “Transizione digitale e impatto sul lavorowebinar nell’ambito del ciclo “Value@Work Open Talks” a cura di Istituto Studi Superiori sulla Donna-UPRA
  • conferenza (UK) – 25 aprile 2023 (10.45-12.15). “A bigger slice of a smaller pie? How does becoming poorer shape preferences for redistribution?”, conferenza sulle politiche sulla povertà organizzata da Social Market Foundation [qui per info]
  • evento (Milano) – 11 maggio 2023 (inizio ore 18.30). “Mara Selvini Palazzoli. Risonanze tra vita e professione“. Prima visione del documentario di Federico Selvini. Evento a cura della Scuola di psicoterapia Mara Selvini Palazzoli

www.cptf.it/it/prima-visione-documentario-scuola-mara-selvini

www.cptf.it/it/download/11796

 Iscrizione   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/aprile2023/6314/index.html

CHIESA IN ITALIA

Donne, se le laiche superano le religiose

Le donne hanno sempre rappresentato il vero pilastro della pratica regolare religiosa nel nostro Paese. Questo pilastro ormai vacilla. Le donne che non si recano mai in un luogo di culto superano quelle che vi si recano ogni settimana. Per la prima volta dal 1993 (inizio della serie storica Istat).

La pratica religiosa regolare è sempre stata maggiore tra le donne, ma le differenze di genere sono diminuite nel tempo. Venti anni fa erano di 16 punti percentuali, ora solo di 7. Non c’è quindi da meravigliarsi che anche le donne siano arrivate al sorpasso delle non praticanti sulle praticanti regolari. Dal 2005 è cominciata a crescere la quota di cittadine che non praticavano. Prima lentamente, anno dopo anno, e poi incrementando di 5 punti negli ultimi due anni, proprio in concomitanza con la pandemia. E così in 20 anni si è dimezzata la percentuale di donne che si recano in un luogo di culto ogni settimana, dal 44% al 22%, a quasi un quinto.

L’allontanamento dalla pratica regolare è evidentissimo tra le giovani. Quelle di 18-24 anni che non praticano mai sono quattro volte e mezzo quelle che lo fanno regolarmente. Dieci anni fa erano solo qualche punto in più. Tra 25 e 34 anni sono più del triplo. Tra 35 e 44 sono il doppio. Tra le bambine da 6 a 13 anni il sorpasso non c’è stato. Ma quelle che non praticano mai sono quadruplicate in 20 anni. Anche tra le anziane il sorpasso non c’è stato, e non perché non ci sia stata una diminuzione della pratica regolare, ma perché le anziane transitano di più dalla pratica regolare a quella irregolare, piuttosto che alla non pratica.

Il fenomeno è trasversale ed è particolarmente di rilievo, perché avviene in un periodo, l’ultimo ventennio, caratterizzato da crescita dell’invecchiamento della popolazione e aumento dei migranti. Ambedue elementi che dovrebbero contribuire a sostenere i livelli di pratica religiosa, indipendentemente dalla religione professata.

Tra le laureate il sorpasso era già avvenuto nel 2018 e riguarda tutte le fasce di età, tranne le anziane. Tra le diplomate due anni dopo, tra le lavoratrici già dal 2016. Non emerge una particolare differenza a seconda dei tipi di lavoro svolti dalle donne. Operaie, impiegate, libere professioniste o imprenditrici, tutte ne sono interessate. Resistono soltanto le casalinghe e le ritirate dal lavoro. La crescita del livello di istruzione delle donne e della partecipazione al lavoro hanno contribuito non poco a questo cambiamento in atto. Il fenomeno era già in corso nella popolazione maschile, in questo caso il sorpasso – tra praticanti e non – era avvenuto già dal 2012. E aveva interessato tutte le zone del Paese. Le differenze territoriali nella pratica religiosa sono sempre state molto accentuate. I livelli più alti di pratica si raggiungono tuttora nelle regioni del Sud. Ad eccezione della Sardegna che si stacca dal resto del Mezzogiorno, presentando un’assenza di pratica tra le più alte in Italia (37,5%) insieme a Val d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Emilia Romagna, Liguria. Tra le regioni del Nord è molto interessante il caso del Veneto. Questa regione si collocava al terzo posto per livelli di pratica religiosa nel 2001,

ma ora anche in Veneto è avvenuto il sorpasso.

Il processo di secolarizzazione dilaga trasversalmente e non risparmia neanche il Sud del Paese. Il sorpasso è avvenuto anche qui, anche se non in tutte le regioni. Non in Campania, non in Sicilia. Prosegue anno dopo anno, anche tra le donne, come negli altri Paesi.

Non dobbiamo meravigliarci, cambiano parallelamente gli stili di vita, emergono nuove tipologie di famiglie, ci si sposa di meno, i matrimoni per più della metà sono ormai civili, e crescono le libere unioni. Al di là del giudizio che si possa dare, dobbiamo registrare, che, come in gran parte dei Paesi avanzati, anche da noi, la pratica religiosa regolare non è più un fattore largamente diffuso come nel passato e connotante il modo dominante di pensare ed interpretare l’esistenza. Certo è che ciò avrà e ha già conseguenze sulle modalità del vivere quotidiano, di formazione dei diversi tipi di famiglia, sulla dissoluzione delle unioni, e sulle variegate forme del vivere familiare.

Linda Laura Sabbadini, statistica ISTAT   “la Repubblica”               3 aprile 2023

https://www.repubblica.it/commenti/2023/04/03/news/religione_donne_italia_istat-394701942

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230403sabbadini.pdf

In ascolto, senza pregiudizi: gli scout cattolici si interrogano sull’identità di genere

Un documento ufficiale dell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (Agesci), dal titolo “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo (Is 43,4)”, dà il via al grande dibattito interno allo scoutismo cattolico sulle sfide dell’educazione e dell’accoglienza in relazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale. Il documento, oggetto di un’email inviata il 10 marzo dalla commissione ad hoc “Identità di genere e orientamento sessuale” a capi e assistenti ecclesiastici, richiama la Mozione 55/2022 dal titolo “Identità di genere e orientamento sessuale: definizione percorsi”, che è stata approvata all’unanimità dal 48° Consiglio generale dell’Agesci (massimo organo deliberativo dell’Agesci), riunito a Sacrofano (Roma) dal 2 al 5 giugno 2022 (qui gli Atti). http://bit.ly/3TTzIzV

Parola d’ordine: ascolto. «La nostra Associazione periodicamente si interroga sui temi fondamentali legati all’educazione e cerca di affrontare le sfide con sincerità e coraggio», si legge nell’introduzione al testo della Mozione di giugno (v. Atti, pag. 56), firmata da Daniela Ferrara e Fabrizio Coccei (rispettivamente Capo Guida e Capo Scout). Il Consiglio generale 2022, spiegavano, «è stato occasione per iniziare un nuovo confronto aperto, profondo e sincero che proseguirà nei prossimi anni», fino al 2024. Un percorso non certo iniziato oggi, chiarivano: già nel corso degli anni, in maniera certamente non organica, ha portato alla luce l’esigenza di confronto scaturita tra i 180mila scout italiani. Lontano da dogmatismi e posizioni manichee o ideologiche, «crediamo che prendere delle posizioni sia una responsabilità della nostra Associazione per essere interpreti autentici della nostra società», concludevano Ferrara e Coccei.

                La Mozione 55/2022 – ispirata da documenti della Chiesa come la Costituzione apostolica Gaudium et spes, la “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali” (CDF, 1986), le due Esortazioni apostoliche Amoris lætitia e Christus vivit – dava dunque mandato a Capo Guida e Capo Scout «di nominare una commissione composta da capi, assistenti ecclesiastici e consiglieri generali, con esperienza nel campo educativo e pastorale con persone e realtà Lgbt+, avvalendosi anche del contributo di esperti esterni, con l’intento di avviare percorsi che creino spazi ed occasioni di ascolto nella nostra Associazione sia di persone Lgbt+ (ragazzi e capi, presenti o usciti dall’Associazione) che delle Comunità capi, delle famiglie, delle Zone e delle Regioni, raccogliendo riflessioni e testimonianze del loro vissuto, con un’attenzione sia alle sofferenze e alle difficoltà, che alla bellezza ed autenticità del vissuto, per fare sintesi di queste esperienze in chiave di discernimento ed accompagnamento».

                Scoutismo e Sinodo. Il testo della Mozione era accompagnato anche dal commento a margine del gesuita e assistente ecclesiastico generale, p. Roberto Del Riccio, il quale definiva «provvidenziale che questo Consiglio generale abbia messo all’ordine del giorno quello di cui stiamo parlando. Intendo provvidenziale in senso forte, cioè qualcosa ispirata dallo Spirito di Dio. Poteva essere fatto l’anno scorso, poteva essere fatto l’anno prossimo, ma viene fatto adesso alla fine del primo anno del cammino sinodale che la Chiesa ha attivato in Italia. (…) Non potevamo scegliere un momento migliore per entrare nel merito di questa realtà. Adesso abbiamo un percorso da fare per ascoltare dentro la nostra Associazione, con grande rispetto, senza forzare alcuna decisione di nessun genere, tantomeno normativo, e poter quindi consegnare alla fine di questo percorso quanto di più ricco, bello e vero abbiamo».

                La lettera rilancia il percorso di ascolto. Come Associazione, si legge nella recente missiva che cita il passo di Isaia, intendiamo «impegnarci a rispondere alla stupefacente vocazione di ripresentare ad ogni persona l’amore che Dio vive per lei». Per questo l’Agesci intende recuperare il «mandato» all’ascolto espresso dalla Mozione 55/2022 e, in qualche modo, superarlo: «Porgere l’orecchio non ci basterà (…). Per ascoltare ci serviranno innanzitutto gli occhi e, naturalmente, il cuore: gli “occhi” per vedere ogni persona “preziosa” come la vede Dio; il “cuore” per riconoscere che ci si “appartiene” reciprocamente e che nessuna strada abbiamo percorso senza che ci regalasse la vocazione e il coraggio necessari per aprire strade là dove non ci sono ancora».

La lettera rilancia dunque l’appello alle Capo scout e ai capi scout, «in particolar modo ai quadri associativi, affinché si facciano promotori nei vari territori e ad ogni livello associativo di questa grande impresa di “ascolto”». Chiede dunque di “ascoltare” il vissuto e raccogliere l’esperienza dei capi, in servizio o fuoriusciti, con delicatezza, evitando «modalità pubbliche» e rispettando il dolore o l’eventuale disagio, nel rispetto della privacy e dell’anonimato, mostrando i documenti ufficiali necessari a contestualizzare questo lavoro di indagine (la lettera stessa, la Mozione che ha avviato il percorso d’ascolto, l’informativa sulla privacy…). E fornisce anche un form online e un indirizzo email attraverso i quali consegnare il proprio «vissuto» in forma anonima e tutelata».

                «All’inizio del suo lavoro – spiega la lettera – la nostra Commissione si propone di ascoltare profondamente quanto arriverà da tutta l’Associazione attraverso testimonianze, esperienze, racconti, riflessioni e tentativi educativi; storie personali di R/S (Branca Rover/Scolte, 17-21 anni, ndr) maggiorenni, capo e capi che si riconoscono persone Lgbtq+ o si interrogano sulla propria identità di genere; storie di chi, avendo riconosciuto nella propria comunità un ambiente capace di “ascolto”, ha potuto vivere il proprio coming out; storie di chi per mille motivi si è trovato a chiudere il proprio servizio in Associazione. Di tutti e ciascuno sarà prezioso il contributo».

                Identità di genere? Una parolaccia! Decisamente poco entusiastico il commento dell’associazione “no-gender” Pro Vita & Famiglia Onlus, rimbalzato sulla stampa di destra e sui blog tradizionalisti. In una notizia del 15 marzo (bit.ly/3KiygE0) l’associazione parla di «clamorosa apertura dell’Agesci all’identità di genere», concetto che non si dovrebbe nemmeno pronunciare, perché «insidioso» e «contrario alla morale cattolica», in quanto «fluido e scardinante la realtà biologica». L’iniziativa di “ascolto” dell’Agesci appare all’associazione tradizionalista «grave. In primo luogo perché siamo davanti ad una realtà che si professa cattolica ma poi abbraccia (fino a prova contraria, nel senso che vorremmo ancora tanto sbagliarci) l’ideologia gender; e poi perché questa realtà ha proprio nella formazione di giovanissimi (i più esposti, si sa, alle insidie e alle manipolazioni della cultura dominante) la propria missione».

In un comunicato del giorno dopo (bit.ly/3zgJToU), il portavoce della stessa Onlus, Jacopo Coghe, afferma: «L’associazione cattolica Agesci parla apertamente di identità di genere, nonostante il Magistero della Chiesa e lo stesso Papa Francesco abbiano denunciato a più riprese il rischio educativo, in ultimo qualche giorno fa, quando il Papa in un’intervista a La Nacion ha definito l’ideologia gender “una delle colonizzazioni ideologiche più pericolose”». «Cosa insegneranno i capi a bambini e adolescenti? Che ognuno potrà percepirsi di qualsiasi genere a prescindere dalla propria realtà biologica maschile e femminile? I genitori lo sanno? Le famiglie sanno che pensano di mandare i propri figli in una realtà formativa e cattolica, ma poi quest’ultima vara progetti sull’identità di genere? Siamo in attesa di capire le direttive e le conclusioni che usciranno fuori da questo “percorso”, ma è un’iniziativa che rischia di tradire la fiducia delle famiglie sugli insegnamenti impartiti a migliaia di bambini che, dagli 8 anni in su, frequentano gli scout».

                I precedenti. Non è la prima volta che l’Agesci tenta di aprire una riflessione lungimirante e libera da pregiudizi su omosessualità e identità di genere nei percorsi educativi dei giovani. E non è la prima volta che le loro iniziative suscitano polemiche. Il 12 novembre 2011, un seminario Agesci affrontava il tema: “Omosessualità: nodi da sciogliere nelle comunità capi. L’educazione fra orientamento sessuale e identità di genere”. Mesi dopo, Proposta educativa (testata rivolta a capi e assistenti ecclesiastici) ne pubblicava gli atti, comprese le relazioni di due invitati che suggerivano a cape e capi di vivere la propria omosessualità nel silenzio, per non costituire un «problema educativo» nei confronti dei ragazzi. Di fronte al polverone sollevato dalle dichiarazioni l’Agesci aveva replicato chiarendo di aver solo avviato una riflessione, senza muoversi su posizioni predefinite (v. Adista Notizie n. 19/12).

                Il 27 marzo 2013, nella Chiesa valdese di piazza Cavour a Roma, si è tenuto un incontro di confronto tra alcuni capi scout e il gruppo di credenti Lgbt+ di Roma “Nuova Proposta”, promosso proprio a seguito delle riflessioni scaturite dal seminario 2011 (v. Adista Segni n. 15/13). «Le posizioni espresse in quel contesto – spiegava l’allora presidente di Nuova Proposta Andrea Rubera – ci avevano colpito per la loro durezza e chiusura. Poi abbiamo capito che non erano, e non sono, le posizioni dell’Agesci, ma solo di quei relatori. Per cui abbiamo pensato di avviare un dialogo con gli scout». «I gruppi Agesci – aggiungeva – sono sempre stati un’eccezionale palestra di cittadinanza attiva, di rispetto per i percorsi e le scelte di ognuno, di accoglienza sincera e consapevole di ragazze e ragazzi considerati “diversi” per origine e nazionalità, per contesto familiare, per handicap fisico o mentale e, immaginiamo, per orientamento sessuale».

                Estate 2014: la Route nazionale della Branca Rover/Scolte, partecipata da 30mila giovani scout, si conclude con la consegna alle istituzioni di una Carta del Coraggio (integrale https://bit.ly/42QFs1G), documento ricco e partecipato che attesta la volontà dei giovani scout di impegnarsi attivamente sulle più importanti sfide dei tempi (immigrazione, marginalità, legalità, ambiente, pace e nonviolenza, lavoro, Chiesa, ecc.). Il capitolo “Amore” – nel quale gli estensori chiedono all’Agesci «maggiore apertura riguardo a temi quali omosessualità, divorzio, convivenza», e alla Chiesa «di accogliere e non solo tollerare qualsiasi scelta di vita guidata dall’amore» – desta subito scandalo tra i tradizionalisti cattolici, che non perdono occasione di denigrare la lungimiranza e la portata profetica del documento (v. Adista Segni Nuovi n. 33/14).

Giampaolo Petrucci Adista Notizie n° 13, 08 aprile 2023

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CITTÀ DEL VATICANO

Abusi: Zollner si dimette e affonda la pontificia commissione per la tutela dei minori

Perde un pezzo da novanta la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (PCTM), voluta da papa Francesco nel 2014 come strumento di contrasto agli abusi sessuali clericali e guidata dal card. Sean O’Malley, arcivescovo di Boston. Il 29 marzo 202 3, infatti, lo stesso O’Malley ha comunicato le dimissioni del gesuita p. Hans Zollner, tra le figure ecclesiali maggiormente impegnate nella tutela dei minori e nella prevenzione degli abusi, braccio destro del papa su questo versante e ultimo membro rimasto del gruppo iniziale.

                Legata a motivazioni contingenti la decisione secondo la versione di O’Malley: Zollner avrebbe fatto un passo indietro dalla Commissione a causa dei molteplici impegni, e in particolare «dopo la recente nomina a consulente del Servizio per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili nella diocesi di Roma, avvenuta lo scorso 3 marzo», un incarico che va a sommarsi a quello di «direttore dell’Istituto di Antropologia, Studi interdisciplinari sulla dignità umana e sulla Cura dei vulnerabili alla Pontificia Università Gregoriana (fino all’aprile 2021 conosciuto come Centro per la Protezione dei Minori)». Nella comunicazione di O’Malley seguono espressioni di ringraziamento e di apprezzamento per il lavoro svolto dal gesuita tedesco, aggiungendo che «il Santo Padre ha accolto la sua richiesta con il più profondo dei ringraziamenti per i suoi tanti anni di servizio». Zollner, ha detto il presidente della PCTM, «ha contribuito a modellare e implementare molti dei progetti e dei programmi che hanno trovato la loro origine nella Commissione deliberazioni, in particolare il Global Summit nel febbraio 2019», il summit dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo convocato dal papa in Vaticano per affrontare il tema abusi.

                Ben diverse le motivazioni addotte dal diretto interessato, per il quale la decisione di andarsene è una vera «dissociazione» rispetto alla PCTM: dopo aver affermato che le dimissioni che sono state accettate il 14 marzo scorso e aver ringraziato «il Presidente, i membri della Commissione ed il suo staff, sia passati che presenti, che condividono la speranza di costruire una Chiesa più sicura», ribadisce che «la protezione dei bambini e delle persone vulnerabili deve essere al centro della missione della Chiesa cattolica. Questa era la speranza, condivisa da me e molti altri, quando fu istituita la commissione nel 2014. Tuttavia, nel corso del mio lavoro con la commissione, ho notato delle questioni che richiedono di essere affrontate con particolare urgenza e che mi hanno reso impossibile continuare». Le aree di preoccupazione riguardano «responsabilità, ottemperanza, affidabilità e trasparenza», «principi che qualsiasi istituzione ecclesiastica, tanto più la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori, è tenuta a rispettare».

