News UCIPEM n. 952 – 5 marzo 2023

News UCIPEM n. 952 – 5 marzo 2023

UNIONE CONSULTORI ITALIANI PREMATRIMONIALI E MATRIMONIALI

Notiziario Ucipem” unica rivista – registrata Tribunale Milano n. 116 del 25.2.1984 Supplemento online.

Direttore responsabile Maria Chiara Duranti. Direttore editoriale Giancarlo Marcone

Le news sono strutturate: notizie in breve per consulenti familiari, assistenti sociali, medici, legali, consulenti etici ed altri operatori, responsabili dell’Associazione o dell’Ente gestore con note della redazione {…ndr}.

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Carta dell’U.C.I.P.E.M.

Approvata dall’Assemblea dei Soci il 20 ottobre 1979. Promulgata dal Consiglio direttivo il 14 dicembre 1979. Estratto

1. Fondamenti antropologici

1.1 L’UCIPEM assume come fondamento e fine del proprio servizio consultoriale la persona umana e la considera, in accordo con la visione evangelica, nella sua unità e nella dinamica delle sue relazioni sociali, familiari e di coppia

1.2 L’UCIPEM si riferisce alla persona nella sua capacità di amare, ne valorizza la sessualità come dimensione esistenziale di crescita individuale e relazionale, ne potenzia la socialità nelle sue diverse espressioni, ne rispetta le scelte, riconoscendo il primato della coscienza, e favorendone lo sviluppo nella libertà e nella responsabilità morale.

1.3 L’UCIPEM riconosce che la persona umana è tale fin dal concepimento.

Contributi anche per essere in sintonia con la visione evangelica

02 ABUSI                                               Francesco prega per le vittime di abusi «Va chiesto perdono, ma non basta»

03                                                           Caso Rupnik: con 15 nuove vittime i gesuiti vogliono un nuovo processo

05 CENTRO INT. studi famiglia         Newsletter CISF – n. 08, 1° marzo 2023

06 CHIESA                                             La chiesa si era adattata ai social prima dei social

07                                                          Tribunale penale nazionale. Un modello per l’Italia?

07                                                          Quanto prendono preti e vescovi: ecco gli stipendi. Suore al verde

08 CHIESA DI TUTTI                            Nella chiesa deve crescere l’opinione pubblica

11 CONFRONTI                                    Quel concepito ero io

13                                                          Una breve risposta: la vita umana ha vari stadi e la verità morale è verità personale

14 CONSULTORI UCIPEM                   Mantova.             “ETICA SALUTE FAMIGLIA” anno XXVII n.02 marzo-aprile 2023

14                                                                                          Nuove sfide per la bioetica

15                                                                                          Ruolo e funzione del tirocinante nel colloquio psicologico

18                                                                                          Scuola e famiglia per una società migliore

19 COPPIA                                            “Ciò che per noi conta”: coppia e valori

20 DALLA NAVATA                              2° Domenica di Quaresima – Anno A

20                                                           Commento. Siamo tutti mendicanti di luce. Come Pietro

21 DIBATTITI                                         Vaticano II, il concilio storico della Chiesa nel mirino

22 FRANCESCO VESCOVO di ROMA Il Papa: “La donna ha la capacità di avere tre linguaggi: mente, cuore e mani”

23                                                          Vita e ascesa di papa Francesco fra realtà e immaginazione

24.MINISTERI                                       La revisione della “riserva maschile” come segno dei tempi e il diaconato

28 MINORI                                            Come procede l’inclusione dei minori di seconda generazione #conibambini

35 SINODO                                           Assemblea continentale europea: raccomandazioni conclusive

37                                                           Vescovi europei: per una sinodalità permanente

37                                                          Motivi di speranza, ma incertezza di fronte a problemi ecclesiali tabù

40                                                           L’Assemblea del Sinodo africano sulla sinodalità si è svolta ad Addis Abeba (Etiopia)

42                                                           Brasile: la sintesi della fase d’ascolto sinodale, frutto del lavoro di 183 diocesi

43 SINODO IN GERMANIA                 Ancora polemiche con Roma

ABUSI

Francesco prega per le vittime di abusi «Va chiesto perdono, ma non basta»

Chiedere perdono va bene, «è necessario, ma non basta». Occorre mettere al centro le vittime, ascoltarle, accompagnarle e proteggerle. Ancora una volta il Papa torna sul dramma degli abusi sull’orrore per il male commesso dentro la Chiesa, sul dovere della trasparenza che si accompagna, ovviamente, alla conversione. L’occasione è il videomessaggio mensile legato alla rete mondiale di preghiera. Il dolore e i danni psicologici degli abusati – sottolinea Francesco – «possono iniziare a guarire se trovano risposte, cioè azioni concrete, per riparare agli orrori che hanno subito ed evitare che si ripetano». In questo senso il punto di partenza è non nascondere la tragedia delle violenze, di qualunque tipo siano, anche in famiglia e nelle istituzioni. A rafforzare l’intenzione per cui pregare nel mese di marzo, il video di accompagnamento che la “Rete mondiale di preghiera del Papa” ha realizzato insieme a Hermes Mangialardo, creativo di origini pugliesi, docente di animation design. Vi si racconta simbolicamente una storia di abusi sullo sfondo di disegni infantili che si alternano a pupazzi e mensole con oggetti per giochi di bimbi. L’animazione descrive il passaggio dall’orrore al riscatto puntando sul confronto tra luce e oscurità, sottolineando l’unicità di ogni vita e la sofferenza profonda causata dalle violenze subite. Alle pareti di una casa in cui tende scure bloccano l’entrata del sole sono appesi dei quadri – a indicare l’opera d’arte che ogni esistenza rappresenta – raffiguranti dei fiori, che proprio per la mancanza di luce appassiscono. Tutti gli ambienti rappresentati nel racconto animato hanno in comune l’oscurità che resiste fino a quando le tende non si squarciano e permettono finalmente alla luce di entrare: i raggi di sole non solo illuminano le stanze ma permettono a quei fiori feriti di riprendere vita e di cominciare lentamente a rialzarsi, portandosi dietro le proprie cicatrici. Perché gli abusi ammalano il cuore, scavano nel profondo, provocano sofferenze che magari non appaiono in superficie ma avvelenano giorno dopo giorno fino a spegnare il gusto di vivere.                                                                                                                                                        https://youtu.be/sDmPJ4wgH8s

Compito della Chiesa, allora, una volta liberatasi delle proprie colpe e opacità, è offrire un braccio su cui appoggiarsi, garantendo spazi sicuri per ascoltare le vittime, accompagnarle psicologicamente e tutelarle. A partire naturalmente dalla preghiera, a maggior ragione in Quaresima, fondamentale tempo di conversione, di penitenza e di rinnovamento. Un itinerario che per esempio nella Chiesa portoghese si accompagna alla tristezza e all’orrore per gli abusi scoperti in casa propria, a «conclusione di una lunga notte di silenzio », com’è stata definita la messa in luce del triste fenomeno. I fatti sono noti: una Commissione indipendente ha preso in esame il periodo compreso tra il 1950 e il 2022 raccogliendo centinaia di testimonianze fino a calcolare un totale di 4.815 vittime. Numeri terribili su cui intervengono numerosi vescovi lusitani proponendo un percorso penitenziale a partire dal senso di vergogna e dall’assunzione delle proprie responsabilità. «Nel rapporto con Dio – sottolinea il vescovo di Porto, monsignor Manuel da Silva Rodrigues Linda – occorre «ritornare alla pratica religiosa, a una dimensione sempre più interiore e sentita della vita spirituale». Senza trascurare «la Confessione e le pratiche tradizionali dell’astinenza e del digiuno». Propone fatti concreti il patriarca di Lisbona, il cardinale Manuel Clemente, che sottolinea l’importanza di un «coordinamento nazionale» composto da persone qualificate e di una migliore selezione di chi è chiamato a lavorare pastoralmente con i giovani.

Dopo la creazione di una Commissione indipendente «abbiano la ferma intenzione – scrive il porporato – di rimanere attenti e attivi in questo campo, nel quale non possiamo in alcun modo fallire». La lotta agli abusi parte dunque dal riconoscimento delle colpe, punta sulla creazione di strumenti di prevenzione, ma non può fare a meno della preghiera, per imparare a ragionare come il Signore, per stare davvero dalla parte delle vittime.

«Preghiamo per quanti soffrono a causa del male ricevuto da parte di membri della comunità ecclesiale – è l’intenzione del Papa per questo mese di marzo –: perché trovino nella Chiesa stessa una risposta concreta al loro dolore e alle loro sofferenze».

Riccardo Maccioni          “Avvenire”  3 marzo 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230303maccioni.pdf

Caso Rupnik: con 15 nuove vittime i gesuiti vogliono un nuovo processo

Applicazione delle precedenti restrizioni e divieto di portare avanti l’attività artistica, nell’attesa di decidere se avviare un ulteriore (il terzo) procedimento canonico: è questo, in sintesi, il contenuto del comunicato del 21 febbraio che riporta l’esito dell’indagine che la Compagnia di Gesù ha condotto sull’acclamato teologo e artista gesuita sloveno p. Marco Ivan Rupnik, 68 anni, fondatore del Centro di arte e teologia Aletti, già processato dalla Chiesa per abusi sessuali su nove religiose della comunità Loyola (in Slovenia) risalenti agli anni ’90, e per impartito l’assoluzione al complice in un caso risalente al 2015. Il processo per quest’ultimo reato, di competenza del dicastero per la Dottrina della Fede, si era concluso nel 2020 con una scomunica latæ sententiæ, comminata ma poi rapidamente ritirata, non si sa da chi; il secondo processo era stato anch’esso avocato da papa Francesco al dicastero per la Dottrina della Fede nonostante fosse di competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata perché, come lo stesso Francesco ha dichiarato in un’intervista all’AP (25/1), voleva che ci fosse continuità tra i due processi. Si concluse con la dichiarazione della caduta in prescrizione di tutte le accuse; da tenere presente che in molti casi, riguardanti per lo più minori e persone vulnerabili, il papa rinuncia alla prescrizione, mentre qui, nonostante la gravità e la serialità dei fatti, non l’ha eliminata.

                Dopo l’esplosione del caso, a dicembre, con le testimonianze di nuove vittime, e il successivo invito dei Gesuiti a eventuali altre a farsi avanti, sarebbero 15 le nuove testimonianze ricevute negli ultimi mesi dal Team Referente della Delegazione per le case e opere Interprovinciali Romane della Compagnia di Gesù (DIR). Il delegato, p. Johan Verschueren, scrive nel comunicato che molti dei nuovi testimoni (13 donne e due uomini, secondo quanto riportato da Associated Press e Repubblica, le due testate autorizzate ad avere il testo in anticipo e un’intervista) «non hanno conoscenza le une delle altre e i fatti narrati riguardano periodi diversi (Comunità Loyola, persone singole che si dichiarano abusate in coscienza, spiritualmente, psicologicamente o molestate sessualmente durante personali esperienze di relazione con padre Rupnik, persone che hanno fatto parte del Centro Aletti). Perciò il grado di credibilità di quanto denunciato o testimoniato sembra essere molto alto».

                Le nuove denunce coprono diversi periodi tra la metà degli anni ‘80 al 2018. Rupnik non appare intenzionato né a pentirsi (come già affermato dal vescovo incaricato del commissariamento della Comunità Loyola, mons. Daniele Libanori, anch’egli gesuita, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, 16/2), né a collaborare: «Il Team ha proposto a p. Rupnik di poterlo incontrare al riguardo senza successo», si legge nel comunicato. Dopo aver sentito le testimonianze, il Team ha redatto un dossier e lo ha consegnato a Verschueren, con le varie ipotesi di «procedimenti legali civili e canonici» successivi e con indicazioni e raccomandazioni alla Compagnia sui possibili passi da adottare.

                «La natura delle denunce pervenute tende a escludere la rilevanza penale, di fronte all’autorità giudiziaria italiana, dei comportamenti di padre Rupnik», prosegue il delegato, per il quale i testimoni sono «davvero dei e delle “sopravvissuti/e” dato il male che hanno narrato di aver subìto». Ciò significherebbe che i reati sarebbero penalmente prescritti. «Tuttavia ben diversa è la rilevanza di questi da un punto di vista canonico e concernente la sua vita e la sua responsabilità religiosa e sacerdotale».

                Dopo aver spiegato tutte le opzioni possibili che si presentano al termine di questa terza indagine, il superiore di Rupnik dichiara che «è sua ferma intenzione procedere con delle misure che assicurino che situazioni analoghe a quelle riferite non abbiano a verificarsi». In che modo, visto che anche le precedenti misure, del tutto disattese (Rupnik ha continuato impunemente con la sua attività pubblica), non hanno funzionato? Con un «procedimento interno alla Compagnia» (un altro), «ove lo stesso p. Rupnik possa fornire la propria versione dei fatti». «Questo procedimento potrà sfociare in un provvedimento disciplinare». E in vista di questo procedimento, «e in forma cautelare, ha reso più rigide le norme restrittive nei suoi confronti vietandogli per obbedienza qualunque esercizio artistico pubblico, in modo particolare nei confronti di strutture religiose (come ad es. chiese, istituzioni, oratori e cappelle, case di esercizi o spiritualità). Quindi, tali restrizioni si aggiungono a quelle già attualmente in vigore (divieto di qualunque attività ministeriale e sacramentale pubblica, divieto di comunicazione pubblica, divieto di uscire dalla Regione Lazio)». «Vogliamo avere davanti a noi – così Verschuerenla chiara possibilità di un cammino che persegua il pieno riconoscimento della verità dei fatti da parte dei responsabili e un percorso di giustizia per il male fatto». Il delegato, nell’intervista ad AP, sembra escludere che Rupnik venga rimosso dallo stato clericale: cacciare Rupnik dai gesuiti renderebbe impossibile, ha detto, tenerlo sotto controllo «aumentando le possibilità che possa continuare a essere una minaccia» (va ricordato qui un caso analogo con esiti ben diversi: il provinciale gesuita in Cile dal 2008 al 2013, p. Eugenio Valenzuela, condannato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2019 con la riconferma alla dimissione dello stato clericale per abusi di coscienza, di potere e sessuali – compreso quello di adescamento in confessione – denunciati a partire dal 2013, era stato già sanzionato dai gesuiti con la “sospensione perpetua” da ogni responsabilità all’interno della Compagnia di Gesù).

                Tutti sono stati informati di questo esito, da Rupnik alle persone denuncianti e ai testimoni, e ora Verschueren, nell’intervista all’AP, ha detto che deciderà in merito alle misure disciplinari definitive «in base a come risponde Rupnik», esprimendo la speranza «che si assuma la responsabilità delle sue azioni e accetti di sottoporsi a terapia psicologica». Verschueren è la seconda persona che tira in ballo questioni psicologiche/psichiatriche: lo aveva già fatto Libanori nell’intervista a La Croix. Il ricorso a motivazioni di questo tipo, tuttavia, tende a sottintendere che la responsabilità degli abusi è tutta e solo in capo a Rupnik, caso isolato, secondo la teoria delle “mele marce”, mentre occorre tenere presenti connivenze e complicità che, in questi più di trent’anni, hanno consentito al gesuita di agire indisturbato.

                Le cose che non tornano. A fronte della pretesa chiarezza cristallina del comunicato, anche qui c’è qualcosa che stona. Soprattutto il fatto che da nessuna parte siano citati, nemmeno en passant, i precedenti transiti di Rupnik per il dicastero per la Dottrina della Fede con le due sentenze: una scomunica poi magicamente sparita, e un nulla di fatto per fatti prescritti. Come se Rupnik fosse del tutto “incensurato” e oggi fosse il giorno “uno”. Non bisogna dimenticare, poi, che mentre il primo processo era naturalmente destinato alla Dottrina della Fede perché riguardava uno dei crimini più gravi per il diritto canonico, l’assoluzione in confessione di una persona con cui si è consumato un rapporto sessuale (che ipso facto è definita “complice”), il secondo altrettanto naturalmente avrebbe dovuto prendere la strada della Congregazione per la Vita Consacrata, coinvolgendo la Comunità di Loyola. E invece no: papa Francesco in persona ha affermato (AP, 25/1) di essere intervenuto proceduralmente «in un piccolo (sic) processo che è arrivato alla Congregazione della Fede in passato», perché altrimenti «i percorsi procedurali si sarebbero divisi e poi tutto si confonde». E dunque, il processo numero 2 è stato celebrato di nuovo alla CdF, benché non ce ne fossero gli elementi. È credibile la spiegazione del papa? Il sospetto, invece, è che l’ex Sant’Uffizio fosse un ambiente più “protetto” per Rupnik: l’allora (nel 2020, e fino al 2022) segretario era mons. Giacomo Morandi, suo amico personale, che prima di essere “promosso” vescovo di Reggio Emilia, a gennaio 2022, viveva, guarda caso, nella canonica della piccola rettoria di San Filippo Neri nel quartiere Monti, a Roma, concessa a Rupnik dal cardinal vicario Angelo De Donatis per celebrare la messa la domenica. Il tutto a poche centinaia di metri dal Centro Aletti, scuola di teologia e arte e atelier di mosaico dell’artista, dove risiede anche una comunità gesuita.

                Da chi fu tolta quella scomunica del 2020, motivata, a sentire il generale dei gesuiti p. Arturo Sosa, da un repentino pentimento di Rupnik (in realtà mai avvenuto)? Quale ruolo ha il card. De Donatis in tutta questa vicenda, dal momento che il legame con Rupnik è stato anche consolidato dalla sua approvazione del Centro Aletti (avviato nei primi anni ’90, poi cresciuto sotto l’autorità della Compagnia di Gesù) come Associazione Pubblica di Fedeli della Diocesi di Roma nel 2019?

                Perché papa Francesco non ha deciso di rinunciare ai termini di prescrizione, come fa, ha detto lui stesso, «sempre» nei casi che coinvolgono minori e adulti vulnerabili? Intanto il Centro Aletti continua a sponsorizzare Rupnik con grande sicurezza e con atteggiamento vagamente spavaldo: il 21 febbraio, giorno in cui è uscito il comunicato, dall’account Facebook del Centro è stato postato, in vista della Quaresima e di Pasqua, il link a 47 omelie del gesuita. Potere della negazione o certezza dell’impunità?

Ludovica Eugenio: Adista Notizie n° 8    04 marzo 2023

https://www.adista.it/articolo/69593

CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia

Newsletter CISF – n.8, 1° marzo 2023

  • La web serie della cattolica sulla “salute preconcezionale. Il Centro di Ricerca e Studi sulla Salute Procreativa (CeSP) della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica    https://centridiricerca.unicatt.it/cerissap

renderà disponibile con cadenza settimanale – dal 1° marzo 2023, sui canali Social dell’Ateneo (@Unicatt) – una webserie a puntate dedicata al tema della salute preconcezionale, dagli stili di vita che influenzano la fertilità fino al problema della disistima crescente, sul piano culturale, verso l’esperienza della maternità e paternità. Ecco la presentazione della serie da parte di Maria Luisa Di Pietro, Associata di Medicina Legale all’Università Cattolica e Direttrice del Centro di Ricerca [su YouTube – 4 min 37 sec]    www.youtube.com/watch?v=cCSCrE4POXY

  • La crisi economica influenza anche la fertilità dei migranti? E’ la domanda alla base di una ricerca – pubblicata su European Societies – in cui i demografi Giammarco Alderotti, Eleonora Mussino e Chiara Ludovica Comolli hanno esplorato il comportamento dei migranti (nel periodo di recessione 2010-2015) in Italia e in Svezia.                                              www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/14616696.2022.2153302

 E’ noto che l’incertezza economica influenza negativamente le decisioni sulla fertilità in termini di rinvio delle gravidanze e influenzando anche il numero di figli che le persone scelgono di avere. Dalla ricerca è emerso, d’altra parte, che la disoccupazione o precarietà hanno influito negativamente sulla gravidanza tra i nativi ma non tra i migranti. Inoltre, l’effetto della crisi sul comportamento di fertilità è stato molto minore per i migranti più integrati rispetto ai nuovi arrivati, in particolare in Svezia dove, fino ad ora, i migranti hanno goduto di uguali e generosi diritti sociali.