                Zollner entra nel merito di quelli che definisce «problemi strutturali e concreti che mi hanno portato a dissociarmi dalla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori», riscontrati nel modus operandi della Commissione: «Per quanto riguarda l’ottemperanza, c’è stata una mancanza di chiarezza sul processo di selezione dei membri e del personale, sui loro rispettivi ruoli e responsabilità»; «Un’altra area di preoccupazione è quella della responsabilità finanziaria, che ritengo inadeguata. È fondamentale che la Commissione mostri chiaramente l’uso fatto dei fondi nel suo lavoro». Quanto alla trasparenza, essa dovrebbe informare «le modalità di decisione all’interno della commissione. Troppo spesso ai membri sono state fornite informazioni insufficienti e comunicazioni vaghe riguardo al modo in cui sono state prese alcune decisioni». Infine, afferma p. Zollner, «non sono a conoscenza di norme che regolino il rapporto tra la commissione e il Dicastero per la Dottrina della Fede, dal momento in cui la commissione è stata inserita nel Dicastero, lo scorso giugno».

                Il gesuita dichiara di volersi concentrare ora sul suo «nuovo ruolo di consulente della Diocesi di Roma e di direttore dell’Istituto di Antropologia (IADC), allo scopo di rendere il mondo un posto più sicuro per i bambini e le persone vulnerabili con il nostro impegno accademico e scientifico», restando disponibile a confrontarsi con la Commissione sul tema della tutela e nella speranza «che le questioni sopra menzionate possano essere risolte in modo sostenibile».

                La diagnosi contenuta nel comunicato di p. Zollner ha notevolmente irritato il card. O’Malley, che si è detto «sorpreso, deluso e fortemente in disaccordo con le affermazioni critiche, rilasciate pubblicamente ieri pomeriggio da Zollner riguardo l’efficacia della Commissione».

                Una commissione “liquida”. Si tratta dell’ennesima crisi per una Commissione che, fin dalla sua nascita, non ha fatto che vivere uno stillicidio di abbandoni da parte dei membri, in particolare nella componente delle vittime, cui non era riconosciuto un ruolo efficace nella compagine. E che nel tempo ha continuato a cambiare forma e dimensioni, fino alla decisione di papa Francesco di un anno fa, con la Costituzione Apostolica sulla Curia Romana, Prædicate Evangelium, di porla all’interno della sezione disciplinare del Dicastero per la Dottrina della Fede, lasciandole, nelle intenzioni almeno, una autonomia, con la nomina diretta pontificia del presidente, che dovrebbe riferire direttamente al papa e con l’indipendenza dal Dicastero per ciò che riguarda decisioni su membri e personale e sulle proposte avanzate. Una storia tormentata, peraltro, anche quella dei rapporti con il Dicastero, per diversità di vedute all’interno, ma anche per la sua non chiarissima identità, per la lentezza e le resistenze alle proposte della Commissione come quella, approvata dal papa – ma mai realizzata – di creare un tribunale separato per i vescovi che agiscono in modo inappropriato nei casi di abuso sessuale, che tuttavia non vide mai la luce; al suo posto papa Francesco, l’anno dopo, emanò una nuova legge (il motu proprio Come una madre amorevole) che stabiliva la rimozione dei vescovi negligenti.  In che misura sia stato applicato, finora, non è chiaro.

www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio_20160604_come-una-madre-amorevole.html

E poi bisogna ricordare il grande ampliamento del 30 settembre scorso, con cui papa Francesco ha nominato dieci nuovi membri che si aggiungono ai dieci già operativi, dalle competenze più disparate: sulle loro identità si veda una nostra notizia online (Adista online del 1/11/22); qui importa sottolineare che, per quanto si sa, nella Commissione, su venti membri, c’è una sola vittima (nel 2018 la Commissione aveva affermato che l’identità delle vittime di abuso sessuale presenti tra i membri non sarebbe stata resa pubblica): nel marzo 2021 si era aggiunto al gruppo il giornalista cileno Juan Carlos Cruz, vittima da adolescente delle violenze sessuali del prete (poi dimesso dallo stato clericale) Fernando Karadima. In passato, invece, il britannico Peter Saunders, fondatore ed ex responsabile dell’associazione di vittime di pedofilia Napac e l’irlandese Marie Collins, entrambi nominati nel 2014, se ne andarono delusi, arrendendosi a lentezze, ostacoli e persino boicottaggi della Curia nei confronti del lavoro del gruppo; la neuropsichiatra infantile francese Catherine Bonnet, specializzata in violenze sessuali su minori, lasciò nel 2018 (v. Adista Notizie n. 8/18): aveva invano insistito sulla necessità di ascoltare le vittime, «singolarmente o nel quadro di associazioni come l’Ending Clerical Abuse (ECA)».

                Nonostante la nuova agenda della Commissione preveda l’ascolto della voce delle vittime tramite dei Survivors Advisory Panels (SAP), per includere le esperienze delle vittime e dei sopravvissuti all’interno delle politiche di tutela e di cura delle Chiese, è stato lo stesso segretario pro tempore dell’organismo, p. Andrew Small, a riconoscere, lo scorso novembre, che alla luce del processo sinodale manca un “pezzo” importante: «il peso e il significato effettivamente attribuito alle esperienze delle vittime/sopravvissuti agli abusi sessuali da parte del clero nel processo sinodale sono ancora dolorosamente poco chiari e le testimonianze delle vittime/sopravvissuti sono state finora limitate, e l’impatto delle loro esperienze e intuizioni è difficile da discernere».

                Un primo atteso rapporto annuale della Commissione – chiamata tra l’altro a collaborare con le Conferenze episcopali, le Diocesi e gli Ordini religiosi per garantire l’applicazione e l’efficacia delle linee guida là dove sono state elaborate – dovrà descrivere l’applicazione e l’efficacia delle politiche e delle procedure di salvaguardia nella Chiesa, fornendo un feedback sulle misure di cura e accompagnamento delle vittime e indicazioni sulle best practices da attuare. Ma non sarà disponibile prima del 2024: forse in tempo per festeggiare i suoi dieci anni di vita.

                L’onestà di Zollner. P. Zollner è sempre stato molto schietto riguardo all’entità del problema degli abusi nella Chiesa, ribadendo in più occasioni l’assoluta necessità di commissioni d’inchiesta indipendenti, anche in Italia, dove invece la CEI si muove in modo ben diverso. Per Francesco Zanardi, fondatore del gruppo di sopravvissuti italiani Rete L’Abuso, (AFP 29/3) Zollner era stato «molto onesto» riguardo al problema dei preti pedofili all’interno della Chiesa «e il Vaticano gliela sta facendo pagare»: «È stato indubbiamente un ottimo e onesto interlocutore – ha aggiunto sul sito della Rete l’Abuso – che ha dimostrato di aver a cuore questa battaglia. Fu proprio Zollner ad ammettere pubblicamente che il dato di pedofili nel clero non era del 2%, – come sostenevano le fonti interne al Vaticano e lo stesso papa Francesco – ma andava dal 4 al 6%, molto piu in linea con quanto da anni dichiaravano commissioni d’inchiesta e associazioni di vittime in tutto il mondo». Lo scorso 23 marzo, Zollner aveva partecipato con un videomessaggio alla conferenza di presentazione a Milano dell’iniziativa europea di Justice Initiative – della Fondazione Guido Fluri, iniziativa di lotta contro gli abusi sessuali sui minori in tutta Europa che raccoglie gruppi di sopravvissuti e organizzazioni per la tutela dei minori e per rafforzare la legislazione in materia di violenza sessuale su Internet – confermando il suo impegno alla lotta, non solo all’interno della Chiesa, ma in tutte le diverse circostanze.

Ludovica Eugenio            Adista Notizie n° 13      08 aprile 2023

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Vaticano arcobaleno Una fronda di ultraconservatori frena le aperture di Papa Francesco al mondo Lgbt+

                Un’indagine giornalistica sul velo di omertà e ipocrisia sul tema dell’omosessualità nella Chiesa. La breccia nella dottrina di Bergoglio, le cui riforme sono osteggiate da chi vorrebbero vederlo rinunciare al Soglio di Pietro, specie dopo la scomparsa di Ratzinger

Perché proprio oggi un libro su Papa Francesco e i gay? O meglio sull’atteggiamento della Chiesa cattolica oggi nei confronti delle persone Lgbt+? E il tentativo, non semplice, di fare il punto sullo «stato dell’arte» in un’epoca in cui i costumi sessuali sono in apparente subbuglio, non meno della Chiesa stessa. Con la morte di Benedetto XVI, infatti, si ha ragione di credere che qualcosa sia cambiato, ancora una volta, all’interno della Chiesa cattolica.

Un equilibrio che l’età dei «due papi» aveva paradossalmente garantito, con un teologo in sonno e un attivista in opera, che garantivano alle anime conservatrice e progressista di convivere sotto la Cupola di San Pietro, tenendo a freno le forze centrifughe del mondo cattolico. Oggi, però, il rischio è un altro. Quello che, almeno secondo un accorto osservatore di cose vaticane come Luigi Nuzzi, vede l’esistenza di un piano segreto dentro e fuori le mura vaticane, che «coltiva un unico obiettivo: stressare il pontificato per arrivare alla rinuncia di Francesco, contando su un progressivo indebolimento del santo padre e su scelte dottrinali che creano sacche di malcontento da enfatizzare e raccogliere». Rinuncia che lo stesso Bergoglio non ha mai peraltro escluso.

                Ma su quali scelte dottrinali contano di fare più leva le forze avverse a Francesco oggi, se non quelle legate ai costumi e alla sessualità? Proprio per tali ragioni, questo testo cerca di comprendere cosa c’è di nuovo e cosa invece rimane legato alla tradizione e al passato nella dottrina e nei comportamenti della Chiesa (il magistero e la pastorale, in termini «tecnici») rispetto a questo mondo così articolato, complesso, ricco di sfaccettature, dialogante e contestatore insieme, sofferente per le discriminazioni e orgoglioso della propria identità. La diversità ci interroga e giustamente ci provoca, soprattutto se è una diversità emarginata, offesa, non compresa, non accettata. Un fatto è certo pur nelle sue contraddizioni, ambiguità e prudenze: la Chiesa di Francesco non si volta più dall’altra parte di fronte all’omosessualità, la transessualità, la bisessualità. È questo ciò che vuole testimoniare li presente libro, che è anzitutto un’inchiesta giornalistica e non un volume di morale o che pretende di «fare la morale».

Ma non basta raccontare gesti e avvenimenti. Occorre anche cercare di offrire delle chiavi di lettura. Operazione ancora più difficile oggi, quando le parole, i gesti, le decisioni o le mancate decisioni di Francesco su questo tema si prestano a letture e interpretazioni contrastanti. È lo stesso Papa che un giorno accoglie in Vaticano un transessuale e un altro vieta la benedizione alle coppie gay? Lo stesso che proclama una Chiesa dalle porte aperte ma si pronuncia duramente contro la teoria del gender? Un modo per orientarsi è anzitutto mettere a fuoco il fatto che atti, dichiarazioni, decisioni del Papa si muovono su piani diversi a seconda della circostanza, del contesto, degli interlocutori. Questo è un primo elemento.

                Il secondo elemento è più di prospettiva, e guarda lontano: Bergoglio modifica lo stile dell’approccio della Chiesa riguardo al mondo Lgbt+. La Chiesa «ospedale da campo», come la chiama spesso il pontefice, accoglie tutti, non vuole lasciare fuori nessuno. «Non è una dogana», ripete ancora Francesco. Però dopo aver accolto tutti e riconosciuto l’identità e la dignità di ciascuno, la Chiesa del Papa argentino proclama la sua verità e rimane fedele ai suoi principi. Questo può bastare alle persone Lgbt+? Certamente no. Lascia con l’amaro in bocca chi, soprattutto nel mondo laico e progressista, si aspettava riforme radicali di Francesco sul fronte del magistero e della teologia morale (aborto, contraccezione, eutanasia) che invece non sono mai arrivate? Forse. Quello di Bergoglio allora è solo un «progressismo di facciata»? No, perché nella Chiesa le categorie progressista e conservatore non hanno molto senso, e anzi sviano da una corretta comprensione dei fenomeni (il «conservatore» Ratzinger, ad esempio, ha compiuto il gesto più rivoluzionario della Chiesa in epoca moderna: la rinuncia al soglio pontificio!). Probabilmente, Papa Francesco ha aperto una strada dalla quale non si potrà più tornare indietro: basta solo considerare che oggi si parla di questo argomento, mentre fino a pochi anni fa il tema Lgbt+ non era neppure preso in considerazione nell’agenda della Chiesa, tranne che da qualche prete di frontiera. Non era mai accaduto prima che un pontefice accogliesse un transessuale a casa propria, e Bergoglio lo ha fatto.

Molto adesso dipenderà da chi, in futuro dopo il pontefice argentino, ne raccoglierà il testimone. Sul fronte pastorale, Francesco ha aperto degli spiragli e fatto circolare aria nuova per omosessuali, bisessuali, transessuali e così via. La Chiesa non è un monolite, tante sono le sensibilità e le attitudini presenti. Tuttavia, la sensazione prevalente è che oggi ci sia meno spazio nella realtà ecclesiale per l’omofobia e la transfobia di un tempo. Ma c’è ancora tanto cammino da fare. Soprattutto sul fronte dottrinale e magisteriale. Lo richiede non una motivazione ideologica, piuttosto la sofferenza di tante persone Lgbt+ che sono discriminate e non comprese o non accettate. Anche loro sono i «poveri» che Papa Francesco vuol mettere in prima fila, ispirandosi al santo di Assisi di cui ha scelto il nome. Non è difficile immaginare che anche San Francesco nel XIII secolo avrebbe aperto la porta delle sue comunità alle persone Lgbt+ discriminate.

                Un aspetto su tutti sembra, però, frenare il cammino della Chiesa verso un’apertura su temi così delicati: quella fronda di ultra conservatori che non si rassegnano a vedere Bergoglio rinunciare al suo magistero. Ma a cui Francesco sembra intenzionato a rispondere colpo su colpo. Come dimostra la riapertura del caso Orlandi in Vaticano: un esempio di come la Chiesa di Roma possa dare a se stessa la possibilità, finalmente, di chiudere alcuni capitoli che ne hanno offerto un’immagine negativa. E aprirsi a una nuova fase, benedetta dal Papa argentino.

Luciano Tirinnanzi          “linkiesta”         8 aprile 2023

Da “Lasciate che i gay (non) vengano a me”, di Luciano Tirinnanzi, Paesi edizioni, 160 pagine

www.linkiesta.it/2023/04/lasciate-che-i-gay-non-vengano-a-me-paesi-edizioni-estratto

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

La radicalità di Zuppi: «Siamo i primi a volere la trasparenza sugli abusi»

«La chiesa da sempre deve unire due cose: la radicalità e la complessità». Cita don Milani, il cardinale Matteo Zuppi, che con il suo intervento ha chiuso, domenica 2 aprile, il festival “Tempi radicali” di “Domani” a Modena. Intervistato dal direttore Stefano Feltri, il presidente della Conferenza episcopale italiana parla di guerra, dialogo necessario, migranti e abusi clericali, insistendo sulla necessità di «entrare nel grigio», di interpretare la complessità dei tempi che attraversiamo contro la logica semplificante del bianco e nero.

I dieci anni di Francesco. «Papa Francesco ci ha insegnato a stare nella storia – ha spiegato – dialogo e identità devono andare insieme, non c’è l’uno senza l’altra e noi abbiamo bisogno di persone che uniscono». Sollecitato a individuare tre parole che rappresentano i dieci anni di Bergoglio, ha nominato la gioia, i poveri e la sinodalità. «Il papa quando parla di periferie lo fa con un’ottica identitaria: capisco chi sono solo partendo dagli ultimi, dalle periferie – ha detto Zuppie mettere l’accento sulla sinodalità significa camminare insieme, pensare a una chiesa che coinvolga tutti, anche nei meccanismi di potere». Il presidente della Cei ha poi detto che il papa rappresenta molto anche per i non credenti, «perché è delle pochissime autorità morali, in un momento storico che vede così pochi riferimenti non corporativi». «Su tanti temi, non solo sul piano spirituale», ha aggiunto, citando le encicliche Laudato si’, sulla cura dell’ambiente, e Fratelli tutti, sulla fraternità universale.

Diritti. Sulla guerra in Ucraina, il cardinale Zuppi ribadisce che bisogna essere chiari nel denunciare che c’è un aggressore e un aggredito, «altrimenti il grigio diventa opacità». Ma bisogna anche parlare di dialogo: «papa Francesco è stato il primo a dire che l’intervento in Ucraina era una guerra; dopodiché il problema vero è parlare del dialogo. Non significa rendere tutti uguali, né mettere tutti sullo stesso piano, però poi dobbiamo sapere che la logica del riarmo è una sconfitta e investire molto di più per mettere fine al conflitto».

Rispetto ai diritti del mondo Lgbt, e al dibattito in corso sulla gestazione per altri e la qualificazione giuridica dei bambini che sono stati messi al mondo con questa pratica, Zuppi ribadisce che la chiesa non si sottrae al dialogo. Lo dice la dottrina sociale della chiesa, che ha al centro la persona e i suoi diritti: anche la legge sull’aborto non è più messa in discussione. Sul fatto che sia un diritto difficile da mettere in pratica per l’elevato numero di obiettori il cardinale glissa, limitandosi a dire che bisogna incentivare «l’informazione nei consultori. Così come bisogna implementare le cure palliative nel fine vita».

I primi passi sugli abusi. Sugli abusi clericali, il presidente della Cei sostiene che per la chiesa «il problema è molto serio: siamo i primi che hanno interesse a contrastarlo». Dice, però, che anche famiglia e scuola hanno la stessa responsabilità. «Non per esimermi, perché non vogliamo passare per una manica di mascalzoni. Il rigore con cui i due ultimi papi hanno affrontato il tema lo dimostra». «A novembre presenteremo un altro report – aggiunge – abbiamo individuato il tipo di reato, oltre ai numeri. Il dossier questa volta riguarderà gli ultimi vent’anni, cioè da quando abbiamo i dati su cui lavorare, altrimenti il rischio è avere delle proiezioni e non una fotografia completa. D’altronde abbiamo linee guida severissime alla base». Zuppi tiene a sottolineare che si invitano le persone a denunciare alla giustizia civile ma non sempre le vittime vogliono esporsi: «Se non vogliono non li possono costringere», chiosa. L’onere poi passa al vescovo: che però non denuncia alla giustizia civile e tutto resta all’interno della chiesa. «A quel punto abbiamo sempre dei tribunali ecclesiastici che funzionano molto bene», assicura il cardinale. Le vittime, però, non sono state coinvolte in questo annunciato processo di trasparenza sugli abusi: Zuppi nega, dicendo che tre anni fa c’è stato un incontro al Consiglio permanente della Cei con alcuni sopravvissuti. La strada è iniziata ma resta ancora molto da fare.

Federica Tourn                 “Domani”          3 aprile 2023

www.editorialedomani.it/fatti/la-radicalita-di-zuppi-siamo-i-primi-a-volere-la-trasparenza-sugli-abusi-euqiw2z9

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230403tourn.pdf

DALLA NAVATA

PASQUA di RESURREZIONE del SIGNORE

Atti degli Apostoli        10,39. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome

Salmo                          117, 22. La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi.

Paolo 1Corinzi              05, 08. Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con àzzimi di sincerità e di verità.

Giovanni                      20, 08. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Commento

È proprio in questo che la fede cristiana si distingue da ogni fede religiosa, genericamente considerata: il suo punto di riferimento è un evento accaduto nel passato ma che ha, così dice la fede, un significato universale. Un sepolcro, dove un uomo era stato deposto, si è aperto. Un uomo ucciso dai potenti è entrato nella vita, nella gloria del Padre. Questo evento è il segno delle intenzioni del Padre per tutti gli uomini: la morte è stata vinta per tutti. Questo noi diciamo.

Com’è difficile ma anche com’è fecondo riproporci di fronte a questo messaggio annuale radicandoci, con tutta lealtà, nella condizione in cui noi oggi ci troviamo, una condizione che ci rende, per un verso, tanto più distanti dalla cornice, dai simboli di questo antico annuncio! Quando noi, uniformandoci ai livelli della conoscenza raggiunti scientificamente oggi, parliamo di vita ne parliamo in un modo molto diverso. Proprio ora che la vita è diventata precaria, incerta nello spazio infinito, noi sappiamo che essa è come un bene indivisibile che investe e coinvolge in unità profonda l’uomo che pensa, che ama, che spera — punta alta dell’emisfero della vita — e tutte le altre forme viventi su questo pianeta.

La vita che chiamiamo spirituale è così intessuta dentro gli equilibri molteplici della materia, così miracolosamente connessa con le variazioni che accadono in questa fascia attorno al pianeta che abbiamo acquistato un nuovo senso di responsabilità, proprio mentre la nostra violenza ha toccato i limiti. Stamani, in questo giorno di Pasqua, ci è stato dato l’annuncio che nelle profondità della terra è esplosa una bomba atomica sperimentale. Questa terra è scossa dalle nostre follie.

 E così la nostra responsabilità aumenta. Il nostro compito morale non è, come riteneva troppo facilmente la mentalità religiosa arcaica, di scivolare sulla vita terrena per appagarci nel pensiero la vita eterna. Questo modulo religioso arcaico ha resa vacuo, per tanti aspetti, l’annuncio che abbiamo ascoltato.

Noi sappiamo che la vita che viviamo e quella accogliamo nelle nostre braccia dal nutrimento terrestre che continuamente la genera, è un bene indivisibile. Ed è di questa vita che noi vogliamo parlare. Non possiamo metterla tra parentesi consegnandola al dominio della morte perché così facendo noi colpiamo nel centro la singolarità dell’annuncio pasquale. Siamo entrati, da qualche tempo, in una zona dell’esperienza collettiva e individuale del tutto nuova. Il duello fra morte e vita è un duello che oggi sembra dare una prevalenza, mai avuta. alla morte, perché essa non opera più all’interno della specie, come sempre è avvenuto. La morte recideva la vita degli individui lasciando sopravvivere quella della specie umana, per cui l’individuo moriva con la certezza che la sua eredità era destinata a correre verso il futuro lungo la linea delle generazioni. Una specie di eternità sostitutiva vibra perfino nelle viscere, nella fisica dell’uomo. Avere figli vuol dire andare verso il futuro: si può morire sapendo di non morire.

Ora però il senso della morte cinge totalmente la specie umana e ogni specie vivente. Noi siamo insidiati come da un’acqua nera sotterranea che pervade l’intera falda dell’esistenza. E un fatto nuovo che deve porci interrogativi nuovi sia livello morale che al livello conoscitivo. Noi sentiamo che il mistero della vita è un mistero che non possiamo sezionare a nostro piacimento: ci sarà chiesto conto della vita di questo pianeta. Se noi leggiamo il messaggio con questa mentalità, del tutto conforme al nostro tempo, senza barare, lo sentiamo per un verso così lontano: La fine delle cose e la fine della nostra vita individuale sembrano un destino ineluttabile. Nessun sepolcro si è mai aperto, la morte trionfa e noi raccontiamo, su questo sterminato panorama di sepolcri sigillati, la nostra certezza. Perché lo facciamo? Con quale fondamento? Intanto io penso che ci aiuta a darci una risposta, che sia conforme al messaggio e conforme ai livelli della coscienza di oggi, il riconoscimento della inesplicabilità della vita stessa.

p. Ernesto Balducci                “Gli ultimi tempi” vol.1 anno A

www.fondazionebalducci.com/9-aprile-2023-domenica-di-pasqua

Omelia

 Rembrandt Maddalena non riconosce subito Gesù

Pasqua: mons. Moraglia (Venezia), “il primo annuncio dato dalle donne, apostole degli apostoli”

Pasqua è, secondo il Nuovo Testamento, l’andare incontro al Signore rimanendo stupiti, poiché Egli offre ai discepoli qualcosa d’inatteso o, comunque, di molto più grande rispetto alle loro umane aspettative”. Lo ha detto questa mattina il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, nell’omelia della messa in basilica cattedrale di San Marco, soffermandosi quindi sul ruolo delle donne nei primi momenti della risurrezione. “Dicono che la Pasqua ribalta ogni criterio umano e storico – ha spiegato -, non solo perché la morte è sconfitta dalla vita ma perché scardina le consuetudini socio-culturali del tempo. Il primo annuncio della Pasqua è dato infatti alle donne, ossia a coloro che erano considerate insignificanti sia culturalmente sia socialmente, eppure l’annuncio della Pasqua sarà recato alla Chiesa proprio da loro; si tratta di una vera rivoluzione”. Così le donne diventano “le apostole degli apostoli”. di qui il pensiero alle grandi mistiche che “hanno attraversato la vita della Chiesa, in numero proporzionalmente maggiore rispetto agli uomini: Teresa d’Avila, Teresina di Lisieux, Caterina da Siena, Caterina da Genova, Chiara d’Assisi, Ildegarda di Bingen, Faustina Kowalska, per fare solo alcuni nomi”.

Pasqua, infine, è “la sintesi matura delle tre virtù teologali – ha osservato ancora Moraglia -. “Si vive, infatti, la Pasqua come mistero di fede per cui ci si apre all’improbabile, a ciò che sul piano umano è l’impossibile e che potremmo definire ‘improbabile ma vero’. Nello stesso tempo Pasqua è la speranza dell’umanità. Non si tratta, così, solo di rivestire di soprannaturale le nostre attese e i nostri desideri umani. La Pasqua è l’evento accaduto, è la certezza, ossia la persona vivente di Gesù crocifisso. Per i discepoli del Risorto  – la conclusione del patriarca – si tratta quindi di vivere la fede, la speranza e la carità, le tre virtù teologali che a Pasqua risaltano in pienezza”.

(G.P.T.)                  Agenzia SIR        9 aprile 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/4/9/pasqua-mons-moraglia-venezia-il-primo-annuncio-dato-dalle-donne-apostole-degli-apostoli

DONNE NELLA (per la) CHIESA

Selene Zorzi. La chiesa cattolica crea malattie che non sa curare

Teologa e filosofa, Selene Zorzi* da tempo denuncia «la problematica questione della maschilità» nel cattolicesimo: una perdurante discriminazione di genere che mortifica le donne mentre continua ad alimentare il clericalismo. «Quello che è duro a morire è il potere del prete, questa figura sacralizzata che non è fondata sulle Scritture», dice, «un potere che, d’altra parte, è sostenuto dai fedeli, che sembrano avere sempre bisogno di padri e maestri».

Zorzi è una persona che parla chiaro e non ama i giri di parole, soprattutto se si tratta di mettere in luce le contraddizioni — o, meglio, le «nevrosi» e le «schizofrenie», come le definisce lei — che lacerano la Chiesa oggi. «Da un lato assistiamo a un’antropologia nuova che, almeno formalmente, accetta la sessualità come parte integrante della condizione umana e sancisce la parità fra uomo e donna», spiega, «e poi accettiamo dalle istituzioni ecclesiastiche stili di vita arcaici e una concezione della donna come funzionale al maschio o destinata soltanto alla procreazione». Non si può sopravvivere in questo sistema senza operare una dolorosa scissione interiore, soprattutto all’interno della vita religiosa, sostiene Zorzi, che è stata monaca benedettina per vent’anni. Durante questa sua “prima vita” ha condiviso i giorni con altre sorelle, studiato e insegnato in diversi seminari italiani ed esteri, e alla fine ha realizzato che non faceva per lei. «Mi sono detta: o esco o mi ammalo. E sono uscita», spiega.

Il punto di rottura è arrivato quando, unica donna docente di teologia alla Pontificia università Lateranense, invece dell’atteso indulto papale è arrivata una comunicazione in cui le si proibiva l’insegnamento in quanto monaca di clausura. Era il 2011. «Anche nel monastero non c’era un bel clima, tendevano a isolarmi, quasi per farmela pagare per i riconoscimenti che mi arrivavano dall’esterno», racconta. «Era un messaggio per le altre, perché a nessuna venisse in mente di seguire il mio esempio». Anche studiare, da monaca, è stato un percorso a ostacoli: dopo la laurea in filosofia e gli studi di teologia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo («un ambiente aperto, anche se non prospettava un rovesciamento rispetto al cristianesimo della mia formazione», sottolinea), Zorzi vuole continuare con il dottorato. «Ero già professa», ricorda, «e, mentre i miei insegnanti spingevano perché studiassi, dal monastero frenavano».

Si ostina, macina chilometri e da Fabriano, sede del monastero, trova una sistemazione da un prete di Rebibbia per continuare a frequentare Sant’Anselmo. «Per le monache non è pensato un percorso di studi. Dove dormono? Dove mangiano? Avevo mille problemi logistici», sottolinea. «Per le donne non c’è una foresteria, né possono frequentare la mensa o la biblioteca; ho avuto il permesso di accedere alla mensa soltanto quando ormai insegnavo». Difficoltà quotidiane che danno la cifra dell’invisibilità delle donne che scelgono la vita religiosa. «Le monache non vengono trattate come adulte, ma come minori senza diritti e la vita di tutti i giorni è sottoposta a un’obbedienza militare», continua. «Non succede solo in Italia: mi sono confrontata con tante persone anche all’estero e ovunque è lo stesso». Le suore sono più attive ma alla fine, secondo la teologa, vivono una condizione molto simile a quella delle monache: «In questa cultura di potere, le donne consacrate sono considerate al servizio dei preti».

Quando denuncia gli abusi strutturali della Chiesa, Zorzi tiene a chiarire che non sta parlando soltanto di maschi: «Il problema è il sistema patriarcale in cui sono inscritti gli ordini religiosi», spiega. «Le donne in posizione di potere possono essere altrettanto abusanti dei maschi, perché riproducono la cultura che hanno introiettato». «Liberante per me è stato l’incontro con la teologia femminista e con donne che, anche dentro l’istituzione, mi hanno rivelato questi dispositivi di potere, facendomi vedere come li subivo o li agivo». Grazie agli studi di genere ha potuto rileggere in modo diverso anche i testi biblici e scoprire la presenza, finalmente non più invisibilizzata, delle donne: «Il lavoro di scavo e l’indipendenza di giudizio sono fondamentali», ribadisce oggi. Quello stesso pensiero critico che l’ha spinta a smascherare il discorso di chi esalta “il genio femminile” per poi confinarlo nelle strettoie concettuali di sempre, come la propensione alla cura. Un concetto caro a Giovanni Paolo II, che è stato appoggiato anche da esponenti del pensiero della differenza sessuale, come Luisa Muraro, ma che non convince certo Selene Zorzi: «In uno schema patriarcale, parlare di superiorità femminile significa solo mettere le donne in un luogo in cui non danno fastidio».

La ricetta non c’è, ma una prospettiva di futuro si intravede soltanto in un cambiamento radicale. «La Chiesa cattolica non ha strumenti per guarire ma crea malattie che non sa curare», conclude lapidaria Zorzi. «Qualcosa di nuovo deve certamente nascere e non sappiamo nemmeno se lo riconosceremo».

 * Teologa, filosofa ed ex monaca benedettina, si occupa di studi di genere e di ecoteologia. Docente stabile straordinaria di Teologia spirituale e Patrologia all’Istituto teologico marchigiano, ha insegnato anche Filosofia a Sant’Anselmo e Teologia spirituale alla Lateranense. È autrice di diversi libri, fra cui “Al di là del “genio femminile”. “Donne e genere nella storia della teologia cristiana” (Carocci 2015). È membro del Coordinamento Teologhe Italiane, di cui ha ideato e gestito il sito dal 2003 al 2013.

  Federica Tourn                            “Jesus”                                aprile 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202304/230403tourn2.pdf

“Verso una teologia pubblica”: teologhe italiane a convegno

Nell’occasione dei vent’anni dalla sua fondazione, il Coordinamento Teologhe Italiane – nato a Roma nel 2003 per valorizzare e promuovere gli studi di genere in un contesto di studio tradizionalmente maschile – prova a riflettere sulla possibilità di una teologia femminista dal volto pubblico, accettando di affrontare i nodi che la società e la Chiesa contemporanei propongono.

“Verso una teologia pubblica” è infatti il titolo del Seminario annuale del Coordinamento Teologhe Italiane, che quest’anno si terrà sabato 15 aprile 2023 a Roma, presso la Città dell’Altra Economia. L’evento si ricollega idealmente al primo Seminario del CTI, che si era tenuto a Roma nel 2004 e che aveva come titolo “Donne e tradizione della fede in Italia: l’apporto di una teologia di genere”. L’obiettivo di oggi, oltre che di misurare la strada percorsa, è quello di lanciare uno sguardo coraggioso in avanti, verso le prospettive della teologia e della Chiesa nei prossimi anni. Il luogo stesso indica la scelta di uscire dai propri confini, per cercare di vivere la teologia femminista le a Chiesa, in modo differente misura con le altre voci di comunità, economia, visioni diverse, cercando sinergie senza evitare tensioni e conflitti.

                Perché quando la teologia si interroga sulla sua rilevanza pubblica rivela anche la sua crisi oppure il timore della propria irrilevanza. In questa prospettiva, ad aprire i lavori sarà la teologa Elizabeth Green, pastora battista. La sua relazione “Quale teologia per quale pubblico?”, che tenterà di mettere a fuoco alcune pratiche di trasformazione dei contesti conflittuali e ingiusti, che si presentano come alternative al sistema patriarcale dei conflitti e della giustizia rigenerativa.

Di questi modelli di speranza, particolarmente rilevanti per le donne che hanno sperimentato violenza, si occuperà Marinetta Cannito, formatrice e consulente internazionale in materia di “Trasformazione dei conflitti e Restorative Justice”. La filosofa Annarosa Buttarelli si soffermerà invece sulla posizione genealogica rivoluzionaria delle donne, resa possibile ed efficace in un ambiente interiore di fede o di accentuata ricerca spirituale.

                Nel pomeriggio è previsto un dibattito teologico forse inusuale tra la biblista Marinella Perroni e la scrittrice Michela Murgia, a partire dall’ultimo libro di Murgia, “God Save the Queer. Catechismo femminista” (Einaudi 2022). Il libro si apre con una domanda che l’autrice, credente, si sente fare spesso: «Come fai a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo? Non la senti la contraddizione?», nella convinzione che coniugare fede e militanza di genere sia possibile e che anzi la fede abbia bisogno della prospettiva femminista e queer.

                L’ultima relazione sarà di Serena Noceti, ecclesiologa, che cercherà di immaginare una Chiesa diversa, ispirata dal coraggio di fare delle contraddizioni del presente una visione, con l’obiettivo di vivere finalmente il potere come occasione per autorizzare e sostenere libertà. Sarà poi il momento di una tavola rotonda tra generazioni diverse, in cui si confronteranno Luisa Alioto, dottoranda in Gregoriana, Maria Bianco docente di filosofia e di teologia al Centro Hurtado e alla Pontificia Università Antonianum e Stella Morra, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana.

 Per iscriversi al seminario: bit.ly/3K1sUM3.

Redazione Adista Notizie n° 13  08 aprile 2023

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FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Dialogo aperto e sincero in un documentario sul Papa

Disteso, sorridente e scherzoso e, in altri momenti, molto serio, commosso e addolorato. Ma sempre pronto a rispondere senza mezzi termini a ognuna delle complesse domande che gli pongono giovani di tutto il mondo. Così si mostra il Papa in «Amén. Francisco responde», un documentario di 83 minuti diretto dagli spagnoli Jordi Évole e Màrius Sánchez, uscito questo 5 aprile sulla piattaforma streaming Disney+.

Il lungometraggio è stato girato a giugno del 2022 in un edificio del quartiere Pigneto a Roma, quando il Papa aveva un forte dolore al ginocchio destro. Per questo appare fragile mentre cammina, ma non quando risponde alle domande pressanti dei suoi interlocutori, tutti di lingua spagnola, tra i 20 e i 25 anni, provenienti da Spagna, Senegal, Argentina, Stati Uniti, Perù, Colombia. Anche se all’inizio sembrano agitati per l’imminente dialogo con il capo della Chiesa cattolica, dopo l’arrivo di Francesco passano ben presto dalla timidezza alla fiducia, e a volte alla sfrontatezza, trattando, tra gli altri temi, il ruolo della donna nella Chiesa, il femminismo e l’aborto, la testimonianza di fede e la perdita della stessa, l’identità sessuale, il dramma della migrazione e il razzismo.

A rompere il ghiaccio è lo stesso Francesco che prende l’iniziativa e con un’immagine calcistica, dice: «Palla al centro, la partita abbia inizio». Subito Víctor, che si definisce agnostico, gli domanda se prende uno stipendio per il suo lavoro e il Papa non esita a rispondere: «No, non mi pagano! E quando ho bisogno di soldi per comprarmi le scarpe o qualcos’altro, vado e chiedo. Non ho uno stipendio, ma questo non mi preoccupa, perché so che mi danno da mangiare gratis». Poi racconta ai giovani che il suo stile di vita è abbastanza semplice, «come quello di un impiegato medio» e che per una spesa più grande preferisce non gravare sulla Santa Sede, ma chiedere aiuto ad altri.

Con una certa dose d’ironia, spiega ai giovani che quando vede che un’organizzazione sociale ha bisogno di aiuto economico, è lui stesso a incoraggiarla a chiedergli risorse, perché lui sa bene dove trovarle e a chi rivolgersi. «Tu chiedi, dico loro, che tanto qui dentro rubano tutti! Perciò so dove si può rubare e ti mando i soldi. Con questo voglio dire che quando vedo che bisogna aiutare qualcuno, allora sì che vado e chiedo all’incaricato degli aiuti», afferma il Pontefice.

Quando la conversazione si sposta sulla questione dell’abbandono della comunità ecclesiale da parte di tanti cattolici, Francesco propone uno dei suoi argomenti più ricorrenti: le periferie. «Quando non c’è testimonianza, la Chiesa si ossida, perché si trasforma in un club di brava gente, che compie i propri gesti religiosi, ma non ha coraggio di uscire verso le periferie. Per me questo è fondamentale. Quando guardi la realtà dal centro, senza volerlo erigi barriere di protezione, che ti allontanano dalla realtà e perdi il senso della realtà. Se vuoi vedere qual è la realtà, vai in periferia. Vuoi sapere che cosa è l’ingiustizia sociale? Vai in periferia. E quando dico periferia, non parlo solo di povertà, ma di periferie culturali, esistenziali» puntualizza.