  • Gender pay gap: quali differenze di stipendio tra uomini e donne in Italia? L’Osservatorio Job Pricing ha

www.jobpricing.it pubblicato uno studio [registrarsi e pdf].    www.jobpricing.it/blog/project/gender-gap-report

sulle disparità di genere nel mercato del lavoro. Dalle interviste emerge una generale insoddisfazione delle lavoratrici rispetto ai meccanismi di promozione (l’84% delle lavoratrici pensa che un collega maschio abbia più possibilità di essere promosso). Si rileva poi una valutazione di priorità rispetto alla flessibilità oraria:  le donne sarebbero disposte a rinunciare ad una parte della propria retribuzione, che già di per sé è inferiore, in favore di un maggiore equilibrio casa/lavoro. Segnaliamo l’interessante analisi al Report di Francesca Valente (Univ. degli Studi di Siena) su Bollettino Adapt.

                www.bollettinoadapt.it/il-gender-gap-parte-dalla-soddisfazione-sul-lavoro-lultimo-report-jobpricing-sul-mercato-occupazionale-le-retribuzioni-e-le-differenze-di-genere-in-italia

  • Transgenderismo e transessualità: la nota del gruppo di studio CEI. Il Gruppo di Studio Bioetica dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza Episcopale Italiana ha prodotto una nota dedicata al tema del transgenderismo e della transessualità]. Si tratta di un documento di 15 pagine che osserva e riflette con estrema chiarezza sia sul quadro contemporaneo – segnato da una radicale messa in discussione dell’identità, considerata evanescente e continuamente riconfigurabile – sia sugli approcci sociali e terapeutici cui oggi si avvicinano le persone (sempre più spesso minori) interessate da una disforia di genere. {da commentare nell’equipe consultoriale}
https://salute.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/26/2023/02/01/GruppoStudioBioetica_nota_02_transgender.pdf
  • Formazione gratuita per assistenti familiari. La Fondazione Franco De Marchi, in collaborazione con la Provincia autonoma di Trento propone dal 25 marzo un ciclo di formazione continua gratuita rivolta ad Assistenti familiari. Potranno essere scelti almeno 2 moduli di 4 ore ciascuno (per maturare le 8 ore di formazione obbligatorie per mantenere l’iscrizione al Registro provinciale). Quattro moduli si svolgeranno in presenza a Trento e quattro moduli si terranno online.

www.fdemarchi.it/ita/Centro-di-documentazione/News/Formazione-assistenti-familiari-2023?fbclid=IwAR3RjfWtdS1nCDPH7hABdz9DH3AT_pi1Ejobu1kAlfSgIBsRbrOFcqKic8A

  • Save the date
  • Seminario (Milano) – 10 marzo (9.30-17.30). “Origine, narrazione identità“, a cura del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia e Asag – Univ. Cattolica di Milano [qui la locandina]
https://centridiateneo.unicatt.it/studi-famiglia-Locandina_I%20venerd%C3%AC%20del%20Master.pdf
  • Webinar (IT) – 14 marzo 2023 (17-19). “Adozione e scuola. Cosa sapere, come fare“, rivolto agli insegnanti della scuola dell’infanzia, della primaria e secondaria, a cura del Coordinamento CARE
https://coordinamentocare.org/eventi-e-news/air-abruzzo-campania-
  • Webinar (IT) – 16 marzo 2023 (21-22.30). “Vieni a conoscere i bambini abbandonati in attesa di famiglia“, incontro condotto da Francesca Mineo, autrice del volume “Nessuno è perfetto, ma l’amore sì” (San Paolo), www.edizionisanpaolo.it/varie_1/famiglia_1/progetto-famiglia/libro/nessuno-e-perfetto-ma-l-amore-si.aspx?utm_source=newsletter&utm_medium=newsletter_cisf&utm_campaign=newsletter_cisf_01_03_2023

 A cura della Fondazione Faris

www.fondazioneaibi.it/faris/prodotto/webinar-vieni-a-conoscere-i-bambini-abbandonati-in-attesa-di-famiglia

Iscrizione               http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/newsletter-cisf.aspx

Archivio   http://cisf.famigliacristiana.it/canale/cisf/elenco-newsletter-cisf.aspx

http://newsletter.sanpaolodigital.it/cisf/marzo2023/5311/index.html

CHIESA

La chiesa si era adattata ai social prima dei social

Secondo la profezia di Marshall McLuhan [sociologo, α1911–ω1979 ]la Chiesa non sopravviverà all’avvento dei nuovi media. Si dissolverà nel privato delle coscienze e perderà ogni consistenza pubblica e istituzionale. Non la politica, non l’economia la distruggeranno. Sarà la comunicazione il fattore decisivo: i mezzi sono il messaggio e il messaggio di questi mezzi sarà un cristianesimo disperso negli individui. Lo studioso canadese morì nel 1979, un anno dopo l’elezione di Karol Wojtyła, pontefice televisivo per antonomasia. Come il papa polacco, anche quello tedesco e quello argentino sono stati giudicati alla luce di una sfida mediatica destinata comunque a macinarli.

 Fabio Tarzia (α1965, ricercatore confermato Università “La Sapienza”- Roma) vede le cose diversamente. Riconosce che «gli ambienti elettrici e poi digitali della globalizzazione che ri-tribalizzano la comunicazione» rappresentano un’enorme sfida, ma non condivide la visione degli esperti di media di un cattolicesimo «fortemente ridimensionato, in costante inseguimento delle novità tecnologiche e in perenne ritardo sui tempi».In Benedetto contro Francesco. Una storia dei rapporti tra cristianesimo e media” (Meltemi, pp. 304, e 24) il sociologo della Sapienza di Roma propone una lettura alternativa. Per farlo non contesta la competenza sulla religione degli studiosi dei media, al contrario ne usa categorie e linguaggio per proporre un approccio di «mediologia delle religioni». La sua analisi si distingue però perché si propone di comprendere la Chiesa nella sua peculiarità, a partire dalla sua bimillenaria interazione con i media. Allora il cristianesimo appare fin dai Vangeli come «la religione multimediale per eccellenza», che ha saputo evolvere dall’oralità alla scrittura, dalla scrittura all’immagine, dal manoscritto al libro, e che ha saputo integrare innumerevoli forme di comunicazione in un insieme dinamico, sempre capace di preservare l’identità e di rinnovarsi nel tempo e nello spazio.

Se, scrive Tarzia, «la Chiesa cattolica è da sempre una straordinaria “macchina” ideatrice di sistemi mediali complessi», essa va ritenuta capace di trovare una soluzione anche nell’era digitale, come sta già avvenendo con la rete e i social che la Chiesa stessa riesce ad inserire «in un immane contenitore diretto dal centro». Ciò è reso possibile, per Tarzia, dalla duplice anima originaria del cristianesimo, apocalisse e mondo, matrice ebraica e influenza greca, Vangelo di Luca e Vangelo di Giovanni, città luminosa circondata dalle tenebre e missione fiduciosa aperta al mondo, e ancora san Benedetto e san Francesco, gesuiti e giansenisti. Papa Benedetto XVI e Papa Francesco sono allora molto più che non uno stile comunicativo agli antipodi: sono archetipi originari che insieme fanno la Chiesa capace di trasformare i media, di ricombinarli mantenendo stabile al centro la dottrina edificata nei secoli e di sprigionare, conclude Tarzia, una «forza forse indistruttibile».

Marco Ventura                 “la Lettura”                        5 marzo 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230304ventura.pdf

Tribunale penale nazionale. Un modello per l’Italia?

Richiamato dalla proposizione n. 40 del Rapporto finale della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa, lo scorso 5 dicembre 2022 ha visto la luce il «Tribunale penale canonico della Conferenza dei vescovi di Francia». Esso si occupa dei delitti previsti dal libro VI del Codice di diritto canonico, ovvero dei delitti contro la fede e l’unità della Chiesa, dei reati finanziari, dei delitti contro i sacramenti, dei delitti di abuso e violenza sessuale contro maggiorenni: per quelli commessi contro minori o compiuti da vescovi è invece competente la Santa Sede.

Sull’ultimo numero de Il Regno-attualità il canonista Sergio Aumenta ne presenta in dettaglio il funzionamento e propone che veda la luce un organismo analogo anche per l’Italia. Perché?

ilregno.it/attualita/2023/4/francia-tribunale-canonico-penale-nazionale-un-modello-per-litalia-sergio-f-aumenta

                Imparziale e indipendente. «In un momento storico che vede la reputazione della Chiesa gravemente compromessa proprio nel settore dell’amministrazione della giustizia, tanto nell’ambito degli abusi sessuali quanto in quello degli scandali finanziari», una struttura specializzata, con nomine da parte dell’episcopato di giudici laici professionisti della materia, può «garantire giudizi più giusti», con un esercizio «di una giustizia più rapida ed equanime. Una «struttura centrale», il cui moderatore è il presidente della conferenza episcopale, potrà essere dotata di «mezzi economici adeguati», potrà garantire al meglio l’«imparzialità e l’indipendenza dei giudici» e allo stesso tempo «norme trasparenti che consentano alle persone interessate d’essere informate sulle diverse tappe delle procedura in corso» – scrive Aumenta.

                Se, come sostiene il sacerdote canonista francese Pierre Vignon

https://ilsismografo.blogspot.com/2023/03/francia-i-falsari-della-devozione.html

 a partire dai caso dei fratelli Philippe, di Jean Vanier e di Marko Rupnik, è necessario che la sovrastruttura feudal-monarchica dell’episcopato che ha protetto più i colpevoli che le vittime venga smantellata, l’istituzione di un tribunale penale nazionale potrebbe essere un primo significativo passo in questa direzione.

Maria Elisabetta Gandolfi, caporedattrice Attualità per “Il Regno”  4 marzo 2023

Quanto prendono preti e vescovi: ecco gli stipendi. Suore al verde

Ci sono gli stipendi di manager, impiegati, sindaci, prefetti e non mancano le buste paga di cardinali, vescovi e preti. Non tutti lo sanno, ma anche gli uomini di Chiesa, che, tra mense per i poveri, centri di ascolto e oratori, contribuiscono (e non poco) al welfare nazionale, percepiscono una retribuzione. Più o meno alta (da 750 a 4.500 euro circa), a seconda dell’anzianità di servizio e soprattutto del ruolo che occupano nella Gerarchia ecclesiale, termine estraneo al Vangelo entrato tuttavia nel lessico canonico a partire dal V secolo d.C. ad opera del misterioso Pseudo Dionigi.

Come venivano pagati in passato. Con riferimento ai chierici italiani, dal Medioevo sino alla riforma del Concordato del 1984 il sostentamento del clero si basava sul cosiddetto sistema beneficiale. Ad ogni ufficio ecclesiastico (diacono, parroco, vescovo), in pratica, si accompagnava un beneficio, cioè un insieme di beni (per esempio, terreni e case in locazione) attraverso il quale avveniva ‘il mantenimento’ dello stesso incarico. In seguito all’Unità d’Italia (1861), al fine di garantire sempre un minimum idoneo ad assicurare una vita dignitosa agli ecclesiastici, qualora il beneficio era insufficiente sotto questo profilo – molti terreni e residenze della Chiesa vennero confiscati dalle autorità civili –, lo Stato interveniva in soccorso attraverso il Fondo per il culto che pagava un supplemento al parroco (congrua) nell’ottica di colmare eventuali discrepanze.

Come vengono pagati adesso. Oggi il modello beneficiale è stato completamente abbandonato: le buste paga di diaconi, preti e vescovi italiani sono erogate dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero (Icsc), un organo della Cei (Conferenza episcopale italiana) il cui compito è quello di gestire gli stipendi di diaconi, preti e vescovi. Come? Attraverso un articolato sistema a punti, attingendo principalmente dall’8al quale si aggiungono le offerte liberali e le rendite integrate degli istituti diocesani per il sostentamento del clero.

Diaconi, preti e parroci: gli stipendi. Ma in definitiva, quanto guadagnano i chierici con un incarico in una delle 226 diocesi italiane? Andiamo con ordine e partiamo dal basso, dal diacono. Chi occupa il primo gradino dell’ordine sacro potrà diventare successivamente prete e (chissà) vescovo, a patto che non sia sposato altrimenti è destinato a restare diacono permanente, un ministero recuperato dal Concilio Vaticano II (1962-1965). Coniugato o non, chi assolve a questa particolare forma di diaconato – tra l’altro può battezzare e presiedere la Liturgia della Parola – percepisce uno stipendio pari a 1.200-1.300 euro al mese (quanto i parroci), fatto salvo che non abbia una fonte di reddito derivante da un’altra occupazione. Saliamo al secondo livello dell’ordine sacro: il presbiterato. Trattandosi di preti, occorre fare subito una rapida distinzione tra chi è un mero sacerdote e quanti, invece, sono responsabili di una comunità di fedeli disposta su una porzione della diocesi (la parrocchia). Mentre il semplice prete si deve accontentare dello stipendio di un operaio (circa mille euro al mese, ma se è a inizio carriera si ferma a 750), il parroco intasca 1.200-1.300 euro. Stiamo parlando comunque di cifre suscettibili di sensibili adeguamenti in relazione all’anzianità di servizio del presule e al conseguimento di particolari onorificenze (monsignore e altro).

Vescovi e cardinali. Da prete a vescovo il salto è notevole, anche sotto il profilo economico. Conti alla mano l’ordinario di una diocesi può guadagnare fino a 3mila euro al mese, a fronte di una media di 1.300-1.500.

Ovviamente sia i vescovi, sia i parroci, salvo che non facciano scelte differenti, non hanno da preoccuparsi dell’alloggio: il palazzo vescovile, per il primo, la canonica, per il secondo, sono a loro disposizione. Passiamo Oltretevere. Come è noto, chi elegge il Papa sono i cardinali. Per la precisione quelli under 80. Sono loro formalmente i titolari delle basiliche e delle parrocchie della Capitale e, proprio in quanto tali, eleggono (con l’aiuto dello Spirito Santo) il vescovo di Roma, denominato Papa solo dalla fine del IV secolo, regnante tale Siricio. Originariamente clero e popolo partecipavano a questa elezione, poi la partita passò nelle mani dei soli preti e successivamente – la riforma risale a papa Niccolò II nel 1059 – la scelta del successore di Pietro è divenuta prerogativa esclusiva dei cardinali, in rappresentanza dell’intero clero capitolino. Entrare in Cappella Sistina con un tale mandato è qualcosa da far tremare i polsi. Un onere e un privilegio ben remunerati, ad ogni modo: da 4mila a 4.500 euro, corrisposti dalla stessa Santa Sede o dalla Cei, a seconda che i porporati siano curiali o vescovi diocesani. Ad essere puntuali, i cardinali al lavoro entro le mura leonine percepivano anche di più prima della stretta sugli stipendi dei vertici di Curia romana (-10%) impressa da papa Francesco nel 2021 nel tentativo di far quadrare i conti delle casse vaticane.

Suore e frati. E le suore e i frati? Quanto guadagnano? Salvo che non esercitino una professione al di fuori della Chiesa – tipo l’insegnante di Religione -, restano a bocca asciutta. Non beneficiano di alcun stipendio. D’altronde, si sa, emettono un voto di povertà. E questo si paga.

   Giovanni Panettiere        “Quotidiano Nazionale” 2 marzo 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230303panettiere.pdf

CHIESA DI TUTTI

Nella chiesa deve crescere l’opinione pubblica

Lo Stato della Città del Vaticano come forma di governo, la Curia, quello che è, è l’ultima corte europea di una monarchia assoluta, l’ultima. Le altre sono ormai monarchie costituzionali. La corte si diluisce e qui ci sono ancora strutture di corte, che sono ciò che deve cadere”. È quanto dichiara papa Francesco nell’intervista a Televisa, pubblicata sull’Osservatore Romano del 28 maggio 2019.

                Non sappiamo se la volontà espressa dal papa di “costituzionalizzare” la monarchia papale possa essere esteso anche alla chiesa come comunità di fedeli, ma certo il “ciò che deve cadere” n ello Stato e nella Curia è in stretto rapporto con il tema della “democratizzazione” della vita ecclesiale che non è nato con papa Francesco e con l’attuale cammino sinodale.

                Possibilità e limiti della democrazia ecclesiale. Nel 1970 viene pubblicato “Democrazia nella Chiesa”, un breve ma denso testo scritto a quattro mani dal

   teologo Joseph Ratzinger (α1907 ω2022] e    sociologo Hans Maier (α1907 ω2001]. Il testo ha un sottotitolo, “Possibilità e limiti”, che evidenzia un atteggiamento di discernimento e di apertura, almeno parziale, dei due studiosi. Nel 2000 il testo viene ripubblicato con alcuni aggiornamenti e integrazioni degli autori.

                Questo libretto è un buon punto di riferimento per continuare il confronto iniziato oltre 50 anni fa. Maier propone di discutere e sperimentare quattro campi che risultano in analogia tra Chiesa e Stato: la costituzione fondamentale ecclesiale; lo stato di diritto; la divisione dei poteri; la collaborazione dei laici.

  1. Per il primo punto, scrive Maier, c’è un “diritto costituzionale immutabile” che viene sottratto alla contesa dei partiti e viene escluso dall’area delle decisioni democratiche maggioritarie. Occorre tenere presente infatti che in una democrazia non è possibile votare su tutto e che ci sono cose che non solo non possono ma non devono essere ammesse alle procedure di voto. È questa una considerazione essenziale per poter cogliere, almeno in parte, una possibile analogia fra Chiesa e Stato. Per esempio, il fatto che l’Italia sia una Repubblica democratica indivisibile, impedisce di mettere a votazione (in parlamento o attraverso procedura referendaria) sia la forma repubblicana che l’indivisibilità della nazione, ma non impedisce l’esistenza di partiti che si richiamano alla monarchia o di chi (Lega Nord per l’indipendenza della Padania) propone la secessione. Ma anche in questo ambito non tutto è possibile. Il secondo comma dell’art. 75 della Costituzione precisa che non è ammesso il referendum in alcune materie (leggi tributarie, bilancio, etc.). Inoltre, secondo la disposizione XII della Costituzione: “è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. In Germania, l’art. 21 della legge fondamentale sancisce l’incostituzionalità di quei partiti “che, per le loro finalità o per il comportamento dei loro aderenti, tentano di pregiudicare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o di minacciare l’esistenza della Repubblica Federale di Germania”. Questi divieti non impediscono comunque in alcun modo la discussione e il libero confronto perfino su questi temi.
  2. Ordinamento di diritto o di potere? In analogia con lo Stato costituzionale, per la Chiesa è impossibile, scrive Maier, “disporre del mandato e del testamento lasciato da Cristo”. Qui però risalta una notevole e significativa differenza: per la Chiesa è impossibile non solo mutare ciò che è immutabile, ma anche poter discutere ciò che è dichiarato immutabile e definitivo come, per esempio, i dogmi. Il Canone 752 del Codice di Diritto Canonico del 1983 stabilisce, addirittura: “non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda”. Su questo punto il

 giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde (α1930 ω2019]. ha scritto che questo dovere di obbedienza è un elemento nuovo e peggiorativo rispetto al vecchio Codice di diritto canonico del 1917 per cui: “rimangono escluse ogni discussione e ogni critica che abbiano carattere pubblico, persino in forma di dibattito scientifico” (Bockenforde, Cristianesimo, libertà, democrazia, Morcelliana, 2007, pp 117-118). Ciò che deve cadere, quindi, riguarda solo il Canone 752? Più complessivamente, secondo questo studioso, il diritto canonico deve “riconoscere ogni individuo come soggetto personale, autonomo e che ha il diritto di essere ascoltato…dirimere controversie con un giudice imparziale e indipendente…dare sempre una fondazione alle sentenze, sia giuridiche che amministrative. Senza questi presupposti il diritto canonico non è “un ordinamento di diritto” ma un “ordinamento di potere” (p. 120).

  • L’opinione pubblica, una necessità vitale. Occorre ricordare che termini chiave dell’ecclesiologia conciliare come comunione, fraternità, sinodalità, collegialità, popolo di Dio, partecipazione, servizio, non possono essere intesi in maniera riduttivamente spirituale, ma devono trasformarsi in comportamenti concreti. Ci sono ambiti nei quali esistono forme di democrazia attestate già dalla tradizione più antica che sarebbe urgente riprendere e sviluppare.

La prima e forse più urgente riguarda la possibilità che il singolo fedele possa difendersi dall’arbitrio del proprio parroco, vescovo, ufficio curiale. Il principio di origine medievale secondo cui “ciò che tocca tutti deve essere trattato da tutti”, potrebbe interagire oggi in maniera feconda con l’esistenza moderna dell’opinione pubblica.

 (α1876 ω1958]. Pio XII nel 1950, in un discorso rivolto ai giornalisti cattolici, dichiarò: “noi vorremmo infine aggiungere ancora una parola per quanto concerne l’opinione pubblica nell’ambito stesso della Chiesa (naturalmente, nelle materie lasciate alla libera discussione). Di ciò non possono stupirsi se non coloro che non conoscono la Chiesa o la conoscono male. Essa infatti è un corpo vivente, e qualche cosa mancherebbe alla sua vita se le facesse difetto l’opinione pubblica: mancanza, questa, il cui demerito ricadrebbe sui Pastori e sui fedeli”.

Per un libero scambio di opinioni Nel documento post conciliare Communio et Progressio del 1971,

www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/pccs/documents/rc_pc_pccs_doc_23051971_communio_it.html

si legge: «chi ha responsabilità nella Chiesa procuri d’intensificare nella comunità il libero scambio di parola e di legittime opinioni ed emani pertanto norme che favoriscano le condizioni necessarie per questo scopo».

                La formazione di un’opinione pubblica libera presuppone una molteplicità di centri come giornali, riviste, associazioni, interessati non solo a fare circolare idee ma anche a controllare chi governa perché non è giusto lasciare senza controllo l’amministrazione ed il governo di parrocchie, diocesi, ma si deve esigere il massimo di pubblicità degli atti di governo interni alla chiesa.

                Se il battezzato non può esercitare il diritto di valutare le azioni del parroco  e del vescovo e fare conoscere pubblicamente ciò che ne pensa, siamo di fronte ad una visione assolutista dell’autorità che non sopporta la presenza dell’opinione pubblica. Non si può escludere la comunità ecclesiale da un confronto serio e leale su tante questioni anche scottanti come se l’origine divina della chiesa le garantisse infallibilità sul piano storico ed umano, una vera eresia questa, una specie di monofisismo ecclesiale che della duplice dimensione della chiesa coglie solo la dimensione divina.

                Per esempio, ad oltre cinque anni dalla pubblicazione di Amoris Lætitia, a che punto è la sua attuazione nelle singole diocesi? Cosa possono fare i fedeli laici delle diverse chiese locali per stimolare la recezione di questa importante Esortazione apostolica?

                Speriamo che i timori che hanno impedito di accogliere prontamente la proposta del papa di indire un sinodo per l’Italia siano del tutto scomparsi e che l’attuale cammino sinodale rappresenti una grande occasione di rigenerazione, anche per fare cadere ciò che non aiuta la fraternità e la libertà nella Chiesa, a partire dalla libertà di opinione.

 Dino Calderone, docente di filosofia, membro del gruppo “In cammino: per le riforme di papa Francesco” (Messina),  che aderisce alla Rete dei Viandanti                      28 febbraio  2023

www.viandanti.org/website/nella-chiesa-deve-crescere-lopinione-pubblica

CONFRONTI

Quel concepito ero io

Monsignor Luigi Bettazzi, storica e veneranda figura dell’episcopato italiano, ha acceso un dibattito – tema l’aborto – su Rocca del 15 agosto 2022, seguito dal teologo Giannino Piana sulla stessa rivista del 15 novembre.                                                                                                www.rocca.cittadella.org/rocca/allegati/927/BETTAZZi.pdf

http://www.rocca.cittadella.org/rocca/allegati/950/piana.pdf

La logica dei due interventi va nella direzione di un «alleggerimento», per così dire, della dottrina ecclesiale in tema di peso morale dell’aborto quando è praticato nei primi 4/5 mesi, e ciò, se ho ben capito, soprattutto per rendere meno pesante la responsabilità della donna di fronte a quello che, in un linguaggio ecclesiale frequente, viene detto tout court un omicidio. Di primo acchito mi verrebbe di dire: avessero ragione! Chi di noi non vorrebbe che, di fronte a un numero sterminato di aborti, ci fosse una via di uscita, sia per veder diminuito il numero angosciante degli omicidi, sia per sollevare da un eccesso di responsabilità la donna, che spesso subisce drammaticamente questa scelta? Purtroppo le ragioni addotte dai due autori non mi paiono convincenti. Entrambi sottolineano che la dottrina ecclesiale conosce uno sviluppo. Bene. Ma nel nostro caso lo sviluppo si è registrato nella direzione opposta. Essi evocano la teoria medievale dell’animazione ritardata dell’embrione, per dire che non sarebbe poi una totale novità se, sulla base dei dati scientifici odierni, si potesse sostenere che l’aborto, fino al 4/5 mese, non debba configurarsi come omicidio. In realtà proprio la scienza ha dimostrato che, fin dal concepimento, si ha a che fare con un essere umano ben individuato, con un suo patrimonio genetico che lo caratterizzerà per tutta la vita, e che dalla fecondazione, appunto, si sviluppa in maniera organica, continua, graduale, coordinata, finalisticamente e unitariamente orientata. È il concepito stesso, insomma, che guida per forza intrinseca il suo sviluppo secondo il programma iscritto nel suo genoma. In questo senso, pur dipendente dalla madre, il concepito è autonomo rispetto alla madre: è un «altro». Anche grazie a queste acquisizioni, il Magistero è incline, pur senza «definirlo», a porre l’infusione da parte di Dio dell’anima immortale al momento stesso del concepimento (cfr. Evangelium vitæ n. 60).