Prende quindi la parola Medha, una ragazza nata negli Stati Uniti d’America, i cui genitori hanno lasciato l’India alla ricerca di un futuro migliore per la loro famiglia, testimonianza in sintonia con quella di Khadim, giovane musulmano senegalese radicato in Spagna. Entrambi testimoniano il razzismo subito per il fatto di venire da lontano. Così la conversazione s’incentra sul dramma globale della migrazione e il Papa coglie l’occasione per denunciare sia lo sfruttamento delle persone nei Paesi di partenza, sia la mancanza di moralità di quelli che non li accolgono. «Questo succede oggi, succede ai confini dell’Europa, e, a volte, con la complicità di qualche autorità che li rimanda indietro. Ci sono Paesi in Europa, non voglio citarli per non creare un caso diplomatico, che hanno piccole città o paesi quasi vuoti, paesi dove ci sono solo venti anziani e campi incolti. E questi Paesi, che stanno vivendo un inverno demografico, non accolgono nemmeno i migranti», sostiene Francesco. Secondo il Santo Padre, dietro a tutto ciò ci sono una coscienza sociale di stampo colonialista che favorisce lo sfruttamento e una cultura della schiavitù occultata da politiche migratorie che non cercano di accogliere, accompagnare, promuovere e neppure integrare il migrante. Ma i giovani fanno notare al Papa che la Chiesa in passato ha collaborato e si è servita di questo colonialismo. E lui risponde che, pur vergognandosene, bisogna sempre accettare la propria storia, e che tale criterio gli ha permesso di ripulire il Vaticano dalla mondanità spirituale che ha trovato talvolta, ma che questa continua a infiltrarsi. «La riforma della Chiesa deve iniziare dal di dentro, e la Chiesa deve sempre essere riformata, sempre, perché man mano che le culture progrediscono, le esigenze cambiano».

Dora, giovane evangelica originaria dell’Ecuador, scoppia a piangere mentre racconta al Santo Padre che è stata vittima di bullismo e di essere stata oppressa da un tale senso di solitudine da pensare al suicidio. Lui la consola, la invita a piangere tranquillamente e, quando la vede più serena, le domanda a che cosa si dedica. Dora risponde che è truccatrice teatrale, e il Papa le fa tornare il sorriso dicendole: «Ti chiamerò così mi farai più bello».

In quel momento i tuoni di un temporale che si sta scatenando all’esterno interrompono per alcuni istanti la conversazione, che volge verso uno dei momenti più tesi del documentario. Milagros, argentina, si presenta come catechista cattolica e, allo stesso tempo, come orgogliosa attivista pro-aborto. Mette nelle mani del Papa un foulard verde con scritta sopra la rivendicazione: «Aborto libero, sicuro e gratuito». Francesco accetta il gesto e lascia che s’instauri un dibattito tra le donne del gruppo, delle quali solo una si dice contraria all’interruzione della gravidanza e favorevole alla difesa incondizionata della vita che sta per nascere. Quindi il Papa prende la parola e affronta la questione in termini sia pastorali sia biologici. «Ai sacerdoti dico sempre che quando si avvicina una persona in questa situazione, con un peso sulla coscienza, perché è profondo il segno che un aborto lascia nella donna, che per favore non le facciano troppe domande e siano misericordiosi, com’è Gesù […]. Ma il problema dell’aborto bisogna vederlo scientificamente e con una certa freddezza. Qualsiasi libro di embriologia ci insegna che nel mese del concepimento il DNA è già delineato e gli organi sono già tutti definiti. Perciò non è un ammasso di cellule che si uniscono, ma una vita umana». Così il Pontefice procede nella sua argomentazione e, come ha fatto altre volte, propone domande: «È lecito eliminare una vita umana per risolvere il problema? O se io ricorro a un medico, è lecito assoldare un sicario perché elimini una vita umana per risolvere un problema?», chiede il Pontefice ai giovani. Il Papa apprezza la sensibilità delle ragazze rispetto al dramma della donna che si trova di fronte a una gravidanza indesiderata, ma insiste sul fatto che «è bene chiamare le cose con il loro nome. Una cosa è accompagnare la persona che lo ha fatto, tutt’altra cosa è giustificare l’atto», dice con chiarezza.

Il tema cambia, ma la tensione aumenta quando Juan, spagnolo, che non riesce quasi a parlare per l’angoscia che prova, racconta a Francesco che quando aveva undici anni in ripetute occasioni ha subito abusi da parte di un numerario dell’Opus Dei che lavorava come professore nella sua scuola. Il colpevole è stato condannato dalla giustizia civile, anche se con una pena ridotta. Il Papa si mostra addolorato, ma soprattutto sorpreso quando quel giovane gli consegna una lettera scritta proprio da lui. Era la risposta personale del Pontefice indirizzata al padre del giovane, in cui gli diceva che l’allora Congregazione per la dottrina della Fede (CDF) si sarebbe occupata del caso a livello canonico. Il giovane, che ammette di non essere più credente, gli spiega che la CDF ha deliberato che a quel professore bisognava restituire il buon nome, esonerandolo dalla responsabilità. Francesco s’impegna a rivedere il caso, ma gli altri lo contestano per la risposta in genere negligente della Chiesa all’abuso di minori da parte dei suoi ministri. Il Papa esprime il suo dolore per questi atti e illustra ai giovani in modo dettagliato tutto quello che si sta facendo per combatterli, perché, almeno nella Chiesa, «questi casi di abuso sui minori non cadano in prescrizione. E se con gli anni cadono in prescrizione, io tolgo automaticamente tale prescrizione. Non voglio che questo cada mai in prescrizione», afferma molto serio.

Con il nome di Celia si presenta un’altra ragazza spagnola che spiega che è non binaria e cristiana. «Sai che cos’è una persona non binaria?» chiede a Francesco. Lui risponde di sì, ma lei gli spiega lo stesso che «una persona non binaria è quella che non è né uomo né donna, o, quantomeno, non del tutto né tutto il tempo». Poi vuole sapere se nella Chiesa c’è spazio per la diversità sessuale e di genere, e il Papa risponde ampliando l’orizzonte alla sfida ecclesiale dell’inclusione: «Ogni persona è figlia di Dio, ogni persona. Dio non rifiuta nessuno, Dio è padre. E io non ho diritto a cacciare nessuno dalla Chiesa. Non solo, il mio dovere è di accogliere sempre. La Chiesa non può chiudere la porta a nessuno. A nessuno». Subito dopo il Pontefice rivolge una critica a quanti, con la Bibbia come riferimento, promuovono discorsi di odio e giustificano l’esclusione dalla comunità ecclesiale del cosiddetto movimento LGBT. «Queste persone sono infiltrati che approfittano della Chiesa per le loro passioni personali, per la loro ristrettezza personale. È una delle corruzioni della Chiesa», assicura.

Ma i temi scottanti non sono finiti, e Francesco viene interpellato sul ruolo della donna nella Chiesa, in particolare sulla possibilità di aprire il sacerdozio alle donne. Come ha detto in precedenza, il Papa risponde che «non è meglio essere sacerdote di non esserlo», e questo ha una base nella teologia, che insegna che il ministero ordinato è per gli uomini. Il Santo Padre aggiunge che le donne sono orientate nella Chiesa a qualcosa di molto più importante, che è la maternalità, e privarle di questo, secondo Francesco, sarebbe privarle della loro originalità, esercitando su di esse un maschilismo ministeriale. Perciò, spiega il Papa, la promozione della donna è in sintonia con la sua vocazione all’interno di una Chiesa che di per sé è donna: «È la Chiesa e non il Chiesa», precisa.

Il montaggio audiovisivo mostra il Santo Padre che, sebbene non sempre a suo agio, permette ai giovani di esprimersi liberamente, anche quando molte loro posizioni sono in contraddizione con l’insegnamento della Chiesa in diversi ambiti. Come, per esempio, quella di Alessandra, colombiana, che sfida il Papa partendo dall’attività che le dà da vivere. Si presenta come creatrice di contenuti pornografici che distribuisce nelle reti sociali; un lavoro che, a suo dire, le ha permesso di valorizzarsi di più e di stare di più con sua figlia. Francesco

ascolta con attenzione e, sempre partendo dall’aspetto positivo, elogia le potenzialità delle reti sociali come uno strumento per facilitare la comunicazione e stabilire rapporti umani. Poi però affronta la moralità dei contenuti che queste possono diffondere. «Se tu attraverso la rete vendi droga, per esempio, stai intossicando i giovani, stai arrecando danno, stai fomentando un delitto. Se tu attraverso la rete stabilisci contatti mafiosi per creare situazioni sociali è immorale. La moralità dei media dipende dall’uso che ne fai», sostiene il Papa.

Allora María, la giovane cattolica che in precedenza si era detta contraria all’aborto, controbatte dicendo quanto la pornografia risulti dannosa sia per chi la produce sia per chi la consuma. Partendo da questo, Francesco riprende la parola e ricorda che chi fa uso della pornografia si svilisce umanamente, «chi è dipendente dalla pornografia è come se fosse dipendente da una droga che lo mantiene a un livello che non lo lascia crescere», chiarisce. Il dialogo si sposta poi sul tema della masturbazione e il Papa sceglie nuovamente di ampliare lo sguardo, offrendo un approccio sano alla sessualità: «Il sesso è una delle cose belle che Dio ha dato alla persona umana. Esprimersi sessualmente è una ricchezza. Allora tutto ciò che sminuisce la reale espressione sessuale sminuisce anche te, e impoverisce questa ricchezza in te. Il sesso ha una sua dinamica, ha una sua ragion d’essere. L’espressione dell’amore è probabilmente il punto centrale dell’attività sessuale. Allora tutto ciò che te lo trascina da un’altra parte e che te lo toglie da quella direzione ti sminuisce l’attività sessuale». Certo il Pontefice riconosce che nella Chiesa la catechesi sul sesso è ancora in fasce, e ammette che noi cristiani non abbiamo sempre avuto una catechesi matura sul sesso.

Il documentario si chiude con il contrasto delle esperienze di due donne in seno alla Chiesa: una alimentata e benedetta dalla fede; l’altra ferita e lesa nel profondo. María esprime qui nuovamente, senza complessi, la sua fede cattolica e la sua appartenenza alla Chiesa, di cui si mostra orgogliosa. A volte con la voce rotta, di fronte agli sguardi degli altri nove giovani che hanno dissentito costantemente con lei nel corso della conversazione, María spiega come il suo rapporto con Cristo abbia dato un senso alla sua vita. Il Papa l’ascolta con attenzione, l’ammira, ma l’avverte che il suo cammino sarà difficile: «La testimonianza di fede che dai mi tocca il cuore, perché bisogna essere coraggiosi per dire ciò che stai dicendo in questo incontro. Grazie per la tua testimonianza. […] Non ti voglio spaventare, ma raccogli le forze e preparati per la prova. Continua a fare bene queste cose, ma quando giungerà la prova, non ti spaventare, perché anche nel momento di oscurità c’è il Signore, che è lì nascosto», è il consiglio diretto che le dà Francesco.

All’esperienza di María si contrappongono però lo strappo e l’allontanamento di Lucia, giovane peruviana che ha perso la fede in Cristo dopo avere subito per anni abusi di potere e psicologici mentre cercava di servire gli altri come membro di una comunità di religiose. Spiega al Papa che è più felice ora che non è né cattolica né credente, mentre scorrono immagini della sua vita quotidiana che la mostrano abbracciata affettuosamente a un’altra ragazza. Francesco non cerca di convincerla del contrario. Di fatto le spiega che molto spesso il vero coraggio consiste nell’abbandonare ciò che ci danneggia, nel prendere le distanze: «Questo luogo cattivo, questo luogo di corruzione, questo convento mi disumanizza, torno dove sono partita, a cercare l’umanità delle mie radici. Questo non mi scandalizza», le dice il Papa con uno sguardo paterno che le strappa un sorriso.

Si conclude così la conversazione e segue il ringraziamento del Santo Padre per l’esperienza condivisa. Riconoscendo le differenze di pensiero e di opinione espresse nel dialogo, Francesco sottolinea che è questo il cammino della Chiesa, cioè, nella diversità tutti uniti, tutti fratelli, in una fraternità che non si deve mai negoziare.

Felipe Herrera-Espallat                “L’Osservatore Romano”             5 aprile 2023

www.osservatoreromano.va/it/news/2023-04/quo-080/dialogo-aperto-e-sincero-in-un-documentario-sul-papa.html

Papa Francesco: “vicino ai preti in crisi, la doppiezza clericale è pericolosa”

Il Papa ha dedicato l’omelia della Messa del Crisma alle due unzioni dello Spirito Santo, centrali nella vita dei sacerdoti. No alla “doppiezza clericale”, alle divisioni con cui “si fa il gioco del nemico”, alle cordate e alle polarizzazioni.  Un grazie corale ai sacerdoti. A quelli in crisi: “Coraggio!”.

“Senza lo Spirito del Signore non c’è vita cristiana e, senza la sua unzione, non c’è santità”. Lo ha ribadito Papa Francesco, nell’omelia della Messa del Crisma, che segna l’inizio del Triduo pasquale ed è tradizionalmente il momento in cui si rinnovano le promesse sacerdotali.  “In questo momento sto facendo memoria di alcuni di voi che sono in crisi, disorientati e che non sanno come riprendere la strada in questa seconda unzione dello Spirito”, ha rivelato a braccio il Papa: “Questi fratelli io li ho presenti, semplicemente dico loro: coraggio, il Signore è più grande delle tue debolezze, dei tuoi peccati. Affidati al Signore, questa volta con l’unzione dello Spirito Santo,  e lasciati chiamare una seconda volta. La doppia vita non ti aiuterà, buttare tutto dalla finestra nemmeno. Guarda avanti, lasciati accarezzare dall’unzione dello Spirito Santo”.

                “Quando diventiamo strumenti di divisione pecchiamo contro lo spirito; e si fa il gioco del nemico, che non viene allo scoperto e ama le dicerie e le insinuazioni, fomenta partiti e cordate, alimenta la nostalgia del passato, la sfiducia, il pessimismo, la paura”, il monito di Francesco:Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Ricordiamo che lo Spirito, ‘il noi di Dio’, predilige la forma comunitaria, cioè la disponibilità rispetto alle proprie esigenze, l’obbedienza rispetto ai propri gusti, l’umiltà rispetto alle proprie pretese”.

La prima unzione, per gli apostoli come per i sacerdoti, è la chiamata del Signore; la seconda unzione è simile a quella che, a Pentecoste, in un momento di profonda crisi trasforma in pastori del gregge di Dio: “Fu quell’unzione di fuoco a estinguere la loro religiosità centrata su sé stessi e sulle proprie capacità: accolto lo Spirito, evaporano le paure e i tentennamenti di Pietro; Giacomo e Giovanni, bruciati dal desiderio di dare la vita, smettono di inseguire posti d’onore; gli altri non stanno più chiusi e timorosi nel Cenacolo, ma escono e diventano apostoli nel mondo”.

                “A tutti, prima o poi, succede di sperimentare delusioni, fatiche e debolezze, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale, mentre subentra una certa abitudinarietà e alcune prove, prima difficili da immaginare, fanno apparire la fedeltà più scomoda rispetto a un tempo”, l’analisi del Papa, secondo il quale “questa tappa rappresenta un crinale decisivo per chi ha ricevuto l’unzione”:  “Si può uscirne male, planando verso una certa mediocrità, trascinandosi stanchi in una ‘normalità’ dove si insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta di ciò che si può fare; quella dei surrogati, per cui si tenta di ‘ricaricarsi’ con altro rispetto alla nostra unzione; quella dello scoraggiamento, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia”. “Ed ecco il grande rischio”, il grido d’allarme di Francesco: “mentre restano intatte le apparenze – io sono sacerdote, io sono prete – ci si ripiega su di sé e si tira a campare svogliati; la fragranza dell’unzione non profuma più la vita e il cuore non si dilata ma si restringe, avvolto nel disincanto”. “Ma questa crisi può diventare anche la svolta del sacerdozio”, se si ha la capacità di “ammettere la verità della propria debolezza”.

    “Il nostro sacerdozio non cresce per rammendo, ma per traboccamento!”, ha esclamato il Papa. “Ogni doppiezza – la doppiezza clericale – che si insinua è pericolosa”, la denuncia: “non va tollerata, ma portata alla luce dello Spirito. Perché lo Spirito Santo, lui solo, ci guarisce dalle infedeltà. È per noi una lotta irrinunciabile: “Invocare lo Spirito sia non una pratica saltuaria, ma il respiro di ogni giorno”, l’invito, insieme a quello a “combattere le falsità che si agitano in noi”. “Portare armonia dove non c’è”, la consegna finale. “Costruire l’armonia tra noi non è tanto un buon metodo affinché la compagine ecclesiale proceda meglio, non è ballare un minuetto, non è questione di strategia o di cortesia”, ha puntualizzato Francesco: Stiamo attenti, per favore, a non sporcare l’unzione dello Spirito e la veste della Madre Chiesa con la disunione, con le polarizzazioni, con ogni mancanza di carità e di comunione. Aiutiamoci, fratelli, a custodire l’armonia, cominciando non dagli altri, ma ciascuno da sé stesso. Chiedendoci: nelle mie parole, nei miei commenti, in quello che dico e scrivo c’è il timbro dello Spirito o quello del mondo? Penso anche alla gentilezza del sacerdote: tante volte noi preti siamo dei maleducati!”.

Se la gente trova persino in noi persone insoddisfatte, scontente, zitelloni che criticano e puntano il dito, dove vedrà l’armonia?”, si è chiesto Francesco. “Quanti non si avvicinano o si allontanano perché nella Chiesa non si sentono accolti e amati, ma guardati con sospetto e giudicati!”, ha esclamato il Papa: “In nome di Dio, accogliamo e perdoniamo, sempre! E ricordiamo che l’essere spigolosi e lamentosi, oltre a non produrre nulla di buono, corrompe l’annuncio, perché contro-testimonia Dio, che è comunione e armonia”. “Grazie per la vostra testimonianza e per il vostro servizio”, l’omaggio finale ai sacerdoti: “grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio: perdonare sempre, per favore, mai negare il perdono! Grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche e pochi riconoscimenti”.

 Alla fine della cerimonia il Papa ha donato a tutti i sacerdoti presenti uno scritto di padre René Voillaume, dei Piccoli Fratelli di Gesù dal titolo: “La seconda chiamata”.

M. Michela Nicolais       Agenzia SIR                        6 Aprile 2023

www.agensir.it/chiesa/2023/04/06/papa-francesco-vicino-ai-preti-in-crisi-la-doppiezza-clericale-e-pericolosa

LITURGIA

Battesimo civile e anagrafe ecclesiale: una questione

Non solo lo “sbattezzo” , ma un “altro battesimo” (civile) sembra minacciare la solida tradizione cattolica della iniziazione di ogni neonato mediante il battesimo. Può essere utile considerare le due cose come strettamente correlate ad una comprensione inadeguata della teologia battesimale. Una “iniziazione civile alla vita” non è una cosa impensabile: anzi, il battesimo cristiano, come la circoncisione ebraica, nasce precisamente in questo quadro generale, comune ad ogni cultura, su cui si innestano e da cui muovono anche le tradizioni religiose. La accoglienza di una nuova vita non è mai un fatto solo burocratico. Su ciò è bene riflettere, anche grazie alle provocazioni della cultura burocratica di oggi. Proprio il rapporto tra fede e cultura è qui in gioco. Un mio testo, apparso su “Rassegna di Teologia”, come “Forum”, può essere utile per suggerire percorsi di riflessione diversi. Ne pubblico qui uno stralcio tratto dalla introduzione.