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_25031995_evangelium-vitae.html

Sull’aspetto correlato del carattere personale del concepito, è noto il dibattito richiamato da Piana. Ma se l’essere persona–anche per chi non crede in un’anima immortale – è la proprietà dell’essere umano ben individuato nelle sue caratteristiche fondamentali, insieme individuali e relazionali (relazione con Dio, relazione con la madre e, attraverso di lei, con il mondo), anche se in stadio del tutto germinale, non vedo alcuna difficoltà – dal punto di vista ontologico, ovviamente, e non funzionale –, a chiamare persona anche l’ovulo appena fecondato (zigote). È una deduzione che di per sé appartiene all’ambito filosofico e giuridico, ma in connessione con la genetica e la biologia. Comprendo che chiamare persona quell’essere «invisibile» possa risultare strano, stando al linguaggio corrente e alla percezione sensoriale. Ma proprio i dati scientifici spingono in questa direzione.  α 1923, Monsignor Bettazzi considera un’obiezione il fatto che molti ovuli fecondati naturalmente si perdano: «la natura – si chiede – uccide il 40% degli esseri umani?». Sento la forza di questa obiezione (e ce ne sono anche altre, già da tempo considerate da studiosi come p. Angelo Serra SI e Roberto Colombo: si veda Identità e statuto dell’embrione, edito dalla Pontificia accademia della vita, 1998). Verrebbe da dire, stando a questo rilievo, che la personalizzazione non si possa affermare «tranquillamente» che dell’ovulo annidato, dunque dopo i primi 14 giorni, in quanto solo da allora un ovulo fecondato è di fatto, e non solo potenzialmente, avviato allo sviluppo compiuto. A ben pensarci tuttavia l’annidamento costituisce una condizione di sviluppo dello zigote e nulla aggiunge alla sua identità genetica.

Chi ci autorizza a considerare gli ovuli non annidati semplicemente «perduti»? Non possiamo che entrare in punta di piedi nella logica della natura e del Creatore, quando si tratta del mistero della vita nella sua espressione così multiforme e in gran parte inafferrabile. Qui siamo davvero tra terra e cielo. Una scienziata a cui lo stimato confratello rinvia avrebbe una posizione favorevole alla sua ipotesi. Ma tanti altri scienziati (v. il recente Salvatore Mancuso e Giuseppe Benagiano, Le sorprese e gli arcani della vita prenatale, 2021) ribadiscono che, di fronte allo zigote, con il suo codice genetico ben configurato, al di là delle possibili conclusioni sul tema «persona» che essi lasciano al lettore, ci troviamo di fronte a un essere umano distinto dalla madre.

Monsignor Bettazzi incalza facendo appello, per una nuova prospettiva di valutazione, all’intuizione, più che alla ragione. L’intuizione comune – osserva – e più ancora quella della donna, fanno chiamare persona solo quell’entità biologica che ha già raggiunto una certa configurazione umana in qualche modo riconoscibile. È vero. Ma attenzione a non scambiare la conoscenza intuitiva con quella prescientifica: rischieremmo di credere ancora

che sia il sole a girare attorno alla terra! In ogni caso, la discussione su «quando l’uomo diventa persona» (Piana) aiuta poco a rendere meno grave il peccato di aborto, giacché la semplice fondata probabilità che lo zigote sia un essere umano comporta il dovere di rispettarne il diritto alla vita. Omicidio? Zigoticidio? Embriocidio? Le parole sono convenzionali e si può discutere su quelle più adatte (ma senza rassegnarsi ad un eufemismo come «interruzione della gravidanza» che edulcora anzi nasconde la cruda verità della soppressione di un essere umano).

Comprendo che tutte le parole che finiscono in «cidio» ci facciano tremare. Direi, meno male! È vero poi che riversarle a cuor leggero sulla donna che ha scelto di abortire, mentre spesso questa scelta è un vero dramma, può essere troppo forte, quasi espressione di insensibilità. Umanamente, e pastoralmente, si dovranno sempre misurare le parole, per dire la verità senza crocifiggere le persone, aprendole delicatamente a una consapevolezza riparatrice, alla misericordia.

 α 1948, Mons. Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi       Roccan.3, 1° febbraio 2023

www.rocca.cittadella.org/rocca/allegati/977/SORRENTINO.pdf

aggiornamenti

www.bioeticaefamiglia.it/2022/09/22/identita-e-statuto-dellembrione-umano-prima-parte

www.bioeticaefamiglia.it/2023/02/01/identita-e-statuto-dellembrione-umano-seconda-parte

Una breve risposta a Sorrentino: la vita umana ha vari stadi e la verità morale è verità personale

Caro Direttore, ho sempre nutrito (e nutro tuttora) una profonda stima per il vescovo di Assisi Domenico Sorrentino, sia per il rigore intellettuale che per la signorilità umana. E lo ringrazio per la cordialità con cui mi ha sempre accolto nella sua città nelle molte occasioni che ho avuto in passato di frequentare la Pro Civitate Christiana. Mi sono spesso trovato in sintonia con le sue posizioni, sempre ponderate e argomentate.

L’articolo Quel concepito ero io, pubblicato dalla tua rivista lo conferma, anche se questa volta la tesi da Mons. Sorrentino qui esposta non mi trova d’accordo. Non intendo ritornare su quanto già detto nel mio articolo Quando si diventa persona, che insieme a quello del vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi dal titolo suggestivo ed efficace Posterius, è stato fatto oggetto di critiche garbate ma severe. Mi limito qui a due rapide considerazioni e ad una breve appendice.

  1. La prima considerazione riguarda il rapporto potenza-atto. È indubbio che tra i due momenti vi sia continuità, ma non si può negare che sussista anche discontinuità. E questo non solo per la ragione richiamata da Bettazzi e ripresa da Sorrentino, la quale ci ricorda che un numero consistente di ovuli fecondati vanno in natura dispersi. Ma anche perché lo sviluppo dell’ovulo fecondato, quando si verifica il suo impianto nell’utero materno, non dipende soltanto dal Dna (si incorrerebbe altrimenti in una forma di materialismo biologico), ma è legato ad altri fattori relazionali e ambientali, che conducono ad esiti diversi.
  2. La seconda considerazione chiama in causa i diversi livelli della vita umana. Ha ragione Sorrentino di richiamare l’attenzione sul fatto che all’atto della fecondazione ha origine la vita umana: la scoperta del Dna lo ha decisamente (e definitivamente) confermato. Ma si tratta del primo stadio di tale vita, quello biologico. Altra cosa è la vita dell’individuo, che si verifica successivamente come risulta dal caso dei gemelli omozigoti, dove la distinzione dei due, e dunque la loro rispettiva identità soggettiva, ha luogo in un tempo successivo. Altra cosa ancora è poi la vita personale, che può aver luogo soltanto quando l’individuo acquisisce una relativa autonomia e vive un certo grado di relazionalità.

Concludo con una breve appendice, che meriterebbe di essere approfondita, ma non è questa la sede per farlo. Alludo al concetto di verità morale, che attiene all’impianto dell’etica. Essa non va confusa con la verità ontologica, ma è verità personale. Il distinguere in essa, fino a separarli, aspetto oggettivo e aspetto soggettivo, riproponendo una forma di dualismo, non coglie la specificità della moralità, che non si può definire se non a partire dal soggetto e dalla sua libertà: vi è moralità solo laddove e fin dove vi è libertà.

Ti ringrazio, caro direttore dell’ospitalità, e ti faccio i complimenti per la bella rivista. Auguri di buon lavoro!

Prof. Giannino Piana, α 1939, teologo morale                           Rocca n. 5, 1° marzo 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202302/230223piana.pdf

CONSULTORI UCIPEM

                Mantova.            “ETICA SALUTE FAMIGLIA” anno XXVII n.02 marzo-aprile 2023

Sommario

editoriale                            Nuove sfide per la bioetica                                                                         Armando Savignano

primo piano                       Ruolo e funzione del tirocinante nel colloquio psicologico.           Paolo Breviglieri

                                               Scuola e famiglia per una società migliore.                                          Cristina Danielis

                                               Fede e fine vita. Testimonianze                                                                 Angelo Rossi

esperienze africane         Una infermiera missionaria in Senegal                                                   Dorothea Iske

spiritualità                          Il tempo del silenzio                                                                                      Giordano Remondi

www.consultorioucipemmantova.it/consultorio/images/pdf/etica/ETICA_SALUTE_FAMIGLIA_-_2023_anno_XXVII_n02_-_Marzo_Aprile.pdf

Nuove sfide per la bioetica

È stato nominato il Comitato Nazionale di Bioetica presieduto dall’amico e collega Angelo Vescovi (α1962) biologo e farmacologo italiano, direttore scientifico della Casa Sollievo della Sofferenza e da dicembre 2022 presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica.

 Si occuperà di molti problemi di natura etica che riguardano il mondo della salute, tra i quali: le condizioni sanitarie determinate dalle disuguaglianze socioeconomiche, i rischi dell’utero in affitto, il mercato dei farmaci e della medicina, la ricerca sulle malattie rare. Questi problemi si possano riassumere in tre aree: la vita, la povertà, il mercato della medicina.

I più recenti sviluppi in campo genetico riescono a prevedere, entro certi limiti, quali embrioni potranno dar vita a persone con minori probabilità di avere malformazioni; così si potrà scegliere chi far sopravvivere; ma ciò pone delicati interrogativi bioetici. L’Unione Europea, inoltre, è orientata a favorire in tutti i paesi il ricorso al cosiddetto “utero in affitto” in quanto attualmente è possibile conservare ovuli e spermatozoi nonché realizzare un’inseminazione in vitro. Si tratta, però, di una tendenza che contrasta con la nostra sensibilità che ritiene eticamente discutibile comprare la vita di un bambino.

Il diritto alla salute, sancito dalla nostra Costituzione, è spesso un miraggio per una parte della popolazione. Il gran numero di malattie rare che affliggono in Italia più di un milione di persone purtroppo non è annoverato tra le finalità principali dell’industria farmaceutica che persegue il mero profitto. Occorre rilevare tuttavia che la ricerca non è una spesa ma un investimento. Perciò, è un dovere morale investire nella ricerca non solo per le malattie più comuni.

La povertà – ovvero i determinanti sociosanitari – rappresenta una delle grandi sfide per la bioetica. Si calcola che in Italia vi siano 10 milioni di poveri che hanno una minor durata di vita. Come è noto, fra Lombardia e Campania esiste una differenza di due anni di vita. La mortalità infantile è doppia in Calabria rispetto al Veneto. Pur avendo un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere equo, i poveri hanno problemi di cui deve farsi carico la bioetica e, ovviamente, la società e lo Stato.

Il mercato della medicina svolge un ruolo fondamentale. È anche grazie ad esso che è migliorata la qualità di vita e la sua durata. L’Italia è orgogliosa per gli 81 anni dei maschi e gli 85 delle donne. Tuttavia scendiamo molto nella classifica europea, perché perdiamo parecchi anni per malattie croniche e tumori. Ecco perché è decisivo investire nella prevenzione, che è spesso in conflitto di interessi con il mercato della medicina che aspira al profitto a discapito dell’interesse degli ammalati. Perseguire la salute non è soltanto un mezzo per evitare le malattie, ma rappresenta anche un atto di solidarietà per migliorare l’efficienza del nostro servizio sanitario nazionale.

 prof. Armando Savignano ordinario di Filosofia Morale nell’Università di Trieste

Ruolo e funzione del tirocinante nel colloquio psicologico

Il titolo di questo contributo può apparire un po’ strano e indurre ad aspettative di argomentazioni di carattere burocratico giuridico (questioni di privacy, consensi, responsabilità, ecc.). Niente di tutto questo, le questioni formali le considero date per acquisite e scontate; in realtà vorrei condurre una riflessione più in termini clinici, terapeutici e relazionali partendo da questa domanda di fondo:

  • In che cosa una seduta psicologica in cui è presente un tirocinante può differenziarsi?
  • La presenza di un collega o di una collega che sta completando il suo percorso formativo, può dare alla seduta un qualcosa in più?
  • Esistono degli aspetti che arricchiscono questo momento?
  • O al contrario esistono degli aspetti che lo possono rendere meno efficace?
  • E in che modo coinvolgere il collega durante la seduta perché questa presenza risulti efficace e significativa?

Le considerazioni che farò rispecchiano unicamente la mia lunga esperienza di lavoro con colleghi/e in formazione e il modo che ho personalmente trovato per ottimizzare il loro contributo per il paziente.

Nella mia esperienza come tutor sono partito, credo come tanti colleghi, da un atteggiamento che potremmo definire “protettivo” verso il paziente e “difensivo” nei confronti del ruolo terapeutico. L’idea di fondo in questa prima fase è stata la seguente:

  • Il tirocinante in quanto presenza estranea al processo terapeutico è quasi sicuramente un elemento che può disturbare il paziente, farlo sentire osservato, studiato, invaso. In questa prospettiva il tirocinante poteva essere tollerato e proposto solo dai pazienti più sicuri, più capaci di sostenere questa esposizione e naturalmente tolto non appena si potesse scorgere un minimo segno di disagio nel paziente.
  • Mi sono accorto però ben presto che la presenza silente e osservativa del tirocinante, che si limitava a prendere appunti durante la seduta, non faceva altro che rendere questo “corpo estraneo” inviso e forse addirittura persecutorio. Per questo ho pensato a delle strategie che potessero mettere in gioco il tirocinante rendendolo parte attiva e fare in modo che potesse arricchire la seduta stessa.
  • Vengo quindi a spiegare concretamente come mi comporto durante la seduta e successivamente cercherò di ragionare su quali cambiamenti può introdurre questa modalità nella qualità della seduta stessa.
  • Il primo passo è naturalmente proporre la presenza del tirocinante al paziente: nel mio caso devo dire che molto raramente ho trovato delle opposizioni, in genere persone con tratti paranoici o molto inibite. Nel proporre questa presenza e chiedere naturalmente il consenso al paziente, ribadisco il fatto che anche il collega è tenuto al segreto professionale e che lo sta facendo per completare il suo percorso formativo.
  • Aggiungo anche che la presenza di un collega potrebbe aiutarci perché “in genere con più teste possono venire nuove idee e nuovi punti di vista”. Questa frase vuole introdurre quindi il paziente all’idea che il tirocinante è uno psicologo che collabora in qualche misura alla buona riuscita della seduta aggiungendo anche il suo punto di vista e la sua comprensione.
  • Durante l’incontro poi ho ideato due momenti in cui il tirocinante viene coinvolto: all’inizio e alla fine.
  • All’inizio vi è spesso la necessità di spiegare al tirocinante il motivo del colloquio, la problematica che si sta affrontando. È chiaro che questo potrebbe essere fatto prima dell’arrivo del paziente, tuttavia io trovo sempre molto utile questa premessa che si svolge in questo modo: chiedo il permesso al paziente di poter fare una breve sintesi del perché ci stiamo vedendo spiegandolo al tirocinante. Questo breve riassunto mi permette di verificare se la mia “narrazione” e rappresentazione del paziente è adeguata e centrata per il paziente stesso. Al termine della mia breve descrizione, chiedo al paziente se si sente ben rappresentato dalle mie parole o vuole correggere o aggiungere qualcosa. Questo momento è importante per orientare il paziente rispetto al problema presentato e in qualche misura lo aiuta a sentire che la terapia è un processo volto alla risoluzione di problemi definiti e non una sorta di magica trasformazione personale o peggio la conferma di uno stigma di un deficit o di un’etichetta diagnostica. Riuscire a riassumere adeguatamente la situazione del paziente è poi un ottimo passaggio che rafforza l’alleanza terapeutica e permette al paziente di sentirsi contenuto “nella mente del terapeuta”.
  • Il secondo momento che creo è alla fine della seduta in cui chiedo al/alla collega tirocinante se ha un commento, un’osservazione o una domanda. Il più delle volte le colleghe (devo parlare a questo punto al femminile perché sono la stragrande maggioranza) ribadiscono con le loro parole e la loro sensibilità, qualche aspetto fondamentale che è emerso dalla seduta e che io già avevo offerto al paziente: una comprensione, un rispecchiamento, un’indicazione. Queste parafrasi di ciò che ho già espresso al paziente in realtà non sono affatto delle vuote ripetizioni ma al contrario rappresentano degli ulteriori rispecchiamenti che avvalorano e rendono più profondo il senso di comprensione e di condivisione che si è verificato.
  • Un esempio molto semplice: in una persona affetta da sensi di colpa eccessivi rispetto al suo ruolo genitoriale, dopo che in seduta si è cercato di esaminare tutti gli aspetti della realtà per poter posizionare il paziente in una visione più obiettiva di sé stesso, il rimando del tirocinante che ribadisce qualcosa del tipo: “io sento per come si è espresso che lei vuole veramente bene a suo figlio, lo si capisce da questo… e anche da questo…”, questo tipo di comunicazione dunque può rafforzare la comunicazione del terapeuta e dare un senso di realtà più convincente al paziente.
  • Altre volte il contributo della tirocinante è ancor più creativo in quanto talvolta la chiamo in causa proprio in ragione delle sue caratteristiche personali: stiamo parlando in genere di ragazze che sono piuttosto giovani (dai 25 ai 30 anni). In diversi casi quindi posso chiedere loro di esprimere su alcune questioni il loro personale punto di vista, o cosa pensano di un certo comportamento, per aiutare il paziente a riconoscere gli aspetti propri della realtà e comprendere anche le reazioni che si possono generare. Un esempio di questo tipo di “ingaggio esperienziale” si è creato con un giovane molto inibito che dopo essere stato lasciato dalla fidanzata è rimasto bloccato, sfiduciato di trovare un’altra ragazza. Con la tirocinante si è creato una sorta di problem solving per capire quali erano gli approcci più promettenti per risultare attraenti e affidabili e fare un invito adeguato.

Questo tipo di pratica mi ha permesso di verificare che solamente in pochi casi i pazienti non gradivano la presenza della tirocinante, e che al contrario quando questa non era presente frequentemente i pazienti mi chiedevano un po’ dispiaciuti il motivo di tale assenza.

Vengo ora a delle considerazioni più generali che non vogliono essere però considerate estensibili a tutti i colleghi perché credo che questo dipenda molto dall’approccio teorico e soprattutto dallo stile di lavoro di ciascuno. Il mio modo di lavorare con il paziente, credo lo si sarà capito tra le righe, è ispirato ad un modello cognitivo comportamentale ma soprattutto ad una modalità relazionale in cui prevale la comprensione, la chiarificazione, il rispecchiamento e in generale la flessibilità per mettere al centro la problematica del paziente e raggiungere un risultato cercando le vie più efficaci.

Mi rendo conto quindi che la presenza del tirocinante non fa altro che confermare e avvalorare un approccio terapeutico relazionale che sento mio e che ora cercherò di definire per punti:

  1. l’essenza del processo di aiuto è la costruzione di una mappa di comprensione condivisa in cui la realtà interna del paziente, la componente relazionale e comportamentale vengono definite congiuntamente in modo sufficientemente completo dal paziente con l’aiuto del terapeuta. In questa fase il tirocinante apporta un arricchimento di questa comprensione perché diviene un elemento che può aggiungere aspetti identificatori ed empatici nei confronti del paziente o verso qualche altra figura importante per lo stesso. Ad esempio nella consulenza dei genitori con figli adolescenti, il punto di vista di una giovane collega può rispecchiare meglio il comportamento del ragazzo e renderlo più plausibile al genitore.
  2. Un aspetto che credo sia altrettanto importante da sviluppare durante il processo di aiuto è un atteggiamento orientato al problem solving. Con questo mi riferisco al lavoro in cui il problema viene prima definito e poi si cerca in modo creativo e aperto tutte le soluzioni possibili, scegliendo le più idonee da sperimentare concretamente. Anche in questo, la presenza e l’apporto di idee del tirocinante conferma quest’atteggiamento mentale: nessuno ha già una soluzione, né il paziente, né il terapeuta, occorre cercarla attraverso un confronto nel quale ogni idea nuova può essere utile e da valutare. Se il tirocinante, per inesperienza o scarsa conoscenza del paziente, avanzasse una proposta poco praticabile, sarebbe comunque utile prenderla in considerazione, esaminarla attentamente e nel complesso rimandare al paziente che ciò che più conta è la ricerca sensata di un progresso senza aspettarsi soluzioni definitive e già preconfezionate.
  3.  L’atteggiamento psicologico che va promosso in un percorso terapeutico è centrato su alcuni punti che potremmo così definire:

● rispetto e valorizzazione per ciascuno

● accettazione di sé e superamento di ogni senso di “inadeguatezza ontologica” o di stigma

● flessibilità e capacità di guardare alle cose da diversi punti di vista

● valorizzazione della pluralità, della diversità

● normalizzazione delle difficoltà e dei momenti di crisi

● incoraggiamento di ogni movimento esplorativo o creativo

● impegno in un lavoro di progressione che non è esente da insuccessi o da fatiche

● accettazione serena del proprio limite

● autoironia e umorismo.

Questi aspetti che ho delineato sono a mio modo di vedere confermati da un setting di seduta dove accanto alla voce principale e guida del terapeuta, ha spazio e legittimità una voce più giovane e meno esperta che tuttavia ha la possibilità di cogliere utili aspetti della realtà o anche di avanzare idee e punti di vista da considerare.