Iniziazione ed esculturazione: “sbattezzo” e penitenza non laboriosa. “Chi di atto ferisce, di atto perisce”. Così potremmo intitolare l’esordio di una riflessione che intende interrogarsi sul fallimento attuale di una “pastorale della iniziazione immediata”. Questa impostazione pastorale, che affonda le sue radici nelle grandi intuizioni del Concilio di Trento e che però si è sviluppata così come la conosciamo oggi soprattutto dopo la introduzione del Codice di Diritto Canonico, nel 1917, ha come esito il crescere di forme di “immediata estraneità” alla tradizione. Quanto più il valore trainante è assunto da una “istituzione centrale”, diremmo da una “burocrazia della santificazione”, tanto più formale e superficiale diventa il legame tra fede e vita. Il registro burocratico della tradizione non perdona: e la nascita della burocrazia, anche nella Chiesa, con l’avvento della modernità, e la creazione delle grandi Congregazioni Romane, come ministeri centrali nei diversi ambiti, determina inevitabilmente un progressivo stemperarsi e appannarsi della potenza iniziatica dei linguaggi elementari della fede. Come con un atto sono stato “iscritto nel registro” da parte della istituzione, così con un atto poi pretendo, come individuo, di “esserne cancellato”. Di fronte a questo sviluppo istituzionale e oggettivo, la teologia della “irreversibilità del carattere” – e quindi della impossibilità teorica dello sbattezzo – può fare ben poco. Non si combatte una realtà effettiva mediante la dichiarazione della sua impossibilità, poiché la realtà ha già superato la questione della possibilità: questa pretesa soluzione teorica, che ha pur sempre i suoi buoni fondamenti, lavora però su un altro livello e su un altro terreno, che risulta allo stesso tempo “immunizzato dalla realtà” e “ininfluente sul reale”. Costituisce, per così dire, una “difesa d’ufficio” della tradizione, certo nobile e anche ben fondata, ma che non riesce a mordere davvero sul reale del vissuto e delle appartenenze. Il motivo di tutto ciò sta nascosto nel titolo: la iniziazione non avviene senza una mediazione con la cultura. La pretesa di garantire la iniziazione mediante l’“esculturazione” [1] crea solo integralismo e disadattamento. Si tratta di una questione assai delicata, che si nasconde nel profondo di “atti sensazionali”, come appaiono le richieste di “sbattezzo”.

                Per comprendere meglio questa delicata relazione tra “desiderio di iniziazione” e “tendenza all’esculturazione” intendo procedere con quattro passi fondamentali più una conclusione. Ogni passo comporta una acquisizione essenziale, che poi viene approfondita in modo strutturale nel passo seguente. Ma il percorso lineare tra i quattro passi può garantire la comprensione della lettura che propongo. Essa muove da una comprensione della iniziazione cristiana (ossia della stessa elaborazione storica della categoria di iniziazione) come risposta a un problema sistematico introdotto dalla tradizione latina: la concentrazione del significato teologico dei sacramenti nel solo dono di grazia. Diremmo un dono senza esperienza del dono, un dono senza ricezione del dono. A tale concezione risponde quella di una esperienza del dono senza espressione del dono dell’esperienza! Così all’atto amministrativo con cui la grazia scende – senza esperienza – nella vita del soggetto, corrisponde l’atto amministrativo con cui l’esperienza – senza espressione di grazia – rinuncia a ogni espressione del dono costitutivo del sé.

                L’esculturazione ha una lunga storia di “inculturazioni” ed è mediata da “operazioni culturali” – da inculturazioni molto coraggiose – che si è stati tentati di ritenere assolute, senza contesto, e che perciò si sono capovolte in esculturazioni. Quando una “inculturazione” si assolutizza, perdendo il legame con la cultura, diventa inesorabilmente un’“esculturazione”. Qui credo che dovremmo tutti riflettere su un fenomeno davvero profondo, direi viscerale, con cui procede la tradizione: le forme di “inculturazione” che la tradizione elabora (con coraggio e sotto la spinta della necessità) non sono mai assolute: perciò, quando entrano in crisi, le inculturazioni diventano potentissime esculturazioni. Questo appare evidente quando un “gesto scandaloso” offre materia di scrittura anche ai giornali popolari (tale è la domanda di essere cancellati dai registri parrocchiali!). Ma forse è più insidiosa l’esculturazione che si realizza in forme meno evidenti, ma più insidiose. Per questo vorrei soffermarmi, in seconda battuta, anche su alcune pratiche di culto cristiano in cui, più sottilmente, agisce la medesima “mentalità di esculturazione”.

                Ciò appare chiaro se consideriamo non solo lo “sbattezzo” (o “bapt-exit”) e la sua richiesta di originaria estraneità alla vicenda della fede, ma la dinamica altrettanto interessante della sostituzione della penitenza con il rinnovamento e la ripetizione a oltranza di un battesimo “amministrativo”. In altri termini, ciò che sorprende nello sbattezzo è presente, indirettamente, in una diffusa comprensione del sacramento della penitenza. Un battesimo che si ripete di continuo è la negazione del battesimo. Se manca l’iniziazione, e se vi rinunciamo anche consapevolmente, direi quasi burocraticamente, sarà facilissimo che non capiamo più l’insistenza con cui tutta la tradizione antica e medievale ripete: “il battesimo non si ripete”. Invece, se noi riduciamo la penitenza a nuovo battesimo infinitamente ripetibile (e già inaugurato nella sua realtà distorta nella esperienza precoce della “prima confessione”), entriamo nel tunnel di un errore di prospettiva, che compromette il rapporto con la grazia e con il suo significato. Appare così questo paradosso: la “cooptazione” della “prima confessione” nei sacramenti di iniziazione (secondo un programma che appare comunque piuttosto recente) è il segnale di questa strutturale distorsione sistematica, che qui vorrei segnalare, associandola provocatoriamente allo sbattezzo. […]

Il seguito dell’articolo si può leggere su “Rassegna di Teologia”, 64(2023), 5-18.

Andrea Grillo    blog: Come se non          3 aprile 2023

[1] Per la formulazione del concetto rimando a D. Hervieu-Léger, Catholicisme, la fin d’un monde, Bayard, Paris 2003. Una recezione del concetto nel linguaggio teologico rimando a C. Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, Dehoniane, Bologna 2019.

www.cittadellaeditrice.com/munera/battesimo-civile-e-anagrafe-ecclesiale-una-questione

OMOFILIA

Chiesa e persone Lgbtq+. L’amore è uno sconosciuto

intervista a don Cristiano Marcucci

         Lui è don Cristiano Marcucci, prete 2.0, come ama definirsi. Da poco, per l’editrice San Paolo è uscito il suo nuovo libro L’amore è uno sconosciuto. “Storie LGBT che hanno cambiato la mia vita da prete” (www.gionata.org/storie-lgbt-che-hanno-cambiato-la-mia-vita-da-prete) che racconta il suo incontro con la realtà queer: una realtà fatta di persone reali, con i loro amori, i loro vissuti – in una parola la loro storia. Qualcosa che, come dice lui stesso, gli ha cambiato la vita. Ma come è arrivato a questo punto? Lasciamo che ce lo racconti lui.

                Ci parli un po’ di te e della tua vocazione religiosa?

  • Sono un camminatore, cammino quotidianamente e organizzo viaggi dello Spirito: procedo fuori e avanti per conoscermi dentro, per svelare pezzi di me.
  • Sono prete: un ponte tra cielo e terra, uomo del sacro, del rituale, della parola detta.
  • Sono consulente coniugale familiare: vivo con e per le relazioni, passo una buona parte della mia vita ad ascoltare gli altri.
  • Sono scrittore: uomo della parola scritta, voce alla mia Anima.
  • Sono soprattutto un compagno di viaggio, amico dell’uomo: aperto agli altri, all’incontro; mi appartiene la modalità dello stare accanto, non sopra e non davanti.

Mettendo insieme questi elementi si colgono due punti centrali: la strada, la gente, la vita incarnata, la ricerca dell’umano. E poi la contemplazione, le profondità dell’essere, la ricerca del divino.

                Mi sento un esploratore. Questa è la mia più profonda vocazione. È la mia salvezza e la mia dannazione.

                Come è cambiato nel tempo il tuo modo di essere prete?

                Totalmente. Uscito dal seminario pensavo di dover cambiare il mondo. Da giovane prete credevo di poter cambiare almeno la mia parrocchia. Negli ultimi anni sono uscito da questa illusione, ho compreso che l’unica persona da cambiare sono io. All’inizio mi ingannavo vedendo i problemi e gli avversari all’esterno, dall’ambiente ecclesiale a quello politico; gli altri. Da qualche anno sto vedendo, in modo sempre più chiaro, come il vero nemico di me stesso sono io. I mostri sono in me, non fuori. Nel tempo, attraverso cadute e ferite, sto provando a imparare ad amare. L’intento del libro infatti è l’Amore, con la A maiuscola. Questo mi muove. Penso sia un bel compendio di accoglienza, tenerezza, dolcezza e bellezza.  Pertanto il libro è mio, ma anche delle persone incontrate. Soprattutto svelo una dimensione “oltre”. Nel libro infatti racconto un altro amore, con la A maiuscola. Questa è la sete che abita nel cuore di ogni persona. Il cuore di ogni uomo cerca Dio, l’infinito dell’amore, lo sappia o meno.

È così cambiato il mio modo di pormi con la gente, con i confratelli, il vescovo. Sto imparando ad amarmi, riconoscendo il mio valore, i miei talenti, ma anche i mei blocchi, limiti e storture. Di conseguenza sto lasciando che gli altri siano come devono essere, senza pretesa di cambiamento.

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?  Quali, tra gli incontri nel libro, ti hanno maggiormente colpito?

                Non scelgo l’argomento dei miei libri, rispondo alla vita. Scrissi, qualche anno fa, il mio primo libro “Le nove impronte dell’anima perché da seminarista ebbi modo di scoprire la mappa spirituale della tradizione islamica dei sufi dell’enneagramma. Fu per me illuminante. Così scelsi di approfondire e proporre sin da giovane prete serate di catechesi, weekend spirituali su questo tema. Alla fine nacque il libro.

                Il mio secondo libro “Dannati: vizi capitali ovvero virtù nascoste”, è un commento alla Divina Commedia. Anche questo manuale incredibile di vita interiore è stato decisivo nella mia vita. Mi venne incontro grazie ad un parrocchiano appassionato di Dante Alighieri. La Divina Commedia svelò tutti i miei demoni interiori. Così su questo grande tema dei vizi, iniziai a proporre varie esperienze spirituali, dopo venti anni ho scelto di scrivere il libro.

                Quest’ultimo testo invece nasce dall’incontro con tante persone LGBT. Sono parroco in un quartiere popolare della periferia della mia città di Pescara. La mia vera maestra è la strada. Sono anche presidente da circa diciassette anni del Consultorio familiare UCIPEM, una realtà preziosa della nostra diocesi. Pertanto passo la vita ad ascoltare le persone, le coppie e le famiglie. Dagli incontri sto imparando l’arte dell’accoglienza, del non giudizio, dello stare accanto. Ma soprattutto sto provando ad aprirmi all’amore che le vite incarnate trasmettono.

                Il testo è costruito su due registri: uno orizzontale, gli accadimenti, gli episodi, ciò che accade fuori. E un secondo registro, verticale, cosa accade dentro il protagonista del libro. La prima dimensione possiamo definirla umana, esterna, la seconda divina, interna. I movimenti di crescita interiori descritti risultano sempre drammatici, perché svelano meccanismi disfunzionali, blocchi, demoni e ombre. Il primo impatto è terrifico, ma poi se accolti con amore, diventano vie di evoluzione.

                  La copertina del libro, il sacro cuore trafitto da sette spade vuole esplicitare graficamente questo concetto: il processo di crescita avviene attraverso la sofferenza (fatiche e ferite, fallimenti e cadute), incanalata nell’amore. Ad amare si impara.

In che modo le vicende che racconti nel libro hanno inciso sul tuo cammino ecclesiale? Come l’hanno cambiato?

                “Nulla cambia. Io cambio. Tutto cambia.” Ogni parola detta o scritta racconta chi l’ha partorita. In questo caso posso affermare sia un romanzo autobiografico, pertanto parla di me, dei miei baratri, paure, mancanze, blocchi, ma soprattutto della mia sete di amore. Racconto la mia esperienza di trasformazione, grazie a sette incontri LGBT. Storie che mi hanno attraversato, permettendomi di scoprire pezzi di me. Questo so fare, svelare il mondo interiore che abita in ognuno di noi. Ho scoperto così la potenza del raccontare, molto più dello spiegone teorico. I miei primi due libri sono saggi spirituali, provano a illustrare come funziona il piano spirituale dell’uomo attraverso delle mappe interpretative. Negli ultimi tempi sto provando a raccontare il mondo spirituale. Lo reputo per me un salto di qualità. È la differenza che passa tra il parlare e lo spiegare una relazione di amore e viverla, avere un’esperienza di amore. Non espongo una teoria ma racconto un incontro, la mia esperienza d’amore. I livelli sono molto diversi. Posso sapere tutto teoricamente dell’amore (studi, percorsi, teorie, regole e dottrine), ma essere incapace di incontrare qualcuno. Provo così ad abbassare l’arroganza del sapere e del giudicare, lasciando ad ogni persona la possibilità di essere ciò che sente e crede. Mi apro alla bellezza dell’accoglienza. L’incontro come punto di svolta. La preminenza delle persone in carne e ossa e non di teorie aride e a volte anche un po’ fuorvianti. È la filosofia del vangelo: l’amore verso il prossimo. E il primo passo verso l’amore è la conoscenza.

                                Katya Parente è scrittrice e disabile, «ma queste sono solo etichette in fondo». Volontaria del Progetto Gionata col suo blog “La versione di Katya(www.gionata.org/tag/katya-parente)

 racconta i mondi LGBT+ e non solo

Katya Parente   Adista Segni Nuovi n° 13            08 aprile 2023

www.adista.it/articolo/69781

L’amore è uno sconosciuto. Le storie LGBT che hanno cambiato la mia vita da prete

Dialogo di Katya Parente con don Cristiano Marcucci

                “L’amore è uno sconosciuto. Storie LGBT che hanno cambiato la mia vita da prete”↑ (2023, 176 pagine) è il libro di don Cristiano Marcucci uscito per l’editrice San Paolo. Si tratta di una lettura coinvolgente, che avvince dalla prima all’ultima pagina. L’autore ci ha raggiunto per una breve chiacchierata.

                Nel tuo blog ti definisci prete 2.0. Perché?            [www.cristianomarcucci.it]

                Credo che il sistema Chiesa, così com’è concepito, sia ormai superato. Occorre trovare un nuovo modo, prima di tutto di essere, poi di concepire la pastorale. Le modalità classiche, sacramenti e messe a ripetizione per fare un esempio, sono ormai sorpassate. Le chiese vuote sono un segnale evidente ti: così non possiamo continuare.         2.0 è un modo nuovo, più adatto alla nostra cultura, di vivere la spiritualità. Per questo mi definisco “2.0”, una sorta di upgrade. Non so se davvero lo sono, ma ci sto provando.                Il futuro della religione sarà di coloro che sapranno veicolare il messaggio spirituale in modo intelligente, e soprattutto aperto all’essenza della fede.

                Di che cosa parla “L’amore è uno sconosciuto“, e perché l’hai scritto?

                Il mio nuovo libro, questa nuova creatura, è un romanzo autobiografico, pertanto parla di me, dei miei baratri, paure, mancanze, blocchi, ma soprattutto della mia sete di amore. Racconto la mia esperienza di trasformazione grazie a sette incontri lgbt. Storie che mi hanno attraversato, permettendomi di scoprire pezzi di me. L’intento del libro è l’Amore, con la A maiuscola. Questo mi muove. Penso sia un bel compendio di accoglienza, tenerezza, dolcezza e bellezza. La scrittura svela in modo mirabile la mia Anima. Io ne sono semplicemente strumento, la mia penna scorre guidata da un’altra dimensione. Pertanto il libro è mio, ma anche delle persone che incontro, e soprattutto di una dimensione “oltre”. Nel libro infatti provo a raccontare, a svelare un altro amore, con la A maiuscola. Questa è la sete che abita nel cuore di ogni persona. Il cuore di ogni uomo cerca Dio, l’infinito dell’amore, lo sappia o meno.

Il testo è costruito su due registri: uno orizzontale, gli accadimenti, gli episodi, ciò che accade fuori. E un secondo registro, verticale, cosa accade dentro il protagonista del libro. La prima dimensione possiamo definirla umana, esterna, la seconda divina, interna. I movimenti di crescita interiori descritti risultano sempre drammatici, perché svelano meccanismi disfunzionali, blocchi, demoni e ombre. Il primo impatto è terrifico, ma poi se accolti con amore, diventano vie di evoluzione. La copertina del libro, il sacro cuore trafitto da sette spade, vuole esplicitare graficamente questo concetto: il processo di crescita avviene attraverso la sofferenza (fatiche e ferite, fallimenti e cadute), incanalata nell’amore. Ad amare si impara.

Sei un parroco, e quindi in contatto con persone ‘vere’ che vivono vite ‘vere’. Non pensi che il Magistero sia qualcosa calato dall’alto ed elaborato da chi sa tutto di teologia, filosofia e morale, ma poco o nulla dei problemi e delle lotte di ogni giorno?

                La dottrina, teologica o filosofica, è importantissima, ma chiede di mettersi a servizio dell’uomo. Nel Vangelo di Giovanni Gesù si definisce “via, verità e vita”, per sottolineare come la verità sia custodita dalla via, la strada, e la vita, l’esperienza. Quando la dimensione dottrinale non accoglie l’uomo, cade nella deriva dell’ideologia (mondo laico) o del dogmatismo (mondo religioso). Ed è un rischio sempre presente, nell’individuo come nel sistema. “La legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge.” La dottrina va incarnata nella vita degli uomini. Così come un vero desiderio, un amore autentico, chiede l’accoglienza della legge, della struttura. Il vero godimento chiede di incorporare la legge: un piacere che non incontra l’esperienza della legge diventa godimento mortifero. Questo è il grande tema e problema della nostra cultura. Oggi non siamo più nel tempo dei “no”. Il problema attuale è il tutto lecito, tutto va bene, tutto si può fare. Nessun limite. Il nostro tempo è invaso da questo godimento e permessi estremi. Non siamo più nel tempo dell’oggetto proibito, ma del godimento che non incontra nessuna esperienza del limite. Nel libro provo a descrivere amori veri, che non chiedono sconti e non se la prendono con gli altri, istituzioni comprese.

Cosa pensi dell’apertura della Chiesa tedesca nei confronti dei cattolici LGBTQ?

                Penso che occorra accoglienza e misericordia. Questi sono gli ingredienti dell’amore. Il tema del maschile e del femminile è prima di tutto interiore, non è un problema anatomico, ma spirituale. Tutti siamo maschi e femmine, abbiamo cioè vibrazioni maschili e femminili. Io mi sento molto donna e madre ogni volta che accolgo le fragilità degli altri. Come credo lo sia ogni operatore che svolge un servizio nella relazione di aiuto. Papa Francesco, per fare un esempio illustre, mostra un’accoglienza incondizionata materna, insieme alla sua grande paternità. A lui non interessa chi sei e che vita conduci, ama la tua umanità.