Si tratta quindi di muovere il paziente da una visione rigida, dogmatica, tutto o niente o egocentrica della realtà ad una visione pluralistica, capace di includere la complessità, il non perfetto, il contraddittorio, l’ambivalenza. Il nostro modo di essere terapeuti è in qualche misura anche un modello di questo atteggiamento dinamico, pratico e flessibile, e per questo la presenza di una tirocinante in seduta può rafforzare questa visione a più voci, dove anche il terapeuta quasi prossimo alla pensione, chiede autenticamente curioso alla collega che certamente potrebbe essere sua figlia: “tu cosa ne pensi di ciò che sta venendo fuori in questa seduta?”.

Paolo Breviglieri, psicologo psicoterapeuta – Consultorio di Suzzara

Scuola e famiglia per una società migliore

La famiglia è il primo riferimento, la prima cellula sociale che accoglie il nuovo nato che diventerà “uomo”, membro della società alla quale appartiene. La famiglia è il pilastro più importante per lo sviluppo della persona che con sani principi ed esempi contribuisce alla crescita emotiva e relazionale dell’individuo. Il grembo materno è la sua prima dimora, accogliente, sicura e protettrice dalle insidie del mondo esterno. In quella “prigione dorata” comincia il suo cammino rassicurato dal linguaggio del corpo materno dove tutto è filtrato e adeguato alle sue esigenze.

Poi la nascita, evento tanto grande quanto difficile e doloroso ma che accanto alla mamma e insieme a lei diventa possibile. Fuori dal grembo materno tutto è diverso, sarà compito della famiglia che lo accoglie porre le basi per un adulto sano ed equilibrato all’interno della società.

Ma la famiglia non è la sola ad occuparsi della formazione dell’individuo. Un ruolo importante e indispensabile lo ricopre la scuola. La scuola è studio, conoscenza, cultura, ma è anche educazione e teatro di crescita civile dove crescono le relazioni al di fuori della cerchia famigliare, le amicizie e le relazioni importanti che rimangono impresse anche per tutta la vita di una persona. All’interno della scuola si rinforzano i valori trasmessi dalla famiglia d’origine, ci sono le norme non scritte ma adottate da tutti per il comportamento civile di ogni individuo. Sin dagli anni ’90 uno dei progetti che a tutt’oggi è attivo soprattutto nelle scuole secondarie di primo grado è il “progetto affettività/sessualità”, tanto ambizioso quanto peculiare e delicato da portare a termine. Le figure coinvolte sono extrascolastiche, non appartenenti al corpo docenti ma che provengono da altre strutture come i Consultori familiari; nello specifico sono l’ostetrica e lo psicologa/o che, in collaborazione svolgono incontri dedicati all’interno delle classi. Il che non vuole dire esporre argomenti di carattere accademico, ma entrare nel vissuto dei ragazzi pur rispettandolo e nello stesso tempo dare loro una impronta educativa senza invadere il ruolo primario della famiglia. Cosa più facile a dirsi che a farsi.

Se l’insegnante si occupa dell’anatomia degli organi riproduttivi, l’ostetrica e la psicologa affrontano il capitolo della relazione nel senso più esteso del termine. Attraverso un dialogo condiviso si incoraggiano gli alunni a parlare di sé, delle proprie emozioni.

I nostri goal sono:

  • la conoscenza delle emozioni ed dei sentimenti, per favorire la buona relazione con l’altro/a;
  • la prevenzione della violenza di genere;
  • la gestione della sessualità con atteggiamenti responsabili, evitando quindi conseguenze spiacevoli ed effetti negativi soprattutto sulla ragazza, come ad esempio l’interruzione volontaria di gravidanza.

Dando l’opportunità ai ragazzi di parlare di sé, si sottolinea l’importanza del rispetto per sé stessi e nei confronti del prossimo. Non meno importante è l’informazione corretta su argomenti che facilmente si trovano sui social ma di dubbia affidabilità. Ritengo importante sottolineare il punto di forza di questi incontri, programmati ma molto apprezzati dai ragazzi in quanto gestiti da operatori “non giudicanti”. Essendo extrascolastici non vi è valutazione alcuna e nel contempo danno risposte immediate e importanti informazioni sui servizi alla persona. Si sottolinea la possibilità di rivolgersi a strutture dedicate, come il “Consultorio Giovani” creato per accogliere ragazzi dai 14 ai 20 anni che vogliono adottare un metodo contraccettivo o soddisfare altri bisogni. In questo servizio troveranno l’ostetrica, la ginecologa, lo psicologo e altre figure professionali.

Vi è la solida convinzione, quindi, che la scuola insieme alla famiglia, possa contribuire positivamente ad una società migliore. I genitori saranno supportati e accompagnati nel loro difficile ruolo in una società sempre più attrezzata di smartphone e tablet, dove simboli come le “emoticon” hanno sostituito il vero dialogo con il prossimo, mancando dei veri rapporti interpersonali, fatti di sguardi, emozioni, energia vitale, condizioni indispensabili per le vere e autentiche relazioni.

COPPIA

“Ciò che per noi conta”: coppia e valori

«Che cosa è importante per te?», ovvero quali sono i tuoi valori, cioè i principi guida della tua vita? Molte ricerche hanno indagato questo tema in quanto riferito ad un singolo individuo mentre poche si sono poste l’obiettivo di indagare che cosa è importante per «voi come coppia». Per colmare questa lacuna è nato questo progetto di ricerca realizzato da ricercatori del Centro Famiglia in collaborazione con l’Università degli Studi di Bergamo e l’Università LUMSA di Roma.

L’obiettivo del progetto è perciò quello di indagare i valori come qualità della coppia stessa, ovvero di quel microsistema che rappresenta l’incontro tra «storie» (individuali, intergenerazionali, culturali, ecc.) diverse, punto di origine del sistema famiglia. La coppia è un’entità «altra» che possiede caratteristiche, e quindi anche valori, uniche e specifiche rispetto ai singoli individui che la compongono.

Due gli studi condotti:

  1. il primo è volto a sviluppare uno strumento utile alla misurazione dei valori come qualità di coppia. Per fare ciò, è stato riadattato uno strumento comunemente utilizzato per la misurazione dei valori individuali che ha portato alla creazione del Portrait Couple Values Questionnaire. In questo caso alle persone viene chiesto di riferire in che misura percepiscono ogni coppia descritta nel questionario come simile alla propria. Un esempio di item è «È molto importante per questa coppia mostrare le proprie abilità». Hanno partecipato allo studio 546 persone (età media = 41.52 anni), tutte aventi una relazione di coppia e conviventi (76.4% sposate). Le analisi svolte hanno confermato l’esistenza delle quattro dimensioni valoriali teorizzate da

 Laurent Schwartz, matematico (α1915–ω2002) dei valori di coppia: apertura al cambiamento (indipendenza, novità, e rischio) conservazione (rispetto per le norme, stabilità), autopromozione (affermazione personale) e infine autotrascendenza (cura delle relazioni interpersonali e importanza del rispetto delle persone e della natura). Inoltre, le analisi hanno evidenziato come valori individuali e di coppia siano dimensioni tra loro in connessione, ma empiricamente differenti; questo conferma il fatto che la coppia si configura come qualcosa di diverso dai due singoli membri e l’importanza di focalizzarsi su questo costrutto.

  • Il secondo studio ha indagato la relazione tra i valori di coppia e il coparenting, ovvero la capacità e disponibilità dei genitori di collaborare e di condividere la responsabilità dei figli. Hanno preso parte allo studio 167 coppie (76% sposate). In media, le donne hanno 42.14 anni e gli uomini hanno 45.41 anni. Da questo studio, che il gruppo di ricerca sta ultimando, è emerso un legame significativo tra i valori di coppia e il coparenting. I due partner sembrano accumunati dal fatto che percepirsi come una coppia che attribuisce importanza a valori focalizzati sull’apertura del sé e sulla crescita, come è il caso dell’apertura al cambiamento (più forte per le donne) e dell’autotrascendenza (più forte invece per gli uomini) consente di rafforzare l’alleanza genitoriale. È anche importante sottolineare come per le donne sembra avere un effetto positivo sul coparenting la percezione di essere una coppia caratterizzata da valori, indipendentemente dal contenuto.

I risultati di questa ricerca fanno davvero riflettere su aspetti spesso nascosti del legame di coppia. In particolare, mentre l’odierno contesto enfatizza gli aspetti emotivo/affettivi pare che per le coppie l’aspetto etico/valoriale sia altrettanto importante soprattutto per quanto riguarda l’essere genitori.

Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia opera dal 1976     28 febbraio 2023

https://centridiateneo.unicatt.it/studi-famiglia-ricerca-formazione-e-altri-temi-cio-che-per-noi-conta-coppia-e-valori

DALLA NAVATA

2° Domenica di Quaresima – Anno A

Génesi                                 12,04. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

Salmo                                   32,20.L ’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo.

Paolo a 2Timòteo           01,10. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo

                                               del Vangelo.

Matteo                                17,09. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Commento. Siamo tutti mendicanti di luce. Come Pietro

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui (…)

La Quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un Vangelo pieno di sole e di luce. Dai 40 giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall’arsura gialla, ai volti vestiti di sole. La Quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così: «Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori» (G. Centore). «Verità è la fioritura dell’essere» (R. Guardini). «Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci). Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita.

 Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s’innalza nella luce, dove l’azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra. «E si trasfigurò davanti ai loro occhi». Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l’esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore.

 L’entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello»​gridato a pieno cuore. Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l’icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor.

 Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l’uomo, «non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell’umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo» (D. Bonhoeffer). Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto. Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio.

                Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.

              p. Ermes Ronchi, OSM  (α1947)

www.avvenire.it/rubriche/pagine/siamo-tutti-mendicanti-di-luce-come-pietro

DIBATTITI

Vaticano II, il concilio storico della Chiesa nel mirino

Il concilio che si è svolto dal 1962 al 1965 ha dato luogo a cambiamenti importanti, ma oggi è oggetto di numerose critiche in particolare a causa della inesorabile regressione del peso della Chiesa nella società. Per il grande pubblico, quell’evento è rimasto nella memoria come il momento in cui la Chiesa cattolica è entrata nella modernità. Molti francesi, sia che si sentano di appartenere a quella comunità di fedeli e di credenti sia che ne siano estranei, considerano una svolta storica il Concilio Vaticano II che si è svolto dal 1962 al 1965. Quella grande riunione in cui i vescovi, gerarchi della Chiesa, si ritrovavano per dibattere e prendere decisioni su questioni di teologia e di dottrina sotto l’egida di papa Giovanni XXIII era stata una sorpresa. L’ultimo concilio risaliva al 1870, e il precedente era terminato nel 1563.

Sessant’anni dopo la sua apertura, quando ormai si riteneva fosse accettato da tutti, ad eccezione di una frangia di ultrà, il Vaticano II è invece oggi bersaglio di molte critiche. È attaccato pesantemente da coloro che l’hanno rifiutato fin dall’inizio, ma anche dai cattolici conservatori più tradizionali, nonché da parte di personalità a destra della destra, come il filosofo Michel Onfray,  autoproclamatosi ateo ma ossessionato da una concezione cattolica della Francia, che non cessa di fustigare il concilio. Secondo loro, se il peso della Chiesa cattolica – associata ad una certa identità francese – si riduce, se la pratica diminuisce e se le vocazioni di preti crollano, è a causa di quel concilio che aveva la finalità di adattare il modo di annunciare il messaggio cattolico ad un mondo in piena trasformazione. Molti critici auspicano che la liturgia torni alla sua forma preconciliare.

All’epoca, molti si aspettavano che quell’evento avrebbe risolto i problemi del cattolicesimo in Occidente. “Nel corso delle quattro sessioni che si riunirono a Roma tra il 1962 e il 1965, circa 2500 vescovi, si creò una dinamica conciliare totalmente inattesa, scrivono i sociologi Danièle Hervieu-Léger e Jean-Louis Schlegel nel loro libro “Vers l’implosion?” (Seuil 2022). Questa dinamica ha portato non solo a riforme, ma ad una sorta di rivoluzione rispetto all’idea che fino a quel momento la Chiesa aveva di se stessa, del suo senso, del suo ruolo, dei suoi rapporti col mondo e con le altre religioni”. Il concilio porta cambiamenti importanti, non solo il superamento della messa in latino. I fedeli sono incoraggiati a riappropriarsi delle Scritture, il cattolicesimo ripensa il suo rapporto con i non-cattolici, con gli altri cristiani, ma anche con i credenti dell’ebraismo e dell’islam. Per la prima volta, la Chiesa cattolica ammette che altre religioni possono contenere del “vero” e del “santo”. I loro fedeli non sono più condannati alla dannazione. Vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’antisemitismo, che era diffuso negli ambienti cattolici e trovava, tra l’altro, la sua origine nel concetto di “popolo deicida”, viene esplicitamente condannato. Sessant’anni dopo, spiega

 Guillaume Cuchet, α1973. professore di storia contemporanea all’università di Paris I-Panthéon-Sorbonne, “nel momento in cui gli storici cominciano a lavorare, l’opinione pubblica riprende l’evento in maniera interessata, ideologizzata”. L’attacco al Vaticano II è tanto più visibile, spiega, in quanto portato avanti da un “movimento rumoroso”, le cui affermazioni hanno forse una portata superiore al suo peso reale nella comunità cattolica. Dietro queste critiche, Cuchet vede una “delusione post-conciliare”.

Inoltre, l’istituzione è scossa dalla rivelazione di molteplici scandali di violenze sessuali. “L’ambiente cattolico è a corto di progetti alternativi, è disorientato”, analizza lo storico. Tanto più, prosegue, che papa Francesco ritiene che il futuro del cattolicesimo si trovi in altre parti del mondo, come mostrano i suoi viaggi in Africa e in Asia: “Risultato, i cattolici europei si sentono abbandonati, hanno l’impressione di non essere più sostenuti dall’alto”. Ma è colpa del concilio? “Non è perché il Vaticano II non la provochi, che non abbia nulla a che vedere con la crisi”, spiega ancora Cuchet. Secondo lui il cattolicesimo era in una condizione abbastanza buona in Francia negli anni 60 del secolo scorso, prima di declinare. Il concilio è forse servito da catalizzatore ad una situazione che si spiega sul tempo lungo.

     Per Danièle Hervieu-Léger, α1947 sociologa delle religioni alla Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales, “ritenere che il declino del cattolicesimo sia una conseguenza del Vaticano II, è come accusare il termometro di aver provocato la febbre”. Ricorda che al momento del concilio, la questione della diminuzione della pratica si poneva già da tre quarti di secolo. “Dal 1959, muoiono ogni anno più preti di quanti se ne ordinano, ricorda la sociologa. Il corpo clericale è oggettivamente in stato di estinzione da prima del concilio”. Per lei, al contrario, il concilio ha tentato di prendere di petto il problema di una Chiesa rimasta fondata su un modello sociale desueto, quello di una società rurale e parrocchiale. Mentre il mondo, invece, cambiava, e i laici, più istruiti, chiedevano ai loro ministri del culto qualcosa di più di un’autorità senza limiti a cui sottomettersi.

Secondo alcuni, la rivoluzione che avrebbe potuto essere il Vaticano II è stata bloccata dal ^68, vettore di cambiamenti troppo rapidi perfino per coloro che li auspicavano nella Chiesa. Quest’ultima voleva cambiare insieme al mondo, ma era già troppo tardi. Comunque sia, il concilio ha permesso un nuovo rapporto con l’istituzione e deve essere pensato come un inizio piuttosto che come un risultato. Il papa attuale vede nel suo “sinodo sulla sinodalità” (quella grande discussione sul governo della Chiesa che si concluderà nell’ottobre 2024 e nei problemi che farà emergere, come quello del posto delle donne) una salutare continuità col Vaticano II.

 Sarah Belouezzane    “Le Monde”  4 marzo 2023 (traduzione: www.finesettimana.org)

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230305belouezzane.pdf

FRANCESCO VESCOVO DI ROMA

Il Papa: “La donna ha la capacità di avere tre linguaggi: mente, cuore e mani”

                “La donna ha la capacità di avere tre linguaggi insieme: quello della mente, quello del cuore e quello delle mani. E pensa quello che sente, sente quello che pensa e fa, fa quello che sente e pensa. Non dico che tutte le donne lo facciano, ma hanno quella capacità, ce l’hanno. Questo è grandioso“.      

Il Papa accoglie con queste parole la redazione del mensile “Donne Chiesa Mondo” de “L’Osservatore Romano”.

                L’occasione era data dal decimo anniversario dell’inserto mensile de “L’Osservatore Romano”. “Leggo Donne Chiesa Mondo, dal tempo del coordinamento della

 professoressa Lucetta Scaraffia: sempre l’ho letto, perché mi piace, mi piace questa sfida che è già nel titolo – dice Francesco alla redazione – Lo vediamo in Vaticano, anche: dove abbiamo messo donne, subito la cosa cambia, va avanti“.

                Il Papa riporta un po’ di esempi di donne e di mamma. “E’ un’altra categoria di pensiero, ma non solo pensiero: pensiero, sentimento e opere“.

                                Aci stampa         4 marzo 2023

www.acistampa.com/story/il-papa-la-donna-ha-la-capacita-di-avere-tre-linguaggi-mente-cuore-e-mani-21955

Vita e ascesa di papa Francesco fra realtà e immaginazione

Dieci anni fa, mentre finiva febbraio, per la chiesa di Roma si apriva una sede vacante senza precedenti. Mai infatti nella storia era stato possibile prevedere con precisione quando si sarebbe verificata questa circostanza che nel medioevo Pier Damiani aveva definito «momento di terrore». Ma l’impensabile era avvenuto l’11 febbraio 2013, quando Benedetto XVI dichiarò che avrebbe rinunciato al pontificato, precisando anche la decorrenza della sua clamorosa decisione: alle otto di sera del 28 successivo.

Meno di due settimane più tardi, il 13 marzo, dal conclave uscì eletto il gesuita Jorge Mario Bergoglio, che sarebbe stato definito dai media l’argentino più famoso del mondo dopo Messi. La sorpresa fu enorme, ma come la rinuncia di Joseph Ratzinger era stata da lui annunciata nel 2010 in un libro intervista, anche papa Francesco era atteso e preparato. Nella realtà e dall’immaginazione.

Un argentino. Verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, a Roma uno scrittore e giornalista spagnolo, Arturo San Agustín, incontrò Anthony Quinn, l’attore statunitense di origine messicana che nel film The Shoes of the Fisherman aveva interpretato Kiril, il papa ucraino immaginato da Morris West nell’omonimo romanzo del 1963, 15 anni prima dell’elezione di Karol Wojtyła. Il discorso cadde sulle successioni papali. Se fosse latinoamericano potrebbe essere messicano, provocò il giornalista, ma Quinn replicò senza esitare con una risata: «no, sarà un argentino». Nessuno dei due interlocutori conosceva Bergoglio, ma poco più tardi a tratteggiare il profilo di papabile dell’arcivescovo di Buenos Aires, ormai creato cardinale, fu Sandro Magister, l’informatissimo vaticanista dell’Espresso che nel tardo autunno del 2002 sul settimanale iniziava così l’articolo Bergoglio in pole position: «A metà novembre lo volevano eleggere presidente dei vescovi dell’Argentina. Ma ha rifiutato. Se ci fosse un conclave, però, gli sarebbe difficilissimo respingere l’elezione a papa. Perché è lui che i cardinali voterebbero a valanga».

Troppo presto. L’ascesa del gesuita era cominciata più di un anno prima, quando gli attentati dell’11 settembre costrinsero l’arcivescovo di New York, il cardinale Edward Egan, nominato relatore al sinodo dei vescovi, a rinunciare all’incarico, che venne assunto – e svolto «con maestria», sempre secondo Magister – appunto da Bergoglio, eletto poco dopo con moltissimi voti nella segreteria dell’organismo sinodale.

Invece, il conclave del 2005 fece papa in meno di ventiquattr’ore il decano del collegio cardinalizio, ma stando ai brani del singolare diario del conclave di un anonimo cardinale – pubblicati su Limes cinque mesi dopo da Lucio Brunelli nell’articolo “Così eleggemmo papa Ratzinger” – l’arcivescovo di Buenos Aires sarebbe arrivato nel penultimo scrutinio a toccare un tetto di 40 voti, per poi scendere a 26. Al di là dei numeri, che come quelli di altre ricostruzioni giornalistiche del conclave sono incontrollabili, un significato chiarissimo assume l’affermazione che l’articolo mette in bocca al cardinale belga Godfried Danneels: «Questo conclave ci dice che la Chiesa non è ancora pronta ad un papa latinoamericano». Il primate del Belgio era infatti un sostenitore del cardinale argentino, come altri suoi autorevoli colleghi europei del cosiddetto gruppo di San Gallo (per nulla segreto), e la sua frase esprime con efficacia l’appoggio alla candidatura che era stata ventilata in alternativa a quella di Ratzinger.

El Pastor. Molto importante per la conoscenza di Bergoglio è nel 2010 il suo libro intervista con Francesca Ambrogetti e Sergio Rubín intitolato El Jesuita, che subito dopo la sua elezione viene ovviamente tradotto anche in italiano. A questo si aggiunge ora un secondo libro degli stessi autori, El Pastor, molto più ampio ma altrettanto autorizzato. Pubblicato da qualche settimana in Argentina, ha un sottotitolo che sintetizza bene le sue oltre 300 pagine – «Sfide, ragioni e riflessioni di papa Francesco» – e un breve prologo dove lo stesso pontefice accenna alla lunga gestazione del libro e ripete che le sue sfide sono quelle «definite dai cardinali nei dibattiti precedenti il conclave». Nel capitolo introduttivo è riferito un dialogo tra lo stesso Bergoglio e    il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya (α1939-ω2021). Il 9 marzo 2013 – cioè lo stesso giorno del breve intervento dell’argentino in una delle congregazioni generali, le riunioni preparatorie del conclave – all’arcivescovo di Kinshasa che chiedeva insistentemente a Bergoglio se avrebbe accettato l’elezione, questi risponde: «In questo momento della chiesa nessun cardinale ha il diritto di dire di no».