L’anatomia non fonda l’identità della persona. La Bibbia e le scienze psicologiche sono chiarissime in questo senso, ma il corpo è un aspetto fondante, non posso non considerarlo. Da lì devo partire. Il corpo non c’entra nulla con la mia dimensione affettiva-sessuale, oppure il corpo definisce totalmente la mia identità sessuale, sono due estremismi, due derive, due facce della stessa medaglia. Credo occorra far riscoprire la propria dimensione interiore alle persone. Definirsi fuori è sempre molto parziale, spesso ingannevole.

                Trovi che sia un segno positivo il fatto che una casa editrice religiosa abbia deciso di pubblicare un libro come il tuo?

Credo sia un bel passo in avanti. Un esempio di apertura e di accoglienza. Papa Francesco è l’apripista come Chiesa universale, il mio vescovo come chiesa locale, e una importante casa editrice cattolica. Sono tre cerchi del grande sistema ecclesiale. Insieme, un passo per volta. Ringrazio tutti loro per la fiducia e la stima. L’amore resta. E salva.

                È quello che dice San Paolo nella prima lettera ai Corinzi e Agostino, sullo stesso argomento, afferma: “Ama et fac quod vis!” (“Ama e fa’ ciò che vuoi!”). E noi saremo giudicati proprio su questo (Matteo 25, 31-46).

                               Giacomo              progetto Gionata                             10 marzo 2023

www.gionata.org/storie-lgbt-che-hanno-cambiato-la-mia-vita-da-prete

P

OPINIONI

L’ordine umano di Gesù

intervista a Umberto Galimberti

Quando diciamo che non possiamo non dirci cristiani, ammettiamo inconsapevolmente che il cristianesimo ha a che fare poco con la parola di Cristo e molto con la cultura occidentale. «Gesù non aveva alcuna intenzione di fondare una religione: chiedeva una fede», dice alla Stampa Umberto Galimberti [α1942], filosofo e psicanalista,  in libreria con “Le parole di Gesù” (Feltrinelli), scritto insieme a Ludwig Monti, un libro per bambini che racconta quella fede attraverso le parole che “il figlio di Dio che s’è fatto uomo” ha chiesto di ascoltare e seguire e che, invece, sono scomparse o trasfigurate, rese funzionali a un messaggio prescrittivo. L’amore, il corpo, la verità, il presente: qui s’incardina il modo di vivere che Cristo è venuto a svelare, e che però abbiamo estromesso dalla religione che gli abbiamo attribuito. Joseph Moingt, teologo francese, diceva che l’eccezionalità di Gesù non era di ordine religioso ma umano: «Siamo condotti a Dio sulle vie di umanità che Gesù ha tracciato». Su quelle strade, il catechismo e le messe che ci fanno dire “non possiamo non dirci cristiani” ci portano sempre più di rado, impegnate come sono a saldarci a un’identità che, nei secoli, è servita a giustificare ed esercitare un dominio su noi stessi e le nostre paure, sull’altro, sull’irrazionale, sul mistero, sul futuro. Così, da fatto concreto e umano, il verbo cristiano è stato trasformato in una mistica dell’Occidente.

Professore, premessa inevitabile. Lei resta un greco, come si è sempre definito, o si sta convertendo?

«Greco. Né ateo, né laico, né credente. Greco».

Ne consegue che?

«Che so che devo morire e da questo acquisisco il senso del limite della mia vita». Anche i greci credevano in un aldilà. «Ma non in una salvezza spostata in quell’aldilà. E nemmeno Gesù, che infatti parlava dell’importanza del fare, perché la salvezza è in questo mondo: qui si può perseguire e ottenere». Però Gesù dice: sarai giudicato se non hai vestito chi era nudo, se non hai visitato il carcerato.

Dice: sarai. Al futuro.

«Certo. Ma sono cose che fai qui, ora. Questo spostamento nel futuro ci serve ad alimentare la speranza: mentre la cultura greca è tragica, perché crede che la morte sia l’implosione di ogni senso, quella giudaico-cristiana è animata dalla fede, crede che dopo la morte la vicenda umana prosegua».

Nel suo libro scrive che l’ottimismo che caratterizza la cultura occidentale viene dall’idea che morire sia un passaggio e non la fine.

«La cultura occidentale concepisce il tempo così come è descritto dal cristianesimo, secondo il quale il passato è male, il presente è redenzione, il futuro è salvezza. Lo stesso vale per la scienza: il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è progresso».

E invece?

«Invece il futuro è solo il tempo che viene dopo il presente, ed è per questo che è importante agire adesso: non farlo, significa condannare il domani a essere come oggi, o peggiore. La speranza, in questo senso, è una categoria cristiana che ci illude, corrobora quell’idea ottimistica per cui oggi è un giorno migliore di ieri».

Lei scrive: «La verità non si contempla: si fa».

«‘Èmet in ebraico significa verità, ed è una parola che indica l’azione e non la conoscenza. Quando San Paolo dice “noi facciamo poca verità“, intende che agiamo poco, non che cerchiamo o sappiamo poco».

Ma fare cosa?

«Amare. Quando Simone il fariseo invita Gesù a pranzo perché vuole capire se sia davvero un profeta, e lo vede interagire con la Maddalena, che gli lava i piedi e gli unge i capelli, dice: lui non può essere un messia, va con le prostitute. Gesù gli risponde: quando sono venuto nella tua casa, non hai unto con olio il mio capo, ma lei sì e per questo le sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Questa è l’operazione di Gesù, il suo fare: l’amore».

Che non può fare a meno del corpo.

«E come potrebbe, se il cristianesimo si fonda sull’incarnazione? Dio si fa uomo, quindi prende corpo. Con la comunione mangiamo il corpo e il sangue di Cristo, non l’anima, che non appartiene né alla cultura cristiana, né a quella ebraica: è un’invenzione di Platone. Se i cristiani stessero solo un po’ attenti quando pregano, saprebbero che il Credo recita precisamente questo: la resurrezione dei corpi, non dell’anima. Le chiese lo dimostrano: sono piene di immagini di corpi».

Chi è il prossimo che Gesù ci dice di amare?

«Non la persona davanti a me, ma io stesso che mi faccio prossimo a un altro, a chi è in difficoltà e incrocio sulla mia strada e mi carico sulle spalle come fa il buon Samaritano. La condizione essenziale affinché questo avvenga è il decentramento del proprio io».

L’empatia è una qualità cristiana?

«Non esistono qualità cristiane. Gesù ha trasmesso un modo di stare al mondo».

È come se lei dicesse che Cristo e cristianesimo non combaciano e che dovremmo scorporarli l’uno dall’altro.

«No. La mia tesi è più semplice: dico che il messaggio di Cristo è stato completamente frainteso e, prima ancora, inascoltato. Lui chiedeva fede nella sua parola e noi lo abbiamo messo a capo di una religione che ci è servita a sacralizzare la nostra cultura. Così, con l’Editto di Costantino è diventata la religione dell’impero romano; con Carlo Magno è diventata la religione del Sacro romano impero; con la scoperta del nuovo mondo, dove in suo nome s’era proceduto allo sterminio degli indigeni, è diventata la sacralizzazione dell’imperialismo europeo e infine, con il Concilio vaticano II, è diventa la sacralizzazione della laicità. In tutto questo, la parola di Gesù è sparita».

La perdita del sacro di cui si parla con insistenza, in questo senso, gioverebbe?

«Altri fraintendimenti. Sacro vuol dire separato. Il sacro è il luogo della massima violenza, della sessualità selvaggia. Sacra è la guerra, è Dio che chiede ad Abramo di uccidere suo figlio, trasgredendo alla sua stessa legge, e lo fa perché abita il sacro. In chiesa non leggono mai le ultime due colonne del libro di Giobbe, dove c’è l’invettiva con cui Dio risponde a Giobbe, quando lui, dopo aver sopportato le pene dell’inferno, gli chiede perché mai, sebbene sia stato giusto, gli vengano riservate solo disgrazie. Dio risponde: credi che per essere stato buono io ti dovrei ricompensare? Dov’eri tu, quando io riempivo il cielo di stelle e il mare di pesci? Eccolo lì, Dio: al di là del bene e del male. Così era anche per i greci. Dio è lo scenario dal quale l’umanità è fuoriuscita: il sacro, appunto».

Come è avvenuta quella fuoriuscita?

«Prima attraverso i riti e poi attraverso la religione. Religione significa relegare: delimitare l’area del sacro, che è pericoloso ma ci abita. Ecco perché le religioni hanno svolto una funzione di terapia universale».

 È anche per questo che abbiamo preferito intendere la verità come un punto fermo e certo a cui arrivare?

«La verità ferma è l’invenzione più potente della metafisica dell’Occidente inaugurata da Platone e ribadita poi dalla teologia cristiana con San Tommaso, fino ad arrivare poi a Cartesio, che ha stabilito che la ragione è il luogo della verità. L’esito finale è il grande sogno della modernità: la verità è razionalità. Da questa idea ne è discesa un’altra, ancora più illuso

ria: chi pensa bene fa il bene. Il nazismo è l’esempio eclatante di quanto questa logica sia sbagliata perché il nazismo ha pensato benissimo come fare il male. Le scoperte scientifiche della contemporaneità hanno poi dimostrato che non c’è una verità assoluta e hanno così inaugurato un tempo nuovo: la post modernità, che io chiamo iper modernità, perché la razionalità intesa come la intendeva l’età moderna è stata distrutta (da Einstein in poi) e si è arrivati a pensare di poterne costruire una con l’Intelligenza artificiale».

E che tipo di razionalità è?

«Una razionalità dei comportamenti che ci rende meglio utilizzabili e che non è più controllata dall’uomo. L’algoritmo ci fa un profilo, che non risponde a chi siamo ma a cosa serviamo, eliminando la nostra dimensione irrazionale – il dolore, l’amore, l’ideazione, l’immaginazione, il sogno – perché disturba la razionalità tecnica».

Credere nella resurrezione è irrazionale?

«Dal punto di vista della religione, che – insisto – è sacralizzazione della cultura, il fatto che il figlio di Dio muoia è uno scandalo. Mentre, dal punto di vista della fede, noi non siamo redenti dalla resurrezione di Cristo bensì dal suo grido nell’ora Nona, quando lui perde fiducia in Dio e urla: “Padre, perché mi hai abbandonato?“. È nel grido del Golgota che Cristo partecipa al dolore umano e ci ama. La resurrezione è diventata importante soltanto perché è funzionale all’idea ottimistica di futuro».

Perché ha scritto un libro per bambini su Gesù?

«Perché non sanno niente di lui. M’interessa che quando un ragazzino entra in una chiesa, capisca cosa vede».

C’entra l’amore particolare che Gesù aveva per i bambini?

«No. Quando lui parla di bambini, intende gli apostoli. Per recuperare le parole di Gesù non servono prediche, ma lo stupore».

a cura di Simonetta Sciandivasci               “La Stampa”      6 aprile 2023

www.lastampa.it/cultura/2023/04/06/news/galimberti_intervista_nuovo_libro_gesu-12740110

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PROBLEMATICHE

“Stati Generali della natalità”: narrazione & ri-proposizione di futuro

Per il nono anno consecutivo, anche nel 2022 la popolazione residente in Italia è calata. Siamo rimasti in 58.850.717 secondo quanto recentemente documentato dall’Istat. Fanno 179 mila abitanti in meno rispetto a un anno fa e quasi due milioni rispetto al 2014. Siccome il numero di abitanti dipende dai flussi migratori e dal bilancio tra nascite e morti dei residenti, davanti a questi dati si possono avere due atteggiamenti, potenzialmente opposti: cercare di invertire l’inverno demografico in cui siamo ormai caduti in Italia da almeno un decennio oppure invocare che «servirebbero più migranti».

                Neanche 400mila (399.431 per la precisione) sono stati i nuovi nati nel 2021. Quindi 176.653 in meno rispetto al 2008. Nel 2022 ne sono nati ancora meno: 392.598.  Il declino demografico avviatosi dal 2015 è stato poi accentuato dagli effetti di una gestione non molto illuminata nel nostro Paese dell’epidemia da Covid-19, con il nuovo record negativo citato che, combinato con l’elevato numero di decessi avvenuti nel 2021 (746 mila), una cifra mai raggiunta dal secondo dopoguerra in poi, ha aggravato la dinamica demografica facendo definire l’Italia una delle nazioni più vecchie al mondo oltre che caratterizzata sempre più dalle “culle vuote”.

                Gli Stati Generali della natalità, la cui 3ª edizione si terrà a Roma l’11 e il 12 maggio 2023 nell’Auditorium della Conciliazione, è per questo un evento opportuno in quanto promosso per tentare di far accendere i riflettori su un tema che dovrebbe unire tutto il Sistema Paese ma che, finora, per un motivo o per l’altro, non ha visto adottare le politiche e le risorse giuste, in grado di invertire il trend demografico. Come leggiamo sul sito ufficiale www.statigeneralidellanatalita.it, l’obiettivo dell’evento rimane quello di «riflettere su un tema capace di unire tutto il Sistema Paese, provare a fare proposte per invertire il trend demografico, immaginare una nuova narrazione della natalità».

                Giusto superare la narrazione del mainstream [convenzionale] per cui il figlio è considerato quasi un fatto privato ma, naturalmente, oltre che a cambiare le parole e la cultura, eventi come quello degli Stati Generali potranno essere considerati riusciti se contribuiranno ad una ri-proposizione del nostro futuro da parte della politica e delle Istituzioni, pubbliche o private che siano. In quanto bene comune che genera futuro e speranza, ogni figlio oltre che essere un grande dono per i genitori è anche un inestimabile “capitale umano”, sociale e lavorativo. I bambini sono infatti il bene più importante che ogni generazione produce e lascia in eredità al mondo che verrà. «La natalità – ha detto Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la Natalità – merita un piano su misura, non si tratta di mettere qualche soldo in più per il primo figlio o per il terzo figlio, parcellizzando le poche risorse a disposizione. Oggi c’è una narrazione che lascia intendere che già si stia facendo qualcosa per invertire la tendenza demografica, ma non è così. Queste misure non vanno a impattare sul rilancio delle nascite».

                Pensiamo alla Capitale d’Italia. La dinamica demografica della città di Roma dello scorso anno è significativa di un Paese socialmente in stallo. Al 31 dicembre 2022 la popolazione residente nell’Urbe è inferiore di circa 253 mila unità rispetto a quella registrata all’inizio dell’anno: nei due anni di “pandemia”, in definitiva il calo di popolazione è stato di quasi 616 mila unità soprattutto per effetto del saldo naturale! Anche a Roma, quindi, è arrivato com’era prevedibile l’inverno demografico, ma nella Capitale è arrivato un inverno russo!

                Tutto nasce naturalmente dal sempre minore numero di nuovi nati ma, se ci pensiamo, più alta è l’età media delle donne al primo parto, minore sarà per forza di cose la natalità generale. Ed a Roma siamo ad una media di neo-mamme a 33,1 anni! Come confermato da una recente indagine condotta dalla Cisl della Lombardia insieme con l’associazione non profit milanese BiblioLavoro, la maggior parte delle donne italiane (dalla ricerca risulta addirittura il 94%) ritiene che la maternità sia difficilmente conciliabile con il lavoro. Una percentuale altissima, che contribuisce a far procrastinare la maternità! Insomma, nascono pochi bambini perché mancano le potenziali madri!

                A cascata nell’intera nazione il record negativo di nascite dall’Unità d’Italia registrato nel 2019 è stato superato nel 2021, anno in cui i nati della popolazione complessiva residente sono stati come detto appena 399.431, in diminuzione dell’1,3% rispetto al 2020 e quasi del 31% a confronto con il 2008, anno di massimo relativo più recente delle nascite (fonte: Istat). Le conseguenze su un sistema di welfare “a ripartizione” come quello italiano sono facilmente immaginabili. Il nostro Stato sociale, infatti, è fondato su un forte patto intergenerazionale, e può mantenere una sua sostenibilità solo se gli attuali contribuenti, con la corresponsione dei loro tributi, sono in grado di sostenere le prestazioni pensionistiche di coloro i quali sono già in pensione. A loro volta, questi cittadini che oggi sostengono tale impianto vedranno pagate le proprie pensioni solo se ci sarà un pari numero di giovani lavoratori del futuro, e così via. Insomma, è una catena. Ma con sempre meno nati e quindi con meno contribuenti risulta facile prevedere il collasso di quei pilastri fondamentali su cui regge il nostro Paese come il sistema scolastico e universitario, la sanità pubblica, le pensioni.

                Consideriamo ad esempio che:

  • secondo i dati 2022, la spesa del welfare nazionale ammonta a 615 miliardi, circa 18 miliardi in più rispetto al 2021;
  • nel ventennio 2022-2041 la “base” di giovani a cui potranno rivolgersi le università italiane per attirare nuove matricole passerà dai 47,4 milioni del ventennio precedente (2002-2021) a 43,1 milioni, con un calo di 4,3 milioni di potenziali iscritti.

Per “mettere a sistema” questo tipo di valutazioni e proposizioni sociali e politiche, lo scorso anno i promotori degli Stati Generali hanno deciso di dare luogo ad un organismo ad hoc, la Fondazione per la natalità, il cui presidente, Gigi De Palo, si è identificato ragionevolmente nel primo periodo con il responsabile dell’organismo “di rappresentanza” delle famiglie, che costituiscono il motore della natalità (De Palo, infatti, dal 2015 al marzo 2023 è stato presidente anche del Forum nazionale delle associazioni familiari, fino a che l’Assemblea generale ha eletto come suo successore l’ex presidente del Forum del Veneto Adriano Bordignon (3). Più le “famiglie non tradizionali” (ovvero non sposate, “monogenitoriali” etc.) aumentano, più i nati calano e le reti sociali si logorano.

Con il patrocinio della Regione Lazio e del Comune di Roma (Roma Capitale), del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e del Ministro per la famiglia, la natalità e le pari opportunità (nel Governo Meloni è Eugenia Roccella, più volte parlamentare e sottosegretario al Ministero della salute nel Governo Berlusconi IV, saggista, giornalista professionista ed editorialista del quotidiano Avvenire – dal 2022 aderente a Fratelli d’Italia), quest’anno gli Stati Generali hanno una marcia in più per far comprendere a politici, manager ed amministratori che i problemi del nostro Paese sono tutti collegati. Nel senso che più la popolazione diminuisce e/o invecchia, meno nascite ci saranno e, quindi, più lavoratori “attivi” perdiamo con le conseguenze sul sistema del welfare cui abbiamo accennato. Tra 15 anni, secondo l’Istat, ci mancherà il 30% di forza lavoro rispetto alla situazione attuale.

                Nelle prime due edizioni degli Stati Generali sono intervenuti oltre 60 relatori appartenenti al mondo politico, delle imprese, della società civile, per stimolare il dibattito su temi quali il crollo delle nascite e le politiche necessarie per sostenere le famiglie italiane, oltre che per avanzare nuove proposte e soluzioni. Tra i partecipanti alle precedenti edizioni: Papa Francesco e da presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi; leader politici e rappresentanti istituzionali quali Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Enrico Letta, Carlo Calenda, Nicola Zingaretti, Roberto Gualtieri; vertici delle più importanti imprese italiane quali Michele Crisostomo (ENEL), Matteo Del Fante (Poste Italiane), Pietro Labriola (TIM), Marco Sesana (Generali Italia), professionisti, giornalisti, influencer, attori e sportivi.

                Secondo le previsioni Istat nel 2050 ci saranno poco più di 54milioni di residenti (attualmente sono 59 milioni), meno di 48 nel 2070. La situazione fotografata dalle cifre è impietosa anche se ci confrontiamo con un Paese vicino nel quale le politiche della natalità sono una cosa seria, la Francia. Mentre come detto nel 2021 in Italia sono nati 399.000 bambini, quasi il doppio (740.000) sono nati in Francia, il cui numero di residenti ci ha ormai staccato e di molto (sono attualmente 68 milioni).

                Il futuro che si profila così da noi, «già tra una manciata di anni» come avvertono gli autori del libro “La trappola delle culle”, è quello di un Paese che fatica a crescere e a garantire ai propri cittadini servizi e tutele. I due giornalisti che l’hanno scritto, Luca Cifoni e Diodato Pirone, descrivono l’attuale spirale distruttiva italiana che sta generando un’economia più debole, con imprese poco innovative, pensioni insostenibili, scuole chiuse e territori desertificati. In una parola: il declino. I due cronisti del quotidiano Il Messaggero analizzano non solo le cause della denatalità, ma avanzano anche proposte per invertire la tendenza. Cifoni e Pirone propongono nove azioni che vanno dal sostegno dello Stato alle famiglie alle riforme del lavoro, dalla parità di genere all’immigrazione fino alle adozioni.

                L’obiettivo minimo, ma ambizioso, da raggiungere è quota 500mila nuovi nati all’anno. L’ha proposto anche Gigi De Palo: «bisogna puntare dritti verso l’obiettivo dei 500mila nuovi nati dandosi come orizzonte temporale il 2033. Lo dobbiamo fare perché altrimenti questo Paese salterà gambe all’aria: e per arrivarci dobbiamo per lo meno iniziare a parlarne seriamente, dandoci un obiettivo realistico, per esempio, di 10mila nuovi nati in più rispetto alle quote annuali». E invece le proiezioni dell’Istat confermano per l’anno in corso l’ennesimo record negativo dei nuovi nati, che nel 2023 dovrebbero scendere sotto la quota dei 385mila.

Anche i due autori della Trappola delle culle evidenziano la necessità di recuperare, prima di tutto, una piena consapevolezza della situazione, partendo dall’assunto che il dibattito pubblico italiano sulla natalità si basa, in larga parte, su considerazioni estemporanee e luoghi comuni. Eppure il calo della popolazione sta avendo effetti visibili a occhio nudo! Non bisogna essere scienziati sociali o demografi per verificare la desertificazione di intere aree del Paese, quelle più interne e montane soprattutto, con conseguenze negative anche sul fronte ecologico. Senza parlare poi della scuola italiana. L’effetto denatalità sta colpendo infatti anche la scuola. Nei prossimi 10 anni la scuola italiana è destinata a perdere secondo alcune stime circa 1,4milioni di alunni. Si prevede un calo di oltre 100 mila alunni l’anno e, nei prossimi 10 anni, i dirigenti scolastici (quelli che prima erano riconosciuti come “presidi”) saranno dimezzati e ci saranno 600 istituti in meno.

                Così come il desiderio di vivere, di uscire, di viaggiare e di ritessere relazioni vere e non virtuali sta rivivendo del nostro popolo dopo due anni di “pandemia”, confidiamo che avvenga lo stesso anche con il desiderio di natalità. Per Gigi De Palo è inutile girarci intorno, la natalità è la nuova questione sociale, tanto più che demografi internazionalmente riconosciuti come Gérard-François Dumont hanno associato l’Italia a quel gruppo di Paesi del mondo (fra i quali il Giappone, la Romania e una quindicina di altri in Europa), nei quali si sta assistendo a un calo della popolazione a causa di una «diminuzione a lungo termine della fecondità». Per questo è meritorio l’obiettivo di rilanciare le nascite e il futuro del nostro Paese con la Fondazione per la natalità, creata con l’obiettivo di trovare soluzioni concrete e rapide per invertire la tendenza demografica nazionale.

                «È urgente – aggiunge De Paloche tutto il sistema Paese, dalla politica all’economia, dallo sport alla cultura, dalla sanità alle forze sociali, dai media al mondo dello spettacolo, convergano su questo tema. Per questo ci ritroveremo a Roma il 12 e il 13 maggio per la terza edizione degli Stati generali della natalità, perché questa è la battaglia che dovremo combattere tutti insieme per i prossimi vent’anni». La Fondazione nasce con la consapevolezza della necessità che ci sia un organo che si occupi solo di questo (anche se il Forum delle famiglie avrà sempre voce in capitolo).

                «Era necessario creare una struttura agile che possa aiutare nel reperimento fondi, nell’organizzazione, nelle campagne. È anche importante entrare nelle scuole a sensibilizzare su questi temi». Se crolla la natalità, sottolinea ancora De Palo, «crolla il pil, il welfare, il sistema pensionistico, crolla il sistema sanitario. Ci saranno dei danni irreparabili e purtroppo il problema non lo risolvi in un anno, lo devi risolvere seminando, piantando per il futuro: iniziando oggi e vedendo i frutti tra dieci o quindici anni».

                L’appello delle associazioni familiari è rivolto come sempre anche al governo, in particolar modo perché si decida con forza di investire le risorse del Pnrr sull’emergenza. Un buon segnale – o «un primo passo» come l’ha definito a più riprese il Forum – è stata l’introduzione dell’assegno unico: «Era necessario partire – questa l’opinione di De Palo –, l’assegno è una novità assoluta che porta con sé grandi cambiamenti. Il primo anno non sarà facilissimo per tutti, sarà necessario un rodaggio».

                Parole confermate dal numero ancora troppo esiguo di domande presentate all’Inps: poco più di due milioni secondo i dati di fine febbraio, contro i 7,2 milioni aventi diritto. Motivo per cui il Forum continua con la sua comunicazione mirata alle associazioni affinché avvisino tutti gli aderenti, i loro tesserati, le loro famiglie circa la scadenza.

                Prima, comunque, «per le politiche familiari – conclude De Palosi andava avanti a colpi di bonus, così quando cambiavano i governi cambiava tutto. Invece ora l’assegno dà una struttura alle politiche familiari del nostro Paese». Manca però ancora il passaggio dall’analisi alla sintesi, vale a dire il tentativo di cercare di anticipare il futuro. Ne va della sussistenza dell’Italia come Nazione…

Giuseppe Brienza           Redazione in

 Demografia, Italia contemporanea

Testo dell’intervento tenuto per la rubrica facebook “Houston abbiamo un problema?”, a cura di Rosa Grazia Pellegrino, andata in onda il 1° aprile 2023

               www.rassegnastampa-totustuus.it/cattolica/?p=56090

PROPOSTE

Welfare, ecologia e Rdc: il messaggio del papa all’Inps

Il Welfare, e il sistema pensionistico in particolare, rappresenta la capacità di un sistema di costruire una concreta solidarietà intergenerazionale, per questo va salvaguardato e reso sostenibile; per farlo è necessario combattere il lavoro nero e la precarietà prolungata che generano ingiustizie e limitano l’accesso a diritti fondamentali, al contrario va garantito un lavoro dignitoso per tutti. Ancora, è urgente dare la cittadinanza italiana ai tanti lavoratori stranieri che contribuiscono ad alimentare il sistema pensionistico.

Sono alcuni dei principi espressi dal papa nel corso dell’udienza svoltosi lunedì mattina in Vaticano con il personale dell’Inps. Francesco è dunque tornato in piena attività dopo la breve parentesi del ricovero improvviso al policlinico Gemelli.

www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/april/documents/20230403-inps.html

Fra l’altro l’intervento del papa sui temi sociali inserisce in un più ampio ventaglio di proposte e preoccupazioni espresse dalla chiesa italiana in questi giorni. La Caritas, infatti, ha presentato una proposta di riforma del reddito di cittadinanza che andrebbe a razionalizzare le misure di contrasto alla povertà. La Cei, inoltre, ha lanciato, attraverso il card. Augusto Paolo Lojudice, arcivescovo di Siena, la proposta di convocare gli stati generali dell’immigrazione. Il cardinale, nel corso di un incontro svoltosi a nella città toscana alla presenza del capo della Cei, il card. Matteo Zuppi, ha messo in luce come il problema migratorio sia strutturale e mondiale. «E dovremo essere capaci – ha detto –di affrontarlo non come se fosse un’emergenza e cioè ogni volta che affonda qualche barca e che muoiono purtroppo i bambini. Sulla criticità dei migranti vedo un’Europa disgregata e incapace di fare un cammino unico».

I politici e il criterio della fraternità. Il Papa, ha incontrato dirigenti e dipendenti dell’Inps in occasione dei 125 anni della fondazione e ha annoverato l’istituto fra le grandi realtà originali sociali del nostro Paese, come gli oratori e il volontariato. Tuttavia Francesco, ha rilevato come la società odierna sembra aver perso la capacità di guardare al futuro. «Segni preoccupanti in tal senso – ha detto – sono la crisi ecologica e il debito pubblico che viene caricato sulle spalle dei figli e dei nipoti. Pensare che in alcuni Paesi i nipoti nasceranno con un debito pubblico terribile! La scelta della sostenibilità, invece, risponde al principio per cui è ingiusto affidare ai giovani pesi irreversibili e troppo gravosi». «In sostanza – ha aggiunto – un forte legame tra le generazioni è il presupposto perché la previdenza funzioni». Importante poi la sottolineatura del ruolo dei lavoratori immigrati: «Non va dimenticato che al sistema pensionistico contribuiscono anche lavoratori stranieri che non hanno ancora la cittadinanza italiana. Sarebbe un buon segno poter esprimere loro la gratitudine per quello che fanno».

In generale, ha affermato Francesco, «abbiamo bisogno di politici saggi, guidati dal criterio della fraternità e che sanno fare discernimento tra stagione e stagione, evitando di sprecare le risorse quando ci sono e di lasciare le future generazioni in grave difficoltà».

l pontefice ha poi rivolto tre appelli rivolti alla società civile come al mondo della politica:

  1. «Il primo appello – ha detto – è un no al lavoro nero. Il lavoro nero falsa il mercato del lavoro ed espone i lavoratori a forme di sfruttamento e di ingiustizia.
  2. Il secondo appello è un no all’abuso del lavoro precario, che ha un impatto sulle scelte di vita dei giovani e talora costringe a lavorare anche quando le forze vengono meno. La precarietà dev’essere transitoria, non può protrarsi in eccesso».
  3. Il terzo richiamo è stato invece in favore di un lavoro dignitoso, tale da permettere a ogni lavoratore di poter accedere al sistema pensionistico e all’assistenza sanitaria.

Correggere il reddito di cittadinanza. La Caritas, da parte sua, ha presentato al governo una proposta di revisione del Reddito di cittadinanza che prevede «l’introduzione di due misure, tra loro complementari: l’Assegno sociale per il lavoro, e il Reddito di protezione.

  1. La prima si rivolge alle persone in difficoltà economica senza lavoro da un determinato periodo di tempo (occupabili) e prive di sostegni pubblici per la disoccupazione e ha come obiettivo il reinserimento lavorativo.
  2. La seconda è destinata, in
  3. vece, alle famiglie in povertà».

Si tratta, insomma, di correggere alcuni vizi del Reddito di cittadinanza che faceva confusione fra politiche di assistenza agli indigenti e inserimento nel mondo del lavoro. È necessario, secondo l’organismo pastorale della Cei, «partire dai poveri, ovvero puntare a raggiungere tutti coloro che si trovano nelle peggiori condizioni e non sono stati raggiunti dalle misure nazionali in questi anni o non hanno ricevuto un supporto adeguato alla loro situazione di bisogno; considerare le misure di contrasto alla povertà nelle due componenti inscindibili fra loro: il contributo economico e i servizi alle persone».

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RELIGIONI

Oltre le religioni /7. Liberare il cristianesimo da miti e devozionismi

Settima puntata del percorso di riflessione teologica sul postteismo, nuovo e affascinante volto della ricerca teologica contemporanea, curato da Giusi D’Urso, aderente all’Osservatorio Interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD). In questo numero un articolo di don Giuseppe Magnolini, prete della diocesi di Brescia.

Premetto che non sono un teologo, ma solo un parroco di tre piccole comunità in montagna e quindi poco avvezzo ai grandi discorsi; sono però molto convinto che nel nostro cammino di Chiesa i cambiamenti necessari e inevitabili – pena una sua assoluta irrilevanza per l’uomo contemporaneo – siano molti e radicali.

                A livello dogmatico, la struttura fondamentale su cui, da svariati secoli, si basa la proclamazione del “Credo” (creazione, caduta, incarnazione del Figlio, morte redentrice, resurrezione, mandato alla Chiesa per la continuazione della missione salvifica del Figlio di Dio) appare oggi difficilmente sostenibile.

                Nell’umanità di oggi, peraltro, non è venuto meno il desiderio/bisogno di salvezza, ma forse non abbiamo ancora una risposta soddisfacente alla domanda “da che cosa” e “in che modo” abbiamo bisogno di essere salvati? Se da un lato le risposte tradizionali offerte dalla tradizione cattolica non convincono più, dall’altro lo stile, la proposta e la testimonianza di Gesù di Nazareth non hanno certamente smesso di interrogare le moderne coscienze né di fornire motivazioni di senso per una vita umanamente ricca e gratificante.

                Come, allora, comunicare all’umanità del terzo millennio, la visione del Rabbi di Nazareth in un modo che risulti comprensibile prima e accettabile poi? Le difficoltà non sono banali, non è solo una questione di linguaggio ma anche di contenuti. La vita di Gesù si è svolta in un periodo storico ben definito, all’interno di un determinato popolo con una specifica tradizione culturale e religiosa, del tutto diversa dal contesto attuale. È inevitabile quindi individuare le forme, i modi di pensare e le credenze che lo sviluppo storico delle conoscenze ha progressivamente reso materiali da museo archeologico: interessantissimi e affascinanti ma non più applicabili. E il compito non finisce qui, siamo solo al primo step. Dopo aver individuato le corde sensibili che caratterizzano l’animo dell’uomo e della donna contemporanei, rimane un compito altrettanto arduo: quello di tradurre messaggio e proposta evangelica in termini adeguati e compatibili con il vissuto di oggi.

                Noi oggi usiamo un linguaggio che non dice più nulla alle persone, un linguaggio lontano dalla loro esperienza e dal loro interesse. Nella liturgia, nelle omelie, nel catechismo usiamo termini e definizioni che risalgono, i più moderni, al 1200! Molte volte quando celebro e leggo i “testi sacri” alla mia gente mi chiedo: “ma cosa avranno capito, cosa avrà inciso nella loro vita”… e non posso fare a meno di pensare “ma anche nella mia?” Ci sono tante formule, tante definizioni che non dicono nulla nemmeno a me prete, chissà ai miei fedeli.

Dobbiamo partire con coraggio nel rivedere alcune definizioni, dobbiamo proporre un vangelo che non abbia paura di incarnarsi nel 2023, nelle nostre vite, nei nostri problemi… abbiamo bisogno di meno Diritto Canonico e di più fantasia e libertà evangelica, abbiamo bisogno di meno morale e di più gioiosa adesione a un messaggio liberato da miti e devozioni varie e insignificanti; insomma dobbiamo togliere tutta quella polvere che in 2000 anni abbiamo addossato a questo povero Gesù di Nazaret.

                Occorre ripartire dall’essenziale e, con coraggio, chiederci: “cosa è indispensabile?”

  1. In prima battuta mi pare necessario recuperare un messaggio che sia incarnato nella vita delle persone, ma concretamente; a volte quando leggevo certi documenti vaticani – ora non li leggo proprio più – mi veniva da chiedermi: “ma su quale pianeta vivono questi?” Quando si parla, ad esempio, di famiglia, di sessualità o di amore, documenti scritti da presunti celibi, da asettici esecutori di leggi aride e da gente che mai una volta ha detto a qualcuno: “ti amo”! Come si può pretendere di essere maestri credibili, se mai si sono vissute alcune esperienze umane fondamentali o, peggio ancora, se alcune cose, tra l’altro tra le piu belle, vengono tacciate di essere addirittura peccaminose? Le esigenze di cambiamento – o di rifondazione – implicano come minimo la necessità di un nuovo concilio, in cui si dovrebbe ripensare la figura di Gesù al di là di tutte le definizioni dogmatiche: Gesù come l’ uomo che mette al centro l’ uomo – e la sua felicità – ancora prima di Dio e del suo onore. Le basi per un lavoro di questo genere ci sono già, sono le riflessioni e le proposte di tutta una schiera di teologi, messi al bando perché capaci di pensare ed essere cercatori liberi della Verità. Si dovrebbe dare lo spazio che meritano ai vari Ortensio da Spinetoli, Roger Lenaers, John Shelby Spong, Hans Küng, Franco Barbero, solo per citare alcuni nomi per me molto significativi.
  2. Ripensando la figura di Gesù si dovrebbe anche rivedere tutto il discorso sul ministero ordinato e chiederci, con coraggio e senza troppi spiritualismi: “ma l’ha proprio pensato Gesù di Nazaret?” E semmai la riposta dovesse essere un “sì”, resterebbe comunque da chiedersi “ma l’avrà davvero pensato nelle modalità con cui è stato codificato dalla Chiesa cattolica”? Non c’è bisogno di fantasticare, sappiamo che la risposta è “no”. Appare oggi incontestabile il fatto che il ministero ordinato della Chiesa cattolica romana non sia frutto di disposizioni impartite da Gesù di Nazaret, il quale non è stato un sacerdote né amico dei sacerdoti, anzi! Il ministero sacerdotale è stato una trovata successiva, emersa in un contesto permeato di sentimento religioso tradizionale, in cui l’eucarestia, progressivamente interpretata come sacrificio, aveva bisogno di un addetto, appunto il sacerdote, come mediatore fra la terra e il cielo. Che cosa ci impedisce allora, se non una mancanza di coraggio, di togliere tutta la sacralità di cui è stato rivestito il ministero e renderlo un puro e semplice servizio alla Parola e alla Comunità, servizio svolto da uomini e donne facenti parte della Comunità stessa ed espressione di questa, non estranei incaricati da estranei, calati dall’alto da super uomini con poteri speciali e perciò separati da tutti gli altri in una casta di intoccabili.
  3. Per la sensibilità democratica odierna è diventato sempre più difficile, per non dire impossibile, accettare una realtà in cui il clero – salvo eccezioni – non abbia momenti di significativa reciprocità con i laici: non si accetta più che il prete possieda – perché l’ha ricevuta dall’alto – già e tutta la verità, che non abbia quindi niente da imparare da “fuori”, che sia “programmato” solo per insegnare, per comandare, per decidere; che venga “imposto” dall’esterno alla comunità, alla stregua di un funzionario dell’impero, che generalmente svolga il suo ruolo più come un piccolo duce autoreferenziale che come un promotore delle potenzialità e dei carismi creativi della comunità.
  4. Un ultimo importante aspetto di un rinnovamento complessivo – sempre più indifferibile – riguarda l’approccio alla figura di Gesù di Nazaret rispetto alla pluralità delle cristologie. Già i vangeli ci presentano quattro cristologie diverse, Paolo ne sviluppa una sua, e nel corso dei secoli molti altri studiosi ne hanno elaborato presentazioni originali e sempre nuove. Questa molteplicità di interpretazioni rappresenta a mio avviso una ricchezza in quanto ci regala una conoscenza più approfondita dell’esperienza di Gesù, permettendoci così non un unico percorso ma la possibilità di una scelta personale fra una serie di possibili cammini sulle orme dell’uomo Gesù – più che del Figlio di Dio –, l’Uomo che ha insegnato un modo nuovo di vivere la spiritualità, staccata dal Tempio e dalle prescrizioni religiose del culto, della purità rituale, della disuguaglianza sociale, per essere incarnata nell’umano e diventarne espressione vitale.