Un nome da evitare. Il racconto della sede vacante e del conclave di Ambrogetti e Rubín è comunque molto più essenziale della minuziosa ricostruzione di Gerard O’Connell, un altro giornalista molto vicino al pontefice. Il suo libro “The Election of Pope Francis”, pubblicato nel 2019, è infatti ricchissimo di informazioni: sugli ultimi 17 giorni del pontificato di Benedetto XVI, sulla sede vacante e infine sulle poche ore «che hanno cambiato la storia», recita il sottotitolo. Come il conclave che aveva eletto Ratzinger, brevissimo è stato infatti anche quello che ha scelto il suo successore. Nonostante l’ultimo freddo invernale a cui si aggiungeva la pioggia, ad attendere la fumata bianca in piazza San Pietro, inginocchiato, c’era anche un singolare personaggio vestito di saio e scalzo. «Papa Francesco» si leggeva su un cartello che aveva appeso al collo, e l’immagine rimbalzò in diverse riprese televisive. Pochi giorni prima, durante la sede vacante, il nome «del grande santo dei poveri che purificò la chiesa in tempi di decadenza e opulenza» – così Ambrogetti e Rubín – era però stato accennato come possibile scelta dell’eletto, chiunque fosse stato. L’occasione, rivelata in un articolo pubblicato l’11 ottobre scorso sul quotidiano madrileno «La Razón», fu un pranzo a cui parteciparono due cardinali spagnoli poi entrati in conclave e un giornalista, che ne fu molto sorpreso, ma rispettò l’assoluta discrezione dei suoi commensali e non chiese altro.

L’altro Francesco. Ma un «Francesco I» era stato immaginato, e il suo pontificato descritto fin troppo a lungo, da Piero Imberciadori quasi mezzo secolo prima, nel 1966. Non certo al livello del raffinatissimo e mordace Roma senza papa – scritto proprio tra il 1966 e il 1967 da Guido Morselli, pubblicato postumo nel 1974 da Adelphi e di continuo ristampato – e anzi un po’ banale, ma con intuizioni ispirate alla stagione conciliare e coincidenze quasi incredibili.Basti pensare che il protagonista dell’ormai introvabile Papa Francesco I. Storia di un papa che non è mai esistito nasce nel 1920 e muore nel 2005, esattamente come Giovanni Paolo II. Per il resto, oltre il nome, non poco del pontificato di Bergoglio si ritrova anticipato in quello di Pietro Alberera, brillante «giovane italo-negro» che, sposata una Torlonia e avuti da lei cinque figli maschi, resta vedovo e, quarantatreenne, si fa missionario salesiano in Congo. Il papa lo consacra arcivescovo e lo crea cardinale un anno prima di morire, giusto in tempo perché l’eccezionale prelato venga eletto nel conclave del 1985. Il ventennio papale, con uno schema ispirato alle «lettere agli uomini» del Celestino VI di Giovanni Papini, è raccontato attraverso venticinque discorsi del papa a diverse categorie (dai parroci e dai vescovi fino ai giornalisti e agli astronauti). Al pontefice evangelico e riformatore – peraltro favorevole alla pena di morte nonché misogino – riesce tutto: riunire le chiese cristiane, avvicinare le altre religioni, riconciliarsi con il comunismo, andare a Mosca e a Pechino, pacificare il mondo.

Fantasie papali. Ma papa Francesco sembra più ancora anticipato nel 1964 – dunque quasi mezzo secolo prima dell’elezione, quando Bergoglio nemmeno era prete – in “Juan XXIII (XXIV) o la resurrección de don Quijote”, pubblicato con lo pseudonimo Jerónimo del Rey da Leonardo Castellani, un gesuita argentino espulso dalla Compagnia nel 1949, sospeso a divinis, poi reintegrato nel 1966 e morto ottantaduenne nel 1981. Scrittore prolifico e visionario, Castellani è stato riscoperto in Spagna da Juan Manuel de Prada, che racconta nei dettagli anche l’immaginario pontefice argentino in un saggio sulle «fantasie papali» nel libro “Il papa senza corona” (Carocci) su Giovanni Paolo I. E il papa del romanzo è Pío Ducadelia, argentino di genitori italiani, protagonista di una storia che lascia stupefatti, superata solo dalla realtà. Come sempre succede.

Giovanni Maria Vian, storico, vaticanista               “Domani” 5 marzo 2023

www.editorialedomani.it/idee/cultura/libri-storia-papa-francesco-conclave-bergoglio-ratzinger-consigli-di-lettura-tzxli3u0

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230305vian.pdf

MINISTERI

La revisione della “riserva maschile” come segno dei tempi e il diaconato

La “riserva maschile” non è una invenzione della Chiesa. Una lunga cultura civile ha separato nettamente lo spazio pubblico dal sesso femminile. Ricordiamo che, fino a un centinaio di anni fa, era impossibile per una donna votare in occasione delle elezioni, diventare magistrato, suonare come strumentista nella Filarmonica di Berlino, diventare carabiniere o “mettere l’anello” al dito del marito durante il matrimonio. Quando parliamo di “riserva maschile” peschiamo in un immaginario culturale antico di secoli, che si radica nella nota definizione aristotelica della natura femminile come “mancanza di alcune qualità”, ripresa dalla visione della donna che “ex natura habet subjectionem” secondo S. Tommaso d’Aquino. [α1225– ω1274]

                Anche la “venerabile tradizione” che riservava i ministeri ecclesiali ai “viri” è rimasta come un “non detto” per molti secoli della tradizione cristiana e cattolica, per esplicitarsi appieno solo nel CJC del 1917, mediante la indicazione del “vir” come condizione soggettiva della ordinazione. Nel mondo del 1917 la “ordinazione sacerdotale” era guadagnata come “settimo grado” di un cursus che dopo la premessa della tonsura percorreva 7 livelli fino al sacerdozio. Già in Pietro Lombardo, nella Parigi di metà XII secolo, questa era la rappresentazione: dopo la tonsura inaugurale, si diventava ostiario, lettore, esorcista, accolito, suddiacono, diacono e infine presbitero. Da questa visione, che resterà centrale e dominante fino al Concilio Vaticano II, veniva escluso il vescovo, perché l’episcopato non faceva parte del sacramento dell’ordine, ma era “nome di una dignità e di un ufficio”. Essere ordinati ha significato, per circa 800 anni, ricevere queste 7 ordinazioni progressive, fino alla pienezza del presbiterato/sacerdozio. Quando il codice del 1917 dice che possono essere ordinati solo “viri” pensa precisamente in questa visione. La “riserva maschile” copre, inevitabilmente, tutti e sette i gradi dell’ordine.

                Per comprendere gli sviluppi più recenti, bisogna considerare una duplice ristrutturazione interna a questo “cursus honorum et sacramentorum”:

a) Da un lato, il Concilio Vaticano II ristruttura l’intera materia, perché riduce il “ministero ordinato” a soli tre gradi (non più 7), ma inserisce come “pienezza del sacramento” l’episcopato. Perciò i tre gradi oggi sono “diaconato, presbiterato e episcopato”. Ne fuoriescono i 5 gradi anteriori al diaconato e vi subentra il grado massimo dell’episcopato.

b) La fuoriuscita dal ministero ordinato dei 5 gradi minori dà vita, nel 1972, ai “ministeri istituiti”, come categoria aperta, pensata sulla base del battesimo, che si identifica in due gradi residuali, il lettorato e l’accolitato, ma non ne esclude altri nuovi. Su questi ministeri, cui si aggiunge quello del catechista, di nuova istituzione, il MP Spiritus Domini del 2021 ha fatto cadere la “riserva maschile”.

www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20210110_spiritus-domini.html

E’ un fatto interessante che questo nuovo sistema subisca, contemporaneamente, due diverse letture.

  • Da un lato si continua a pensare il sistema unitario di un “cursus” continuo, che inizia dal lettorato e si conclude con il presbiterato (o eventualmente con l’episcopato). Sono 4/5 gradi che vengono pensati, più o meno esplicitamente, come ancora segnati dalla “riserva maschile”.
  • D’altro canto vi è una lettura “aggiornata” che pensa i ministeri istituiti come “ministeri laicali” e il ministero ordinato come un altro ambito, strutturalmente separato dal primo. Questa seconda visione può superare la “riserva maschile” e aprire i ministeri istituiti anche alle donne.

Tuttavia questo sistema nuovo fatica a coordinare le due visioni, perché per farlo è costretto a rendere statico ciò che è necessariamente dinamico. Potremmo dire che il “segnale” di questa difficoltà è sorto già con la istituzione del “diaconato”, come grado del ministero ordinato al quale possono accedere anche i battezzati coniugati. Lo si è chiamato “diaconato permanente” per scongiurare la ipotesi che possano essere ordinati presbiteri o vescovi battezzati coniugati.

                Lo stesso sta accadendo oggi a proposito dei ministeri istituiti. Nel momento in cui delle donne diventano formalmente “lettrici” o “accolite” si deve parlare, pure per loro, di “lettorato e/o accolitato permanente”, per sottrarle alla logica dinamica della progressione dei ministeri.

                Qui però il sistema conosce una “falla”. Perché se da un lato la lettera Ordinatio sacerdotalis (194)

www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/apost_letters/1994/documents/hf_jp-ii_apl_19940522_ordinatio-sacerdotalis.html

ha posto come principio indiscutibile la non ammissibilità della donna alla ordinazione sacerdotale (ossia al presbiterato e all’episcopato), essendo il ministero ordinato composto anche dal diaconato, nulla impedisce che la logica dei ministeri istituiti possa essere estesa al primo grado del ministero ordinato, ossia al diaconato, con una applicazione ad esso della argomentazione che ha permesso il superamento della “riserva maschile” per lettorato e accolitato.

                Vorrei soffermarmi brevemente su questa argomentazione che si trova al centro della lettera di papa Francesco al Card. Ladaria, che ha accompagnato il MP Spiritus Domini.

https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/01/11/0016/00033.html

La argomentazione della lettera. Questa condizione di “cambio di paradigma” viene illustrata in modo interessante da un lungo passo della lettera che accompagna il MP. Ecco il passaggio centrale:

Per secoli la «venerabile tradizione della Chiesa» ha considerato quelli che venivano chiamati «ordini minori» – fra i quali appunto il lettorato e l’accolitato – come tappe di un percorso che doveva portare agli «ordini maggiori» (suddiaconato, diaconato, presbiterato). Essendo il sacramento dell’ordine riservato ai soli uomini, ciò era fatto valere anche per gli ordini minori.

Una più chiara distinzione fra le attribuzioni di quelli che oggi sono chiamati «ministeri non-ordinati (o laicali)» e «ministeri ordinati» consente di sciogliere la riserva dei primi ai soli uomini. Se rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa «non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale» (cf. san Giovanni Paolo II, lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, 22 maggio 1994; EV 14/1348), per i ministeri non ordinati è possibile, e oggi appare opportuno, superare tale riserva. Questa riserva ha avuto un suo senso in un determinato contesto ma può essere ripensata in contesti nuovi, avendo però sempre come criterio la fedeltà al mandato di Cristo e la volontà di vivere e di annunciare il Vangelo trasmesso dagli apostoli e affidato alla Chiesa perché sia religiosamente ascoltato, santamente custodito, fedelmente annunciato.

Non senza motivo, san Paolo VI si riferisce a una tradizione venerabilis, non a una tradizione veneranda, in senso stretto (ossia che «deve» essere osservata): può essere riconosciuta come valida, e per molto tempo lo è stata; non ha però un carattere vincolante, giacché la riserva ai soli uomini non appartiene alla natura propria dei ministeri del lettore e dell’accolito. Offrire ai laici di entrambi i sessi la possibilità di accedere al ministero dell’accolitato e del lettorato, in virtù della loro partecipazione al sacerdozio battesimale, incrementerà il riconoscimento, anche attraverso un atto liturgico (istituzione), del contributo prezioso che da tempo moltissimi laici, anche donne, offrono alla vita e alla missione della Chiesa.

Per tali motivi ho ritenuto opportuno stabilire che possano essere istituti come lettori o accoliti non solo uomini ma anche donne, nei quali e nelle quali, attraverso il discernimento dei pastori e dopo un’adeguata preparazione, la Chiesa riconosce «la ferma volontà di servire fedelmente Dio e il popolo cristiano», come è scritto nel motu proprio Ministeria quædam, in forza del sacramento del battesimo e della confermazione.

È interessante notare qui tre cose.

  1. In primo luogo il parallelismo tra ministeri istituiti e ministeri ordinati non è perfetto. Vi è una “analogia imperfetta” tra riserva maschile superabile per i primi e non superabile per i secondi. In effetti la resistenza assoluta della riserva maschile secondo il principio di autorità (o, meglio secondo il principio di mancanza di autorità), come risulta dal passo citato di Ordinatio sacerdotalis, non vale per l’intero ambito del ministero ordinato, ma solo per la ordinazione sacerdotale (ossia per presbiterato ed episcopato). Ciò significa che il diaconato, pur appartenendo ai ministeri ordinati, non è ufficialmente vincolato dalla riserva maschile. Altrettanto deve far riflettere la affermazione secondo cui “la riserva ai soli uomini” non appartiene alla natura propria dei ministeri del lettore e dell’accolito. In realtà l’intero sistema dei ministeri era riservato, per tradizione, ai soli uomini. Circa il diaconato non si vede in quale misura si possa dire che la riserva maschile appartenga alla “natura” di questo primo grado del ministero ordinato. Quanto poi al grado del presbiterato e dell’episcopato, che esso sia coperto da riserva maschile risulta dalla prassi storica della Chiesa, su cui si pronuncia Ordinatio sacerdotalis, ma non dalla natura del sacramento. Storia del sacramento e natura del sacramento non sono mai identiche.
  2. Se in secondo luogo si osserva la argomentazione “esegetica” intorno alla tradizione “venerabile” della riserva maschile, è evidente che il testo di Ministeria Quædam del 1972 di Paolo VI

www.vatican.va/content/paul-vi/it/motu_proprio/documents/hf_p-vi_motu-proprio_19720815_ministeria-quaedam.html

assume la riserva come normale continuazione della tradizione precedente. La rilettura che distingue tra il termine “venerabile” e il termine “veneranda”, e che pertanto identifica uno spazio di discernimento ecclesiale per far cadere la riserva, potrebbe essere applicata all’intero quadro della ministerialità ecclesiale. Nel momento in cui la partecipazione all’esercizio della autorità nella chiesa fa cadere la riserva maschile, e lo fa con la coscienza di un grande cambio di paradigma, deve considerare anche quel livello del ministero ordinato che non è coperto da un pronunciamento vincolante: ossia il primo grado del diaconato.

  • In terzo luogo non si può non notare come la forma della argomentazione, che supera la “riserva maschile”, non abbia fondamento storico, ma sistematico. Non si devono cercare “forme storiche” di lettorato o accolitato femminile, bensì si rilegge sistematicamente l’essere donna come una ricchezza obiettiva per il lettorato e l’accolitato. Questa forma argomentativa si basa sulla nuova evidenza della “donna nello spazio pubblico” come segno dei tempi, di cui la Chiesa cattolica è divenuta ufficialmente consapevole dal 1963, con la enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII. Dopo di allora la problematizzazione della riserva maschile non è mai semplicemente la discussione di un “dato storico”, ma la assunzione di un nuovo “principio sistematico”.

Alcune obiezioni e deduzioni. Le obiezioni a questa possibile estensione, se non si limitano ad un argomento di autorità, si fondano su argomentazioni molto fragili: il sesso maschile del candidato alla ordinazione sarebbe elemento “sostanziale” del sacramento, e perciò non riformabile dalla Chiesa. Ma l’argomentazione in termini di “sostanza del sacramento” si fonda su argomenti di fatto, certamente rilevanti e basati su una prassi secolare, ma appare fragile nella argomentazione dogmatica e sistematica: tanto l’argomento antropologico, quanto quello cristologico non riescono a reggere la tradizione, quando addirittura non la rendono più fragile. Che la donna sia inadeguata all’esercizio della autorità e che il sesso dell’uomo Gesù sia normativo per chi lo rappresenta sembrano argomentazioni troppo deboli, quasi impresentabili: si deve riconoscere che la donna oggi esercita di fatto la autorità e che in Cristo non c’è più né maschio né femmina. D’altra parte la tesi formale che sottrae alla Chiesa ogni autorità per ammettere le donne al ministero ordinato sembra capovolgersi facilmente nella tesi che attribuisce alla Chiesa tutta la autorità per escluderle. Forse la soluzione sta nel guardare alla questione non solo come problema del diritto delle donne ad essere ammesse al ministero, ma anzitutto come problema del diritto della Chiesa a non privarsi della autorità femminile sul piano dell’annuncio, del governo e della santificazione. E non si può troppo facilmente aprire sull’annuncio (fino al dottorato) e sul governo (fino al segretariato di congregazione) e chiudere d’autorità sulla santificazione, senza fornire ragioni convincenti, ma solo sulla base di un problematico e tassativo “si è sempre fatto così”.

                Tutto ciò induce a pensare che sul piano del primo grado del ministero ordinato sia possibile estendere la logica di Spiritus Domini – ed anche il suo stile argomentativo non storico, ma sistematico – per arrivare alla giustificazione dell’accesso della donna al ministero ordinato. Le peripezie della riserva maschile sono destinate a continuare e possono essere risolte solo se si studiano i fenomeni istituzionali e sacramentali non soltanto sul piano del precedente storico.

                Per finire una curiosità: anche il sacramento del matrimonio ha superato, molto recentemente, una sua “riserva maschile” circa il “rito dell’anello”, che per secoli è stato riservato all’uomo verso la donna e vietato alla donna verso l’uomo. Si doveva scambiare il consenso, ma non si dovevano scambiare gli anelli. Essere arrivati allo “scambio degli anelli” a partire dal rito del 1969 è uno dei modi con cui, sacramentalmente, si è superata una riserva maschile fondata culturalmente, ma non fondata ecclesialmente. Il riconoscimento di questa “assenza di fondamento ecclesiale” di una tradizione anche risalente è un cambio di paradigma che recupera la “sana tradizione” e lascia cadere le tradizioni malate

 Andrea Grillo, α1961                            blog: Come se non          26 febbraio 2023

. www.cittadellaeditrice.com/munera/la-revisione-della-riserva-maschile-come-segno-dei-tempi-e-il-diaconato

MINORI

Come procede l’inclusione dei minori di seconda generazione #conibambini

                Oltre 1,3 milioni di bambini e ragazzi in Italia hanno un background migratorio, essendo stranieri o italiani per acquisizione della cittadinanza. La piena inclusione è una delle principali sfide del nostro paese per i prossimi anni.

  • 78,5% gli alunni stranieri che dichiarano di pensare in italiano (2021).
  • Le attività nel tempo libero, insieme alla scuola, sono un’opportunità per creare inclusione.
  • 1 milione i minori con cittadinanza non italiana che vivono in Italia, l’11,2% dei residenti tra 0 e 17 anni.
  • L’incidenza dei minori stranieri è maggiore nelle città e negli hinterland.
  • Tra i capoluoghi, è Prato quello con più minori con cittadinanza non italiana.

In Italia i minori stranieri oppure italiani per acquisizione sono più di 1,3 milioni. Un milione se si considerano quelli che non hanno la cittadinanza italiana. Bambini e ragazzi che nella grande maggioranza dei casi, frequentano le stesse scuole dei loro coetanei, condividono le stesse speranze e preoccupazioni, parlano e pensano nella stessa lingua. Nell’ultimo rapporto annuale Istat ciò è emerso abbastanza chiaramente. Anche tra chi ha solo la cittadinanza straniera, è prevalente l’abitudine di pensare in italiano.

                78,5% alunni di cittadinanza straniera che dichiarano di pensare in italiano (2021). Una quota media che sconta due tendenze. La prima è l’impatto dell’età di arrivo sulla risposta. Tra chi è nato in Italia o è arrivato in Italia in età prescolare la percentuale supera l’84%, scende al 70,3% tra chi è arrivato tra i 6 i 10 anni e al 49,3% tra chi è arrivato dopo gli 11 anni.

L’altro elemento da considerare è l’alta percentuale di giovani (oltre il 20%) che non risponde alla domanda. Una tendenza attribuibile alla compresenza delle due abitudini, pensare nella lingua di origine e in italiano, variando a seconda dei contesti e delle situazioni.

I minori stranieri o italiani per acquisizione hanno tante storie e percorsi diversi.

                Aspetti che aiutano a inquadrare come quando si parla di minori con background migratorio ci si riferisca a un insieme eterogeneo di ragazze e ragazzi. I giovani di “seconda generazione”, in senso stretto ragazzi nati da genitori stranieri nel paese di immigrazione, sono 1 milione e costituiscono circa 3/4 dei minori stranieri e di origine straniera. Come abbiamo avuto modo di approfondire in passato, diversi autori includono tra le seconde generazioni anche chi, pur essendo nato all’estero, è arrivato in Italia in giovane età.

Oltre il 75% dei minori con background migratorio è nato in Italia Composizione per paese di nascita e cittadinanza dei minori di origine straniera residenti in Italia (2020). Il restante 25% (306.873 persone) sono persone nate all’estero. Trasversale alla distinzione rispetto al paese di nascita è quella rispetto alla cittadinanza. Tra i circa 300mila nati all’estero, oltre 240mila sono minori stranieri, mentre 60mila hanno la cittadinanza italiana. Nel milione di bambini e ragazzi nati in Italia, i minori con cittadinanza non italiana sono quasi 780mila, quelli naturalizzati sono 228mila. Perciò complessivamente i minori stranieri sono circa 1 milione.

                Tali cifre, che sono in parte anche il frutto di una stima dell’istituto di statistica, indicano chiaramente come il mondo dei minori con background migratorio sia ben più articolato di quanto si possa pensare, e molto più sfuggente alle classificazioni statistiche rispetto al passato. È evidente che le nuove generazioni sono più complesse da misurare e da studiare rispetto al passato. Si deve andare oltre la dicotomia Italiani/stranieri se si vuole restituire un’immagine più aderente alla realtà (…)

Lo stesso concetto di minori stranieri è così ampio da comprendere tante situazioni diversissime. Da quella dei minori stranieri non accompagnati, che arrivano in Italia senza i genitori e quindi bisognosi di assistenza, il cui numero lo scorso anno è cresciuto drammaticamente in conseguenza della guerra in Ucraina. A quella dei giovani di seconda generazione, nati o arrivati in Italia nei primi anni di vita, e perfettamente integrati.