Sarà tutta utopia? Mi piace.

Giuseppe Magnolini      Adista Segni Nuovi n° 13                             08 aprile 2023

www.adista.it/articolo/69782

RIFLESSIONI

La Pasqua delle domande

Ogni anno, nella cosiddetta “settimana santa”, si ripetono riti, parole e gesti in tutte le chiese cristiane scandendo il susseguirsi dei giorni sugli eventi che sono inscritti nella passione e morte di Gesù di Nazareth. È una vera singolarità cristiana quella di ripetere e tentare di rivivere ciò che ha vissuto Gesù nell’andare verso la propria morte – eventi, gesti che purtroppo sono entrati a far parte del folklore, fino ad attirare turisti curiosi e non certo credenti –: nel cristianesimo si è sentito questo bisogno che si è realizzato tra imitazione e sequela.

Si imita Gesù, che entra trionfalmente nella città santa Gerusalemme, agitando palme e rami di ulivo e invocando la venuta del Regno di David; si celebra una cena come ha fatto Gesù per dire addio ai suoi discepoli donando loro nel pane spezzato e nel calice del vino condiviso i segni della sua vita spesa nell’amore fino all’estremo; si fanno processionalmente cammini della croce fino alla crocifissione. Infine si venera la croce: non un patibolo, ma uno strumento di glorificazione, dove Gesù è innalzato e glorificato fino ad attirare lo sguardo di tutti.

Tentativo di mimesis? Necessario coinvolgimento dei corpi dei credenti nella memoria della Passione? Esperienza di lutto e di tenebra da iscriversi nella fede? I cristiani vivono ancora la settimana santa così e da questa “fatica” dovrebbero, coerentemente con i Vangeli, arrivare a farsi domande sul perché il giusto diventa vittima dei malvagi fino a essere perseguitato ed eliminato. Dovrebbero chiedersi perché la violenza prevale dove c’è umiltà, debolezza, solidarietà con tutti gli altri in un atteggiamento che si vuole mai contro gli altri, mai senza gli altri, ma a favore degli altri.

Chi è cristiano come può non sentirsi ferito dal fatto che Gesù viene rigettato proprio dal potere religioso legittimo, dall’autorità legittima del suo popolo santo? Questo conflitto tra evangelo e religione che permane ancora oggi non interroga? Sono certe sfavillanti e trionfali liturgie più da corti imperiali che da piccolo gregge che accecano e non permettono di vedere? La vittima è sempre il giusto, il povero, chi è senza diritti e viene chiamato in modi diversi: fuggiasco, migrante, vittima della guerra, esule, oppure semplicemente è una persona che osa sentirsi responsabile di chi ha più bisogno di lui.

La settimana santa, dopo tutta una vita nella quale la celebro con fedeltà e fervore, mi pone ancora tanti problemi e mi obbliga a ripercorrere questo cammino di sofferenza: perché veneriamo, contempliamo, piangiamo Gesù arrestato, torturato, condannato a morte dal potere religioso – grazie al concordato con il potere politico –, crocifisso e morto? Non è follia questa? Ma nella misura in cui i cristiani credono che Gesù è risorto per aver tanto amato (questo è il segno della sua sofferenza liberamente e per amore patita!) allora la croce non è una follia, ma diventa speranza per tutti.

Enzo Bianchi      “la Repubblica” 3 aprile 2023

www.repubblica.it/rubriche/2023/04/02/news/pasqua_cristianesimo_chiesa_cattolica_domande-394679805

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La Pasqua sconfigge il nulla

Nella tradizione cristiana la Pasqua celebra la risurrezione di Gesù Cristo. L’esperienza della morte sulla croce viene riscattata da quella della vita che ritorna in vita dopo la sua fine dando definitiva morte alla morte. Quale lezione laica possiamo ricavare da questo racconto? Innanzitutto la Pasqua cristiana presuppone l’esperienza dell’abbandono assoluto: la notte del Getsemani e il supplizio della crocifissione precedono l’avvento della risurrezione. È questo un primo grande insegnamento: l’esperienza della caduta e della sconfitta – di cui la morte è la figura più definitiva e scabrosa – non può essere aggirata, sebbene non sia l’ultima parola possibile sulla vita. È la lettura che Walter Benjamin (α1892-ω1940-filosofo) dà dell’Angelo della storia: il movimento inesorabile del tempo storico che lascia alle sue spalle macerie e distruzione non può non tenere conto della necessità di dare agli sconfitti e a tutti coloro che sono stati vittime dell’ingiustizia una possibilità di riscatto e di speranza. Per questo lo sguardo dell’Angelus novus resta rivolto all’indietro: il progresso irreversibile della storia non può dimenticare gli ultimi, gli esclusi, i dannati della terra.

riprendiamo alla lettera il racconto evangelico della risurrezione, troviamo al centro del mistero pasquale la scoperta del sepolcro vuoto. Per Michel de Certeau (α1925-ω 1986, gesuita, antropologo) è la cifra più fondamentale del cristianesimo: l’assenza del corpo di Cristo descrive una forma radicale della presenza, una sorta di magnete che genera desiderio, parola, scrittura, vita. Il vuoto del sepolcro ci costringe a cercare Gesù tra i vivi e non tra i morti. È questa un’altra lezione fondamentale della Pasqua cristiana: esiste sempre un resto indistruttibile – eternamente vivente – in ogni morte. Sempre, qualcosa di chi non è più con noi, resta con noi. Un grande filosofo, recentemente scomparso, ha lasciato ai suoi cari un biglietto di congedo con scritto: “portatemi con voi”. Non chiede di essere rimpianto o compianto come un morto tra i morti, ma di essere portato come vivo da chi è ancora vivo. Lezione essenziale che si combina con un’altra altrettanto decisiva: come si può restare fedeli all’evento che ha cambiato la nostra vita? Per i suoi discepoli, Gesù è stato, infatti, questo evento.

 La sua morte impone il problema della sua eredità. Accade per ciascuno di noi: sono stato fedele all’incontro che ha cambiato la mia vita? L’incontro con un amore, con un maestro, con un ideale, con una vocazione? Ho vissuto coerentemente con quell’incontro, con la decisione necessaria, assumendomene crede più nel carattere inaudito dell’incontro. Più che un episodio sovrannaturale – la rianimazione di un morto – la risurrezione è un evento che rompe la nostra rappresentazione ordinaria della vita e della morte. È possibile che qualcosa resti indistruttibile, che nemmeno il potere della morte sia in grado di distruggere? È possibile che un vuoto – quello del sepolcro nel racconto cristiano – divenga motore di un desiderio, di una vita nuova?

Nell’immagine benjaminiana dell’angelo della storia, gli innumerevoli morti caduti nell’ingiustizia e nell’oblio attendono ancora di essere riscattati. I loro resti continuano ad ardere come braci che non si spengono. Accade con tutti i nostri innumerevoli morti, quelli che abbiamo amato e perduto. La risurrezione di Gesù mostra il carattere indistruttibile di ciò che resta. È un grande tema biblico che unisce la Torah ai Vangeli: è solo in ciò che resta – nella pietra di scarto – che dobbiamo vedere la possibilità di un nuovo inizio. Le apparizioni di Gesù dopo la sua morte di fronte ai suoi discepoli abbattuti per la perdita del loro maestro, hanno il potere di riattivare il loro desiderio rendendo più forte la loro fede. Queste apparizioni non devono essere lette come delle suggestioni psicologiche o dei fenomeni soprannaturali, perché sono il ritorno di chi se n’è andato da questa vita, ma continua a restare con noi. Possiamo leggerle come un appello a restare fedeli a ciò che è stato per noi l’evento dell’incontro.

Si tratta di un appello al quale è necessario rispondere per non lasciare alla morte l’ultima parola. Per questo Paolo di Tarso poteva affermare che «se Cristo non è resuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede». È solo la fedeltà all’evento a rendere l’evento ancora vivo. Ogni incontro degno di questo nome è il nome di qualcosa che non smette di risorgere, di venire alla luce, di bruciare, di essere sempre con noi. La resurrezione cristiana non è allora la proiezione di un desiderio illusorio di immortalità che rinvierebbe ad una felicità ultraterrena, ma un evento che esige fedeltà. Il nostro tempo che ha decapitato l’esperienza della trascendenza e del mistero, non può pensare alla risurrezione se non come a una storia consolatoria a lieto fine. Il nostro tempo non concede più spazio all’evento irripetibile dell’incontro che può rendere la vita nuova. L’evento della risurrezione ci invita, invece, a pensare che è ancora possibile dire, come ricordava Gabriel Marcel (α 1889-ω1973), a qualcuno che si ama profondamente: «Tu non morrai!». È la lezione più profonda della Pasqua cristiana: contro la spietata evidenza del nulla, il risorto ci ricorda che qualcosa può restare, che non tutto quello che è stato è destinato a divenire nulla.

Massimo Recalcati         “La Stampa”     9 aprile 2023

www.lastampa.it/cultura/2023/04/09/news/pasqua_lezione_laica_recalcati_resurrezione-12744781

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SIN0DO DELLA SINODALITÀ

Potere di insegnare e di battezzare” ai laici e alle donne? Dalla società dell’onore alla società della dignità

Tra le richieste emerse dal “Cammino sinodale tedesco” vi è il completo superamento di una espressione che risale a Tertulliano e che si può sintetizzare così: possono battezzare (e insegnare) i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i laici maschi, non le donne. Si deve dire che questa posizione di Tertulliano, bene conosciuta lungo la tradizione, ha subito nel tempo grandi revisioni. Da un lato la elaborazione di una “competenza femminile” sul battesimo, legata al “caso di necessità” o al “pericolo di morte”. Accanto a ciò si ammetteva anche un “insegnamento” possibile per le donne, purché restasse rigorosamente “in privato”. Questa differenziazione valeva a due livelli:

  • sul piano naturale, la donna era collocata nella sfera privata.
  • sul piano istituzionale il compito formale era riservato al clero ordinato, non ai laici.

   Così si è creato un sistema per cui la “funzioni di rappresentanza ecclesiale” si sono concentrate: sui maschi piuttosto che sulle donne, per natura sui chierici piuttosto che sui laici, per istituzione.

                Questo sistema funzionava non solo per grazia, ma per cultura. È la cultura della “società dell’onore”, che si basa sulla diseguaglianza, e che proprio così annuncia Dio e fa esperienza della trascendenza. La differenza di Dio è assicurata dalle “differenze di onore”: tra donna e uomo, tra clero e laici e dalle infinite differenze di grado interne ad ognuna di queste categorie.

                Molto interessante è il fatto che dove vi sia una “differenza”, la logica della “potestas” funziona sempre: al Concilio di Trento ci sono state sessioni che sono state aperte da discorsi di “laici” (che però erano “nobili”); in diocesi tedesche nel periodo successivo al Trento ci sono stati vescovi nominati in giovanissima età (ad es. 12 anni), mai ordinati diaconi o presbiteri, direttamente consacrati vescovi, ma differenti per “nobile nascita”. L’ordine nobiliare (anche senza ordinazione ecclesiale) funzionava perfettamente nella società dell’onore. E così garantiva la “differenza di Dio”. Lo stesso re di Francia, da nobilissimo tra i nobili, passava la settimana santa sempre in preghiera nella Cappella reale!

La fine della società dell’onore e l’inaugurazione della società della dignità ha messo a dura prova tutto il sistema ministeriale della Chiesa, che si era modellato in grande sintonia con quell’archetipo. Se si guarda che cosa era il Cerimoniale dei Vescovi fino al Concilio Vaticano II, si capisce da dove viene il nostro pregiudizio sul potere episcopale. La Chiesa cattolica ha provato prima a difendersi dalla eguaglianza, identificando se stessa come societas inæqualis, ma poi ha lentamente accettato di rivedere le proprie categorie. Oggi noi siamo in mezzo al guado di questa grande “metafora”: stiamo trasportando le migliori esperienza ecclesiali dal linguaggio della società dell’onore al linguaggio della società della dignità. Atto inaugurale di questo passaggio è stata la “entrata della donna nello spazio pubblico” segnalata come “segno dei tempi” da Giovanni XXIII nel 1963. Riconoscere la dignità della donna diventava allora una questione prima per la società, poi anche per la Chiesa.

                Questo passaggio, nella Chiesa, non è semplice. Perché mentre la società dell’onore proietta su Dio le infinite gerarchie del vivere umano, e vive Dio solo della evidenza delle differenze umane, la società della dignità sposta su Dio la propria eguaglianza: annuncia un Dio “uguale per tutti”, ma anche “diverso per tutti”, che rende tutti uguali, ma anche tutti diversi, e che perciò può non essere più né riconosciuto né riconoscibile.

                Ecco il punto nodale: tra la società dell’onore e la società della dignità ciò che cambia è il desiderio di riconoscimento. In un mondo che non vuole differenze strutturali, ma che spera solo nella più radicale eguaglianza, i legami e le relazioni tendono a non avere più alcuna evidenza. Se siamo tutti uguali, ma tutti liberamente diversi, il mondo diventa incomprensibile e ingovernabile, disorienta e si smarrisce.

Ecco allora la sfida: come annunciare la differenza di Dio in questo contesto della “universale dignità”? Se abbiamo compreso che questo contesto non è la negazione di Dio, in che senso può ancora essere mediazione del Dio di Gesù Cristo?

La struttura sociale ed ecclesiale “per ordini” non ha più evidenza. Ma come possiamo dire la differenza di Dio, del suo amore e della sua bontà, nel mondo della eguaglianza? Ancora più a fondo: nel mondo della libertà e della eguaglianza, a che cosa serve la fraternità? Non è un caso che, mentre libertà e eguaglianza possono essere “assolute”, la fraternità è invece cura di legami, dei figli col padre e tra figli dello stesso padre. Ciò che la libertà e la eguaglianza tende a negare, la fratellanza deve presupporre e coltivare!

Annunciare la parola e celebrare il sacramento non sono più pensate come azioni riservate ad un “ordo”. Questo è uno dei nuovi luoghi comuni, di ancora parziale evidenza, propri di una Chiesa che sta imparando il linguaggio della società della dignità. Riservare la parola al Vescovo e la eucaristia al prete era la logica della Chiesa dell’onore. Questo non significa, tuttavia, superare la funzione dell’episcopato, del presbiterato e del diaconato, ma pensarli come sacramenti con nuove categorie. Nelle quali la differenza non è assicurata dall’onore, ma dalla dignità.

                Se allora consideriamo in questa luce la questione, possiamo ben vedere che le ragioni che pongono vincoli insuperabili a celebrazioni “di soglia”, come sono il battesimo e la omelia, meritano un pensiero meno rigido e drastico, per quanto giustificato dal bisogno di difendere la “differenza”, non dell’onore, ma della dignità. La qualità di “soglia” del battesimo è, precisamente, di essere “porta” di ingresso nella Chiesa. La qualità di soglia della omelia è di essere “parola diretta” che può intercettare ogni vita, ogni storia, ogni domanda, ogni problema. Per questo sta nel cuore della celebrazione di una intimità, ma è anche forma liminare di annuncio.

                Mi spiego meglio. È del tutto evidente che nella chiesa di oggi non è così impensabile né che la celebrazione del battesimo possa essere presieduta da un semplice battezzato, né che la presa di parola omiletica venga affidata a un uomo o una donna sapienti della comunità. Questo non deve scandalizzare. Piuttosto potrebbe essere scandaloso che queste opportunità non siano rivestite di “forme istituzionali”, ossia che non vengano lette come occasioni per rinnovare l’esperienza ecclesiale, in modo pieno e formale.

                È ben comprensibile che vi siano “ministri ordinari” che si identificano, per lo più, con ministri ordinati. Guai se non fosse così. Ma non sarebbe saggio giudicare scandaloso che, secondo le circostanze e non solo “in pericolo di morte” si potesse ricorrere a “ministri straordinari” per celebrare battesimi e per tenere omelie. Perché mai nella “distribuzione della comunione” dovrebbe essere possibile ciò che si ritiene impossibile per il battesimo o per l’omelia? Ordinariamente distribuisce chi presiede o chi concelebra, ma nulla impedisce che…ordinariamente battezza il ministro ordinato, ma nulla impedisce che…normalmente tiene la omelia colui che presiede l’eucaristia, ma nulla impedisce che…

Qui non si tratta di opporre principi opposti, ma di integrare visioni differenziate. Non sono le legittime domande tedesche a negare le istanze centrali, né le giustificate istanze centrali a spiazzare definitivamente i nuovi spazi invocati. Riservare il battesimo e la omelia a colui che presiede una comunità è normale e anche vitale. Ma sono proprio le forme della autorevolezza ecclesiale a non poter essere più né pensate né amministrate con le logiche arcaiche dell’”ordo”. Qui noi siamo proprio al centro di una nuova visione: possiamo annunciare la differenza di Dio avendo misericordia per le infinite distinzioni di dubbio gusto con cui abbiamo, per secoli, discriminato le donne di fronte agli uomini, i laici di fronte ai chierici. Quello che prima pensavamo, in buona fede, fosse voluto da Dio, ora sappiamo che era solo un nostro punto cieco, una nostra forma di orgoglio e una mancanza di umiltà, che ci ha fatto scambiare la differenza di Dio con la gerarchia tra gli umani. Non perdere la differenza di Dio in una cultura della eguaglianza e della libertà può indurci a pensare non come un abuso un battesimo presieduto da un non chierico o una omelia tenuta da una laica o da un laico. D’altra parte, se da decenni abbiamo acconsentito a riconoscere il dottorato in teologia, in S. Scrittura, in pastorale o in spiritualità a laiche e laici, penseremmo forse che possano spenderlo soltanto “in privato”, tenendolo incorniciato nel loro studio? Il munus docendi e il munus sanctificandi non sono più compresi in (e garantiti da) un “ordo” separato (rispettivamente dall’episcopato e dal presbiterato), ma insieme al “munus regendi” sono entrati nella possibile esperienza di ogni battezzato, maschio o femmina che sia. Questo cambio di paradigma ha certo bisogno di criteri di riconoscibilità e di attendibilità, sui quali però si deve ragionare pacatamente, ma non secondo le regole della società dell’onore, bensì secondo quelle della società della dignità. Per rispetto della tradizione, che non sopporta mai riduzioni troppo smaccate. Una chiesa in uscita non si barrica dietro le norme contingenti di un regolamento giuridico o liturgico, che invece possono essere adattate alle nuove urgenze del popolo di Dio. Se si parte sempre da differenze incolmabili, si resta nello stile del mondo che passa e non si fa spazio alla vera differenza che conta.

Andrea Grillo    blog: Come se non          1° aprile 2023

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