Il monitoraggio delle discriminazioni tra i minori stranieri. Un elemento comune nelle politiche per l’inclusione è la lotta a qualsiasi forma di discriminazione, etnica o di altro tipo. Aspetti che purtroppo sono molto difficili da monitorare, come l’incidenza del bullismo o di altre pratiche di esclusione sociale. Nel corso di quest’anno l’istituto di statistica procederà con una rilevazione ad hoc sui fenomeni discriminatori, come dichiarato nell’audizione dell’aprile scorso all’apposita commissione del senato. In questi mesi, l’Istat sta predisponendo la documentazione per l’avvio nel 2022 di un’“Indagine pilota sulle discriminazioni”, volta a definire l’adeguatezza degli aspetti tecnici di misurazione dei fenomeni discriminatori, prima di lanciare l’Indagine vera e propria nel corso del 2023.

In attesa dei nuovi dati che usciranno da questa rilevazione, alcune chiavi di lettura sul fenomeno erano già state fornite da altre due indagini effettuate nel decennio scorso. Quella sulla percezione dei cittadini stranieri, pubblicata nel 2014 ma riferita al biennio 2011-12, aveva indicato come il 12,6% degli studenti stranieri avesse vissuto durante il percorso di studi episodi di discriminazione dovuti alle proprie origini straniere. Con un picco nella fascia d’età tra 14-19 anni, dove la quota aveva raggiunto il 17,4%. 78,4% i casi in cui la discriminazione è stata attuata dai compagni.

Come le discriminazioni generano esclusione. Un’indagine successiva, specifica sui percorsi di integrazione delle seconde generazioni, ha offerto il quadro di un fenomeno ben più ampio. Rilasciata nel 2020 e basata su dati 2015, la rilevazione ha indicato come il 49,5% dei ragazzi di seconda generazione avesse subito almeno un episodio di bullismo da parte di altri ragazzi nel mese precedente. Una quota di 7 punti superiore rispetto ai coetanei italiani (42,4%). Una tendenza da ricollegare anche all’inserimento sociale dei bambini e ragazzi di origine straniera. Il 7,9% ha dichiarato di non frequentare amici o amiche nel tempo libero, quasi il doppio dei coetanei italiani (4,2%).

Le discriminazioni possono influire anche sulla percezione di sé nella società. I dati sulla discriminazione sottendono un rischio di isolamento e di segregazione che può avere un impatto anche sulla percezione di sé e del proprio ruolo nella società. Da questo punto di vista, è interessante osservare come cambino le diverse aspettative sul lavoro svolto da adulto. Per le studentesse delle superiori, la prima aspirazione sono l’insegnante e il medico: in quest’ordine per le italiane, in ordine inverso per le ragazze straniere. Entrambe le categorie rispondono “non so” come terza opzione. Seguito dalla commerciante (5,8%) e dalla hostess (5%) per le straniere e dalla psicologa/antropologa/criminologa (5,1%) e avvocata/notaia/magistrata per le italiane (3,9%).

                Tra gli studenti maschi italiani alle superiori la prima aspirazione è l’ingegnere (6,2%), seguita da “non so” (5,1%), il militare (5%), il carrozziere (4,5%) e l’operaio (4,4%). Per gli stranieri è il meccanico, il carrozziere o l’elettrauto (9,4%), seguita dall’operaio (7,4%) e dal calciatore (6,2%, a pari merito con coloro che dichiarano di non saperlo).

Su aspettative così diverse possono influire tanti fattori, che spesso si intersecano tra loro. Dalle preferenze individuali alle risorse a disposizione della famiglia di origine, dai risultati scolastici al livello di inclusione sociale. Per intervenire su aspetti così differenti il punto di partenza è necessariamente approfondire quanti sono e dove vivono i minori stranieri.

Dove vivono i minori stranieri. In Italia i minori con background migratorio sono 1,3 milioni, di cui 300mila con cittadinanza italiana e circa 1 milione con cittadinanza non italiana. Parliamo dell’11,2% dei residenti tra 0 e 17 anni nel 2021. Bambini e ragazzi che vivono soprattutto nell’Italia centro-settentrionale. Sono il 13,2% dei minori del centro, il 14,9% di quelli del nord-est e il 15,8% di quelli del nord-ovest, mentre non raggiungono il 5% nel sud e nelle isole.

L’incidenza è molto più elevata nelle grandi città. Nei comuni polo, baricentrici in termini di servizi, sono il 14,5% dei residenti con meno di 18 anni. E superano il 10% dei minori anche nei comuni di cintura, gli hinterland di queste città maggiori. Complessivamente, su un milione di minori stranieri, 855mila vivono in un comune polo o cintura. Parliamo dell’81,6% dei bambini e ragazzi con cittadinanza non italiana.

Nelle aree interne sono invece molto meno presenti. Sono il 9,2% dei bambini e ragazzi nei comuni intermedi, distanti circa 25-40 minuti dai poli. Scendono al 6,9% nei comuni periferici e al 4,6% in quelli ultraperiferici.

Tra le città capoluogo, è Prato quella con la maggiore incidenza di bambini e ragazzi con cittadinanza non italiana. Nel comune toscano i minori stranieri sono oltre un terzo di quelli residenti (34,3%). Seguono le città di Piacenza (29,1%), Brescia (27,8%), Imperia (25,4%) e Milano (25,2%), dove sono più di un residente under-18 su 4. L’incidenza minore si rileva in capoluoghi del sud come Taranto (1,8%), Potenza (1,8%) e Andria (1,6%). In questi comuni i minori stranieri sono meno del 2% del totale. Questo non significa che la presenza di minori stranieri sia residuale in tutte le aree del mezzogiorno. Rispetto al centro-nord, dove la presenza è diffusa in modo più omogeneo sul territorio, nell’Italia meridionale si registrano zone a maggiore concentrazione in mezzo a territori dove non abitano stranieri. Ad esempio, tra i comuni maggiori, spiccano San Giuseppe Vesuviano, nella città metropolitana di Napoli (18%), Castel Volturno (Caserta, 16,6%), Eboli (Salerno, 14,5%), Comiso (14,4%) e Vittoria (13,8%) nel ragusano. Nonché la stessa Ragusa (11,5%), Mondragone (Caserta, 12,6%) e molti altri centri medi e grandi.

                Ciò riflette modelli insediativi diversi sul territorio nazionale, più diffusi al nord, maggiormente concentrati in singole realtà locali nel mezzogiorno, una tendenza rilevata anche nell’ultimo rapporto Istat. Aspetti di cui tenere conto nelle politiche di inclusione, per l’influenza sui livelli di integrazione.

L’adolescenza e il diritto di scegliere il proprio futuro. L’adolescenza non è solo una fase di transizione tra infanzia e età adulta. È l’età in cui ragazze e ragazzi compiono molte delle decisioni che definiranno la loro vita successiva, a partire dalla scuola. Sono proprio questo tipo di scelte (così importanti per il futuro di una persona) e tutte le responsabilità e i rischi connessi a caratterizzare questa fase dello sviluppo. Per accompagnarla, un aspetto decisivo è garantire a tutti, a prescindere dalle condizioni di partenza, di poter decidere liberamente e in piena consapevolezza il proprio percorso. Oggi non sempre è così, per tante ragioni: culturali, sociali, economiche ed educative. Per troppe ragazze e ragazzi la scelta appare già vincolata: dove nasci, in che posto vivi, la condizione sociale della famiglia determina molti aspetti del percorso. Ne abbiamo avuto una riprova in questi mesi di emergenza Covid. La pandemia ha solo ribadito quanto siano ancora ampie le differenze in termini di accesso ai servizi (come la rete internet) per gli studenti rimasti a casa.

                Le disuguaglianze digitali tra i minori. Adolescenza e povertà educativa durante l’emergenza Covid.

Nel corso di questo report, cercheremo di ricostruire alcuni dei fattori che limitano le opportunità degli adolescenti nel decidere in modo consapevole il proprio futuro. Dall’origine sociale e familiare ai livelli negli apprendimenti; dalle prospettive nel territorio in cui si abita all’impatto dell’abbandono scolastico.

Su questi fattori, ovviamente, l’emergenza Covid rischia di incidere in modo fortemente negativo. Nei mesi scorsi abbiamo purtroppo potuto constatare le profonde disuguaglianze tra le famiglie con figli nella possibilità di adeguarsi ai ritmi e agli stili di vita imposti dalla pandemia. L’emergenza Covid rischia di compromettere ancora di più il diritto alla scelta degli adolescenti.

                Divari prima di tutto sociali. Come rilevato dall’istituto nazionale di statistica, già prima dell’emergenza (2019), il 9,2% delle famiglie con almeno un figlio si trovava in povertà assoluta (contro una media del 6,4%). Quota che tra i nuclei con 2 figli supera il 10% e con 3 o più figli raggiunge addirittura il 20,2%. Ma anche i divari territoriali e nella condizione abitativa, con il 41,9% dei minori che vive in una abitazione sovraffollata, e il 7% che affronta anche un disagio abitativo (come problemi strutturali o poca luminosità della casa).

Un ulteriore aspetto critico è stato rappresentato dai divari tecnologici. Prima dell’emergenza, il 5,3% delle famiglie con un figlio dichiarava di non potersi permettere l’acquisto di un computer. E appena il 6,1% dei ragazzi tra 6-17 anni viveva in una casa con disponibilità di almeno un pc per ogni membro della famiglia. Per tutti questi motivi, l’esperienza della pandemia è stata e viene tuttora vissuta in modo molto diverso sul territorio nazionale. Con effetti che gravano soprattutto sui minori e le loro famiglie. Si pensi all’impatto del lockdown per i bambini e i ragazzi che vivono in case sovraffollate, oppure alla possibilità di svolgere la didattica a distanza dove mancano i dispositivi o l’accesso alla rete veloce.

                In questo quadro, ci sono anche una serie di specificità per gli adolescenti che non devono essere sottovalutate. A partire da quelle legate alle esperienze di vita che si maturano a quell’età, e che sono, almeno in parte, mancate. Inoltre, resta centrale la questione del superamento dei divari digitali per garantire accesso all’istruzione, anche in considerazione del fatto che gli studenti delle superiori sono stati i primi a tornare in modalità didattica a distanza.

                2,7 milioni gli alunni delle scuole superiori in Italia. In una fase come quella che stiamo vivendo, è evidente che – per ragioni di salute pubblica – una serie di misure sono imposte dall’eccezionalità della situazione. Parallelamente, accanto a questi provvedimenti, è essenziale lavorare perché la crisi non approfondisca ulteriormente le disuguaglianze tra gli adolescenti che pre-esistevano al Covid. Altrimenti, divari crescenti diventeranno ancora più difficili da sostenere per le famiglie, nell’immediato. E, in prospettiva, recuperare le distanze nei prossimi anni rischia di diventare una chimera. In un simile scenario, le conseguenze sarebbero pagate soprattutto dai più giovani.

Gli adolescenti in Italia. In Italia vivono poco meno di 10 milioni di minori. Una cifra che possiamo calcolare con esattezza, dato che il confine tra maggiore e minore età è stabilito dal codice civile al compimento dei 18 anni. Ma quando si tratta di definire un’età come l’adolescenza, per sua natura di transizione tra infanzia e età adulta, gli aspetti formali o legalistici devono passare necessariamente in secondo piano. Le Nazioni Unite e Unicef includono tra gli adolescenti tutte le persone tra i 10 e i 19 anni di età. Una definizione molto ampia, anche perché pensata per analisi e confronti a livello internazionale. Restando sul caso italiano, una scelta metodologica valida può essere quella di seguire i cicli scolastici. A questo scopo, in una analisi sui minori adolescenti è necessario includere in primo luogo quelli che frequentano le scuole superiori.

                In Italia vivono oltre 3 milioni di persone tra 14 e 19 anni. Contando solo quelli di minore età (14-17), gli adolescenti sono 2,3 milioni. Accanto a questa fascia d’età, abbiamo ritenuto opportuno considerare anche quella di coloro che frequentano le scuole medie inferiori (11-14 anni). Alle medie esplodono i divari e si sceglie il percorso successivo. Un’età comunemente definita pre-adolescenza, con esigenze e aspettative certamente diverse da quelle di ragazze e ragazzi più grandi. Ma altrettanto delicata dal punto di vista delle scelte. È in quegli anni che deve essere presa una delle decisioni più importanti per il corso della vita successiva, quella del percorso di studi. Ed è a quell’età che emergono in modo forte i divari negli apprendimenti. Divari troppo spesso collegati con l’origine sociale, e che avranno un’influenza nella successiva scelta di abbandonare la scuola.

                L’abbandono della scuola prima del tempo, più frequente dove ci sono fragilità sociali, è l’emblema di un diritto alla scelta che è stato compromesso. E spesso non è che la punta dell’iceberg: dietro ogni ragazzo che lascia la scuola anzitempo ci sono tanti fallimenti educativi che non possono essere considerati solo problemi individuali o delle istituzioni scolastiche. Sono fallimenti per l’intera società nel preparare la prossima generazione di adulti.

                L’esistenza di una comunità educante può offrire opportunità anche dove mancano. Per questo lo sviluppo nei territori – soprattutto in quelli più fragili – di una forte e solida comunità educante è fondamentale. Significa dare la possibilità a ragazze e ragazzi di compiere le proprie scelte, seguire le proprie aspirazioni, in un contesto che stimola a valorizzare il contributo di ognuno e non lo mortifica. In una fase di transizione come l’adolescenza, poter contare su questo tipo di sicurezza quando si fanno scelte così importanti è essenziale.

La generazione degli ultimi nati prima della crisi. Sono 4 milioni i minori di età compresa tra 11 e 17 anni. Si tratta di quasi la metà delle persone di minore età residenti in Italia (42%) e del 6,67% della popolazione italiana. 2,35% gli adolescenti in Italia dal 2010 a oggi. Dato che si contrappone al calo degli under-18: -6,7%.

                All’interno di una popolazione minorile in costante calo, il numero di adolescenti è leggermente aumentato nell’ultimo decennio. La ragione è strettamente collegata all’andamento della natalità nel nostro paese. Gli attuali adolescenti e pre-adolescenti sono i nati durante il picco degli anni 2000, l’ultimo (effimero) segnale di ripresa demografica in Italia. Un dato rilevante anche in termini sociali: gli attuali adolescenti sono gli ultimi nati prima che la recessione del 2008 dispiegasse i suoi effetti, sulla natalità e non solo. E allo stesso tempo i primi a subirne gli effetti in così giovane età.

                Come abbiamo avuto modo di approfondire, una delle conseguenze più negative della crisi è stata l’allargamento del divario di povertà tra le generazioni. Con la crisi, i minori di 18 anni sono diventati i più soggetti alla povertà assoluta. L’incidenza di povertà è passata dal 3,1% del 2007 al 12,6% del 2018 e in base ai dati più recenti si attesta all’11,4%. Una crescita che – nonostante il calo degli ultimi anni – non ha eguali in nessun’altra fascia d’età, e da cui non sono rimasti indenni gli adolescenti e i pre-adolescenti. Rispetto a una media del 7,7% di individui attualmente in povertà assoluta, la quota sale 10,5% tra i 14 e i 17 anni e al 12,9% tra i 7 e i 13 anni.

I tanti modi in cui il diritto alla scelta viene compromesso. A partire dalle sue premesse: ovvero divari educativi che troppo spesso dipendono anche dalla condizione di partenza. Conoscenza e spirito critico sono le chiavi per scelte consapevoli. Nel secondo capitolo vedremo come è proprio dalla preadolescenza che i divari nelle competenze, come rilevati dai test Invalsi, cominciano ad allargarsi. Approfondendo le linee di frattura sociali e territoriali già esistenti. La famiglia in cui si nasce e il territorio di residenza sono troppo spesso predittori dei risultati scolastici.

                Allo stesso modo in cui il livello di istruzione dei genitori influenza il rischio di abbandono scolastico dei figli. In quasi 2/3 dei casi i figli di chi non ha il diploma non si diplomano a loro volta. In questo quadro lasciare la scuola prima del tempo, come approfondiremo nel quarto capitolo, è la massima negazione del diritto alla scelta degli adolescenti. Perché contribuisce a rendere ereditaria la condizione di partenza di ragazze e ragazzi.

                Un ulteriore elemento che può vincolare la scelta dei percorsi di istruzione e le prospettive successive è il territorio in cui si nasce. Per questo, in tre distinti capitoli, approfondiremo alcuni aspetti connessi al luogo di residenza. A partire dalla distanza territoriale delle scuole superiori nelle aree del paese dove non sono presenti, che approfondiremo nel terzo capitolo adottando la metodologia dei sistemi locali del lavoro. Alle prospettive di ragazze e ragazzi nelle aree interne (con un focus, nel quinto capitolo, su 2 territori opposti per il rendimento scolastico degli alunni: Basso Ferrarese, in Emilia Romagna e Calatino, in Sicilia). Fino al fenomeno dei neet e in generale all’offerta scolastica nelle periferie urbane delle maggiori città italiane (capitolo 6).

                Ai divari territoriali e sociali, se ne può aggiungere uno ulteriore, legato all’origine della propria famiglia. In Italia circa un adolescente su 12 ha una cittadinanza diversa da quella italiana. La scelta del percorso di studi successivo alle medie resta purtroppo ancora molto segmentata tra ragazzi italiani e stranieri, così come il rischio di abbandono scolastico. Lottare per annullare questi divari significa promuovere integrazione, per i diritti di tutti.

                Per evitare una generazione segnata da “scelte compromesse” è necessario garantire a tutti gli adolescenti gli strumenti per determinare il proprio percorso. In modo che possa riflettere le inclinazioni e le preferenze, a prescindere dalla condizione di origine della propria famiglia.

Le “scelte compromesse” e la povertà educativa

                Nell’approfondimento ricostruiamo alcuni dei fattori che limitano le opportunità degli adolescenti nel decidere in modo consapevole il proprio futuro.

Redattore Sociale cita il nostro approfondimento “Scelte compromesse. Gli adolescenti in Italia, tra diritto alla scelta e povertà educativa minorile“, realizzato insieme a Con i bambini.

                L’adolescenza non è solo una fase di transizione tra infanzia e età adulta. È l’età in cui ragazze e ragazzi compiono molte delle decisioni che definiranno la loro vita successiva, a partire dalla scuola.

L’obiettivo di scuole accoglienti, a partire dall’accessibilità. Una scuola effettivamente inclusiva implica una serie di azioni e interventi complessi, rivolti sia alle disabilità, sia in generale a tutti i bisogni educativi speciali. Una serie di strumenti e modalità organizzative indicate nella direttiva del ministero dell’istruzione del 27 dicembre 2012, che hanno come fulcro il diritto all’autonomia e all’inclusione. Il percorso di inclusione deve essere declinato su ciascun territorio e situazione.

                Tra questi la creazione di centri territoriali di supporto, che organizzino iniziative, formazione e consulenza sui temi dell’inclusione scolastica e sul ruolo delle tecnologie nei processi di apprendimento. Attività rivolte ai docenti, al personale scolastico, agli studenti e alle famiglie. La predisposizione di piani didattici personalizzati (Pdp), sia individuali che concepiti per tutti gli alunni con Bes della classe. E, sulla base di questi ultimi, dei Pai (piani annuali per l’inclusività), con cui le scuole programmano gli interventi in base ai bisogni degli alunni con Bes presenti nella scuola. Tali attività comportano un lavoro di inclusione che, come è necessario, deve essere costruito su misura per ogni singola realtà. E come tale non è generalizzabile, né si presta a facili misurazioni, perché ogni situazione è diversa e necessita di una risposta ad hoc.

                11,4% degli alunni con disabilità è portatore di una disabilità motoria (a.s 2018/19). Allo stesso tempo, nelle azioni per l’inclusione vi sono degli standard inderogabili che non si prestano a una risposta differenziata. Perché costituiscono, per molte ragazze e ragazzi, il prerequisito stesso della partecipazione scolastica. Tra questi, ad esempio, il progressivo abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici scolastici, come previsto dal Dpr 503/1996. Gli edifici delle istituzioni prescolastiche, scolastiche, comprese le università e delle altre istituzioni di interesse sociale nel settore della scuola devono assicurare la loro utilizzazione anche da parte di studenti non deambulanti o con difficoltà di deambulazione. (art. 23).

La presenza di barriere architettoniche. Sono molte le barriere frapposte all’accesso per i portatori di handicap agli edifici, compresi quelli scolastici. Tra le scuole italiane di tutti gli ordini, statali e non, l’ostacolo più frequente a una piena accessibilità è l’assenza dell’ascensore, o comunque la presenza di un impianto non adatto al trasporto delle persone con disabilità. Tale situazione riguarda oltre il 40% delle scuole non accessibili. Seguono, in circa 1/4 delle scuole non accessibili, la presenza di bagni non a norma e l’assenza di servoscala. Ascensori assenti o non a norma, bagni non adatti e assenza di servoscala sono le barriere architettoniche più frequenti. Mentre sembrano essere più spesso a norma le scale interne (6,1% delle scuole non accessibili), quelle esterne (5,4%) e le porte (3%).

                46,4% delle scuole italiane non accessibile per la presenza di barriere fisiche. In generale, la presenza di barriere fisiche si rileva in quasi una scuola su 2 a livello nazionale. Sono poco meno di un terzo quelle completamente accessibili per alunni con disabilità motoria (32,1%), mentre oltre una su 5 (21,5%) non ha risposto alla rilevazione condotta da Istat e Miur. Una situazione fortemente differenziata sul territorio, a partire dalle macroaree del paese. Nel mezzogiorno risulta accessibile il 27,4% dei plessi, nel centro circa un terzo del totale (32,5%) e nel nord il 36%. Divari che comunque non invertono la tendenza di fondo: al netto dei non rispondenti, in tutte le aree del paese almeno il 40% delle scuole non è pienamente accessibile per uno studente con disabilità motorie.

Con differenze ampie tra le diverse regioni. Risultano accessibili oltre il 60% delle scuole della Valle d’Aosta e circa il 40% di quelle di Marche, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Emilia-Romagna. Dati superiori alla media nazionale in termini di accessibilità fisica anche in Sardegna, provincia di Trento, Toscana, Basilicata, Abruzzo, Umbria, Veneto e Puglia. Molto più distanti la provincia di Bolzano (12,5%, il cui dato però non è stato rilevato da Istat ma dall’istituto provinciale di statistica Astat), Campania (21,5%), Liguria (24,1%) e Calabria (24,5%).

                Il 60,2% delle scuole italiane non dispone di nessun facilitatore per il superamento delle barriere senso-percettive. Rispetto alle barriere senso percettive, i dati raccolti nell’indagine Istat consentono di rilevare la presenza di facilitatori nelle scuole. Si tratta di ausili informativi che facilitano la mobilità autonoma delle persone con difficoltà sensoriali. Tra queste, ad esempio, segnali acustici per non vedenti, segnalazioni visive per non udenti, mappe a rilievo e percorsi tattili. A livello nazionale, circa il 18% delle scuole ne ha almeno uno, il 60% non ne ha nessuno e il 21,5% non ha risposto alla rilevazione. In questo caso, oltre alla minore presenza generale, spicca ancora la distanza tra nord e sud. Nel mezzogiorno solo il 13,8% dei plessi ha almeno un facilitatore, quota che sale al 17,9% nel centro e al 22,5% nell’Italia settentrionale. Anche in questo caso, tuttavia, va rilevato come in tutte le macroaree, nord compreso, oltre la metà delle scuole non disponga di facilitatori.

Meno di una scuola su 5 dispone di facilitatori per alunni con difficoltà sensoriali. In particolare, una maggiore presenza di almeno un facilitatore si riscontra nella provincia di Bolzano (30,1% delle scuole), seguita da Emilia-Romagna, Valle d’Aosta, Veneto e Piemonte, con quote comprese tra 22 e 27%. Mentre, al netto delle scuole che non rispondono, hanno meno spesso un facilitatore le scuole in Calabria (9,9%), Sardegna, Abruzzo e Campania (tutte attorno al 13%).

                I dati appena visti si possono riassumere in due tendenze. In primo luogo, l’esistenza di barriere architettoniche e senso-percettive negli edifici scolastici è una realtà che riguarda l’intero paese, almeno a livello regionale. Il secondo elemento da sottolineare sono tuttavia differenze territoriali abbastanza marcate, con una accessibilità sia fisica che sensoriale inferiore nei plessi meridionali e non solo.

                Un aspetto che è importante ricostruire con maggiore profondità, per comprendere anche a livello locale quali siano le barriere fisiche più presenti sul territorio.

L’abbattimento delle barriere fisiche negli edifici scolastici. Rispetto alle barriere fisiche, abbiamo visto in precedenza come gli impedimenti più diffusi siano rappresentati dall’assenza di ascensore (o dalla presenza di un impianto non adatto al trasporto di persone con disabilità), da servizi igienici non a norma, dall’assenza di servoscala o di un accesso con rampe.

                Accessi con rampe più presenti della media nel mezzogiorno. Quest’ultimo risulta presente in circa il 47% delle scuole italiane, mentre è assente nel 35% dei plessi (il 18% non risponde). Una media nazionale variabile sul territorio. La quota supera il 60% in alcune province pugliesi (Brindisi, Taranto, Lecce) e in quella di Matera, mentre si rileva in meno di un terzo degli istituti delle province di Fermo, Trieste, Genova e Trento.

Nel 62% delle province meno della metà delle scuole dispone di un accesso con rampe.

Nel caso degli accessi con rampe, quindi, il dato del mezzogiorno appare in linea o superiore a quello della media nazionale. La quota di scuole dove sono presenti è pari al 49,4% nel sud. Più indietro le isole (46,5%), ma l’area del paese dove appaiono meno presenti è il nord-ovest (44,3%).

                L’elevata quota di non rispondenti limita fortemente l’analisi. Tuttavia, in oltre il 60% delle province meno della metà delle scuole dichiara di disporre di un accesso con rampe. Pesa inoltre l’alta quota di non rispondenti. Nelle province con meno accessi con rampe dichiarati non hanno risposto alla rilevazione il 33,6% delle scuole a Genova, il 28,9% a Trieste, il 14,7% a Fermo e il 55,1% a Trento.

                Al contrario, nelle province in cima alla classifica la quota di non rispondenti è molto più contenuta: Brindisi (12,4%), Taranto (11,5%), Lecce (14,9%) e Matera (solo 6,4%).

                Se come indicatore consideriamo le scuole che hanno dichiarato l’assenza di accessi con rampe, tra le province considerate, sono il 39% a Genova, 38,8% a Trieste, il 52,5% a Fermo, 18,8% a Trento. Percentuali tendenzialmente più basse a Brindisi (24,2%), Taranto (26,8%), Lecce (24,6%) e Matera (33%). Il 18% delle scuole italiane non ha risposto rispetto alla presenza di accessi con rampe. Quota che sale al 19,2% nel nord est.

                Per quanto riguarda la presenza di un ascensore adatto per il trasporto delle persone con disabilità, il 59,9% delle scuole italiane dichiara la presenza del servizio, il 21,7% l’assenza e circa il 18% non risponde.

                La quota di scuole in cui è presente il servizio sale all’85% in Valle d’Aosta, sfiora l’80% a Cremona e supera il 75% a Rieti e Bergamo. Mentre è inferiore al 50% in 11 province: Caserta, Rovigo, Foggia, Imperia, Trieste, Reggio Calabria, Napoli, Agrigento, Genova, Belluno e Trento.

Ascensori per disabili presenti in oltre 3 scuole su 4 ad Aosta, Cremona, Rieti e Bergamo

Ascensori e servoscala molto meno diffusi nel mezzogiorno. In generale, è nel mezzogiorno che gli ascensori a norma risultano presenti meno spesso (56,1% delle scuole del sud e il 58,3% nelle isole). Quota poco superiore nel nord-est (59,1%), mentre superano la media nazionale l’Italia centrale (62,1%) e il nord-ovest (63,8%). Una tendenza che appare ancora più marcata rispetto alla presenza di servoscala o di piattaforme elevatrici. Circa il 7% delle scuole di sud e isole dichiara di disporne, con una media nazionale del 10,9%. Quota che raggiunge comunque al massimo il 12,9% nel nord-est e il 15,5% nel nord-ovest.

                Confrontando le province, le quote più elevate si riscontrano in quelle di Savona (24,5%), Varese (22,9%), Monza e Brianza (19,1%), Milano (19%) e Biella (18,4%). Mentre 49 territori si attestano sotto il 10%. Nelle ultime dieci posizioni in particolare Teramo, Crotone, Caltanissetta, Reggio Calabria, Sondrio, Caserta, Isernia, Agrigento, Nuoro e Vibo Valentia. Solo il 7% delle scuole del mezzogiorno dichiara la presenza di un servoscala o di una piattaforma elevatrice

Un ritardo del mezzogiorno si può riscontrare anche rispetto alla presenza di altri servizi per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Tra questi la presenza di servizi igienici a norma (64,2% delle scuole del sud, contro una media italiana 4 punti superiore). Mentre è meno ampio il divario rispetto alla presenza di scale a norma: 78,6% al sud e nelle isole, contro un dato nazionale del 79,3%.

L’abbattimento delle barriere senso percettive negli edifici scolastici. Nell’approfondire la presenza di dispositivi in grado di abbattere le barriere di tipo senso-percettivo, è utile analizzare la presenza negli edifici scolastici di 2 categorie di facilitatori. Da un lato, i segnali acustici (per gli alunni non vedenti) e visivi (per sordi e non udenti). Dall’altro, i percorsi tattili e le mappe a rilievo. Ausili che facilitano la mobilità degli alunni con deficit sensoriali, e la cui presenza quindi è molto importante per l’accessibilità delle scuole. Il superamento di questo tipo di barriere appare molto più lontano rispetto alle barriere di tipo fisico. Aspetto che comporta una maggiore difficoltà per gli alunni con difficoltà sensoriali. 3,7% degli alunni con disabilità è ipovedente (a.s 2018/19). Il 2,6% ha una ipoacusia. L’1,6% è affetto da sordità grave e lo 0,6% da cecità.

                Segnali acustici e/o visivi sono presenti nel 17,1% delle scuole italiane, assenti in quasi 2 su 3, mentre il 18% circa dei plessi non ha risposto all’indagine. La presenza maggiore si rileva nell’Italia settentrionale, con il nord-est al 23,2% e il nord ovest al 20,7%. Quote inferiori alla media nel centro (16,3%), ma soprattutto nel sud (12%) e nelle isole (12,9%). Segnali acustici e visivi presenti in una scuola su 4 nel nord-est, e in una su 8 nel sud

Percentuale di scuole per presenza di segnali acustici o/e visivi (2019).

Due province, Forlì-Cesena e Cremona, superano quota 30%. Altre 13 si attestano sopra il 25%: Bolzano, Alessandria, Pordenone, Savona, Biella, Terni, Ferrara, Torino, Bologna, Reggio Emilia, Trapani, Modena e Bergamo. Mentre sono 10 quelle che non raggiungono il 10%: Salerno, Pesaro e Urbino, Cosenza, Nuoro, Frosinone, Sassari, Messina, Brindisi, Reggio Calabria e Vibo Valentia. 2,8% le scuole in provincia di Vibo Valentia che dichiarano la presenza di segnali acustici/visivi. Nell’82,4% dei casi sono assenti, mentre il 14,8% dei plessi non risponde.

                La presenza di mappe a rilievo e di percorsi tattili, al contrario, appare meno diffusa nel nord-ovest. A fronte di una media nazionale di 3 scuole su 100 che dichiara di disporne, l’Italia nord-occidentale si attesta sul 2,1%. Presenza maggiore nel nord-est (3,1%) e nel sud (4,1%). Percorsi tattili e mappe a rilievo presenti solo nel 3% delle scuole, solo Crotone sopra il 10%

Il superamento delle barriere senso-percettive è ancora lontano. Tuttavia, spicca la bassa diffusione in generale. Ben 40 province si attestano al di sotto di quota 2%. E in particolare 16 non raggiungono l’1% di scuole che dichiarano la presenza di mappe a rilievo e/o percorsi tattili. Si tratta di Imperia, Cagliari, Savona, Varese, Barletta-Andria-Trani, Isernia, Belluno, Alessandria, Monza e Brianza, Piacenza, Sondrio, Lucca, Trieste, Aosta, Vercelli e Arezzo. Anche le province con maggiore diffusione si attestano comunque su una quota pari al 10% o inferiore. Tra queste Crotone (10,1%), Matera (8,9%) e Gorizia (7,7%).

     Passim  diffusi.  Il testo originale contiene approfondimenti, mappe, grafici.

Open polis                         28 febbraio 2023

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SINODO

Assemblea continentale europea: raccomandazioni conclusive

 Al termine di quattro giorni di ascolto e di dialogo a partire dalle risonanze suscitate dal Documento di lavoro per la Tappa Continentale in seno alle Chiese da cui proveniamo, come Assemblea Continentale europea ci rendiamo conto di aver vissuto una esperienza profondamente spirituale attraverso il metodo sinodale.

È questo il frutto per cui rendiamo grazie allo Spirito che ci ha guidati e che vogliamo qui condividere. Abbiamo approfondito le intuizioni che le comunità ecclesiali del nostro continente hanno maturato grazie al processo sinodale, così come le tensioni e gli interrogativi che le Chiese europee si trovano di fronte .

Soprattutto ancora una volta abbiamo sentito il dolore delle ferite che segnano la nostra storia recente, a partire da quelle che la Chiesa ha inflitto attraverso gli abusi perpetrati da alcune persone nello svolgimento del loro ministero o incarico ecclesiale, per finire con quelle provocate dalla violenza mostruosa della guerra d’aggressione che insanguina l’Ucraina e dal terremoto che ha devastato Turchia e Siria.

Questo lavoro, che è stato ricco e appassionante, anche se non privo di problemi e difficoltà, ci ha permesso di guardare negli occhi la Chiesa che è in Europa, con tutti i tesori delle due grandi tradizioni latina e orientale che la compongono. Con una consapevolezza accresciutasi durante lo svolgimento dell’Assemblea, sentiamo oggi di poter affermare che la nostra Chiesa è bella, portatrice di una varietà che è anche la nostra ricchezza. Sentiamo di amarla ancora più profondamente, nonostante le ferite che ha inferto, per le quali ha bisogno di chiedere perdono per poter passare davvero alla riconciliazione, alla guarigione della memoria e all’accoglienza delle persone ferite. Siamo convinti che questi sentimenti riempiano il cuore anche di tutte le persone che a partire dal settembre 2021 si sono lasciate coinvolgere dal cammino del Sinodo 2021-2024.

Lungo i giorni di svolgimento dell’Assemblea abbiamo vissuto un’esperienza spirituale che ci ha condotto a sperimentare, per la prima volta, che è possibile incontrarci, ascoltarci e dialogare a partire dalle nostre differenze e al di là dei tanti ostacoli, muri e barriere che la nostra storia ci mette sul cammino. Abbiamo bisogno di amare la varietà all’interno della nostra Chiesa e sostenerci nella stima reciproca, forti della fede nel Signore e della potenza del suo Spirito.

Per questo desideriamo continuare a camminare in uno stile sinodale: più che una metodologia, lo consideriamo uno stile di vita della nostra Chiesa, di discernimento comunitario e di discernimento dei segni dei tempi. Concretamente desideriamo che questa Assemblea Continentale non resti una esperienza isolata, ma diventi un appuntamento periodico, fondato sull’adozione generalizzata del metodo sinodale che permei tutte le nostre strutture e procedure a tutti i livelli. In questo stile sarà possibile affrontare i temi su cui i nostri sforzi hanno bisogno di maturare e intensificarsi: l’accompagnamento delle persone ferite, il protagonismo dei giovani e delle donne, l’apertura ad apprendere dalle persone emarginate…

Lo stile sinodale consente anche di affrontare le tensioni in una prospettiva missionaria, senza rimanere paralizzati dalla paura, ma traendone l’energia per proseguire lungo il cammino. Due in particolare sono emerse nei nostri lavori.

  1. La prima spinge a fare unità nella diversità, sfuggendo alla tentazione dell’uniformità.
  2. La seconda lega la disponibilità all’accoglienza come testimonianza dell’amore incondizionato del Padre per i suoi figli con il coraggio di annunciare la verità del Vangelo nella sua integralità: è Dio a promettere “Amore e verità s’incontreranno” (Sal 85,11).

Sappiamo che tutto questo è possibile perché lo abbiamo sperimentato durante questa Assemblea, ma ancor di più perché lo testimonia la vita delle Chiese da cui proveniamo. Pensiamo qui in particolare al dialogo ecumenico e interreligioso, la cui eco è risuonata con forza nei nostri lavori. Ma soprattutto crediamo che è possibile perché c’è di mezzo la grazia: costruire una Chiesa sempre più sinodale, infatti, è un modo per dare concretezza all’uguaglianza in dignità di tutti i membri della Chiesa, fondata nel battesimo che ci configura come figli di Dio e membri del corpo di Cristo, corresponsabili dell’unica missione di evangelizzazione affidata dal Signore alla sua Chiesa.

Siamo fiduciosi che il prosieguo del Sinodo 2021-2024 ci possa sostenere e accompagnare, in particolare affrontando a livello di Assemblea sinodale alcune priorità:

  • approfondire la pratica, teologia ed ermeneutica della sinodalità. Abbiamo da riscoprire qualcosa che è antico e appartiene alla natura della Chiesa, ed è sempre nuovo. Questo è un compito per noi. Stiamo facendo i primi passi di un cammino che si apre via via che lo percorriamo; affrontare il significato di una Chiesa tutta ministeriale, come orizzonte in cui inserire la riflessione su carismi e ministeri (ordinati e non ordinati) e sulle relazioni tra di essi;
  • esplorare forme per un esercizio sinodale dell’autorità, ovvero del servizio di accompagnamento della comunità e di custodia dell’unità;
  • chiarire i criteri di discernimento per il processo sinodale e a che livello, da quello locale a quello universale, vanno prese le decisioni.
  • prendere concrete e coraggiose decisioni sul ruolo delle donne all’interno della Chiesa e su un loro maggiore coinvolgimento a tutti i livelli, anche nei processi decisionali (decision making and taking);
  • considerare le tensioni intorno alla liturgia, in modo da ricomprendere sinodalmente l’eucaristia come fonte della comunione;
  • curare la formazione alla sinodalità di tutto il Popolo di Dio, con particolare riguardo al discernimento dei segni dei tempi in vista dello svolgimento della comune missione;
  • rinnovare il senso vivo della missione, superando la frattura tra fede e cultura per tornare a portare il vangelo nel sentire del popolo, trovando un linguaggio capace di articolare tradizione e aggiornamento, ma soprattutto camminando insieme alle persone invece di parlare di loro o a loro. Lo Spirito ci chiede di ascoltare il grido dei poveri e della terra nella nostra Europa, e in particolare il grido disperato delle vittime della guerra che chiedono una pace giusta.
  • Amare la Chiesa, la ricchezza della sua diversità, non è una forma di sentimentalismo fine a se stesso. La Chiesa è bella perché così la vuole il Signore, in vista del compito che le ha affidato: annunciare il Vangelo e invitare tutte le donne e tutti gli uomini a entrare nella dinamica di comunione, partecipazione e missione che costituisce la sua ragion d’essere, animata dalla perenne vitalità dello Spirito. Amare la nostra Chiesa europea significa allora rinnovare il nostro impegno per portare avanti questa missione, anche nel nostro continente, in una cultura segnata dalle tante differenze che conosciamo.

Affidiamo la continuazione della nostra assemblea sinodale ai Santi Patroni e Martiri d’Europa!

Adsumus Sancte Spiritus!

Vescovi europei: per una sinodalità permanente

L’11 febbraio 2023, a conclusione della riunione dei vescovi europei nell’ambito dell’Assemblea continentale europea del Sinodo 2021-2024 sulla sinodalità, è stata pubblicata una Nota conclusiva dei vescovi

Ringraziamo il Signore per l’esperienza di sinodalità che, per la prima volta a livello continentale, ci ha visti – vescovi, sacerdoti, persone consacrate, laici e laiche – gli uni accanto agli altri. Ci rallegriamo perché, in questi giorni a Praga, abbiamo riscontrato che i momenti di preghiera vissuti insieme e, ancor di più, i lavori assembleari, sono stati esperienza profondamente spirituale e realmente sinodale. L’ascolto reciproco, il dialogo fecondo, il racconto di come le nostre comunità ecclesiali hanno vissuto la prima fase del processo sinodale e si sono preparate a questo appuntamento continentale, sono il segno evidente dell’unica appartenenza a Cristo.

            I rapporti nazionali, i lavori di gruppo e i tanti interventi che abbiamo ascoltato sono confluiti nel documento finale presentato all’Assemblea e che sarà il contributo delle Chiese che sono in Europa per la stesura dell’Instrumentum laboris del Sinodo. Ringraziamo quanti hanno condiviso le loro esperienze con franchezza e nel rispetto delle diverse sensibilità; ringraziamo, inoltre, il Comitato redazionale per il grande lavoro svolto nella stesura del documento.

            Come frutto di questa esperienza sinodale, noi vescovi ci impegniamo a continuare a vivere e promuovere il processo sinodale nelle strutture e nel vissuto delle nostre diocesi. Questa esperienza della sollecitudine per tutta la Chiesa in Europa ci ha rincuorato nel nostro impegno per vivere con fedeltà la nostra missione universale. Ci impegniamo a sostenere le indicazioni del santo padre, successore di Pietro, per una Chiesa sinodale alimentata dall’esperienza della comunione, della partecipazione e della missione in Cristo.

            Vogliamo camminare insieme, popolo santo di Dio, laici e pastori, pellegrini per le vie d’Europa per annunciare la gioia del Vangelo che scaturisce dall’incontro con Cristo e vogliamo farlo insieme a tanti fratelli e sorelle delle altre confessioni cristiane. Vogliamo impegnarci per allargare lo spazio delle nostre tende, perché le nostre comunità ecclesiali siano luogo dove tutti si sentano accolti.

                Praga, 11 febbraio 2023, memoria della beata Vergine Maria di Lourdes.

www.ccee.eu/wp-content/uploads/sites/2/2023/02/Nota-conclusiva-Vescovi-IT.pdf

Motivi di speranza, ma incertezza di fronte a problemi ecclesiali tabù

L’importante incontro, organizzato in febbraio (5-12) a Praga dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee [Ccee] in vista della prima sessione del Sinodo che si terra in ottobre a Roma, ha mostrato i molti punti in cui i vescovi europei concordano, ma anche quelli – come i ministeri femminili – sui quali essi danno valutazioni divergenti, cosi da indurli, per non dividersi, a rinviarli all’Assemblea generale d’autunno.

Tutti i continenti al lavoro. L’organigramma della preparazione del prossimo appuntamento – dedicato a ridefinire l’identikit di una Chiesa sinodale – prevede che entro fine marzo le Conferenze episcopali continentali inviino a Roma i loro desiderata, partendo dalle proposte arrivate alle Conferenze nazionali. Da febbraio a marzo, questo, oltre all’Europa – e solo di essa, per ora, riferiamo – il piano degli incontri: Oceania, a Suva, isole Fiji, il 5 febbraio; Medio Oriente – considerato un continente a se, anche per la presenza di molte Chiese cattoliche orientali – a Beirut, dal 12 al 18 febbraio; Asia, a Bangkok, dal 23 al 27 febbraio; Africa, ad Addis Abeba, dal primo al 6 marzo; America del Nord, ad Orlando, Florida, dal 13 al 17 febbraio; America del Sud, a Bogotà dal 17 al 23 marzo.

In base al materiale ricevuto il cardinale Mario Grech, segretario generale del Sinodo entro giugno appronterà l’Instrumentum laboris, il testo-base dal quale poi in ottobre partirà il dibattito in aula; dunque, all’inizio dell’estate egli invierà il documento alle Conferenze i cui delegati avranno tre mesi per prepararsi all’Assemblea.

Le ipotesi di riforme ecclesiali potrebbero essere gradite ad alcune Conferenze, ma spiacenti ad altre, o motivo di contrasto con la Curia. La domanda è: temi dirimenti –

  • le donne nei “ministeri alti”,
  • il celibato opzionale per i presbìteri,
  • il riconoscimento della piena moralità dei rapporti sessuali delle persone Lgbt+,
  • la scelta dei vescovi affidata alle singole diocesi,
  • la condivisione del potere nella Chiesa, dunque implicante per davvero il “popolo di Dio” –

saranno tacitati da Grech, oppure evidenziati? Tutti questi step ufficiali – arricchiti dagli apporti “spontanei” di tantissimi gruppi e variegate comunità che, dai cinque continenti, hanno espresso a lui le loro attese – fanno assomigliare la Chiesa romana ad un vulcano in fibrillazione.

Infatti, a molti fedeli sembra esaurito il tempo delle belle parole; adesso è l’ora di decisioni concrete.

Si prevede tuttavia ardua la possibilità che a Roma “conservatori” e “progressisti” trovino una felice sintesi.

I dubbi del papa sul synodaler weg. La spia del disagio l’ha rivelata lo stesso Bergoglio. Infatti, L’Osservatore Romano del 26 gennaio riporta così una sua intervista di due giorni prima alla Associated Press: «Riguardo al cammino sinodale tedesco [Synodaler Weg] che porta avanti richieste come l’abolizione del celibato sacerdotale, il sacerdozio femminile e altre possibili forme di liberalizzazione, Francesco avverte che rischia di diventare dannosamente “ideologico”. Il dialogo è buono, ma “l’esperienza tedesca non aiuta”, annota il papa, sottolineando che il processo in Germania fino ad oggi è stato guidato dalla “élite” e non coinvolge “tutto il popolo di Dio”. “Il pericolo è che entri qualcosa di molto, molto ideologico. Quando l’ideologia viene coinvolta nei processi ecclesiali, lo Spirito santo va a casa”». Affermazioni che, in Germania, hanno sconcertato le tante persone, vescovi compresi, che, impegnatesi con determinazione per il successo della loro iniziativa di reale partecipazione ecclesiale, si vedono ora accusate di “ideologia” per le riforme che propongono. Anche su un altro tema “caldo”, nella stessa intervista il papa dà una valutazione che nella Mitteleuropa sarà forse respinta dalla maggioranza dei fedeli.

Francesco, infatti, ha sì ribadito che «essere omosessuali non è un crimine»; ha criticato le leggi [civili] che criminalizzano quel comportamento; ha ricordato che il Catechismo della Chiesa cattolica – emanato nel 1992 da papa Wojtyla – raccomanda che «le persone con tendenze omosessuali devono essere accolte, non emarginate». Però, egli conferma anche che l’omosessualità [praticata] è “un peccato”; e non ricorda la scultorea sentenza del testo vaticano: «La Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale» [§ 2357]”.

Europa: riemerge il “problema” chiesa-donna. L’incontro di Praga ha visto, in presenza, centocinquantasei delegati delle trentanove Conferenze episcopali europee; vi erano, poi, quarantaquattro invitati dalla presidenza del Ccee, quali esponenti delle realtà ecclesiali più rappresentative a livello europeo, scelti – si precisa ufficialmente – garantendo una adeguata presenza di laiche e laici, religiose e religiosi, diaconi e presbiteri. Vi erano poi alcune decine di delegati online. Presenti anche ospiti di Chiese non cattoliche.

L’assemblea si è svolta in due fasi: dal 5 al 9 febbraio ha coinvolto tutti i delegati; e dal 9 al 12, solo i presidenti delle Conferenze. Dunque, la riunione era “ecclesiale” nella prima parte, “episcopale” nella seconda, e decisiva. E, fuori della sala delle riunioni, stazionavano gruppi – tra cui quelli del movimento Noi siamo Chiesa – che chiedevano ai delegati di affrontare con audacia anche i problemi-tabu. Il dibattito è partito da un’acuta consapevolezza: «Ancora una volta abbiamo sentito il dolore delle ferite che segnano la nostra storia recente, a partire da quelle che la Chiesa ha inflitto attraverso gli abusi [sessuali] perpetrati da alcune persone nello svolgimento del loro ministero o incarico ecclesiale, per finire con quelle provocate dalla violenza mostruosa della guerra d’aggressione che insanguina l’Ucraina e dal terremoto che – in questi giorni – ha devastato Turchia e Siria».

E poi come è andata? Questo il parere del cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich, relatore generale al Sinodo 2023: «Sono molto contento. Sappiamo tutti che l’Europa ha due tradizioni religiose diverse, quella orientale e quella occidentale, ma siamo rimasti come fratelli e sorelle. La diversità di opinioni non disturba l’appartenenza profonda a Cristo».

E, a proposito di istanze espresse da delegati dell’Europa centro-settentrionale: «La Chiesa è pronta a riflettere su queste richieste. Il papa ci ha detto di essere inclusivi, su questo non si discute. Ma per il sacerdozio delle donne, i preti sposati, bisogna pregare, riflettere… È chiaro che le donne devono essere allo stesso livello dei maschi. Ma se diciamo che non possono essere uguali senza essere sacerdoti, forse cadiamo in un nuovo clericalismo. Forse sarebbe bene avere una Chiesa dove le donne hanno un ruolo, anche di guide [come proposto a Praga nelle Raccomandazioni conclusive], senza però essere sacerdoti. Bisogna lasciare agire lo Spirito, una decisione fatta solo sotto pressione, sarà sempre una cattiva decisione».

Parole che si chiariscono se viste alla luce della lettera che il porporato, insieme a Grech, il 26 gennaio aveva scritto a tutti i vescovi del mondo: essa ricordava che argomento del Sinodo è “comunione, partecipazione, missione” per inverare la “sinodalità”, e non (non!) precise riforme ecclesiali, “fuor tema” in quel contesto. Dunque un “alt” al Synodaler Weg, e a chi propone ipotesi come quelle sui ministeri femminili.

Ma – domanda – se non è compito del Sinodo 2023 proporre modifiche concrete allo status quo ecclesiale, di che mai si occuperà? O forse Roma vuole continuamente differire l’esame di proposte che comporterebbero l’abbandono di tesi dottrinali, etiche e pastorali che il magistero cattolico difende da secoli?

Le mani sull’Africa e sul Congo. La Repubblica democratica del Congo – 2,3 milioni di kmq, con 105 milioni di abitanti – e uno dei piu vasti e più ricchi Paesi dell’Africa, soprattutto per le sue miniere di cobalto, coltan [columbite-tantalite], uranio, oro, diamanti. Però proprio queste ricchezze hanno spinto varie Potenze ad accaparrarsi questi beni, in un contesto caratterizzato da: diffusa corruzione; sfruttamento dei lavoratori, perfino di bambini, nelle miniere; bande armate che spadroneggiano contro gente inerme; presenza, ai confini con il Ruanda, di gruppi guerriglieri sostenuti dal governo di Kigali. Perciò il grido del pontefice a Kinshasa – «Giù le mani le mani dall’Africa, giù le mani dal Congo » – è stato applaudito dalla popolazione (al 50% cattolica) che si è sentita da lui rappresentata e consolata. Ma il viaggio è stato di consolazione anche per Francesco, affaticato dalle tensioni che agitano la Curia romana; e laggiù il pastore ha sentito profondamente l’affetto dei suoi fedeli. Parlando poi a preti e vescovi, li ha spronati ad evitare il carrierismo e il clericalismo, e ad avere il coraggio di testimoniare con la propria vita l’Evangelo.

La lacerazione sociale del Sud-Sudan. A differenza del Sudan, massicciamente musulmano, il 60% della popolazione sud-sudanese è cristiana: cattolica, anglicana e presbiteriana. Perciò, dando un buon esempio ecumenico, nella sua visita Bergoglio si è fatto accompagnare dall’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano, Justin Welby, e dal moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields. Esortando ad impegnarsi per la riconciliazione, Francesco ha invitato a non rispondere al male col male, ma a sanare le ferite sapendo perdonare.

Nicaragua: arrestato un vescovo “terrorista”. All’Angelus di domenica 12 febbraio il papa ha annunciato: «Dal Nicaragua giungono notizie che mi hanno addolorato non poco e non posso qui non ricordare con preoccupazione:  il vescovo di Matagalpa, monsignor Rolando Alvarez, a cui voglio tanto bene, condannato a ventisei anni di carcere, e anche le persone che sono state deportate negli Stati Uniti». La Corte d’Appello di Managua ha definito “terrorista” il vescovo, e lo ha accusato – con quali prove? – di «cospirazione per minare l’integrità nazionale e propagazione di notizie false attraverso le tecnologie dell’informazione». Il prelato (classe 1966, a Matagalpa dal 2011) aveva rifiutato di andare in esilio negli Stati Uniti insieme a oltre duecento persone, tra sacerdoti, seminaristi e contestatori del governo. Da anni in Nicaragua cresce la tensione tra il presidente Daniel Ortega e la Chiesa cattolica, il cui episcopato ha criticato il regime, sempre piu intollerante verso l’opposizione politica. Un anno fa il jefe (“il capo”), lasciando di stucco la Santa Sede, aveva espulso il nunzio, monsignor Waldemar S. Sommertag. E aveva poi definito il Vaticano «una perfetta dittatura, una perfetta tirannia. Chi elegge i cardinali? Chi elegge il papa?».

La torsione antidemocratica e la persecuzione contro la Chiesa cattolica, sempre più acuta a partire dal 2018, è stata criticata in particolare dal monaco poeta Ernesto Cardenal, che fu ministro della cultura agli albori del governo sandinista, nel 1983, e per questo sospeso a divinis da papa Wojtyla (punizione che gli fu tolta da Francesco, poco prima che egli nel 2020 morisse). Ortega – affermò il religioso – aveva tradito la rivoluzione. E sì che, quarant’anni prima, i sandinisti erano stati ben felici che molti cattolici appoggiassero con loro la fine del regime autoritario di Somoza. Ora, con altre spoglie, ritornato.

 Luigi Sandri     “Confronti”      marzo 2023

www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202303/230305sandri.pdf

L’Assemblea del Sinodo africano sulla sinodalità si è svolta ad Addis Abeba (Etiopia)

È entrata nella seconda sessione di lavoro mentre Preghiere, Riflessione, Conversazione Spirituale e Condivisione sul Documento per la Fase Continentale (DCS) sono rimasti punti chiave del programma dei delegati.

                Il primo punto all’ordine del giorno è stato l’Eucaristia, presieduta dal

 Cardinale Antoine Kambanda, Arcivescovo di Kigali in Rwanda. Il Cardinale ha aperto la giornata ricordando ai partecipanti la necessità di favorire l’ascolto. Ha espresso rammarico dicendo: “Non ci ascoltiamo a vicenda nonostante i mezzi di comunicazione che abbiamo“. Il Card. Kambanda, che ha tenuto l’omelia durante la Santa Messa mattutina, ha affermato che “il dono più prezioso che Dio ha fatto all’umanità è la parola e la parola realizza il suo scopo e ha senso quando viene ascoltata. Abbiamo bisogno di ascoltare questa parola di Dio per vivere per ricevere la sua vita divina.”

                L’ordinario locale dell’arcidiocesi di Kigali ha lamentato che “oggi ci sono molti mezzi di comunicazione ma è il periodo in cui la comunicazione è al suo livello più basso perché non ci ascoltiamo a vicenda nonostante i mezzi di comunicazione che abbiamo”.

In quanto tale, il cardinale che ha iniziato il suo ministero episcopale nel luglio 2013 come vescovo della diocesi di Kibungo in Ruanda ha affermato: “Ascoltare la parola di Dio ci aiuta ad ascoltare gli altri”. E ha proseguito: «il sinodo è prima di tutto ascoltare lo Spirito Santo e quando ciascuno ascolta lo Spirito Santo e gli uni gli altri, mettiamo insieme la nostra ispirazione e la nostra luce, la luce che riceviamo dallo Spirito Santo per essere in grado di identificare più chiaramente ciò che Dio vuole da noi e ciò che Dio vuole dalla Chiesa oggi per evangelizzare il mondo che ha bisogno anche della testimonianza del suo amore”. “Dio come Padre – ha proseguito – vuole che tutti i suoi figli vivano nell’amore, nella pace e nella fratellanza ma il conflitto che abbiamo oggi nel nostro mondo è frutto della mancanza di ascolto e di dialogo che fa nascere la paura dell’altro, si sente il l’altro è una minaccia per lui o per lei. L’ascolto e il dialogo portano alla comprensione reciproca e aprono la strada alla riconciliazione”, ha detto, e ha aggiunto: “la riconciliazione va imparata”. Ha poi invitato i partecipanti “ad ascoltare lo Spirito Santo che ci illumina, per identificare e vedere la volontà di Dio e permetterci di metterla in pratica”.

                Dopo il riepilogo dell’esperienza e del cammino del giorno precedente, gran parte della mattinata della seconda giornata di lavoro dell’Assemblea sinodale continentale è stata dedicata alla pratica del colloquio spirituale: il metodo presentato all’inizio dell’assemblea volto a favorire l’ascolto allo Spirito Santo e all’ascolto reciproco tra i partecipanti. Ad introdurre i lavori della mattinata ea fornire una guida alla lettura del DCS è stato   P. Agbonkhianmeghe Orobator SJ , Presidente della Conferenza dei Gesuiti dell’Africa e del Madagascar. Ha innanzitutto invitato i partecipanti a riconoscere la loro comune dignità battesimale. Il Battesimo, ha ricordato il gesuita, “è la nostra identità fondante, che ci qualifica a partecipare alla vita e alla missione della Chiesa, in comunione, condivisione e dialogo con persone di tutte le confessioni”. Ha poi ricordato che il cuore della conversazione spirituale “è la preghiera e il silenzio” che permette a tutti i partecipanti di esprimere le proprie opinioni in modo aperto e onesto. Riferendosi poi all’invito ad “allargare lo spazio della tenda”, p. Orobatorha ricordato come “l’immagine della tenda tratta dal libro del profeta Isaia possa essere accostata al  Tukul africano , la casa per eccellenza costituita da tetto, pareti e palo centrale. Che sia trovare un posto e una casa”. Infine, il gesuita ha ricordato più volte come “questo è un momento per ringraziare Dio che ci ha riuniti, guidati dallo Spirito di Dio. Questo è il tempo di gioire: non lasciamo che la zizzania ci ostacoli; lasciamo che lo spirito ci guidi in avanti.

                Durante la sessione pomeridiana 15 gruppi di conversazione spirituale hanno presentato resoconti riassuntivi delle discussioni nei rispettivi gruppi. Vari gruppi hanno proposto l’unità, la lotta alla povertà, la lotta all’uguaglianza sociale, il neocolonialismo come alcune delle aree prioritarie su cui i Padri sinodali devono concentrarsi durante il processo sinodale. La Chiesa come famiglia di Dio chiamata ad evangelizzare attraverso la formazione. Una famiglia ben formata assicurerà che la società sia buona e cresca secondo i valori africani.

                I gruppi hanno garantito la Chiesa sinodale come una famiglia di Dio con ruoli e responsabilità definiti che promuovono i valori africani e migliorano il governo strutturale della Chiesa famiglia di Dio conferendo potere ai laici attraverso la formazione.

                La sinodalità ci invita a camminare insieme e a non camminare da soli nella diversità delle nostre culture. L’Africa è chiamata a esaminare tutti i meccanismi messi in atto per garantire che il cammino insieme sia una realtà. La sinodalità ci invita a una profonda conversione. Ciò può essere ottenuto attraverso il rispetto dei valori africani in cui la famiglia può svolgere un ruolo importante. Le voci africane devono essere prese in considerazione nel processo decisionale della Chiesa.  I gruppi hanno sottolineato la necessità di una comprensione centrata sulla famiglia della sinodalità e della promozione dei valori africani e di un catechismo olistico per tutti.

                                                               Addis Abeba, Etiopia     5 marzo 2023

www.synod2023.org/blog/2023/03/03/unity-fight-against-poverty-social-equality-and-neocolonialism-as-first-main-concerns-of-the-african-church

www.synod2023.org/blog/2023/03/06/in-africa-the-synod-is-on

Brasile: resa nota la sintesi della fase di ascolto sinodale, frutto del lavoro di 183 diocesi

Per rispondere all’invito del processo sinodale iniziato nel 2021, le diocesi brasiliane hanno organizzato il nuovo processo di ascolto che prepara alla realizzazione della Fase Continentale del Sinodo dei Vescovi 2021-2024, che è attualmente in corso e che si chiuderà a marzo. L’ équipe di animazione del Sinodo in Brasile ha pubblicato ieri la sintesi del nuovo ascolto inviato da 183 diocesi brasiliane. Secondo il consulente del settore Educazione della Commissione episcopale della Cultura e dell’Educazione della Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb) e membro dell’Equipe nazionale di animazione del Sinodo,

 padre Julio Cesar Resende, l’entusiasmo e l’impegno testimoniati dalle diocesi di tutto il Brasile nella fase diocesana sono stati ora confermati anche nel nuovo invito rivolto a ciascuna chiesa particolare a offrire il proprio contributo alla fase continentale. Il documento, tra i vari aspetti tocca l’esigenza di fare passi in avanti rispetto a “strutture ecclesiali fondate su un modello di Chiesa piramidale, autoritario e burocratico, che genera un clericalismo strutturale e istituzionalizzato. La critica al clericalismo è forte, sia nei confronti del clero che dei laici (laici clericalizzati). Esistono difficoltà nell’armonizzare la dimensione carismatica e quella istituzionale della Chiesa. Questa realtà evidenzia una tensione tra la sicurezza e la convenienza di una pastorale di conservazione e l’imperativo evangelico di una Chiesa in cammino”.

È in gioco, si legge nel documento di sintesi, “una visione ecclesiologica in cui un modello conciliare di Chiesa, ripreso con impegno dal pontificato di Papa Francesco”. Le tensioni in campo politico e sociale, “legate soprattutto alle ideologie e alle polarizzazioni in ambito politico e relazionale, si evidenziano come situazioni che influenzano fortemente lo scenario religioso ed ecclesiale. Le divergenze derivanti dai contesti socio-culturali in cui la Chiesa è inserita si ripercuotono direttamente sulla vita delle comunità, generando conflitti tra gruppi con visioni diverse. Nel continente latino-americano, queste tensioni sono radicate nel processo storico e nei sistemi di governo. Sono evidenti le disparità socio-culturali ed economiche che favoriscono le persone più ricche e istruite. Il contesto culturale e religioso porta con sé tensioni, mostrando i conflitti presenti intorno al pluralismo culturale e religioso. Si osserva la crescita di gruppi cristiani caratterizzati da un’esperienza religiosa individualista e consumistica. Questo aspetto evidenzia la sfida di un urgente e sano dialogo ecumenico e interreligioso, che integri e riconcili le differenze tra fedi e culture”. Infine, le diocesi brasiliane sono pressoché unanimi nel ritenere che i giovani e i laici, soprattutto le donne debbano essere maggiormente valorizzati nella Chiesa. In un certo senso, essi sono “un canale di comunicazione

Agenzia SIR        4 marzo 2023

www.agensir.it/quotidiano/2023/3/4/brasile-resa-nota-la-sintesi-della-fase-di-ascolto-sinodale-frutto-del-lavoro-di-183-diocesi

SINODO IN GERMANIA

Ancora polemiche con Roma

Che succederà nella Chiesa cattolica in Germania? Negli ultimi giorni arrivano dal paese notizie controverse. Lo scorso 23 febbraio ad esempio in una lettera pubblicata il 1° marzo il presidente della Conferenza episcopale  α1961, Georg Bätzing scrive che i vescovi tedeschi prendono le “preoccupazioni” della Santa Sede sul serio. La lettera è indirizzata al Cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, al Prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede della Fede, il cardinale Luis Ladaria SJ, e al Prefetto del Dicastero per i Vescovi, il cardinale Marc Ouellet PSS. Nella lettera Bätzing parla di un progetto che potrebbe durare altri tre anni per entrare nelle questioni teologiche e che nelle trascrizioni dei colloqui della visita ad Limina non vede grandi punti di contrasto.

                Si tratta della questione di un “consiglio sinodale” che i vescovi tedeschi volevano creare e che è stato fermato dalla santa Sede. Ma Bätzing tempo e rimanda a dopo la plenaria della prossima settimana.

                Il nunzio apostolico in Germania

 [mons. Nikola Eterovic α1951,](ex segretario generale del Sinodo dei Vescovi) ha detto di aver riferito ai vescovi tedeschi che la sinodalità non significa creare “nuove istituzioni con il rischio di un ulteriore aumento della burocrazia.” Piuttosto la sinodalità è “più una questione di spirito e stile che di strutture“. Anche Papa Francesco è contrario ad un “consiglio sinodale”  permanente per la Chiesa in Germania. Ma Bätzing sta cercando delle soluzioni per far accettare la sua idea “senza scavalcare i regolamenti canonici che riguardano l’autorità del vescovo”.

                Lo scorso dicembre i vescovi di Colonia, Ratisbona, Passau, Eichstätt e Augusta in una lettera alla Santa Sede chiedevano che autorità potrebbe avere un “consiglio sinodale” e la risposta è stata che non ne avrebbe sui singoli vescovi facendo riferimento al Concilio Vaticano II. Intanto alla vigilia della conclusione del “Cammino Sinodale” quattro partecipanti di spicco – tutte donne – hanno annunciato ufficialmente che avrebbero lasciato il Cammino. La teologa Katharina Westerhorstmann e Marianne Schlosser, insieme alla filosofa Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz e alla giornalista Dorothea Schmidt hanno sollevato obiezioni fondamentali sulla direzione e la condotta del Cammino.  

 La ” Synodaler weg” stava “mettendo in dubbio le questioni centrali della dottrina cattolica, hanno detto in una dichiarazione pubblicata dal quotidiano Welt. Hanno anche accusato gli organizzatori di ignorare i ripetuti avvertimenti e interventi del Vaticano.

                In risposta a una richiesta di commento da parte di CNA Deutsch, i direttori della comunicazione della Via Sinodale, Britta Baas e Matthias Kopp, hanno rilasciato una breve dichiarazione mercoledì: “la presidenza  del Cammino Sinodale ha preso atto della decisione con rammarico“.

                Nel dicembre scorso Thomas Sternberg, ex presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi (ZdK), ha affermato che il controverso processo fin dall’inizio voleva ottenere cambiamenti nell’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità, l’ordinazione delle donne e altri argomenti.

                Il Cammino si concluderà con un incontro a Francoforte dal 9 all’11 marzo prossimi.

                Le quattro studiose hanno detto che non potevano più in buona coscienza partecipare a un processo che stava ” sempre più” separando la Chiesa in Germania dalla Chiesa universale. Perché “le risoluzioni degli ultimi tre anni non solo hanno messo in discussione i fondamenti essenziali della teologia cattolica, dell’antropologia e della pratica ecclesiastica, ma le hanno riformulate e in alcuni casi completamente ridefinite“.

Angela Ambrogetti                         ACI Stampa        2 marzo 2023.

www.acistampa.com/story/alla-vigilia-della-conclusione-del-cammino-sinodale-in-germania-ancora-polemiche-con-roma-21931?utm_campaign=ACI%20Stampa&utm_medium=email&_hsmi=248467476&_hsenc=p2ANqtz-8GBJizXY9avJBwXRZN38rG1hb_Nl5m6fgKQ4SVZ0CCtsoQ_ImuYrbhylFAa7hOZa2KHttucx5AoDY3O0w67ndSPW8-wQ&utm_content=248467476&utm_source=hs_email

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